domenica 14 ottobre 2012

l’Unità 14.10.12
Ora c’è una nuova agenda
Bersani presenta la Carta d’intenti insieme con Vendola e Nencini: Europa, lavoro, diritti, uguaglianza, giustizia i cardini del programma
I 10 punti programmatici della Carta d’intenti sottoscritta ieri da Pd Sel e socialisti
Renzi: sono proposte generiche. Ancora critiche alle regole della consultazione


Dieci punti, 4.092 parole totali. Non ancora un programma, che verrà definito dopo che dalle primarie uscirà il candidato premier, la carta d’intenti dal titolo «Italia. Bene comune» è la cornice valoriale della coalizione dei democratici e progressisti.
Europa. «La crisi che scuote il mondo mette a rischio l’Europa e le sue conquiste di civiltà». Questo è il punto di partenza, per sottolineare poi che «non c’è futuro per l’Italia se non dentro la ripresa e il rilancio del progetto europeo». Si parla della necessità di rafforzare la piattaforma dei progressisti europei e che «i progressisti s’impegnano a promuovere un accordo di legislatura» con le forze del «centro liberale».
Democrazia. «Dobbiamo sconfiggere l’ideologia della fine della politica e delle virtù prodigiose di un uomo solo al comando». Si parla della necessità di semplificare il sistema istituzionale e amministrativo e si dice che «la politica deve recuperare autorevolezza, promuovere il rinnovamento, ridurre i suoi costi e la sua invadenza in ambiti che non le competono».
Lavoro. «La nostra visione assume il lavoro come parametro di tutte le politiche», si legge al terzo punto. Il primo passo da compiere viene indicato in un «ridisegno profondo del sistema fiscale che alleggerisca il peso sul lavoro e sull’impresa, attingendo alla rendita dei grandi patrimoni finanziari e immobiliari».
Uguaglianza. Partendo dal presupposto che «l’Italia è divenuta negli ultimi anni uno dei Paesi più diseguali dell’occidente, si insiste sul superamento delle diseguaglianze di genere e si sottolinea che «nessun discorso sull’uguaglianza sta in piedi se non si rimette il Sud al centro dell’agenda». Libertà. Intesa innanzitutto come «la possibilità concreta per le giovani generazioni di costruire i proprio progetto di vita». In questa parte si chiede anche di superare gli «aspetti giuridicamente insostenibili» della legge sulla procreazione assistita e di garantire «piena applicazione» alla legge sull’aborto.
Sapere. «La scuola e l’università italiane, già fiaccate da un quindicennio di riforme inconcludenti e contraddittorie, hanno ricevuto nell’ultima stagione un colpo quasi letale. Ora si tratta di avviare un’opera di ricostruzione vera e propria».
Sviluppo sostenibile. «È tempo di ridare centralità alla produzione. Si insiste su una politica industriale «integralmente ecologica».
Beni comuni. «Per noi salute, istruzione, sicurezza, ambiente, sono campi dove, in via di principio, non deve esserci né ricco né povero. Perché sono beni indisponibili alla pura logica del mercato e dei profitti».
Diritti. In questa parte si dice che il primo atto da compiere nella prossima legislatura sarà dare la cittadinanza italiana ai figli di immigrati nati e cresciuti nel nostro Paese. Si definisce «urgente» una legge contro l’omofobia e si annuncia che si darà «sostanza normativa al principio riconosciuto dalla Corte costituzionale, per cui una coppia omosessuale ha diritto a vivere la propria unione ottenendone il riconoscimento giuridico». Responsabilità. È la parte degli «impegni espliciti e vincolanti», assunti dalle forze che compongono la coalizione perché «l’Italia ha bisogno di un governo e di una maggioranza stabili e coesi». Il primo impegno è «sostenere in modo leale e per l’intero arco della legislatura l’azione del premier scelto con le primarie», che avrà anche «la responsabilità di una composizione del governo snella, sottratta a logiche di spartizione». È inoltre previsto che qualora sorgano controversie su atti parlamentari siano risolte con una «votazione a maggioranza qualificata dei gruppi parlamentari convocati in seduta congiunta».

l’Unità 14.10.12
Le 10 regole della consultazione


1) Le primarie si svolgeranno domenica 25 novembre 2012. Qualora nessun candidato raggiunga al primo turno il 50% più uno dei voti, si procederà a un turno di ballottaggio tra i due candidati che hanno ottenuto il maggiore numero di voti. L’eventuale ballottaggio si svolgerà domenica 2 dicembre 2012.
2) La partecipazione alle primarie è aperta a tutte le elettrici e gli elettori, in possesso dei requisiti previsti dalle legge, ai cittadini immigrati in possesso di carta d’identità e di permesso di soggiorno, che dichiarano di riconoscersi nella Carta d’intenti, versano un contributo di almeno 2 euro e si impegnano a sostenere il centrosinistra alle politiche del 2013, sottoscrivendo un appello pubblico e iscrivendosi all’Albo degli elettori.
3) Il Regolamento per lo svolgimento delle primarie, approvato dal Collegio dei Garanti entro il 21-10, disciplina le modalità organizzative volte a garantire: a) il carattere aperto delle primarie; b) la registrazione, dal 4 novembre fino al giorno del voto, con la sottoscrizione dell’Appello pubblico, l’iscrizione all’Albo delle elettrici e degli elettori, e la consegna a ciascun elettore del “Certificato di elettore del centrosinistra per l’Italia
Bene Comune”. Tale registrazione dovrà avvenire con procedure distinte dalle operazioni e dall’esercizio del voto. Le iscritte e gli iscritti all’Albo costituiranno la base elettorale delle primarie e avranno automaticamente diritto di voto all’eventuale secondo turno. Il Collegio dei Garanti disciplinerà le modalità di iscrizione all’Albo da parte di coloro che si sono trovati nell’impossibilità di registrarsi nel periodo dal 4 al 25 novembre. c) il corretto e trasparente svolgimento delle operazioni di voto.
4) All’atto del deposito della candidatura, ciascun candidato/a alle primarie sottoscrive l’impegno a rispettarne l’esito, a collaborare pienamente e lealmente, in campagna elettorale e per tutta la legislatura, con il candidato premier scelto dalle primarie, ad attenersi ai contenuti della Carta d’intenti.
5) Per essere ammessi alle primarie, i candidati devono depositare, entro il 25 ottobre, almeno 20.000 firme di sottoscrittori che contestualmente si dichiarino elettori del centrosinistra, di cui non più di 2000 in ogni Regione.
6) Il Codice di comportamento dei candidati, emanato dal Collegio dei Garanti, si ispira ai principi della comune respon-
sabilità rispetto al progetto «Italia Bene Comune», della correttezza reciproca, della trasparenza e sobrietà nella raccolta e nell’uso delle risorse.
7) Ciascun candidato/a ha l’obbligo di comunicare al Consiglio dei Garanti e di pubblicare online, con cadenza settimanale, ogni contributo, diretto o indiretto, superiore ai 500 euro, nonché di rendere disponibile al Consiglio dei Garanti tutta la documentazione relativa alle entrate e alle spese. È vietato per i candidati e i loro sostenitori ricorrere a qualsiasi forma di pubblicità a pagamento, come spot su radio, tv, giornali, internet, o affitto di spazi su cartelloni pubblicitari.
8) Il Collegio dei Garanti vigila sul rispetto del Codice di comportamento dei candidati e sanziona eventuali comportamenti difformi.
9) Il Collegio dei Garanti nomina un coordinamento operativo incaricato di promuovere e monitorare le diverse fasi di organizzazione delle primarie. Ai lavori del coordinamento partecipa un delegato/a per ciascun candidato/a.
10) Con apposito Regolamento il Consiglio dei Garanti disciplina le modalità di utilizzo dell’Albo pubblico delle elettrici ed elettori del centrosinistra.

l’Unità 14.10.12
L’appello da firmare ai gazebo

Pubblichiamo qui di seguito il testo integrale dell’«Appello degli elettori dell’Italia Bene Comune» che dovrà essere sottoscritto da tutte le elettrici e gli elettori che vogliano partecipare con il proprio voto alle primarie del prossimo novembre. Aderendo a questo appello pubblico, ci si impegna a sostenere il centrosinistra alle elezioni politiche 2013 e contestualmente ci si iscrive all’Albo delle sue elettrici ed elettori.
***
«Noi, cittadine e cittadini democratici e progressisti, ci riconosciamo nella Costituzione repubblicana, in un progetto di società di pace, di libertà, di eguaglianza, di laicità, di giustizia, di progresso e di solidarietà. Vogliamo contribuire al cambiamento dell’Italia, alla ricostruzione delle sue istituzioni, a un forte impegno del nostro Paese per un’Europa federale e democratica. Crediamo nel valore del lavoro, nello spirito solidaristico e nel riconoscimento del merito. Vogliamo archiviare la lunga stagione berlusconiana e sconfiggere ogni forma di populismo. Oggi siamo noi i protagonisti del cambiamento e ne sentiamo la responsabilità. La politica non è tutta uguale. Vogliamo che i nostri rappresentanti siano scelti per le loro capacità e per la loro onestà. Chiediamo che i candidati dell’Italia Bene Comune rispettino gli impegni contenuti nella Carta d’Intenti. Per questi motivi partecipiamo alle elezioni primarie per la scelta del candidato comune alla Presidenza del Consiglio e rivolgiamo un appello a tutte le forze del cambiamento e della ricostruzione a sostenere il centrosinistra e il candidato scelto dalle primarie alle prossime elezioni politiche. Per l’Italia. Bene Comune».

La Stampa 14.10.12
La corsa a ostacoli per votare alle primarie
Obbligatorio iscriversi all’albo, ma non si potrà farlo al seggio
di Mattia Feltri


Votare alle Primarie del centrosinistra: ecco un esercizio che è l’anello di congiunzione fra la caccia al tesoro e la burocrazia cinese. E che promette di evolvere a gioco di società/ rompicapo con cui vincere il tedio autunnale. Di certo c’è che si voterà al primo turno domenica 25 novembre. Il resto brancola nelle nebbie della perfidia umana. Perché al simpatico punto due del decalogo varato ieri dal Pd, della vendoliana Sel e dal Psi c’è scritto che per partecipare bisogna sottoscrivere una carta d’intenti (anche quella presentata ieri: si chiama “Italia Bene Comune” ed è una dettagliata enciclopedia del filantropismo moderno) con la quale ci si impegna a sostenere il centrosinistra alle Politiche del 2013. Cioè, praticamente, se uno va alla Primarie per appoggiare la leadership di Matteo Renzi, garantisce di votare centrosinistra anche se la spuntasse Nichi Vendola. E viceversa (praticamente l’ambizione novecentesca di trasformare i potenziali elettori in affiliati).
Ma non è tutto. Questo punto due è un lascito per i posteri. Infatti disciplina l’afflusso alle urne. E sostiene che i desideranti al voto debbono iscriversi all’Albo delle elettrici e degli elettori e «tale registrazione dovrà avvenire con procedure distinte dalle operazioni e dall’esercizio di voto». Traduzione: boh. O meglio, come e dove ci si possa iscrivere all’Albo delle elettrici e degli elettori è ancora da stabilire, ma di sicuro non lo si farà al banchetto delle primarie. Sarà un banchetto a fianco? Un banchetto lontano cinque metri? Sarà a tre isolati di distanza? Dall’altra parte della città? In una zona a caso dell’emisfero boreale? Altro boh. Lo si preciserà più avanti. In ogni caso, recuperata l’imprescindibile iscrizione, si otterrà diritto di voto che prevede il versamento di almeno due euro: e questo è giusto, visto che le primarie costano anche se qualcuno ha protestato ricordando, per esempio, gli emolumenti girati al gruppo del Pd in Regione Lazio: circa due milioni di euro l’anno.
Tuttavia non è per niente escluso che nessuno dei candidati raggiunga il cinquanta per cento più uno dei favori. Nel caso si andrà al ballottaggio, già fissato per la domenica successiva, quella del 2 ottobre. E qui c’era un punto di discussione fra l’aristocrazia del partito e i renziani. Questi ultimi erano dell’opinione di aprire il ballottaggio anche a chi non aveva votato al primo turno. Il partitone tendeva invece più all’ipotesi opposta: chi c’era, ci sarà; chi non c’era pazienza. Questo per evitare che sabotatori del centrodestra assaltino i banchetti ed inquinino il voto. Bene, come è stata risolta la questione? Non è stata risolta. Anche qui ogni interpretazione è buona perché il decalogo dice semplicemente che chi ha (faticosamente) ottenuto l’autorizzazione a votare al primo turno ce l’ha automaticamente al ballottaggio. Per il resto buio fitto. Sarà pure questa una decisione a carico dei garanti, che sono quattro e costituiscono il Collegio Nazionale (Il più noto è Luigi Berlinguer, ottant’anni, cugino di Enrico e già ministro con Romano Prodi e Massimo D’Alema. Qualche fama ce l’ha anche il vendoliano Francesco Forgione, che fu presidente della Commissione antimafia dal 2006 al 2008. Gli altri due sono tecnici meno famosi, la filosofa Francesca Brezzi per il Pd e il docente di diritto amministrativo Mario Chiti per i socialisti). Insomma, il tentativo di tenere la gente lontano dalle Primarie è articolato. Se il tentativo riuscirà, è meno chiaro.

l’Unità 14.10.12
Renzi all’attacco
«Saremo più forti delle loro leggi»
Per i renziani resta da chiarire chi potrà votare al secondo turno. «L’albo pubblico? Sconcertante»
Il coordinatore della campagna del sindaco, Reggi: «Sono norme ostruzionistiche ma le rispetteremo»
di Vladimiro Frulletti

FIRENZE Sarà anche un toro in un negozio di porcellane (dove il negozio è quello del Pd) come dice il Wall Street Jornal, e però Matteo Renzi, quando legge delle regole che s’è dato il centrosinistra per le primarie, sceglie di non spaccare nulla. La polemica, oramai, la vuole giocare sui contenuti (e infatti giudica troppo «generica» la carta d’intenti del centrosinistra) e quindi rispetto alle norme non calca troppo la mano. Anche se le giudica «sbagliate». «Purtroppo sono state fatte delle regole sbagliate. Bersani aveva dato la sua parola che le regole non sarebbero cambiate, che le uniche regole cambiate avrebbero allargato la partecipazione. Purtroppo non è andata così. Ma noi risponderemo con la nostra lealtà» spiega da Arezzo assicurando i suoi che comunque «il nostro entusiasmo è più forte delle loro regole».
Del resto sul fronte del regolamento a tenere la posizione c’è il coordinatore della sua campagna elettorale, Roberto Reggi. L’ex sindaco di Piacenza non nasconde né la propria «delusione» né il proprio stupore per delle regole che definisce «ostruzionistiche» perché non rispondono all’obiettivo di primarie libere e aperte indicato dallo stesso Bersani. Ma comunque promette Reggi «ci atterremo alle “leggi”». Anche perché adesso i particolari normativi delle primarie saranno decisi dai garanti «previa consultazione recitano i principi regolamentari approvati ieri da Pd, Sel e Psi dei rappresentanti dei candidati». E nei dettagli spesso si nascondono scelte precise. I renziani essenzialmente temono due cose: la differenza fra il luogo in cui l’elettore si registra e quello dove vota e la pubblicazione degli elenchi dei votanti. «Non sappiamo se, come è sempre stato, sarà lo stesso luogo per la registrazione e la possibilità di votare» puntualizza Reggi. Perché una cosa è se i due posti sono vicini, magari fianco a fianco. Tutta un’altra se ci si deve registrare in un posto e andare a votare in un altro. Mentre l’eventuale pubblicazione degli elenchi per Reggi sarebbe «sconcertante». Una violazione della privacy. «Il Pd ragiona Reggi dice che non può darci gli elenchi degli iscritti perché c’è la privacy e invece dice agli elettori indipendenti che pubblicherà i loro nomi. È francamente incomprensibile e incoerente». Accuse che per Nico Stumpo, responsabile organizzazione del Pd, non stanno in piedi. Perché queste regole «contengono esattamente quanto approvato all’unanimità, con i voti di tutti i delegati presenti alla scorsa assemblea» e perché non fanno altro che tradurre in norma il principio di garantire la massima partecipazione nella massima trasparenza. «Tutto il resto è soltanto pura polemica» dice. Una polemica, è l’invito di Roberto Speranza, coordinatore del comitato Bersani, da chiudere per cominciare «a parlare dell’Italia, perché con queste primarie si sceglierà il candidato premier che dovrà battere la destra nella sfida elettorale».
Ma per i renziani c’è da chiarire chi potrà votare al secondo turno. Anche qui saranno i garanti a indicare le «modalità». In più i sostenitori del sindaco di Firenze fanno notare che sulla pubblicità dei finanziamenti c’è una trasparenza un po’ «particolare». Il regolamento obbliga i candidati a rendere pubblici solo i contributi superiori ai 500 euro e non tutti (anche quelli da 1 euro) come invece sta facendo suo sito Renzi (fin qui ha già raccolto oltre 70mila euro). Il quale non a caso invita lo stesso Pd a mettere online le proprie fatture degli ultimi tre anni.

l’Unità 14.10.12
Milano. È l’ora di una ribellione civica
di Oreste Pivetta


SEMBREREBBE TUTTO DECISO: giunta a termine, elezioni ad aprile (election day con le politiche), fine di Formigoni, dopo una vita di gran carriera dagli anni Ottanta a oggi. Sembrerebbe, perché con Formigoni tutto è possibile ed è tutto possibile con i suoi alleati storici ed ora critici a metà, quelli della Lega, che di ultimatum ne hanno sempre lanciati tanti e tante volte si sono tirati indietro, strateghi della minaccia ma sempre pronti a trattare, a doppia faccia anche in questa circostanza, con Maroni che vuole il governo tecnico e con Salvini, il segretario lombardo, che invitava (subito, alla notizia dell’arresto dell’assessore Zambetti) il governatore a lasciar libera la poltrona.
A Formigoni non si può imputare invece la mancanza di coerenza: malgrado tutto continua a ripetere che non esistono giunte a tempo, che «le giunte nascono per eseguire un programma» e che «questo vale per tutta la legislatura», giocando anche lui le carte della minaccia e del ricatto, perché «se cado io, cadono anche Veneto e Piemonte». Formigoni conta evidentemente sulla crisi della Lega e sulla sua disponibilità a mercanteggiare e ancora una volta giustifica la sua resistenza a oltranza con lo spauracchio di una vittoria del centrosinistra. Di fronte al «pericolo rosso», preferisce che le mani in Regione le mettano i mafiosi.
I proclami ascoltati sarebbero tutti da tenere a mente, contando i giorni da qui ad aprile (o da qui al 2015, anno peraltro dell’Expo). In attesa dell’ora zero o del d-day, lo spettacolo è stato semplicemente penoso, la prova di una totale debacle
morale di fronte a comportamenti di impressionante gravità, un autentico incitamento all’antipolitica sotto qualsiasi forma, grilli o non grilli, una caduta dell’impero che ha trascinato nel baratro colpevoli (i compratori di voti e i corrotti) e innocenti, innocenti come sono nella maggioranza i cittadini di una Regione come la Lombardia, non certo esente da colpe, ma che si è sempre presentata in Italia e in Europa con ben altri primati (di cultura, d’arte, di intelligenza imprenditoriale). Un vecchio e saggio democristiano, un moderato per natura e storia, come Bruno Tabacci, invitando Formigoni ad andarsene, usava espressioni come «disonore», «tristezza», «insensibilità e arroganza ormai intollerabili». Chiamando, in questo caso d’accordo con il sindaco Giuliano Pisapia, ad «una grande ribellione civica di Milano e dei cittadini lombardi». Parole sante.
Peccato che ci si arrivi tardi, che la crisi della politica abbia ormai partorito il peccato mortale dell’indifferenza, che la rete degli affari (non occorrerebbe neppure tirare in ballo la ’ndrangheta, basterebbe pensare alla gestione della sanità, al potere diffuso degli amici di Formigoni sostenuto dalle politiche regionali, in tema di ospedali o di scuole, basterebbe pensare ai Daccò, condannato a dieci anni in primo grado, o ai Simone, compagni di vacanze del governatore) abbia alimentato connivenze, conflitti di interesse, una «privatizzazione» della cosa pubblica, che ha cancellato trasparenza, meriti, diritti, competizione, costruendo consenso sulla base di una ideologia di facciata e dei vantaggi materiali, dei soldi insomma che si mettono in tasca. In un quadro nazionale, nel ventennio berlusconiano (o nel trentennio da Craxi a Berlusconi), che ha rovinato il resto, morale, cultura, senso civico.
L’alternanza, in una democrazia meno incompiuta della nostra, avrebbe corretto certe deviazioni e opacità di un governo regionale. Quattro giunte Formigoni hanno consolidato un regime, hanno anestetizzato il senso comune, hanno sterilizzato l’opposizione, che ha cercato certo di opporsi, ma sempre con l’idea dell’inevitabile sconfitta, secondo una scena che si è ripetuta ad ogni scadenza elettorale: perdente, rassegnata, con qualsiasi candidato in campo. Il richiamo di Pisapia e poi di Tabacci alla «ribellione civica» è un appello a prender coscienza: la maggioranza non c’è più, come ricorda il segretario regionale del Pd, Martina, ma è soprattutto da ricostruire una civiltà della politica che non può prescindere dalla partecipazione, dalla responsabilità dei più (ma anche di una minoranza che abbia idee e volontà), una civiltà della politica che finalmente si lasci alle spalle i «listini» con la Minetti, le liste con le firme false, i buoni scuola che premiano i frequentatori delle private, i viaggi premio, l’affarismo, gli arrestati e gli indagati delle sue giunte (ovviamente non facciamo finta di dimenticare tra questi il diessino Penati, in attesa di processo), lo spettro e qualche volta la certezza della criminalità organizzata all’opera, un accumulo di potere che può annebbiare chi lo detiene, come in modo chiaro sosteneva, rivolgendosi a Formigoni, persino la guida di Comunione e Liberazione, don Julian Carron, in una lettera pubblica, con un segnale inequivocabile di abbandono: «Se il movimento di Comunione e Liberazione è continuamente identificato con l’attrattiva del potere, dei soldi, di stili di vita che nulla hanno a che vedere con quello che abbiamo incontrato, qualche pretesto dobbiamo aver dato...».

l’Unità 14.10.12
Luciano Violante
«Il Pdl ripete lo schema delle riforme costituzionali Fa un’intesa col Pd, poi un’altra con altre forze di segno opposto. Il nuovo testo non sta in piedi»
«Preferenze. C’è il rischio che salti tutto»
di Ninni Andriolo


ROMA «Temo che per la legge elettorale possa ripetersi lo schema che il Pdl ha seguito per la riforma costituzionale... ».
Cioè presidente Violante?
«Prima si fa l’intesa con il Pd, poi se ne fa una con gli altri, infine non si fa nessuna riforma. Chi sostiene questo testo ha la maggioranza al Senato, ma potrebbe non averla alla Camera, dove si vota a scrutinio segreto. Si corre il rischio che oltre al Pd, nettamente contrario alle preferenze, voti no anche chi a parole si dichiara favorevole. La preoccupazione grave è che non si faccia nulla. Come non si è fatto nulla appunto sulle riforme costituzionali».
Quali sono i punti deboli del testo base?
«I seggi verrebbero attribuiti col voto di preferenza e su base nazionale, metodo che non ci darebbe alcuna maggioranza di governo. Sono questi i punti drammaticamente deboli di questo testo. Assieme al fatto che non è garantita l’equa ripartizione dei seggi tra uomini e donne». Il Pd insiste sui collegi e boccia le preferenze. Battaglia persa?
«La preferenza ha due grandi limiti. Aumenta di molto i costi della battaglia elettorale. Al Senato, ad esempio, la circoscrizione corrisponde alla regione. Pensiamo a Lazio, Sicilia o Lombardia, che il candidato deve percorrere in lungo e in largo con costi enormi. Per la Camera è lo stesso con alcune smaccate diseguaglianze. Torino e provincia, che si percorrono agevolmente, costituiscono una circoscrizione e un’altra circoscrizione è costituita dal resto di tutto il Piemonte». L’Udc annuncia un emendamento per limitare le spese elettorali...
«L’unico modo per limitarle è abbandonare le preferenze. Il resto è un’ipocrisia perché il conto dei chilometri e della pubblicità su territori ampi sanno farlo tutti. Le preferenze, poi, ostacolano il ricambio della classe dirigente... ».
In che modo?
«Viene avvantaggiato chi è conosciuto. Un outsider come fa a farsi strada con collegi tanto grandi? Non solo, poiché c’è bisogno di più soldi c’è il rischio di maggiori condizionamenti criminali».
La criminalità può condizionare sia con le preferenze che con i collegi...
«Con le preferenze le diamo una chance in più, come dimostrano i casi di Milano. In un collegio di soli 100mila abitanti sono più controllabili tanto i candidati quanto i loro sostenitori».
La convinzione diffusa è che solo le preferenze consentano di scegliere...
«C’è questo convincimento. Ma è un’apparenza di scelta. Con le preferenze, in realtà, passa chi ha già una base consolidata, la corrente di un partito, il nucleo di un’organizzazione sindacale, l’associazione, ecc. Diverso quando c’è un candidato di collegio per ciascun partito che l’elettore mette a confronto, conosce, segue. Con le preferenze non si gareggia con l’avversario dell’altro partito, ma con i compagni di lista. E questo è un fattore di inquinamento, come emerse dai referendum dei primi anni 70».
Nel Pdl si registra contrarietà alle preferenze...
«Vorrei dire al Pdl stiamo attenti perché se non c’è un’intesa forte tra le forze politiche più rappresentative, il progetto rischia di saltare. Se vogliono davvero la riforma, bisogna che essa sia solida e risponda alle esigenze del Paese».
Ma il testo emerso al Senato garantisce governabilità?
«La ripartizione dei seggi su base nazionale ripropone in Parlamento la frantumazione che c’è nel mondo dei partiti e che non consentirebbe a nessuno di governare. Riproporre questa frantumazione per puntare a una grande coalizione con Pdl, Pd, Udc, ecc. significa fare un danno grave e forse irrecuperabile. Quella coalizione durerebbe pochi giorni e dopo ci sarebbe il disastro. Serve invece una legge che favorisca maggioranze stabili. Lo ha detto chiaramente anche il Capo dello Stato».
Dario Franceschini mette in guardia da chi pur di tenersi Monti punta su una legge senza vincitori...
«Mario Monti ha conquistato un posto nella storia della Repubblica e, se vorrà, potrà continuare a dare il suo contributo al futuro del Paese in una delle responsabilità coerenti con le sue competenze e le sue attitudini. Ma, ha ragione Franceschini, credo che nessuna personalità si metterebbe a capo di un’aggregazione senza coesione interna. Se la legge fosse quella che si ipotizza favoriremmo una ulteriore delegittimazione dei partiti. Agli occhi degli italiani si presenterebbe un pasticcio confezionato perché nessuno corra il rischio di perdere le elezioni». Per il Pd la sera del voto si deve sapere chi governa...
«Con quelle regole non lo sapremmo neanche dopo due settimane».
Come rimediare, allora?
«Si devono proporre i collegi. Non si tratta di una disputa di bottega. I partiti hanno un ruolo storico perché nella prossima legislatura si può aprire la catastrofe o si può costruire la ripresa. Qui davvero ci vuole una forte spinta e lo dico anche agli amici dell’Udc che so sensibili all’interesse del Paese».
Favorevole al premio (12,5% in più) alla coalizione che vince?
«Mi sembra equo. C’è un’altra questione, però: se il premio debba andare alla coalizione o al singolo partito».
Dal Mattarellum in poi tutti i sistemi hanno premiato le coalizioni.
«In nessun caso, però, la coalizione che ha cominciato la legislatura l’ha finita. Questo deve farci riflettere a proposito degli incentivi a coalizioni che come giustamente dice il Capo dello Stato non garantiscono governabilità. Se il Pd stabilirà diversamente mi atterrò alle decisioni, ma io preferirei una riflessione aggiuntiva. Potrebbe essere più giusto che il premio vada al primo partito per consolidarne il ruolo nella coalizione di governo».

Corriere 14.10.12
Il Porcellum e i porcellini
di Giovanni Sartori


Il testo della nuova legge elettorale sinora lungamente sudata nella sua gestazione nella commissione Affari costituzionali del Senato passerà ora (con calma, si intende) all'esame dell'Aula. Non è una proposta unanime. È una proposta di impianto proporzionale che al Pd di Bersani non piace (secondo me a ragione). Ma Bersani non si oppone come altri facendo fuoco e fiamme. E così la proposta arriverà, finalmente, all'Aula del Senato. Lì il testo passerà così com'è? Forse, perché il Senato non prevede il voto segreto e quindi lì è più difficile fare vigliaccate. Se ne vedremo di belle sarà allora a Montecitorio, dove invece il voto segreto è consentito.
In attesa di quel voto segreto, facciamo il punto. Il Porcellum, la legge elettorale di Calderoli, fu un atto di tracotanza: l'allora alleanza di ferro Berlusconi-Bossi bastava ad assicurare il passaggio di una legge truffa che è purtroppo ancora vigente. Questa volta la legge in gestazione è invece un calcolino di paure (di essere rottamati) e di allettamenti demagogici. Ma la paura non è, spesso, buona consigliera. E nemmeno lo è la demagogia sfrenata. Difatti il testo faticosamente partorito in Senato è pieno di stranezze forse intese a salvare i «rottamandi», ma non per questo di stranezze intelligenti. Ne indicherò tre.
Un primo problema per tutti i sistemi elettorali proporzionali, o prevalentemente tali, è di bloccare la frammentazione dei partiti (che è, piaccia o non piaccia, la causa prima della ingovernabilità, come nel suo secondo governo Prodi ha forse capito, visto che si è trovato a dover fare ogni giorno «la quadra» con 13 partiti e con un governo di oltre cento governanti. Un po' troppi, no? Comunque sia, per bloccare la frammentazione occorre (Germania docet) uno sbarramento che elimini i partitini, i nanetti. Invece, udite udite, i nostri legislatori ora propongono uno sbarramento del 5 per cento che per i partiti coalizzati scende al 4 per cento. Invece, se uno sbarramento deve funzionare, le coalizioni elettorali tra i partiti devono essere vietate. Questa è una condizione inderogabile e anche molto ovvia. Possibile che i nostri legislatori non ci arrivino?
Analogo è il discorso sul premio di maggioranza. Il progetto prevede un premio del 12,5 per cento. È una misura di premio accettabile, ma di nuovo viziata dal fatto che può essere attribuito non solo al partito ma anche a una coalizione. No, e poi no. Nei sistemi parlamentari le coalizioni si fanno in parlamento, non prima. E si possono anche cambiare. Pertanto il premio va attribuito soltanto al partito che ottiene più voti.
Un ultimo punto è sulle preferenze. Quando le avevamo (fino agli anni 90) Mario Segni le fece abolire per referendum, davvero a furor di popolo. Ora, da qualche anno, giornali, tv e partiti sbavano sulle preferenze. Senza preferenze, si proclama, il popolo è spodestato. La domanda resta: le preferenze ricreano davvero il «popolo sovrano»? A suo tempo si sapeva che in Sicilia le preferenze erano manovrate dalla mafia. Ora si scopre che vengono comprate anche a Milano. E allora? Una soluzione ci sarebbe. La propongo da anni, ovviamente invano.

il Fatto 14.10.12
Le città più buie
I giorni dell’abbandono
di Furio Colombo


Il blitz è iniziato alle 5.30 del mattino. Le forze dell’ordine si sono disposte sia all'interno che a presidio dei vari ingressi. Le operazioni sono state coordinate dal questore Pasquale De Lorenzo e dal vicequestore aggiunto Alberto Mannelli. La fase di spostamento è stata avviata con la partecipazione di un folto Gruppo Interforze: Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di finanza, vigili urbani. L'intervento, disposto dal magistrato, è stato finalizzato al ripristino della legalità, sotto il profilo ordine-sicurezza”. Se potessi proporre un quiz, a questo punto chiederei ai lettori di provare a identificare la vasta operazione di polizia descritta in queste righe (la fonte è Inter Napoli, quotidiano di informazione on line, il luogo è Giugliano). Camorra? Stupefacenti? Covo finalmente scoperto di boss che controllano la vita e la morte del grosso borgo alle porte di Napoli? Sono costretto a deludere i lettori. Questa che ho trascritto è la cronaca dello sgombero di un campo nomadi.
“TRATTATI come bestie”, ha detto al giornale che ho citato padre Zanotelli, uno dei pochi preti che si occupa ancora dei poveri. Come nel più profondo medioevo, distruggi tutto, dai fuoco a quel poco che hanno e li spingi via, nel buio. Il resto non riguarda la Repubblica italiana. Questo non lo hanno deciso le Interforze di polizia o i giudici. Questo è il vuoto profondo della politica. S'intende che gli scacciati da una così imponente operazione di polizia cercano un altro posto e si accampano di nuovo. Tempo mesi o settimane e la storia (la brutta storia) si ripete in tutta la sua assurda crudeltà. Perché la racconto in questi giorni, mentre tutti sono occupati e allarmati per la corruzione, che travolge anche la falange di Mani Pulite, e si occupano di Renzi o di Grillo che – in due modi molto diversi – promettono piazza pulita? Lo faccio per condividere con i lettori una mia ossessione: c'è una relazione stretta, un rapporto causa-effetto, fra la violazione dei diritti civili e la corruzione. Cacciare persone disorientate, uomini che perdono il controllo delle famiglie, bambini terrorizzati, nella notte, usando per questo compito le migliori forze dell'ordine di cui il Paese dispone vuol dire: di questi esseri umani non mi importa niente. Ma basta allargare lo sguardo per rendersi conto di quanto sia vasto il campo dell'abbandono. I disabili in Italia sono, credo, i più abbandonati a se stessi o alle loro disperate famiglie, di tutti i Paesi democratici. Bloccati nella gabbia di piccolissime cifre di pensione o "accompagnamento", tra abitazioni senza ascensore e scuole senza insegnanti di sostegno, quando osano uscire per una dimostrazione provocano prontamente pensieri (detti e non detti) come "ma cosa vogliono ancora?" come se fossero attori che poi si alzano e vanno a casa.
MA TUTTO CIÒ si può raccontare anche per i bambini, a cui vengono date scuole fisicamente pericolose e insegnanti allo sbando, sempre fuori ruolo e fuori concorso anche quando sono primi nelle classifiche. E non è un caso che questa Repubblica italiana che tante volte ama celebrare con commozione se stessa come la casa di tutti i diritti, non abbia (e non voglia avere, a giudicare dai lavori parlamentari) una legge sulla tortura, in una Repubblica in cui può essere pericoloso (a volte un pericolo mortale) trovarsi, indifesi e da soli, in certe stanze di Stato, con personale di Stato che non deve rendere conto. La frase che volevo dire e che spero non vi sembri insensata è questa: la corruzione è più grande, più disinvolta e diffusa dove i diritti umani e civili delle persone sono più bassi o sono facilmente violati senza correre rischi. La persuasione sembra essere: se non mi importa dei diritti dei cittadini e posso fare su di loro e contro di loro quello che voglio, perché dovrei preoccuparmi dei loro soldi? Ogni tanto qualcuno viene colto sul fatto, o perché intento a una corruzione eccessiva o perché si è abbandonato con troppa foga a un pestaggio che è costato una vita. Ma il più delle volte la vicenda, per quanto grave, si perde nei lunghi corridoi dei fascicoli e delle istruttorie perenni.
ECCO PERCHÉ non riesco ad appassionarmi alla pura e semplice austerità di classe (deve dare di più chi non ha molto da dare) quando questo governo dice: “D'ora in poi avremo città piu' buie per risparmiare sul conto della luce”. Si immagina che le città tristi saranno più virtuose, non si sa bene in base a quale esperienza. Ma non mi appassiono neppure per i vendicatores che attraversano la pianura al galoppo (o in Jet privato) brandendo dati generazionali terribili e promettendo giovinezza (il fascismo era giovanissimo ma non un paradiso terrestre). E non mi appassionano persone in gran forma che attraversano a nuoto mezzo mare, promettendo che tutto sarà d'ora in poi controllato con trasparenza assoluta, in tempo reale, per opera di una umanità nuova, e offrono, come garanzia, la loro spettacolosa nuotata. Per coloro che non ce la fanno a intrupparsi nella generazione giovane, o ad attraversare almeno tre chilometri di mare a nuoto con mezzi propri (mettiamo: esodati, precari, senza lavoro, licenziati e licenziandi, ex protagonisti dalla Fabbrica Italia, docenti cacciati perché hanno vinto il concorso, bambini senza insegnanti di sostegno, immigrati, Rom, disabili e tanti cittadini lasciati soli a metà del guado) l'appello che chiama all'epoca nuova non contiene paragrafi particolari. Si immagina che risorgeranno con la nuova Italia pulita. Io dico che la nuova Italia pulita non risorgerà senza di loro.

il Fatto 14.10.12
Scuola: Più ore, stessa paga
“Qui succede la rivoluzione”
Un insegnante alle prese con le novità del ministro Profumo
E con i ragazzi che sanno che, poi, toccherà a loro
di Luigi Galella


L’ho fermato fuori dalla scuola, tre giorni fa. La notizia era uscita in sordina e sembrava una boutade: “Questa trovata delle 24 ore dovrà essere discussa o è già passata? ” Mi ha guardato perplesso: “Di che parli? ”
NON NE SAPEVA NIENTE. “Il tempo di cattedra che da 18 passa a 24 ore. Senza aumento di stipendio: per incrementare la produttività”. Una piega del labbro, un mezzo sorriso sgomento e rabbioso: “Succede la rivoluzione”.
Il mio collega di solito è informato prima degli altri. Se ho bisogno di un chiarimento giuridico chiedo a lui. Severo, temuto, poco amato dai ragazzi e molto stimato. Di quei professori che in classe ridono poco e non devono chiedere che si faccia silenzio. Insegna Diritto e sembra lui stesso un rappresentante della Legge: puntuale, rigido nella postura, con la mimica impenetrabile. Riflessivo, sa misurare le parole: la rivoluzione. Sembrava che dal volto gli si liberasse la stanchezza e la rassegnazione di questi anni. Alla scuola pubblica si può far tutto. Le si possono sottrarre risorse, privilegiando l'istruzione privata. Tagliare cattedre e aumentare il numero degli alunni per classe. Licenziare i tecnici dei laboratori, fermare indefinitamente gli scatti d'anzianità - unica progressione di carriera - e bloccare i contratti. Qualche sciopero, qualche piccola protesta, poi si tira avanti, più malconci di prima. La scuola è un corpo che si offre indifeso alle sevizie: prima di finirlo ci si può divertire un po’, per vedere l'effetto che fa. Rinchiusi nel proprio particulare, intanto, i professori languono. Se la realtà diventa incomprensibile, il pessimismo radicale è l’extrema ratio, la difesa ragionevole dei folli. Ma questa volta, grazie a Profumo e a Monti, forse Guicciardini metterà la maschera di Robespierre.
NE HO PARLATO con i miei ragazzi di Quinta: “È come se a un operaio si dicesse: da oggi lavorerai non 40 ma 53 ore a settimana, il 30 per cento in più. Senza aumento di salario. Questo, il rapporto”.
La prima risposta immediata me l’hanno data, a destra e a sinistra della classe, nel sovrapporsi concitato dei commenti: “Ma in questo modo c'è chi perderà il posto di lavoro”. “Se lei copre un terzo di spezzone di cattedra, ne basteranno altri due per licenziarne un quarto”. “Tre dentro e uno fuori”. Sanno fare di conto, diversamente da ciò che pensava Fioroni. Mi sono complimentato per la prontezza aritmetica. C’era, in questa capacità di contare chi dentro e chi fuori, una sensibilità quasi primitiva di valutare il giusto e il torto. E c’era anche, velata dal non detto, la percezione che quella misura li riguardi, non solo per l’attuale condizione di alunni, ma per il dopo. Presto, alcuni di loro si ritroveranno ad essere quel quarto che non c’è più. Usciti dalla scuola come studenti, non vi rientreranno come insegnanti: col disagio muto di chi parla di te, ma ha già in cuore se stesso, manifestavano la solidarietà degli esclusi.
Rideva, Totò, mentre prendeva schiaffoni da un tale che continuava a chiamarlo Pasquale: voleva proprio vedere “questo cretino dove vuole arrivare: mica so’ Pasquale io! ” Ma gli insegnanti sono stanchi di ridere. E anche di bastonarsi le parti basse: è tempo che Tafazzi cambi bersaglio.

l’Unità 14.10.12
Yael Dayan
Contro eventuali blitz la scrittrice ha firmato un appello con lo storico della Shoah Yehuda Bauer, gli scrittori Sami Michael e Yoram Kenyuk,
la cantante Noa
«Da israeliana dico: azzardo indecente attaccare l’Iran»
di Umberto De Giovannangeli


Il Medio Oriente è una polveriera pronta ad esplodere con effetti devastanti che andrebbero anche oltre al Regione. E a far saltare questa “polveriera” potrebbe essere un attacco all’Iran. Oggi più che mai sono convinta che un nostro attacco contro l’Iran sarebbe un azzardo. Un azzardo indecente». A sostenerlo è Yael Dayan, scrittrice, più volte parlamentare laburista, figlia del leggendario eroe della Guerra dei Sei giorni: il generale Moshe Dayan. Scriveva recentemente Yediot Ahronot, il più diffuso quotidiano dello Stato ebraico: «Se dipendesse solo da loro, il premier Benyamin Netanyahu e il ministro della difesa Ehud Barak ordinerebbero un attacco alle infrastrutture nucleari in Iran già questo autunno. Prima anche delle elezioni presidenziali di novembre negli Usa o comunque entro l’anno». In Israele il dibattito si accalora. Gli oppositori del blitz sono usciti allo scoperto: con un appello sul web (destinato a raggiungere i piloti militari, affinché si rifiutino di partire in missione) e con un appassionato appello di figure come lo storico della Shoah Yehuda Bauer, gli scrittori Sami Michael e Yoram Kenyuk, la cantante Noa e, per l’appunto, Yael Dayan.
Sull’ordine di un eventuale blitz «sventola una bandiera nera» d’illegalità, rimarcano i promotori dell’appello. Anche perché, senza il sostegno degli Usa, Israele potrebbe al massimo ritardare di un anno i progetti nucleari di Teheran. Netanyahu accusano s’illude ancora di poter trascinare Washington scommettendo sul fatto compiuto. Ma in realtà -concludonorischia di arrecare un danno irreparabile alla cooperazione strategica fra i due Paesi».
Perché un blitz contro i siti nucleari iraniani sarebbe un «azzardo indecente»?
«Perché scatenerebbe una guerra devastante che avrebbe dimensioni e durata che non sono certo quelle di un “blitz”. A mettere in guardia sulle conseguenze di un attacco non sono solo i “soliti” pacifisti, ma persone che hanno guidato i nostri servizi segreti, uomini che hanno fatto parte dei vertici di Tsahal (l’esercito dello Stato ebraico, ndr). L’azzardo indecente è anche non tener conto delle loro critiche».
Eppure c’è chi sostiene che un attacco all’Iran sia solo questione di tempo.
«Ognuno, per ciò che può, deve impegnarsi perché ciò non avvenga. E non mi rivolgo solo ai leader mondiali. Penso innanzitutto a noi. Noi cittadini israeliani. Dobbiamo agire prima che sia troppo tardi. Dobbiamo unirci per dire con una voce sola che un attacco all’Iran metterebbe in pericolo l’avvenire stesso d’Israele, trasformando l’intero Medio Oriente in un unico, immenso campo di battaglia. Attaccare l’Iran sarebbe il più grave errore commesso da un governo israeliano dalla nascita dello Stato d’Israele. Impedirlo è un dovere morale...».
Coloro che spingono per l’opzione militare evocano lo spettro di una Shoah nucleare....
«Mi sono sempre battuta contro l’utilizzo politico di quella tragedia senza eguali che fu l’Olocausto. La Shoah non può, non deve essere utilizzata per alimentare la paura e per giustificare l’ingiustificabile. Sia chiaro: un Iran dotato di armi nucleari rappresenta un pericolo reale, non è una paranoia del governo israeliano. Ma esistono altre vie, altri strumenti per affrontare questa minaccia..».
Quali, ad esempio?
«Penso alle sanzioni mirate a colpire la nomenclatura iraniana, o a adeguate pressioni diplomatiche. Ma penso anche alla necessità di parlare direttamente al popolo iraniano, parlare il “linguaggio” del dialogo, perché l’Iran, la sua storia secolare, la sua gente non possono essere confusi e appiattiti con il regime militar-teocratico. Non dimentichiamo l’”Onda verde” fatta da tante ragazze e ragazzi iraniani scesi nelle strade per rivendicare diritti e libertà. Israele deve saper rivolgersi a loro e certo non può farlo preparando l’attacco, perché se c’è una cosa che ricompatta, e noi israeliani dovremmo saperlo bene, è la percezione di un Nemico esterno».
Un attacco che non avrebbe l’assenso degli Stati Uniti, o almeno dell’attuale presidente, Barack Obama.
«C’è anche questo nell’indecenza di un attacco. Netanyahu s’illude ancora di poter trascinare Washington scommettendo sul fatto compiuto. Ma in realtà rischia di arrecare un danno irreparabile alla cooperazione strategica fra i due Paesi. E all’indomani il futuro d’Israele sarebbe molto incerto».
Chi paragona l’Iran di oggi a Hitler, ed Israele a Auschwitz ha scritto Amos Oz compie un gesto anti-sionista e demagogico, incoraggia la emigrazione da Israele, semina isteria.
«È la verità. Una drammatica verità. Dobbiamo ribellarci a questi “seminatori d’isteria” che governano Israele. Ogni silenzio suonerebbe complice, perché si può bombardare un sito, ma non si può bombardare la determinazione di un popolo».

l’Unità 14.10.12
Ospedali psichiatrici giudiziari Subito un Ufficio per chiuderli
di Emilio Lupo

Segretario di Psichiatria democratica

L’ITALIA SPEGNE LE LUCI PER RISPARMIARE. SUI GIORNALI SI LEGGE OGNI PASSO DELLA MANOVRA ECONOMICA PRESENTATA IN Consiglio dei ministri, ma non si parla di una legge importante che rischia di rimanere nel cassetto, inapplicata. È la chiusura degli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari. È la legge numero 9 del 2012, che tra l’altro prevede, entro il prossimo marzo, l’entrata in vigore di una serie di misure per garantire diritti anche a questi reclusi.
Una ferita quella degli Opg, come è per le carceri italiane, che ci si augurava potesse rimarginarsi dopo le continue e sempre più incalzanti denunzie sulla violazione dei diritti costituzionali, da parte non solo delle associazioni che come la nostra se ne interessano, ma anche dalle stesse autorità politiche, come la commissione presieduta dal senatore Marino. Anche il Capo dello Stato ha espresso il suo sdegno. Il video promosso dalla commissione e girato nelle strutture manicomiali, è penetrato negli occhi, nel cuore e nella mente dell’opinione pubblica, producendo, con un impegno costante ed esemplare di tutti e grazie alla sensibilità del ministro della Giustizia, il varo della legge numero 9.
Da allora tavoli tecnici, gruppi di studio e iniziative a doppia velocità non hanno prodotto niente di quanto si doveva, ovvero programmi individualizzati per ciascun recluso, accompagnamenti nelle residenze territoriali (che devono essere secondo Pd di piccole dimensioni e a tempo), progetti di ritorno: al lavoro, agli affetti. Di risposte sinergiche, insomma, nemmeno l’ombra. Come Psichiatria Democratica, avevamo già evidenziato a chiare lettere lo scorso 3 aprile nella seconda audizione presso la commissione Marino al Senato, il pericolo dell’affossamento della legge. Sia per quel che riguardava le proposte avanzate circa le dimensioni delle strutture che non configuravano case, bensì caserme, sia per l’attivismo registrato pare da parte di grandi strutture psichiatriche private per accogliere gli ex internati.
Ora bisogna decidere, e presto, se costruire rapidamente con uno sforzo, finalmente comune, risposte di civiltà, oppure stare ancora a guardare.
La nostra proposta è semplice, chiara, netta e nel pieno rispetto della spending review: l’attivazione immediata di un Ufficio Speciale per la dismissione degli ospedali psichiatrici giudiziari, da parte dei ministri di Giustizia e Salute, che ne governi e porti a termine entro la data prestabilita del 31 marzo 2013 l’intero programma. L’Ufficio Speciale è ormai una necessità quanto mai urgente e inderogabile in ragione dei gravissimi ritardi accumulati da tutti i responsabili del procedimento. Uno strumento, a tempo, quello dell’Ufficio Speciale di cui sollecitiamo il varo e che si interessi dell’allocazione delle risorse umane ed economiche, incastonate, beninteso, all’interno dei progetti individualizzati. Un gruppo di lavoro snello e in grado di garantire l’omogeneità degli interventi, per evitare che ci siano realtà che restando indietro vanifichino fino a bloccare l’intero programma.
Una realtà operativa che informi puntualmente le famiglie e che svolga con i servizi pubblici un’attività di raccordo con le agenzie presenti sui territori laddove dovranno essere accolte le persone attualmente rinchiuse negli Opg. Psichiatria Democratica propone, pertanto, ai ministri Severino e Balduzzi, di adottare questo strumento di intervento, che, potendo avvalersi delle sicure competenze che ciascun dicastero possiede, sarebbe a costo zero. Avvalendosi dell’apporto delle migliori energie di Regioni e Aziende sanitarie, l’Ufficio da un lato potrebbe annullare le sacche di resistenza e, dall’altro, garantire il mantenimento della centralità del servizio pubblico. Tale centralità rimane, nel tempo, strumento principe di garanzia di equità ed omogeneità, ma anche di argine contro nuove possibili spinte privatistiche e «concentrazionali».
È questa un’occasione per scrivere, insieme, una bella pagina della nostra storia contemporanea, non perdiamola.

l’Unità 14.10.12
Il libro. Quei bambini invisibili
La traversata di Luigi Cancrini nel mondo dell’infanzia violata
Piccoli infelici che rischiano di diventare adulti disperati Il lavoro dello psicoterapeuta che sfonda il muro della non curabilità e analizza la realtà di chi non ha voce
di Manuela Trincis


UN PORTOLANO PER IL DIPORTO IN ASPRE ROTTE DI MARI E OCEANI DI SOFFERENZA, RABBIA, UMILIAZIONI, PATOLOGIE PSICHIATRICHE MA NON SOLO; un diario di bordo, come Luigi Cancrini stesso definisce il suo ultimo, imperdibile, libro La cura delle infanzie infelici. Viaggio nell'origine dell'oceano borderline (Raffaello Cortina Editore, pagg. 355 Euro 28).
Una traversata straordinaria, quella di Cancrini, nei pensieri e negli stati d’animo del bambino che gli sta davanti in carne e ossa o di quello che viene evocato “come un fantasma dai contorni incerti” nel momento in cui questo terapeuta di lungo corso, tenero quanto rigoroso, si accosta alla sofferenza dell’adulto: «perché – scriverà in proposito quelli che curiamo anche curando i pazienti adulti, alla fine, sono i bambini feriti che ancora piangono (gridano o si spaventano) dentro di loro».
Bambini sottoposti a violenze fisiche e verbali, a minacce continuative e umilianti; bambini che rimangono passivi sino a far esplodere poi, in adolescenza, rabbia e aggressività tenute sotto controllo, bambini maltrattati, così piccoli da non poter far ordine neppure nei ricordi. E adulti i cui difetti di empatia coincidono tristemente con la violenza delle punizioni subite quando erano bambini: deboli e indifesi.
Il vento soffia così emozioni contradditorie e si catapulta in bufere di vite presuntuose, vissute al di sopra e al di fuori di qualsiasi regola, rovesciandosi infine su realtà negate e bisogni elusi, comportamenti prepotenti, maneschi, dispotici, sfide estreme e affetti senza alfabeto possibile.
Menti che perdono il controllo, follie che si contagiano e mali della psiche ancora oscuri che nel lavoro di Cancrini trovano accoglienza e nome. C’è Nicola, evitante e rabbioso, confuso, abusato, e Bruno, figlio della piccola borghesia, abusato pure lui. Bambini mai protetti. E poi ci sono i “legami disperanti” che intrappolano la piccola Deborah, che vuole morire, c’è la sua vergogna e ancora ci sono i venti anni di un’Alina, minuta, ostile, che fa uso di droga per tenere
lontani i pensieri, e Milo con la sua adozione in bilico, e Federico che il padre l’ha ucciso nel sonno. Piccoli infelici che crescono fra processi di identificazioni con gli aggressori maltrattanti, fra distanze, rifiuti e disconoscimenti, fra traumi e relazioni catastrofiche.
Ma intrecciati alle tante, loro, storie infelici, alle speculazioni teoriche e alle ipotesi diagnostiche (facendo riferimento a Lorna Benjamin), Cancrini non tralascia certo né il clima emotivo né il contesto reale: le perizie, le diatribe fra consulenti, le guerre dei genitori, gli incontri protetti, gli assetti terapeutici, ora individuali ora di terapia familiare, ora di stampo più peculiarmente educativo-riabilitativo.
In filigrana scorrono e si alternano vite di badanti, di malviventi, spacciatori; racconti di gravidanze non volute, di miseria, deprivazione; di patologie psichiatriche mal curate.
Una scrittura tersa, lucida, ricca di risonanze affettive eppure mai indulgente o nutellosa. Un uomo senza pregiudizi, un nocchiero accorto, Luigi Cancrini, dantescamente consapevole che il suo “non è pileggio da picciol barca” e che le sue carte nautiche sempre contengono indicazioni sulle distanze da percorrere, sulle direzioni, sui possibili, giusti, approdi, senza mai rinunciare alla contestazione dell’applicazione acritica dei criteri diagnostici convenzionali, della terapia farmacologica in neuro-psichiatria infantile e alla denuncia serrata dei funzionamenti tristi, sgarbati fino alla disumanità di tante (troppe) strutture carcerarie.
Cancrini sfonda, così, il muro dell’incurabilità di tante psicopatologie riferibili all’area di confine con la psicosi, di “corazze caratteriali” di tipo narcistico e antisociale (per l’autore mai immutabili e definitive), e lancia la sfida preziosa in tempi di Dsm imperante! di una diagnostica basata sullo studio delle caratteristiche di personalità invece che sui sintomi. Inoltre, in un contesto culturale dove variegate terapie, guru mediatici e Tate televisive, promettono benessere in pochi giorni o pochi mesi, Luigi Cancrini non fa mistero del tempo e della fatica che occorrono invece per comprendere quelle linee di frattura che sospingerebbero i bambini infelici di oggi verso gravi disturbi di personalità.

l’Unità 14.10.12
La rivoluzione del bosone
Ecco come in sette mesi la fisica moderna è cambiata per sempre
Guido Tonelli ha lavorato all’esperimento Cms del Cern a partire dal 1993
Anticipiamo la lezione che terrà il 21 a Bergamoscienza in cui racconta i passaggi della meravigliosa scoperta
di Guido Tonelli

docente Fisica Generale Università di Pisa

Nei pressi di Ginevra è stato costruito il Large Hadron Collider, l’apparato di ricerca più innovativo dell’umanità ...
Due giganteschi occhi elettronici, analizzano centinaia di milioni
di collisioni al secondo

IL BOSONE DI HIGGS NON È UNA PARTICELLA COME LE ALTRE, È LA PIETRA ANGOLARE CHE SORREGGE L’ INTERO EDIFICIO EL MODELLO STANDARD DELLE INTERAZIONI ELEMENTARI. Ad oggi, questa teoria costituisce la migliore descrizione di tutto quanto ci circonda.
Il Modello Standard descrive la materia come composta di particelle elementari (quark e leptoni) che interagiscono fra loro attraverso lo scambio di portatori di forze: il leggerissimo fotone, la familiare particella di luce che ha massa a riposo nulla e trasporta le interazioni elettromagnetiche; i pesanti, W e Z, che hanno valso il premio Nobel a Carlo Rubbia nel 1984 e che sono responsabili dei decadimenti radioattivi legati alla forza debole; i gluoni che tengono insieme protoni, neutroni e nuclei mediante l'interazione forte. Il Modello Standard è una teoria semplice che sposa in maniera elegante meccanica quantistica e relatività speciale, le due colonne portanti della fisica del XX secolo.
Dalla teoria si sono ricavate centinaia di previsioni su quantità misurabili che sono state tutte verificate sperimentalmente con grande precisione. Tutte tranne una visto che, fino a poco tempo fa, il componente più importante, il bosone di Higgs, era riuscito a sfuggire a tutte le ricerche.
Il bosone è la particella che, secondo un meccanismo proposto indipendentemente, nel 1964, da due fisici belgi, Robert Brout e Francois Englert e da un fisico scozzese, Peter Higgs, è responsabile della incredibile differenza di massa fra fotoni da un lato e W e Z dall' altro lato. È la manifestazione di un campo invisibile che occupa ogni angolo dell' universo ed assegna una specifica massa ad ogni altra particella. Come conseguenza di questo meccanismo, che si è instaurato una frazione di secondo dopo il bigbang, gli ingredienti caotici dell' universo primordiale hanno cominciato ad attrarsi l'un l'altro per formare atomi, gas, galassie, pianeti e, in ultima analisi, anche noi. Senza il bosone di Higgs non solo il Modello Standard non starebbe in piedi ma non si riuscirebbe a capire nulla dell' Universo che ci circonda.
UNA CACCIA DURATA OLTRE TRENT'ANNI
La ricerca del bosone di Higgs ha i pegnato gli sforzi di ricercatori del mondo intero per oltre trent'anni. Tutti i tentativi condotti in Europa e negli Stati Uniti negli anni '80 e '90 utilizzando gli esperimenti più sofisticati e gli acceleratori fino a quel momento più moderni, si sono rivelati infruttosi. Per questo è stato deciso di costruire, il Large Hadron Collider, LHC, il più complesso apparato di ricerca mai concepito dall' umanità. Un acceleratore costituito da migliaia di magneti superconduttori, che si sviluppa per 27km, 100 metri nel sottosuolo, alla frontiera fra Francia e Svizzera nei pressi di Ginevra.
In LHC fasci di protoni accelerati a velocità prossime a quelle della luce vengono fatti urtare in collisioni di altissima energia per produrre e studiare nuovi stati della materia. LHC può essere visto come una enorme macchina del tempo. Minuscoli brandelli di materia vengono esposti ad energie e temperature simili a quelle che si registravano nell' universo primordiale con la speranza di produrre ed identificare particelle mai osservate fino ad ora. Due giganteschi occhi elettronici, analizzano centinaia di milioni di collisioni al secondo registrando su disco soltanto quelle piccola frazione che potrebbe contenere eventi interessanti. Sono i grandi apparati di ricerca di Atlas e Cms, moderne cattedrali delle tecnologie più avanzate, grandi ciascuno quanto un edificio di 5 piani, la cui costruzione e messa in opera ha richiesto venti anni di lavoro di migliaia di scienziati ed ingegneri di tutte le parti del mondo. Fra essi oltre 600 italiani, organizzati dall' Istituto Italiano di Fisica Nucleare, spesso in posizioni di rilievo all' interno delle grandi collaborazioni, e moltissimi studenti e giovani ricercatori impiegati nelle operazioni più complicatee difficili.
LA SCOPERTA
Il momento cruciale, tanto atteso per anni, si e' intravisto, per la prima volta, alla fine del 2011. Quando, analizzando i dati appena raccolti, entrambi gli esperimenti hanno indicato al mondo che qualcosa stava succedendo intorno ad una massa di 125GeV. Per la prima volta, due esperimenti indipendenti vedevano segnali coerenti, che, per quanto ancora deboli, indicavano con chiarezza la possible presenza della particella tanto a lungo ricercata. La prudenza e la pazienza che accompagna il nostro lavoro ci suggerirono di attendere nuovi dati prima di sciogliere la riserva e di accumulare ulteriore evidenza prima di rimuovere ogni dubbio residuo.
Questo è avvenuto molto rapidamente con la presa dati del 2012. Dopo soli tre mesi dall' inizio del nuova raccolta di dati, non appena si è visto che il segnale osservato a 125GeV nel 2011, ricompariva nei dati del 2012 esattamente nello stesso posto ed ancora in entrambi gli esperimenti, si sono sciolte le riserve ed è stata annunciata al mondo la nuova scoperta.
La nuova particella scoperta ad LHC sembra avere tutte le caratteristiche previste per il bosone di Higgs. Siamo quindi sulla buona strada per capire cos' è avvenuto un centesimo di miliardesimo di secondo dopo il big-bang. Oggi sappiamo che in quell' istante, con l' instaurarsi del campo di Higgs, la forza debole venne definitivamente separata dalla forza elettromagnetica e quark e leptoni acquistarono quelle masse così peculiari che hanno consentito la nascita degli atomi, lo sviluppo della chimica e dato il via a quella evoluzione dell' universo della quale noi stessi, fragili abitanti del pianeta Terra, siamo un risultato.
Mentre si celebra il raggiungimento di questo obiettivo di portata storica, le questioni aperte sono ancora molte. Anzitutto si tratta veramente del bosone di Higgs? Ha precisamente tutte le caratteristiche previste dal Modello Standard? Oppure presenta anomalie che potrebbero suggerire la presenza di nuova fisica oltre il Modello Standard?
Nello stesso momento in cui si celebra un altro trionfo del Modello Standard, sappiamo gi à che esso rimane tutt'ora, anche includendo il bosone di Higgs, una teoria incompleta. Non spiega molti fenomeni che giocano un ruolo fondamentale nel nostro universo quali materia ed energia oscura o l' asimmetria fra materia ed antimateria.
Non sappiamo a quale scala di energia sarà possible trovare risposte ad alcune di queste domande. Oggi abbiamo a disposizione una nuova particella che, essendo sensibile, per il ruolo che gioca, ad ogni nuovo stato della materia, potrebbe portare a nuove, ulteriori sorprese.
Gli esperimenti di LHC sono solo all'inizio di una esplorazione che durerà per lo meno per altri 20 anni.
Rimanete in ascolto.

l’Unità 14.10.12
Cercando il libro che verrà
Alla Buchmesse la novità è in via di metabolizzazione
Il 3D, l’ e-reader che legge tutti i formati, il self publishing
Quello che cambia nel mercato editoriale mondiale in mostra alla Fiera di Francoforte, tra tecnologia e scrittura
di Maria Serena Palieri


A DIECI ANNI DALL’INIZIO DELL’ERA DIGITALE (QUI NEL 2002 FURONO PRESENTATI I PRIMI MODELLI DI E-BOOK E E-READER), la Buchmesse 2012 mostra che nel mercato mondiale del libro la novità è in via di metabolizzazione. La Fiera ama stupire con gli annunci di rivoluzioni tecnologiche. Quest’anno a darci il brivido era, nella Halle 4.2, la classe di prima elementare con i bimbetti nei banchi dotati di occhialetti per il 3D. Ma la verità è che il digitale, ancora dodici mesi fa ossessione per gli addetti, quest’anno ha fatto parlare di sé come di «uno» dei mezzi che l’editoria ha a sua disposizione. STRUMENTI. Il Kobo, un e-reader qui in mostra, tra gli 80 e i 129 euro, oltrepassa gli ostacoli finora consueti: legge in tutti i formati e, seppure abbia una propria libreria di due milioni di titoli, concede di comprare in tutte le altre (Amazon & C). In Italia verrà distribuito in 340 punti vendita da Mondadori.
SELF PUBLISHING e non solo. L’autopubblicazione è frutto di due fenomeni: rivoluzione digitale e spirito anti-casta («perché ho bisogno di un editore?» si chiede oggi l’aspirante scrittore). Ed ecco il passo successivo: l’ossimoro del «self publishing» con una casa editrice. Rizzoli First è il marchio digitale che offre una vetrina ai libri pronti di autori-fai-da-te. Esprimento: ora pubblica stile feuilleton, a puntate, Colosseum e Invictus di Simone Salasso, poi destinati alla carta. La digitalizzazione trova ostacoli culturali: il Giappone, terzo mercato mondiale del libro, ancora non ha ceduto a questa sirena. Ma offre, anche, vie di apertura culturale: nel mondo arabo si pubblica un titolo l’anno ogni 12.000 abitanti, meno di un ventesimo che in Gran Bretagna; ora Jamalon è la libreria online che, dalla Giordania, sta penetrando il censuratissimo mercato saudita.
LE DUE FACCE DELLE «SFUMATURE». Con i suoi 28 milioni di copie vendute la trilogia erotica di E.L. James, self-published, poi rilevata da Random House ha provocato un doppio effetto in una Fiera che, per il resto, ha registrato i dati Nielsen sul declino delle vendite di libri su carta nei nove maggiori mercati: negli Usa meno 13%. Da un lato, una Fiera inondata di paccottiglia hard: l’americana Ellora’s Cave, per esempio, propone titoli da «solo baci» a «sesso esplicito». La novità è che il target è femminile. Dall’altro editori a caccia del «self published» che si riveli una gallina dalle uova d’oro: Natural causes di James Oswald è il thriller soprannaturale scovato da Penguin. CIBO. Altro che sesso: il cibo su carta resta la vera ossessione occidentale. Nel padiglione Usa a pochi metri si fronteggiano la McRae Publishing che inventa i libri direttamente a forma di pizza o di fondina con minestra e la californiana Basic Health Publications che, terapeutica, contrappone un centinaio di diete.
ITALIA, VENDUTI. Per Rcs, spiega Massimo Turchetta, non c’è storia: «il» libro venduto in 40 paesi è L’infanzia di Gesù, terzo della trilogia cristologica di Benedetto XVI in uscita, come logica vuole, a Natale. Poi Storie di terre e luoghi leggendari che Umberto Eco sta scrivendo. E Le parole e i fatti di Mario Monti, primo titolo di un esponente politico italiano ad «andare oltre Chiasso». Due esordienti, Emanuela Abbadessa di Capo scirocco, saga siciliana. E Daniela Piazza, professoressa di liceo che, con Il tempio della luce, romanzo sul Duomo di Milano stile I pilastri della terra, fa ciò che dovremmo fare da un pezzo: sfruttare in proprio il nostro forziere di segreti, complotti, misteri storici con cui hanno fatto montagne di quattrini gli anglosassoni. Mondadori, spiega Antonio Franchini, ha anche lei i suoi porporati in pole position: Martini, Ravasi, Ruini. Ma in prima linea c’è Paolo Giordano con Il corpo umano venduto in trenta lingue (e Giordano era l’unico autore italiano presente in Fiera). Esercita un appeal «glocal» Il grande fiume Po di Guido Conti, dove si parla di Virgilio ma anche di cibo. Einaudi, spiega Ernesto Franco, ha venduto in Francia, Cina, Russia e ai catalani Nel tempo di mezzo di Marcello Fois, ha fatto oltrepassare il confine a Stefania Bertola, Maria Perosino e a Riccardo Cazzaniga, il poliziotto-scrittore selezionato al premio Calvino con A viso coperto; andati bene anche i saggi Vertere di Maurizio Bettini e La metafisica della peste di Sergio Givone. Laterza certifica che gli stranieri da noi cercano storia e cristianità, se ha venduto Piccolo mondo vaticano di Aldo Maria Valli, Ratzinger, la crisi di un papato di Marco Politi e Prima lezione di teologia di Giuseppe Ruggieri, Il mondo di Atene di Luciano Canfora e Giulio Cesare di Augusto Fraschetti. Ma anche Liberi e uguali di Nadia Urbinati e Manifesto del nuovo realismo di Maurizio Ferraris. E soprattutto va la nuova serie Idòla che mette in crisi idee acquisite, sul Welfare come lusso insostenibile (Rampini), su ciò che l’Europa vuole (Canfora).
ITALIA, ICOMPRATI. Bompiani ha comprato Laverité sur l’affaire Harry Québert di Joel Dicker: da uno svizzero francese un thriller psicologico e culturale sugli Usa che si annuncia come un best seller. Mondadori un romanzo svedese che non è un giallo: A man called Ove di Frederick Backman; il primo thriller israeliano che ci racconta il Mossad da dentro, di Roni Dudovic; e Proof of heaven. The journey of a neurosurgeon into The afterlife in cui Alexander Eben racconta il suo viaggio nel «dopo la vita» da cui è tornato. Einaudi The two lives di Elif Batuman, auto fiction con molto sesso, e, per Stile Libero, The night guest di Fiona MacFarlane.
MO YAN. All’indomani del Nobel si è accorta dell’autore di Sorgo rosso anche quella parte di mondo che l’aveva fin qui ignorato. Ed è lite sulla back-list fra il suo agente cinese e la Andrew Wylie cui Mo Yan è passato a maggio scorso.
LA SCRITTURA. Torna il racconto: Alice Munro, maestra della short story, era una delle favorite al Nobel. Einaudi annuncia l’uscita nel 2013 di una raccolta di Don DeLillo: dalle 886 pagine di Underworld alla storia breve.
PENSIERO NON PIÙ UNICO. Why Nations fail di Daron Acemoglou (uscirà per il Saggiatore) e il Dani Rodrick sulla cattiva globalizzazione edito da Laterza sono titoli che ci dicono che anche pensatori non radical, nel cuore stesso – negli Usa del mainstream, danno per assodato che il turbocapitalismo è dannoso e morto. Vincesse, Romney, si troverà in uno scenario culturale non amico...

La Stampa TuttoLibri 13.10.12
Le quattro “Opere lulliane”
Bruno era moderno, anzi mnemotecnico
di Federico Vercellone

qui

Corriere Salute 14.10.12
Perché non cambiamo idea neanche sulle peggiori «bufale»
Il dubbio si insinua a fatica nella nostra mente
di Danilo Di Diodoro


V ere o no che siano, le informazioni che ci raggiungono restano attaccate alle nostre menti, influenzando comportamenti e scelte. E anche quando ci rendiamo conto che il loro contenuto è falso, può risultare molto difficile riuscire a modificarle.
A questo strano fenomeno - cioè le informazioni sbagliate che continuano a influenzarci anche quando razionalmente sappiamo che dovremmo dimenticarle - è dedicato un articolo di revisione scritto da un gruppo di ricercatori di università americane e australiane, guidato da Stephan Lewandowsky dell'University of Western Australia, e pubblicato da poco sulla rivista Psychological Science in the Public Interest.
Per poter riuscire a comprendere un'informazione, sia che la leggiamo sia che la ascoltiamo, in prima battuta dobbiamo considerarla vera, quindi, in qualche modo l'accettazione della veridicità è un prerequisito della comprensione. «Andare oltre questa accettazione automatica richiede una motivazione addizionale e risorse cognitive» spiegano gli autori dell'articolo. Perciò, normalmente il meccanismo del dubbio non si attiva.
Quando, invece, la nostra mente rileva la presenza di alcune caratteristiche sospette nell'informazione ricevuta, l'attivazione cognitiva avviene. Accade, ad esempio, quando quella specifica informazione manca di coerenza interna.
Molte informazioni, ad esempio, si presentano più o meno esplicitamente sotto forma di storia, e le buone storie vengono ricordate molto facilmente. «Una volta che una storia coerente si è formata nella mente — dicono ancora i ricercatori — diventa fortemente resistente al cambiamento». E questo, a prescindere del suo grado di veridicità. Se, però, la storia è zoppicante o ha evidenti incoerenze interne, allora la mente di chi la riceve diventa critica e pronta a rigettarla.
Lo stesso capita quando l'informazione che arriva non è coerente con altre informazioni che una persona ha già: siccome diventa difficile mettere insieme i pezzi, la mente si trova a dover lavorare per capire se si possa conservare una congruenza, o se non sia il caso di rigettare la nuova informazione. Questo sistema sembrerebbe funzionare, però fa sì che informazioni sbagliate, ma coerenti con ciò di cui si è già convinti, passino tranquillamente e vadano a rafforzare le preesistenti convinzioni erronee.
Poi c'è la questione della credibilità della fonte da cui l'informazione proviene: è chiaro che più la fonte è ritenuta affidabile, meno si attivano i meccanismi di valutazione e di critica. Tuttavia, anche fonti inaffidabili possono influenzare le persone, soprattutto perché nel tempo può affermarsi il cosiddetto sleeper effect. Ovvero: si ricorda l'informazione, ma si dimentica la fonte dalla quale proveniva.
Infine, sebbene possa non piacere, conta anche il consenso sociale che si crea attorno a una notizia. Così, se la maggioranza dubita, allora i meccanismi cognitivi di critica e valutazione scattano.
Questo fenomeno però è particolarmente complesso, perché in alcuni casi può diventare difficile capire quale sia realmente la maggioranza. Gli autori dell'articolo parlano di ignoranza pluralistica, cioè una divergenza tra la prevalenza reale di una certa credenza all'interno di una società e quello che le persone di quella stessa società pensano che gli altri credano in maggioranza. E per spiegarsi meglio ricorrono ad un caso emblematico.
«Per esempio, — precisano, infatti, i ricercatori — prima dell'invasione dell'Iraq del 2003, alle voci che invocavano l'azione militare unilaterale veniva dato risalto nei media americani. Cosicché la maggioranza dei cittadini che, al contrario, voleva il coinvolgimento realizzato assieme ad altre nazioni, sentiva di essere in minoranza».
A questo punto, si comprende come correggere una informazione sbagliata che abbia già raggiunto il suo obiettivo risulti difficilissimo. La ritrattazione il più delle volte non solo non annulla quanto si è già diffuso, ma può addirittura rinforzarlo, perché comunque deve richiamare la prima informazione data, che così viene riportata a galla e rievocata nella mente.
«Le persone, in genere, non amano che qualcuno dica loro che cosa pensare e come comportarsi, quindi sono portate a rigettare ritrattazioni particolarmente autoritarie» aggiungono Lewandowsky e i suoi collaboratori. La situazione è ben conosciuta nelle aule di tribunale: quando una prova già presentata viene indicata dal giudice come inammissibile, spesso il giudice si spende in spiegazioni legali dettagliate sul perché l'abbia respinta, ma tutto questo, paradossalmente, non fa che indurre la giuria a darle maggiore importanza.
«Finora sono stati identificati solo tre fattori in grado di aumentare l'efficacia di una ritrattazione: — dicono, infine, Lewandowsky e i suoi collaboratori — un avvertimento al momento della prima esposizione all'informazione sbagliata; la ripetizione della ritrattazione; correzioni che raccontano una storia alternativa che riempia il vuoto di coerenza altrimenti lasciato dalla ritrattazione».

Corriere La Lettura 14.10.12
Troppi nipotini per Foucault
di Adriano Favole


Ossessionati e assediati dal Potere, dai poteri. La riflessione sulla natura e sulle trasformazioni del potere occupa di questi tempi molta parte della produzione saggistica, dalla filosofia alla storia, dalla sociologia all'antropologia culturale. La prova più evidente è costituita dagli usi (e dagli abusi) di un lessico tratto da Michel Foucault e dai suoi interpreti più noti (Giorgio Agamben in primo luogo) e che comprende termini come «biopolitica» e «biopotere», «soggetto», «governamentalità» e «stato di eccezione», ancora poco familiari al linguaggio quotidiano, ma veri e propri mantra ripetuti con insistenza nelle diverse discipline accademiche. È come se, paradossalmente, il filosofo francese che, smascherando il nesso tra sapere e potere, più di ogni altro ha contribuito a smontare le «grandi narrazioni», fosse divenuto suo malgrado l'ispiratore di una ultima e nuova «grande narrazione» sopravvissuta al crollo dei muri. Quella del potere appunto.
AI demoni del potere è dedicato per esempio l'ultimo libro di Marco Revelli (Laterza, pagine 112, 14). Rileggendo con l'occhio sempre rivolto all'attualità i miti classici di Medusa e Perseo, di Ulisse e delle Sirene, Revelli (Marco) dipinge la crisi che stiamo attraversando come un nuovo Mondo dei vinti che, rispetto a quello di Revelli (Nuto), presenta almeno due nuovi aspetti. Il primo è relativo all'invisibilità del Sovrano. Chi è oggi il Sovrano e dove vive? La crisi dello Stato e della old economy sembrano aver realizzato l'intuizione di Foucault: il potere è ovunque, è capace di mille trasformazioni e si sottrae ai recinti istituzionali. Il secondo è il crollo definitivo delle mura della Polis che per quasi tre millenni avevano garantito la presenza di un potere domesticato e posto sotto il controllo del Nomos (la Legge) e del Logos (la Parola).
Viviamo, scrive Marco Revelli, il ritorno a un potere «selvaggio» e «primordiale», un potere terrificante che pietrifica chi osa guardarlo, come il volto della Gorgone. I demoni del potere tornano ad assediare un Occidente ormai vinto dal vecchio (ma non invecchiato) virus della mercificazione dei corpi e delle persone. Nessun Perseo capace di tagliare la testa di Medusa appare oggi all'orizzonte. Il quadro tracciato da Revelli è fosco e apocalittico: la crisi economica che colpisce Atene e la Grecia esprime simbolicamente il crollo di un'intera civiltà, non ad opera di un'invasione straniera o di una calamità naturale, ma per l'azione di demoni occulti, travestiti da operatori finanziari.
In una situazione come questa il lavoro di Foucault offre strumenti di riflessione affascinanti, ma, secondo me, non privi di rischi. Il primo è quello di non guardare abbastanza a ciò che, nel corso di questi tre millenni, è successo «fuori» dalle mura della Polis (dal colonialismo fino alle guerre per esportare la democrazia). Rifiutandosi di riconoscere l'esistenza di altre Leggi e altre Parole, l'Occidente, che si vanta di aver domesticato i demoni del potere, li ha in realtà scatenati altrove, ben prima che si arrivasse al cuore di tenebra di Auschwitz. Il secondo rischio è quello di ridurre le relazioni sociali a relazioni di potere: il fantasma di un homo strategicus, pronto solo a sopraffare gli altri, si aggira tra i pensieri di molti studiosi. Tucidide, Thomas Hobbes e la formula homo homini lupus tornano a occupare il nostro immaginario. I legami sociali divengono allora saturi di potere. Come ha scritto l'antropologo americano Marshall Sahlins in un polemico pamphlet (Aspettando Foucault, Asterios, pagine 64, 6): «Ora, però, il potere è il buco nero intellettuale in cui vengono risucchiati tutti i tipi di contenuti culturali, dove prima era "solidarietà sociale" o "vantaggio materiale"».

Corriere La Lettura 14.10.12
La riscossa degli introversi
La solitudine è il catalizzatore dell'innovazione Anche in politica
di Alessandra Farkas


NEW YORK — «Sono stata ispirata dalla stessa passione e dalla stessa indignazione che nel 1963 spinsero Betty Friedan a pubblicare The Feminine Mystique», spiega alla «Lettura» Susan Cain. «Un estroverso guarda all'introverso — continua — proprio come gli uomini hanno guardato alle donne fino agli anni Sessanta: cittadine di seconda classe. Una discriminazione che produce una colossale perdita di talento, energia e felicità». Una tesi forte, condivisa dai tanti critici che hanno acclamato il suo Quiet. Il potere degli introversi in un mondo che non sa smettere di parlare, il libro già cult in America («una esplorazione affascinante della psiche umana — scrive "Kirkus" — capace di cambiare delle vite») che dopo essere stato un caso dell'editoria Usa, sta per essere tradotto in 17 Paesi (in Italia da Bompiani).
Il libro si scaglia contro un'America «terra degli urlatori e patria dei logorroici» dove tutto, dalla scuola al lavoro, dai media alle mega-chiese, dalla politica allo showbiz, privilegia chi strilla più forte. «Il problema non è certo solo americano», spiega Cain, che dopo le lauree a Princeton e all'Harvard Law School, ha lavorato come consulente per molte aziende e multinazionali, nonostante la timidezza cronica.
In Quiet la 44enne autrice sostiene che agli introversi — almeno un terzo della popolazione — dobbiamo alcuni dei più grandi progressi dell'umanità: dalla teoria della relatività (Albert Einstein) all'invenzione del personal computer (Steve Wozniak), da Harry Potter (J. K. Rowling) a Google (Larry Page) e Microsoft (Bill Gates). «Picasso aveva ragione quando affermava che, senza totale isolamento, non è possibile realizzare grandi opere», teorizza Cain. «La solitudine è il catalizzatore dell'innovazione e ciò spiega il potere di Internet: un luogo dove si può essere da soli ma insieme. Proprio come la lettura, che Marcel Proust definì "quel fruttuoso miracolo di una comunicazione nel mezzo della solitudine"».
Eppure il mondo continua a credere che Apple sia stata creata da Steve Jobs invece che da Wozniak.
«Jobs era un genio del marketing, che è per definizione un dominio pubblico. Wozniak ha inventato il primo pc, ma l'ha fatto in maniera riservata, senza cercare allori, perché i riflettori non gli interessavano».
Qual è il debito che arte e letteratura hanno nei confronti degli introversi?
«Gli artisti possono anche essere estroversi, come lo sono stati Caravaggio, Raffaello, Norman Mailer. Eppure la maggior parte dei grandi maestri della storia — da Chopin a Van Gogh, da Orwell a Salinger, da Spielberg a Dr. Seuss — erano e sono introversi. Senza di loro, ci sarebbe una falla colossale nel tessuto della nostra storia culturale».
La politica è forse diversa? È possibile essere un leader efficace se non si possiede il magnetismo soprannaturale degli estroversi?
«Hitler, Mussolini e gran parte dei dittatori della storia erano estroversi estremi. Eppure una delle rivelazioni più sorprendenti della mia ricerca è stata scoprire che molti grandi leader — Gandhi, Rosa Parks, Eleanor Roosevelt, Lincoln, Jfk — erano introversi. Adam Grant, docente alla Wharton School, di recente ha pubblicato uno studio pionieristico secondo cui, nel gestire i dipendenti di talento, i leader introversi danno risultati migliori perché più aperti al loro contributo creativo».
Il settimanale «Time» si è chiesto se il Sexgate, la guerra in Iraq e la crisi di Wall Street del 2008 siano state il risultato di leadership eccessivamente estroverse.
«Il risvolto della medaglia nella vita degli estroversi è la loro propensione a correre rischi ingiustificati. Gli studi mostrano che essi hanno più incidenti d'auto e tendono a rischiare di più in Borsa».
Il prossimo presidente degli Stati Uniti sarà un estroverso o un introverso?
«Stiamo assistendo alla prima campagna presidenziale della storia americana in cui entrambi i contendenti sono introversi. L'elettorato ammira lo stile cerebrale e riflessivo di Obama. Ma l'America è un Paese estroverso e la gente brama la cordialità e la socievolezza di Bill Clinton».
Nel libro lei cita due proverbi confuciani — «Il vento ulula, ma la montagna resta immobile» e «Colui che sa, non ne parla» — per dimostrare quanto in Oriente gli introversi siano rispettati e ammirati.
«In Asia gli individui si considerano parte di un insieme più grande — la famiglia, l'azienda, la comunità — e danno grandissimo valore all'armonia del gruppo. Spesso subordinano i propri desideri agli interessi del gruppo, accettando di buon grado il posto che occupano nella scala gerarchica. La cultura occidentale, al contrario, è organizzata attorno all'individuo. Ci vediamo come singole entità e riteniamo che il nostro destino sia di esprimere noi stessi, perseguire la nostra felicità, esseri liberi da vincoli indebiti».
Dove nasce il diverso atteggiamento della cultura occidentale?
«Ne La montagna incantata il grande Thomas Mann scrive che "La parola è civiltà. La parola, anche quella più contraddittoria, mantiene il contatto. È il silenzio che isola". Un atteggiamento identico a quello contenuto nelle massime di Ptah-Hotep del 2400 a.C.: "Per poter essere forte, diventa un artista della parola; perché la forza dell'uomo è nella lingua e la parola è più potente di qualsiasi arma"».
Lei sostiene che le culture latine, come quella italiana, tendono a privilegiare l'estroversione.
«L'ammirazione per gli estroversi si ritrova già fra gli antichi greci, per i quali l'oratoria era una virtù degna del massimo apprezzamento, e fra i romani, per i quali la peggiore punizione immaginabile era l'esilio dalla città e dalla sua vivace vita sociale. Il vero spartiacque in Usa è arrivato all'inizio del XX secolo, con l'ascesa del big business e della sua filosofia del "parlare è vendere e vendere comporta sempre parlare". Non è un caso che negli anni Venti e Trenta gli americani perdano la testa per le stelle del cinema. Chi meglio di un idolo della celluloide poteva rappresentare un modello di carisma e magnetismo?».
Pensa che il suo libro possa contribuire a indebolire l'egemonia del fenomeno contemporaneo che lei chiama New Groupthink, «nuovo pensiero di gruppo»?
«Credo che l'impatto del mio libro, almeno negli Stati Uniti, sia già enorme. So che diverse scuole, pubbliche e private, stanno rivedendo i loro curricula per meglio valorizzare il talento degli studenti più timidi. Lo stesso sta succedendo nelle università e in compagnie come Steel Case e Vanguard, dove si sta ripensando l'efficacia dell'open space, che secondo tutti gli studi è dannoso e controproducente».

Corriere La Lettura 14.10.12
Il 24 ottobre 2005 moriva Rosa Parks, che aveva aperto le lotte per i diritti rifiutando di lasciare il posto a un bianco sull'autobus La sarta che sconfisse il razzismo
di Paola Capriolo


Esiste, io credo, una semplicità del bene, che è l'esatto opposto di quella «banalità del male» della quale Hannah Arendt si è servita come di una chiave di lettura per comprendere la possibilità degli orrori nazisti; e forse nessuno ha incarnato questa semplicità in modo così esemplare come Rosa Parks. Semplice, Rosa lo era di origini e di condizione: una donna «di colore», cresciuta poveramente tra i campi di cotone dell'Alabama, che si guadagnava da vivere cucendo vestiti per un grande magazzino e, dopo il lavoro, militava nelle file della Naacp, l'associazione sorta per rivendicare i diritti dei neri americani, svolgendovi con modestia la «femminile» funzione di segretaria. Una modestia connaturata, che faceva tutt'uno con la sua fierezza indomabile e che l'avrebbe portata a subire quasi controvoglia la celebrità e il ruolo di eroina nazionale. Ma semplice soprattutto, di quell'ardua eppure disarmante semplicità che è il sigillo delle vere rivoluzioni, è il gesto con cui quella signora fragile e minuta arrivò a cambiare la storia del suo Paese.
Siamo negli Stati Uniti d'America, negli anni Cinquanta del Novecento. La schiavitù è stata abolita da quasi un secolo, eppure nel Sud della nazione domina ancora la discriminazione razziale. I neri sono cittadini come tutti gli altri e hanno il diritto di voto, ma per esercitarlo devono sottoporsi a un umiliante esame o trovare un bianco disposto a «garantire» per loro; la Costituzione li proclama uguali agli altri di fronte alla legge, ma in una terra dove il linciaggio è all'ordine del giorno nessun tribunale si è mai sognato di condannare un bianco per l'assassinio di un nero; da soldati, hanno combattuto come gli altri nella Seconda guerra mondiale, ma ai caduti di colore toccavano funerali, sepolture, persino colonne dei necrologi sui giornali, rigorosamente separati da quelli dei loro commilitoni bianchi, mentre quanti riuscivano a tornare a casa venivano aggrediti e malmenati dai fanatici razzisti se osavano mostrarsi in pubblico con la divisa dell'esercito americano. Nella vita di tutti i giorni, poi, la discriminazione si traduce in un minuzioso sistema di segregazione razziale, molto simile all'apartheid sudafricano: scuole, fontane pubbliche, ospedali sono rigidamente divisi tra quelli per i bianchi e quelli per i coloured; un nero non può entrare liberamente in qualsiasi bar e farsi servire una tazza di caffè, e la legge, per evitare ogni «contaminazione», gli proibisce addirittura di provarsi un vestito in un negozio. Ma la forma di segregazione più invisa agli afroamericani è quella in vigore sui mezzi pubblici, dove le prime file sono a uso esclusivo dei bianchi, mentre i neri possono occupare le ultime file, a loro riservate, oppure quelle intermedie, ma con l'obbligo di alzarsi su ordine del conducente per cedere il posto a un membro della «razza superiore» che non trovi da sedersi altrove.
Così andavano le cose negli Stati del Sud, questo era il trattamento al quale la gente di colore doveva assoggettarsi, finché, nel pomeriggio del 1° dicembre 1955, accadde qualcosa di inaspettato. Accadde che a Montgomery, capitale dell'Alabama, una sarta quarantaduenne di nome Rosa Parks, che come ogni giorno aveva preso l'autobus per rincasare dal lavoro, alla richiesta dell'autista di lasciare a un bianco il suo posto rispondesse: «No». Una parola semplice, addirittura un monosillabo; ma fu come se dietro quel «no» si radunassero a battaglia tutte le schiere degli angeli.
L'autista, sbalordito, ripete il suo ordine, ma lei rimane seduta. «Guarda», minaccia l'uomo, «che se non ti alzi ti faccio arrestare»; e Rosa risponde tranquillamente: «Sì, lei può farlo». Molti tra coloro che la conobbero affermano che quell'umile sarta aveva qualcosa di «regale», e proprio così, con la dignità di una regina, la immagino attendere l'arrivo della polizia e compiere il penoso tragitto verso il carcere. Non poteva aspettarsi niente di diverso, dato che il suo rifiuto di alzarsi equivale a un reato per la legge dell'Alabama. Rosa però è stanca: non, come dichiarerà in seguito, per la giornata faticosa, non per i piedi gonfi e la schiena indolenzita. È stanca di arrendersi, di chinare il capo di fronte all'ingiustizia, e nei giorni successivi, proprio grazie al suo caso, tutta la popolazione nera di Montgomery scopre di essere altrettanto stanca.
Per iniziativa di un gruppo di persone coraggiose, tra le quali un pastore battista ventiseienne di nome Martin Luther King, i neri decidono dunque di organizzare un boicottaggio: sugli autobus li si tratta in quel modo? Bene, allora andranno tutti a piedi. Ha inizio così una lotta che presto richiamerà l'attenzione dell'America, anzi, del mondo, suscitando intorno alla cittadina di Montgomery una straordinaria ondata di solidarietà: una lotta alla quale Rosa, rilasciata su cauzione, partecipa in prima fila, sia nei giorni che precedono il processo, sia dopo la sentenza di condanna che, «macchiandole» la fedina, la consacra per sempre al ruolo di «madre dei diritti civili».
Nonostante gli espedienti più o meno legali escogitati dalle autorità per farlo cessare, nonostante intimidazioni e violenze di ogni specie, il boicottaggio si prolunga per tredici mesi, mandando quasi in fallimento la compagnia dei trasporti, e si conclude con una vittoria clamorosa: il 13 novembre 1956, dopo un lungo e travagliato iter legale, la Corte suprema degli Stati Uniti dichiara incostituzionale la segregazione sugli autobus, primo passo di un cammino che condurrà, sia pure a prezzo di molto sangue e di molte sofferenze, alla piena integrazione razziale e che forse non sarebbe stato possibile senza il coraggio e la fermezza di una donna. Come scrisse in seguito Martin Luther King, il gesto di Rosa è «un'espressione individuale di un anelito eterno alla dignità e alle libertà umane»; a inchiodarla a quel sedile furono «il cumulo di iniquità dei giorni passati e le sconfinate aspirazioni di generazioni non ancora nate»: aspirazioni tra le quali (perché no?) poteva esserci anche quella di vedere un nero insediarsi alla Casa Bianca come presidente degli Stati Uniti d'America.
Rosa Parks non fece in tempo ad assistere a questo trionfale «lieto fine»: morì il 24 ottobre del 2005, tre anni prima dell'elezione di Obama, che da parlamentare tenne per lei un discorso commemorativo al Senato. Nel frattempo le toccò pagare caro il suo gesto, in conseguenza del quale perse il lavoro e fu bersagliata a tal punto da telefonate anonime e minacce di morte da essere costretta con il marito a cambiare città. Una vita difficile, quella dei giusti: una vita semplice in un mondo che, della semplicità, spesso non ne vuole sapere. Non credo che Rosa abbia mai pensato di aver compiuto un atto di eroismo; solo di aver fatto ciò che, in quelle circostanze, avrebbe dovuto fare chiunque. O per dirla con le sue parole: «Doveva esserci un punto d'arresto, e sembra che quello sia stato per me il punto in cui smettere di lasciarmi bistrattare e scoprire quali fossero, se mai ne avevo, i miei diritti di essere umano».

Corriere La Lettura 14.10.12
La vita e le imprese (non solo delittuose) di Giuseppe Villella Sul suo corpo il medico elaborò le teorie criminologiche Il brigante che sconfigge Lombroso
di Maria Teresa Milicia


Non è certo una novità che i resti umani rappresentino una potente risorsa simbolica. Capaci di aggregare una pluralità di significati, affettivi, religiosi, politici, scientifici, giuridici, i resti umani sono oggetti particolarmente instabili, destinati a mutare il loro valore d'uso nei diversi contesti sociali e storico-culturali. Caso esemplare, la richiesta di restituzione del cranio di Giuseppe Villella, esposto nel Museo di antropologia criminale «Cesare Lombroso» di Torino, da parte del comune calabrese di Motta Santa Lucia e del comitato «No Lombroso», divenuto caso giudiziario.
Solo una settimana fa, il giudice Gustavo Danise del tribunale di Lamezia Terme ha emesso un'ordinanza di restituzione, precedente inedito per l'Italia. Con uno scarto di molti decenni rispetto ad altri Paesi occidentali, l'Italia si scopre proiettata in un presente postcoloniale, popolato di comunità native, e impreparata ad affrontare la controversa questione della repatriation dei resti umani. Solo Adriano Favole, antropologo dell'Università di Torino e collaboratore della «Lettura», si è occupato delle «ossa della discordia», in un intervento pubblicato negli atti del convegno Dalla nascita alla morte: antropologia e archeologia a confronto, tenutosi al Museo Pigorini nel 2011.
Il coro di proteste di associazioni e movimenti «neomeridionalisti» contro l'inaugurazione del nuovo allestimento del museo «Lombroso», il 27 novembre 2009, colse di sorpresa i responsabili dell'istituzione. L'Italia è molto cambiata da quel 1985, quando il cranio del «brigante» Giuseppe Villella fu esposto nella Mole Antonelliana, in occasione della mostra «La scienza e la colpa». Centoventimila visitatori e nessuna manifestazione di dissenso. Giuseppe Villella allora non esisteva, se non come inerte reperto di una collezione scientifica.
Ma chi era Giuseppe Villella, prima di rinascere come simbolo della «riscossa dei terroni»? Sono andata in Calabria a cercarlo, a Motta Santa Lucia che, insieme al museo Lombroso e alla rete Facebook «No Lombroso», sono i luoghi della mia ricerca. Ho trovato il mito attuale del brigante o patriota che combatte contro l'invasione coloniale, ma non la memoria vivente di Villella. Per ricostruire la sua biografia ho dovuto attingere alle scarne e contraddittorie notizie che ci ha lasciato Lombroso. A partire dal verbale dell'autopsia eseguita il 16 agosto 1864, custodito nell'archivio Lombroso a Torino. La scoperta della prova scientifica dell'«atavismo criminale» attraverso l'esame della forma del cranio di Villella, bollato così quale «delinquente per nascita», è descritta come una rivelazione improvvisa nel grigiore dell'alba che preannuncia l'astro nascente dell'antropologia criminale. Se di rivelazione si tratta, come spiegare il lasso di tempo intercorso fra il 1864 e il 1871, anno della prima pubblicazione di Lombroso sulla fossetta occipitale mediana di Villella?
Per avvalorare il mito dell'autopsia rivelatrice gli allievi di Lombroso ne posticiperanno la data. Al 1870, perfino al 1872, nella biografia della figlia Gina. Il «depistaggio» si è tramandato in tutta la letteratura successiva. Anche dopo che lo storico Renzo Villa (Il deviante e i suoi segni, 1985) aveva segnalato le numerose varianti dell'aneddotica su Giuseppe Villella. A partire dall'età, che varia dai 60 ai 72 anni. Per non parlare poi dell'esame obiettivo delle caratteristiche fisiche. Il «brigante» calabrese, da tutto «stortillato» che era, nel susseguirsi delle stesure diviene agilissimo, come si conviene a un uomo «prossimo ai lemuri». L'unico elemento costante è la qualifica di ladro, per tre o quattro volte recidivo.
La data di morte del verbale dell'autopsia, trascritta con il lapis sul cranio conservato al museo, e la condanna per furto sembrano i dati più attendibili. Il primo documento è emerso all'Archivio di Stato di Catanzaro. Il 19 giugno 1844 la Gran corte criminale condannava Giuseppe Villella fu Pietro, di anni 35, di Motta Santa Lucia, a sei anni di reclusione per complicità in furto. Dall'esposizione dei fatti risulta che la notte del 29 luglio del 1843, Villella, con un complice, aveva sottratto a un possidente cinque ricotte, una forma di cacio, due pani e due capretti. Non si tratta, ovviamente, della sentenza che condurrà Giuseppe Villella a scontare la sua ultima pena nel carcere di Pavia.
L'arresto e il processo devono essere successivi al 1861, dopo l'annessione del Regno delle Due Sicilie. Ci vorranno ulteriori ricerche per trovare il documento dell'ultima condanna. Di fatto, una condanna a morte per tanti detenuti che venivano trasferiti a mille ottocenteschi chilometri di distanza dai loro familiari. Abbiamo il nome del padre, che risulta defunto all'epoca del processo, e un riscontro con le accuse di furto riportate da Lombroso, ma non tornano i conti con nessuna delle diverse età di Villella. Il condannato del 1844 avrebbe avuto 55 anni nel 1864. Le conferme dell'esistenza di un Giuseppe Villella sono emerse dall'archivio parrocchiale e dall'archivio comunale di Motta Santa Lucia. I genitori di Giuseppe Villella, Pietro e Cecilia Rizzo, si sposarono nel 1791 ed ebbero quattro figlie femmine. L'ultima, Maria Petruzza, pochi mesi dopo la morte del padre nel marzo del 1810. Giuseppe doveva avere allora non più di nove anni. Non avremo forse mai la sua data di nascita: l'archivio parrocchiale ha una lacuna che va dal 1802 al 1821, mentre i registri civili partono solo dal 1809. L'atto di morte ci dice che Pietro Villella faceva il pecoraro. Il 23 aprile del 1830 Giuseppe appare per la prima volta negli archivi. A 28 anni, di professione pecoraro come il padre, si sposava con Anna Serijanni. Nell'elenco dei documenti allegati si legge la formula «sulla fede di nascita dello sposo», a conferma dell'assenza di un atto di nascita o di battesimo. Da questo momento in poi, la sua cartacea storia di vita trascorre da un registro all'altro, dove si fissano le nascite dei suoi cinque figli: Maria Teresa, Nicola, Saveria, morta di parto nel 1868, Francesca, che morirà a soli quattro anni, e Angela Rosa.
Giuseppe non ricordava mai bene la sua età. D'altra parte, a quei tempi solo i re e i santi festeggiavano il compleanno. Nel 1839 dichiarava 31 anni. Nel 1848 registrava di persona la nascita di Francesca — segno che aveva ottenuto una sospensione della pena — e dichiarava di averne 45. Appena quattro anni prima, lo troviamo trentacinquenne sul banco degli imputati. Alla nascita dell'ultima figlia ne dichiara 50. Non è un caso di ostinata e plurima omonimia. Nell'elenco dei morti di Motta Santa Lucia, che parte dal 1801, c'è solo lui, Giuseppe Villella, figlio dei furono Pietro e Cecilia Rizzo, morto a 60 anni nel 1864. Nella serie archivistica «Atti Diversi», estratta da un polveroso magazzino a Motta Santa Lucia, il 26 agosto 2012, appare la trascrizione dell'atto di morte nell'Ospedale civile di Pavia, con un ultimo colpo di scena: la data è il 15 novembre del 1864 e non il 16 agosto, come riporta il verbale dell'autopsia. La storia incompiuta di Giuseppe Villella è ancora da scrivere, come la storia incompiuta degli italiani.
Ricercatrice di Antropologia culturale all'Università di Padova