lunedì 15 ottobre 2012

l’Unità 15.10.12
Bersani lancia la sfida: il Pd è la sola speranza
Dalle «radici» di Bettola il segretario lancia la sua sfida del cambiamento
A Renzi che lo accusa di non essere stato di parola ricorda lo statuto cambiato solo per lui
di Simone Collini


«Mio padre era capace di abbandonare tutto, qui in officina, se arrivava un bambino con la bicicletta rotta a chiedere aiuto». Ci pensa un po' su. «Ecco cosa vuol dire darsi da fare». Poi Pier Luigi Bersani si guarda intorno, il ponte meccanico con sopra una macchina da riparare, strumentazioni elettroniche moderne, una vecchia Due cavalli faccia al muro. «Qui non era mica così in grande. Si era partiti dal niente. C'erano i fondamentali. C'era la voglia di rimboccarsi le maniche».
Lui aiutava fuori, alla pompa di benzina. Qui dentro in officina no, pensava a tutto Giuseppe, che tutti chiamavano Pino. Che votava Dc. E che era tutt'altro che entusiasta del modo in cui il figlio minore impiegava il suo tempo libero. Poco distante da questo distributore Esso c'è il “Bar Colombo”. «Lì feci il mio primo comizio. Mi ricordo, era un lunedì di mercato, la piazza era piena. Ad ascoltarmi ci saranno state sì e no venti persone. Le idee che portavo non è che fossero di una popolarità smisurata. Ma la vera ansia era attraversare il ponte e ascoltare quello che poi avevano da dirmi a casa. Ma ci vuole coraggio. Io ci ho messo coraggio. Quello che ora voglio risvegliare negli italiani, che come hanno saputo reagire in passato di fronte a difficoltà gravi oggi devono accettare uno sforzo comune, perché chi ha di più deve dare di più, con spirito di solidarietà». Nell'officina entra il fratello, Mauro. Il distributore è invece rimasto al cugino, Sergio. Entra anche qualche vecchio amico. Abbracci, risate, occhi che all'improvviso si fanno lucidi. «I ricordi arrivano a folate».
E allora conviene lasciarsi andare alle battute, per non cedere troppo alla commozione. «Quel ponte? No, non ci entrerebbe un camper. Ma non è un problema, facciamo una deroga e lo allarghiamo. Convocando l'assemblea nazionale? Macché, non c'è bisogno, lo facciamo subito». E suo nipote, quel bambino che stava con suo fratello e che chiedeva di Renzi? «No, no, è figlio di amici, non è mio nipote», mette in chiaro. E giù una bella risata per scaricare la tensione.
Bersani parte dalle radici per la sfida del «cambiamento». Torna a Bettola, suo paese natale, per il via della campagna elettorale. Poi toccherà al Cern di Ginevra, e dopo i luoghi dell' eccellenza italiana toccherà a quelli della crisi, ai simboli della necessità di ricostruire, e quindi a L'Aquila. Perché le primarie sono la prossima tappa, ma l'obiettivo è Palazzo Chigi. «Mi sono posto questa domanda: uno che si candida, cosa deve dire? Quel che farà, sì. Ma prima di tutto chi è. Troppo spesso le parole sul futuro sono state al vento. Non è questa la nostra consuetudine. Io favole non ne racconterò. Se qualcuno le vuole scelga altri, io non sono capace. Ma intanto il passato è scritto, c'è». Ecco perché ha scelto di cominciare da qui il percorso che lo dovrebbe portare al governo. Perché per lui la politica è ancora «essere fedeli agli ideali della gioventù», citando le parole di Enrico Berlinguer. «Ho fatto tante cose», dice ricordando gli anni da presidente di Regione, quelli da ministro. «Ma il Bersani vero è questo qua, tra il distributore e l'officina, dove stanno le mie radici. Il Paese ha bisogno di cambiamento, ma le foglie nuove possono venire solo se ci sono le radici». E pazienza se Renzi manda a dire che «vanno tagliati i rami vecchi». Gli si può rispondere che «non può essere lui a decidere quali tagliare». Poco importa che il sindaco di Firenze lamenti che sulle regole delle primarie Bersani «non è stato di parola». Gli si può ricordare che è stato cambiato lo Statuto del Pd per permettergli di candidarsi «e sfido chiunque a dubitare della nostra volontà di apertura». Ma lo si può fare così, senza dedicarci più che una battuta. «L'insegnamento fondamentale che mi è venuto da quell'officina è che la vita reale, la vita comune dei cittadini viene prima di ogni altra cosa, della comunicazione, dell'interpretazione politica, e io terrò fermo questo punto».
Nella piazza principale del Paese, dove c'è quel «Bar Colombo» del primo comizio, è stato montato un palchetto di non più di cinque metri quadrati e corredato della sola scritta «Il coraggio dell'Italia». Più una grande chiave inglese in polistirolo grigio, con in rosso «costruiamo il futuro». Si sta accalcati, stretti tra la chiesa e il municipio. In prima fila c'è chi tiene un lenzuolo, con su scritto: «Noi aggiustiamo, non rottamiamo». Si aspetta che finisca la messa. Poi si aspetta che il gruppo di musica popolare finisca di suonare un valzer. Chitarra, violino, fisarmonica e piffero, prodotto dall'ultimo artigiano rimasto a costruirlo, in una valle qui a fianco, Bobbio. Gliel'ha chiesto Bersani di venire a suonare qui. Il valzer, il piffero, un' Italia sparita. «No, ti sbagli». Il sorriso di chi è convinto di saperla lunga. Poi sale sul palchetto ed è da qui che dice che «Monti deve continuare a dare un contributo al Paese», che il prossimo governo deve mandare avanti «il meglio dell'esperienza» dell'attuale esecutivo. È il giorno dopo la presentazione della «carta d'intenti», e sui giornali si sottolinea l'assenza di espliciti riferimenti all'operato dell'attuale premier. «Mi misurano il tasso di montismo, mi fanno il prelievo tutte le mattine. Cosa devo dire? Lo abbiamo voluto noi Monti, abbiamo lavorato per questa scelta. E lo sosteniamo, anche ingoiando bocconi amari. Se non ci fossimo rotti le gambe noi a correre ogni volta a votare la fiducia, con una destra che non c'è più, hai voglia dov' era questo governo». Però in futuro no, un Monti-bis, un governissimo col Pdl «non esiste».
Si vota tra sei mesi circa, ma ieri era il quinto anno dalla nascita del Pd. «In molti erano scettici allora, ma è diventato il primo partito. Con i suoi limiti e con i suoi difetti, questo bambino qui è l'unica speranza del Paese».

La Stampa 15.10.12
Il giuramento di Bettola
“La ruota del cambiamento girerà”
di Federico Gremicca


Poi, giusto alla fine, si capirà ancora meglio perché ha voluto cominciare da qui, da queste quattro case spalmate sotto gli Appennini. Che sono state il suo mondo per un bel pezzo, un mondo antico - severo e pulito chiuso in duecento metri o poco più: il palazzo scolorito dove è nato, al numero 33 di Viale Vittoria; di fronte, l’officina e la pompa di benzina dove ha lavorato col fratello e col papà; poi, cinquanta metri in là, il palazzotto che la famiglia costruì quando Pier Luigi aveva 10 anni o poco più.
Dal palchetto sistemato nell’enorme piazza Cristoforo Colombo di Bettola, aveva detto: «Chi si presenta agli italiani, deve certo dire quel che farà: ma soprattutto quel che è stato e quel che è: io fatto tante cose, ma il Bersani più vero è questo qui, cresciuto tra gente vera, un’officina e un distributore di benzina». Ed è appunto di fronte a questa gente che Pier Luigi Bersani avvia la sua campagna per le primarie, con un impegno che sembra il preludio a un terremoto: «Io dico solo questo: teniamo un filo logico mentre gira la ruota del cambiamento. L’anno prossimo, se vinceremo, saremo al governo e faremo un congresso: e allora vedrete se la ruota del cambiamento girerà. Io vi dico: eccome se girerà. Ma con rispetto e serietà...». I vecchi compagni ascoltano e si spellano le mani; i giovani che sono in piazza ancor di più.
Un’ora dopo Bersani è a tavola con le figlie, con Vasco Errani e qualche amico del bel tempo che fu: e non si turba quando gli si chiede se possiamo definire il suo discorso «il giuramento di Bettola». «Ma sì, può chiamarlo così, se non lo riduce a barzelletta. Del resto - dice - noi sosteniamo Monti ma diciamo che c’è molto da cambiare... ». In verità, pensavamo soprattutto al necessario cambiamento del Pd, di fronte alla rabbia di tanti militanti che non vorrebbero votare Renzi, ma s’infuriano a leggere di organigrammi futuri con sempre gli stessi nomi a fare i ministri e i presidenti: «Questo può darlo per scontato - dice -. Non succederà. Quella roba è carta straccia. Il cambiamento, però, dev’essere una cosa seria: perchè se si vogliono foglie verdi e nuove, non bisogna tagliare le radici...».
La prima differenza, dunque, è definitivamente cancellata: Renzi vuole rottamare, Bersani cambiare, e la sostanza - alla fine - potrebbe essere la stessa. Lo stile, certo, no: e infatti a Matteo che dice «va bene tenere le radici, ma tagliamo i rami secchi», Pier Luigi replica «sono d’accordo, a patto che non si pensi che a decidere quali sono i rami secchi sia uno solo: non ci piace questa favola del solito uomo solo al comando... ». Naturalmente, sono d’accordo anche su altro, i due sfidanti: che dopo Monti non c’è Monti, ma piuttosto uno di loro; che per governare bisognerà tenere assieme sinistra e centro; e che anche in Europa qualcosa dovrà cambiare. E la differenza che resta, allora, in fondo sono loro, proprio loro: che paiono parlare a due Italie che ormai non si somigliano nemmeno quasi più.
Bersani parte dal suo piccolo mondo antico, i ritmi lenti, la gente operosa, i valori, il lavoro, il lavoro il lavoro, la parrocchia e la sezione, poi il bar con la tv dove vedere la domenica la partita tutti assieme; Renzi comincia a rottamare alla Leopolda, un pezzo di ‘900 che non c’è più, usa slide, filmati e musica nei suoi eventi, viaggia in camper (in jet, talvolta...), è fico, veste alla moda e parla soprattutto a una generazione disperata, «la prima, dal dopoguerra, che sta peggio di quella che l’ha preceduta». Due Italie, appunto. Con una che lentamente (e magari purtroppo...) cede il passo all’altra: del resto, Pier Luigi potrebbe essere il papà di Mattero, come Lucia Annunziata (nella sua «In 1/2ora») fa notare al leader Pd con cortesia...
Non è irrilevante tutto ciò: e non soltanto al fine di questa sempre più sorprendente battaglia delle primarie. Non è irrilevante perchè, a meno di improvvisi terremoti, il nuovo capo di governo sarà uno dei due. Ed è tanto poco irrilevante che sarebbe forse il caso di rovesciare l’appello che Bersani ripete da settimane (durante le primarie parliamo dell’Italia): sarebbe il caso, insomma, che fosse l’Italia a occuparsi di quel che è in gestazione tra Bettola e Firenze, visto che chi vincerà impugnerà - probabilmente - le redini dell’intero Paese.
L’Italia di Bersani, intanto, accoglie Pier Luigi come si fa col figliuol prodigo, o come il compaesano che è andato all’estero e ha fatto fortuna. Lo conoscono tutti - fin da quando a 10 anni organizzò il suo primo sciopero: lo sciopero dei suoi amici chierichetti - ed escono tutti dalle case per abbracciarlo o, almeno, salutarlo. L’officina e il distributore della Esso - quello dei Bersani, all’inizio del paese - gronda gente, commozione e antichi sentimenti. «Mica era così, all’inizio - dice Pier Luigi tra copertoni d’auto e vetture da riparare -. Ci si è ingranditi grazie al lavoro, ad un così tanto lavoro che si fa persino fatica a immaginarlo». Il cugino Sergio, che è qui ad ascoltarlo, è la prova vivente di cosa sia e di come ragioni questo pezzetto di mondo antico. Spiega: «Io ancora non so se voterò alle primarie. Renzi dice molte cose condivisibili, anche se tra quelli che vuole rottamare c’è tanta gente di buonsenso... ».
Sotto il palco di piazza Cristoforo Colombo è un tripudio. Qualche bandiera del Pd e qualcun’altra della Federazione dei gestori degli impianti di idrocarburi... Con una concessione al leaderismo così di moda (ed a lui così estraneo) con Pier Luigi ci sono la moglie e le figlie, compaiono su Twitter le sue foto da bambino con la mamma e col papà ma si vede che lui non è a suo agio, che qualcuno l’ha consigliato. Bersani, insomma, è assai più Bersani quando, con qualche solennità, pronuncia il suo «giuramento di Bettola»: la ruota del cambiamento girerà, eccome se girerà... E ha già cominciato, forse, se giusto nel quinto anniversario della nascita del Pd, il suo primo segretario annuncia che rinuncia al Parlamento. Renzi però non c’entra, dice Veltroni. Magari c’entra Bersani, allora. Ma chissà...

Corriere 15.10.12
Il Pd sceglie i miti del passato per costruire una nuova identità
di Pierluigi Battista


Foto in bianco e nero, nostalgia del passato, la vecchia pompa di benzina contro lo spettro dello sradicamento, dell’identità incerta, della liquidità postmoderna. Ecco come Bersani presenta se stesso: l’uomo del buon tempo antico, il tempo in cui tutto sembrava più solido. Il tuffo nel «come eravamo» per esorcizzare la paura del presente e attutire i colpi dei super-modernizzatori. Le rivendicazione delle radici contro i potatori di «rami secchi» come il baldanzoso Matteo Renzi. Le foto in bianco e nero, la nostalgia del passato, la vecchia pompa di benzina contro lo spettro dello sradicamento, dell'identità incerta, della liquidità postmoderna. Ecco come Bersani presenta se stesso: l'uomo del buon tempo antico, il tempo in cui tutto sembrava più solido.
E proprio nel giorno in cui Walter Veltroni compie il celebre «passo indietro», proprio quando la macchina schiacciasassi del giovane Renzi sembra procedere con progressione inesorabile, e mentre l'oligarchia del Pd, con Veltroni che se ne va per conto suo, appare sempre più polverosa, antiquata, rancorosamente abbarbicata ai riti della nomenclatura, Bersani cerca di rispondere così a chi chiede chi e cosa sia il Pd: siamo quelli di ieri. Non è vero che il Pd sia un partito leggero, che ha reciso le sue radici, che è prigioniero della volubilità e dell'instabilità, che è senza padri e senza carta di identità. Il Pd è il buon tempo passato. Nella sua «carta di intenti» con cui ritrova un lessico comune con Vendola c'è il mito del lavoro industriale che si è volatilizzato, delle manifatture che non esistono più ma trasmettono un messaggio di concretezza e di tangibile consistenza materiale, dell'Italia con i calli alle mani anche se il lavoro manuale, quando esiste, è quasi monopolio degli immigrati. Bersani ritrova Vendola perché c'è il passato del vecchio Pci che unisce i ricordi di chi si riconosce in pieno del Novecento della «carta di intenti». E può rompere con Di Pietro, campione di una stagione giustizialista che è un'altra cosa dal laburismo in cui vorrebbe risorgere il postcomunismo. Può distanziarsi finalmente da Mario Monti, rappresentante di un'Italia che merita rispetto ma che in fondo non piace, o comunque è un'altra cosa, estranea alla storia antica cui ci si vorrebbe ricollegare. Può chiudere la parentesi veltroniana, e infatti Veltroni testimonia il suo disagio con un gesto di rinuncia, di un partito che prometteva di andare «oltre», di rompere con il quadro tradizionale della sinistra d'antan, di saper parlare con mondi diversi, di sapersi immergere nel flusso disordinato ma vitale della modernità. No, ora il Pd bersaniano vuole riallacciare i legami simbolici che sembravano spenti. Prima che arrivi la tempesta renziana, o forse per evitare che il messaggio di Renzi attecchisca, che il taglio dei «rami secchi» non diventi il rovesciamento rivoluzionario di una storia oramai stanca e logorata, Bersani vuole raccontare con il suo linguaggio, con la sua commozione, con l'omaggio alla figura paterna, con il ricordo di un'Italia orgogliosa delle sue tradizioni e del suo lavoro, un Pd che non merita il (mal)trattamento che la sfida di Renzi ha reso possibile.
Il Pd nuovo partito «socialdemocratico» e non più «democratico»? Ma queste sono etichette, terminologie su cui si accapigliano militanti e osservatori che erano già più che maturi quando il muro di Berlino è crollato. Forse è meglio dire: un partito che vuole riannodare un legame con il mondo, i riti, il lessico, i simboli e le bandiere che della socialdemocrazia vecchio stile erano l'ossigeno. Un ritorno indietro che è anche un richiamo della foresta. L'identità forte invece della malleabilità e duttilità moderne: questo dice Bersani da una vecchia pompa di benzina, mentre Veltroni si fa da parte e Renzi si fa sempre spavaldo con il suo messaggio di demolizione dei «rami secchi», delle oligarchie che reggono il partito da decenni e che parlano un linguaggio incapace di interpretare i nuovi tempi. Un Bersani vintage, che promette di trovare nella cassapanca di famiglia oggetti, fotografie, opuscoli, ricordi, cianfrusaglie di un passato pieno di storie e di passioni. E che appunto, come nella voga del vintage, sappia recuperare il vecchio per dargli una patina di nuovo, di confortevole, di meno rutilante e chiassoso, ma più affidabile e duraturo. Che questo comporti un richiamo al proprio mondo ma anche un'impenetrabile saracinesca abbassata per non far entrare l'Italia che ha votato dall'altra parte e che oggi si ritrova sbandata e frastornata, per gli estensori della «carta d'intenti» forse è solo un effetto collaterale. Non per Renzi e per la sua offensiva «nuovista» che invece potrebbe sfondare e stravincere con quell'Italia non entusiasta dell'asse Bersani-Vendola. Ma questa è un'altra questione. Questione di primarie.

Repubblica 15.10.12
L’elogio del buon partito
di Ilvo Diamanti


Bersani, già governatore dell’Emilia Romagna: ritorna alle origini, nei luoghi dove è nato e cresciuto. Renzi, presidente di Provincia e sindaco di Firenze: in viaggio per le strade e i borghi d’Italia. Renzi e Bersani. In questa campagna per la candidatura a premier del Pd, hanno entrambi inteso marcare il loro legame – biografico e politico – con l’Italia delle Città e delle Regioni.
Fa strano questa scelta comunicativa, proprio quando il territorio sembra affondare. Oscurato dalle politiche del governo. Perché Regioni, Province e Comuni sembrano divenuti centri – pardon, periferie – di spese utili solo al malaffare. Tanto più dopo gli scandali che hanno travolto il Lazio e la Lombardia, insieme al comune di Reggio Calabria. Così il governo Monti, alla disperata ricerca di risorse e di spese da tagliare, ha dimezzato le province; ha, inoltre, ridotto i poteri delle regioni. Con leggi – e per ragioni – di bilancio. Senza bisogno di giustificare nulla. Politicamente. A tal punto sono ormai squalificati i governi territoriali. Insieme alla politica, i politici e i partiti. Ispirati alla logica degli affari (propri) piuttosto che dagli interessi dei cittadini. Non solo a livello centrale, ma ancor più nei contesti locali. Corrotti e inquinati dalle molteplici mafie che dal Sud si sono propagate nel Nord. Perché ormai tra mafia, politica e amministrazione locale è difficile discernere. Questo è il pensiero comune e dominante. Espresso
non solo dalla gente comune, ma dagli stessi esponenti della classe dirigente. Politici compresi. Da ciò lo slogan di successo, in questa fase. La nemesi. La “tabula rasa”. Mentre nel Paese si respira un sentimento antipolitico “senza se e senza ma”. Metà degli elettori non sa “per che” e “per chi” votare. I partiti e lo stesso Parlamento sono delegittimati. Anzi peggio. Deprecati. Lo slogan che va per la maggiore è l’elegia del Nuovo contro il Vecchio. Che non ha lo stesso effetto di vent’anni fa. Soprattutto perché l’abbiamo già sentito risuonare. Vent’anni fa. Così non sorprende il successo di Monti. L’Impolitico. E non sorprende, a maggior ragione, il sostegno alle politiche del governo, che mirano a ridurre lo spazio e il peso dei governi locali.
Tuttavia, dai duellanti che si affrontano alle primarie vorremmo sentire parole chiare sul futuro della politica, del rapporto fra partiti, territorio e società.
Walter Veltroni, a questo proposito, ha offerto un contributo importante. Al dibattito politico e delle primarie. Si è tirato fuori. Non dal partito e dalla politica, ma dal parlamento. Ieri sera, nella trasmissione di Fabio Fazio, ha, infatti, annunciato che non si candiderà alle prossime politiche. Non per adesione alla “retorica della Rottamazione”. Ma per continuare, in altro modo e su altri piani, “l’impegno civile, la battaglia di valori sulla legalità”. In altri termini: la politica. Mi pare un buon esempio. (Che altri, ben prima di lui, avrebbero dovuto dare). Ma soprattutto, una buona indicazione per il dibattito del Pd. Per Renzi e Bersani. Al di là dell’elegia del Nuovo, oltre alla questione del dopo-Monti (: Monti). Occorre decidere sui luoghi e i modi per “innovare” la politica. E il Pd. Occorre sciogliere l’equivoco. Circa l’origine della delusione e della corruzione che ha coinvolto la politica e i governi locali. Se ciò avviene non è solo — né soprattutto — a causa dei politici, della politica e dei partiti. È, semmai, vero il contrario. Che i partiti, i politici e la politica sono troppo deboli. La loro presenza nella società e sul territorio è troppo fragile. Quasi inesistente. Perché la società e il territorio hanno perduto il contatto con gli eletti. I quali raramente, quasi mai, seguono l’esempio di Veltroni. Anzi, perlopiù smettono di frequentare il territorio e la società. E se le organizzazioni illegali condizionano il voto, a livello locale, è perché la società civile e i partiti non sono capaci di contrastarle. Perché la ‘ndrina e le altre mafie, nel Sud e ora anche al Nord, riescono a raccogliere più voti e preferenze delle organizzazioni politiche, sociali e professionali. Perché non ci sono più partiti di massa, dotati di identità e valori, radicati nel territorio e nella società. Perché lo stesso associazionismo e il volontariato: si sono anch’essi istituzionalizzati. Divenuti, in numerosi casi, servizi pubblici, supplenti e dipendenti rispetto agli enti locali. Come suggeriscono i bilanci delle associazioni, costituiti, in misura rilevante, da contributi pubblici e spese di personale (i “volontari di professione”).
Quanto alle fondazioni “culturali” e “politiche”, sono spesso canali per drenare soldi a fini non sempre “politici” e “culturali”.
A mio avviso, oggi il problema non è l’eccesso di politica e di governo locale. Ma l’esatto opposto. La debolezza della politica, espressa da partiti personalizzati e mediatizzati. Sradicati dalla società e dal territorio. Dove l’associazionismo e il volontariato appaiono sempre più istituzionalizzati.
Per questo, io vorrei più politica e più società. Più politica e partiti nella società. Più società nella politica e nei partiti. Senza professionisti della politica — del sindacato, dell’associazionismo professionale e volontario — “a vita”. Vorrei più volontari veri — in politica e nei partiti. Ma anche nella società e nelle associazioni. Più volontariato nello Stato. E meno Stato nel volontariato. Senza rinunciare al ruolo assunto dalle autonomie territoriali.
In un Paese come il nostro, arricchito e unificato dalle differenze locali, dissolvere le autonomie significherebbe semplicemente dissolvere lo Stato. I suoi elementi e i suoi fondamenti. Senza il territorio, i partiti e il Pd per primo: diventano “liquidi”.
Bersani e Renzi vengono entrambi dal “cuore rosso” dell’Italia (come lo ha definito Francesco Ramella), dove il rapporto fra politica e società era particolarmente forte. Mi aspetto che ci dicano “qualcosa di politico”. La loro idea. Per andare oltre il Berlusconismo. Che è, anzitutto, politica senza territorio. E senza società.

l’Unità 15.10.12
Il Pd doppia il Pdl. Un partito Monti varrebbe il 20%
di Carlo Buttaroni


La Seconda Repubblica sta finendo come è finita la prima. Sono passati vent’anni. E l’opinione pubblica è nuovamente di fronte a vicende giudiziarie che riguardano la politica. O, meglio, una parte della politica. La caduta della Prima Repubblica fu una tragedia per la statura dei leader coinvolti, questa sembra una farsa per la variopinta galleria di personaggi, talmente improbabili da sembrare caricature di loro stessi.
Colpisce l’analogia tra le due epoche: nella primavera del 1992 la leva per scardinare il sistema politico, messo alla sbarra dalla magistratura e dall’opinione pubblica, fu individuata nella riforma elettorale. La convinzione era che il passaggio dal sistema proporzionale a quello maggioritario, insieme all’abolizione delle preferenze, avrebbe fatto pulizia. Com’è andata a finire, dopo due decenni, è sotto gli occhi di tutti. Oggi, la speranza è di nuovo affidata a una riforma elettorale, che, paradossalmente, potrebbe segnare il ritorno al vecchio sistema proporzionale e alle preferenze. Cioè, a quelle norme abrogate anni fa.
Il punto è che non c’è norma che tenga fronte alla spudoratezza. D’altronde Franco Fiorito che nell’immaginario collettivo ha occupato il posto che fu di Mario Chiesa è stato eletto con decine di migliaia di voti. E probabilmente sarebbe diventato consigliere anche se candidato in un collegio uninominale. La legge, d’altronde, può essere un deterrente ai reati, ma può solo sanzionarli, non prevenirli.
Proprio la storia degli ultimi vent’anni dovrebbe insegnare che nemmeno il miglior sistema elettorale può placare famelici appetiti. Non bastano le riforme elettorali a diradare le nebbie e far uscire i partiti dall’atmosfera cupa che li avvolge. L’unico antidoto è dato dalla buona politica e dalla consapevolezza che questa è l’unico strumento per un reale cambiamento. Per cambiare non basta l’adesione a un rito di espiazione collettivo, un grido isolato di sdegno. La metà degli elettori che non è in grado (o non ha voglia) di scegliere un partito rappresenta un’evoluzione degenerativa, che si alimenta delle vicende di cronaca giudiziaria ma anche del dissolversi di opzioni alternative. Se tutto appare grigio, nessuna scelta è utile. I processi cognitivi e decisionali hanno bisogno di campi di contrasto chiaro che agiscono sullo stesso terreno. Oggi, invece, le polarità che si oppongono operano su piani diversi e mettono di fronte la politica e l’antipolitica, i politici e i tecnici, la partecipazione e l’astensione. Tutto ciò spinge l’Italia fuori dall’orbita delle democrazie mature. Per l’opinione pubblica il centrosinistra, guidato dal Pd, sembra essere l’unico soggetto iscritto in un campo politico. Sul lato opposto c’è Grillo, oppure l’astensione. Mentre la parte che per vent’anni ha rappresentato l’altra quota del bipolarismo (il centrodestra a marchio Berlusconi) non esiste più, liquidata dal suo stesso ispiratore e fondatore. La corsa del Pd è solitaria. Non ha un competitore su cui misurarsi, con cui confrontarsi, da cui prendere le distanze e tentare la volata. E questo, alla fine, è un danno per la democrazia e per lo stesso partito di Bersani.
Il modello che per vent’anni ha significato per gli italiani scegliere tra centrosinistra e centrodestra, oggi non c’è più. Al suo posto un ventaglio di possibilità che non rappresentano alternative dello stesso campo. Anche i sondaggi riflettono la distonia del sistema. Gli elettori che dichiarano il proprio orientamento di base (centrodestra o centrosinistra) si dividono quasi a metà, con una leggera prevalenza dello schieramento progressista. Ma quest’orientamento non ha riscontro con le intenzioni di voto, che tendono, invece, a disporsi prevalentemente verso il Pd e il centrosinistra.
L’ABISSO
La distanza tra le due principali forze politiche supera ormai i tredici punti percentuali. Un abisso. E mentre il Pd continua a crescere in termini di consensi, il Pdl continua a perdere voti, tanto che pochi punti percentuali dividono il movimento di Grillo dal partito di Alfano e Berlusconi. L’apertura di quest’ultimo alla nascita di un polo moderato che faccia riferimento a Mario Monti s’innesta in questo scenario di dissolvenze. L’obiettivo, evidentemente, è quello di spostare la messa a fuoco sulla scelta tra «politica» e «tecnica». Perché, se la contrapposizione dovesse essere solo sul piano politico, il centrodestra al momento sarebbe destinato alla sconfitta. Così come non potrebbe reggere una competizione basata sul confronto tra politica e antipolitica, perché l’astensionismo e la grillo-ribellione diventerebbero, nell’opinione pubblica, l’alternativa al centrosinistra. Sostenere i tecnici, per beneficiare dei consensi che continua ad avere il governo, deve essere sembrata l’unica strada percorribile a un centrodestra in deficit di elettori e di leadership. Nonostante le differenze con Monti su temi fondamentali come l’economia, l’Europa, la giustizia. E indipendentemente dalle reali intenzioni di Mario Monti. Ciò che conta, per il centrodestra, è scegliere un terreno di gioco.
E una parte del campo dove iniziare la partita. La decisione di Berlusconi, ben lungi dall’essere un semplice passo indietro, rappresenta il tentativo di cambiare i termini della competizione e far diventare i tecnici l’alternativa al centrosinistra. Ma la tattica, finalizzata a una quadratura provvisoria della contabilità elettorale, ha un respiro corto, come hanno giustamente fatto notare Casini e Fini. La nascita di un polo moderato può recuperare, invece, una visione strategica e un respiro lungo, nel momento in cui l’alternativa è tra visioni politiche che si misurano sullo stesso campo. E ciò gioverebbe anche al centrosinistra, per vent’anni perimetro variopinto dell’alternativa al berlusconismo. Tanto eterogeneo che, anche quando ha vinto le elezioni politiche, ha dato vita a governi con spazi di manovra ridotti al minimo a causa delle contrapposizioni e dei veti incrociati dei partiti.
Il «polo moderato» ha molti nodi da sciogliere prima di poter rappresentare la sponda politica che si contrappone a quella democratica e socialista. A cominciare da questioni fondamentali: lo sviluppo, il ruolo dello Stato, il funzionamento dei mercati, l’Europa, l’euro, l’immigrazione, la giustizia, il welfare. Mario Monti rappresenta una scorciatoia, non un denominatore comune che tenga insieme visioni diverse o contrapposte.
PROPOSTE DI GOVERNO
Per il momento è tattica. Ma il nuovo scenario, seppur ipotetico, impone un’accelerazione anche al Pd e a tutto il centrosinistra, rispetto a quella che sarà la cifra della proposta di governo. E questo indipendentemente dall’esito delle primarie. La politica del centrosinistra deve trasferirsi dal piano delle procedure e delle alleanze, a quello della proposta politica, dando sostanza a un programma chiaro rispetto ai temi del lavoro, dello sviluppo, dell’ambiente, delle politiche pubbliche, dell’uguaglianza. Argomenti chiave che han-
no pagato il prezzo prima al berlusconismo, poi alla coabitazione forzata nel governo dei tecnici. Ora, però, hanno bisogno di esprimersi compiutamente per rappresentare un’offerta politica. E, per fare questo, bisogna mettere un punto alla favola delle scelte tecniche neutrali, perché nemmeno la tecnica è neutra nel momento in cui agisce in una determinata direzione. Bisogna far tornare, cioè, la politica alla responsabilità delle scelte, perché è l’unica strada per invertire il deterioramento del sistema. Il problema dell’Italia non è la domanda, ma l’offerta politica, problema che ha il suo punto di ricaduta nell’inaspettato protagonismo di personaggi che non troverebbero mai spazio in un sistema in cui gli anticorpi del controllo sociale fossero in grado di contrastarne la diffusione. Anche la crisi economica attende delle risposte forti. Le grandi corporation che influenzano i destini degli Stati nazionali possono essere contrastate solo da una politica che si nutre della partecipazione di milioni di cittadini, che ha il respiro dei popoli che scelgono con consapevolezza il loro futuro.

Corriere 15.10.12
Elettori democratici divisi dalle alleanze. Ma il 48% è per Vendola
di Renato Mannheimer


C om'è naturale, alla vigilia di elezioni importanti come quelle della prossima primavera, in entrambi i partiti maggiori si stanno manifestando conflitti significativi, relativi a scelte relative ad alleanze e leadership.
Nel partito di Bersani è in discussione la relazione con Vendola. Che appare sempre più stretta, ma è osteggiata dal principale avversario del segretario alle primarie, Matteo Renzi, perché il governatore della Puglia propone un deciso mutamento di rotta rispetto all'«agenda Monti». Per la verità, anche Bersani dichiara di sostenere il proseguimento dell'«agenda Monti», ma deve continuare, per ora, a mantenere il collegamento con Vendola sia per garantirsi i voti di Sel, sia, specialmente, per «tenere buona» la base del proprio partito. Già in passato, si era infatti rilevato come, dovendo scegliere, essa optasse in misura assai più accentuata per un'alleanza «di sinistra» con Vendola, piuttosto che per un'apertura verso il centro di Casini. Se ne ha conferma da un sondaggio effettuato negli ultimi giorni: quasi metà (48%, con una forte accentuazione tra i più anziani e i residenti nel Meridione) dell'elettorato del Pd dichiara di preferire un accordo con Sel, a fronte di meno di un quarto (24%) che propone invece un'intesa con l'Udc. Dunque, Vendola prevale nettamente su Casini negli orientamenti per le alleanze da parte dei votanti per il Pd, anche se è significativo notare che un altro 24% propone di non collegarsi a nessuno dei due. Di conseguenza, Bersani è costretto a destreggiarsi tra il proprio orientamento più favorevole a Monti e quello della maggioranza del proprio elettorato. E se Renzi vincesse le primarie, questa contraddizione si manifesterebbe in misura ancora più acuta.
Sul fronte del Pdl, Berlusconi e Alfano si trovano in un contesto non tanto dissimile. Dopo la scelta di non candidarsi più a presidente del Consiglio, il Cavaliere ha infatti indicato Monti (o un altro ministro del governo attuale) quale leader possibile per il Pdl (o per un'altra formazione che Berlusconi vorrebbe creare) alle prossime elezioni. Tentando in questo modo di riaggregare su di un nome nuovo i consensi per il centrodestra, oggi dispersi e, in larga misura, tentati dall'astensione. Ma con questa operazione il Cavaliere rischia di scontrarsi con larga parte del proprio elettorato che, di fronte all'idea di candidare Monti, si divide a metà: il 48% (con un'accentuazione tra i più giovani e i residenti al Nord) si dichiara favorevole e poco meno (46%) è contrario. Concordano maggiormente a un'ipotesi di coinvolgimento dell'attuale presidente del Consiglio quanti si autocollocano nel centrodestra. Chi viceversa si definisce di destra si oppone. Sul piano elettorale, le conseguenze della proposta di Berlusconi di coinvolgere Monti come premier appaiono severe: quasi un terzo (31%) degli attuali votanti per il partito dichiara che lo abbandonerebbe nel caso questa scelta fosse attuata. Anche se quest'ultima potrebbe attirare nuovi consensi tra chi oggi non vota Pdl. Insomma, sia nel Pd, sia nel Pdl si rileva un conflitto latente tra gli orientamenti della leadership e quelli del proprio elettorato. Con conseguenze imprevedibili sulla tenuta del sistema dei partiti nel nostro Paese.

il Fatto del Lunedì 15.10.12
Sondaggio Demoskopea per Il Fatto: un elettore su due non voterà
Cala la fiducia nel Quirinale, cresce in forze dell’ordine e magistratura
Urna vuota la trionferà
di Salvatore Cannavò


Uno su due per il momento non voterà. Gli italiani sono troppo arrabbiati e pessimisti. Non si fidano delle istituzioni, sono distanti dai partiti tradizionali e, guardando alle possibili novità politiche, scommettono su Beppe Grillo e su Matteo Renzi. Delusi e rassegnati, non smettono però di credere nell’impegno civile e in valori importanti.
Il sondaggio Demoskopea, commissionato dal Fatto su “L'altra politica” consegna un giudizio impietoso sull'attuale politica. Non si salva nessuno. Per la prima volta, da diversi anni, anche il Presidente della Repubblica scende nel gradimento: è al secondo posto, con il 67 per cento, dietro le Forze dell'ordine che ottengono il 78. Nel 2010 Giorgio Napolitano aveva il 73,3 mentre le forze di polizia lo seguivano con il 69,8. La sfiducia dipende essenzialmente dalla “non credibilità” dell'attuale ceto politico. Ma il dato più interessante è che questa sfiducia non rappresenta il corrispettivo di un atteggiamento liquidatorio o disinteressato alla cosa pubblica. Non è il giudizio, insomma, di un “popolo dei forconi” perché il 39 per cento basa il proprio orientamento politico sul “futuro dell'Italia” e il 26 su “ideali e valori”. Solo il 13 per cento si muove sull'onda di una “protesta contro il sistema”. C'è dunque una visione, un dato valoriale che costituisce ancora una risorsa. Inoltre, una larghissima maggioranza degli italiani, il 62 per cento, associa l'impegno politico al volontariato e il 28 per cento alle associazioni e i movimenti. Anche in questo caso viene un po' sfatato il mito della protesta che viaggia solo in rete o che della rete si nutre. Internet è importante ma “solo” il 16 per cento la indica come una forma rilevante di partecipazione alla vita pubblica.
Se la distanza dalla politica è reale, quindi, non può stupire che solo il 27 per cento dell'elettorato complessivo, si esprima per un “partito tradizionale” mentre il 12 per cento si dichiara a favore di nuovi soggetti politici. Quali? Grillo continua a essere in testa alle preferenze di questa porzione di italiani – come precisa Demoskopea non si tratta di una preferenza di voto – con il 38 per cento del gradimento, mentre Matteo Renzi è al 34. Questa è la novità più rilevante. Dalla nuova politica, invece, restano fuori i fenomeni degli ultimi anni, Di Pietro e Vendola, mentre non buca lo schermo Luca Cordero di Montezemolo.
La fiducia nel futuro è all’11 per cento
Alla domanda su quale sia “lo stato d’animo rispetto alla situazione attuale del Paese” il 45 per cento si dichiara “arrabbiato” mentre il 29 “pessimista” e il 15 “rassegnato”. Totale: 89 per cento contro l'11 di “fiduciosi”. La “cura Monti” evidentemente non ha ristabilito né un canale di comunicazione tra politica e cittadini né una prospettiva per il futuro. A questo risultato fa da corollario la fiducia nelle istituzioni dello Stato: il 56 per cento dichiara di non nutrirne alcuna. Il dato impatta anche sul Quirinale. Eravamo abituati a sondaggi di gradimento verso il Presidente della Repubblica che lo collocavano saldamente in testa tra le istituzioni dello Stato. Oggi Giorgio Napolitano è al secondo posto con il 67 per cento. Viene scavalcato dalle Forze dell'ordine, al 78 per cento. Dietro di lui c'è l'Europa al 56. Mentre tiene la Chiesa (54 per cento), di poco davanti alla Magistratura (52). Il sindacato con il 37 riesce a superare il Presidente del Consiglio (36). Regioni e Parlamento con il 33 e il 23, occupano gli ultimi posti di questa classifica.
Scollamento politico-istituzionale
A motivare lo scollamento politico-istituzionale non è però una rabbia cieca o sorda. Come valore prioritario del proprio orientamento politico viene indicato “il futuro dell'Italia” (39 per cento). Al secondo posto, con il 26, gli “ideali e i valori”. Due terzi degli italiani, dunque, fanno discendere le proprie scelte da elementi valoriali. Solo il 13 per cento si muove in virtù della “protesta” pura e semplice e il 20 in base al proprio “benessere economico”. Questa diagnosi si conferma con un secondo dato della rilevazione. Alla domanda su quali altre forme di partecipazione alla vita pubblica siano importanti il 62 per cento indica il “volontariato” e il 28 le associazioni e i movimenti. È il segno di un paese che apprezza l'impegno civile, che vuole partecipare e aiuta a capire meglio il successo di un movimento come quello di Grillo.
La distanza dal voto La conseguenza della sfiducia si riflette nel proposito di non votare. Solo il 50 per cento dichiara che andrà a votare, mentre il 35 resta indeciso e il 15 non voterà. Il 27 per cento si esprime a favore dei “partiti tradizionali” mentre la nuova politica attrae il 12 per cento. “Se avessimo chiesto le intenzioni di voto” spiega Andrea Zannin, responsabile studi su innovazione e comunicazione di Demoskopea, “i consensi per Grillo, ad esempio, o Renzi, sarebbero certamente superiori. Ma ci interessava misurare la disponibilità a una nuova offerta politica”. In ogni caso se si pensa che la politica tradizionale occupa il 99 per cento dello spazio mediatico, mentre le novità sono ancora marginali, si possono fare le opportune valutazioni.
La nuova politica
Al tempo dei Batman Fiorito e dei Formigoni, per il 52 per cento dell'elettorato una “nuova idea di politica” è associata al taglio dei costi e dei privilegi dei parlamentari. Subito dopo c'è una forte preoccupazione sociale perché il 35 per cento chiede la crescita dell'occupazione. Il mantra della politica ufficiale, invece, cioè la riduzione delle tasse e della pressione fiscale, è al terzo posto con il 26 per cento (era possibile indicare più di una risposta), seguito dal 19 per cento che chiede di ridurre gli sprechi. Nella testa di chi chiede rinnovamento il programma è abbastanza chiaro: meno privilegi più occupazione.
I nuovi protagonisti
Beppe Grillo è al 38 per cento dei consensi. Dietro Matteo Renzi con il 34. Un risultato che spazza via Nichi Vendola visto come “rappresentante credibile” della nuova politica solo dal 26 per cento. Inoltre il 72 per cento del campione ritiene che Beppe Grillo non debba allearsi con nessuno. Lo stesso campione, però, al 50 per cento, pensa che Grillo, in caso di vittoria, non sarebbe in grado di governare.
Quali valori
L’elemento generazionale resta molto sullo sfondo. La gioventù è indicata come “dote di un nuovo leader politico” solo dal 16 per cento, mentre l'83 chiede “l'onestà” e il 48 “la competenza”. “L'esperienza politica e amministrativa” affianca la gioventù con il 16 .
A destra c'è solo Monti
Luca Cordero di Montezemolo ha poco appeal ed è apprezzato come nuovo soggetto solo dal 5 per cento di chi si dice orientato a una discontinuità . La partita dell'innovazione sembra riguardare solo la parte sinistra del campo perché il 56 per cento non ritiene che da Pdl e Lega possa emergere nulla. Non va sottovalutato quel 12 per cento raccolto da “il gruppo di tecnici guidato da Monti” visto da una porzione piccola, ma non insignificante, come innovatore credibile.

il Fatto del Lunedi 15.10.12
Legge elettorale
Obiettivo: bloccare il nuovo che avanza
di Fabrizio d’Esposito


Lunedì 8 aprile, tarda sera. Quasi notte. Prima le proiezioni, poi i risultati danno all’alleanza Pd-Sel, candidato premier Pier Luigi Bersani, il 30 per cento. Seguono il Movimento 5 Stelle e la destra berlusconiana spacchettata in più liste. Democratici e sinistra vincono le elezioni politiche del 2013 e si prendono il premio di maggioranza del 12,5. Arrivano al 42,5. Non è la maggioranza assoluta dei seggi. Che succede? Si spalancano le porte alla Grande Coalizione, il famigerato Monti-bis. Uno scenario senza vincitori e con un premier che ancora una volta cade dall’alto. Il paradosso è che alle elezioni tutti i competitor per Palazzo Chigi hanno corso inutilmente.
IN BASE ALLA BOZZA Malan, approvata giovedì scorso dalla commissione Affari costituzionali del Senato, questo potrebbe accadere dopo il voto del 7 e 8 aprile, al momento il fine settimana più accreditato per andare alle urne nel prossimo anno.
Dopo mesi di estenuanti trattative su modelli spagnoli, tedeschi e francesi, compreso il tentativo di correggere il Porcellum, l’antica maggioranza di centrodestra, cioè Pdl più Udc più Lega più finiani di Fli, ha partorito la bozza Malan, dal nome del senatore berlusconiano che l’ha presentata. Contro Pd e Idv.
Il testo, su cui la discussione comincerà mercoledì nella commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama, prevede uno schema proporzionale con queste caratteristiche: due terzi dei seggi assegnati con le preferenze, il resto con le liste bloccate dei nominati; un premio di maggioranza del 12,5 per cento alla coalizione vincitrice; una soglia di sbarramento al 5 per cento adattata però ai ricatti della Lega. Se il Carroccio (ma anche un altro partito, ovviamente) si allea, il quorum scende al 4, oppure ha ancora un’altra possibilità: raccogliere il 7 per cento in circoscrizioni che coprono un quinto della popolazione. Facile il calcolo: Lombardia, Veneto e Piemonte, roccaforti dei leghisti. Il Pd non l’ha votato perché contrario alle preferenze (meglio i collegi per Bersani) ma nelle trattative si era accordato sul premio di coalizione, dopo aver a lungo insistito su quello al primo partito. Ma l’ostacolo principale sul percorso della bozza Malan l’ha gettato venerdì scorso il capo dello Stato. Pur soddisfatto per i primi passi avanti sulla riforma del Porcellum, preceduti da otto mesi di moniti sulla legge elettorale, Napolitano non vuole un premio di coalizione, seppur al 12,5 per cento. Il suo timore è che per raggiungere la maggioranza assoluta si mettano su alleanze ancora più vaste ed eterogenee di quelle previste dal Porcellum. Da un lato di nuovo Bersani, Vendola e Di Pietro insieme. Dall’altro il Pdl, la Lega e l’estrema destra.
IN PRATICA il sistema greco, secondo la similitudine notata da Stefano Ceccanti, senatore del Pd e costituzionalista, non è propedeutico al pantano della Grande Coalizione, in cui le estreme dovrebbero stare all’opposizione. Ma il sospetto che circola tra Montecitorio e Palazzo Madama è che alla fine il nuovo risiko sulla legge elettorale potrebbe nascondere una melina tra partiti per arrivare all’obiettivo iniziale: mantenere il Porcellum. A Bersani conviene perché vince sul serio, a Berlusconi anche, perché manterrebbe ancora il diritto di nomina dei parlamentari. La partita è solo all’inizio.

Repubblica 15.10.12
Protesta anche il Pd. E ad Ascoli Piceno il preside che ha appeso nella scuola il ritratto del Duce è costretto a rimuoverlo
“Intitoliamo l’aeroporto a Mussolini” Proposta shock a Forlì, insorge l’Anpi
di Valerio Varesi


FORLÌ — Benito Mussolini aveva un debole per gli aeroplani e forse gli sarebbe dispiaciuto scalzare dalla facciata dello scalo della sua Forlì l’intitolazione a uno degli eroi romagnoli dei cieli, Luigi Ridolfi, plurimedagliato della Grande guerra. Ma così vorrebbe il direttore degli industriali di Forlì-Cesena Massimo Balzani con una proposta che ha un po’ del nostalgico e un po’ della provocazione. Ed evidentemente va di moda il vintage politico se è vero che ad Ascoli Piceno, Arturo Verna, preside dell’istituto per ragionieri e geometri Umberto I, ha appeso alla parete dell’aula magna della scuola un ritratto del Duce in sella a un cavallo bianco. Gesto che ha scatenato un profluvio di polemiche da parte di sindacati e Anpi, facendo rapidamente tornare sui propri passi il
preside della scuola.
Nel bel mezzo di questo grossolano tentativo di riscrivere le vicende italiane, il sindaco di Forlì Roberto Balzani, che di mestiere fa proprio lo storico, cerca di ritrovare un minimo di buon senso. «È una sciocchezza così grande che nemmeno l’ho commentata» spiega a proposito della proposta di intestare al Duce l’aerostazione. «Tra l’altro, fu proprio il fascismo a volere il nome di Ridolfi, personaggio che piaceva molto per il suo valore di combattente ». A sconfessare il direttore degli industriali forlivesi è il vice presidente nazionale di Confindustria Aurelio Regina che ritiene la proposta «del tutto inopportuna».
Ma è proprio il sindaco a salvare in parte il suo omonimo: «Conosco Balzani, è una persona perbene, sono portato a pensare che la sua sia una provocazione o una sorta di marketing territoriale». Troppo tardi per fermare le polemiche. Il presidente della sezione locale dell’Anpi, Lodovico Zanetti, ricorda che proprio l’aeroporto fu il luogo di una strage nazifascista con 42 vittime e sarebbe uno sfregio alla loro memoria. «Non ci sono dubbi che il fascismo sia stato un’associazione a delinquere e non si intitolano aeroporti ai criminali» taglia corto. E Andrea De Maria, Pd, ricordando che solo una settimana prima era stato celebrato l’anniversario della più grande strage nazifascista italiana a Marzabotto con quasi 800 vittime di cui oltre 200 bambini, chiosa: «Questo è ciò che Mussolini e il fascismo hanno rappresentato per l’Italia».

l’Unità 15.10.12
Umberto Ambrosoli
«La riscossa civile dei cittadini contro la nuova Tangentopoli»
«La corruzione si combina con la disgregazione del sistema politico
I partiti hanno la possibilità, se vogliono, di cambiare in profondità»
di Rinaldo Gianola


MILANO Umberto Ambrosoli è convinto che «questa nuova Tangentopoli offre ai cittadini l’occasione di una riscossa civile e ai partiti la possibilità di cambiare in profondità, se lo vogliono». La crisi politica e morale che investe la Regione Lombardia, a partire dal presidente della giunta Roberto Formigoni, non sorprende Ambrosoli che pochi mesi fa, dopo aver invitato la giunta di centrodestra a dimettersi perchè travolta dagli scandali, venne addirittura cancellato da un convegno al Pirellone organizzato per ricordare suo padre Giorgio, il commissario liquidatore della Banca Privata, assassinato a Milano da un sicario mafioso di Michele Sindona nel luglio 1979.
Oggi Umberto Ambrosoli fa l’avvocato, è consigliere di amministrazione indipendente di Rcs Mediagroup che edita il Corriere della Sera, partecipa al Comitato contro le infiltrazioni mafiose del Comune di Milano.
Avvocato Ambrosoli, perchè parla di nuova Tangentopoli?
«Le inchieste giudiziarie che da diversi mesi hanno investito le giunte regionali, gli assessori, i consiglieri, esponenti di partito non sono semplici episodi di corruzione o altro. Non si tratta solo di quantificare le somme della corruzione, della distrazione di denaro pubblico. Siamo di fronte a qualche cosa di più grave e di più ampio, a una crisi del sistema politico e amministrativo nel suo complesso. Sono d’accordo col ministro della Giustizia, Severino che ieri ha parlato di “Tangentopoli due”. La corruzione si combina con la disgregazione della politica, con la caduta verticale di credibilità del sistema dei partiti». Dopo vent’anni dalla prima Tangentopoli siamo ancora qui a parlare di corruzione, di politica infiltrata dalla ‘ndrangheta, dunque non è cambiato niente?
«Dobbiamo riflettere e reagire. Oggi vedo una grande occasione di riscossa civile, c’è la possibilità per i cittadini di farsi sentire e contare. Anche nei confronti dei partiti che adesso, se lo vogliono, possono fare pulizia e presentare dei candidati al di sopra di ogni sospetto per le prossime elezioni. La politica deve allontanare le infiltrazioni criminali, deve eliminare i corrotti, deve darsi gli strumenti per combattere questi scandali che distruggono le fondamenta della nostra democrazia».
A quali strumenti pensa?
«Partiti e istituzioni hanno la possibilità di dotarsi di regole per prevenire illegalità e infiltrazioni, di adottare un rigidissimo sistema di controlli e di sanzioni. Se si vuole, i controlli funzionano. I partiti devono selezionare i propri candidati con verifiche profonde delle attività professionali, della formazione dei patrimoni personali, delle relazioni d’affari e politiche. In più possono stabilire preventivamente che se un proprio consigliere, assessore, amministratore viene rinviato a giudizio per reati contro il patrimonio, per danni alla pubblica amministrazione, deve essere immediatamente allontanato. Non si tratta di penalizzare un politico perchè responsabile di un danno casualmente arrecato su una pista di sci, qui si parla di corruzione, di malagestione del denaro pubblico, di interessi personali in attività pubbliche».
La sorprende la crisi politica e morale che ha travolto una regione importante come la Lombardia?
«No. La situazione era diventata insostenibile ormai da diversi mesi. Mi sorpende piuttosto che solo oggi i partiti di maggioranza abbiano compreso che non si poteva più andare avanti con tutti questi arresti e inchieste». La caduta di Formigoni è anche la fine di una stagione politica, quella di Berlusconi, della Lega, della Moratti?
«Mi pare che siamo di fronte alla disgregazione di un sistema politico, ma il problema riguarda tutti i partiti. Tra sei mesi andremo a votare e nessuno sa esattamente quali saranno gli schieramenti politici e come si presenteranno. Il percorso del cambiamento può essere insidioso, pericoloso. Ma c’è l’opportunità per i partiti, anche per il centrodestra, di rinnovarsi, di aprirsi ai cittadini, di restituire dignità alla rappresentanza politica. I disastri recenti, le macerie morali, istituzionali, amministrative che vediamo davanti a noi dovrebbero convincere la politica a cercare un salto di qualità».
Come pensa che la politica possa riavvicinare i cittadini, ritrovare la fiducia degli elettori?
«Il percorso di Giuliano Pisapia è stato significativo. Si è presentato alle primarie senza avere l’appoggio del maggior partito della coalizione di centrosinistra, ha vinto, ha raccolto e sintetizzato il consenso dei cittadini e di tutti i partiti, è diventato sindaco di Milano. Ci possono essere esperienze, proposte che nascono fuori dai partiti ma che per la loro forza e credibilità diventano patrimonio di tutti».
Ma questi partiti sono in grado di cambiare?
«Spero di sì. I partiti sono fondamentali per la nostra democrazia, devono trovare la forza di reinventarsi, di definire un nuovo rapporto con i cittadini».
Avvocato Ambrosoli, lei sarebbe disposto a dare una mano per cambiare il governo della Regione Lombardia?
«Il mio nome, in questa prospettiva, oggi sta girando a vanvera».

Corriere 15.10.12
La sindrome e le false tesi Quando invece dei test si usano le supposizioni
di Claudio Mencacci

Presidente Società italiana di Psichiatria

Travagliata fin dalla sua comparsa, la Sindrome di alienazione genitoriale (o Pas, dall'acronimo di Parental alienation syndrome) è una controversa e ipotetica dinamica psicologica disfunzionale non riconosciuta a livello scientifico in quanto priva di presupposti clinici, di validità e affidabilità che, secondo le teorie del discusso psichiatra statunitense Richard Gardner, si attiverebbe in alcune situazioni di separazione e divorzio conflittuali, non adeguatamente mediate. Fin dagli anni 80 i movimenti femminili l'hanno considerata uno strumento pericoloso nelle mani degli uomini in grado di deviare l'attenzione da loro atteggiamenti di abuso o trascuratezza. Vi sono però state anche forti pressioni in Usa affinché la Pas venisse inclusa tra le patologie psichiche, consentendo in tal modo il trattamento del minore che così verrebbe riavvicinato al genitore «alienato». Allo stato attuale il DSM 4 TR (manuale diagnostico e statistico di disturbi mentali) non riconosce la Pas come sindrome o malattia, nè tale inclusione è prevista nell'edizione in uscita nel maggio 2013. Questo a causa della mancanza di dati a sostegno e di evidente ascientificità segnalata fin dal 1996 dalla Società americana di psichiatria. Il dibattito e le pressioni sono state vivaci anche in questi ultimi anni con la presa di posizione dello psichiatra W. Bernet, ma anche in questo caso la Pas non è stata inclusa tra le psicopatologie riconosciute. Questa diatriba fin dall'inizio ha avuto importanti riflessi sull'affidamento dei minori soprattutto negli Usa. Il suo riconoscimento giudiziale è spesso stato considerato come rovinoso per i figli e tutti i tribunali che hanno vagliato la Pas al test di Frye (che rende ammissibile una teoria qualora accettata e consolidata) l'hanno rigettata. Queste tesi sono quindi soprattutto sostenute da alcune aree psicologiche, mentre la Società italiana di psichiatria non riconosce questo disturbo come una patologia. La Pas non essendo basata su studi fondati e replicabili e poggiando solo su supposizioni e senso comune, non sufficienti a definire una condizione patologica, non giustifica interventi terapeutici specifici. Come è possibile, per una condizione non ascrivibile a disturbo, sindrome o malattia riconosciuta dal mondo scientifico, indicare una terapia? Come è possibile che possa essere utilizzata a supporto di interventi in ambito giudiziario? Il caso del bambino di Padova sottolinea che esiste una criticità quando i periti nei Tribunali, pur possedendo i titoli accademici richiesti, non tengono in considerazione le posizioni condivise dal mondo scientifico nel formulare ipotesi diagnostiche relative ai periziandi. Sarebbe quindi auspicabile istituire una modalità di valutazione e di aggiornamento, costante e monitorata, di tutti coloro che tramite il loro lavoro possono produrre gravi conseguenze sulla vita di cittadini, grandi e piccoli.

Repubblica 15.10.12
Lo scrittore lancia un nuovo attacco allo Stato ebraico durante una intervista alla radio pubblica tedesca: “Forza d’occupazione che ruba terre”
Grass: “Israele potenza nucleare senza controllo”
di Andrea Tarquini


BERLINO — «In Israele esistono aspetti razzisti, Israele è una potenza nucleare incontrollata, una forza occupante che ruba le terre». Chi parla così non è un leader della Npd o di altri gruppi neonazisti tedeschi, né un salafita o un integralista islamico filoiraniano. No, è ancora una volta Günter Grass, premio Nobel per la letteratura, massimo scrittore tedesco vivente, considerato da decenni voce della coscienza critica della Germania. In un’intervista alla radio pubblica, l’autore del «Tamburo di latta» (che solo recentemente ammise di aver militato in gioventù nelle Waffen SS) torna alla carica contro lo Stato ebraico, per la terza volta quest’anno. E con l’accusa di razzismo, lanciata a Israele dal paese che ideò e attuò l’Olocausto, riaccende una pesante polemica. Già dall’aprile scorso ormai Grass è stato dichiarato persona non grata in Israele. Allora aveva pubblicato una poesia nella quale affermava che il pericolo più grave per la pace mondiale non sarebbero i piani atomici iraniani, bensì l’arsenale atomico israeliano e la prontezza del governo Netanyahu a usarlo «per un primo colpo che annienterebbe il popolo iraniano ». Poi giorni fa in un altro poema, “Effimeri”, aveva esaltato come eroe della pace Mordechai Vanunu, il tecnico nucleare israeliano condannato per aver rivelato i piani di deterrente atomico dello Stato ebraico. Ieri, ha deciso appunto di rincarare la dose e alzare il tiro.
«Israele è una potenza nucleare incontrollata», ha affermato Grass, continuando: «Numerose risoluzioni delle Nazioni Unite non hanno avuto effetto. Israele è una potenza occupante e per anni ha rubato terre, ha sfrattato i residenti e li ha trattati come cittadini di seconda classe. Esistono aspetti razzisti in Israele», egli ha ripetuto e sottolineato. Per poi affermare: «Questo mi rattrista, e dovrebbe rattristare tutti gli amici di Israele, come rattrista molti israeliani. E si dovrebbe poterlo dire ad alta voce
». Io continuo a ritenermi un amico d’Israele pur essendo stato dichiarato persona non grata, egli ha ancora affermato nell’intervista radiofonica, «e astenersi dal criticare quel paese per me è una nuova forma di antisemitismo». «Critico il governo Netanyahu, non Israele in sé», precisa Grass. Ma è difficile pensare che ciò basti a calmare le prevedibili reazioni di sdegno di Gerusalemme. Recentemente il premier israeliano ha definito i giudizi di Grass «uno scandalo assoluto, e il fatto che quelle parole vengono da un premio Nobel tedesco e non da un adolescente neonazista le rendono ancora più indegne».

La Stampa 15.10.12
Donne e diritti. La guerra globale dei sessi
Donne contro i taleban. Quelle donne coraggiose che si ribellano al potere
Dalla Libia al Togo, da Mosca a Teheran, in piazza a migliaia
Rivendicano i loro diritti, ma senza mai ricorrere alla violenza
di Francesca Paci


In marcia a Tunisi Oltre diecimila in corteo i per chiedere il ritiro della bozza di articolo della nuova Costituzione che definirebbe la «complementarità» tra i sessi
Battagliere a Bengasi Dopo l’uccisione dell’ambasciatore americano le donne protestano contro le milizie islamiste
Ragazze palestinesi denunciano gli abusi sessuali dei loro padri-padroni
Attiviste indiane marciano contro lo stupro vestite in modo provocatorio

Quando una settimana fa 200 donne sono scese in piazza a Timbuctu per protestare contro la neoinstaurata e ferocissima legge islamica, i miliziani di al Qaeda, che da aprile controllano il Nord del Mali, hanno messo mano alla pistola disperdendo la manifestazione a pallettoni. Abilissimi nello sfidare l’Occidente fino a farlo vacillare nelle proprie intime certezze democratiche, gli eredi di Bin Laden non hanno saputo far altro che sparare alla vecchia maniera, ra-ta-ta-ta-ta-ta, per allontanare lo spettro delle proprie madri, mogli, figlie. Perché in Africa, come in Medio Oriente e nella contraddittoria India, lo scontro delle civiltà si combatte sempre più tra i sessi, il «soft power» rosa contro l’«hard power» plumbeo delle armi.
Gli episodi si moltiplicano, casuali, discontinui, diversi e lontani tra loro. Ma le nuove tecnologie rendono possibile accostarli uno all’altro e leggervi il procedere della Storia.
Il 2011, l’anno delle primavere arabe, è una pietra miliare. Non che la voce femminile fosse fino a quel momento assente, come provano le migliaia di indiane in corteo nel giugno 2009 contro gli aborti selettivi che in alcune regioni impediscono ogni giorno la nascita di duemila bambine. Ma il risveglio di popoli assuefatti alla tirannia e la spallata al passato assestata (più o meno con successo) da giovani uomini e giovani donne ha messo il megafono in mano alle tante che già gridavano nel silenzio.
Le oltre diecimila in marcia ad agosto nel centro di Tunisi per chiedere il ritiro dell’articolo 28 della prossima Costituzione (quello che, nella bozza contestata, definirebbe la «complementarità» tra i sessi) portavano il testimone dell’emancipazione guadagnata negli anni di Bourghiba ma soprattutto quello di Khaoula Rachidi, la temeraria studentessa che quattro mesi prima si era arrampicata sul tetto di un edificio dell’università di Manouba per impedire a un barbuto integralista di sostituire la bandiera tunisina con quella nera dei salafiti.
Le donne, da Lisistrata in poi, sembrano essere le più consapevoli di quanto guerra e violenza minaccino il diritto, anche quando si tratta di poco più del diritto alla vita. «L’Europa dimentica spesso che nessuna conquista è garantita per sempre» notava in un’intervista di qualche anno fa a La Stampa la scrittrice iraniana Azar Nafisi raccontando lo shock delle connazionali davanti alla cancellazione di ogni loro traguardo sociale seguita alla rivoluzione khomeinista. Come dire che la campana suona per tutti ma non t u t t i n e s o n o egualmente coscienti.
L’afasia cronicache paralizza il dialogo tra Hamas e Fatah, per non parlare di quello con Israele, non ha impedito, per esempio, a parecchie decine di ragazze palestinesi di invadere le strade di Betlemme due mesi fa per denunciare gli abusi familiari tramandati dalla tradizione del padre-padrone (in aumento) con cartelli del tipo «Vergogna ai palestinesi che uccidono le loro donne». Un rifiuto dell’omertà etnica, clanica o culturale dello stesso genere che il mese precedente aveva portato dozzine di afghane in piazza a Kabul per manifestare contro l’esecuzione pubblica di una ventiduenne accusata d’adulterio in un remoto villaggio a 60 chilometri dalla capitale.
Troppo spesso negli ultimi anni la retorica nazionalista ha tentato di contrastare la globalizzazione, chiedendo ai popoli di chiudere un occhio sugli abusi interni in virtù d’una difesa della comune identità sotto assedio. Le manifestanti con il velo sulla testa, che nella Bengasi ancora traumatizzata dall’attentato mortale all’ambasciata americana dell’11 settembre scorso impugnano cartelli con scritto «Le donne contro Ansar al Sharia», rispondono a modo loro all’aggressività delle milizie islamiste. Se hanno fatto notizia gli abitanti della seconda città libica all’assalto del quartier generale degli jihadisti, ancor di più dovrebbero farla le abitanti riluttanti alla violenza al punto da non utilizzarla neppure contro i più violenti tra i violenti.
Slogan, cortei, iniziative agit-prop come nella migliore tradizione delle avanguardie novecentesche. Dalle russe Pussy Riot alle militanti del Togo in sciopero del sesso lo scorso agosto per costringere il presidente Gnassingbe alle dimissioni, dalle femministe egiziane fischiate l’8 marzo 2011 dagli ex compagni di piazza Tahrir fino alle centinaia di attiviste indiane che nell’estate 2011 hanno manifestato contro la violenza sessuale (un’esperienza frequente per l’85% delle indiane) attraversando mezze nude Nuova Delhi secondo la neo-forma di disobbedienza civile chiamata «Slut Walk» (si protesta contro chi giustifica lo stupro con «la provocatorietà» di una donna), l’altra metà del mondo scommette sul potere dolce della comunicazione.
È facile immaginare l’ira impotente dei conservatori induisti di fronte alla «Slut Walk»: un po’ come quella dei religiosi sauditi nel marzo 2011, quando capitanate dalla trentaduenne Manal Al Sharif le donne di Riad capirono che la primavera non sarebbe fiorita facilmente nella terra del petrolio e si misero al volante, rompendo il meno motivato dei tabù dell’Islam (la figlia di Maometto usava cavalcare, e senza problemi).
L’«hard power» maschile segna il passo? È presto per dirlo, nonostante il Premio Nobel per la Pace 2011 assegnato all’attivista per i diritti umani yemenita Tawakkul Karman, una delle pioniere della rivoluzione contro il regime del presidente Saleh. Il cinema ha già iniziato a raccontare la disobbedienza pacifica delle donne con i film «La sorgente dell’amore» di Radu Mihaileanu e «E ora dove andiamo? » della libanese Nadine Labaki. La Storia registra un evento dietro l’altro: un processo al femminile, indipendentemente dalla forma definitiva che assumerà, è in corso.

l’Unità 15.10.12
Malala ha vinto, con lei le giovani del Pakistan
di Cristiana Cella


Milioni di persone spiano con il fiato sospeso ogni minimo segno di miglioramento, il movimento di un dito, di una mano, ogni segno di ripresa. Malala Yusufzai, la giovanissima attivista per i diritti delle donne in Pakistan, gravemente ferita dai talebani, combatte per la sua vita in un ospedale di Rawalpindi, intubata e in terapia intensiva. Forse sarà trasportata all’estero da un aeroambulanza degli Emirati Arabi Uniti, atterrata oggi a Islamabad. Intorno a lei, nel suo paese e nel mondo, cresce un’onda di protesta anti talebana e di solidarietà. Milioni di studenti in Pakistan pregano per lei, insieme agli insegnanti, fiaccolate di ragazzine della sua età gridano per le strade la loro rabbia per l’attacco alla «figlia della nazione».
I social media sono sommersi da accorati appelli, da migliaia di denunce. Sabato, nelle scuole afghane, le lezioni sono iniziate con una preghiera per lei. Ma non solo. Venerdì fedeli e perfino mullah, nelle moschee pachistane, prendevano posizione apertamente, durante la preghiera, dichiarando come anti-islamico il feroce gesto di violenza. Leader politici del suo paese, da sempre ambiguo verso i talebani, che ha sostenuto e sostiene da decenni, denunciano la violenza oscurantista. Per i giovani pachistani è un’eroina, un simbolo.
È questa la vittoria di Malala, una vittoria sanguinosa, che ha svegliato di colpo un paese intero, sotto shock per l’attentato. Come scrive il NewYorkTimes, è successo qualcosa di fondamentalmente diverso, l’attacco a Malala ha «liberato menti incatenate e talebanizzate». Ha dimostrato che, contro la ferocia e l’odio fondamentalista, si può reagire, con strumenti di pace, anche, e soprattutto, all’interno della comunità islamica.
Malala aveva denunciato, con il suo diario scritto per la BBC, nel 2009, l’insostenibile vita quotidiana di ragazze e donne negli anni in cui la Swat Valley, la sua bellissima regione, era sotto il controllo talebano. Da allora è nel mirino. Nelle aree sotto il loro controllo, in Pakistan come in Afghanistan, i talebani proibiscono l’istruzione femminile, attaccano le studentesse con l’acido, danno alle fiamme le scuole, uccidono insegnanti e donne che ricoprono ruoli pubblici, ottengono di trasformare i programmi scolastici e le scuole in madrasse. Impediscono le vaccinazioni, bandiscono le leggi laiche, sostituendole con quelle islamiche, con effetti devastanti per le donne.
IL DIRITTO ALL’ISTRUZIONE
Come studentessa, Malala, figlia di un insegnante illuminato e democratico, ritiene la chiusura delle scuole per le ragazze insopportabile. Come sbarrare una porta sulla vita e sul futuro. Aveva solo 11 anni quando ha deciso di cominciare a parlare e non ha mai smesso, nonostante le minacce. Per Malala l’istruzione è l’unica vera arma contro l’integralismo e per l’affermazione dei diritti umani: «Io ho dei diritti. Ho il diritto all’istruzione. Ho il diritto di giocare. Ho il diritto di cantare. Ho il diritto di parlare. Ho il diritto di andare al mercato. Ho il diritto di parlare in pubblico».
I talebani hanno cercato di farla tacere ma hanno sbagliato strategia. La sua voce si è moltiplicata, portandosi dietro un paese intero. Ha scatenato la reazione di una società civile che non sopporta più gli abusi di potere giustificati da un’ interpretazione oscurantista dell’Islam. In un’intervista di un anno fa, Malala dice che vorrebbe parlare con i talebani e lo farebbe mostrando loro il Corano e sfidandoli a trovare, nelle parole sacre, qualcosa che sostenga le loro feroci intimidazioni.
COME A KABUL
La sfida di Malala è una vittoria per milioni di ragazze, nel suo paese, come in Afghanistan, al di là delle sue montagne, dove il fondamentalismo islamico continua a mietere vittime e a incatenare la vita delle donne. E delle bambine.
Perché la guerra delle donne inizia presto qui. Vendute in matrimonio dall’età di 9 anni, scambiate per rimediare alle offese tra famiglie, stuprate, subiscono ogni tipo di violenza, non possono studiare, uscire da sole, lavorare, curarsi, avere giustizia. Non hanno diritti e non sanno di averli. Vite cancellate, non solo dai talebani che hanno molti fratelli in Pakistan come al di là del Kyber Pass, in Afghanistan. I partiti fondamentalisti che governano molte province afghane non sono da meno. Usare leggi oscurantiste per controllare metà della popolazione e impedire la loro esistenza pubblica non è un problema religioso. È una strategia brutale di controllo politico del potere. Ho incontrato ragazzine, con lo stesso bel viso ancora infantile, con lo stesso sguardo determinato e coraggioso di Malala, anche nelle scuole dei quartieri degradati di Kabul. Ragazzine che sapevano quello che sa e dice Malala: che l’istruzione è un’arma contro il sopruso, la violenza e l’ignoranza. Per cambiare e conquistarsi una chance. Bambine che andavano a scuola di nascosto da padri e mariti, rischiando molto, per avere gli strumenti per prendere in mano la propria vita. Malala è una di loro, cresciuta in una famiglia aperta e lungimirante, e che, anche per loro, rompe la violenza del silenzio. Il suo coraggio è il loro. E la marea di denuncia e di sostegno che ha messo in moto la sua aggressione non si fermerà.

La Stampa 15.10.12
La lezione della piccola Malala
Rifiutare l’ingiustizia e costruire il proprio destino
di Jawad Joya


Jawad Joya ha 26 anni e vive a Kabul. Ha vissuto e studiato in Italia e negli Stati Uniti d’America, da dove è tornato a Kabul tre anni fa per rendersi utile nella rinascita della città e del Paese. Può essere contattato all’indirizzo e-mail: postcard.paradiso@gmail.com

La settimana scorsa i taleban hanno sparato alla testa a Malala Yousafzai. Malala è una ragazzina di 14 anni che, a quanto riportano i media, ha mostrato un irriducibile amore per lo studio: per sè e per le ragazze come lei. I taleban hanno considerato questa attività come una minaccia al loro stile di vita e alla prevalenza della loro ideologia. Perciò hanno deciso di uccidere la quattordicenne, affinché servisse da esempio alle altre.
Questa è una notizia choccante ma non è affatto nuova per me. Io ho vissuto laggiù e l’ho visto con i miei occhi. Quando nel 1996 i taleban presero Kabul, chiusero quasi tutte le scuole nella capitale e nel resto del Paese. Dal primo giorno i taleban hanno riservato una speciale attenzione alle donne e alle ragazze. Sono ossessionati dalle donne, dalle loro vite, dai loro corpi. Mi ricordo che nel 1966 sentii annunciare a Radio Kabul che tutte le donne che lavoravano, nel pubblico come nel privato, dovevano restare a casa fino a «ulteriori notizie».
Le «ulteriori notizie» non sono mai arrivate pubblicamente. Da allora, «ulteriori notizie» è diventato un nome in codice per la punizione di chi ha il coraggio di disattendere un ordine dei taleban, specialmente le donne. In molte località del Sud del Paese ricevere «ulteriori notizie» significa essere uccisi o puniti pubblicamente. Quando nessuna di queste due cose è possibile, mandano un kamikaze per consegnare la loro «risposta». È vero che i taleban non hanno più il controllo di Kabul, ma continuano a influenzare la vita pubblica nel Sud e nell’Est dell’Afghanistan. Recentemente hanno lapidato una coppia per adulterio e fucilato una donna per una presunta relazione sessuale con un uomo «non autorizzato». Nell’idea di mondo dei taleban, fare del sesso «non autorizzato» porta alla morte.
Quello che io avverto a Kabul è un senso di crescente differenza generazionale tra i vecchi e i giovani. I più anziani sono socialmente conservatori e la maggior parte di loro è stanca di guerre, personali o nazionali. I giovani invece sono più affamati di rischi. Hanno mostrato un forte desiderio di essere collegati con il mondo globale che è dinamico, vario, interconnesso e allettante. L’istruzione può fornire un biglietto per quel «mondo». In questo contesto i taleban non offrono ai giovani alcunché di utile, mentre tolgono loro la capacità di competere, di costruirsi una vita diversa guadagnandosi il pane legittimamente. Ma i taleban non prevarranno.

l’Unità 15.10.12
Sale la tensione tra Ankara e Damasco
Siria, tremila caschi blu come in Libano? L’Onu allerta l’Italia
di Umberto De Giovannangeli


Più che un’ipotesi è una prospettiva concreta: esportare in Siria il modello Unifil, inviare cioè tremila caschi blu come per il Libano. E l’Italia è tra i Paesi contattati. La proposta è stata prospettata dalla Lega araba e dall’inviato dell’Onu. Nel frattempo cresce la tensione tra Ankara e Damasco. La Turchia ha comunicato di aver vietato il transito nel proprio spazio a tutti gli aerei siriani, compresi i voli di linea.
È più di una ipotesi. È una prospettiva concreta, una richiesta «ufficiosa». Che investe direttamente l’Italia. «Esportare» in Siria il «modello Unifil» sperimentato in Libano. Un piano per formare una forza di pace da 3mila uomini da inviare in Siria. A questo, secondo il quotidiano britannico Daily Telegraph, ha lavorato nelle ultime settimane l’inviato speciale di Onu e Lega araba, l’ex ministro degli Esteri algerino Lakhdar Brahimi, cercando di capire con discrezione quali Paesi avrebbero intenzione di contribuire con loro truppe all’eventuale forza di pace. Data per poco probabile la partecipazione di Stati Uniti e Gran Bretagna considerato il loro coinvolgimento in Iraq e Afghanistan e soprattutto la crescente presenza di estremisti islamici tra le file dei ribelli sembra che il diplomatico algerino si sia rivolto altrove, in particolare ai Paesi che al momento fanno parte dell’Unifil, la forza dell’Onu al confine tra Israele e Libano.
MODELLO VINCENTE
Loro, secondo l’inviato Onu, avrebbero le infrastrutture e le competenze sul campo per mettere insieme una forza di pace in Siria. Tra questi Paesi ci sono l’Italia che guida la missione con il generale Paolo Serra da gennaio Germania, Francia, Spagna e Irlanda. Fonti italiane confermano a l’Unità quanto scritto dal quotidiano britannico. «L’ipotesi è stata avanzata dice la fonte ed essa parte dal riconoscimento del ruolo di primo piano che l’Italia ha avuto nella stabilizzazione di un’area di frontiera caldissima, qual è quella tra Israele e Libano».
«Una forza d’interposizione che ponesse fine al massacro quotidiano perpetrato dal regime, sarebbe la ben venuta, perché sancirebbe un primo, concreto impegno della Comunità internazionale in Siria», dice a l’Unità George Sabra, cristiano, portavoce del Consiglio nazionale siriano (Cns), la principale piattaforma dell’opposizione al regime di Bashar al-Assad. L’ipotesi di tremila «osservatori» Onu in Siria era stata evocata, nel maggio scorso, dallo stesso titolare della Farnesina, Giulio Terzi. «Un’altra direttrice che potrebbe svilupparsi in Consiglio di sicurezza dell'Onu» per la situazione in Siria è di «portare a due-tremila il numero degli osservatori», aveva affermato il ministro degli Esteri italiano dopo un incontro con gli ambasciatori dei Paesi della Lega Araba, al quale non era presente il rappresentante siriano. «Parliamo di uno spiegamento di osservatori non armati molto ampio che possa coprire veramente tutti i centri del Paese nei quali si sono verificate le più gravi violenze», aveva aggiunto Terzi, parlando di «un’azione più incisiva della Comunità internazionale».
ALTA TENSIONE
Nel frattempo, cresce ulteriormente la tensione tra Turchia e Siria. Ankara ha comunicato di aver vietato il transito nel proprio spazio a tutti gli aerei siriani, anche a quelli che effettuano voli di linea. Ad annunciarlo è il ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu, facendo seguito all’analoga decisione assunta l’altra notte da Damasco. «Gli aerei militari siriani ha aggiunto il ministro, rispondendo a una domanda erano già di fatto messi al bando». Al tempo stesso, Davutoglu ha detto no alle proposte di dialogo fatte ieri dalla Siria per istituire secondo il comunicato del ministero degli Esteri di Damasco un comitato di sicurezza congiunto con la Turchia per sorvegliare la loro comune frontiera ed evitare «incidenti bellici». «Il regime di Assad deve prima definire vie di dialogo con il suo popolo sottolinea Davutoglu Finché non avrà fatto la pace con il suo popolo, finché non seguirà la volontà del suo popolo, finché non avrà dimostrato di rispettare il diritto alla vita del suo popolo, aprire le porte del dialogo per noi non ha alcun senso».
Le forze del regime siriano ha usato bombe a grappolo russe contro aeree popolate da civili nel tentativo di respingere i ribelli. È l'accusa lanciata da Human Rights Watch (Hrw) che in un rapporto pubblicato ieri parla di bombe lanciate da aerei e elicotteri soprattutto nell’aerea dell’autostrada che attraversa Maarat al Numan, la città conquistata dai ribelli la settimana scorsa. L‘organizzazione internazionale aveva già denunciato l'uso di bombe a grappolo da parte del regime siriano in luglio e agosto. Secondo il rapporto di Hrw, oltre a Maarat, gli attacchi hanno colpito le città di Tamanea, Taftanaz e al-Tah. Bombe a frammentazione sono state lanciate anche contro Homs, Aleppo, Latakia e vicino Damasco.
L’altro ieri nel Paese hanno perso la vita 181 persone, di cui 63 soldati. Ieri, un bilancio provvisorio registrava, nel pomeriggio, almeno 35 vittime, fra loro 10 ribelli. Decine di cadaveri sono stati scoperti a sud-ovest di Damasco. Lo ha reso noto l’Osservatorio siriano dei diritti umani. «Sappiamo che sono stati uccisi a colpi d'arma da fuoco ha detto il presidente dell’organismo presumibilmente in scontri con l’esercito. La cosa più probabile è che si tratti di combattenti ribelli, ma per ora non siamo in grado di confermarlo». I corpi sono stati trovati tra le località di Moadamiyat al-Sham e Daraya.

Corriere 15.10.12
Cina sempre meno forza tranquilla, l'India e i vicini sentono le scosse
di Danilo Taino


Negli ultimi anni, la Cina ha cercato di proiettare nel mondo, soprattutto nella regione circostante, l'immagine di una forza tranquilla e pacifica. Tanto che in numerose diplomazie si è fatta strada la teoria che, fino a quando non avrà raggiunto stadi di sviluppo economico e di benessere sociale più elevati, Pechino difficilmente si mostrerà aggressiva sulla scena regionale e internazionale. Da qualche settimana, però, la convinzione ha iniziato a vacillare. La disputa con Tokio sul controllo delle isole Senkaku/Diaoyu ha provocato parole forti dal governo di Pechino, manifestazioni anti-nipponiche in molte città, problemi ad aziende giapponesi in Cina, flottiglie sulle spiagge contese. Da ultimo, ha fatto sì che il ministro delle Finanze e il governatore della banca centrale cinesi disertassero il summit del Fondo monetario internazionale che si è tenuto la scorsa settimana a Tokio. Pechino ha insomma voluto che una tutto sommato modesta disputa territoriale diventasse un caso mondiale: e l'ha sottolineato in modo perentorio.
Il fatto è che la vicenda avviene nel momento in cui in Cina si prepara la successione ai vertici del partito comunista e dello Stato, tra tensioni messe in evidenza dalla demolizione di uno dei leader emergenti, Bo Xilai, e dalla temporanea e misteriosa scomparsa pubblica di colui che dovrebbe essere il prossimo leader, Xi Jinping. La concomitanza degli scontri di potere al vertice con la faccia aggressiva verso l'estero sta preoccupando molti vicini. L'India innanzitutto, che alle intenzioni pacifiche di Pechino ha sempre creduto poco e che in questi giorni ricorda, su stampa e televisione, il cinquantesimo anniversario della la guerra con la Cina sulla questione del Tibet. A Delhi si tracciano scenari su come e dove un'aggressione armata cinese potrebbe scattare. Alla questione gli indiani sono molto sensibili, forse troppo. Di certo, però, in questi giorni non solo loro hanno realizzato che il drago è pacifico solo quando i vicini danzano alla sua musica. Se, in più, a Pechino si litiga, la forza tranquilla si perde nelle nebbie di un'isolotto del Mar Cinese Orientale.

l’Unità 15.10.12
Ora e sempre Resistenza
I nuovi testimoni
Per non dimenticare le atrocità del nazifascismo
Perché il futuro sia memoria e non destino Il congresso degli ex deportati politici nei lager apre a tutti la possibilità di iscriversi
Perché i giovani diventino eredi della storia
di Giuseppe Vespo


MILANO CI SONO EROI CHE SAREBBERO RIMASTI DIMENTICATI SENZA L’IMPEGNO DEI MEMBRI DELL’ANED, L’ASSOCIAZIONE NAZIONALE DEGLI EX DEPORTATI POLITICI NEI CAMPI DI STERMINIO NAZISTI. CALOGERO MARRONE, IL NONNO DELLA MOGLIE DI UMBERTO BOSSI, È UNO DI QUESTI. Siciliano di Favara, si trasferì a Varese con la famiglia per dirigere l’ufficio anagrafe e da lì falsificò i documenti di centinaia di antifascisti e di ebrei, aiutandoli in questo modo a fuggire dall’Italia occupata dai fascisti e poi dai nazisti. Per questo pagò con la morte, a Dachau. La sua storia è raccontata in un libro (Calogero Marrone, un eroe dimenticato, Edizioni Arterigere) uscito qualche anno fa grazie alle ricerche di Franco Giannantoni e di Ibio Paolucci, quest’ultimo storico inviato de l’Unità e oggi coordinatore del Triangolo Rosso, il periodico edito dall’Aned.
Ma per ogni eroe ricordato, restano ancora tante storie da raccontare. Soprattutto c’è una Storia da non dimenticare e una Memoria da tramandare. E ora che i testimoni diretti delle atrocità del nazi-fascismo stanno scomparendo, c’è bisogno di ereditare il loro ricordo e di alimentarlo: «Perché il futuro sia memoria e non destino», come recita il titolo del XVesimo congresso nazionale dell’Aned, che si è celebrato questo fine settimana a Milano ed è stato salutato con un messaggio dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
Tra le altre cose, l’Associazione ha deciso di modificare il proprio statuto e di permettere non solo agli ex deportati e ai loro familiari ma a qualunque cittadino italiano di iscriversi all’Aned, purché dichiari «di accettare tutti i valori della guerra di liberazione e della lotta contro il nazismo e il fascismo e per l’attuazione della Costituzione», si «impegni ad acquisire una approfondita conoscenza storica della Resistenza e della Deportazione politica e “razziale”» e la diffonda «con tutti i mezzi della comunicazione tra le nuove generazioni».
«Un compito sempre più difficile, in tempi come quelli che viviamo», spiega Gianfranco Maris, avvocato, partigiano, ex deportato e presidente Aned. «Viviamo in una società in cui domina il tornaconto personale, dove si ricerca solo il potere, avvolti in una nube nera di ignoranza. Noi vogliamo creare una nuova generazione di testimoni, in modo che la Storia unitaria, vera, si possa continuare a conoscere. Questo presuppone che i testimoni siano realmente informati, a conoscenza delle cose, e che sentano il dovere morale di tramandare. È soltanto nella verità la libertà, soltanto nella conoscenza».
Negli interventi che si susseguono nella sala congressi di Palazzo Reale, più volte si fa cenno al passato che ritorna. C’è chi ricorda l'archiviazione da parte della procura di Stoccarda dell’inchiesta sugli otto gerarchi ancora in vita della 16ma divisione corazzata «Reichsfuehrer SS», che nel ’44 si macchiò del massacro di Sant’Anna di Stazzema, Lucca, dove vennero uccise 560 persone, cento delle quali bambini.
LE PECCHE DELLA POLITICA
E c’è chi ricorda come in tempi molto più recenti rappresentanti delle istituzioni abbiano dedicato monumenti pubblici, pagati con soldi pubblici, a gerarchi fascisti. Come è avvenuto ad Affile, Roma, paese natale del generale Rodolfo Graziani, al quale è stato dedicato un mausoleo, in memoria di un condannato dallo Stato italiano a 19 anni di prigione, di un collaborazionista dei nazisti che per un periodo è stato anche ricercato come criminale di guerra dalla giustizia internazionale.
Resta molto da fare, dicono all’Aned. «Per anni riprende Gianfranco Maris le nostre istituzioni sono state lontane dai nostri valori. Come ha ricordato qualcuno, in diciassette anni il presidente del Consiglio Berlusconi non è mai venuto ad una celebrazione del 25 aprile. Per quanto tempo siamo stati inseguiti dalle feste della libertà, della primavera e di non so cosa altro... E la festa della Liberazione? Vogliamo dedurne qualcosa? Vogliamo capire che non si è trattata solo di disattenzione?». Anche a questo servono gli eredi della memoria.

Corriere 15.10.12
Shoah, quei nomi da ricordare
Allo Yad Vashem l'elenco dei 6.806 ebrei italiani deportati
di Stefano Jesurum


L a donna alta, elegante, dal piglio sicuro e attivo, che ha passato buona parte della vita a studiare lo sterminio degli ebrei, consegna un floppy disk all'uomo anziano vestito di nero, col grande cappello nero e la lunga barba bianca, che bambino di otto anni fu liberato dal campo di Buchenwald, orfano di genitori annientati a Treblinka. Sono Liliana Picciotto, 65 anni, 25 da storica al Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec), e Yisrael Meir Lau, 75enne, presidente dello Yad Vashem, il memoriale della Shoah più grande e importante del mondo, ex rabbino capo ashkenazita d'Israele. Quando domani, alle 16.30, lei consegnerà nelle mani di lui il dischetto portato da Milano affinché il contenuto sia aggiunto all'imponente database israeliano, nel silenzio più assoluto il pensiero di molti andrà al 16 ottobre 1943. A quell'ora la retata al quartiere ebraico di Roma iniziata all'alba era finita: 1.200 esseri umani di ogni età erano stati arrestati, ne verranno poi deportati 1.020, ritorneranno in 17.
Nel dischetto ci sono i nomi del nostro «mondo scomparso», un elenco di 6.806 nomi che Yad Vashem chiedeva da tempo per pubblicarlo sul sito a cui si rivolgono studiosi e parenti delle vittime. Come spiega Liliana, la Fondazione Cdec ha voluto essere certissima dei dati: cognomi, date e luoghi di nascita di ognuno, compresi gli ebrei stranieri profughi nella Penisola, legami famigliari, città di residenza, località e giorno dell'arresto, se da parte delle autorità tedesche occupanti o delle milizie fasciste, quando ciascuno è stato deportato, verso quale campo, la sorte finale (notizie disponibili sul sito www.nomidellashoah.it). «Di questi 6.806 uomini, donne, bambini e vecchi portati via sono tornati in 837», ricorda la Picciotto, «e bisogna aggiungere i 322 ebrei morti in Italia, assassinati come alle Fosse Ardeatine o suicidatisi per la paura. E ancora i circa duemila deportati da Rodi italiana, di cui spero presto saremo in grado di fornire a Yad Vashem la storia altrettanto scientificamente dettagliata». C'è soddisfazione nella voce di Liliana, un orgoglio ben riposto se si pensa che quello del Cdec è probabilmente il database più accurato d'Europa. Per lei, e per coloro che l'hanno aiutata, ricostruire l'elenco e le circostanze degli arresti è stato «un imperativo etico portato avanti con determinazione per restituire a ognuno una identità e per costituire una specie di appello nominale alla nostra coscienza».
Non è e non deve essere un conteggio più o meno arido, bensì il ricordo — uno a uno, lentamente, nome per nome, suono per suono, viso per viso, sorriso per sorriso — di una generazione fatta sparire dai nazisti e dai fascisti. Sì, di quei nomi noi dobbiamo avere nostalgia. E l'Italia deve essere riconoscente a chi, come il Cdec, si impegna in un lavoro in cui memoria e storia s'incontrano e si fondono e la pietas si sposa alla ricerca scientifica. Ascoltare la voce triste e funerea dei documenti, la colonna prestampata alla voce «motivo dell'arresto», dove a mano i carcerieri scrivevano «per motivi razziali», come se fosse tutto spiegato con quella frase. «Abbiamo ripercorso passo a passo l'itinerario delle persone prese nelle loro case, nei luoghi di fuga, per strada, nei rifugi, dopo essere state scoperte come ebree. Non è facile oggi capire che si poteva essere fuorilegge perché appartenenti a una data cultura o a una data religione. Come madre, ho sempre avuto difficoltà a spiegare ai miei figli il senso di quello che è successo agli ebrei d'Europa non molti anni fa, so solamente spiegare come tutto ciò sia accaduto, il meccanismo messo in atto per perseguitarli ed eliminarli dalla faccia della terra, ma non il perché».
La cerimonia allo Yad Vashem è resa ancora più dirompente dalla morte avvenuta giorni fa a Roma di Shlomo Venezia, uno dei pochi sopravvissuti a Auschwitz-Birkenau, uno dei pochissimi — l'unico in Italia, una dozzina in tutto il mondo — testimoni dei Sonderkommando, i gruppi di deportati costretti a rimuovere i cadaveri dalle camere a gas e portarli ai forni. Così da ora in poi la narrazione negazionista sarà più libera, alla menzogna non potranno più controbattere la voce, le parole, l'emozione, le lacrime di chi fu costretto a lavorare ai forni crematori. «Non è lontano il giorno in cui se ne andrà l'ultimo testimone. Proprio per questo è ancora più necessario studiare ogni singolo caso, darsi da fare affinché non ci siano né buchi di conoscenza né dubbi. È l'unica difesa che abbiamo».
Invece i negazionisti del forum italiano di Stormfront hanno accolto la notizia della scomparsa di Venezia con esultanza e hanno aperto una discussione dal titolo «Morto il falsario olo-sopravvissuto Shlomo Venezia!», («olo-sopravvissuto» significata scampato alla Shoah nel gergo neonazista, ndr) con irripetibili commenti accompagnati da oscene immagini di calici di vino e boccali di birra nel momento del brindisi. In Rete c'è dunque chi inneggia alla morte di Shlomo Venezia: tanto per non farci dimenticare che tutti gli arresti del dicembre 1943, del gennaio/metà febbraio 1944 furono compiuti dalla polizia italiana.
Questo negazionismo è tanto dilagante quanto impunito, ed è comunque palese una malcelata noia per la memoria. Tutto ciò ci parla ancora di odio antiebraico. E i siti italiani in stile Stormfront ci fanno «marameo». Così il dibattito, soprattutto tra storici, sulla opportunità o meno di una legge antinegazionista riprende corpo. «Ho sempre resistito a norme che imbavaglino le espressioni che negano lo sterminio — dice Liliana Picciotto —, però questi signori godono di una tale impunità che l'ondata aumenta in maniera impressionante. E io penso alla salvaguardia della dignità degli ebrei. E penso soprattutto al fatto che se tra i giovani passa l'idea che nazismo e fascismo non hanno compiuto nulla di male, come faremo noi a educarli ai valori positivi dell'umanità, della cittadinanza e della solidarietà?». È con questi pensieri nel cuore che Liliana consegnerà quel floppy disk nelle mani del vecchio rabbino Meir Lau, che fu bambino in un lager.
stefano.jesurum@gmail.com

Corriere 15.10.12
Da Einstein a Mendelssohn il mondo negato dai nazisti
di Paolo Salom


La pipa in bocca, lo sguardo abbronzato, i capelli, come sempre arruffati, nel vento. Il genio e il mare. Ancora: lo scienziato con la moglie Elsa fotografati tra due cactus, a Palm Springs, durante una vacanza all'inizio degli anni Trenta. Il genio e il sole.
Albert Einstein e le istantanee della sua vita privata: la passione per la vela, i periodi di relax con l'amata cugina e consorte, sulla spiaggia, nel giardino della sua villa, durante una passeggiata, a Princeton, in California, a Berlino. Queste immagini — sono 600, per lo più sconosciute al grande pubblico — emergono grazie all'immenso lavoro del Leo Baeck Institute che domani inaugurerà ufficialmente, al Center for Jewish History di New York (e in contemporanea nelle sede di Gerusalemme) il sito DigiBaeck, ricettacolo online di 3,5 milioni di pagine che erano originariamente conservate, appunto, negli archivi dell'istituto. Il materiale è comunque già consultabile sul sito www.lbi.org/digibaeck, mentre la cerimonia potrà essere seguita in diretta allo stesso indirizzo. Einstein non è l'unico protagonista illustre di questa straordinaria memoria digitalizzata. L'istituzione, fondata nel 1955 in memoria dell'ultimo rabbino della comunità tedesca al tempo dei nazisti, infatti, ha conservato per tutti questi decenni le testimonianze di un mondo intero: documenti, fotografie, diari che raccontano la storia della comunità ebraica di lingua tedesca nell'arco di cinquecento anni.
Ci sono dunque personaggi celebri. Come Einstein, Moses e Felix Mendelssohn, Franz Kafka, Sigmund Freud, per citarne solo alcuni. Ma anche uomini e donne senza una storia particolare, e tuttavia preziosi, con le loro lettere, appunti e testimonianze, per ricostruire la vita quotidiana di un mondo scomparso negli anni della follia hitleriana. «L'archivio si occupa soprattutto della vita quotidiana, delle famiglie — ha spiegato al giornale israeliano Haaretz Anja Siegemund, direttore dell'Istituto Leo Baeck di Gerusalemme —. Al centro non ci sono soltanto i nomi più noti dell'ebraismo tedesco, ma anche esponenti ordinari di tutte le classi sociali».
Attraverso lo studio dei reperti «ordinari» sarà dunque possibile farsi un'idea della ricca storia quotidiana di una comunità intera. Invece, dall'esame degli scritti di celebrità come lo scrittore Joseph Roth (La marcia di Radetzky, La leggenda del santo bevitore) o Martin Buber (Io-tu, I racconti dei chassidim) verranno forse alla luce quegli aspetti inediti che magari avranno avuto un ruolo nella nascita dei loro capolavori. In ogni caso, sarà restituita luce a un universo che sembrava perduto per sempre.

Corriere 15.10.12
Le lettere di Kafka alla Biblioteca di Gerusalemme

Andranno alla Biblioteca Nazionale di Gerusalemme (che si impegna a pubblicarli) manoscritti, diari, disegni e lettere private di Franz Kafka (foto) e del suo amico Max Brod, oggetto di estenuanti duelli in tribunale a Tel Aviv fra l'istituzione e due anziane sorelle israeliane. Nel riferirne, il quotidiano «Haaretz» — che per primo si occupò della vicenda — parla di «sentenza drammatica» e anticipa che la parte sconfitta ricorrerà in Appello.

Corriere 15.10.12
A mezzo secolo di distanza tra loro due Nobel rivelano tutto delle cellule
di Massimo Piattelli Palmarini


Quando il compianto Salvador E. Luria ricevette, nel 1969, il Premio Nobel per la medicina o fisiologia per un lavoro pubblicato nell'allora già lontano 1943, mandò agli amici una vignetta tratta dalla rivista New Yorker. Vi si vede un signore in poltrona, che legge sbigottito un quotidiano e dice alla moglie: «Cara, pare che mi abbiano dato il Premio Nobel per qualcosa che ho fatto più di cinquant'anni fa». Il quasi ottantenne Sir John B. Gurdon, ora dovutamente insignito con tale Nobel, potrebbe dire lo stesso.
Il suo elegante esperimento, da gran tempo riportato nei manuali di biologia, risale, infatti, al 1962, cinquant'anni esatti.
Concettualmente semplice, ma tecnicamente complesso (specie con le tecniche allora disponibili) rivelò con chiarezza ciò che, a buon motivo, solo si supponeva, cioè che ogni cellula del corpo racchiude lo stesso identico corredo di geni. Gurdon lo effettuò su una specie di ranocchie acquatiche, lo Xenopus laevis, perché l'ovulo misura circa un millimetro e lo si può, quindi, delicatamente manipolare sotto una lente di ingrandimento. Prese un ovulo, vi tolse il nucleo, e lo sostituì con quello di una cellula intestinale, anche questo per motivi pratici. In teoria avrebbe potuto fare questo trapianto di nuclei cellulari con un qualsiasi diverso tipo di tessuto già altamente differenziato. Poi dette avvio alla crescita di molti di questi ibridi cellulari ottenendo dei girini e, in circa un caso su cento, ottenne delle normalissime rane acquatiche. Ricordo, molti anni fa, in visita al suo laboratorio a Cambridge (che adesso porta il suo nome) di averle viste allegramente nuotare in una vasca. Avevano un colore leggermente più pallido delle loro consorelle normali, ma questo è un dettaglio. Contava moltissimo, invece, l'essenza di questa delicata operazione, cioè che il patrimonio genetico di un individuo resta immutato dall'uovo fecondato, giù giù fino alle cellule più specializzate del suo corpo. È sapendo questo che adesso, prelevando semplicemente una cellula dalla saliva, si può fare la sequenza dell'intero genoma. L'anno del giustamente celebre esperimento di Gurdon è lo stesso in cui è nato Shinya Yamanaka, lo scienziato giapponese che divide il Nobel con Gurdon. Il suo esperimento è quasi l'immagine speculare di quello di Gurdon, perché è riuscito a de-programmare delle cellule differenziate di topo inserendovi, con l'aiuto di un virus, quattro fattori embrionali di regolazione, per poi vederle differenziarsi di nuovo in un tessuto diverso. A differenza dell'esperimento pioniere di Gurdon, quello assai più recente di Yamanaka offre concrete prospettive terapeutiche, in quanto le sue cellule staminali pluripotenti indotte (in gergo iPS) possono, almeno in teoria, modificare delle cellule estratte dal tessuto di un individuo, per poi essere reinserite in un tessuto diverso e ivi fatte proliferare. Questo è riuscito nel topo, ma vi sono ancora delle incertezze per le applicazioni cliniche sull'uomo. Ma la lezione di biologia che loro ci hanno insegnato è quanto mai fondamentale e va oltre le prospettive di applicazioni cliniche, per quanto auspicabili. Dato che il patrimonio genetico è sempre identico, a partire dalla prima cellula, da tempo si è concluso che la formazione dei diversi tessuti è il risultato di complesse attivazioni e inattivazioni di particolari geni nei particolari tessuti. La regolazione dell'attività dei geni, ormai studiata al livello di intere reti dinamiche, non di rado mediante possenti calcolatori, è un processo chiamato epi-genetico, cioè che avviene «a valle» (al di sopra) delle sequenze di Dna. Il complesso formato dal Dna e dai corpuscoli attorno ai quali esso si avvolge, come un nastro su dei rulli, nel formare i cromosomi, prende il nome, appunto, di epi-genoma. Questo, a differenza del genoma, è diverso tra un tessuto e un altro. Immaginiamo che le delicatissime e incessanti contorsioni del nastro di Dna espongano al macchinario cellulare di replicazione, trascrizione e sintesi proteica i geni (poniamo) 78, 2085 e 15783. Abbiamo un neurone. Ora invece vengono esposti (poniamo) i geni 1865 e 182, abbiamo una cellula del fegato. E così via. In molti casi, oggi come oggi, questi processi possono essere pilotati ad arte in laboratorio, in varie specie, dandoci un primo panorama della biologia dello sviluppo. Si è così scoperto che, fondamentalmente, resta vero quanto abbiamo appena visto, cioè che tutte le cellule del corpo contengono lo stesso corredo genetico, ma non proprio esattamente. Si sapeva da tempo che fanno eccezione le cellule germinali, i globuli rossi del sangue e alcune cellule del sistema immunitario. Negli ultimi anni si comincia a sospettare che vi siano piccole differenze, tra un tessuto e un altro, nel numero di coppie di alcuni geni, nello loro collocazione accanto ad altri geni, e nelle inserzioni, duplicazioni e delezioni di frammenti di Dna. Infine, in tessuti diversi, nell'atto di trascrivere il Dna in una molecola intermedia assai simile, chiamata Rna messaggero, le unità più piccole di cui è composto ogni gene (chiamate in gergo esoni), si ricombinano in modo diverso, quasi come rimescolando un mazzo di carte. Questo spiega, almeno in parte, come sia possibile costruire organismi molto complessi sulla base di appena ventiquattromila geni. Le ricerche sono attivissime in tutti questi settori e i Premi Nobel dei prossimi anni ricompenseranno le più importanti. Sono persuaso che Gurdon abbia osservato, con una certa fierezza, in tutti questi anni, arricchirsi di nuovi particolari l'arazzo da lui magistralmente impostato in un allora disadorno laboratorio di Cambridge. Grazie, Sir John.