giovedì 18 ottobre 2012

l’Unità 18.10.12
Intervista a l’Unità
D’Alema: «Se vince Bersani non chiederò deroghe»
«Solo il segretario può fare un vero rinnovamento. Se vincerà, non mi ricandiderò. Un successo di Renzi porterà conflitto»
di Ninni Andriolo


«Se vince Bersani, promotore del rinnovamento, favorirò il rinnovamento. Non chiederò alcuna deroga, lascerò il Parlamento. Ma non l’impegno politico». Così Massimo D’Alema in un’intervista a l’Unità. «Se vince Renzi temo che si aprirà un conflitto. D’altro canto è quello che vuole lui». E ancora: «Mi batto contro la rottamazione, perché contiene un messaggio dai forti significati negativi e vuol far credere che i politici sono tutti uguali».

Presidente, ha letto Bersani? “Con D’Alema faremo il rinnovamento insieme...” «Sì. Era stata costruita una raffigurazione distorta che ha creato nel Pd un turbamento di cui non c’era bisogno». Bersani però ha detto con chiarezza che non le chiederà di ricandidarsi...
«Ha detto una cosa correttissima di cui si è distorto il significato. Ha detto che siamo un partito e che le liste non le fa il segretario da solo, né il vincitore delle primarie, il quale si candida, o dovrebbe candidarsi, a guidare il governo del centrosinistra e non a regolare i conti all’interno del Pd. Ripeto, noi siamo un organismo collettivo che ha delle regole e le liste le fa la direzione. Questo era il valore dell’affermazione di Bersani, con la quale mi trovo del tutto d’accordo».
La sua replica, tuttavia, si poteva prestare a polemiche...
«Lo scenario era doppiamente falso: Bersani che scarica D’Alema per conquistare consensi, il che raffigurerebbe il segretario come una persona cinica che non è, e D’Alema che sta lì abbarbicato al suo scranno. Anche questo non è vero. Fin dall’inizio ho detto con chiarezza che ritenevo giusto lavorare per un avvicendamento».
“Avevo deciso di andare, ma siccome lo chiede Renzi rimango”: una ripicca verso un bambino maleducato, le rimprovera Staino...
«Il messaggio di Staino è molto affettuoso e ricambio questo affetto. Non solo, ne raccolgo il senso. Non sono d’accordo su un dato, però: Renzi non è un piccolo maleducato. Le sue posizioni rappresentano l’irrompere del qualunquismo populista nel nostro campo e il rischio, come ha scritto Scalfari che ha fatto riferimento addirittura al craxismo di una vera e propria mutazione. C’è l’intromissione di un rampantismo senza radici e senza principi. Mi batto contro la rottamazione, perché la rottamazione non è il rinnovamento, ma un chiaro messaggio di natura politica e culturale dai forti significati negativi». Lei ha parlato di “disprezzo per le persone”.
«A parte questo aspetto non proprio secondario, si vuol far credere che i politici sono tutti uguali, che il centrosinistra è stato come il centrodestra. Non è vero. Respingo questo messaggio distruttivo del nostro partito e della sua storia. Noi ci siamo battuti contro Berlusconi. Nel messaggio di Renzi, però, non si scorge la denuncia del danno prodotto in Italia dalla destra. C’è, al contrario, la necessità di liquidare un’intera classe politica. E c’è il disprezzo verso le radici della sinistra... Vede, noi siamo un partito plurale di persone che vengono da storie diverse e se non ci rispettiamo rischiamo di dividerci: è questo che mi preoccupa. D’altro canto, ricordo che l’obiettivo “cacciamo D’Alema dal Parlamento” fu lo stesso che Berlusconi lanciò nel 2001. Allora fortunatamente c’era una legge elettorale che consentiva ai cittadini di scegliere. Lui dovette venire a Gallipoli, davanti ai miei elettori, e se ne tornò con le pive nel sacco».
C’è chi le rinfaccia di voler rimanere in ogni caso sulla plancia di comando... «Una critica volgare. Non ho mai difeso posti. Non ho difeso quello di presidente del Consiglio, né ho preteso di mantenere le mie candidature alla presidenza della Camera e della Repubblica. Ho sempre fatto prevalere sulle aspirazioni individuali l’adesione a un disegno collettivo».
Bersani promette un rinnovamento profondo.
«Bersani rappresenta il rinnovamento che io condivido e intendo agevolare, tutt’altro rispetto alla rottamazione». Sì, presidente, ma se vince Renzi?
«Se vince Renzi temo si aprirà un conflitto. D’altro canto è quello che vuole lui, quello che annuncia...»
E se vince Bersani?
«Se vince Bersani promotore del rinnovamento io non chiederò alcuna deroga. Il Parlamento non è il luogo esclusivo dell’impegno politico».
Presidente, c’è un problema di qualità del rinnovamento. Ma c’è anche una domanda molto diffusa e incalzante...
«Sì, certo. E a me interessa partecipare a un confronto approfondito sulla qualità del rinnovamento. Noi abbiamo una nuova generazione con persone serie, di grande talento. Voglio dirlo in modo crudo. Nel momento in cui D’Alema, Veltroni e forse altre personalità usciranno dal Parlamento, dall’altra parte resteranno le personalità della destra. Potrà sembrare ingiusto ma in fondo possiamo rivendicare di fronte al Paese di aver dato l’esempio. Tuttavia è molto importante la qualità delle
forze nuove che verranno ad occupare le responsabilità principali. Devo dire che, purtroppo, non sempre le scelte di questi anni mi sono sembrate convincenti. Se vogliamo restituire credibilità alla politica non c’è bisogno di rampantismo o di format televisivi».
Un’altra critica a Renzi?
«Noi dobbiamo evitare il rischio che la crisi del berlusconismo di risolva in un collasso del sistema democratico, il che sarebbe davvero avventuroso per il Paese. Anche per questo ritengo di dovermi impegnare fino in fondo per favorire un’uscita politica dell’Italia da questa crisi e a sostegno dell’idea di un governo che si costruisce intorno a Bersani, cioè l’unica personalità che a me sembra in grado di cementare un’alleanza tra progressisti e moderati intorno a un progetto di riforme e di ricostruzione del Paese»,
Niente Monti bis, quindi.
«L’espressione suona suggestiva perché c’è il nome di Monti, personalità che suscita apprezzamento, giustamente, a livello internazionale. Parlando di Monti bis, tuttavia, non ci si rende conto che l’attuale governo nasce in una particolare condizione di emergenza e sulla base di una maggioranza innaturale di cui si avvertono già tutte le difficoltà. Come si può pensare che questo tipo di alleanza possa durare un’intera legislatura? Come non vedere che un governo di questo tipo sarebbe in realtà più fragile, e non più forte di un governo politico di centrosinistra?».
È questa la posta in gioco delle primarie?
«La confusione e la demagogia di queste settimane rischiano di farci dimenticare che le nostre primarie sono particolari. Noi indichiamo un leader il cui compito è quello di essere il capo di una coalizione. E l’esperienza ci insegna che anche i leader eletti con le primarie sono poi caduti per la fragilità delle maggioranze. La legittimazione delle primarie da sola non risolve il problema della stabilità politica. Bisogna valutare, quando si sceglie, le capacità personali di essere punto di equilibrio, di garantire, cioè, coesione e non divisione.
Come giudica il passo indietro di Veltroni dal Parlamento?
«Comprendo le ragioni della scelta di Walter, che nasce da un’amarezza che condivido. È chiaro che la sua decisione ha anche accentuato una pressione verso di me, di cui, tra l’altro, non c’era affatto bisogno, perché avevo già maturato le mie convinzioni. Non sono così sciocco da pensare, com’è stato scritto, che Walter abbia voluto farmi un dispetto. Partendo dagli stessi sentimenti però io reagisco diversamente. Io combatto. E, per farlo meglio, levo di mezzo la mia candidatura».
C’è chi esulta perché lei si tira indietro, e lei dice che il suo è un grido di battaglia? «Per la mia storia e la mia formazione so bene che la politica non si realizza esclusivamente in Parlamento. Non vivo questo passaggio come un passo indietro, ma come l’opportunità di organizzare diversamente il mio impegno e la mia partecipazione. Bersani ritiene che D’Alema darà battaglia e non si arrenderà alla rottamazione. Ha ragione, mi conosce bene. Quello che non posso accettare è la cultura della rottamazione. Non per ragioni personali, come credo ormai sia chiaro, ma perché la ritengo distruttiva per il centrosinistra e per il Paese».

Repubblica 18.10.12
Massimo e Walter, caduti insieme
di Francesco Merlo


IN UN Paese civile e maturo la caduta di un capo non provoca mai sconquassi. E invece la caduta di D’Alema è la conseguenza di una rara ferocia: si ritira solo se vincerà Bersani, resterà invece in gara se vincerà Renzi «e sarà battaglia ». E che battaglia, ha commentato Lilli Gruber. Non cade dunque senza far rumore, Massimo D’Alema, si arrende alla rottamazione per rottamare il rottamatore: «Lo scranno lo mollo, per fare la mia battaglia politica. Mi mobilito».
E L’ITALIA, che è abituata a ogni genere di rovine, dal 25 luglio alla fine della Dc, dalla tragedia craxiana al bunga bunga di Berlusconi, ieri sera gli ha visto dare l’addio ai monti come un inaspettato, struggente Renzo Tramaglino e ha scoperto che è persino possibile accorarsi per il freddo D’Alema, per i suoi baffi di ferro, e simpatizzare con lui almeno nel giorno della sua caduta.
E cade dunque Bibò dopo che è caduto Bibì, cade Massimo dopo che è caduto Walter: «La decisione di Veltroni qualche problema me l’ha creato perché è scattata subito la caccia all’uomo». E poco importa se uno cade nel silenzio e l’altro nel fracasso, l’uno elegante e l’altro, da sempre incattivito e sprezzante, finalmente attento e composto perché «abbiamo caratteri diversi — ha detto D’Alema — ma l’amarezza è la stessa, l’amarezza per la violenza del nostro Paese, per questa stagione di inciviltà». Protagonisti inseparabili sino all’ultima striscia, quella d’addio, cadono insieme Massimo e Walter, i due gemelli Bibì e Bibò appunto, i due discoli giulivi usciti dalla matita dell’americano Rudolph Dirks e resi famosi dal Corriere dei Piccoli (la prima volta apparvero nel 1912). Anche Bibì e Bibò «i due nostri malviventi / di nascosto sempre intenti / ad un loro tiro pazzo... » si distinguevano tra loro soltanto per dettagli fisici, l’altezza, i capelli e, potremmo aggiungere noi, i baffi e gli occhiali, particolari estetici, ondulazioni sulla superficie increspata della politica, l’attempato adolescente che voleva fare l’americano, per sempre grazioso e incerto, e il giovane nato vecchio con il terribile ghigno che solo ieri sera si è finalmente addolcito, kennedismo e togliattismo, l’occhio freddo contro il sorriso caldo, la barca a vela contro il calcio, la fondazione politologica e la letteratura, e forse Bibò invidiava l’aria umana troppo umana di Bibì che ammirava invece l’espressione impermeabile dell’altro. Una volta Veltroni mi disse: «Pensa se io mi facessi crescere i baffi, e se Massimo se li tagliasse… ». Da sempre l’uno è la verità dell’altro. Può esistere Bibì senza Bibò, può esistere Bibò senza Bibì?
Sono stati due capi nel Paese dei maggiordomi. E ieri sera nella luce gloriosa di un notte italiana in un raro momento di bellissima televisione-verità D’Alema ha dimostrato che si può vincere perdendo. E lo ha fatto anche per lui, per Bibì che «tra Bersani e Renzi non ha voluto schierarsi e io lo rispetto, ma io sono fatto in un altro modo e non ci sto».
D’Alema ha dunque preso su di sé tutta la storia del centrosinistra e ha preso su di sé pure Veltroni rivendicando i governi Prodi, l’entrata nell’euro, le stagioni di Ciampi… sino al rigore di Monti che «abbiamo voluto noi». Ma ha pure ammesso le divisioni, le risse, l’incapacità di restare uniti, insomma la sconfitta. Ed è riuscito, con l’intensità dello sguardo a tratti addirittura commosso, a comunicare, trasmettere il dramma suo personale e quello del suo partito e della lunga storia dalla quale proviene. Quale che sia l’esito della guerra che solo ieri sera è davvero cominciata nel Pd e nella sinistra italiana, è comunque finito lo “stile D’Alema”, lo stile della volpe e del lione, di tutte le bestie cioè del Machiavelli, della politica disseminata di trappole e popolata da lupi. Ed è appunto uno stile che ha generato rancori invincibili.
D’Alema aveva detto a Repubblica «non sono un cane morto». Sapeva che era la preda di «una caccia all’uomo», appunto. I vecchi gregari e i nuovi talenti del suo stesso partito, i suoi compagni, si stavano comportando con lui come con l’albatros di Baudelaire. Quando volava alto gli si attaccavano con i propri sogni, e alle sue ali appendevano le loro ambizioni, la voglia di approdi favolosi. Ma ora che stava sulla tolda della nave, l’acchiappavano, gli spezzavano una gamba e si davano all’esercizio del tormento: «Come è fiacco e sinistro e comico e brutto, lui poco fa così bello. Uno gli mette la pipa sotto il becco, un altro, zoppicando, mima lo storpio che volava». Un capo come D’Alema, un uomo nato per fare il segretario generale, non poteva starci. Certamente gliele avrebbero fatte pagare tutte, gli avrebbero chiesto il conto anche delle colpe che non ha e dei debiti che non ha mai contratto. Perciò ha aperto un’astiosa, implacabile ma creativa stagione di vera lotta politica, la sola che può portare tutta la sinistra e tutto il paese fuori dalla palude degli uomini che in eterno succedono a se stessi, la sola che può affossare una storia salvandola: «Grillo vede Renzi come un “competitor”, uno che vende la stessa merce. Io credo che il Pd debba vendere un’altra merce».
E almeno questa volta i protagonisti non saranno i maggiordomi. La divinità infatti trascina con sé tutto il partito. Lo sconfitto D’Alema ha preso il ruolo romantico straordinario e inaspettato, inedito e inaudito dello Zarathustra di Gallipoli: «Io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando».

Repubblica 18.10.12
E alla fine Pierluigi convince Massimo “Così fai la guerra a me e si va a sbattere”
L’ex premier: forse ho sbagliato, ma sono stato aggredito
di Goffredo De Marchis


ROMA — È stato un colloquio lungo e «definitivo», raccontano. Martedì non si erano sentiti direttamente, troppo profonda la rottura seguita alla “sentenza” di Pier Luigi Bersani, «non gli chiederò di candidarsi». Era toccato a Maurizio Migliavacca telefonare a Massimo D’Alema. Ma ieri mattina il segretario e l’ex premier si sono parlati senza filtri. «Così andiamo a sbattere. Se la guerra è tra noi due, le primarie sono già perse e rischia anche il Pd. Eppoi in periferia sono disorientati. Non capiscono più se l’avversario sono io oppure Renzi », ha detto Bersani. «Forse ho sbagliato — ha risposto D’Alema — Ma all’aggressione dobbiamo rispondere, hai visto la foto del camper che investe un mio fantoccio? Allora, se per dare battaglia, per difendere la mia storia devo rinunciare alla candidatura, lo faccio subito. Io non sono in cerca di posti, questo messaggio dev’essere chiaro».
D’Alema dunque ha capito che non aveva via d’uscita. Che la partita era persa. Che, ad esempio, le firme sotto l’appello di solidarietà promosso da amministratori del Sud legati a lui avrebbe avuto ben poche adesioni di fronte a un conflitto intestino con Bersani. Ieri è stato tutto più chiaro. Hanno chiamato Roma i dalemiani di ferro nei territori. Fra gli altri, Enzo Amendola, segretario regionale della Campania, e Sergio Blasi, segretario della Puglia. Confusi e non molto felici. Anzi, preoccupati. «Che dobbiamo fare, con chi dobbiamo stare?». Bella domanda.
Lo scontro tra i due leader poteva sovrapporsi alla battaglia per le primarie contro Renzi. Un cortocircuito in grado di creare un black out pericolosissimo. Con effetti catastrofici per entrambi. D’Alema avrebbe smarrito il controllo sui fedelissimi.
Per Bersani sarebbe diventata impossibile la sfida al sindaco di Firenze. E il Pd sarebbe stato sepolto dalle solite macerie di un duello fratricida, personale, lontanissimo dai «problemi del Paese» che sono il cuore delle campagne elettorali. Oggi non si sa se D’Alema metterà a disposizione di Bersani, in maniera convinta e concreta, le sue truppe. Lo vedremo nei prossimi giorni, capiremo nel week end, dire, se il comitato regionale pugliese pro-Bersani si sbloccherà o rimarrà fermo al palo per colpa dei veti dalemiani. Ma in queste ultime ore il presidente del Copasir ha visto sfilarsi tanti luogotenenti, leali al capo sì ma ormai concentrati sulla partita del candidato premier. Un esempio per tutti: il solido tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, custode di antiche discipline, «l’obiettivo è vincere al primo turno».
Renitenti ad aprire un contenzioso sul ritorno in Parlamento del Leader Maximo o sulla mancata difesa di Largo del Nazareno.
A dispetto delle apparenze e delle sue parole a Otto e mezzo, D’Alema è ancora amareggiato per il trattamento ricevuto. Quello di Renzi ma anche quello del Pd, dello stato maggiore bersaniano. Sa che da settimane Vasco Errani, presidente dell’Eper
milia, un tempo suo referente assoluto nella terra rossa per eccellenza, recita la parte del falco. E sussurra all’orecchio di Bersani di non mollare, di avviare lui la “rottamazione” sacrificando i vecchi. È una ferita aperta difficile da rimarginare. Un po’ di “battaglia” D’Alema la riserverà anche a chi lo ha scaricato davvero. Migliavacca, altro braccio destro del segretario, ha invece svolto il ruolo del mediatore, spiegando con pazienza all’ex premier i tanti passaggi non condivisi: le primarie, il no alle preferenze, gli stop alla legge elettorale proporzionale.
È un passaggio doloroso per quella fetta del partito che viene dal Pci. Perché D’Alema, più di Veltroni che si è sempre proiettato fuori da quel recinto, rappresenta le radici di una storia. Ma la scelta generosa dell’ex sindaco di Roma ha accelerato la chiusura di un ciclo. Chiusura che a D’Alema non è sfuggita se è vero che ieri mattina Linda Giuva, sua moglie, ha spedito un sms a Sergio Staino dopo la sua intervista a Repubblica.
«Ti voglio bene, ma fai un passo indietro », aveva detto il vignettista. «Sono le cose che io gli dico da tempo», ha messaggiato la signora Linda. È successo, alla fine. Ma non si può ancora dire che la guerra, quella tra Bersani e D’Alema, sia finita. Magari dopo le primarie, ma l’ex premier si prepara alla battaglia sulla legge elettorale.

l’Unità 18.10.12
«Io non rottamo, rinnoviamo assieme»
Bersani smentisce le ricostruzioni su D’Alema: «I deputati non li nomino io, né Renzi»
Errani: «C’è chi vuole destrutturare, ma questa è un’operazione che danneggia l’Italia e il Pd»
di Simone Collini


ROMA «Sento dire che io scaricherei, scaccerei questo o quel deputato. Ora chiedo che questa polemica la si chiuda, per favore. Io ho detto una cosa chiara: che io i deputati non li nomino e che nell’Italia che ho in testa io i deputati non li nomina né Berlusconi, né Renzi, né Bersani». Non è un semplice sfogo, anche se non ci vuole molto per capire che la lettura dei giornali non sia stata per lui piacevole. Vedersi rappresentato da diversi quotidiani come quello che «rottama» D’Alema o altri dirigenti del Pd non è piaciuto affatto a Bersani. Perché non era questo il senso delle frase «io non chiederò a D’Alema di candidarsi» e perché il concetto stesso di «rottamazione» è indigesto per il leader del Pd: «Rinnovare sì, rottamare è una parola sbagliata, se si pensa che c’è uno illuminato che decide, non andiamo da nessuna parte».
LE REGOLE VANNO RISPETTATE
Dice Bersani ai giornalisti che lo avvicinano nel giorno in cui sulle prime pagine campeggiano titoli a base di «gelo» e «strappi»: «Può essere che si conosca poco D’Alema. Io lo conosco bene: sul concetto di rottamazione combatterà fino alla morte, ma sul rinnovamento c’è. Quindi faremo un rinnovamento lavorando tutti insieme». E lavorando nel rispetto delle norme previste dallo statuto del Pd: «Le regole sui tre mandati ci sono e vanno rispettate».
Con questo Bersani spera di chiudere una polemica che poco e nulla ha che vedere con le questioni di cui invece intende discutere in questa campagna per le primarie. Un giudizio diffuso nel gruppo dirigente del Pd, come spiega anche il vicesegretario Enrico Letta: «Ora che Bersani ha rottamato la rottamazione, le primarie siano sulle idee per il Paese. Anche io rispetterò lo statuto Pd e il 2013 sarà la mia ultima candidatura al Parlamento».
Vasco Errani guarda ai ripetuti attacchi di Renzi a D’Alema e osserva che il punto non è soltanto il rispetto dovuto a una «personalità importante e un punto di riferimento» com’è il presidente del Copasir, ma il fatto che «l’idea di rottamare le persone è un atto di arroganza che non ha nulla a che fare con il rinnovamento, ma serve soltanto a destrutturare, a priscindere dal merito». Per il presidente della Regione Emilia Romagna quella in atto «è un’operazione che danneggia l’Italia, il centrosinistra e il Pd».
LA CRISI NON È ALLE SPALLE
Lo sa bene Bersani, che giudica un errore alimentare la polemica su candidature e deroghe quando sono ben altre le questioni su cui devono confrontarsi i candidati alle primarie. Parlando al consiglio generale di Confcommercio, il leader del Pd domanda, a proposito della crisi economica: «Ma noi ne stiamo uscendo o ci stiamo entrando? Perché mentre ci si interroga e si favoleggia sul futuro, la percezione delle famiglie è che ci stiamo entrando».
Per affrontare in futuro la crisi, che non terminerà certo la prossima primavera, secondo Bersani servirà un governo sostenuto da una maggioranza politicamente solida. E quindi la riforma elettorale dovrà prevedere «un ragionevole premio di governabilità» e non essere invece costruita per impedire l’emergere di una netta maggioranza. Il sospetto che alcune forze presenti in Parlamento stiano puntando proprio a questo per rendere la strada del Monti bis obbligata c’è. Per questo Bersani avverte: «Se non c’è qualcuno che dirige il traffico, se la sera delle elezioni non c’è un vincitore, si torna a votare dopo otto mesi. Da una situazione frantumata, balcanizzata, viene fuori Grillo e non il Monti bis».
NO ALLE PREFERENZE
Anche a proposito delle preferenze, il leader del Pd fa notare che sarebbe suo interesse dare il via libera a questo sistema di scelta per i parlamentari, ma sarebbe l’interesse generale a risentirne: «Le preferenze mi risolverebbero tutti i problemi: con le primarie, con le liste... Ci andrei a nozze. Ma dobbiamo pensare al Paese». E le preferenze, con quel che si portano dietro in termini di costi delle campagne elettorali e rischi di inquinamenti di ogni tipo, non vanno in direzione degli interessi dell’Italia. Anche perché, nota Bersani, già oggi «la situazione di distacco tra politica e cittadini è micidiale, è superiore al ‘92».
Con le primarie Bersani punta proprio ad abbattere quel «muro» che si è venuto a creare tra le istituzioni e i partiti, da una parte, e gli elettori dall’altra. Ma l’operazione non riuscirà se la discussione passerà da una polemica all’altra su argomenti che non hanno a che fare con la vita degli italiani. Ieri Renzi ha tirato in ballo la questione dei finanziamenti e delle spese del Pd, chiedendo trasparenza. Bersani ha liquidato la faccenda con una battuta: «Renzi non si preoccupi, noi metteremo on line tutto quanto. Metta anche lui, e vedrà che siamo tutti a posto».

il Fatto 18.10.12
Sondaggi, Renzi a un passo da Bersani
Più cresce la partecipazione, più guadagna
Ma si andrà sicuramente al secondo turno
di Wanda Marra


Matteo Renzi rosicchia punti su punti nei sondaggi. Ormai è a un’incollatura da Bersani. Martedì sera Nando Pagnoncelli a Ballarò dava il segretario al 37 per cento e lo sfidante al 33. Una distanza non esattamente incolmabile. E che il sindaco di Firenze si senta il vento in poppa si capisce dai commenti delle due “fazioni”. “Le cifre sono quelle note”, commenta Stefano Fassina. “Siamo avanti noi”. “Vinceremo noi”, è il ritornello, quello, ufficiale dei bersaniani. Ma basta una conversazione appena più approfondita a rivelare - tra una battuta, e un commento arrabbiato - che la paura è tanta. Tutt’altra atmosfera tra i renziani. Così Roberto Reggi, ormai la punta di sfondamento dello staff commenta i dati dei sondaggi: “Bisogna vedere come sono fatti. In realtà noi siamo più avanti di così. E più gente va a votare, più noi avanziamo”. Questo era quanto fotografava un sondaggio di Swg della settimana scorsa. Con 4 milioni di votanti Matteo supererebbe Pierluigi con il 29% contro il 26. Vince Matteo pure nel sondaggio Emg da lui commissionato e pubblicato dall’Huffington Post venerdì scorso: sarebbe avanti con una percentuale tra il 35.6 e il 39.4. Pier Luigi Bersani arriverebbe al secondo posto con una forbice tra il 33.3 e il 35.2. Le variazioni dipendono - appunto - dall’affluenza. Se lo staff di Renzi fornisce dati su dati e rende pubblici sondaggi riservati, gli altri sono molto meno prodighi di notizie, o presunte tali. “Sono numeri che valgono relativamente poco - spiega Alessandra Ghisleri, direttrice di Euromedia Research, nonchè sondaggista preferita di Berlusconi, che ora vede il Pdl in picchiata libera e il Pd in ottima salute - tutto dipende da quanti saranno a votare, da quali saranno le regole e quanto complicato partecipare. Per Bersani si esprimono quelli che sono addentro alla politica, gli altri vanno verso “il nuovo. E dunque, è chiaro che più sarà facile votare, più Renzi ha possibilità di vittoria”. Già le regole. Un terreno di battaglia continuo. Ieri il comitato dei Garanti si è pronunciato su due punti: al secondo turno - previa presentazione di una dichiarazione - potranno votare anche quelli che non l’hanno fatto al primo. Basterà davvero una dichiarazione? Non ci vogliono deroghe, giustificazioni, certificati e quant’altro, come è circolato negli ultimi giorni? Il presidente del Comitato Luigi Berlinguer assicura di no. Ma bisognerà vedere il testo finale. Il bacino dei votanti, infatti, è essenziale. Infatti, se al primo turno Vendola (stimato da Pagnoncelli al 14 per cento), toglie voti al segretario, al secondo dovrebbe convogliare su di lui i suoi consensi. E dunque, se il bacino è chiuso, va tutto a vantaggio di Bersani. Nelle regole in via di definizione rimarrebbe comunque la necessità di votare in un posto diverso rispetto a quello in cui ci si è registrati. A proposito di corsa a ostacoli. Il nervosismo, comunque, tra i due staff è continuo. Ieri la portavoce di Bersani per le primarie, Alessandra Moretti ha definito Reggi “il Casaleggio di Renzi”. Lui: “Io Casaleggio? Beh intanto ho i capelli corti, poi convincere Renzi non è facile”.

La Stampa 18.10.12
Biagio De Giovanni: voto Renzi, contro la burocrazia Pd
L’endorsement del filosofo, uno dei grandi vecchi del Partito
Il filosofo napoletano, nell’89 sull’Unità (diretta da D’Alema) fu il primo a chiedere la «detogliattizzazione» del partito
«La stessa classe dirigente ha fallito, ma ha usato le svolte per perpetuarsi»
«Questo gruppo è incapace di pensare in maniera diversa la storia d’Italia. Pensano sempre la stessa storia. Che infatti si ripropone ora con l’alleanza tra Bersani e Vendola. Una cosa antica; soltanto, siamo passati da un gigante come Ingrao a Vendola»
intervista di Jacopo Iacoboni


«Sì, di un Renzi c’era bisogno». Così anche Biagio De Giovanni, filosofo, per anni parlamentare europeo, un maestro per due generazioni di riformisti del Partito, romperà una certa distanza dalla politica e per la prima volta voterà alle primarie del centrosinistra. E voterà per il sindaco di Firenze.
E’ una notizia che colpisce per tante ragioni. La più immediata è la distanza più che anagrafica tra i due, stiamo parlando di uno degli intellettuali più importanti degli studi marxisti, se la parola può avere ancora un senso nella battaglia politica per come la si combatte adesso. De Giovanni non è mai stato un nuovista, per capirci, però è sempre stato un eterodosso, e i cultori della materia ricordano come fosse ieri un suo articolo decisivo per la storia della sinistra italiana, scritto nel 1989. Sulla prima pagina dell’Unità (diretta da Massimo D’Alema!) il filosofo invitava alla «detogliattizzazione» svolta dal Pci al Pds. Ne nacque un putiferio. Sul Corriere Camillo Arcuri scrisse che Veltroni spiegò di «aver letto solo sul giornale, a cose fatte, l’articolo. Questo per dire che non c’era alcun preordinato disegno di dare il via a una campagna di “detogliattizzazione” da parte del gruppo dirigente di cui egli è parte». Ecco, il gruppo dirigente è sempre quello. E allora De Giovanni torna a rompere gli schemi.
Professore, uno la immagina lontano dal renzismo e lei spiazza tutti con questa dichiarazione di voto. Cos’è successo?
«E’ successo che Renzi, al di là di quanto io possa o meno condividere le sue idee, ha capito che c’era un bisogno e l’ha interpretato. C’era bisogno di un Renzi, cioè di qualcuno che desse voce a una richiesta assai forte di frattura, direi un’urgenza, rispetto all’attuale, storico gruppo dirigente».
È per questo che le reazioni contro di lui sono state così radicali, talora scomposte?
«Proprio per quello che dicevo si è scatenata questa propaganda fortissima, che ha fatto leva - come sempre - sull’orgoglio di gruppo della parte avversa».
Perché dice che c’era bisogno di un Renzi? È abbastanza chiaro che non si si riferisce a un suo contributo teorico, o di superamento di incrostazioni ideologiche.
«No, è evidente. Ci voleva qualcuno che mettesse in discussione la continuità burocratica del gruppo dirigente. Vede, a me la parola rottamazione non piace, mi sembra anche per certi versi irrispettosa. Ma in politica non possiamo fingerci delle vergini, le parole, per strani percorsi, diventano simboli e vengono usate, e rottamazione ha avuto la forza di diventare una parola-chiave, che rappresenta questa esigenza assai sentita di una discontinuità nella classe dirigente».
Lei è molto severo con i vecchi dirigenti del partito, che ben conosce. Come mai?
«La sinistra italiana - non solo il centrodestra - ha fatto fallimento anch’essa. Innanzitutto ha governato per circa otto anni, cosa non trascurabile; ma è stata sempre parte per cinquant’anni del governo di questo Paese. E il Pci ha costruito un sistema che passava di volta in volta il testimone all’interno dello stesso gruppo. Io non sono affatto nuovista, ma uno degli equivoci è che quella stessa classe dirigente che ha fatto fallimento, poi, di volta in volta, ha pensato di poter garantire, essa stessa, il rinnovamento. Di volta in volta è come se avessero detto “bene, cambio idee, me ne rimangio alcune, ma sono sempre io, siamo sempre noi a rinnovare”. Ecco, Renzi certifica che non è più così».
Secondo lei simpatie per Renzi circolano anche tra dirigenti che magari non lo dicono?
«Proprio in questi giorni parlavo con due alti dirigenti, cresciuti nella scuola più classica del Pci. Mi hanno detto “Gino, se non si crea una frattura quella struttura burocratica resterà per sempre”. Questo gruppo dirigente si è staccato dalla società, ha interpretato qualunque svolta come chiave per la propria continuità. Come diceva Weber, la burocratizzazione dei gruppi dirigenti passa indifferente sulle svolte della storia. Il che pone un altro problema».
E cioè?
«Che questo gruppo è incapace di pensare in maniera diversa la storia d’Italia. Pensano sempre la stessa storia. Che infatti si ripropone ora con l’alleanza tra Bersani e Vendola. Una cosa antica; soltanto, siamo passati da un gigante come Ingrao a Vendola»

La Stampa 18.10.12
Ecco perché Renzi raccoglie consensi
di Angelo Benessia


Chiediamoci perché il «rottamatore» fiorentino, con la sua verve dissacratrice, sembra crescere in popolarità. Non appaga la risposta secondo la quale la chiave starebbe nella disputa, francamente stucchevole, fra i giovani da promuovere e gli anziani che non vogliono cedere il passo.
Neppure può dirsi che soddisfi la semplice esigenza di un ricambio elettorale, anche perché la seconda repubblica è iniziata, a ben vedere, con una grande capacità di mettere in luce nuovi esponenti politici, a cominciare dall’ex capo del governo, i quali hanno segnato il ventennio scorso. Il fatto è che la scelta di quel ceto politico si è rivelata assai infelice, e anzi proprio il tessuto amministrativo più vicino alla popolazione, quello dei grandi enti locali, ha ben presto rivelato che il nuovo è nato vecchio. E che alla fine della giornata i padroni di casa, cioè gli amministrati, hanno scoperto che stava sparendo l’argenteria.
Da qui la nascita di un increscioso quanto diffuso sentimento di ribellione contro la politica e i «politicanti»: sia verso quelli che hanno governato, perché hanno tradito le attese di rinnovamento di chi li aveva votati; sia verso quelli dell’opposizione perché, in tanti anni, non hanno saputo offrire un progetto alternativo in grado di imporsi.
Accade così che la stessa espressione «rottamazione» evochi in molti non solo l’idea del necessario turnaround, ma soprattutto quella della sostituzione in blocco di una classe politica che, nel suo complesso, ha fallito il mandato di modernizzare il Paese. Al punto che, per la prima volta – e che si sappia anche l’unica –, si è dato in Italia il caso di un governo che ha dovuto dimettersi sull’onda non già della spinta dell’opposizione, ma del discredito che lo aveva escluso dal contesto decisorio internazionale.
Non è quindi il mantra «largo ai giovani» a spiegare i vasti favori di cui gode il Sindaco di Firenze, ma il dichiarato proposito di rinnovare profondamente il gruppo dirigente del suo partito, lasciando a casa gli oligarchi. Non perché vecchi, ma perché invecchiati vanamente nelle stanze del potere mentre il sistema Italia accumulava in ogni campo ritardi paurosi. E siccome la ricetta è universale, fatalmente essa riscuote simpatie anche presso la destra, afflitta dall’incapacità di offrire un credibile progetto di ricostruzione senza il suo leader carismatico.
Secondo Vilfredo Pareto, cui si deve l’elaborazione più compiuta della teoria della circolazione delle élites, la società romana del tardo Impero era andata decadendo al punto che «in Occidente l’invasione barbarica venne a spezzare questa società irrigidita alla quale, coll’anarchia, recò pure qualche scioltezza e libertà». Mentre nell’Impero romano d’Oriente ove «seguitò lo stato irrigidito che era stato spezzato in quello di Occidente», poteva accadere che un famoso lenone «dopo avere trascorso la gioventù in sì bel negozio» volesse in età matura ottenere dall’Imperatore un comando nell’esercito, riuscendoci grazie ai favori, diremmo oggi, di due lobbisti «che paiono essere stati del pari poco di buono». Sicché, «con simili modi di costituire la classe governante» era fatale che si perdessero prima le provincie dell’Impero e poi la stessa capitale.
Fra i lenoni che non mancano, e le persistenti rigidità che si frappongono a ogni prova di incisivo rinnovamento, abbiamo l’impressione che ci vorrà ben altro che il povero Renzi, pur armato di buone intenzioni, a provocare l’indispensabile ricambio delle élites politiche di paretiana memoria. Sapendo che se alla fine, con il concorso di tutti, non ce la facessimo, ci attenderebbe la magra prospettiva delle invasioni barbariche.

La Stampa 18.10.12
Ecco perché non voto per il sindaco di Firenze
di Antonio Scurati


Trenta ottobre duemilaundici, stazione Leopolda di Firenze, Big Bang di Matteo Renzi.
Sono arrivato all’ultimo momento, un po’ trafelato, appena sceso dal treno. Sono qui mosso da curiosità umana e intellettuale nei confronti di questo giovane uomo politico che annuncia di voler rinnovare la politica e, soprattutto, nei confronti della sua gente che, lo spero vivamente, possa essere la «mia gente».
Affido la valigia a qualcuno e attendo nel back stage che venga il mio turno.
Prima di me sale sul palco un giovane regista assurto a popolarità e successo (la fama è un’altra cosa) adattando per il grande schermo un romanzo di Moccia. Vabbè, andiamo avanti. Ora tocca a me. Abbiamo tre minuti per dire cosa faremmo nei primi quindici minuti di governo se divenissimo il Presidente del Consiglio. Tre minuti per dire i quindici minuti di tutta una vita. Proviamo. Salgo e dico la mia. Dico che mi chiuderei a chiave e raddoppierei di netto gli investimenti italiani in istruzione e ricerca. Dico che un Paese come l’Italia o è la sua grande cultura oppure non è niente. Applausi. Applausi gratificanti ma moderati. Niente di fragoroso. Non è questo discorso che scalderà questa platea. O, comunque, non è questo uomo. Benissimo, ho detto la mia. Scendo dal palco e ascolto. Tra meno di mezz’ora parlerà Renzi, l’uomo che forse la mia generazione stava aspettando invecchiando nella sua attesa.
Parla Luigi Zingales. Tiene un bel discorso sull’importanza anche economica di rimettere al centro il criterio del merito. Sottoscrivo. Applaudo. Parla qualcun altro. Condivido e mi dispongo al buon umore. Poi sale sul palco Giorgio Gori. La mia curiosità si accende. Non lo conosco personalmente ma la mia generazione ha avuto il suo apprendistato all’irrealtà televisiva della vita attraverso le reti da lui dirette. Sono quasi emozionato: per un attimo spero che stia per consumarsi l’esame di coscienza di una Nazione. Accade, invece, qualcosa di surreale. Ascolto con queste orecchie Giorgio Gori, già responsabile delle tre reti del gruppo Mediaset grazie al quale Berlusconi ha plasmato l’immaginario italiano, lamentare con toni accorati «il degrado culturale del nostro Paese». Lo ascolto dirsi pronto a riformare la Rai, ascolto l’uomo che ha dato all’Italia «Il Grande fratello» e «L’isola dei famosi» protestare la servitù morale della Patria quasi fosse un eroe risorgimentale. Lo ascolto sempre più emozionato perché mi dico adesso viene il momento, adesso fa autocritica, rinnega il suo passato, si cosparge il capo di cenere. Poi potremo tutti assieme ripartire. Ma quel momento non viene. L’attesa è delusa. Il nostro scopo mancato. Sono le 12 e 45. Gori, come se nulla fosse, cede la parola a Renzi. Lo fa da padrone di casa. Siamo ancora nella casa del Grande Fratello.
E’ stato in quel momento preciso che ho smesso di ascoltare. Ieri, su questo stesso giornale – che è anche il «mio» giornale – mi è stata attribuita l’intenzione di voler votare per Renzi. Attribuzione infondata. Ed eccomi, dunque, qui a scrivere queste righe. Perché? Non per correggere una notizia errata (la mia intenzione di voto è socialmente irrilevante) ma per dire una delusione e proporre un ragionamento elementare. Eccolo: il declino economico, politico e morale dell’Italia è figlio di un degrado culturale. L’impoverimento materiale, l’immoralismo dilagante, la bassezza gaudente e impotente del potere s’irradiano fino a noi da quegli Anni Ottanta durati trent’anni che già allora brillavano della luce equivoca di un diamante ricettato. Gli Anni Ottanta sono finiti ieri. La sottocultura televisiva imposta da quel decennio trentennale – non la televisione in quanto tale – è stata l’autobiografia di una Nazione divenuta succube del proprio lugubre edonismo. Se vogliamo davvero voltare pagina, dobbiamo chiudere i conti con quegli anni e con i loro uomini. La generazione che risolleverà l’Italia sarà una generazione culturale, non anagrafica. Donne e uomini, di qualsiasi età, che praticheranno una diversa idea di mondo. Non vale l’argomento secondo il quale Gori sarebbe solo un consulente per la comunicazione. Per gli uomini di quegli anni, che ci vorremmo lasciare alle spalle, la comunicazione è stata tutto. E non ne faccio un caso personale nei confronti di Giorgio Gori. Renzi, se dovesse riuscire nella sua impresa, rappresenterà non delle singole persone ma un’intera generazione troppo a lungo delusa. Proprio per questo motivo, il fatto che il sindaco di Firenze non sembri avere molte idee sue potrebbe essere addirittura un bene. Potrebbe fare di lui un diapason, potrebbe farlo vibrare di risonanze finora inaudite. La sua nota di rinnovamento è sacrosanta, la guerra che gli muovono meschina. Ma se suonerà la musica della continuità culturale non potrà che prolungare la nostra attesa.

La Stampa 18.10.12
Alla cena per il rottamatore spuntano i banchieri
Tra gli altri, Salvatori di Allianz e Guido Vitale. Gli ad di Deutsche Bank e Royal Bank of Scotland
di Francesco Spini


Cuore (forse) a sinistra e (di certo) portafoglio a destra, per quel centinaio tra banchieri, imprenditori, consulenti, avvocati, commercialisti, gestori che in serata arrivano alla spicciolata sotto le navate di San Paolo Converso, a Milano. Nessuna messa, la chiesa è sconsacrata. Si celebra però l’incontro tra Matteo Renzi e la finanza sotto la Madonnina. Organizza Davide Serra che, come Renzi, da gran capo del fondo anglosassone Algebris s’è fatto la fama di gran rottamatore di vecchi marpioni della finanza. Che ora chiama in adunata. C’è, per esempio, Carlo Salvatori, presidente in Italia di Allianz e di Lazard: «Sentiamo le politiche del futuro - dice - e comunque Renzi non mi dispiace». Francesco Micheli finanziere di lungo corso - non manca l’appuntamento ma detesta l’idea di essere incasellato come fan di Renzi. «Sbagliato catalogare a priori chi è qui dice -, io ad esempio, ritengo che nella vita si debba essere curiosi e attenti a quello che accade, soprattutto in un momento di cambiamento epocale come questo. Sono qui solo per capire, se ci sarà da sentire Bersani ne sarò altrettanto lieto». In realtà la serata è anche un momento di raccolta fondi. «Offerta libera», giurano all’ingresso. Dunque, mano al portafoglio per «un po’ di tartine e un po’ di pasta in piedi», raccontano. Segue dibattito. Nel sagrato della basilica sfilano Flavio Valeri, amministratore delegato di Deutsche Bank in Italia, Andrea Soro, country manager di Royal Bank of Scotland, il banchiere d’affari Guido Roberto Vitale. E spunta anche un ex: Enzo Chiesa, direttore generale della Banca Popolare di Milano ai tempi di Ponzellini e poi allontanato per volere di Banca d’Italia. In fila per ascoltare Renzi anche Andrea Castellano, numero uno di Sace, e pure l’amministratore di Amplifon, Franco Moscetti, il primo ad arrivare. C’è l’ex produttore e ora spin doctor di Renzi, Giorgio Gori. Dall’entourage assicurano che l’endorsement a Renzi è un fatto personale di Serra. Tutti però stringono tra le mani un quadernetto con una quarantina di slide (dire diapositive, in finanza, suona brutto) targate Algebris e commentate nel corso della serata. Vi si elencano i mali del Paese, quelli che fan salire il debito e frenano la crescita: il partito degli evasori, lo chiamano, il sistema tributario troppo complesso, stipendi statali troppo alti, pensioni troppo alte. E ancora: bassa competitività, scarsa presenza nei settori vincenti, troppe tasse sulle imprese, troppa corruzione. Morale: «Il testimone passa alla Terza repubblica», si legge, «15 mesi di Bocconi non risolveranno tutti questi problemi».Le proposte? riforma fiscale, taglio alla spesa pubblica, investimenti, riforma del sistema giudiziario. Renzi stringe mani, sperando nel sostegno almeno finanziario di chi, spesso, ammette candido che alle primarie non voterà nessuno, nemmeno Renzi il rottamatore.

l’Unità 18.10.12
Primarie, ecco le regole
Tetto di spesa di 200mila euro
Ultimi ritocchi del testo messo a punto dai «garanti» del centrosinistra
Divieto di pubblicità a pagamento, le sanzioni arrivano fino all’esclusione del candidato
di Simone Collini


ROMA I candidati: dovranno firmare la «carta d’intenti» e l’impegno a sostenere il vincitore, potranno spendere per la campagna al massimo 200mila euro ma sarà vietata qualsiasi forma di pubblicità a pagamento, ogni settimana dovranno comunicare ai garanti e mettere on line la rendicontazione delle spese e ogni contributo ricevuto superiore ai 500 euro; sono previste sanzioni per chi non dovesse rispettare queste norme, fino alla perdita del titolo di partecipante alle primarie.
Gli elettori: dovranno firmare il documento a sostegno del centrosinistra e il via libera ad utilizzare l’albo per la mobilitazione durante la campagna delle politiche, potranno registrarsi dal 4 al 25 novembre (e quindi anche il giorno del voto) in «luoghi distinti da dove si vota ma situati preso la sede del seggio elettorale»; la «base elettorale» sarà quella definita al primo turno e se qualcun altro vorrà votare al secondo, il 2 dicembre (che si terrà nel caso in cui nessun candidato superasse il 50%) potrà farlo se sarà «provata l’impossibilità» a registrarsi entro il 25 novembre.
Il collegio dei garanti per le primarie del centrosinistra sta ultimando la definizione delle regole che dovranno essere rispettate da candidati ed elettori. Mancano alcuni dettagli, ma il lavoro svolto dall’europarlamentare Luigi Berlinguer, dai docenti universitari Francesca Brezzi e Mario Chiti e dall’ex presidente della commissione Antimafia Francesco Forgione è praticamente concluso. Si tratta di poche pagine, ma che sciolgono definitivamente una serie di questioni fin qui rimaste aperte. In base al regolamento messo a punto ieri, Bruno Tabacci per poter partecipare alla sfida ai gazebo dovrà necessariamente firmare la «carta d’intenti Italia bene comune». Sempre in base alle norme decise nella riunione a via Tomacelli (il comitato dei garanti si riunisce in quella che nei prossimi mesi diventerà la sola sede del Pd) Antonio Di Pietro non potrà invece partecipare: si legge infatti nel testo che verrà divulgato oggi che nessun «dirigente noto» o «rappresentante di alto livello» di partiti diversi dalla coalizione progressista, e che contrastano con essa, potranno candidarsi. Potrà invece farlo qualunque cittadino italiano che riesca a raccogliere entro il 25 ottobre 20 mila firme in
almeno dieci regioni.
Per quel che riguarda la campagna elettorale, è fatto divieto ai candidati di ricorrere a pubblicità a pagamento su tv, giornali, radio e web. Le affissioni saranno consentite soltanto per informare circa iniziative o manifestazioni, ma non potranno superare come dimensioni 100x140 centimetri. Se in passato il tetto alle spese era fissato a 250mila euro, questa volta i candidati non potranno superare i 200mila euro (anche se nel documento messo a punto non si specifica se siano da conteggiare anche le spese sostenute fin qui).
Quanto al nodo della deroga da concedere a chi non si sia registrato entro il 25 novembre e voglia votare la domenica successiva (nel caso si debba andare al secondo turno) si legge nel testo messo a punto che «per comprovati casi di impossibilità si normeranno le modalità per consentire l’iscrizione» dopo il primo turno. Il quale, comunque, definisce la «base elettorale».
Spiega Luigi Berlinguer che per quel che riguarda il capitolo finanziamenti e spese sono stati scelti «i criteri della sobrietà e della trasparenza», mentre per quel che riguarda le norme per gli elettori si è puntato a favorire la massima partecipazione possibile: «Le primarie sono una grande occasione di civiltà e di democrazia dice il presidente del collegio dei garanti partecipa chi vuole esprimere una scelta, sono l’opposto di un Porcellum che indigna». Anche Francesco Forgione sottolinea che si è lavorato «perché vi sia la massima partecipazione, assumendo scelte precise per favorirla materialmente». Inoltre, come aggiunge Berlinguer, le regole decise garantiranno «pari opportunità» tra tutti i candidati: «Nello svolgimento della loro azione, nella lealtà reciproca e nella sobrietà delle spese».
Nei prossimi giorni entrerà nel vivo anche il lavoro del Coordinamento operativo, incaricato di promuovere e monitorare le diverse fasi di organizzazione delle primarie. Ieri c’è stata la prima riunione. Ne fanno parte Sergio Boccadutri, Gian Pietro Dal Moro, Gerardo Labellarte e Nico Stumpo. Ai lavori parteciperanno quali invitati di diritto un delegato per ciascun candidato. Stando alle prime discussioni, i seggi per votare dovranno essere molto numerosi, circa diecimila. Si voterà dalle 8 di mattina alle 8 di sera.

l’Unità 18.10.12
La vera sfida è il dopo Monti
di Alfredo Reichlin


LA CANDIDATURA DEL PD A GOVERNARE STA ACQUISTANDO FORZA. MA PIÙ CI presentiamo al Paese come la sua possibile guida più diventa acuta l’esigenza (per me, almeno) di poggiarla su una base più forte, culturale, fondata non solo sulla contingenza politica ma sullo sforzo di cominciare a offrire qualche risposta ai grandi quesiti della nuova storia europea in cui siamo immersi. È ormai difficilmente contestabile che il Pd rappresenta il perno della sola alleanza di governo possibile, quello tra la sinistra democratica e un più vasto mondo moderato. Ma basta questo? La base dei vecchi schieramenti si sta sfarinando. È con forze, interessi e domande più profonde che ci dobbiamo confrontare. E, al fondo, la questione che io comincerei a porre come fondamento della nostra candidatura al governo dell’Italia è la necessità di uscire dalla Grande crisi che poi, come sappiamo, è molto di più di una crisi economica.
Il tema riguarda un «ordine» globale, che ha creato una società della super ricchezza e della super-miseria la quale ha emarginato il lavoro e i ceti medi. Per cui uscirne non è semplice. Comporta la necessità di rimettere in discussione qualcosa degli assetti anche sociali che sono alla sua base. E, quindi, richiede di allungare lo sguardo oltre l’emergenza, misurandosi con quello che a me appare ormai il rischio di una lunga decadenza di questo nostro Paese. Di che si tratta? Non delle solite cose. I fatti sono impressionanti, a cominciare dalla corruzione dilagante che è anche la spia di un vuoto spaventoso di classi dirigenti. È evidente la necessità vitale di un grande rinnovamento di persone, oltre che di idee. Ma il vergognoso linciaggio di D’Alema non è questo. Mi ferisce e voglio dirlo. Vedo in esso anche il tentativo di «rottamare» una delle cose più rispettabili di questo Paese che è la lunga, ininterrotta storia tormentata della sinistra. Una cosa è certa. Così non si riforma niente e non si forma nessuna classe dirigente.
Ritorno così al mio articolo che nasce, come sempre, dall’assillo di alzare il livello della discussione e contribuire a darci una visione più avanzata delle cose. La nostra crisi è così grave perché è parte integrante di una vicenda mondiale che ha scoperchiato tutte le nostre debolezze storiche. Dunque, questa vicenda (la grande svolta liberista e la finanziarizzazione dell’economia con tutto ciò che ha comportato come rottura del vecchio compromesso democratico e sociale) non è un fenomeno che ci è arrivato addosso dall’esterno. Insomma, noi e il mondo resta la chiave di lettura della crisi italiana. Noi e il mondo, sia per capire la decadenza di una nazione, ma sia per rendersi conto che anche tutte le nostre prospettive stanno nel rapporto col mondo. Stanno cioè nella lotta per una nuova Europa, perché solo a questo livello è possibile pensare di dare una nuova base sociale al rilancio dello sviluppo nel mondo attuale. È per la consapevolezza di questo nodo profondo che a me sembra molto fuorviante dividere il Pd tra «montiani» e «anti-montiani». È veramente una disputa vana se guardiamo alle grandi sfide che incombono.
Non capisco che idea ha dell’Italia chi considera la lotta contro il governo Monti come il discrimine tra destra e sinistra. Tutto ci dice che il problema di risanare l’insieme dell’organismo italiano (Stato e società) è problema nostro, ineludibile. Non è una emergenza che si chiude con un nuovo governo. È la condizione per rimettere con i piedi per terra tutta la lotta delle forze di progresso. I vecchi conflitti sociali del Novecento non sono affatto scomparsi. Ma qual è, oggi, il senso del riformismo nell’Italia del 2000 se esso non si pone il problema di liberare le forze produttive (si, le forze produttive) dal peso schiacciante delle rendite? Quali efficienti servizi collettivi ci sono dietro quell’insostenibile 51 per cento di spesa pubblica se non una serie di grandi rapine a spese del lavoro e della povera gente? E non sto a ricordare le speculazioni finanziarie, gli sprechi e le distorsioni che da venti anni hanno bloccato lo sviluppo del Paese spingendolo verso un destino di decadenza. Guardiamo al Mezzogiorno e misuriamo l’enormità del disastro fatto in questi anni dal cosiddetto governo del Nord (Berlusconi e Bossi insieme). Ricostruire la fisionomia dell’Italia. Questo è il compito nostro, non di Monti. Non affrontarlo significherebbe rinunciare alla missione stessa del Pd, che è quella di ridare al mondo del lavoro il senso della sua funzione nazionale e quello di restituire una cittadinanza alle classi subalterne e una rinnovata idea di patto civile agli italiani.
Detto questo, anche l’idea di fare dell’agenda dei «professori» l’orizzonte dell’Italia di domani a me sembra nasca da una visione piccola e subalterna rispetto ai problemi e ai compiti che spettano alle forze progressiste europee. Non scherziamo. La più grande crisi mondiale del dopoguerra non è scoppiata per le eccessive pretese dei sindacati né per l’avidità dei banchieri. Non voglio ritornare sulle stesse analisi che hanno già detto tutto. Richiamo solo l’attenzione sul peso che ebbe la rottura degli equilibri sociali che stavano alla base del compromesso tra il capitalismo e l’economia. E quindi sul fatto che, oggi, non si esce dalla crisi senza affrontare la questione di un nuovo modello sociale, senza un rapporto diverso tra società, economia e politica, senza dar voce non solo al lavoro ma a una nuova umanità.
Il passato non tornerà più. Ma è bene non dimenticarlo. In sostanza fu l’arrivo sulla scena di nuovi popoli con tutto il loro carico di bisogni e di domande che rese insostenibili gli equilibri e i compromessi sociali su cui si reggevano fino a 30-40 anni fa le ricche società occidentali. Erano società molto costose perché in esse la crescita della ricchezza privata e dei consumi opulenti conviveva con l’espansione del Welfare e un grande peso dei poteri sindacali e dei diritti del mondo del lavoro. Ma adesso arrivavano i nuovi soggetti della mondializzazione, e quindi il problema di non ridistribuzione della ricchezza mondiale. Si giungeva così a un bivio, si imponevano nuove scelte non solo economiche ma sociali di fondo. Sulla carta c’era anche l’ipotesi (non dimentichiamolo, perché in modi del tutto nuovi io penso che questa è la questione che si ripresenterà nel futuro) di andare avanti, verso società meno costose perché più egualitarie, con consumi meno opulenti ma più ricchi, anche culturalmente e moralmente, con grandi innovazioni nel campo della produzione di beni sociali, culturali, ambientali. Oppure sterzare a destra. L’altro corno del dilemma. È quanto fecero le oligarchie dominanti. Ruppero gli accordi di Bretton Woods su cui si era basata nel dopoguerra la costruzione di assetti politici e sociali più democratici, insieme con una economia più regolata e l’allocazione mondiale dei capitali più controllati. La finanziarizzazione senza regole fornì anche carburante allo sviluppo delle nuove economie. Ma in compenso il costo irrisorio della mano d’opera di quei Paesi venne usato come un grande «esercito di riserva» che scaricava sulla civiltà del lavoro europea, sui diritti democratici e sui vecchi ceti medi il compito di stringere la cinta a fronte dei nuovi imperativi della competitività. Questo sistema è arrivato al termine della corsa. Come se ne esce? Per piacere, non ditemi che al di là dell’agenda Monti non si può andare. Con tutto il rispetto per il professore e tutto l’augurio di lavorare ancora insieme, egli non rappresenta la misura di tutte le cose.

il Fatto 18.10.12
Barca blinda la sua eredità
Crea un’agenzia per il lavoro sui fondi Ue
Poi, forse, il Campidoglio
di Stefano Feltri


Sono come la sora Camilla, tutti la vogliono e nessuno se la piglia”, scherza con una battuta romanesca Fabrizio Barca, quando qualcuno gli chiede del suo destino politico. Il ministro della Coesione territoriale è uno dei pochi che in queste settimane finisce sui giornali più per quello che fa che per quanto propone o per le sue gaffe. E basterebbe questo a renderlo più credibile per il dopo-Monti dei vari Corrado Passera ed Elsa Fornero che stanno cercando una collocazione elettorale.
IL PROBLEMA DI BARCA è che è candidato a troppe cose: la poltrona più plausibile, in questi giorni, è quella di candidato sindaco di Roma, dopo Gianni Alemanno. Ma è anche un potenziale ministro dell’Economia in un governo sostenuto dal centrosinistra. Con la giusta legge elettorale, volendo, avrebbe anche il profilo di un premier di compromesso, nel caso di una maggioranza composita. Lui risponde sempre che “lavoro a testa bassa” e non si distrae pensando al futuro.
Però qualcosa sta cambiando, rispetto ai mesi scorsi, quando Barca si percepiva soltanto come il massimo esperto di fondi europei, destinato a tornare a fare il consulente del commissario europeo Johannes Hahn. Le prospettive stanno cambiando. Ma Barca è uomo pragmatico, quindi prima di prendersi nuovi impegni cerca di blindare il lavoro fatto dal suo ministero, cioè la revisione delle procedure di spesa dei fondi europei per evitare che ogni anno l’Italia perdesse miliardi di euro a causa dell’inefficienza della burocrazia e delle classi dirigenti locali.
Se ne sono accorti in pochi, ma in quel sofferto testo soggetto a continue revisioni che è la legge di Stabilità 2013, Barca ha fatto mettere l’articolo 10 che istituisce l’ “agenzia per la coesione”. In pratica una versione parallela del ministero oggi guidato da Barca che ne erediterà le competenze, così da garantire continuità. Il ministero di Barca è oggi senza portafoglio e quindi parte della presidenza del Consiglio, soggetto alle decisioni del premier. L’agenzia invece risponderà al ministero del Tesoro e, nelle intenzioni, dovrebbe semplificare le procedure e assicurare che l’approccio di Barca – i soldi europei si spendono per progetti che hanno obiettivi chiari, con un percorso misurabile, basta fondi a pioggia – diventi permanente.
Barca ha anche trovato un buon argomento per far approvare il suo progetto: trasferendo le competenze all’agenzia si risparmiano 932 mila euro subito e 2,2 miliardi nel medio termine. Il direttore generale verrà scelto da questo governo, dopo un concorso. Per Barca la cosa più semplice sarebbe traslocare dal ministero all’agenzia, per continuare lo stesso lavoro che fa oggi. Ma non sono questi i suoi progetti.

il Fatto 18.10.12
Sconto per Berlusconi, Penati e P4
E la chiamano Anticorruzione
Il Ddl passa con la fiducia al Senato. Severino: Il falso in bilancio è fuori tema
di Caterina Perniconi


Sulla volta che sovrasta l’aula del Senato sono affrescate le personificazioni della Giustizia, del Diritto, della Fortezza e della Concordia. Ogni tanto ieri il Guardasigilli Paola Severino alzava gli occhi e le osservava. Forse pensando che la sua legge anticorruzione avrebbe dovuto avere a che fare più con i primi tre che con la quarta. E invece, per assecondare la pace tra i membri di una “strana” maggioranza bipartisan, a vincere è stata l’ultima. Quando si è issata in piedi per esprimere il parere del governo dopo un’ora e mezzo di dibattito, il ministro ha chiesto conto ai parlamentari delle mancanze di questa legge: “Anch’io appartenevo ad una categoria di grilli parlanti, ogni legge che usciva la mia critica era pronta, era forte. Ma bisogna passare qui dentro per capire la fatica che c’è dietro ogni provvedimento, la necessità di conquistarsi la fiducia di tutti su ciò che si propone”. Una fiducia raggiunta solo dopo riduttivi compromessi. Il provvedimento che dovrebbe aiutare lo Stato a recuperare 60 miliardi l’anno introduce maggiore trasparenza, impedisce ai condannati per mafia di ricevere appalti pubblici e crea l’Authority anticorruzione. Ma non ripristina il falso in bilancio, non accorcia i tempi dei processi né allunga quelli della prescrizione (men che meno abolisce la ex Cirielli). Tutti i temi su cui il Pdl ha alzato le barricate. Inoltre depenalizza il reato di concussione per induzione, offrendo un “aiutino” ai processi di Filippo Penati (aree Falck) e Silvio Berlusconi (caso Ruby). Lo stesso reato ha a che fare anche con i casi P4 (Papa), sanità pugliese (Tarantini), nomine Asl (Tedesco).  “SO PERFETTAMENTE che il falso in bilancio, l’autoriciclaggio e il tema della prescrizione rappresentano mondi che stanno intorno alla corruzione e che ne condizionano le possibilità di scoperta e di punizione” ha dichiaratolaSeverino, “sonolepremesse della corruzione: il falso in bilancio serve per nutrire di denaro nero la corruzione; l’auto-riciclaggio rappresenta la parte postuma, ciò che si fa con il denaro”. Ma“ireatisatellitenondevono diventare la tomba del ddl” ha chiarito. In realtà sono strumenti fondamentali ai quali gli inquirenti non potranno ricorrere nonostante l’Europa ci chieda di adeguarci dagli anni '90. “La riforma dei reati societari ci deve essere – ha continuato il ministro –manonnelprovvedimentosulla corruzione, perché lo affollerebbe”. Non lo affollano invece le numerose clausole sui magistrati fuori ruolo. La regolamentazione chiesta dalla Camera con l’emendamento del deputato Pd Roberto Giachetti è stata stravolta. Il 2,6% dei togati che hanno un alto incarico nelle amministrazioni potranno usufruire di speciali eccezioni per preservare il loro ruolo. Alla fine della sua arringa Severino ha chiesto la fiducia, che è stata votata dopo sei ore. Per lei solo il tempo di un pranzo veloce, di cambiarsi una delle sette camicie sudate per trovare un accordo tra i partiti e di nuovo in aula. Ma di fronte ha trovato una platea scarsa. C’erano solo 12 senatori del Pdl. A sinistra banchi più popolati ma nessuno pareva scontento. Tranne l’IdV, che ha votato contro la legge “per l’impossibilità di modificarla” e Giovanardi, secondo cui “i fenomeni di corruttela aumenteranno con l’introduzione di funzionari ad hoc in ogni comune che dovranno controllare persino gli amici e i parenti”.  IL CALCOLO È FINITO con 228 favorevoli, 33 contrari e 2 astenuti, una delle fiducie più basse registrate da questo governo che, come ha detto Mario Monti, “ci ha messo la faccia”. Ora dovrà fare i conti con un nuovo rinvio del provvedimento alla Camera. Nonostante gli auspici a “fare presto” non c’è da sottovalutare il parere del Csm richiesto dalla Severino sulla legge, atteso per la prossima settimana. Difficile che l’organo di autogoverno della magistratura non faccia rilievi su un provvedimento imperfetto. E come faranno a quel punto i deputati a non recepirli? Solo dopo l’approvazione definitiva scatterà l’impegno del governo a scrivere la delega sull’incandidabilità dei condannati in Parlamento. Un altro compromesso con la politica: la norma prevede infatti che non potranno partecipare alle elezioni i condannati in via definitiva a una pena oltre i due anni per i reati contro la pubblica amministrazione, a tre negli altri casi. Peccato che l’87% dei corrotti ne patteggia meno di due e può andare dritto a premere un bottone sotto la volta di Palazzo Madama, ringraziando la Dea Concordia.

il Fatto 18.10.12
I buchi neri dei tecnici
Intercettazioni “vietate” per traffico di influenze e voto di scambio

di Bruno Tinti
 
Lo sanno tutti cosa è una corruzione. Una persona avvicina un pubblico ufficiale e gli chiede qualcosa: un appalto, un posto di lavoro, chiudere gli occhi su qualcosa di illecito; e gli promette soldi oppure qualsiasi altra cosa gli serva: una donna, un viaggio fantastico, una raccomandazione. Forse qualcuno non sa cosa è una concussione per induzione. Ma non è difficile. La concussione è un ricatto fatto da un pubblico ufficiale (un parlamentare, un assessore, un Presidente del Consiglio dei ministri): se non fai questo ti succederà qualcosa di male. L’induzione è un modo sottile per ricattare: non ti dico che ti farò qualcosa di male ma ti faccio capire che ti posso danneggiare o essere utile; vedi un po’ tu.
SE IL RICATTATO ci sta perché spera di ottenere qualcosa di utile, allora è un po’ come la corruzione. E se il ricattato è anche lui un pubblico ufficiale che ha l’obbligo di denunciare i reati, allora – anche se ci sta perché ha paura – commette un reato a sua volta. Anche il traffico di influenze è una cosa semplice. Due o più potenti, gente che sta al vertice della piramide, si promettono, anche implicitamente, aiuto reciproco, naturalmente illecito. Ti chiedo un favore (che non dovresti farmi). A disposizione, domani potrò sempre contare su di te. E il voto di scambio? Votatemi, a te farò aprire la tabaccheria, a te ti raccomanderò per un appalto, a te ti farò trasferire in quella città dove desideri tanto andare. Quello che si capisce bene, a questo punto, è che il corrotto e il corruttore, il concusso e il ricattatore, i compari che si accordano per un aiuto illecito reciproco, hanno un interesse comune: farsi i loro sporchi affari e non farsi beccare. Ma se per caso uno di loro è beccato, l’ultima cosa che può fare è confessare: perché, accusando l’altro, accusa se stesso; e vanno in galera tutti e due. Quindi nessuno parla, nessuno collabora: questi reati si scoprono per caso. Si analizza un bilancio e si vede che ci sono poste strane, soldi che non si sa che fine hanno fatto; si indaga su una violazione edilizia e si scopre che la licenza non poteva essere concessa; si intercetta uno per frode fiscale e si scopre che le fatture false sono state fatte per mandare i soldi su un certo conto. E via così. Ma che significa, sul piano pratico, che questi reati si scoprono “per caso”? Significa che si scoprono a una certa distanza di tempo da quando sono stati commessi. Per esempio, se si parte da una frode fiscale, questo vuol dire che la Gdf o la Procura li scopriranno dopo che la dichiarazione dei redditi è stata presentata (1 anno dopo l’emissione delle fatture false), dopo che è stato fatto l’accertamento tributario (3 anni come minimo) e dopo che la Gdf ha indagato per vedere dove sono finiti i soldi (1 anno o giù di lì): 5 anni dalla consumazione del reato. Le indagini quindi partiranno a 5 anni di distanza.
MESSE DA PARTE queste informazioni, vediamo cosa non va nel ddl anticorruzione approvato al Senato.
1 – Non c’è una norma che preveda la non punibilità del corrotto o del concusso o del compare traffichino che denuncino il reato. Anche se ti sei pentito e collabori vai in prigione lo stesso, magari con una pena minore. Ovviamente tutti allineati e coperti.
2– La pena per il traffico di influenze e per il voto di scambio è, nel massimo, 3 anni. Quindi niente intercettazioni telefoniche. Se il pm non ha la palla di cristallo, scoprire questi reati è praticamente impossibile.
3 – Per il traffico di influenze e per il voto di scambio, la contropartita deve essere “denaro o altro vantaggio patrimoniale”. Sicché, se la contropartita è la promozione (non dovuta) a un ufficio prestigioso, la raccomandazione di un protetto importante (che in realtà non vale niente) e insomma tutti i consueti favori che si scambiano i potenti, il reato non sussiste.
4 – Con le pene previste dal ddl, la prescrizione per corruzione, traffico di influenze e concussione per induzione va da 7 anni e mezzo a un po’ meno di 11. Che sembrano tanti. Ma vi ricordate che si parte con un handicap di 4/5 anni? Come si fa, nei 3/4/5 anni che restano, a fare indagini, processo di 1° grado, processo d’appello e processo in Cassazione? Non si fa.
5 – Se il processo si chiude con una sentenza di prescrizione, non c’è “condanna definitiva”. Tutti innocenti. Quindi la incandidabilità dei condannati in Parlamento resta una pia illusione.
6 – Dove la contropartita è il denaro, è ovvio che si tratta di denaro “nero”. Quindi falso in bilancio. Ma siamo ancora con la legge di B, fatta apposta per evitargli la galera: via libera ai tesoretti riservati. Potremmo cercare di chiudere la stalla prima che i buoi scappino con una nuova legge (basta recuperare quella che c’era prima) ; ma non se ne parla.
7 - Una volta ricevuto il denaro, il corrotto lo deve pur mettere da qualche parte. Che fa, se lo tiene sotto la mattonella? Certo che no: ci compra pizzerie, alberghi, società. In tutti i paesi civili si chiama autoriciclaggio e, quando ti acchiappano, buttano via la chiave della cella. Da noi non è reato. Ma che legge è questa? Nella migliore tradizione del processo penale italiano: fatta per non funzionare.
Repubblica 18.10.12
L’occasione mancata
di Massimo Giannini


NELL’ITALIA dei Berlusconi e dei Formigoni, nel Paese dei Belsito e dei Fiorito, una legge contro la corruzione che vede la luce quasi vent’anni dopo Tangentopoli è un evento storico. E Monti, che sulla legge ci mette la faccia e la firma, si assume per questo una responsabilità rilevante. Dopo mesi di pretestuosa melina parlamentare, di inerzia «comprensibile ma non scusabile di alcune parti politiche», di trattative sopra e sotto il banco, il governo rompe gli indugi con il voto di fiducia al Senato, passato con un plebiscito bulgaro: 257 sì, e solo 7 no. Ci sarebbe da festeggiare. Ma la festa ha un gusto un po’ amaro.
Il ministro della Giustizia tuona: «Questa legge non è carta straccia». Ha ragione: questa legge, semmai, è un pannicello caldo. Conforta, ma non cura. Lenisce, ma non risolve. In qualche caso, addirittura, peggiora il male che vorrebbe estirpare.
Nessuno nega il segnale politico. Dopo il devastante lavacro di Mani Pulite, e dopo diciassette anni di cultura dell’impunità scientificamente inoculata nelle vene del Paese dalla macchina del potere berlusconiano, il testo della Severino è il primo tentativo di rialzare in qualche modo la bandiera della legalità. Di rimettere mano a una strumentazione normativa logora, contraddittoria e comunque inadeguata ad arginare la nuova ondata di scandali che dalla Lombardia alla Sicilia sta ammorbando la democrazia e soffocando l’economia. La corruzione «vale» 62 miliardi di giro d’affari, «pesa» per il 2,4% sul reddito nazionale e per il 3% sul fatturato delle imprese, riduce del 16% il volume degli investimenti esteri. Se si rimuovesse la metastasi del malaffare, il Pil italiano potrebbe crescere del 4% in 5 anni. Varare una legge che almeno sulla carta si prefigge questo obiettivo è già di per sé un atto di discontinuità con il drammatico «passato che non passa».
Ma i motivi di soddisfazione finiscono qui. Se dal politico si passa al giuridico, e se dal simbolico si passa al pratico, è purtroppo facile dimostrare che questa legge non è affatto una grande svolta, ma una gigantesca occasione mancata. Innanzi tutto, per quello che il testo «non contiene» (come ieri ha giustamente ricordato su questo giornale Barbara Spinelli). Il falso in bilancio, depenalizzato nel 2002 dal Cavaliere. Il reato di «auto-riciclaggio», invocato inutilmente dalla Ue, dalla Banca d’Italia e dal procuratore antimafia Piero Grasso. Il reato di «voto di scambio», utilizzato a man bassa da governatori e assessori, e non più a suon di denaro ma di appalti e assunzioni, ville e vacanze. E poi la sanzione dell’interdizione automatica dai pubblici uffici per i politici concussori, che viene inopinatamente cancellata dal codice e che rischia di precipitarci dalla vetta delle «liste pulite» all’abisso delle «poltrone sporche».
Ma questa legge diventa addirittura pericolosa per quello che invece «contiene». Al di là degli obiettivi passi avanti sulle nuove figure di reato (traffico di influenze, corruzione tra privati) nel caso della concussione la marcia indietro è davvero inquietante. Qui, paradossalmente, il provvedimento del governo non solo non riduce il danno, ma lo produce. Il reato finora disciplinato dall’articolo 317 del codice penale viene spacchettato in due fattispecie diverse. Per uno (la «corruzione per costrizione», ipotesi quanto meno fantasiosa perché in genere nessuno si fa corrompere con la pistola alla tempia) le pene restano immutate a 12 anni nel massimo e si inaspriscono da 3 a 4 anni nel minimo. Per l’altro (la «indebita induzione», ipotesi classica di chi ottiene favori o «utilità» abusando della propria posizione di pubblico ufficiale) le pene si abbattono da 12 a 8 anni. Questa scelta, insensata e dissennata, incide sui tempi di prescrizione, che scendono da 15 a 10 anni. E può tradursi in un vero e proprio colpo di spugna per molti processi, tuttora pendenti di fronte ai tribunali della Repubblica.
Lo stesso ministero della Giustizia stima che i processi per concussione, giunti al traguardo della sentenza definitiva in Cassazione prima della mannaia della prescrizione,
sono stati 109 nel 2009, 121 nel 2010, 142 nel 2001. Allo stato attuale, ne risultano pendenti 75. Con la nuova legge almeno la metà di questi potrebbe già decadere. E a saltare potrebbero essere i processi più illustri, con imputati eccellenti e bipartisan.
Da quello di Berlusconi per il caso Ruby, la «nipote di Mubarak», a quello di Penati per le aree ex Falck. Da quello di Ottaviano del Turco a quello di Clemente Mastella. Da quello di Alfonso Papa a quello di Alberto Tedesco. Perché questi processi meritano un trattamento di favore rispetto a tutti gli altri, resta un arcano che nessuno ha il coraggio di spiegare.
La Severino, in aula, si difende dalle critiche. Parla di un «equilibrio delle pene» che va sempre rispettato, perché «non ci devono essere eccessi né in basso né in alto». Parla di pene giuste che si devono costruire «tenendo conto dei valori da tutelare». Ma proprio questo è il punto debole del Guardasigilli. La concussione (come dimostrano le cronache giudiziarie di questi mesi e di questi giorni) è forse il reato più grave tra quelli compiuti contro la pubblica amministrazione. Perché merita una diminuzione della pena, rispetto alle norme già in vigore? Dov’è l’equilibrio? Quello che il ministro considererebbe evidentemente un «eccesso» (il mantenimento della pena massima a 12 anni anche per l’indebita induzione, oltre che per la concussione per costrizione)
sarebbe fondamentale non solo e non tanto per punire più severamente chi commette il reato, ma soprattutto per mantenere a 15 anni i tempi della prescrizione, e quindi per evitare che saltino i relativi processi ancora in corso. Non è forse questo un «valore da tutelare», in un Paese che ha conosciuto le leggi ad personam di Berlusconi (a partire dalla ex Cirielli, utile a lui proprio per dimezzare le prescrizioni), e che per questo ha subito diversi richiami dall’Europa e dall’Ocse?
Il nodo è giuridico. Ma con tutta evidenza, è prima di tutto politico. Il tira e molla sulla legge anti-corruzione, in corso ormai da quasi due anni, nasconde un non detto che chiama in causa tutti i partiti, e ora anche il governo. Il patto finale, rappresentato da questa legge, conviene a vario titolo a tutti i «contraenti». Gli stessi che ora, a destra e a sinistra, si affrettano a dire che il testo va approvato, ma alcune norme andranno riviste, lo hanno di fatto «blindato» nella parte che gli stava più a cuore, litigando (o fingendo di litigare) su tutto il resto. La Severino respinge i sospetti, ed è legittimo che lo faccia. Grida «nessuno dica che questa legge è frutto di inciuci». Ne prendiamo atto: non ci sono stati «inciuci » negoziati a tavolino (anche se il Guardasigilli in queste settimane di confronto con i partiti deve aver visto l’inferno, altrimenti non aggiungerebbe un sibillino «bisogna passare qui dentro per capire la fatica che c’è dietro ad ogni provvedimento»). Diciamo allora che il risultato finale è probabilmente il frutto di una mutua e forse anche tacita convenienza. E dirlo non è fare i «grilli parlanti», ma semplicemente gli onesti cronisti. Non tutto è ancora perduto, comunque. Il disegno di legge torna ora alla Camera. Con un rigurgito di coraggio e di consapevolezza, magari supportato da un parere del Csm che stranamente questa volta tarda troppo a venire, il governo potrebbe ancora correggere queste storture. Potrebbe ancora riempire di misure coerenti e cogenti quello che, per adesso, resta solo un passaggio significativo, ma non decisivo, nella lotta alla corruzione. «Siamo un governo di persone oneste, non abbiamo varato queste norme perché siamo amici degli amici dei corrotti»: nessuno può dubitare delle parole del ministro della Giustizia, che riflettono al meglio quelle più volte pronunciate dal presidente del Consiglio. Ma proprio per questo ci aspettiamo qualcosa di più. Proprio per questo è nato l’appello e poi la raccolta delle oltre 300 mila firme lanciata da Repubblica.
Una legge diversa. Una legge della quale «l’Italia possa andare davvero orgogliosa». Questa, obiettivamente, non lo è.

Corriere 18.10.12
Un passo piccolo
Il tentativo serio e la spinta degli scandali
di Giovanni Bianconi


Alla fine la spinta decisiva al disegno di legge anticorruzione, che forse ieri ha imboccato davvero la dirittura d'arrivo, l'ha data «Batman» Fiorito.
Insieme a lui l'hanno data quegli amministratori del centrodestra finiti sotto inchiesta o sotto processo, dalla Lombardia alla Calabria, che hanno coinvolto la parte politica a cui appartengono in scandali grandi e piccoli, veri e presunti. Coi loro comportamenti hanno reso impossibile alla ex maggioranza berlusconiana, che non ha mai visto di buon occhio questa riforma, frapporre ulteriori ostacoli alla sua approvazione. Chi sarebbe riuscito a spiegare, di fronte alle malversazioni venute alla luce, che il centrodestra si metteva di traverso non per timore delle indagini ma a causa di fondate riserve di tipo tecnico-politico? Chi avrebbe convinto gli elettori che un eventuale «no» sarebbe stato dettato da una legge contraddittoria e poco funzionale (perché questo si continua a pensare nel Pdl) anziché dalla volontà di coprire chissà quali malefatte? Perfino quella sorta di scambio che condizionava il via libera all'anticorruzione a contestuali giri di vite su intercettazioni e responsabilità civile dei giudici è diventato difficilmente proponibile, dopo le ultime vicende.
Quando a giugno il governo mise la fiducia per superare gli sbarramenti pidiellini alla Camera, il capogruppo Cicchitto tuonò dal suo banco: «Faremo di tutto in Senato per cambiare il disegno di legge sulla nuova concussione e sulle influenze»; e avvisò il ministro della Giustizia Paola Severino: «Non porti emendamenti con la fiducia, perché voteremo contro; come dice il proverbio, uomo, o meglio donna avvisata è mezza salvata». Qualcosa è stato corretto per andare incontro alle richieste del centrodestra, ma non tutto ciò che volevano. E sulla fiducia il Pdl s'è adeguato. Non perché abbia cambiato idea sul merito della riforma, ma perché s'è trovato costretto ad adeguarsi, anche dopo l'ultima sferzata del ministro Severino: «Siamo di fronte a una seconda Tangentopoli, e rispetto a vent'anni fa la situazione è addirittura peggiorata». Non è un caso che ieri la Guardasigilli abbia citato con una certa soddisfazione l'ex magistrato di Mani Pulite Gerardo D'Ambrosio, oggi senatore del Pd, secondo il quale dal '92 «è la prima volta che un governo tenta di mettere mano seriamente a uno dei fenomeni più tristi della nostra Repubblica», dopo che finora la politica ha fatto di tutto per ostacolare il lavoro dei magistrati.
Il ministro Severino ha ribadito ieri che di più non si poteva fare. Per motivi tecnici, ma soprattutto per motivi politici. Sarà pure un «minimo sindacale», secondo un'espressione fatta propria dal ministro dell'Interno Cancellieri, ma quel che si sta ottenendo è diverso da niente. Dopo il cambio di governo è accaduto che un vecchio disegno di legge (primo firmatario l'attuale segretario del Pdl Alfano), pressoché vuoto di contenuti reali e adagiato su un binario morto, abbia preso una forma ben diversa e stia finalmente per vedere la luce. Il rischio di far venir meno la «strana maggioranza» che sostiene Monti ha impedito di affrontare nodi cruciali come la prescrizione, il falso in bilancio, l'autoriciclaggio, il voto di scambio. Tutti sanno che bisognerebbe intervenire su quei temi per contrastare davvero la corruzione, ma «inserirli in questo testo avrebbe significato decretarne la paralisi», ha spiegato il ministro al Senato. Aggiungendo che se il Parlamento vorrà prendere iniziative troverà il governo al suo fianco, con tutti i mezzi a disposizione. Compreso il decreto legge, dunque.
È difficile che in questo scampolo di legislatura i partiti si mettano d'accordo su questioni che li hanno sempre visti divisi, e che però sarebbe indispensabile affrontare. Ma dopo le parole pronunciate ieri dal ministro, il seguito del percorso delle norme anticorruzione entra ufficialmente nella cosiddetta «agenda Monti». Al pari delle riforme in campo economico. Anche in ossequio alle sempre citate richieste che provengono dall'Europa, per provare ad avvicinare l'Italia agli standard degli altri Paesi dell'Unione. E se questo esecutivo non avrà il tempo o la possibilità di portare a termine il lavoro, sarà compito del prossimo proseguire sulla strada intrapresa. Per non vanificare il «primo passo» che con molta fatica si sta compiendo attraverso questa riforma.
Giovanni Bianconi

Corriere 18.10.12
Mamma e papà? No, genitore 1 e 2
Francia, nuova lite sulle adozioni gay
di Stefano Montefiori


PARIGI — Il progetto di legge «Matrimonio e adozione per tutti» sarà presentato in Consiglio dei ministri il 31 ottobre, e adesso che quella data si avvicina le voci contrarie prendono forza in Francia. È il titolo III della bozza a fare più discutere, quello che fa venire i nodi al pettine: si intitola «Disposizioni che mirano a rendere coerente il vocabolario del codice civile», e riguarda naturalmente tutti i cittadini, senza fare distinzione tra coppie eterosessuali e omosessuali. Oltre all'articolo V che stabilisce «Marito e moglie sono sostituiti dal termine sposi», l'articolo VII precisa che «Padre e madre sono sostituiti dal termine genitori»; nel libretto di famiglia di ogni cittadino francese, al posto di padre e madre, saranno indicati genitore 1 e genitore 2. In base a quale criterio? Forse l'ordine alfabetico.
«Non si tratta solo di aprire il matrimonio esistente a persone dello stesso sesso, ma di trasformarlo affinché queste persone possano entrarvi — ha osservato su Rtl monsignor André Vingt-Trois, arcivescovo di Parigi —. Non è vero che per le coppie eterosessuali resta tutto come prima. Quando marito e moglie vedranno che sul loro libretto di famiglia non sono più padre e madre ma genitore 1 e genitore 2, si accorgeranno che qualcosa è cambiato. Quando a un bambino il primo giorno di scuola verrà chiesto non più "come si chiama tuo padre" ma "qual è il nome del tuo genitore 1", ci renderemo conto che abbiamo trasformato la famiglia allo scopo di conformarla a un'altra pratica. Che può avere una sua legittimità, ma questo è un altro discorso».
L'opposizione della Chiesa francese al matrimonio gay e all'adozione degli omosessuali arriva dopo la condanna di Benedetto XVI ed era scontata; altri cardinali, come l'arcivescovo di Lione Philippe Barbarin, si sono distinti per la violenza delle proteste arrivando a parlare di «via aperta alla poligamia e all'incesto». L'arcivescovo di Parigi invece ha suscitato interesse perché coglie un punto di solito trascurato: al di là dell'accesso dei gay al matrimonio, la nuova legge riguarda tutte le famiglie.
François Hollande ha presentato il progetto di matrimonio omosessuale in campagna elettorale, quando ancora non era presidente, ed è stato eletto anche in base a quella proposta: oggi, in momenti di depressione economica, di tagli alla spesa pubblica e aumenti delle tasse, le nozze gay sono una delle poche promesse che ancora può mantenere. La legge sarà sicuramente approvata, ma anche a sinistra si riflette sulla trasformazione in corso. La filosofa Sylviane Agacinski, moglie dell'ex premier socialista Lionel Jospin, contraria alla legge, ricorda che «esiste una identità di struttura tra la coppia genitoriale uomo-donna, sessuata, e la bilateralità della filiazione (cioè il fatto che i figli abbiano due genitori). L'alterità sessuale dà il suo modello formale alla bilateralità genitoriale: è per questo, e solo per questo, che i genitori sono due, e non tre o quattro». Per Agacinski ruoli ancestrali, culturali ma anche biologici, vengono messi in discussione.
Passare da padre e madre a genitore 1 e 2 potrebbe non essere solo una questione di modulistica (la tipografia Berger-Levrault è peraltro già pronta a stampare milioni di nuovi documenti), anche se le associazioni a favore delle nozze gay tagliano corto: «Chi se ne importa di sapere chi sarà il genitore 1 e 2, a meno di non essere attaccati a una forma di gerarchia come quella tra padre e madre — dice Nicolas Gougain di Inter-Lgbt —. È solo una necessità di buon senso amministrativo, farne uno scontro ideologico non ha senso». Il presidente dell'Associazione delle famiglie monoparentali è d'accordo: «Nel momento in cui il genitore 1 ha gli stessi diritti giuridici del genitore 2 il problema non esiste», ha detto a Slate.fr Alexandre Urwicz. Ma è su questo aspetto che, tra poche settimane, sarà più forte lo scontro in Parlamento.

Corriere 18.10.12
In nome della tirannia del politicamente corretto
di Isabella Bossi Fedrigotti


Genitore uno e genitore due. Così Hollande ha stabilito che sarà per secolarizzare al massimo l'istituzione matrimoniale e per perfezionare la condizione di parità tra uomini e donne. Non vuol dire che d'ora in poi i bambini francesi non dovranno più dire mamma e papà e sostituire la dolcezza dell'antico appellativo con la freddezza di un numero. Ma chi sarà poi il numero uno e chi il numero due che, si sa, automaticamente, e non soltanto nel linguaggio, implica un'inevitabile secondarietà? La Chiesa sostiene la necessità, in una famiglia, di due ruoli ben distinti. E viene da chiedersi se sono proprio indispensabili certe corse in avanti, certe forzature volute in nome del sempre più esigente e tirannico politically correct. Non si potrebbe semplicemente lasciar fare al tempo prendendo decisioni così controverse quando la società, almeno una buona parte della società, lo chiedesse in modo preciso? E ci si domanda anche se, nei tempi difficili in cui viviamo, di una vera priorità si tratta, di quelle che semplificano l'esistenza rendendo i giorni un po' meno faticosi, e non invece di un diversivo che catalizza l'attenzione al fine di togliere per un po' la crisi dalle prime pagine dei giornali. Sarà davvero così il mondo migliore, quello che tutti ci ostiniamo a sognare, magari con bambini e bambine che, come si sta sperimentando, in nome dell'assoluta indifferenziazione tra i sessi, in qualche paese del nord, non porteranno più nomi maschili e femminili, ma perfettamente neutri?

il Fatto 18.10.12
Il lungo incubo della Grecia
Accordo con la troika sugli aiuti. Ma gli attacchi razzisti di “Alba dorata” minano la pace sociale
di Roberta Zunini


La trojka è soddisfatta. Molto meno la maggior parte dei greci ma anche Sinistra democratica e i socialisti del Pasok, i due partiti della triade al governo. Gli ispettori incaricati dall'Unione europea, dalla Banca centrale europea e dal Fondo monetario internazionale, hanno lasciato Atene dopo aver raggiunto un accordo di massima con i ministri greci. L'accordo finale dovrebbe essere stipulato a breve e subito dopo verrà annunciato ufficialmente lo sblocco dell'ultima tranche di aiuti prevista dal piano di salvataggio: 31 miliardi di euro. Ma solo una piccola parte, circa mezzo miliardo di euro servirà a pagare stipendi e pensioni.
QUASI TUTTO il gruzzolo andrà alle banche per la ricapitalizzazione. “Le pretese della troika sulle modifiche dei contratti porteranno alla distruzione del mercato del lavoro e non hanno nulla a che vedere con il risanamento economico e le riforme. Sono una questione interna della Grecia”, ha detto il segretario di Sinistra democratica Fotis Kouvelis. “I nuovi interventi non aiutano la produttività e l’occupazione”, ha spiegato Venizelos, leader dei socialisti del Pasok. L'unico contento è il premier conservatore Samaras che pensa di aver salvato la faccia davanti alla comunità internazionale. Ma non è detto che abbia salvato il governo: il Pasok potrebbe dividersi e Sinistra democratica potrebbe esser costretta a lasciare sotto la pressione delle proteste di piazza: oggi sciopero generale.
LE MISURE contestate, oltre alle privatizzazioni, sono il licenziamento di 15mila impiegati del settore pubblico, i tagli alla cassa integrazione, ai preavvisi di licenziamento e agli ammortizzatori sociali in generale.
Tutto continua a favorire Alba Dorata, data ancora in crescita nei sondaggi. Il partito neonazista, formato da squadristi che scorrazzano e spadroneggiano nelle strade della capitale, grazie anche all'atteggiamento “morbido” della polizia, dopo essersela presa quasi ogni giorno con gli immigrati, picchiandoli e assaltando bancarelle e negozi, da una settimana hanno preso di mira un'altra categoria sociale: gli omosessuali. Stavano solo aspettando l'occasione. Che si è presentata sotto forma di una pièce teatrale intitolata “Corpus Christi”. Quando c'è stata la prima al teatro Hittirio, uno squadrone, in maglietta nera, si è presentato all'ingresso per impedire alla gente di entrare. La pièce firmata da un autore americano, rivisita la storia di Gesù e degli apostoli in chiave gay. E ciò per i neo-falangisti è blasfemo e intollerabile. Ma come la maggior parte dei musulmani scesi in piazza contro il film su Maometto, anche loro non l'hanno vista prima di scagliarsi contro.

Corriere 18.10.12
La guerra civile siriana e l’enigma della Turchia
risponde Sergio Romano


E se fosse la Turchia, alla fine, a rompere l'impasse della (e sulla) crisi siriana, dando una spallata decisiva al regime di Assad e, in aggiunta, un duro avvertimento a quello iraniano? È uno scenario difficile, forse improbabile, ma non impossibile. In tal caso, avrebbero avuto ragione quanti, all'ormai lontano avvio del negoziato tra Ankara e Bruxelles, pensavano che la Turchia potesse essere più utile, geopoliticamente, fuori e non dentro l'Unione Europea? Ammetto che non ero tra questi. Che ne pensa? Anche al di là del pur cruciale episodio siriano.
Aldo Rizzo

Caro Rizzo,
Le cose che non sappiamo a proposito della faida turco-siriana sono molto più numerose di quelle che sappiamo. Perché la contraerea siriana ha abbattuto un aereo turco al largo di Latakia nello scorso giugno? Perché l'esercito siriano ha puntato i suoi cannoni sulle piccole città turche che sorgono al di là del confine fra i due Paesi? Per una sorta di rappresaglia contro l'atteggiamento ostile del governo turco? O forse, più concretamente, perché quelle cittadine sono diventate le utili retrovie del Libero esercito siriano, il santuario dove i ribelli si riposano, ricevono assistenza sanitaria, trovano i mezzi di cui hanno bisogno per tornare in campo e ricominciare a combattere? Nella politica turca vi sono aspetti che mi paiono difficilmente comprensibili. Ricorda che cosa accadde alla fine del 1998 quando il governo siriano ospitava Abdullah Ocalan, leader di un partito curdo, il Pkk, che il governo di Ankara considerava un'organizzazione terroristica? La Turchia reagì duramente, minacciò rappresaglie e costrinse i siriani a sbarazzarsi di Ocalan che finì per qualche settimana in Italia. Cinque anni dopo, quando Recep Tayyp Erdogan vinse le elezioni e costituì il suo primo governo, la Turchia rovesciò la sua politica verso la Siria e i rapporti fra i due Paesi divennero idilliaci. Il musulmano Erdogan non poteva ignorare che il padre di Bashar Al Assad aveva fatto massacrare parecchie migliaia di Fratelli Musulmani nella città ribelle di Hama, ma dovette pensare che l'amicizia fra Damasco e Ankara avrebbe giovato al suo Paese e alla stabilità della regione. Non è colpa della Turchia, naturalmente, se Assad ha reagito così duramente alla rivolta dei sunniti siriani e non ha dato retta ai consigli di moderazione che venivano da Ankara.
Ma era davvero necessario assumere contro la Siria una posizione bellicosa e proporre la creazione di una zona cuscinetto in territorio siriano che diverrebbe, prima o dopo, una base dei ribelli? Era necessario entrare in rotta di collisione con due Paesi, Iran e Russia, di cui Erdogan aveva coltivato l'amicizia? Ho l'impressione che nella politica turca di questi ultimi mesi vi sia un dato che sfugge alle analisi razionali: il carattere e il temperamento di Erdogan.
Quanto ai rapporti della Turchia con l'Ue, anch'io pensavo, caro Rizzo, che il suo ingresso nell'Unione avrebbe giovato al ruolo dell'Europa nel grande Medio Oriente. Ma questo sarebbe vero soltanto se l'Europa volesse davvero fare un'ambiziosa politica mediorientale e fosse pronta ad assumere responsabilità in tutte le maggiori crisi della regione. Quello che è accaduto in questi ultimi anni sembra dimostrare che l'Ue, come soggetto internazionale, non ha ambizioni.

La Stampa 18.10.12
L’attivista che nel 2010 vinse il Premio per la pace sta scontando 11 anni di reclusione
Cina, segregata la moglie del Nobel dissidente Liu
Liu Xia non è accusata di nulla ma due agenti vivono in casa sua e lei non può uscire
La Bbc: torture psicologiche per spingere la coppia all’esilio
di Ilaria Maria Sala


Mentre continuano le discussioni sul Premio Nobel per la Letteratura assegnato a Mo Yan, fra chi trova che non lo meritasse viste le sue posizioni troppo filo-governative, e chi invece lo sostiene a spada tratta, c’è una cosa della quale possiamo essere più che sicuri: nessuno, nella famiglia dello scrittore, avrà da soffrire per la decisione del Comitato del Nobel di onorarlo. Lo stesso, invece, non può essere detto di Liu Xia, la moglie del premio Nobel per la Pace 2010 Xiaobo, da due anni costretta agli arresti domiciliari senza che sia mai stata incriminata di alcunché.
Se Pechino ha accolto con giubilo l’annuncio del Nobel a uno scrittore né esiliato né dissidente, tale non era stata la reazione due anni fa, quando Liu, uno dei principali compilatori della Carta 08, un documento firmato da centinaia di persone, in cui veniva chiesta maggiore democrazia e profonde riforme politiche, ricevette questo onore. E con Liu già in prigione, per scontare una pena di undici anni per «tentata sovversione dello Stato» la pressione è stata messa sulla famiglia: in particolare, Liu Xia, che, secondo la «Bbc», sarebbe sottoposta a un trattamento intollerabile nella speranza che questo convinca Liu Xiaobo ad accettare l’esilio, togliendo a Pechino l’imbarazzo di essere l’unico Paese al mondo con un Nobel per la Pace incarcerato.
Le condizioni in cui vive dunque Liu Xia sono da tortura psicologica. Due poliziotte abitano ora nell’appartamento che era della coppia, sorvegliando dunque Liu Xia in pianta stabile. Fuori dalla porta, quattro poliziotti si assicurano che la signora Liu non possa uscire di casa, se non nelle rare occasioni in cui ne è autorizzata: può andare a visitare il marito una volta ogni due o tre mesi, e recarsi a trovare altri membri della sua famiglia per un totale di tre uscite al mese.
Le visite non possono mai essere preparate: Liu Xia, poetessa e fotografa, viene avvertita all’ultimo delle autorizzazioni a uscire, e nel corso delle visite è sempre sorvegliata e ascoltata.
Liu Xiaobo ha sempre rifiutato l’esilio, timoroso di essere dimenticato una volta fuori dalla Cina. Ma la pressione sui familiari potrebbe portare il Premio Nobel per la Pace a decidere che il prezzo della dissidenza, imposto ad altri, diventa troppo alto.

l’Unità 18.10.12
Dietro il Nobel. Terra di pace e di scienza
Da Einstein in poi la sfida per l’unità dell’Europa
Il ruolo degli scienziati per costruire un continente finalmente senza guerre. Dall’appello del fisico di Ulma alla proposta visionaria di Edoardo Amaldi fino al Cern
di Pietro Greco


«NOI DICHIARIAMO QUI PUBBLICAMENTE LA NOSTRA FEDE NELL’UNITÀ EUROPEA: UNA FEDE CHE NOI CREDIAMO CONDIVISA DA MOLTI». PRIMAVERA 1915. L’EUROPA È IN FIAMME. DA SEI MESI È INIZIATA LA PRIMA GUERRA MONDIALE. Da qualche mese la Germania ha invaso il neutrale Belgio e l’esercito tedesco è giunto a 40 chilometri da Parigi. Sui fronti di un intero continente infuria una battaglia che è, letteralmente, senza esclusione di colpi. A Berlino due scienziati, un fisico e un fisiologo, fanno circolare un pericolo appello: è l’Aufruf an die Europäer. Il Manifesto agli Europei, in cui si chiede di smetterla di combattersi come nemici e iniziare a vivere come fratelli.
Il fisico è Albert Einstein. E il suo appello, redatto con il fisiologo di origine russa Georg Friedrich Nicolai, sostiene che se i popoli del Vecchio Continente vogliono salvare la loro civiltà, il loro livello di benessere e vivere in pace, devono unirsi. Devono creare un’Unione Europea.
L’appello non ha grande fortuna. Raccoglie solo altre due firme, oltre quella dei proponenti. Tutti rischiano la prigione. Ma l’Aufruf an die Europäer (ri)conferma due cose. Che Einstein non è solo un grande fisico, ma anche un fine politico: il suo appello arriva trent’anni prima di quello, redatto in condizioni non meno drammatiche, a Ventotene da Altiero Spinelli.
E dimostra, anche, che nell’assegnazione del Premio Nobel per la Pace 2012 all’Unione Europea, che ha assicurato oltre 60 anni di (quasi) assenza di conflitti per la prima volta nella storia del Vecchio Contenente, la scienza o meglio, gli scienziati hanno avuto un ruolo notevole: sia perché la scienza è stata ed è tuttora uno dei grandi collanti nella costruzione dell’identità europea, sia perché la scienza ha sempre preceduto la politica nel realizzare concretamente le istituzioni dell’Europa unitarie.
È possibile individuare un secolo in cui è nata la scienza moderna, il Seicento. Ma, sosteneva Paolo Rossi, il grande storico delle idee scientifiche scomparso nei mesi scorsi, non è possibile individuare un luogo, perché quel luogo è semplicemente l’Europa. Nel Seicento nasce una comunità la Repubblica della Scienza formata da italiani, francesi, inglesi, tedeschi, polacchi, belgi, olandesi che hanno che hanno i medesimi interessi e i medesimi valori. Uniti nel tener fuori dalla porta della loro peculiare dimensione la politica e la religione. Gli interessi dei membri di questa Repubblica virtuale, riguardano la conoscenza intorno alla natura. I valori sono certo quelli indicati da Robert Merton: il comunitarismo, l’universalismo, il disinteresse, l’originalità e lo scetticismo sistematico. Ma anche il «pensare europeo» il sentirsi membri di un’unica cultura e il pensare «per la pace», perché, come diceva Francis Bacon, la scienza non deve essere a beneficio di questo o di quello, ma dell’intera umanità.
All’origine della scienza c’è dunque un’idea di Europa, unita e in pace. Un’idea tanto più singolare, perché nata mentre l’Europa, proprio come nel 1915, si trova divisa e in fiamme. Mentre sono in corso guerre, come quella dei trent’anni, che mietono vittime a milioni. La scienza offre agli Europei del Seicento una visione alternativa a quella del continuare a combattersi.
La stessa cosa accade con l’appello di Einstein. E poi ancora, alla fine della seconda guerra mondiale, con la proposta, visionaria, di uno scienziato italiano: Edoardo Amaldi. Dobbiamo uscire dalla logica della divisione e del conflitto, pensa il «fanciulletto» di via Panisperna, dobbiamo costruire ponti di pace. E non c’è nulla di meglio per realizzare il primo ponte di pace nell’Europa uscita distrutta dalla guerra che unire tutti i fisici del continente in un unico, grande laboratorio. In un laboratorio europeo. Anzi, in un laboratorio che esprime l’unità europea. Le idee maturate da Amaldi alla fine degli anni ’40 incontrano fiere opposizioni, anche tra i fisici. Sia americani che europei. Ma alla fine la sua tenacia, unita a quella di pochi altri colleghi ma anche politici, si realizzano. Nel 1952 il grande laboratorio viene realizzato a Ginevra, frutto dello sforzo comune di 12 paesi europei che sette anni prima erano ancora in guerra tra loro. Amaldi è il primo direttore generale del laboratorio. Infine, il 29 settembre 1954, nasce ufficialmente il Cern, il Centro europeo di ricerche nucleari. È la prima istituzione dell’Europa unita. È la prima prova provata che Einstein aveva ragione: l’Europa può costruirsi in pace e costruire la pace. Il premio Nobel per la pace all’Unione Europea giunge nel 2012. Un anno in cui l’idea di unione europea ha subito, forse, la massima erosione da sessant’anni a questa parte. Ma anche l’anno in cui a Ginevra il Cern il più grande laboratorio di fisica al mondo ha raggiunto quello che potrebbe rivelarsi il suo massimo risultato: aver dimostrato l’esistenza del bosone di Higgs. Ancora una volta la scienza sembra indicare la strada all’Europa.

Corriere 18.10.12
Quando il diavolo tenta Abele. La tragedia più nera di Stevenson
Nel «Master di Ballantrae» paura e male non lasciano scampo
di Giorgio Montefoschi


Il Master di Ballantrae, di Robert Louis Stevenson, che oggi possiamo leggere nella nuova traduzione, molto buona, di Simone Barillari pubblicato dalla casa editrice Nutrimenti, è un romanzo notturno.
Quasi tutte le sue scene fondamentali si svolgono di notte. E, anche quando non si svolgono di notte, sono notturne, e comunque oscure. La loro oscurità, fonda, impenetrabile, è quella che terrorizza i bambini; quella nella quale si muovono gli adulti, quando perdono il lume della ragione, o si lasciano tentare dal demonio; l'angelo che un tempo sapeva cosa fosse la luce, e ora l'ha smarrita per sempre.
In una lettera, parecchio citata, a Henry James (curioso che i due protagonisti del Master, che è l'esatto opposto di tutti i romanzi del destinatario della lettera, si chiamino Henry e James) Stevenson scrisse: «Quanto al mio romanzo, si tratta di una tragedia». Ma le tragedie, ancorché non dichiarate, propongono una liberazione. Il Master di Ballantrae non propone nessuna liberazione finale. È un romanzo sulla paura e sul male che al lettore non lascia scampo. Da un punto di vista strettamente letterario, invece, è un romanzo avventuroso (talmente avventuroso, talmente spericolato nell'architettura della trama da far dubitare, a proposito della terza e ultima parte, il suo stesso autore), nel quale l'indagine psicologica corre sul filo delle lame che si incrociano, si contenta delle parole affannate e scabre che talvolta i protagonisti sembrano pronunciare come in sogno, risponde a una meccanica tanto istantanea quanto implacabile di semplici sguardi.
Siamo sulla costa Sud-Ovest della Scozia, alla metà del Millesettecento. Nel castello di Durrisdeer vive l'antica e nobile famiglia dei Durie: composta da un padre vedovo, cupo, amante delle buone letture; dal primogenito James; dal secondogenito Henry; da una cugina, Alison, erede di una cospicua fortuna in America, cresciuta insieme a loro. Come verremo presto a sapere, i due fratelli sono il contrario l'uno dell'altro. James (il prediletto di suo padre) sembra possedere tutte le doti che Lucifero gli mette a disposizione per farsi amare e detestare nello stesso tempo: è un prepotente e un materiale, che però legge l'Enriade di Voltaire e la Pamela di Richardson oltre a difficili libri di matematica, e la sera, di fronte alle braci spente del camino, sa sfiorare il braccio del vecchio lord con una tenerezza infinita; è un donnaiolo privo di scrupoli, frequentatore delle peggiori bettole, capace di rapire il cuore timoroso e semplice di sua cugina; è violento, arrogante, sprezzante e, nello stesso tempo, tanto persuasivo nel cantare antiche ballate malinconiche da far sorgere le lacrime persino sulle ciglia di chi vorrebbe ammazzarlo. Henry è un ragazzo privo di doti particolari; è «onesto e solido»; attento amministratore delle proprietà; incerto nell'esprimersi; frenato da una pericolosa fragilità dei nervi. Caino e Abele.
L'occasione che fa scoppiare l'odio di James (abituato a non essere contraddetto) e il latente istinto di ribellione di Henry, nasce da un evento storico (il tentativo della dinastia degli Stuart di riappropriasi del trono di Scozia e poi di quello di Gran Bretagna) che mette in seria difficoltà la famiglia Durie: stare con i pretendenti o col re? È un intreccio politico assai complicato che ha importanza relativa nell'economia profonda del romanzo. Il punto è un altro: quale dei due fratelli dovrà rimanere a casa e quale dei due dovrà andare a dimostrare il suo valore in battaglia? Entrambi vorrebbero la battaglia. Viene dunque lanciata una moneta: testa o croce. È la moneta del destino: vince James.
Riassumere diligentemente la trama del Master di Ballantrae (raccontata da un testimone di quasi tutte le vicende, tale Mackellar, fedele servitore della famiglia e di Henry, e poi da altri personaggi che si aggiungono al narratore principale, come si conviene a tutte le trame che non hanno un solo ingranaggio, ma decine, centinaia, e si perdono, si nascondono) è praticamente impossibile; e inutile in realtà. Al lettore è sufficiente sapere che James morirà in battaglia, quantomeno è dato per morto, e riapparirà dopo molti anni a Durrisdeer, povero e affamato di danaro; che Henry, ormai Master di Ballantrae, è sposato con la cugina e padre di una bambina; che la quiete del castello viene infranta; che il desiderio di vendetta nutrito da James per quella che lui ritiene una doppia usurpazione (il titolo e la moglie) si accompagna alla «pura e semplice delizia nell'esser crudele, come si riscontra a volte nei gatti, e i teologi ci spiegano che è il diavolo»; che questa crudeltà si indirizza principalmente nel corteggiare la moglie di Henry e nell'umiliare lui; che una sera James dirà a Henry: «Non ho mai conosciuto una donna che non abbia preferito me a te, e che, penso, non continui a preferire me»; che dopo questa offesa ci sarà un duello al lume delle candele, in un bosco, nel quale James cadrà morto, ma che dopo neppure un'ora il morto è scomparso, non si troverà più; che dopo anni e anni, quando è nato un secondo bambino, Alexander, il morto si rifarà vivo, insieme a un misterioso personaggio, tale Secundra Dass, incontrato in India; che riprenderà la tortura, riprenderanno le richieste di danaro; che Henry e la moglie decideranno di rifugiarsi in America, per scappare al demonio, e il demonio li inseguirà; che Henry, perseguitato dall'odio, comincia a odiare a sua volta e architetta un piano per il quale James, alla caccia di un suo tesoro nascosto nelle terre selvagge abitate dagli indiani, dovrà essere ucciso da chi lo scorta; che James cadrà nel tranello e sarà ucciso e sepolto, e di nuovo, una terza volta, seppure per una frazione di secondo, dopo una settimana, resusciterà sotto le mani del mago Secundra Dass; che Henry, vedendo gli occhi del fratello che si riaprono, morirà di colpo.
Questa, per sommi capi, la trama. Ma, a prescindere dalla trama, quale intensità, quale vertigine nei momenti culminanti in cui esplodono il male e la paura! E quale febbre in quelli che li seguono, e ancora li precedono, e ancora li seguono in una catena di angosce, di presagi, di incubi! C'è qualcosa di più pauroso, di più sconvolgente della riapparizione o del risveglio di un morto? «Non è di questo mondo — grida a un tratto Henry, vicino alla follia — né lui, né il nero demonio alle sue dipendenze. Gli ho conficcato la spada nel ventre con le mie mani!».
Si sbaglia. Il demonio non è alle dipendenze del fratello cattivo. Il demonio ha conquistato l'anima del fratello cattivo; e ora vuole anche la sua: vuole anche l'anima del fratello buono. E finché non se la prende, insieme al suo corpo, non è sazio. Vuole Caino e Abele. Vuole tutto.
E ai due sepolcri affiancati sperduti nella foresta, ai due fratelli degradati dall'odio, immobili, uno accanto all'altro, sotto un metro di terra indurita dal ghiaccio, non prospetta nessuna resurrezione.

Corriere 18.10.12
“Elogio dell'egoismo” di Armando Torno
Lezioni d'amore. Per noi stessi
«Elogio dell'egoismo» con Seneca, Montaigne e Dostoevskij
di Paolo Beltramin


Può sembrare una provocazione incoraggiare l'egoismo in questi tempi di tirannia dello spread, mentre gli slanci di generosità non appaiono particolarmente diffusi, e tutti sono impegnati piuttosto nella difficile operazione di far quadrare i conti in casa propria. E deve insospettire che a lanciarsi in questa ardita campagna non sia un broker spietato alla Gordon Gekko del film Wall Street, ma un bibliofilo impenitente, che ha sempre fuggito i numeri dell'economia per rifugiarsi nella filosofia, nell'esegesi biblica, nella musica classica. In realtà, nel suo Elogio dell'egoismo Armando Torno rende omaggio al significato più profondo del termine, cioè all'«amor proprio», che la rincorsa al denaro ci ha fatto dimenticare. A guardarlo bene, insomma, l'egoismo autentico non è la brama di ricchezza, ma il suo opposto: «La capacità di non vendere noi stessi».
Poco più di un centinaio di pagine, il volumetto dell'editorialista del «Corriere della Sera», in libreria da Bompiani, contiene molti libri insieme. Certo aderisce al modello del pamphlet settecentesco per semplicità, ironia e, soprattutto, leggerezza. Del resto, scrive Torno, «oggi non possiamo più permetterci il lusso di essere oscuri». Ma ha anche il ritmo e gli ingredienti di un romanzo giallo degli anni Trenta, dove la vittima è la nostra qualità della vita, i colpevoli sono tutti gli altri — proprio come in Assassinio sull'Orient Express di Agatha Christie — e la soluzione del caso non può che trovarsi nella biblioteca, come nelle indagini del dandy newyorkese Philo Vance.
Elogio dell'egoismo è inoltre un manuale pratico di sopravvivenza nella palude della vita quotidiana, e non sarebbe un delitto spostarlo dallo scaffale della filosofia per collocarlo in quello del «self-help». Contiene un lungo elenco di utili consigli: rispondere a email ed sms solo quando strettamente necessario; ridurre al minimo gli incontri familiari, specie con i parenti lontani; coltivare col massimo impegno l'ozio, che non è affatto il padre dei vizi; trascorrere l'attesa in coda all'ufficio postale per riflettere sul senso della vita, invece di sprecare energie preziose imprecando contro il destino; evitare con cura briefing, meeting o riunioni che dir si voglia, macchine diaboliche per non prendere decisioni (come teorizzato da Michel de Montaigne: «Quando gli uomini si riuniscono le loro teste si restringono»).
In realtà, confessa l'autore al termine del suo libello, «ho scritto queste note sull'egoismo con un sentimento contrario». Un mondo fondato sull'altruismo sarebbe senz'altro preferibile, ma «è inutile fingersi angeli, credere che tutto andrà per il meglio e che un giorno l'umanità ci restituirà il bene che abbiamo compiuto. Non sarà così». E allora il male minore è «guardare al proprio egoismo e attenuarlo per conviverci, senza strafare». L'unico modo per limitare l'egoismo altrui, ci spiega Torno, è bilanciarlo con il nostro: «È già molto, lo ripeto, riconoscere l'egoismo che ci circonda e organizzare qualche difesa per non ritrovarci ad esserne vittime senza saperlo». Come fare? Un libro non basta per avere la risposta. È necessaria una serie di letture, ampia ma non illimitata, indicata nell'ultimo capitolo dal titolo programmatico «Qualche libro per convivere con l'egoismo e non soccombere». In sintesi: tre moralisti del mondo antico ovvero Seneca, Marco Aurelio ed Epitteto; Tommaso d'Aquino e Dante Alighieri tra i medievali; il maestro del burlesque Louis Coquelet, autore del fondamentale Elogio di Niente dedicato a Nessuno, recentemente tradotto in italiano da Asterios; il gesuita spagnolo del «siglo de oro» Baltasar Gracián, adorato da Schopenhauer, autore del romanzo allegorico El Criticón e distillatore di verità universali come: «L'uomo avveduto preferisce le persone che hanno bisogno di lui a quelle che gli sono riconoscenti» (per inciso: il padre provinciale punì Gracián per i suoi scritti così politically uncorrect, imponendogli una dieta a pane e acqua e il sequestro di inchiostro, penna e carta); infine, due romanzi «più importanti di molte opere di filosofia», Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde e I fratelli Karamazov di Fjodor Dostoevskij.
Scrive Dostoevskij in un altro capolavoro, Memorie di una casa di morti: «Dicono taluni (e io l'ho udito e letto) che il supremo amore del prossimo è al tempo stesso anche supremo egoismo». Già, l'amore. Un terreno di difficile applicazione di ogni teoria, ammette Torno: il guaio, aggiunge, è «che non esiste una regola a cui attenersi. (...) Nessuno è mai sicuro, come in una partita a poker». In tanta incertezza, secondo l'autore la pratica dell'egoismo resta la soluzione più indolore; e in fondo anche l'eros non è che una forma nascosta di egoismo: «Le passioni d'amore escludono gli altri e inducono a concentrare le attenzioni su se stessi». Il giudizio sul matrimonio è ancora più severo: «In fondo, la gente non si unisce per amore ma perché ha paura di restare sola con gli imprevisti dell'esistenza». Nemmeno un egocentrico come Umberto Saba sarebbe del tutto d'accordo. Nella sua poesia dedicata alla moglie Lina, Ed amai nuovamente, descrive una donna capace di amare in modo straordinario gli altri, ma non di voler bene a se stessa: «Per l'altezze l'amai del suo dolore; / perché tutto fu al mondo e non mai scaltra / e tutto seppe, e non se stessa, amare».

Repubblica 18.10.12
La natura degli Haiku secondo Zanzotto
A un anno esatto dalla scomparsa del poeta esce una raccolta negli Usa e in Inghilterra
di Franco Marcoaldi


Nella prefazione del 1982 alla raccolta 100 haiku, curata da Irene Iarocci e pubblicata da Longanesi, Andrea Zanzotto non nasconde gli elementi di oggettiva distanza da quei brevi componimenti poetici giapponesi (in termini culturali, logici, linguistici, immaginativi), ma dichiara anche di esserne attratto in modo irresistibile. Quello «sfarfallio di logos», quei versi sospesi e privi di soggettività che «saettano come smussate freccioline che ci vengono da un mondo simile a quello di Alice», finiscono inevitabilmente per incrociarsi con chi da tempo va in cerca dello stesso «ammiccante moto di palpebra», lavorando con frammenti esistenziali e linguistici, con detriti di ogni genere capaci però di creare nuove scintille e dunque una nuova, possibile germinazione vitale.
Per il poeta di Pieve di Soligo, la prima e più naturale occasione di cortocircuito è offerta dalla diglossia in cui è cresciuto, dal continuo confronto tra lingua italiana e dialetto, quella lingua materna e pre-logica che «monta come un latte». Zanzotto lo scriverà in nota a Filò, nato sotto l’impulso di Federico Fellini e del suo film Casanova, libro che l’editore Einaudi ripubblica molto opportunamente proprio ora, con un bel saggio introduttivo di Giuliano Scabia, in occasione del primo anniversario della morte del poeta solighese. Ma in questi stessi giorni esce anche in America e in Inghilterra, per la University of Chicago Press e la cura di Anna Secco e Patrick Barron, un altro e nuovo libro (Haiku. For a season/ per una stagione), che dà conto di un’ulteriore avventura poetica-linguistica, se possibile ancor più radicale.
È la metà degli anni ottanta quando Zanzotto decide di misurarsi direttamente con gli haiku, con quei cristalli di apparente non-senso così ricchi di senso occulto e indefinibile, nella convinzione che il modo migliore per cercare di dar vita ad un’analoga struttura «scandita su un primordiale bioritmo», si affidi all’azzardo di scriverli in una lingua straniera, l’inglese. Traducendoli in italiano soltanto dopo, in un secondo momento. L’esito di quell’azzardo è ora sotto i nostri occhi ed è luminoso. Gli haiku hanno al loro centro la natura. E il primo libro di Andrea si intitolava Dietro il paesaggio. Parafrasando quel titolo, si potrebbe dire che qui, in questi «pseudo-haiku», lo sforzo sia di cercare cosa si cela ‘dietro il linguaggio’, tenendo sempre, come bussola, la natura. E in particolare una natura che trova come suo privilegiato oggetto d’attenzione il fiore più umile e fragile e tenace: il papavero. Ecco così che in mezzo a tanti «petali soffioni filamenti » e «lanuginose incertezze », il posto d’onore ce l’ha lui: il poppy, il papavero. Che se ne sta, «certo di sé, quando/gocce incerte pettinando passano». Il vento e la tempesta hanno inginocchiato il frumento, hanno «arruffato e derubato» il ciliegio, ma lui resiste. Ai bordi dei sentieri, nelle faglie, nelle forre. Chissà, forse «anche sotto il becco di spettegolanti galline».
Come è buona norma negli haiku, l’io del poeta anche in questo caso si ritira, scompare. Al più, può farsi occhio. Ma non è affatto casuale che quell’occhio affidi i suoi barlumi di vitalità, i suoi «mini-discorsi spezzettati », il suo travestimento esistenziale, proprio ai papaveri, che gli appaiono come «resurrezioni che l’innocenza inventa».

Repubblica 18.10.12
Figli contesi
Il compito dei genitori, dichiarava Freud, è un compito impossibile
Viviamo da tempo nell’epoca della crisi simbolica della funzione di autorità.
Sono evaporate le figure della Legge e del Padre
Quando giudici e tribunali si sostituiscono ai genitori
di Massimo Recalcati


Viviamo da tempo nell’epoca della crisi simbolica della funzione di autorità.
Sono evaporate le figure della Legge e del Padre
La situazione diventa paradossale quando, come accade sempre più spesso, sono i piccoli a dettare le regole agli adulti

Il compito dei genitori, dichiarava Freud, è un compito impossibile. Come governare (e psicoanalizzare), aggiungeva. Cosa significa? Significa che il mestiere del genitore non può essere ricalcato su di un modello ideale che non esiste. Significa che ciascun genitore è chiamato ad educare i suoi figli a partire dalla propria insufficienza, esponendosi al rischio dell’errore e del fallimento. Per questa ragione i genitori migliori non sono quelli che si offrono ai loro figli come esemplari, ma quelli consapevoli del carattere impossibile del loro mestiere. Ecco una buona notizia che dovrebbe alleggerire l’angoscia di chi si trova ad occupare questa posizione.
Il compito impossibile dei genitori si carica oggi di nuove angosce, come dimostra il caso di Cittadella. Scopriamo l’acqua calda se diciamo che il nostro tempo è il tempo della crisi simbolica della funzione dell’autorità. Questo vuol dire che la Legge ha smarrito il suo fondamento simbolico. Se il nostro è il tempo dell’evaporazione del padre è anche il tempo dell’evaporazione della Legge come ciò che custodisce la possibilità degli umani di vivere insieme. I sintomi di questa crisi sono sotto gli occhi di tutti e non investono solo lo studio dello psicoanalista (genitori angosciati, figli smarriti) ma attraversano l’intero corpo sociale: difficoltà a garantire il rispetto delle istituzioni, frana della moralità pubblica, eclissi del discorso educativo, caduta di un senso condiviso, incapacità di costruire legami sociali creativi... In primo piano è un indebolimento culturale non tanto delle leggi scritte sul codice e sui libri di Diritto ma del senso stesso della Legge che, come la psicoanalisi insegna, ha come suo tratto fondamentale quello di sostenere la vita umana come marcata da una mancanza, da un senso del limite, da una impossibilità di autosufficienza.
Questo indebolimento culturale non genera solo smarrimento, ma anche l’invocazione compulsiva della Legge nella forma dell’appello ai giudici, ai tribunali, alle norme stabilite dal Codice. È un tratto del nostro tempo: la Legge viene continuamente invocata a partire da un difetto di trasmissione del senso simbolico della Legge. È quello che accade anche nelle famiglie. Ci sono i tribunali che accolgono le istanze dei bambini malmente trattati dagli adulti e quelli che soccorrono gli adulti nelle loro diatribe coniugali.
L’istituto della mediazione familiare sembra essere divenuto indispensabile per temperare conflitti a rischio di degenerazione. Situazione tanto più paradossale se si considera che sono spesso i figli che impongono la legge in famiglia. Sono loro che dettano le regole. È una grande mutazione antropologica messa in rilevo da diversi studiosi: non è più il figlio che deve adattarsi alle norme simboliche che regolano la vita di una famiglia, ma sono le famiglie che si adattano alla legge stabilita dai loro figli. L’invocazione dell’intervento del giudice segnala questa alterazione profonda dei ruoli simbolici. I genitori, che sono sempre più in difficoltà nel trasmettere ai loro figli il senso sella Legge, si appellano alla Legge del giudice affinché gli restituisca la proprietà dei figli!
La violenza, il sopruso, il disordine caratterizzano da sempre le relazioni umane, comprese quelle familiari. I conflitti fanno parte della vita. Perché allora si è reso sempre più necessario l’intervento di una istanza Terza capace di regolare semaforica-
il disordine delle relazioni affettive più intime? Sempre più frequentemente i problemi della famiglia finiscono di fronte a un giudice o esigono una mediazione compiuta da un Terzo. Nell’epoca in cui il Terzo sembra non esistere più, nell’epoca dove tutto è uguale a tutto, si chiama in causa il Terzo ogni qualvolta si incontra un ostacolo al perseguimento dei proprio interessi o di quello dei propri figli. I genitori rompono senza problemi il patto generazionale con gli insegnanti se si tratta di non far perdere un anno al proprio figlio ingiustamente giudicato. La Legge agisce orizzontalmente permeando la nostra vita ordinaria.
Perché non si separano se non fanno altro che litigare? Si chiedeva un mio giovanissimo paziente. Quando osò porre questa domanda ai suoi genitori questi risposero all’unisono: «E tu cosa faresti?». Risposta. «Dunque se io morissi vi lascereste, finalmente?». La logica ferrea di questo piccolo non lascia scampo ai suoi genitori sull’assunzione delle loro responsabilità. La genitorialità non può mai essere confusa con il destino, talvolta burrascoso, della coppia. Sappiamo come i figli possano venire trascinati nel gorgo tremendo delle reciproche rivendicazioni dei coniugi. È allora che si esige l’intervento di un Terzo. Ma il giudice interviene sui figli o sugli adulti? La sua chiamata in causa sempre più inflazionata non testimonia forse una minorizzazione generalizzata degli adulti, nel senso che è venuta loro meno la forza di assumersi la responsabilità della decisione. In gioco è piuttosto una delega della responsabilità. Perché il Terzo deve essere necessariamente un giudice? Non dovrebbe apparire nella forma del riconoscimento del senso simbolico della Legge, quello che, per esempio, impone ai genitori la cura dei propri figli al di là dei loro interessi personali? Il senso simbolico della Legge oggi è screditato o del tutto confuso (querulomaniacalmente) con l’esistenza dei Codici. Restituire valore al carattere simbolico della Legge implicherebbe per i genitori saper rinunciare alle aspettative personali sui loro figli. Essere padri, come ci ricorda lo scandaloso racconto biblico del sacrificio di Isacco, implica la dimensione della rinuncia radicale al possesso dei propri figli, implica saperli affidare al deserto.

Repubblica 18.10.12
Che cos’è il disturbo “parentale” di cui si parla in questi giorni
Una sindrome inesistente
Non c’è nessuna giustificazione scientifica all’idea che il ragazzo andrebbe incontro a “malattie mentali o disturbi della personalità”
di Massimo Ammaniti


Le immagini di Lorenzo, il bambino preso di forza all’uscita di scuola, ricordano il quadro drammatico della cattura di Cristo dipinto da Caravaggio molti secoli fa. Ma forse il dolore e lo sgomento di Lorenzo hanno riattualizzato non solo il dolore di Cristo, ma di quanti nel corso della storia umana si sono dovuti assoggettare alla forza senza riuscire a far valere le proprie ragioni.
Purtroppo si ricorre alla forza e alla violenza quando la ragione e la comprensione non riescono a dipanare le difficoltà e i conflitti nella vita quotidiana. Questo avviene troppo spesso nelle famiglie durante e dopo le separazioni e i divorzi, soprattutto quando la coppia abbia messo al mondo dei figli.
Proprio in questi giorni è venuta alla ribalta nella stampa la sindrome da alienazione parentale, dalla definizione americana di Parental Alienation Syndrome (Pas), che si ripercuoterebbe pesantemente sul figlio che è vittima di un clima conflittuale fra genitori, in cui uno dei due cerca di escludere o di alienare l’altro allontanandolo dalla vita del figlio, quasi a negarne l’identità. In realtà questa sindrome, oltre al suo semplicismo concettuale, non è mai stata documentata, perché non si esprime con un quadro clinico definito. Infatti in queste situazioni di contrasto fra i due genitori i figli a volte trovano una loro compensazione senza manifestare un malessere psicologico, altre volte organizzano la propria vita attorno alla relazione monoparentale, altre volte ancora non riescono ad integrare nella propria mente le immagini contrastanti fra i due genitori. Si sono ascoltate e lette, in questi giorni, affermazioni che non hanno alcuna giustificazione: il bambino che subirebbe questa sindrome andrebbe incontro addirittura a «malattie mentali o a disturbi della personalità».
Da questo semplicismo e da questa povertà concettuale, scaturiscono provvedimenti altrettanto semplicistici, come si può pensare di allontanare di forza un bambino dalla madre che rappresenta la sua base sicura? Tutti gli studi sull’attaccamento dimostrano l’importanza del legame stabile e continuativo che, se viene interrotto bruscamente, comporta conseguenze traumatiche, che, queste sì, possono suscitare situazioni di rischio e di vulnerabilità.
Se non si può avere la saggezza di Re Salomone che, con la minaccia di tagliare il bambino a metà, dimostra che la vera madre (e aggiungerei anche il vero padre) è quella che sa fare un passo indietro per non danneggiare il figlio, occorre tuttavia che tutti coloro che si occupano di bambini, che siano giudici, poliziotti, genitori, insegnanti ma anche gli stessi psichiatri e psicologi, sappiano che cos’è il mondo psicologico e relazionale di un bambino, il suo bisogno di sicurezza e di protezione, le sue ansie e le sue paure. Per fortuna leggendo alcune dichiarazioni di Leonardo dopo il suo trasferimento in comunità la sua maturità ci ha rassicurato, certamente
più grande di molti adulti attorno a lui.

Corriere 18.10.12
Primavere arabe. La questione femminile
Ma queste sono rivoluzioni senza le donne
Uno spettacolo di misoginia, violenza, patriarcato, segregazione e intolleranza
di Joumana Haddad


Sin dal marzo del 2011, quando il mondo intero — l'Occidente in particolare — fu travolto dall'euforia delle Primavere arabe, ho avuto modo di esprimere il mio scetticismo verso quegli avvenimenti, in quanto già intuivo i grandi rischi che correvano le donne, malgrado gli slanci iniziali delle varie rivoluzioni. Sono stata criticata da molti, all'epoca, come «uccello del malaugurio». Ma purtroppo gli eventi mi hanno dato ragione, anche se non mi sentirete mai gongolare «ve l'avevo detto!». Avrei di gran lunga preferito sbagliarmi nella mia analisi dei fatti.
Chi non le ha viste, tutte quelle donne coraggiose scese in strada in Tunisia, Egitto, Libia e Yemen, per partecipare alle manifestazioni, reclamare la caduta dei dittatori e dare il loro contributo alla rivoluzione? «Le abbiamo viste», dico, ma è un verbo che va usato al passato. Perché difatti dove sono finite quelle stesse donne, ora che vengono erette le nuove strutture degli Stati, ora che si avverte un estremo bisogno di ascoltare la loro voce e di vedere la loro partecipazione attiva e fattiva nel costruire il futuro di questi Paesi, le loro leggi e i loro valori?
Che razza di rivoluzioni sono queste, se le donne si accontentano di farsi manovrare come pedine, per finire scartate e relegate in un angolo quando viene il momento di prendere decisioni cruciali per il futuro del Paese? Che razza di rivoluzioni sono queste, se non sono riuscite a rovesciare i tavoli del patriarcato sulla testa degli oppressori e se promettono una nuova forma di arretratezza — l'estremismo religioso — per sostituire quella appena abolita?
E chi sarebbe il vincitore in un gioco che vede metà della popolazione ridotta a una schiera di spettatrici mute — e imbavagliate?
Non fraintendetemi: con queste mie parole non intendo affatto tessere una lode ai dittatori e alle dittature. Ma non posso non essere preoccupata dalla crescente influenza dell'estremismo islamico negli ultimi anni in Medio Oriente (tanto nel ramo sunnita che in quello sciita). Non posso non essere preoccupata dal fatto che questo Islam fanatico alimenta la causa dell'estremismo di destra in Occidente. Non posso non preoccuparmi del destino della regione, e specialmente delle donne della regione, se quello che viene dopo la dittatura equivale a una nuova dittatura, ovvero, un regime fondamentalista arretrato che si fonda, tra varie atrocità, su un rincaro di misoginia, violenza, patriarcato, segregazione e intolleranza nei confronti delle donne.
Troppo spesso noi arabi siamo costretti a scegliere tra due mostri, e per quanto mi rallegri che il mostro della dittatura sia stato eliminato, vedo con sgomento un nuovo mostro che alza la testa e si prepara a prendere il potere. È fondamentale sbarazzarsi dei dittatori, ovviamente. È importantissimo combattere la fame e l'ingiustizia, non c'è alcun dubbio. È di vitale importanza mettere fine alla corruzione.
Ma è altrettanto importante combattere l'estremismo religioso, come pure rispettare e legittimare i diritti e la dignità delle donne, e questo vuol dire sbarazzarsi degli strumenti e dei sistemi del patriarcato che fingono di proteggere le donne e che sfruttano questa cosiddetta protezione al fine di giustificare l'oppressione.
Anzi, ciò che aggrava la situazione è sentir dire da alcune donne che essere trattate con tanta superiorità fa parte delle loro «scelte». Potrebbe anche darsi, se per scelta esse intendono «annientamento» o «lavaggio del cervello». Perché come si può mai parlare di scelta quando non esistono alternative? O quando l'alternativa è finire ostracizzate, o aggredite, o imprigionate, o persino uccise?
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Pertanto mi chiedo se le rivoluzioni che si sono verificate e che si stanno ancora verificando nel mondo arabo possano definirsi anche rivoluzioni delle donne: in questo senso, si tratta di vere rivoluzioni? Sotto i perfidi regimi arabi (quelli rovesciati e quelli che a breve cadranno, senza ombra di dubbio), fondati per la maggior parte sul disprezzo della donna e sulla negazione dei suoi diritti, non posso fare a meno di chiedermi: quando verrà il giorno in cui la donna del mondo arabo si stancherà di invocare «datemi i miei diritti» per urlare «i miei diritti me li prendo con le mie stesse mani»? Quando capirà che i suoi diritti non sono un lusso, ma la chiave di volta di tutto? Quando capirà che non è nata per sposarsi, fare figli, obbedire, nascondersi e servire i maschi della famiglia? Quando capirà che tutti i discorsi di democrazia sono chiacchiere vuote senza l'affermazione della sua uguaglianza con gli uomini? E che tutti i discorsi di libertà sono scempiaggini se le sue libertà civili non vengono rispettate? E che tutti quei discorsi di cambiamento e modernizzazione non valgono un fico secco se la sua situazione, la sua posizione e il suo ruolo non vengono rivalutati? Quando comincerà a infuriarsi per le offese e le ingiurie che le sono rivolte a ogni istante e che mirano ad annientarla giorno dopo giorno, in ogni ambito della vita? E quando, infine, la smetterà di contribuire al rafforzamento del sistema patriarcale, con i suoi valori retrogradi?
In breve, quando esploderà la «bomba» delle donne arabe? E mi riferisco alla bomba delle loro capacità, ambizioni, libertà, forze e fiducia in sé stesse; la bomba della rabbia per tutto quello che è stato loro imposto, e che spesso esse accettano senza osare criticare.
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Le donne che vivono nella nostra parte del mondo sono gravemente discriminate in tanti modi che costituiscono vere e proprie violazioni dei diritti umani, dai delitti d'onore al matrimonio delle bambine, dal test di verginità alle mutilazioni genitali, dal divieto all'istruzione alle limitazioni alla libertà di movimento fino alla posizione di inferiorità in campo sociale, economico e formativo, e via dicendo. Ma la difesa delle donne non deve limitarsi a diventare uno slogan esclusivamente femminile. Gli uomini sono i compagni indispensabili nella lotta contro le ingiustizie inflitte alle donne che nascono da un'arretratezza in vari ambiti, politici, militari ma soprattutto religiosi, contesti e sistemi che, proprio come la mitica idra, fanno man mano spuntare nuove teste per ognuna delle vecchie che viene recisa.
Per questo motivo ci occorre un nuovo tipo di uomo, l'uomo che non ha bisogno di opprimere le donne, negare i loro diritti e disprezzare i loro sentimenti per sentirsi «virile». Ma ci occorre anche un nuovo tipo di donna, quella donna che saprà lottare con le unghie e con i denti per ottenere i suoi diritti senza dover ricattare o cancellare gli uomini. Vogliamo donne che non si limitino a sostituire il patriarcato con il matriarcato, ma che aspirino a una vera collaborazione e solidarietà con il genere maschile.
«Primavera araba», davvero? Per quanto ne so io, ci si prospetta un nuovo inverno, oppure una primavera semplicemente cosmetica. La soluzione? Ce n'è una sola. Non si tratta di rappezzare il muro che abbiamo davanti, non si tratta di augurarsi che sparisca di colpo. Non si tratta di negare la sua esistenza, né di pregare per la sua distruzione. La soluzione è distruggere, distruggere e distruggere. E ricostruire. Ricostruire insieme, uomini e donne, mano nella mano.
È questa la vera battaglia di cui abbiamo bisogno. È questa la vera rivoluzione che ci meritiamo.
(Traduzione di Rita Baldassarre)