martedì 16 ottobre 2012

OGGI VIDEOFORUM A REPUBBLICA TV
Il segretario del Partito democratico Pierluigi Bersani oggi alle 12 risponderà alle domande dei lettori su Repubblica Tv Le domande possono essere inviate a videoforum@repubblica.it

l’Unità 16.10.12
Da Bettola al Cern. La campagna «glocal» di Bersani
Il lavoro come bene comune
Dal luogo delle «radici» a quello dell’innovazione è il leit motiv del leader Pd
di Bruno Gravagnuolo


ROMA Ma quale «vintage» e «uomo del buon tempo antico», come con spocchia scrive di Bersani Pierluigi Battista sul Corsera di ieri. Qui di polveroso e logoro c’è la solita retorica del «nuovo» e della sua «progressione inesorabile» (e mancava solo che Battista parlasse di «potenza geometrica» dello sfidante del segretario!). E al netto degli slogan e del tifo di certi commentatori, la verità è un altra. Quella partita da Bettola, borgo natio del segretario Pd, è una sfida comunicativa vera e propria. Ma di pensiero. Di contenuti concreti. Che si snoda da un «mondo vitale» preciso una certa Emilia e che attraverserà l’Italia paese dalle «cento radici» come diceva Cattaneo (quello vero e non quello della Lega). Per approdare infine al Cern di Ginevra, passando per Parigi e il congresso del Partito socialista Europeo. Dove è già fissato l’appuntamento con Hollande.
Che significa tutto questo e dov’è il contenuto? Partiamo da quella foto di famiglia, da quella pompa di benzina e dalla cornice pittorica di Hopper a far da sfondo. Qui non c’è nessun «creativo». Nessun «copyrighter». Ma una scelta iconografica precisa in Bersani: di parole e cose. Quella foto e quel piazzale condensano alcune realtà. Vere ieri e vere oggi. C’è la forza della micro-impresa familiare, approdo faticoso di un Italia operaia e contadina che congiunge città e campagna. Vero ieri e vero oggi. Pur nella drammatica tempesta globale che minaccia territori e stati vasi di coccio, a causa di sprechi, ingiustizie e privilegi. E poi c’è la solidarietà capillare. Dove non c’è contraddizione tra merito ed eguaglianza, tra comando e responsabilità verso i più deboli. Lo ha teorizzato anche uno dei filosofi politici «liberal-progressisti» più importanti del Novecento: l’americano John Rawls. E cioè: l’ineguaglianza si giustifica unicamente se aiuta gli ineguali ad elevarsi. Altrimenti è ingiusta. Vero ieri e vero oggi. E tra parentesi, uscendo dall’Italia e andando di nuovo in Usa, anche il grande Hopper alludeva a tutto questo. Narrava infatti di solitudini individuali, in un paese sterminato e standardizzato. Ma solitudini illuminate da incontri, e possibili fraternità dietro l’angolo. Senza dire che in America la «middle class» di Hopper resta ancora decisiva: nerbo della grande nazione. Impoverita da finanza e grande depressione. Vero ieri e vero oggi.
Ecco allora e fuori di metafora, alcuni visibili lineamenti di programma. «Lavoro», innanzitutto. Come diritto-dovere. Nonché luogo fisico dove si forma l’individuo, al crocevia delle relazioni che lo rendono persona. Lavoro come bene comune. Benzina dell’accumulazione. Della redistribuzione e dell’innovazione per competere (Il Cern). E ancora: lavoro come sostrato di interessi materiali e valori generali. A sostegno di un partito progressista e di massa. Punto cruciale questo, dove Bersani cerca di reintrodurre due «fondamentali». A lungo oscurati dalle bugie liberali e liberiste. Ovvero, «la fine del lavoro». E la fine presunta della possibilità dei partiti, come «corpi intermedi» a identità riconoscibile.
Due accecamenti veri e propri, falsificati dalla realtà sociale. E che alla fine hanno prodotto una politica populistica, carismatica e «trasversale». Molto più degradata della «malapolitica» di un tempo, con deleghe in bianco a notabili e capi. E filiere di lobby e clientele. E invece no. Dal lavoro dipendente, negato e umiliato, e dal lavoro autonomo, colpito nell’inventiva e nel reddito, è possibile trarre un blocco sociale. E un’alleanza politica. Da contrapporre con un partito e una coalizione vincente al fallimento del vecchio blocco di destra. Senza chiudere le porte ai moderati, né cancellare con un tratto di penna i lati buoni dell’agenda Monti. E però con la forza storica di un’identità politica, che nasce da un proprio blocco sociale. E senza feticizzare i tecnici, dopo aver celebrato e subito il populismo.
In sintesi è proprio questa la sfida delle «primarie» di Bersani: costituire un partito di massa nel fuoco dello scontro interno. Partito rinnovato. Con regole e non «leaderistico». Per vincere sui territori la partita. Conquistare il governo nazionale. E presentarsi con le carte giuste in Europa, in asse con le forze socialiste e democratiche. Qui verrà infine la madre di tutte le battaglie: contribuire a cambiare le politiche economiche. E rovesciare su scala continentale i dogmi del monetarismo. Ci vuole un fisico bestiale? No, bastano alcune idee, almeno per provarci. E Bersani ce le ha, per trovare «un senso a tutta questa storia».

l’Unità 16.10.12
Matteo Orfini «Sì al nuovo, i governi dell’Ulivo non hanno cambiato il Paese»
«Il rinnovamento va fatto senza liste di proscrizione
D’Alema e Bindi? Sbagliano a reagire così alle provocazioni di Renzi»
di Andrea Carugati


«Veltroni ha fatto un gesto apprezzabile, di grande generosità. Ma non si tratta certo di un ritiro dalla vita politica. Si può partecipare alla vita pubblica anche senza stare in Parlamento e del resto Stefano Fassina e anche io ne siamo la dimostrazione», dice Matteo Orfini, responsabile Cultura e informazione del Pd.
Anche voi “giovani turchi” siete stati indicati come rottamatori perché avete chiesto facce nuove nella prossima squadra di governo.
«Il tema del rinnovamento esiste, ma è stato impostato male. Da parte di Renzi c’è stata un’intollerabile aggressione contro alcuni suoi compagni di partito. Si può discutere di tutto, anche duramente, ma non si può fare quell’opera di delegittimazione che lui sta facendo in giro per l’Italia contro D’Alema e altri».
Insisto: anche voi avete chiesto una nuova squadra per il governo.
«Noi abbiamo provato a fare un ragionamento politico, chiedendo una squadra nuova non per ragioni anagrafiche, ma perché diamo un giudizio critico delle esperienze di governo del centrosinistra. Vorrei che si partisse dalle ragioni per cui è necessario il rinnovamento. Che non significa pensare di rottamare o pensionare qualcuno». Eppure è un fatto che la rottamazione in senso renziano ormai ha fatto breccia nel dibattito pubblico.
«Nel Paese c’è un clima di cui tutti siamo consapevoli. Ma a questa domanda di novità va data una risposta politica, non lo si può subire. Ad esempio, ritengo che in Parlamento alcune personalità di grande esperienza siano indispensabili. Se Napolitano è un presidente così autorevole lo è anche perché è stato a lungo in Parlamento».
A voi trenta quarantenni non renziani che effetto fa che ci sia un gruppo di vostri coetanei che, per la prima volta, sta imponendo l’agenda nel Pd?
«La sfida che lancia Renzi è la più vecchia del mondo: si propone come il prosecutore delle politiche del centrosinistra degli anni Novanta, la terza via che ha dominato il socialismo europeo. Oggi, per uscire dalla crisi, bisogna fare scelte diverse da quelle dei governi di sinistra degli ultimi vent’anni, dall’idea di Europa alle politiche economiche».
Vi accusano di voler tornare a una sinistra pre Blair...
«È solo una caricatura delle nostre posizioni. Noi vogliamo andare post Blair, capire cosa significa oggi riformismo. Dire oggi “meno ai padri, più ai figli” non è una cosa moderna. Il tema non è redistribuire la ricchezza dentro quel nucleo familiare che si è impoverito, ma partendo da dove in questi anni si è annidata».
Lei critica duramente gli attacchi di Renzi a D’Alema, ma cosa pensa della decisione dell’ex premier di ricandidarsi? «Dire “quello sì” e “quello no” in base all’età è una sciocchezza. La foto del 1996 non parla più al Paese di oggi perché i risultati di quei governi non sono stati all’altezza delle aspettative».
Dunque Bindi e D’Alema fuori dal governo ma in Parlamento?
«Non seguo questa logica renziana, non faccio liste di proscrizione. Voglio ragionare sui limiti di quella classe dirigente. Se la nostra gente chiede così tanto il rinnovamento è perché il ricordo di quelle esperienze di governo non è straordinario».
Il ricordo non è buono solo perché c’erano Mastella e Turigliatto?
«È solo un pezzo del problema. Quei governi hanno flessibilizzato il mercato del lavoro senza adeguare il welfare. Se oggi un giovane precario non si sente attratto dall’idea di un nuovo governo di centrosinistra, è perché quei governi non hanno risolto o impedito la precarizzazione del suo destino. E la forza di Renzi sta nel fatto che non abbiamo mai fatto una discussione seria su questi temi».
Secondo lei la sfiducia del popolo Pd verso i vecchi dirigenti deriva solo dall’eccesso di liberismo? O piuttosto da una certa debolezza verso Berlusconi? «Abbiamo ben amministrato, ma non abbiamo cambiato davvero il Paese».
Non c’entrano i presunti inciuci col Cavaliere, dalla Bicamerale al conflitto d’interessi?
«In politica contano le cose serie. E noi siamo stati radicalmente alternativi a Berlusconi. L’idea degli inciuci è cattiva propaganda».
Se lei dovesse dare un consiglio a D’Alema cosa gli direbbe?
«Non ha bisogno dei miei consigli, semmai è vero il contrario».
Secondo lei D’Alema e Bindi hanno fornito benzina alla campagna di Renzi? «No, ma alle provocazioni di quel tipo non si dovrebbe mai reagire...».

l’Unità 16.10.12
Rottamazione, idea fascistoide
La sfida è costruire una nuova politica
di Michele Prospero


C’È DIFFERENZA TRA RINNOVAMENTO E ROTTAMAZIONE. Ogni leader politico non può mutare i modelli dell’organizzazione che guida senza imporre anche un visibile cambiamento di uomini. Nuove culture annunciano sempre l’apparizione di diversi gruppi dirigenti che si cementano nel cuore di una lotta aperta. È nella battaglia delle idee che i portatori della discontinuità hanno il modo di farsi apprezzare. Non è così quando l’immissione di nuove leve di comando non è associata a una cesura culturale ma a un’operazione punitiva e di marketing.
In questo caso l’immissione di nuove leve non comporta affatto un’apprezzabile innovazione. In fondo nel 2008 non mancò un elevato ricambio, la giostra delle candidature nuove non introdusse però un salto nella qualità. Ciò perché la nomina ispirata ai leggeri canoni della comunicazione non era il risultato di una esplicita maturazione sul duro campo dell’azione politica di altre classi dirigenti.
Il Pd ha bisogno di un profondo rinnovamento che accompagni il riconoscimento collettivo del merito acquisito nella lotta politica da giovani dirigenti, amministratori, militanti. La rottamazione è però un’altra cosa. È il contrario della guerra delle idee, è la distruzione brutale di ogni storia comune che un partito custodisce con cura. La rottamazione è una ginnastica che prescinde dalle esperienze, dalle competenze, dalle storie diverse che arricchiscono una comunità politica. È solo una cattiva igiene raccomandata da chi rivendica la leadership ma non ha idee per convincere gli altri. Il termine stesso di rottamazione ha una ascendenza fascistoide che non per nulla scalda Dell’Utri e Santanchè, stuzzicati dalla mitologia della giovinezza, primavera di bellezza (bellezza, un altro termine caro agli atleti della rottamazione).
Quando non si dispone di una cultura politica nuova, è più comodo ricorrere a una spruzzatina di liberismo sempre utile per le èlite (quelle che regalano la copertura mediatica e il denaro necessario all’impresa) e a una dose massiccia di populismo necessario per incantare la massa (quella di ogni colore che alla sola idea di un repulisti violento mostra un rapimento mistico).
La rottamazione è un arnese del populismo contemporaneo che scommette sull’istintualità irriflessiva del pubblico e sull’oblio della ragione critica: in nessuna democrazia si ingiuria la propria classe dirigente, per affidare la continuità della Repubblica a Bossi, Berlusconi, Cicchitto, Casini, Fini, La Russa, Gasparri, Tremonti. Il significato ideologico della rottamazione (nei partiti stalinisti si chiamava epurazione, la sostanza non cambia) è evidente: nel nome della morte alla nomenclatura si cerca di rimuovere con azioni di forza le culture, le storie della plurale sinistra italiana (post-comunitsa, prodiana, laico-socialista, popolare).
La rottamazione è una volgare arma contundente. La maneggia soltanto chi gioca sull’equivoco di stare un po’ dentro un organismo (al punto da rivendicarne il marchio che gli serve per andare al governo ma non di sporcarsi le mani partecipando alle discussioni nei gruppi dirigenti) e molto fuori (ai limiti della proclamazione di una alterità irriducibile rispetto alla politica). È tipico della mentalità populista operare ambiguamente all’interno di una organizzazione come se si abitasse però all’esterno di essa.
Il rottamatore è un politicante astuto, con una controversa esperienza nell’amministrazione della città (la soave neve fiorentina condannò alla paralisi mezza penisola!). Non ha nulla di significativo da dire, oltre la recitazione soporifera nei teatri d’Italia sul merito e la bellezza. Per questo ridesta dal sonno solo quando promette la caccia grossa ai dirigenti più prestigiosi. Confida, il rottamatore, sulla irreparabile decadenza della cultura politica diffusa, sulla volontà di oblio, e sul desiderio di punizione che poi è il sentimento più elementare e anche più facile da produrre in laboratorio. Non ci vuole granché a ottenere l’applauso scrosciante promettendo una demolizione dei dirigenti.
Il rottamatore strizza l’occhio al rozzo spirito di vendetta che è distribuito nei bassifondi del Paese ma non contribuisce certo a rinnovare con la civiltà della politica. Di solito proprio l’apparato peggiore e la nomenclatura più scadente sono i più lesti, in un impeto di eterno trasformismo, a salire sul camper del rottamatore. Un vero rinnovamento esige la promozione di nuove classi dirigenti che nella lotta definiscono un percorso ideale comune. Con le primarie o salta tutto in aria, come propone chi sogna il big bang (il suicidio di un partito, che non può esplodere, senza negare la propria ragion d’essere) oppure, proprio grazie alla sconfitta del populismo interno, potrà nascere un partito vero con radici solide, tali da reggere una non più rinviabile rottamazione dei rottamatori. In tempi di cinici arrampicatori senza qualità, il rispetto è la prima virtù politica, preliminare in ogni conflitto, anche il più aspro.

l’Unità 16.10.12
Renzi all’incasso: «È solo l’inizio»
Rossi: non hai capito
di Vladimiro Frulletti


Prima un tweet domenica notte dal camper («Onore alla nobile scelta di Walter Veltroni»). Poi due righe sul proprio profilo Facebook ieri mattina: «Bene la scelta di Veltroni: sono sicuro che non sarà l'unico a fare questo passo». Così il sindaco di Firenze sulla decisione del primo segretario del Pd di rinunciare al seggio parlamentare nella prossima legislatura. Una scelta, per Renzi, nobile che non resterà isolata. Anche perché effetto della sua spinta rottamatrice. È vero che da Fazio, Veltroni ha negato che il suo passo indietro sia stato determinato dalla campagna del sindaco contro i vecchi dirigenti del Pd, spiegando che non si rottamano le persone ma le cose e ricordando che il criterio anagrafico è perlomeno limitante per costruire un vero rinnovamento visto che l’anziano «Vittorio Foa era uno straordinario innovatore» assai più del pur più giovane Fiorito.
E tuttavia per il sindaco e i suoi sostenitori è oggettivo che ci sia un legame fra la rottamazione renziana e l’addio (alla poltrona, ma non alla politica) di Veltroni. Perché se Renzi si dice sicuro che Veltroni «non sarà l’unico», anche un suo sostenitore, già vicino all’ex sindaco di Roma quando guidava il Pd, come il parlamentare Salvatore Vassallo pur non vendendo automatismi fra la scelta di Veltroni («una dimostrazione del suo stile») e quella degli altri dirigenti Pd («naturalmente non impegna nessun altro») però si dice convinto che tutti saranno obbligati a rifletterci sopra. E per non essere frainteso aggiunge che «figure come quelle di Veltroni o D’Alema possono continuare a dare un contributo alla vita civile e politica del paese in modi diversi» anche perché pure Bill Clinton e Tony Blair continuano a avere un ruolo politico pur non avendo incarichi istituzionali. E anche per l’europarlamentare Debora Serracchiani (e candidata alla presidenza del Friuli Venezia Giulia) s’è fatto sentire l’effetto rottamazione che Renzi ha interpretato dando voce a una voglia di cambiamento che è nella società, tanto che anche per lei è giusto che altri seguano l’esempio di Veltroni. E nel caso non lo facciano, invita il Pd a negare le deroghe previste dallo statuto a chi ha superato i 15 anni di mandato parlamentare.
Chiavi di lettura del gesto veltroniano (con ovvie e conseguenze per gli altri “vecchi”) che però sono smontate da vari esponenti del fronte bersaniano. A cominciare dal “vicino di casa” di Renzi, il presidente della Toscana. Per Enrico Rossi cercando di intestarsi la decisione di Veltroni Renzi dimostra di non aver capito nulla. Nel passo indietro di Veltroni per Rossi «c'è amore per il partito di cui è stato il primo segretario». «Un gesto di generosità» in cui Rossi vede «il rispetto di se stesso, delle idee, dei valori e delle fatiche che ha compiuto». Insomma «nulla a che fare con la rottamazione né con l'idea che la buona politica sia legata all’età». Ancora più duro il coordinatore della campagna di Bersani, Roberto Speranza che parla di «caccia all’uomo» da parte del sindaco di Firenze. «Renzi dice si muove sul terreno della caccia all’uomo: il suo messaggio è su chi non dobbiamo candidare». «Quella di Veltroni commenta Livia Turco non è rottamazione ma solidarietà tra le generazioni e aiuterà il ricambio». Per l’ex ministro della salute Veltroni non ha ceduto alle pressioni rottamatrici di Renzi «un giovane che non ha titolo per dirci di andarcene». Mentre il deputato Dario Ginefra, primo firmatario di un disegno di legge per fissare a 3 il limite dei mandati parlamentari (ma anche del documento di solidarietà a D’Alema) giudica «indecente l’impostazione che il cosiddetto rottamatore Matteo Renzi sta dando alla campagna per le primarie. Il PD ha le sue regole e spetta al Partito e non a Renzi o al sottoscritto decidere se esistano i presupposti per eventuali deroghe». E anche Walter Verini, braccio destro di Veltroni, spiega che l’ex segretario ha tanto da insegnare «a giovani rampanti» e respinge non solo come «incivile e volgare» la «tendenza alla cosiddetta rottamazione», ma anche come rischiosa. «Se mettiamo dei giovani dice ma le dinamiche rimangono sempre quelle di una politica chiusa, ci si può rinnovare anagraficamente, ma non politicamente».

Corriere 16.10.12
D'Alema vuole fermare Renzi: così me ne vado prima del voto
Big inquieti dopo l'addio di Veltroni. Il rottamatore: non sarà l'unico
di Fulvio Bufi, Monica Guerzoni


ROMA — L'addio di Walter Veltroni al Parlamento ha terremotato il Pd. Tra i dirigenti che «vantano» il maggior numero di onorevoli primavere, l'imbarazzo (e il nervosismo) è tale che molti preferiscono tacere. Ma da Napoli parla Massimo D'Alema, il più autorevole e quasi il più anziano dei «big» democratici. Dopo 23 anni e 189 giorni al servizio delle istituzioni il presidente del Copasir, che da settimane subisce gli attacchi di Matteo Renzi, rivela: «La mia disposizione d'animo è a non candidarmi. Semmai, potrò farlo se il partito me lo chiede... Io sono disposto a dare una mano, sennò amici come prima».
Non è un'autorottamazione e non è un arroccamento. L'ex premier non arretra, resta a disposizione del Pd e del Paese. Ma di certo la sua posizione mette in difficoltà Bersani, perché lo costringe a decidere se applicare o no alla lettera la norma interna che obbligherebbe deputati e senatori a ritirarsi dopo quindici anni di vita parlamentare. Che farà il segretario? Per ora prende tempo, anche se ormai è chiaro che anche il leader lavora per il rinnovamento. «È giusto il ricambio e sarà promosso largamente — riconosce D'Alema — È il Pd che deve decidere se ci sono personalità che è opportuno che restino, derogando al regolamento. In un Parlamento dove torneranno Berlusconi, Dell'Utri e Cicchitto pensare che il rinnovamento consista nell'eliminare il gruppo dirigente del Pd è una visione un po' faziosa».
Non è un posto di lavoro, che D'Alema va cercando. Ma non sopporta che la dirigenza del Pd sia schiacciata sull'immagine di «una oligarchia che non vuole muoversi dal Parlamento». Renzi non lo nomina mai, ma è a lui che pensa quando rimprovera chi ha messo al centro del dibattito il tema della rottamazione: «È un modo per farsi del male da soli». Ecco, quel che gli sta a cuore è difendere la dignità della sua storia personale. E la dignità del Pd: «Facciamo argine a questa ondata e dopo io me ne vado tranquillo». Quando? «Subito dopo le primarie e prima delle elezioni».
Se il popolo del web accoglie con sarcasmo le parole del già capo del governo, lui rivendica l'appello del movimento Ripartiamo dal Sud pubblicato (a pagamento) sull'Unità: «Le ragioni del mio impegno politico sono rafforzate dal sostegno e dalla solidarietà di centinaia di intellettuali, sindaci e accademici». Sotto al titolo «Basta divisioni e personalismi» figurano 700 firme. Ma il sindaco di Rionero in Vulture, Antonio Placido, smentisce: «Sono schierato con Vendola, non sottoscrivo alcun appello».
La rivoluzione è iniziata. «Bene la scelta di Veltroni — esulta Renzi — Sono sicuro che non sarà l'unico a fare questo passo». Ma la vecchia guardia prepara le barricate. Anna Finocchiaro non commenta la scelta di Veltroni e Rosy Bindi, 18 anni e 184 giorni di seggio, smentisce di aver mai detto che «il partito ci deve difendere» dall'assalto di Renzi. Un principio che D'Alema non condivide: «Sono gli elettori a difenderci dagli attacchi di Renzi». E anche Beppe Fioroni non farà largo ai rottamatori: «Io avverto una spinta a rendere sempre piu difficile la presenza mia e dei Popolari nel Pd...». Parole che tornano a evocare il rischio scissione.
Sul fronte alleanze Di Pietro scrive a Bersani, Vendola e Nencini e chiede un «incontro chiarificatore», con la speranza di trovar posto nella coalizione. Ma il segretario pensa che non basti una missiva a cancellare anni di attacchi al capo dello Stato.

Repubblica 16.10.12
E Bersani ora punta sul ricambio: è indispensabile
“La ruota girerà, la strada è il rinnovamento”. Passo indietro di Castagnetti e Turco
di Giovanna Casadio


«IL RICAMBIO è indispensabile ». Quella di Pierluigi Bersani non è solo una parola d’ordine. È una tentazione. Di allargare lo spettro del rinnovamento. E ha iniziato a far scattare una sorta di “moral suasion” nei confronti di molti dei “big”. Sull’onda dell’addio al Parlamento di Veltroni, il segretario del Pd pensa a una strategia per convincere gli amici e compagni di lungo corso a seguire l’esempio di Walter.
UN “beau geste” che lui stesso ha indicato come «coraggioso ». «La ruota gira e girerà». Poche parole, un motto dei suoi, ma Bersani sa che il momento è cruciale. Difficilmente sceglierà la strada dello scontro frontale con i decani, della cui esperienza ha sempre detto di non volere fare a meno. Ma non per forza in Parlamento. Perché la strada da imboccare è «il rinnovamento ». Lo chiedono gli elettori. Anche se ieri, con un tempismo che alcuni giudicano sospetto, arriva tutt’altra reazione pugnace di D’Alema: il lìder Massimo rimette nelle mani del partito la questione dei vecchi e dei giovani, con tanto di raccolta di firme che lo sostengono. Del resto il segretario democratico sa che molti faranno “resistenza”. A cominciare da Rosy Bindi che da tempo chiede la “difesa” del partito e non intende rinunciare alla “corsa”. O Anna Finocchiaro che in questo weekend si è limitata a far sapere che «deciderà il partito ». Con tutti loro Bersani parlerà. Senza ultimatum, ma rammentando che il «ricambio ora è indispensabile». Chiederà «generosità » e soprattutto farà notare che la politica non si fa solo alla Camera e al Senato. Ci sarà anche il governo.
I primi risultati già si vedono. Non tutti i leader che Renzi vorrebbe rottamare, sono anche “resistenti”. Alcuni hanno raccolto l’appello che il segretario ha lanciato a Reggio Emilia, a conclusione della Festa del Pd, e che Stefano Fassina ricorda: «Bersani ha chiesto generosità, e Veltroni ha dimostrato generosità». Quanti lo seguiranno, quanti si convinceranno che non è più il momento di deroghe e attaccamento al loro ruolo?
Nelle elezioni politiche del 2008, quando il “rottamatore” Renzi non era ancora in camper, il momento più aspro dello scontro tra vecchi e giovani fu il pensionamento di De Mita da parte dei Democratici. Il “vecchio” De Mita rilanciò a modo suo. In quell’anno, per la composizione delle liste fu prevista una deroga per tutte le donne, a prescindere dai tre mandati. Quindi, Anna Finocchiaro, Livia Turco, Anna Serafini e altre furono riconfermate comunque; Rosy Bindi e Giovanna Melandri non erano arrivate allora ai quindici anni di mandato. E ora? Giovanna Melandri annuncia che, «se resta il Porcellum oppure sono introdotte le preferenze-spreca soldi», non si ricandida. Altro addio certo è quello di Livia Turco. «E non l’ho detto oggi, ma un anno fa davanti a un’assemblea di mille donne. La rottamazione di Renzi è disastrosa non tanto per noi decani, ma per l’immagine di questi giovani che mostrano di essere “carrieristi”, contro le madri e i padri».
Tra i rottamabili più propensi all’addio ci sarebbero Gian Claudio Bressa, Enrico Morando, Tiziano Treu. Pier Luigi Castagnetti ha tratto il dado: nel 2013 non sarà della partita. Arturo Parisi, che di anni di legislatura ne ha 12, quindi potrebbe formalmente ripresentarsi, non pare voglia farlo. «Non si governa però solo con la freschezza, ci vuole anche esperienza». E a sostenerlo sono i “giovani turchi”, quel gruppo di trenta/quarantenni vicini a Bersani e che fanno loro l’altro motto del segretario: «Le foglie nuove nascono là dove ci sono le radici». Matteo Orfini avverte: «Le aggressioni dei rottamatori sono intollerabili». Alcune settimane fa, Dario Ginefra ha presentato una proposta a Montecitorio per rendere legge il limite dei tre mandati. Con il placet del segretario.

il Fatto 16.10.12
Dentro e fuori. Nuovo gioco nel Pd
Veltroni se ne va, la Bindi punta i piedi
Nella corsa alle primarie escluso Gozi
di Wanda Marra


C’è chi si getta nella sfida delle primarie e chi si ritira a vita privata nel Pd. Ieri sera si sono chiusi i termini per presentare le candidature per i membri del partito: ai nastri di partenza, Pier Luigi Bersani, Matteo Renzi e Laura Puppato. Aveva già rinunciato Pippo Civati, c’ha provato fino all’ultimo Sandro Gozi, senza riuscire a raccogliere il sostegno necessario (gli mancavano 20 delegati). Il tutto tra polemiche, crisi di nervi, appelli al segretario. È così per chi entra, è ancor di più così per chi ha paura di doversene andare. Il tormento-ne rottamazione – a primarie ancora da fare – sta già dettando il passo all’agenda del Pd. Negli scorsi giorni Livia Turco, Ugo Sposetti, Pierluigi Castagnetti hanno annunciato il loro passo indietro (si erano detti in passato pronti a farlo anche Arturo Parisi e Franco Marini). L’annuncio che ha spiazzato tutti, però, è stato quello di Walter Veltroni, domenica sera a “Che tempo che fa”: “Non mi ricandido”, scandisce, mentre ricorda che nella stessa trasmissione annunciò che “una volta conclusa la mia esperienza da sindaco avrei chiuso la mia esperienza politica”. Poi arrivò l’offerta della candidatura a premier, i 12 milioni di voti presi, le dimissioni da segretario. Però la decisione, spiega Veltroni domenica, era presa. Ma, “questo vale per me non per altre persone. Si parla molto di Bindi e D’Alema, ma non si dice che con la rottamazione non entrerebbero Morando, Castagnetti, Parisi, che fanno del bene al Parlamento”.
SPIAZZA tutti Veltroni, costringe l’intero partito a prendere una posizione. A parte tanti ringraziamenti, l’unico a chiedergli di restare è Enrico Letta. La domenica sera è tutta per lui, con buona pace di Bersani che a Bettola apre la sua campagna elettorale. E ha un bel spiegare il suo staff che l’appuntamento con Fazio era in agenda da settimane. Bersani stesso, che sapeva tutto da giorni, si limita a dire che “Walter resterà protagonista”. E certo, Veltroni non fa un piacere al segretario, come nota la fedelissima Chiara Geloni, la direttrice di Youdem, esponente di punta del “tortellino magico” del segretario: “Più spazio a uno che non si ricandida a deputato che a uno che si candida premier. massimo rispetto per la scelta di wv, ma #rottamalastampa”, scrive ieri su Twitter. Ancora: “Sono appena uscita da una trasmissione "su pd e primarie". hanno fatto SOLO domande su Veltroni. normale? per me no”. Risveglio amaro di lunedì per il Pd. Canta vittoria Renzi: “Bene Veltroni e non sarà l’unico”. Spiazzato è D’Alema, che ad andarsene ci pensa (e ci ripensa) da mesi, ma che si trova nella sgradevole posizione di trovarsi a fare una scelta di vita, pressato dall’annuncio del rivale di sempre. Così ieri fa una contromossa interlocutoria: “Io non mi ricandiderei, lo faccio se me lo chiede il partito”. Ma quella più nervosa è Rosy Bindi, che sta vivendo un vero e proprio dramma politico (e personale). Lei la deroga la vuole senza se e senza ma ed è incredula nel vedersi additare come il vecchio da rottamare. Ieri Repubblica riportava che avrebbe chiesto il soccorso di Bersani, in difesa dagli attacchi. “Non l’ho mai detto”, “non ho parlato con De Marchis” (l’autore dell’articolo, ndr), “manipolazione” scrive in una lettera che verrà pubblicata oggi sul quotidiano. A parte questo resta in silenzio, senza parole, rispetto all’amarezza di sentirsi all’angolo, agli eventi che la spingono fuori. Il silenzio di chi non ha neanche la faccia tosta di uno come Beppe Fioroni che dice “Io non mi faccio rottamare”. Certo, le liste (e le deroghe) sono una bella gatta da pelare, che finirà sul tavolo del segretario. Per ora, però, spiega il responsabile Organizzazione Nico Stumpo è meglio non parlarne. “Rimandiamo tutto a dopo le primarie e alla legge elettorale”. Nel frattempo, infatti, al Nazareno e dintorni, si consumano le polemiche per le primarie. Renzi alla fine arriva con le firme dei delegati e con la chiavetta con quelle degli iscritti (18 mila la soglia minima). Laura Puppato sta sul filo fino all’ultimo, incontra Bersani per esprimergli tutto il suo disappunto: “Non mi piace il partito del gatto e della volpe, quello che modifica le regole. Impresa durissima rispondere ai requisiti per la candidatura”. E poi, “è stato deciso che ora i candidati debbano in soli dieci giorni (entro il 25 ottobre) raccogliere 20 mila firme di elettori di centrosinistra, con il limite di non più di 2.000 a Regione”. Per darle una mano, raccontano sia intervenuto lo stesso segretario. Sandro Gozi, invece, ha pensato a chiedere un rinvio. E alla fine si è arreso: “Nonostante la delibera unanime dell’Assemblea nazionale che doveva garantire il pluralismo delle candidature, la resistenza a far passare nomi diversi da quelli già decisi è stata fortissima”.

La Stampa 16.10.12
La lunga marcia dei figli di Berlinguer “invecchiati” al comando
Il ritratto del ceto politico più longevo dell’Occidente
di Fabio Martini


Il libro Scritto da Antonio Funiciello, 36 anni, napoletano, direttore di «Libertà Eguale», s’intitola «A vita» ed è stato pubblicato dall’editore Donzelli

A cose fatte, si potrebbe dimostrare che una certa tendenza alla «gerontocrazia» nella sinistra italiana ebbe la sua origine una quarantina di anni fa: nei primi anni Settanta.
La base del Pci non era convinta della politica del compromesso storico e, per favorire quella svolta, il suo artefice Enrico Berlinguer promosse un profondo rinnovamento della classe dirigente intermedia, il più profondo nella storia della sinistra italiana. Una massiccia cooptazione che coinvolse tanti giovani (Massimo D’Alema fu collocato alla guida della Fgci, pur non essendone neppure iscritto) e negli anni successivi portò in prima linea una intera generazione, da Walter Veltroni a Pier Luigi Bersani, da Piero Fassino a Nichi Vendola.
E una volta conquistata la prima linea, la generazione del compromesso storico non l’ha più lasciata: il gruppo che guida oggi il Pd (ma anche Sel) è lo stesso che è stato reclutato 40 anni orsono. Condannando il partito della sinistra italiana ad un destino unico al mondo: altrove «i nomi dei partiti tendono a conservarsi, mentre i nomi dei dirigenti cambiano», da noi «lo stesso partito continua a cambiar nome, i nomi dei dirigenti restano gli stessi».
E proprio al ceto politico più longevo dell’Occidente è dedicato un libro in uscita per Donzelli, “A vita”, scritto da Antonio Funiciello, 36 anni, napoletano, direttore di “Libertà Eguale”, cresciuto nell’ambiente “migliorista” della sua città, quello che ha i suoi progenitori in Giorgio Amendola e Giorgio Napolitano.
Libro ambizioso, perché, oltre ad approfondire la ricerca sul Dna del gruppo dirigente del Pd, Funiciello contrappone le virtù di una «cooptazione meritocratica» ed efficace (quella del Pci di Berlinguer, ma anche quella dell’attuale Labour Party inglese), ai vizi di una «cooptazione fidelizzante»: quella che negli ultimi 20 anni ha finito per premiare giovani “abatini” e conformisti, contribuendo a mantenere al potere quelli della generazione precedente. Esemplare, tra tutte, la parabola di Massimo D’Alema, iniziata in anni nei quali nel Pci «il criterio di merito non prevaricava gli altri ma era decisamente considerato».
Nel 1975, per la guida della Fgci, l’uscente Renzo Imbeni è chiamato ad indicare - come usava allora - il suo successore. E’ Amos Cecchi, che però è contrario al compromesso storico. Pregiudizio inammissibile per Berlinguer, che indirizza la scelta su D’Alema, che sposa subito la linea dei “grandi” e lancia anche per i giovani la proposta di un «movimento unitario».
Il capo dei giovani Dc Marco Follini manda al congresso Fgci il suo vice. Pure lui ha un nome che si farà: Pier Ferdinando Casini. Dalla tribuna Pier dirà no a D’Alema, il compromessino storico non si può fare. Era il 1978 e quel no giovanile è la prova che «il balletto tra D’Alema e Casini va avanti da 34 (trentaquattro) anni».
Sul primo numero periodico della Fgci si fa vivo anche il giovanissimo segretario del circolo di Terlizzi, di nome Nichi Vendola. Chiosa l’autore: «Il volenteroso figiciotto invia anche una orribile poesia sulla Resistenza, la cui prima parte sarà pubblicata, mentre la seconda - grazie al cielo - non vedrà mai la luce».
Scrive Funiciello: «Si può cambiare mille volte nella vita» ma tra i 25 e i 35 anni si consolida «il modo d’essere» che resta per tutta la vita». E gli ex ragazzi della generazione Berlinguer hanno introiettato una volta per sempre «la vecchia strategia togliattiana, poi berlingueriana dell’incontro tra (post) comunisti e (post) democristiani», al tempo stesso «sentendosi diversi» dai loro coetanei per effetto della nuova svolta nel frattempo intervenuta, ma soprattutto - ed è la tesi più originale e più forte - sono incapaci di scelte: «La linea d’ombra del comunismo attendeva di essere attraversata» e invece quella linea «non attende più di essere attraversata e attraversa loro: il comunismo, senza avvertire i giovani del compromesso, perde la guerra fredda».
E ancora: quando si apre la successione a Berlinguer, i giovani - D’Alema in testa - scartando altre scelte, si pronunciano per il «vecchio» Alessandro Natta, scelta nobile ma che accelererà la fine del Pci.
Sentenzia Funiciello: «Diventare adulti per necessità e non per scelta è il peccato originale della generazione del compromesso storico: questo peccato ammorba ogni loro aspirazione e condanna i figli di ieri a vedersi riconosciuta la patente di padri grazie ad un lasciapassare che ha consegnato loro un messo della storia, in busta chiusa».

Repubblica 16.10.12
Da 40 anni attaccati allo scranno la top ten degli onorevoli dinosauri
I record di La Malfa e Pisanu, tre decadi per Casini e Fini
di Carmelo Lopapa


ROMA — Volti bassi e passi veloci, sulla corsia rossa del Transatlantico. Poche anime e in pena e nessuna voglia di scherzare. Altro che festa delle primarie, tra i democratici. Altro che entusiasmo da nuovo partito, tra i berlusconiani. La ricreazione è finita. Fuori dal Palazzo, aria da bufera Cleopatra, dentro, il ciclone pare già arrivato.
Dinosauri. Gerontocrati. Poltronisti. Bronto-eletti. Gli appellativi da qualche ora si sprecano, alcuni perfino un tantino ingenerosi, ma ci sono centinaia di parlamentari che da ieri incedono marchiati dal numero delle legislature che si portano sul groppone, dalle decine d’anni trascorsi in Parlamento. Sono quelli del “posto fisso” al banco di Montecitorio o Palazzo Madama. Ma la mossa del cavallo di Veltroni adesso li chiama in causa uno a uno. La gran parte resterà lì, protetta dal probabile paracadute del 30 per cento di lista bloccata della futura legge elettorale. Scialuppa ideata dagli sherpa di Pdl e Pdl. La novità è che tra qualche settimana, in campagna elettorale, per la prima volta da mezzo secolo a questa parte dovranno spiegare perché lo fanno. Perché ci stanno ancora loro, perché di nuovo.
Ora, sarà pure un giochetto facile. Ma chi è andato a spulciare gli annali ha scoperto come nel maggio del 1972, quando un trentacinquenne sardo di nome Beppe Pisanu approdava alla Camera per la prima volta — e con lui un figlio d’arte come Giorgio La Malfa allora trentatreenne — presidente di Montecitorio fosse Sandro Pertini e Amintore Fanfani lo era al Senato. Quarant’anni fa giusto ora. Giulio Andretti dava vita appena al suo secondo governo. Pleistocene. Il senatore pidiellino adesso lavora alla costruzione del nuovo partito centrista. Il repubblicano ex berlusconiano, qualche giorno fa si sfogava su queste colonne lamentandosi del fatto che per la prima volta non ha «più un partito alle spalle: dovrò cercarmene uno. Ma sono gli elettori che decidono. Non c’è un’età per la politica. Ed io sono sempre stato eletto». Indomiti. Se è per questo, fin dal 1987 i conti della Camera dei deputati sono gestiti in qualità di amministratore di «condominio», ovverosia “questore”, dall’allora socialista brindisino Francesco Colucci, 34 anni di scranno all’attivo. Si era dimesso il governo Craxi, era sbocciato un altro governo Fanfani e Tozzi, Ruggeri e Morandi vincevano Sanremo con “Si può dare di più”. Che poi, se Pisanu e La Malfa sono i decani, a seguirli in terza posizione nella lista che qualcuno adesso definisce “nera” ci sarebbe Mario Tassone. Sconosciuto ai più perché poco televisivo deputato calabrese dell’Udc che però al collegio di Reggio conoscono bene. Risultato: 35 anni in Parlamento, uno in più di Colucci.
Il resto è red carpet per i big che ritroveremo tra un anno allo stesso posto. Salvo tzunami. Cicchitto 33 anni, Casini e Fini 30, Bossi 26, financo il “giovane” segretario leghista Maroni di lustri a Montecitorio ne vanta ormai più di quattro, forte delle sue 21 candeline dall’approdo del ‘92. Era sull’onda di quell’altra indignazione, di quell’altra tangentopoli. Ventuno, come Gasparri, La Russa e Calderoli. Il settantaseienne Silvio Berlusconi, pronto a rilanciarsi o forse a mollare, sta facenedo i conti anche con i suoi 19 da «professionista della politica». Non che l’affare riguardi solo la destra. A sinistra almeno si sono posti il problema. La questione generazionale è sollevata da Renzi e rilanciata ora dal contropiede di Veltroni. Livia Turco, dopo 25 anni, ha già detto che si farà da parte se lo faranno anche gli altri. Anna Finocchiaro, 25 anche lei, è in odore di deroga. D’Alema è finito nell’occhio del ciclone, coi suoi 23 anni di Montecitorio. Poco più dei 20 di Anna Serafini, consorte Fassino. E giù scendendo, ma sono 25 i dirigenti-parlamentari Pd con 15 e più anni all’attivo. A destra avrebbero poi un altro genere di problemi, dato che i 16 anni in aula del senatore Marcello Dell’Utri si intrecciano con la frequentazione di altre “aule”. Ma questa è un’altra storia.

La Stampa 16.10.12
I dilemmi del leader e il mezzo effetto-valanga
di Marcello Sorgi


Diciamo la verità, nessuno si aspettava un “effetto valanga”. Ma se la mossa di Walter Veltroni, che domenica ha annunciato che non si ricandiderà in Parlamento alle prossime elezioni, puntava anche a mettere in imbarazzo i suoi compagni del gruppo dirigente con maggiore anzianità parlamentare e maggior numero di deroghe alla regola delle tre legislature, l’effetto c’è stato solo in parte.
Interrogato il giorno dopo, Massimo D’Alema, vale a dire il principale obiettivo della campagna di Matteo Renzi sulla “rottamazione” del gruppo dirigente del Pd, non si tira indietro e sposta la responsabilità delle scelte sul segretario. Fosse per lui non si candiderebbe, ma se il partito dovesse chiederglielo... Va da sé che tocca a Bersani decidere se sollecitare o meno le candidature più contestate. E in un modo o nell’altro il segretario, impegnato nella campagna per le primarie, dovrà pronunciarsi, perchè un suo silenzio non sarebbe accettabile, mentre il suo principale avversario plaude a Veltroni che ha deciso di farsi da parte e continua a battere per spingere i “rottamandi” verso l’uscita.
Gli interessati si sono perfettamente riconosciuti nella linea dettata dal “vecchio” Max. A parte qualche sporadico annuncio di addio, come quello dell’ex ministro Tiziano Treu, gli altri, come (ma non solo loro) Anna Finocchiaro o Livia Turco, condividono l’idea che debba essere il partito a dire se è opportuno o meno che un dirigente di lungo corso si ricandidi. Ma il vero problema è che a parte quella delle deroghe, non esistono nel Pd criteri o meccanismi per valutare. Finora, complice il Porcellum, la segreteria s’è sempre riservata una trentina di eccezioni al tetto delle tre legislature e il resto lo ha deciso meccanismo correntizio che fa sì che al tavolo in cui vengono decise le candidature, e di conseguenza gli eletti, ogni componente interna presenti il suo elenco. Ma adesso la campagna delle primarie rischia di svolgersi in gran parte sul meccanismo del “vecchio” e del “nuovo”, avvantaggiando così oltre il previsto Renzi.
Inoltre Bersani ha tutto l’interesse a pronunciarsi su una materia così delicata solo dopo che si capirà se la legge elettorale che ha mosso i primi passi in Senato arriverà a destinazione o no, e soprattutto se raggiungerà il traguardo con gli stessi connotati con cui è partita da Palazzo Madama. Basta solo pensare alle preferenze, che, se reintrodotte, toglierebbero di mezzo il problema, perchè il leader del Pd potrebbe promuovere il rinnovamento nelle teste di lista, lasciando ai “vecchi” le posizioni più difficili da rimontare, e agli elettori il compito di scegliere se riammetterli o meno in Parlamento.

Corriere 16.10.12
Una spenta idea del nostro Paese
di Ernesto Galli Della Loggia


Una gabbia d'acciaio intorno a un corpo piagato, che con la scusa di sorreggerlo in realtà lo tiene prigioniero aggravandone le piaghe: questo oggi è il rapporto in Italia tra la politica e i partiti da un lato, e la compagine sociale dall'altra. Non ci sono cattivi da una parte e buoni dall'altra, no: semplicemente un morto che tiene un vivo che vuole vivere. Il Paese è nella gabbia della politica dei partiti, destinato dalla loro immobilità ad un «presentismo», come lo ha chiamato Roberto Esposito, nel quale ogni giorno succede di tutto ma da anni non cambia nulla. Mai nulla di sostanziale. Consumata nel 1991-93 la frattura con le culture storiche del nostro Novecento (il socialismo, il fascismo, il cattolicesimo politico, il comunismo gramsciano), da allora la politica della Seconda Repubblica è immersa in un torpido presente senza vita. Da vent'anni non è più in grado di immaginare alcun futuro per il Paese, di offrirgli una visione.
Il motivo più vero e profondo è principalmente uno: perché la politica ha smarrito il senso del passato; perché nei suoi attori e nei suoi istituti — come del resto in tanta parte del Paese — si è spenta ogni idea d'Italia e della sua storia; di che cosa sia l'Italia. Distruggere un paesaggio o deturpare una piazza; lasciare che biblioteche, archivi, musei, siti archeologici si sperdano e di fatto muoiano o cadano in rovina; accettare che nomi e luoghi antichi del lavoro e dell'industriosità italiana siano acquisiti dall'estero; consentire che il sistema d'istruzione escluda sempre più dai suoi programmi interi segmenti della cultura nazionale (a cominciare dalla lingua); è questo il vuoto che abbiamo creato, presi troppo spesso dalla fregola insulsa che ciò volesse dire essere «moderni». Senza capire che sul vuoto, però, è impossibile costruire; e che poi, a riempirlo, non bastano le mitologie d'accatto.
Dobbiamo ricominciare dall'Italia, ritornare a guardare ad essa. Sì, l'Europa naturalmente, ma è qui, entro di noi, nella nostra storia, che qualcosa si è inceppato, ed è da qui che dobbiamo ricominciare: dalla necessità di ricostruire un filo e un legame con il passato, di tornare a pensare a ciò che siamo stati. L'unica speranza che il Paese stia in piedi e reagisca, oggi risiede nella sua consapevolezza della propria identità. Non per accrescere il Pil o la produttività, infatti; non per fare i compiti richiesti da qualche lontano maestro; ma solo in nome di un'idea di sé e del proprio destino una comunità può essere chiamata a fare i sacrifici più duri e trovare la forza di rialzarsi. Dobbiamo ricordare quanto ci è costato arrivare fin qui: la nostra originaria miseria, le lotte per vincerla, i morti disseminati lungo tutte le sanguinose vie del Novecento; ma pure le idee, le immagini, i libri, le musiche che sono usciti da questi luoghi. Così come dobbiamo ricordare che la politica non è sempre stata ladrocini, corruzione o ideologie dissennate, ma ha pure voluto dire speranze di libertà e movimenti di emancipazione, intelligenza del mondo, mobilitazione di passioni e di solidarietà, capacità di darsi ad una causa.
Se vuole avere un futuro, l'Italia ha bisogno di tornare a credere in se stessa, e per far ciò ha bisogno di ritrovare quel senso e quel ricordo di sé che ha smarrito. È su questo tavolo che al di là di ogni cosa si giocherà la vera partita del prossimo confronto elettorale. L'alternativa è una sottile disperazione, e il rassegnato governo del declino.

Repubblica 16.10.12
La stagione avvelenata
di Stefano Rodotà


SOPRAVVIVERÀ la democrazia italiana alle cinque crisi che la stanno pericolosamente avvolgendo? Mai, nella storia della Repubblica, si erano manifestate insieme, e via via sempre più intrecciate, una crisi istituzionale, una politica, una civile, una economica, una sociale.
Cogliamo ogni giorno i frutti amari e avvelenati di una cosiddetta Seconda Repubblica nata dall’improvvisazione e dall’imprevidenza, di un dissennato “bipolarismo feroce” (copyright del direttore di Avvenire), di una lotta politica degenerata in rissa continua, del degrado del linguaggio, della fine del rispetto dell’altro, di una regressione culturale senza fine.
La crisi civile e morale ci avvolge. Implacabili, i quotidiani bollettini di guerra ci indicano i protagonisti di una torbida stagione vissuta all’insegna della cancellazione d’ogni confine tra lecito e illecito, tra privato e pubblico. Ma gli arrestati, gli indagati, gli autori di furti legali non sono soltanto gli occasionali “testimonial” di vicende corruttive, le “pecore nere”, le “mele marce”. Si rivelano ogni giorno di più come l’avanguardia di schiere infinite, gli emuli a ogni livello di chi si è scritto leggi ad personam e ha coltivato conflitti d’interesse. Questa logica si è generalizzata, un numero crescente di persone ha trasferito risorse pubbliche nelle sue disponibilità private, anche sulla base di norme predisposte proprio a questo fine – dalle ordinanze della Protezione civile alle regole a maglie larghissime dei consigli regionali, che consentono ai mariuoli di dire d’aver seguito prassi legittime. Si è costruita una “legalità parallela” per legittimare il malaffare.
Oggi è saltato proprio quello che era stato giustamente definito il “compromesso permanente tra legalità e illegalità”. La politica sembra attonita, balbetta. Che cosa sarebbe accaduto se, all’indomani dell’assassinio del generale Dalla Chiesa, il Parlamento si fosse limitato alle esecrazioni rituali, invece di approvare tempestivamente la legge La Torre-Rognoni? Che cosa sarebbe accaduto se, all’indomani dell’assassinio di Giovanni Falcone, il Parlamento, riunito per l’elezione del Presidente della Repubblica, avesse proseguito nel rito di innumerevoli votazioni, giungendo per sfinimento all’elezione di Giulio Andreotti, invece di rompere l’incantesimo eleggendo subito Oscar Luigi Scalfaro?
Non sono richiami azzardati, di fronte al quotidiano assassinio della credibilità delle istituzioni, della legalità democratica. Non arriva nessun segnale forte, se si fa eccezione per lo scioglimento del consiglio comunale di Reggio Calabria. Il Parlamento, in un sussulto di dignità, avrebbe dovuto approvare subito una vera, seria legge sulla corruzione. E invece rimane prigioniero di ricatti, si sfianca nella ricerca di un nuovo compromesso.
La crisi della politica, allora. Palese nell’altro infinito inseguimento, quello ad una legge elettorale ormai concepita soprattutto come un mezzo per neutralizzare un esito elettorale temuto, per regolare preventivamente conti all’interno del sistema dei partiti. Le elezioni come un intralcio, un problema, e non come il momento in cui la parola torna nella sua pienezza ai cittadini? Non si vuole più correre il “rischio democratico” del voto. Ecco, quindi, l’ossessiva ricerca della continuità, che s’impiglia nell’altro vizio di questi anni, l’estrema personalizzazione della politica. Monti con la sua “agenda”, quindi, che diviene un modo per sfuggire alle responsabilità proprie. Un vero transfert, che rivela la difficoltà della politica di liberarsi dei suoi mali e tornare ad essere davvero tale. Ma i promotori del “giuramento Monti” si sono presto rivelati come degli apprendisti stregoni, aprendo la strada alla nuova scorreria di Berlusconi. Un Monti ostaggio, pedina di manovre interne ai partiti, strumento per trasformare le elezioni in un referendum pro o contro la sua persona? Diciamo, piuttosto, una vicenda che rivela una volta di più le miserie della politica.
Tutto questo avviene all’ombra non dissipata d’una crisi istituzionale. I tre soggetti che negli anni pericolosi del berlusconismo hanno impedito il collasso della legalità e, con essa, della democrazia – Presidenza della Repubblica, Corte costituzionale, magistratura – si trovano ora divisi, contrapposti. È il lascito di un’estate avvelenata, che ha visto il trasformarsi di una discussione legittima in una furia polemica che sembra inconsapevole del pericolo di una terra bruciata. Ovvio che si potesse discutere intorno alla opportunità politica e alla portata istituzionale delle posizioni assunte dal Presidente della Repubblica nella nota vicenda delle intercettazioni telefoniche conservate presso la Procura di Palermo. Ma che senso ha descrivere le posizioni in campo come un conflitto tra “trombettieri del Quirinale” e difensori della verità, delegittimando preventivamente chi esprime un’opinione diversa dalla propria? Vizi diffusi, e non da una parte sola. E che hanno progressivamente impedito di vedere che un problema esiste, che nasce proprio da controversie intorno alle prerogative presidenziali e che non può essere risolto con un meccanico rinvio a regole della procedura penale. La posizione costituzionale del Presidente della Repubblica ci indica un orizzonte più largo e va oltre quei soli riferimenti (e non può certo essere strumentalizzata per chiedere salvacondotti per altri soggetti istituzionali o per mendicare la stretta autoritaria sulle intercettazioni). Lo ha ribadito ieri lo stesso Presidente, sottolineando l’improprietà di una personalizzazione della questione e la necessità di non lasciare alcuna ombra sui rapporti tra il Capo dello Stato e altri soggetti istituzionali..
Proprio nella temperie politica e costituzionale che viviamo, una precisazione così importante appare indispensabile (e rischiano di non contribuire al chiarimento alcuni toni della memoria a difesa della Procura di Palermo). E non mi pare che sia stato apprezzato adeguatamente il fatto che Giorgio Napolitano abbia deciso di sottoporsi al giudizio di un organo terzo, la Corte costituzionale appunto. Una mossa democratica, che si è cercato di delegittimare delegittimando la stessa Corte, presentandola come un organo privato di autonomia proprio dall’iniziativa presidenziale, persino con argomenti di tipo berlusconiano, quali sono quelli che richiamano il fatto che alcuni dei giudici della Consulta sono stati nominati da lui.
La verità è che, di fronte ai molti misteri della Repubblica, prorompe quasi sempre un bisogno di giustizia sostanziale, insofferente d’ogni regola. Ecco, allora, la presentazione della posizione del Presidente della Repubblica come un intralcio alle indagini dei magistrati siciliani. Tesi contraddetta dalle stesse dichiarazioni della procura di Palermo sulla non rilevanza delle intercettazioni a questo fine. Ma di cui si è data una versione tutta politica, insistendo su un isolamento dei magistrati siciliani che, se mai, ha le sue origini altrove.
È ancora possibile ricostruire un clima nel quale la decisione della Corte venga intesa come la definizione del quadro costituzionale e non come una pronuncia che dà torto ad una parte e ragione all’altra? Non è questa la logica del giudizio costituzionale. Certo, pieno deve essere il sostegno al lavoro dei magistrati dai quali, se riusciranno a fare finalmente chiarezza sulle violazioni della legalità, verrà un contributo essenziale per la ricerca di quella verità storica e politica che è comunque responsabilità di altri organi costituzionali.
Questo contesto politico e istituzionale non è il più propizio per un governo adeguato della crisi economica e di quella sociale, che non può essere affidato, come sta accadendo, all’erosione dei diritti di cittadinanza, a partire da quelli fondamentali alla salute e all’istruzione, a una rinnovata riduzione del lavoro a merce. La sospensione di fondamentali garanzie, che toccano lo stesso diritto all’esistenza, non può essere giustificato con nessuna emergenza.
Tutto questo determina tensioni sociali sempre più forti, alle quali si accompagna un passaggio dai rischi del populismo a quelli della demagogia. Qui è il pericolo per la democrazia e le sue istituzioni che, se vogliono riconquistare fiducia, devono rimettere in onore i diritti delle persone. Questione, a ben vedere, che riguarda pure le necessarie trasformazioni dell’Unione europea, irriducibili al solo rafforzamento del governo dell’economia. A chi conviene una democrazia senza popolo?

il Fatto 16.10.12
Alcune proposte contro il marcio
di Paolo Flores d’Arcais


Come direbbe Giulio Cesare, “Italia est omnis divisa in partes tres”: il partito della legalità, il partito dell’impunità, il partito dei quaquaraquà. Quest’ultimo è decisivo, poiché denunciando come manichea l’intransigenza nella lotta contro l’impunità, garantisce i “porci comodi” di ladri corrotti e mafiosi. Col belletto della buona coscienza “moderata”, per soprammercato.
In quale partito collocare persone e comportamenti è alla portata di ogni (e) lettore. Un Parlamento che vota una legge “anticorruzione” che rende più facile la vita ai politici concussori non è certo arruolabile nel partito della legalità.
Credo invece che quest’ultimo sia nel paese ancora in schiacciante maggioranza. Ma che se resta impotente, se quello dell’impunità può continuare a spadroneggiare, serpeggerà sempre più forte tra i cittadini la tentazione di farsi quaquaraquà, dedicarsi al “particulare”, lucrare qualche briciola della torta corruttiva, trattare da “fesso” chi rispetta le leggi.
L’impotenza del partito della legalità non è affatto una fatalità, però, come troppi ormai si sono rassegnati a pensare. Possiamo re-agire. Con la mobilitazione e con iniziative istituzionali, utilizzando in sinergia il web, la piazza, le procedure che la Costituzione offre.
Immaginiamo ad esempio di elaborare a tambur battente (col web si può) un pacchetto di proposte di legge che colpiscano davvero il marcio della Casta, i suoi intrecci affaristici e/o mafiosi e tutti i suoi privilegi (che hanno nome “Legione”). Di lanciare una raccolta delle 50 mila firme con cui il Parlamento verrebbe costretto a esaminarle e votarle, e di farne il banco di prova per tutte le forze (tradizionali o create ex-novo) che in primavera si presenteranno alle urne. Pacchetto che preveda l’introduzione del reato di “ostruzione alla giustizia” con pene americane, l’abrogazione di tutte le leggi “ad personam” e della prescrizione dopo il rinvio a giudizio, il ripristino (aggravato) del falso in bilancio, l’altolà alle “consulenze”, il limite di due mandati, la non-candidabilità dopo una condanna in primo grado, le manette agli evasori, la trasparenza (pubblicazione sul web) di tutti gli atti pubblici e dei patrimoni dei pubblici funzionari…
Immaginiamo. Si può. Vogliamo cominciare?

Corriere 16.10.12
L'autunno delle donne tradite dalle rivolte arabe
In prima linea nelle piazze, ai margini nei governi islamici
di Monica Ricci Sargentini


Con la primavera araba e la caduta di alcuni regimi dittatoriali i Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa si trovano alle prese con una difficile transizione verso la democrazia. Un processo che per avere successo passa attraverso il rispetto dei diritti delle donne. Uno studio commissionato dal Parlamento europeo indica in quale modo la Ue possa favorire il rispetto della diversità di genere nei governi nascenti. Non è facile se teniamo conto che la presenza marginale delle donne nella politica e nella vita pubblica durante i regimi dittatoriali può tramutarsi in una totale esclusione nei governi di impronta islamica. Come attuare, dunque, il rispetto delle pari opportunità nei Paesi arabi dove la religione ha un ruolo predominante?
Le autrici dello studio, tutte accademiche tra cui spicca l'italiana Roberta Aluffi dell'Università di Torino, mettono in chiaro sin dalle prime pagine il grande paradosso: le donne sono agenti attivi dei processi rivoluzionari ma una volta che la rivoluzione è finita vengono messe ai margini ed escluse dal processo decisionale.
La democrazia trascina dunque con sé, nel contesto islamico, le grandi domande legate all'eguaglianza: per le donne e le minoranze etnico-religiose, che spesso sono discriminate. Ciò avviene perché democrazia significa trattare nello stesso modo, sul piano giuridico e politico, in qualsiasi contesto storico-culturale, maggioranza e minoranza. Il ruolo dell'Unione Europea è quello di porre l'attenzione sul rispetto dei trattati internazionali che devono essere in qualche modo bilanciati con i precetti dell'Islam, ma anche di dare voce alle donne che hanno un'interpretazione femminista della religione musulmana. «Moltissime magrebine — si legge nello studio — si meritano di essere incoraggiate e ascoltate in Occidente e in altri Paesi della regione». Oltre a questo sono raccomandate politiche per promuovere la consapevolezza dei diritti di genere tra le categorie professionali più coinvolte come gli avvocati e i poliziotti. E ovviamente è necessaria una campagna di informazione tra i ragazzi e le ragazze.
Un altro tema fondamentale è quello della violenza contro le cittadine dei Paesi della primavera araba. In tutta la regione si sono registrati stupri e atti di ostilità commessi dalle milizie, dai soldati, dalla polizia e talvolta anche dai dimostranti. Chi può dimenticare l'immagine della ragazza egiziana spogliata a forza da un soldato in piazza Tahrir e lasciata a terra coperta solo da un reggiseno blu? La giustizia transizionale dovrebbe occuparsi di questo tema facendo passare il messaggio che la violenza di genere non è più accettabile La Ue, dal canto suo, può «incoraggiare e monitorare ogni azione che dia supporto psicologico e aiuto alle vittime», oltre a finanziare questo approccio.
Insomma, la parola d'ordine è cooperazione: cercare di capire l'Islam politico, incontrare la società civile, le ong e le organizzazioni locali per instaurare un dialogo critico sul tema dell'uguaglianza di genere. E, come sempre, dare il buon esempio: cioè assicurarsi che le delegazioni dell'Unione Europea in visita nei Paesi in transizione siano composte anche da donne e siano in grado di sottolineare l'importanza del tema a tutti gli incontri di alto livello politico.

Corriere 16.10.12
L’Europa del Nobel può (e deve) aiutare la loro battaglia
di Marco Ventura


La lotta per la libertà delle donne arabe è la più ardua. Combattono in superficie, andando in piazza contro i dittatori di turno. Combattono in profondità ogni giorno, invisibili, contro il maschilismo, la discriminazione, lo sfruttamento. Nel 2011 la battaglia di superficie ha pagato: in Tunisia, in Egitto e in Libia il dittatore è caduto. La battaglia di profondità è un'altra cosa. Non si vince prendendo il potere. Le donne sfidano il pregiudizio e l'ignoranza: una struttura sociale intoccabile e sclerotizzata; una cultura patriarcale garantita dal Profeta e dai suoi ottusi custodi. Hanno spesso nelle compagne, nelle figlie e nelle madri le loro peggiori nemiche. Ergendosi a protagoniste delle piazze reali e mediatiche, rendendosi visibili nella battaglia di superficie, le donne hanno toccato il nervo scoperto. I soprusi subiti, fisici e morali, hanno denunciato la velleità di una rivolta che si sta risolvendo in mera lotta di potere. La violenza politica e culturale è esplosa contro di loro come contro nessuno. Le giornaliste trascinate nelle caserme, brutalizzate e sottoposte al test di verginità sono le vittime del furore maschile davanti al male profondo portato a galla. L'Europa ha grandi competenze per raccontare la lotta delle donne arabe; e per accompagnarle. Ne è testimone lo studio per il Parlamento europeo sui diritti delle donne nella transizione democratica, di cui attendiamo a giorni la versione definitiva. I dati e gli elementi dello studio non sono un esercizio accademico. Le autrici — tra cui, e ci inorgoglisce, un'italiana — hanno storie personali dense, portano un sapere reso intelligente dal travaglio post coloniale della multiculturalità europea. Denunciano il trucco che c'è ma non si vede. Offrono indicazioni preziose. Temono che l'Europa scarichi sull'altra sponda del Mediterraneo le sue divisioni interne, la retorica del «noi contro loro», l'accetta che taglia identità statiche e definitive. L'Unione Europea Nobel per la Pace ha l'intelligenza per capire e agire, se resta fedele alla propria diversità culturale e religiosa.

l’Unità 16.10.12
L’uomo non è un algoritmo
Il Nobel per l’economia a Lloyd Shapley e Alvin Roth
Premiati per la «teoria delle allocazioni», cioè i meccanismi di scambio fuori mercato
Si può ridurre tutto alla matematica però?
di Pietro Greco


PREMIO NOBEL PER LE SCIENZE ECONOMICHE 2012 AGLI AMERICANI LLOYD SHAPLEY, 89, PROFESSORE EMERITO DELLA UNIVERSITY OF CALIFORNIA DI LOS ANGELES, E ALVIN ROTH, 61 ANNI, PROFESSORE DELLA HARVARD UNIVERSITY DI CAMBRIDGE, MASSACHUSETTS. I due hanno ottenuto il premio «per la teoria delle allocazioni stabili e la pratica della progettazione del mercato». Tradotto dal gergo tecnico significa che il primo, Lloyd Shapley, ha contribuito, già a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, a elaborare teorie economiche per spiegare meccanismi di scambio fuori dal mercato. E il secondo, Alvin Roth, per aver applicato, a partire dagli anni ’80, quelle teorie a problemi pratici. Entrambi hanno utilizzato molta matematica.
In realtà sono molti decenni che gli economisti cercano di trasformare la loro disciplina in una scienza fortemente matematizzata. Cosicché spesso un premio Nobel per l’economia potrebbe trasformarsi in una Medaglia Fields per la matematica. E viceversa. Non a caso grandi matematici da von Neumann a Nash hanno elaborato teorie economiche e molti economisti uno fra tutti, Keynes erano matematici.
UN SISTEMA DINAMICO
Un’idea centrale nelle teorie economiche fortemente matematizzate è che il mercato sia una sorta di grande piazza in continua trasformazione, un sistema dinamico, dove agiscono persone che hanno sempre presente il loro interesse (economico) e cercano di massimizzarlo. Sulla base di questo assunto, i cui presupposti risalgono al pensiero di Adam Smith, nel corso del tempo sono stati elaborate teorie economiche fondate su veri e propri teoremi. Tuttavia, si chiese Lloyd Shapley alla fine degli anni ’50, non tutto al mondo è (o dovrebbe essere) mercato. Per esempio è possibile spiegare con un algoritmo il modo migliore e più efficace per far sposare dieci donne con dieci uomini? In questo caso si tratta di allocazioni stabili: fatta la scelta, essa resta (meno di divorzi). Il problema delle «allocazioni stabili» fu risolto, in via matematica, da Lloyd Shapley e da David Gale con un algoritmo: l’algoritmo Gale-Shapley. Naturalmente (e fortunatamente) femmine e maschi per sposarsi non seguono non sempre, almeno le vie (considerate ottimali dagli economisti) dell’interesse della matematica, ma le vie più inafferrabili (e anche più piacevoli) dell’amore e della passione.
Cosicché l’algoritmo di Gale-Shapley restò a lungo inapplicato. Fino a quando Alvin Roth non pensò di applicarlo a problemi reali, dove l’interesse (non economico) ha comunque la preminenza rispetto alla passione. Per esempio l’allocazione dei giovani medici negli ospedali. Come far incontrare, nel modo più favorevole possibile per entrambi, ospedali e medici? O, anche, reni da trapiantare con pazienti che attendono il trapianto? Nessuno di questi problemi può essere risolto sulla base delle leggi di mercato.
Ma non per questo è saggio lasciarle al caso o all’egemonia di uno dei contraenti o alle raccomandazioni all’italiana. Soluzioni molto buone, sostenne e provò Alvin Roth, possono essere trovate con l’algoritmo di Gale-Shapley. La cosa ha funzionato talmente bene, negli Stati Uniti almeno, da meritare un Nobel.
Resta la domanda di fondo. È la matematica il risolutore dei problemi economici, sia nella dinamica di mercato che in condizioni di stabilità come quelle studiate dai due nuovi laureati a Stoccolma? Nessun dubbio che la matematica aiuti. Ma anche nessuna illusione. I nostri problemi economici vengono dalla politica. Una politica che, ovviamente, tiene conto dello sviluppo dell’economia matematizzata. Ma anche del fatto che gli uomini non sono solo gli omologhi «agenti razionali» che popolano le teorie economiche. Gli uomini sono portatori di diversità e di una ben più profonda razionalità, che tiene in conto anche altri interessi (da quelli estetici a quelli sociali a quelli ideali) che vanno ben oltre il mero interesse economico. Non sempre, per fortuna, questi interessi altri sono completamente riducibili ad algoritmi. Confinabili in modelli generali.

Corriere 16.10.12
L'atmosfera malsana dell'Italia di Badoglio
Gelosie, meschinità, ripicche nel Regno del Sud
di Paolo Mieli


Nella storia del nostro Paese ci sono ventuno mesi — dal 25 luglio del 1943 al 25 aprile del 1945 — ricchi di suggestioni e di contraddizioni che continuano ad attrarre gli studiosi, ansiosi di comprendere come sia stato possibile che l'Italia rifondata sia diventata, di lì al 1960, una delle più grandi potenze industriali del mondo. Ma (anche) cos'è che, nei settant'anni successivi, non è andato per il verso giusto. Si cerca in altre parole di capire quali difetti dell'Italia repubblicana siano riconducibili al convulso periodo che va dalla caduta del fascismo alla Liberazione. Adesso la casa editrice Le Lettere manda in libreria due volumi di testimonianza che, in merito a quel biennio, ci offrono più di uno spunto di riflessione: Un principe nella bufera dell'ufficiale di ordinanza di Umberto di Savoia, Francesco di Campello, e Donne e politici del Regno del Sud dell'ambasciatore Roberto Ducci.
Le storie di Campello e di Ducci vanno inquadrate in quella che è materia di un altro importante libro, scritto da Alberto Leoni, Il paradiso devastato. Storia militare della Campagna d'Italia (1943-1945), che sta per essere dato alle stampe dalle edizioni Ares. La ricostruzione di Leoni prende le mosse dall'attacco alleato a Pantelleria, l'11 giugno del 1943 (ma i bombardamenti erano iniziati già il 18 maggio). Un avamposto, Pantelleria, che avrebbe potuto essere salvaguardato «per molto tempo», secondo Leoni, a condizione che l'ammiraglio Gino Pavesi, al quale spettava organizzare la difesa dell'isola, avesse fatto trasferire preventivamente altrove — e ce n'era tutto il tempo — i 12 mila abitanti di Pantelleria. Invece l'ammiraglio scelse di arrendersi subito («Conscio responsabilità numerose vite umane sento triste dovere dichiarare che tutte le possibilità materiali resistenza sono esaurite», telegrafò a Mussolini). E Mussolini, anziché esautorarlo e mandarlo su due piedi alla corte marziale (come sarebbe stato doveroso, secondo Leoni), finse di credere alla sua versione dei fatti e addirittura lo decorò, per il «valore dimostrato», con la Croce di Cavaliere. Per di più l'ordine di distruggere le munizioni di Pantelleria, risorsa bellica di primaria importanza, fu «del tutto disatteso» e l'isola fu consegnata al nemico «senza che venisse opposta alcuna resistenza». Una sorte simile toccò, immediatamente dopo, a Lampedusa. Poi, a inizio luglio, ci fu lo sbarco alleato in Sicilia; il 25 di quello stesso mese Mussolini fu destituito e il maresciallo Pietro Badoglio, assunta la guida del governo, quasi subito avviò trattative con gli Alleati per giungere all'armistizio dell'8 settembre.
Leoni qui mette in evidenza le «annotazioni demenziali» di Badoglio nella lettera fatta pervenire, tramite il generale Giuseppe Castellano, al comando alleato a Cassibile in vista dell'armistizio: «Non possiamo dichiarare l'accettazione di armistizio se non a sbarchi avvenuti di almeno quindici divisioni, la maggior parte di esse fra Civitavecchia e La Spezia», «ordinava» il capo del governo. Un «vecchio militare», scrive Leoni, «impartiva direttive ai vincitori chiedendo sbarchi colossali senza avere la minima idea della complessità di una simile operazione, dopo che lo stato maggiore italiano non era riuscito nemmeno a prendere Malta!». Gli angloamericani lasciarono cadere quei «suggerimenti» e in settembre sbarcarono a Salerno con cinque divisioni, anziché undici. Secondo Leoni, in quei mesi i generali alleati «in Sicilia sopravvalutarono la resistenza italo-tedesca e furono eccessivamente prudenti nel non tentare di conquistare subito Messina». Più tardi, invece, quegli stessi Alleati «sottovalutarono la capacità di reazione tedesca».
Dei tedeschi l'autore mette in risalto il fatto che combatterono in modo efficace, tenuto conto che «il loro sistema logistico era di molto inferiore a quello avversario e che la strapotenza dell'artiglieria e dell'aviazione alleate impedivano qualsiasi movimento diurno». Alle forze armate della Repubblica sociale viene riconosciuto da Leoni di aver difeso validamente, dall'agosto 1944, il confine alpino occidentale. E ai partigiani, oltre al merito di aver dato con l'insurrezione un contributo fondamentale «nell'abbreviare i combattimenti e nel determinare la resa delle forze tedesche», si riconosce di essersi opposti anche ai francesi e di aver impedito, assieme agli alpini, la distruzione della diga di Rochemolles. Così come fu poi sventato il tentativo tedesco di far saltare la centrale idroelettrica della Val d'Orco.
Ma torniamo ai libri di cui si è detto all'inizio. Il diario dell'ufficiale d'ordinanza di Umberto, Francesco di Campello, è molto diretto. A partire dalla descrizione delle modalità della caduta del fascismo, a fine luglio del 1943. Definisce «bestiale» che il padre del suo assistito, Vittorio Emanuele III, abbia destituito Mussolini «in maniera poliziesca». E «una vergogna» aver fatto arrestare il Duce all'uscita da Villa Savoia. Dopodiché, secondo Campello, il sovrano avrebbe dovuto abdicare all'istante. Riferisce come Umberto sia stato colto di sorpresa dalla notizia dell'armistizio l'8 settembre: «Salgo precipitosamente dal principe e, non trovandolo nel suo studio, entro in camera sua e poi in camera da bagno, dove lo trovo a torso nudo che sta insaponandosi la barba. Così gli dico dell'armistizio. Rimane col pennello a mezz'aria e mi guarda, un attimo, con gli occhi sbarrati». La fuga da Roma — dice Campello — sembra a Umberto «una vera pazzia», ma il principe obbedisce al padre che lo vuole con sé a Brindisi.
Lì Campello stringe un rapporto molto forte con il generale americano Edgar Erskine Hume, il quale, riferisce, avrebbe auspicato «che tutta questa canea di politicanti fosse messa a tacere e che al posto di questo governo inetto (di Badoglio) ci fosse un governo totalmente apolitico che pensasse soltanto all'amministrazione e alla collaborazione con loro (gli angloamericani, ndr) fino alla fine delle ostilità». Ma il buon rapporto con Hume non impedirà a Campello di qualificare come «brigantesca» la maniera usata dagli Alleati per spingere Vittorio Emanuele alle dimissioni.
Nei confronti di Badoglio i diari di Campello contengono parole sprezzanti. Anche Carlo Sforza (già ministro degli Esteri nel 1920-21 con Giovanni Giolitti e futuro ministro sempre degli Esteri, dal 1947 al 1951, con Alcide De Gasperi), è definito «un ignobile cialtrone» o «un losco individuo»: quando Enrico De Nicola suggerisce di inserire Sforza in una combinazione di governo, Campello si domanda come sia «possibile che un uomo intelligente come De Nicola non capisca che un simile bubbone malefico infetterebbe qualsiasi onesta soluzione».
Lo storico Adolfo Omodeo — per aver conferito una laurea honoris causa al generale statunitense Mark Clark non già «in nome di Sua Maestà» bensì «in nome del popolo» — viene considerato da Campello «una sporca figura»; il generale Mason-Macfarlane è descritto «in tenuta volutamente trasandata, sporco, faccia decisamente antipatica»; il generale Smith «un villano». I leader dei partiti antifascisti a Bari gli appaiono, a fine gennaio 1944, «quattro cialtroni politicanti, capeggiati da Croce, Sforza e compagni». Ne deriva che, «prescindendo da qualsiasi ideologia politica, chiunque sia in buona fede non può pensare altro che (i rappresentanti dei partiti, ndr) rappresentano solo ed esclusivamente la loro personale e sporca ambizione». Radio Bari gli fa «sempre più schifo». Colpisce la drasticità di tali giudizi da parte dell'aiutante di campo di quello che, di lì a due anni, nei panni di «re di maggio» verrà presentato come il volto nuovo di casa Savoia.
Comunque Campello (a differenza di molti suoi coevi) ha una sua coerenza. All'avvento della Repubblica nel 1946, racconta Francesco Perfetti nel saggio introduttivo a Un principe nella bufera, rifiutò di prestare giuramento, fu collocato nella riserva di complemento e si occupò della Federazione pugilistica, ricoprendone a più riprese la carica di presidente «nel periodo di maggior successo della boxe italiana». Fu anche, come il fratello Lanfranco, presidente del Circolo della caccia. E tenne ferme le sue opinioni.
Altra postazione da cui si è potuta inquadrare la figura di Sforza è quella dell'emissario britannico in Italia (e futuro Primo ministro in Gran Bretagna) Harold Macmillan che, scrive Ludovico Incisa di Camerana in L'Italia della luogotenenza (Corbaccio), esce da un colloquio con Sforza «travolto dopo un momento di sospensione, quasi di trance, da un fiume continuo di parole, condito da pettegolezzi piccanti, sulla corte sabauda, per un'ora e un quarto». Sensazione di disagio di cui si ha puntuale conferma nei Diari di guerra dello stesso Macmillan, pubblicati dal Mulino.
Ma c'erano posti in cui quello che stava accadendo si intravedeva (e, in un certo senso, si preparava) meglio e di più. Straordinarie per capire quegli anni sono le pagine del diario di Vito Guarrasi appena pubblicate da Castelvecchi nel libro, a cura di Marianna Bartoccelli e Francesco D'Ayala, L'avvocato dei misteri. Storia segreta di Vito Guarrasi, l'uomo dei consigli indispensabili che ha condizionato il potere italiano. Guarrasi (all'epoca capitano), assieme all'amico Galvano Lanza di Trabia, fu a fianco del generale Castellano nel preparare, tra Algeri (quartier generale di Eisenhower) e Cassibile, la svolta dell'8 settembre 1943. Guarrasi annota tutto, anche dettagli minori; parla con humour di Lanza (che «ingerisce dodici salsicce e non credo abbia competitori nella missione italiana») e di sé («La sera mangio poco perché il menu è tipicamente americano e prendo con esso confidenza molto lentamente… Appena levato riesco però comodamente a mangiare due uova al piatto, della salsiccia, toast con burro e marmellata e una piccola tazza di caffè e latte… Il generale sempre molto parco e schizzinoso, mi guarda con aria fra la sorpresa e il disprezzo, ma ciò non diminuisce il mio appetito, tanto più che ad Algeri comincia a far fresco»).
Le chiacchiere da breakfast con Eisenhower gli consentono di intendere, prima di altri, qualcosa di fondamentale. Già il 25 ottobre del 1943 sa che, dopo la presa di Roma, il destino di Badoglio sarà segnato; che Dino Grandi non avrà alcun futuro «perché ha troppo collaborato col Partito fascista»; e che l'appoggio degli Alleati al conte Sforza «non deve essere interpretato come un segno che questi lo vedrebbero volentieri come capo del governo». Lì, tra americani e siciliani, si capisce con grande anticipo quel che stava per accadere in Italia. Probabilmente, scrivono Bartoccelli e D'Ayala, cominciò in quelle settimane ad Algeri, e senza che nessuno allora se ne rendesse conto, la «lenta marcia» definita da Leonardo Sciascia «la linea di avanzata della palma o del caffè ristretto verso i centri del potere politico ed economico nazionale».
Un uomo che capisce bene quel che c'è da capire a quei tempi è il non ancora trentenne Roberto Ducci, destinato a diventare, nel dopoguerra, uno dei più importanti ambasciatori italiani. Scrive Benedetto Croce in una pagina di diario (Quando l'Italia era tagliata in due, Laterza) dell'11 dicembre 1943: «Ho conversato con un funzionario del ministero degli Esteri, venuto da Brindisi e figlio di un ammiraglio, che Elena conosceva e mi ha presentato; il quale è venuto a dirmi che colà si tiene che io sia stato convertito dallo Sforza alla Repubblica e che la reggenza è per noi un trucco per liberarci della monarchia… Mi ha ripetuto la solita cantilena: che il re, tanto, non se ne vuole andare e che noi facciamo un buco nell'acqua, e perciò ci conviene transigere». Quel giovane presentato a Croce dalla figlia Elena era, appunto, Ducci che, assieme all'amico Antonio Venturini, ai primi di ottobre del '43 aveva passato le linee tedesche e aveva raggiunto Brindisi, dove già da settembre si erano rifugiati il re e Badoglio. Lì si era messo a disposizione di Renato Prunas che, da segretario generale, aveva nei fatti il ruolo di ministro degli Esteri.
Per conto del re, Ducci svolse missioni delicate come quella, a Sorrento, da Croce, al cui cospetto comprese quanto le menti erano poco sgombre dalle diffidenze che si erano andate creando negli anni precedenti. Assai duro fu il giudizio sul successore di Mussolini: «Coraggiose e impietose» vengono definite da Perfetti, prefatore altresì di Donne e politici del Regno del Sud, le considerazioni di Ducci sulle responsabilità di Badoglio «nell'aver provocato il sorgere di un senso di smarrimento e di una diffusa reazione sottilmente antimonarchica in vasti strati della popolazione». C'è un «appunto per il maresciallo Badoglio», scritto il 15 ottobre del 1943 e firmato da Ducci e Venturini, in cui si avverte il capo del governo che a Roma «l'opinione pubblica, mentre si infiammava rapidamente contro gli ex alleati (i tedeschi) che apparivano ormai nella loro vera veste di padroni e di oppressori, rivolgeva accuse gravissime alla Corona, al governo e ai capi militari… Si imputava al governo di avere concluso l'armistizio al solo scopo di avere salvato la Corona, mettendola sotto la protezione delle armi angloamericane che la avrebbero ricondotta a Roma al loro seguito… Si accusavano i capi militari di impreparazione, inefficienza e vigliaccheria; si diceva dai partiti estremi che vi erano state formali promesse di armare le popolazioni civili e che esse non erano state mantenute per il timore che le armi concesse al popolo fossero conservate per essere utilizzate in un secondo tempo per fini politici». Ma Ducci si sarebbe anche accorto per tempo di quanto gli angloamericani fossero irritati per l'iniziativa di Prunas, il quale portò a termine la trattativa con il russo Andrej Vyshinskij per il riconoscimento sovietico del Regno del Sud. Trattativa che ebbe i suoi effetti sul segretario del Pci, Palmiro Togliatti, il quale, appena rientrato dall'esilio, annunciò, a Salerno, la «svolta», cioè l'apertura a Vittorio Emanuele III; operazione che, da quel momento, rese gli inglesi e gli americani oltremodo diffidenti nei confronti del sovrano e del suo governo.
Nel febbraio del 1944 Ducci si trasferisce a Napoli, dove, con l'aiuto del figlio dell'armatore Giuseppe D'Amico, dà vita al mensile «Politica estera». A Napoli incontra il grande giornalista Leo Longanesi, lo scrittore Mario Soldati e il futuro regista Steno «come me profughi in quella città». Ai quali si aggiungerà presto l'anglista Gabriele Baldini. Ducci ricorda «i tentativi del romagnolo Longanesi di instaurare tra loro un regime dittatoriale a proprio beneficio», tentativi che regolarmente si infrangevano contro la «resistenza passiva del milanese Steno», la «volpina furbizia del torinese Soldati», la «romana pigrizia di Baldini». Gli amici lo portano ad ascoltare un comizio di Carlo Sforza «che parlava alle turbe dall'alto della scalinata dell'università col suo accento aristodiplomatico (ma anche con la bottega dei pantaloni aperta, come Leo ricorda nelle sue memorie di quell'anno)». Per parte sua Ducci rammenta che dopo il comizio Sforza ebbe molte strette di mano, «le più effusive fra le quali venivano appioppate da chi riteneva egli s'identificasse con l'ultimo segretario del Partito nazionale fascista, Carlo Scorza».
Di Longanesi gli torna alla mente che, «dotato di un irrefrenabile dono di invettiva», «ruggiva accuse inverosimili contro i suoi compagni». Di Soldati, che «aveva il coraggio di fare l'amore con Clelia, la sessantenne serva di un professore, per ottenere da lei una razione extra che di nascosto ella sottraeva agli altri». Di Baldini (futuro marito di Natalia Ginzburg) che «frequentava casa Croce dove la tavola era ben fornita» e in più poteva «amoreggiare» con una figlia del filosofo. E ancora di Longanesi che «chiedeva ad alta voce vendetta al cielo sentendosi, o almeno così pretendeva, l'unico defraudato di cibo e sesso».
L'autore ha memoria anche di un incontro con Togliatti. Lo colpì la circostanza che il capo del Pci proclamasse, mentre la guerra era ancora in corso, «che ogni uomo e donna ha il diritto a passare la santa Pasqua in pace, fece chiudere per ferie la federazione comunista di Napoli e andò a trascorrere alcuni giorni a Capri», dove a lui capitò di vederlo a casa di Curzio Malaparte. Si comportava «come qualcuno che non avesse mai lasciato l'Italia e a cui poco interessasse che ai tempi delle fate Lenin fosse venuto una volta a Capri per incontrarsi con Gorkij». Ma le pagine più gustose sono dedicate a Benedetto Croce.
Ducci e Baldini sono, come si è detto, ammessi a casa del filosofo. Le figlie, in particolare Elena, chiedono notizie della «società romana» nella quale la loro cugina Anna Maria Balestra «ancora molto bella aveva una parte dominante». Gli occhi del senatore, mentre il discorso scivolava su queste amenità, «si facevano più piccoli finché si chiusero e il mento scese a riposare sul petto», cosicché «i pettegolezzi continuarono a ruotare attorno al dormiente come un nugolo di pappataci». Croce appare sereno, talvolta un po' infastidito dalla curiosità delle giovani figlie per la vita mondana di Roma. «Ebbe uno scatto d'insoddisfazione solo quando Baldini e io tentammo una difesa d'ufficio di Longanesi; le mani antiche si ritrassero dal tavolo, come gli avessimo suggerito di accarezzare una vipera», Ducci ricorda con amarezza. Certo «Longanesi e le poche tracce residue della sua attività sono un'increspatura sulla sabbia di fronte all'opera omnia di Benedetto Croce». Ma che in quegli anni Longanesi avesse contribuito a diffondere «la polemica concreta contro il fascismo a settori molto più larghi della popolazione non fa dubbio; e l'atteggiamento sprezzante del grande filosofo nei confronti di lui mancava, oltre che di generosità, di avvedutezza». Quei pregiudizi pesarono molto a danno di Longanesi. «Continuai a vederlo di tanto in tanto», scrive l'ambasciatore, «e notavo come la sua irruenza si divideva ora fra un attossicato erotismo e gli sforzi per arrivare a dirigere non uno dei "suoi" settimanali, ma un quotidiano». Angelo Rizzoli gli propose di dar vita a un quotidiano monarchico ispirato — nel nome del re in esilio e a contatto con lui — dall'editore, e lui gli rispose: «Quale re e re! Al giornale il re sono io». Non se ne fece niente. Così quando nel 1957 Longanesi morì, a Ducci venne da pensare che «non aveva in realtà mai smesso la carriera di profugo iniziata nell'ottobre 1943».
A conferma della confusione di quegli anni si possono leggere le pagine di un grande liberale (che per i suoi meriti nel 1952 sarà nominato da Luigi Einaudi senatore a vita), Umberto Zanotti Bianco, in La mia Roma. Diario 1943-1944, pubblicato di recente da Lacaita. Racconta Zanotti Bianco di un maresciallo Caviglia indignato per la nomina di Badoglio al posto di Mussolini («Fu il generale di Caporetto, fu il generale dei fascisti e sarà il generale della Repubblica… È un traditore di cui non ci si può fidare», gli dice), di Benedetto Croce assai critico nei confronti di Ferruccio Parri e Raffaele Mattioli (e che, pur conoscendolo poco, definisce Ugo La Malfa un «ignorante mafioso»), di un atteggiamento assai polemico di Edoardo Ruffini nei confronti degli attentatori di via Rasella, di un suo confronto-scontro, nel maggio del '44, con Roberto Bencivenga, comandante civile e militare in clandestinità della piazza di Roma, dal quale apprende che si «stanno distribuendo i soccorsi alle famiglie dei fucilati… attraverso i partiti, ciò che porta a un'attribuzione dei morti ai singoli partiti, talora contro la verità».
Colpisce in questo non breve momento di transizione (come, del resto, in altre stagioni simili) la parte che ebbero rancori, insofferenze, giudizi avventati, ripicche. Corrado Alvaro in L'Italia rinunzia? 1944: il Meridione e il Paese di fronte alla grande catastrofe (recentemente ripubblicato da Donzelli) denuncia come «in questa parte d'Italia (il Regno del Sud, ndr), l'ambiente si sia nuovamente avvelenato, e l'odore di cadavere che ammorbò l'Italia per tanti anni, salga da tutta la vecchia classe dirigente morta e non rimossa dal Comitato di liberazione, e che marcisce sulle sue poltrone, nei suoi palazzi, marcisce in piedi, mentre parla, briga, discute, scrive». Le persone più sagge, in casi come quello, si convincono che l'unica cosa da fare sia ricominciare daccapo con persone nuove. L'esperienza è importante, ma quando le pur valide personalità provenienti dal passato portano con sé quell'«odore di cadavere» di cui parlava Alvaro, è consigliabile voltare pagina e non consentire a quel lezzo di intossicare la vita politica e culturale della stagione politica successiva. E nel secondo dopoguerra — con poche, pochissime eccezioni — ci si riuscì.

Corriere 16.10.12
La favola vera di Olga all'inferno
Seguì l'innamorato fin dentro a Buchenwald, e riuscì a salvarlo
di Fabio Cavalera


LONDRA — «E tu da dove vieni?». Quando Olga Watkins raccontava la sua odissea d'amore nel Terzo Reich e nei campi di sterminio a Dachau e Buchenwald la scambiavano per una matta. Li ricorda bene i sorrisetti di chi la ascoltava e pensava: «Questa signora è fuori di sé». Figuriamoci: nessuno o quasi credeva a Olga. A una storia del genere?
Lei ventenne che sfida le Ss, la Gestapo e gli ustascia per cercare l'uomo che desiderava sposare. Lei, Olga, che («Di mia volontà») entra nell'orrore di Dachau («I cadaveri erano così numerosi che la ciminiera del crematorio buttava fuori fumo in continuazione») e scova l'elenco degli internati con il nome del suo Julius, nel frattempo trasferito a Buchenwald. E, ancora lei, giovane innamorata, che sotto i bombardamenti si muove proprio verso Buchenwald dove, nonostante la Germania abbia appena firmato la capitolazione, migliaia di prigionieri, ebrei, comunisti, oppositori, omosessuali, zingari, cavie umane, sono ancora lì nelle baracche, paralizzati da terrore, malattie, mutilazioni, sevizie subite. «Immagini che continuano a perseguitarmi».
C'è pure Julius a Buchenwald: «Mio Dio come hai fatto a ritrovarmi?». E finalmente si sposano: Olga con un paio di scarponi ai piedi e una camicia da notte, i capelli raccolti con le stringhe e i pezzi di carta, mentre Julius, solo ossa e senza denti, indossa una divisa dell'esercito tedesco «privata di mostrine e distintivi» perché altro non c'era. Poi la fuga per una libertà di cui non godranno mai: Olga è croata (all'epoca jugoslava), Julius è ungherese della Budapest occupata dai sovietici. Stalin e Tito litigheranno, la ragione di Stato spezzerà il matrimonio, saranno costretti a divorziare ma non a dimenticare.
Possibile stare dietro a un dramma di vita e d'amore del genere? Una trentina di anni fa, Olga Watkins fu convinta da un amico a scrivere le memorie. «E io, senza esperienza, misi giù le mie peripezie nell'Europa occupata da Hitler, tremila chilometri percorsi da Zagabria a Budapest, da Vienna a Norimberga e Weimar per riprendere Julius». Quegli appunti sono prima diventati un cimelio, una testimonianza depositata all'Imperial War Museum di Londra, successivamente un libro coinvolgente (affidato alla stesura del giornalista James Gillespie) uscito in Inghilterra col titolo A Greater Love e ora in Italia per Piemme: Ovunque sarai (pp. 308, 9,90).
Nei dolori dell'Olocausto, nell'inferno della Shoah ci sono eventi marginali eppure straordinari come questi, nascosti e da scoprire perché ci aiutano a ricostruire l'insieme della Storia con i suoi palpiti e le crudeltà. «A Dachau vidi un prigioniero affamato trascinarsi per acchiappare una carota caduta da un camion, una guardia gli frantumò il cranio con il calcio del fucile».
Olga Watkins, oggi ottantanovenne, vive a Barnet, a Nord di Londra, con Gerry, irlandese, suo secondo marito da 48 anni. Un piccolo appartamento in una zona tranquilla, nel verde. È gentile, brillante, in ottima forma. Rilegge il passato con la passione e l'ironia che possiede soltanto chi ha vissuto esperienze tanto intense, dolorose e profonde. «Lo sa che erano in pochi a prendermi sul serio?». Invece, l'odissea di Olga è stata un «viaggio» reale nelle tragedie della Seconda guerra mondiale. «Sono nata a Sisak, poco distante da Zagabria, mia madre è morta presto, mio padre, rigidissimo, se ne andò con una nuova compagna. Fui costretta a raggiungerlo in città e la mia presenza non lo rese felice».
Era una diciannovenne, Olga, e fu la «matrigna» Ilona, in contatto con alcuni diplomatici di Budapest, a indirizzarla al circolo degli ungheresi di Zagabria. Conobbe lì Julius Koreny. E conobbe pure zia Alice, «una donna elegante e piena di vita», la sorella della fredda «matrigna», della quale era l'opposto. Zagabria era nelle mani degli ustascia, gli alleati dei nazisti, altrettanto spietati e brutali. Zia Alice era ebrea: «Fu marchiata con una stella di David nera su sfondo giallo e pure io che non ero ebrea». Undicimila ebrei risiedevano nel capoluogo croato e alla fine della guerra ne sarebbero rimaste poche decine. Zia Alice fuggì dall'Olocausto, fu Olga ad aiutarla.

Repubblica 16.10.12
La storia della giornalista Gitta Sereny ci aiuta a comprendere la necessità di indagare i mostri e i loro crimini
Il rumore del male
Perché dobbiamo capire come nasce l’odio
di Tzvetan Todorov


Gitta Sereny, morta all’età di 91 anni, era una delle più grandi giornaliste del XX secolo, autrice di numerosi libri di eccezionale valore, tutti che si sforzano di far luce su una domanda centrale, ossessionante: da dove nascono l’odio, la violenza, il crimine? Se poniamo, come fa lei, che questi comportamenti sono l’incarnazione del male, e poniamo anche che non esistono due sottospecie di esseri umani, i mostri e i normali, come si spiega il fatto che qualcuno possa commettere atti tanto distruttivi? La Sereny era convinta che fosse possibile comprendere anche i crimini più atroci ricostruendo il racconto di vita del loro autore, la serie di interazioni con altre persone, con le circostanze in cui si è trovato catapultato: la sua identità coincide, semplicemente, con la sua storia. Chi vuole impedire che i crimini si ripetano deve cercare di comprenderli.
Gitta Sereny nasce a Vienna nel 1921 in una famiglia di artisti, studia in Inghilterra, nel 1938 si ritrova a Parigi, sogna di fare l’attrice. Quando scoppia la guerra, comincia a lavorare per un’organizzazione di beneficenza che si occupa di bambini abbandonati o di fuggitivi. Nel 1941 deve scappare, riesce ad attraversare la frontiera con la Spagna e si imbarca per gli Stati Uniti.
Una volta tornata in Europa, all’inizio del 1945, comincia a lavorare per l’Unrra, l’organismo delle Nazioni Unite incaricato di aiutare i profughi di guerra e gli sfollati. I due anni successivi saranno decisivi per scoprire la sua vocazione.
Gitta viene inviata nella Germania occupata dagli eserciti occidentali, con l’incarico di prendersi cura dei bambini strappati al loro luogo di origine. È in questo frangente che scopre un crimine insospettato. All’indomani dell’occupazione della Polonia, le autorità tedesche avevano cominciato a cercare bambini di aspetto “ariano” (biondi con gli occhi azzurri) per prenderli e trasferirli in Germania, dove quelli più conformi al modello razziale erano stati dati in adozione a delle famiglie, mentre gli altri erano stati mandati a lavorare in condizioni di schiavitù. Il numero di “bambini rubati” in Polonia è stimato in 200mila unità, a cui vanno aggiunti quelli rastrellati in Ucraina e in altri posti. Il crimine esige una riparazione, ma quale? I bambini hanno subito un primo choc quando, all’età di 3, 4, 5 anni, sono stati strappati ai loro genitori, alla loro lingua, al loro Paese; a guerra finita, a 8, 9, 10 anni di età, vengono strappati alle loro famiglie adottive, dove sono circondati d’amore, e rispediti in un Paese che non conoscono, per vivere con adulti di cui non si ricordano, dove si parla una lingua che non comprendono. A complicare la situazione concorre una valutazione politica: dal momento che la guerra calda ha lasciato il posto alla guerra fredda, non sarebbe nell’interesse dei bambini mandarli nel paradiso occidentale piuttosto che nell’inferno comunista? Non sarebbe meglio per loro una terza famiglia al di là dell’Atlantico? Alcuni di questi bambini, come immaginabile, sviluppano comportamenti asociali e un’inclinazione alla violenza.
Dopo aver lasciato l’Unrra, due anni dopo, Gitta Sereny dedicherà la sua esistenza a cercare di comprendere due fatti di enorme rilevanza: la violenza che ha condotto ai crimini nazisti, la violenza inflitta ai bambini, ma a volte anche la violenza esercitata dai bambini. Diventata giornalista e trasferitasi a Londra, scrive la sua prima inchiesta su Mary Bell, una ragazzina di undici anni che nel 1968, insieme a una complice, uccide due bambini di 3 e 4 anni. Quel crimine inorridisce l’Inghilterra: com’è possibile commettere un atto tanto odioso? La Sereny mette a punto il suo metodo: interroga tutte le persone coinvolte e mette insieme una massa di informazioni accurata (The Case of Mary Bell, 1972).
Venticinque anni dopo, quando Mary è uscita di prigione e vive sotto una nuova identità, torna all’assalto interrogando la ragazzina diventata adulta, approfondendo ulteriormente l’esame di atti e circostanze apparentemente banali che hanno trasformato una bambina in un’assassina. Oggi il suo libro è una pietra miliare nello studio della criminalità infantile (Grida dal silenzio, 1999).
Lo stesso bisogno di risalire alle sorgenti del male conduce Gitta Sereny in un’altra direzione. Nel 1970 entra in contatto con Franz Stangl, l’ex comandante di Treblinka, il più grande campo di sterminio tedesco. Stangl è stato condannato all’ergastolo, ma accetta di rispondere alle domande della giornalista. Poco tempo dopo i colloqui con lei, protrattisi complessivamente per settanta ore, muore; la Sereny prosegue l’inchiesta con i suoi familiari, le persone che lo conoscevano bene e le vittime sopravvissute. Il risultato è un libro straordinario, In quelle tenebre (1994), che permette di avvicinarsi all’enigma: come ha potuto un individuo normale commettere un crimine del genere? E se non lo escludiamo dal genere umano, come faceva lui per le sue vittime, che conclusioni dobbiamo trarre sulla natura di questo genere umano? Vent’anni più tardi, la Sereny ricomincia questa ricerca con In lotta con la verità (2009), un libro su Albert Speer, architetto e ministro prediletto di Hitler, spirito brillante, insediato all’altro estremo della catena dello sterminio: la Sereny lo sottopone a un interrogatorio serrato, che acclara la sua complicità. Una terza opera, Germania: il trauma di una nazione (2002), riunisce le altre sue inchieste sui crimini nazisti, accompagnandole con un commento autobiografico.
Qualcuno si è chiesto se Gitta Sereny non si sia avvicinata troppo ai personaggi oggetto dei suoi libri, Mary Bell, Stangl, Speer, se non li abbia “umanizzati” troppo. Quel che è certo è che non li esclude dalla cerchia dell’umanità e che accettando di ascoltarli, e poi di trascrivere le loro parole, costruisce un quadro comune a loro e a noi. Chi sposa la formula della SS incontrata da Primo Levi ad Auschwitz, il “Qui non c’è perché”, rischia di non apprezzare le sue opere. Per giudicare e condannare gli individui, l’empatia non è indispensabile, anzi può essere d’intralcio. Ma non possiamo farne a meno se lo scopo della nostra ricerca è comprendere le ragioni oscure dei nostri atti, per quanto odiosi siano.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 16.10.12
Quel che resta dei sogni
Lo psicoanalista Chianese spiega come le ansie di oggi condizionino le immagini notturne
“La paura del futuro cambia il nostro mondo onirico”
di Luciana Sica


«Anche nei sogni si esprime il nuovo disagio della civiltà dell’uomo moderno. Penso soprattutto a quei sogni angoscianti di cadute, smarrimenti, strade sbarrate che spesso fanno i pazienti più giovani... Saranno senz’altro determinati dal passato dei singoli sognatori, ma colgono anche il momento storico che viviamo. È così, del resto, che funziona la mente umana, con uno scambio continuo tra il “mondo” e lo “psichico”: compreso l’inconscio che, per dirla con Kaës, “sente l’angoscia del futuro”. Un sentimento che si è fatto particolarmente acuto oggi, nel pieno di una svolta epocale ancora poco decifrabile. Nei sogni affiorano le paure più profonde, “originarie”, ma anche la condizione di incertezza, l’inquietudine, lo smarrimento, l’ansia, l’assenza dolorosa di orizzonti. È allora anche per un senso di responsabilità nei confronti delle nuove generazioni che noi analisti abbiamo il dovere di comprendere la realtà contemporanea, seguendo l’esempio di Freud che – usando l’espressione di Warburg – fu un “sismografo” capace di registrare i movimenti tellurici dell’uomo del suo tempo». Mentre è Einaudi a ripubblicare in una nuova traduzione L’interpretazione dei sogni, quel classico freudiano che più di un secolo fa ha rivoluzionato la cultura occidentale, oggi a parlare del nostro sognare – ad occhi chiusi e ad occhi aperti – è un analista che ha fatto delle immagini un campo di ricerca originalissimo: Domenico Chianese, 64 anni, ex presidente della Società psicoanalitica italiana. Un paio d’anni fa ha firmato con la moglie – l’analista Andreina Fontana – Immaginando, libro di un certo successo sull’importanza del “visivo” in psicoanalisi (uscirà anche in Francia, la prossima primavera).
Ora, sulla scia di quel lavoro dal tratto decisamente innovativo, la stessa coppia cura un volume a più voci sulla funzione che hanno le immagini nella terapia, nell’arte e nella stessa costruzione della conoscenza. Tra gli autori, ci sono analisti di vari indirizzi come lo junghiano Paolo Aite o il bioniano Antonino Ferro, ma anche la filosofa Silvana Borutti, il filologo Corrado Bologna, e personaggi un po’ a metà tra la psicoanalisi e l’arte contemporanea come Stefania Salvadori e Leonardo Albrigo.
Per un sapere dei sensi è il titolo di questo libro che rappresenta il contributo finora più esteso e approfondito sulle immagini in campo analitico (Alpes, pagg. 392, euro 35).
Lei e sua moglie sembrate catturati dalle immagini. E lavorate insieme, scrivendo a quattro mani... Come mai?
«Io e Andreina siamo uniti da una vita e da tante cose: il mestiere di analisti, naturalmente, ma anche la passione per il mondo dell’arte. Così, dopo i nostri tre figli, ora facciamo libri... Quanto ai nostri studi sulle immagini, ma non sono loro che hanno fatto nascere la psicoanalisi, non è sul sogno che Freud fonda il suo “discorso”? L’ha chiamata “la forza sensoriale delle immagini oniriche”, per quel potere che hanno di coinvolgerci, per il “visivo” che attira: i luoghi sconosciuti, i corpi spesso ignoti, le scene bizzarre... Quella del sogno è un’esperienza dei sensi, un’esperienza estetica che non va considerata una dimensione ornamentale dell’identità umana perché invece ne rappresenta uno dei fondamenti. Sappiamo con Kant che immaginazione e intelletto si incontrano e si cercano e che il sapere estetico non è un meno rispetto al sapere logico. E per quanto il tono sia profetico, sono d’accordo con Adrian Stokes che amava dire “un giorno gli uomini impareranno a considerare la salute mentale come una conquista estetica”».
È però con le parole che i sogni vengono raccontati e poi interpretati: col rischio di dissolvere ogni emozione, non crede?
«Le immagini del sogno, le parole della veglia... Come far parlare le immagini del sogno senza distruggerle? Questo problema travaglia in ogni istante l’esperienza dell’analista all’ascolto dei pazienti. Di fronte a un sogno e alla sua poetica, spesso ci coglie il timore di sciuparlo con le nostre parole, consapevoli che la verbalità manca sempre le immagini del sogno, la sua preziosa opera simbolica. La parola interpretante dell’analista può “spiegare” il sogno, può riportare i simboli alla loro presunta genesi, sempre però col rischio di depotenziarlo. In realtà la linguistica e la semeiotica non ci hanno aiutato fino in fondo a comprendere il linguaggio nel lavoro analitico. Di qui il frequente ricorso al linguaggio poetico, metaforico, aforistico degli analisti che riesce a coniugare la potenzialità del senso (semantico) con la potenza del senso (sensoriale)».
Non sogniamo però solo di notte, sogniamo anche ad occhi aperti, da svegli. Un’attività onirica altrettanto inconscia non avviene anche durante il giorno?
«Certamente, anzi direi che sognare di notte e di giorno può salvarci dalla follia, dalla severità delle patologie. È noto l’adagio di Julia Kristeva che ricorda come “in questa vita di tutti i giorni, impazienti di guadagnare, consumare, non si ha né il tempo né lo spazio per farsi un’anima”. Potremmo aggiungere che non c’è il tempo né lo spazio per sognare... Più di ieri, oggi in analisi arrivano persone che dicono di non sognare, e spesso ne passa di tempo, ma poi all’improvviso ecco un sogno che dischiude un mondo: sono i momenti più felici nella cura analitica, perché implicano la costruzione di uno spazio psichico che ha potuto accoglierlo, quel sogno... Sono soprattutto i nostri rapporti con le cose e con gli altri che spesso hanno un carattere onirico: lo dice Bion che parla di “pensiero onirico allo stato di veglia”, di un sentire-pensare per immagini, di
rêverie – da rêver, in francese sognare. Ma anche in questo caso gli analisi sono stati preceduti dai poeti. Nei Petits poèmes en prose, Baudelaire parla della forza
dell’immaginazione in cui l’Io si dissolve: “Le cose pensano attraverso me e io penso attraverso esse, esse pensano musicalmente e pittoricamente, senza arguzie, senza sillogismi, senza deduzioni”».
Un grande analista britannico, com’è Christopher Bollas, recupera il sogno nella sua dimensione “antica” di incontro con il destino. Suggestivo. Anche convincente?
«Nel mondo antico, esistevano delle istituzioni che funzionavano da scambio tra il notturno e il diurno, luoghi privilegiati come il tempio o la boscaglia. Nella nostra civiltà la stanza d’analisi è diventato il luogo deputato a quello scambio che coinvolge profondamente l’analista e il paziente: in una certa misura, l’antico approccio al sogno permane anche nella pratica analitica. Non a caso Bollas parla del sogno come “modernoracola”, come erede dell’oracolo antico, e certamente c’è saggezza nel sogno, in quanto portatore dei significati umani più profondi, abitato dalle dimensioni originarie dell’esistenza: il tempo dell’origine, chiuso in se stesso con tutto il suo carico di nostalgia, ma anche il tempo del futuro. Ora, se il sogno non è solo ciò che resuscita del passato, ma anche quel che annuncia del nostro vivere, possiamo dire che l’uomo nel sogno incontra il suo destino».