venerdì 19 ottobre 2012

l’Unità 19.10.12
Andrea Orlando: «Ora approvare subito il falso in bilancio»
Per il responsabile Giustizia del Pd la legge è «il primo passo per costruire un insieme organico di norme». No a modifiche alla Camera
di Claudia Fusani


 Orlando, come definirebbe la legge anticorruzione?
«Un piccolo passo avanti lungo la strada che deve portare alla costruzione degli strumenti per prevenire e colpire la corruzione. Un passo che ci avvicina ai paesi più evoluti, ci rende più competitivi e risponde ad alcune indicazioni delle convenzioni internazionali».
In sostanza una piccola legge?
«Piccola è un concetto sbagliato. Direi che è utile anche se incompleta».
E cosa le dà la certezza che questo sia “il primo pezzo”?
«L’impegno del ministro Paola Severino a mettere in agenda la reintroduzione del reato di falso in bilancio. Il Guardasigilli si è impegnata in questo senso, un testo presentato dall’Idv e sottoscritto dal Pd è già incardinato in Commissione Giustizia alla Camera e abbiamo il tempo per farlo in questa legislatura. L’obiettivo del Pd è anche quello del ministro: lavorare da subito per portarlo in aula».
Ottimista?
«Il ministro ha dato la sua parola. E finora non abbiamo avuto motivo di dubitarne»
Non si poteva spingere fin da subito per questo reato? Come si fa a combattere la corruzione se non si combatte la provvista, il nero, per pagare tangenti e altre utilità?
«A noi è molto chiara l’importanza di un reato come il falso in bilancio.Infatti abbiamo presentato emendamenti in tal senso. Ma serve e realismo. E il realismo impone di ricordare che questo è il Parlamento dove Pdl e Lega se vogliono hanno ancora la maggioranza e possono bloccare tutto. Come hanno fatto con questa legge il cui cammino è iniziato nel 2010».
L’ex ministro alla Giustizia Angelino Alfano rivendica a sè la legge contro la corruzione.
«Il testo di cui parla Alfano non prevedeva nulla circa la repressione dei reati. Era solo una simpatica novena di buoni comportamenti per i pubblici funzionari. Posso dirlo?»
Prego
«Era una favola inutile, velleitario. Non c’erano le pene, le punizioni. Mancava un pezzo importante. Che è stato introdotto non appena il ministro Severino, anche su nostra indicazione, ha messo mano al testo».
Introdurre reati nuovi, come ha fatto Severino, senza mettere mano alla disciplina delle prescrizioni non è altrettanto velleitario?
«Sarebbe stata la prima cosa da fare. Ma non era possibile. Non ci possiamo scordare che questo Parlamento è quello che ha sancito, con tanto di voto in aula, che Ruby era la nipote di Mubarak. E con gli stessi rapporti di forze che nel 2005 approvarono la Cirielli che ha dimezzato i tempi della prescrizione».
Girano voci di possibili modifiche alla Camera quando il testo arriverà per l’approvazione definitiva.
«Impossibile. L’anti-corruzione deve essere approvato subito. È urgente che
il governo eserciti la delega per la non candidabilità dei corrotti condannati in via definitiva. È fondamentale che sia pronta per le prossime urne, siano essere le regionali in Lazio e Lombardia o l’election day in aprile».
Anche l’incandidabilità rischia di essere un miraggio: saranno esclusi dalle liste solo i condannati dai 2 anni in su. Ma quasi il 90% dei processi per i reati contro la pubblica amministrazione hanno condanne sotto i due anni.
«Ancora una volta diciamo: intanto cominciamo da qui. L’ottimo è nemico del bene. Finora non esistono divieti. Il parametro, l’unità di misura per valutare questa legge, deve essere quanti passi in avanti consente di fare. E i passi avanti sono tanti».
A sentire le dichiarazioni di voto al Senato mercoledì veniva da sorridere. Tutti i gruppi hanno dichiarato che il testo è insufficiente.
«Oggi molti sono saliti sul palco per elencare i pezzi mancanti. Li divido in due gruppi. Quelli che lo hanno fatto in buona fede e che però mi sembrano marziani perchè dimenticano che questo Parlamento può ancora avere la stessa maggioranza Lega-Pdl che ha votato le leggi ad personam».
E il secondo gruppo?
«Sono quelli in cattiva fede che nelle ultime settimane hanno tentato, e ancora lo faranno, il gioco “aggiungiamo un pezzo” con l’unico intento di far saltare tutto».
Ad esempio chi ha cercato all’ultimo di introdurre il Commissario Anti-corruzione?
«Non faccio nomi. I conigli dal cilindro sono stati molti, ad esempio per evitare il divieto per i giudici di seguire gli arbitrati».
Gli agguati contro la norma sulle toghe fuori ruolo non sono stati un bello spettacolo.
«Ancora una volta, e lo dico all’amico Giachetti, abbiamo fatto un passo verso la normalità. Prima di questo c’era il nulla».

l’Unità 19.10.12
Camusso: «La legge anticorruzione è insufficiente»
Critica la Cgil: molto al di sotto delle aspettative
L’intervento a chiusura degli Stati generali della Cgil lombarda sulla legalità
Il procuratore Greco: «Impiegati vent’anni per una legge inutile»


Il disegno di legge approvato ieri dal Senato non convince. Susanna Camusso, leader Cgil: «La fatidica legge sulla corruzione che doveva essere la grande risposta del Paese è ben al di sotto delle aspettative minime che si dovevano avere». Critiche anche dal Pd: non è l’optimum. Il procuratore nazionale antimafia Grasso: serve ancora un po’ di strada.
La legge sulla corruzione «che doveva essere la grande risposta del Paese su questi temi è ben al di sotto delle aspettative minime che si dovevano avere». Parola di Susanna Camusso, la leader della Cgil intervenuta ieri in chiusura della seconda giornata degli Stati generali della Cgil Lombardia sulla legalità. Cita il caso Lombardia, la segretaria della Cgil, dove «a differenza del Lazio, la crisi lì è legata al rapporto tra un sistema economico potente e il presidente della giunta regionale». E il suo giudizio è tranchant nei confronti del governo: «il Parlamento sulla legge sulla corruzione ha partorito un topolino. Il governo Monti ci ha messo 15 giorni per cambiare il destino previdenziale di tutti gli italiani, e oltre undici mesi per far passare una legge anti corruzione, quando invece era in grado di chiedere qualunque cosa». E ancora, «la qualità dei provvedimenti sull’evasione non è all’altezza delle intenzioni dichiarate».
Al dibattito conclusivo, coordinato dal vicedirettore de l’Unità Rinaldo Gianola, ha preso parte anche Francesco Greco, procuratore aggiunto di Milano, che ha puntato il dito contro le norme che si mettono di traverso, a chi dovrebbe fare chiarezza. «Il Parlamento italiano ha impiegato vent’anni a fare una legge sulla corruzione che non serve a niente. E in questi vent'anni abbiamo fatto molte leggi che impediscono alla magistratura di operare». Un Parlamento, sottolinea ancora il procuratore aggiunto di Milano, «che ritiene possibile che persone condannate possano continuare» a sedere in Parlamento. E tuttavia ci sarebbe ancora di peggio, «non vorrei che questa storia ci distolga l’attenzione dalla cosa più importante ammonisce Francesco Greco perché sono convinto che il problema più grande sia l’evasione fiscale. Da anni l’Ocse ritiene che la criminalità' economica debba intendersi come un tutt’uno: evasione, riciclaggio, criminalità». E ancora, a scanso di equivoci, Greco ha chiarito: «Bisogna andare a prendere i soldi da chi li ha imboscati in questi anni, e la politica deve farlo seriamente».
AIUTARE GLI AMMINISTRATORI
Accanto a Patrizia Impresa, prefetto di Cuneo arrivata a portare il saluto del ministro Cancellieri (la sua ricetta, «coinvolgimento di tutti i soggetti, attraverso i patti per la sicurezza come modello di collaborazione. L'antidoto alla illegalità è un'autentica cittadinanza sociale»), c’era poi anche Roberto Montà, sindaco di Grugliasco e vicepresidente di “Avviso pubblico”, associazione con l’obiettivo di rappresentare «tutti quegli amministratori che credono nella buona politica», il quale ha rilanciato il documento destinato a tutti i candidati alle prossime elezioni, richiamando i principi dell’etica della responsabilità. «Sono 212 gli atti intimidatori ad amministratori che hanno scelto la causa della legalità ha ricordato Montà Bisogna sostenerli nella loro battaglia».
Certo l’illegalità si nutre delle gravi difficoltà che il Paese sta attraversando. E a sottolinearlo ci ha pensato pure il segretario generale di Confcommercio Luigi Taranto, parlando della «pervasività dell'illegalità nell’economia» e della «fase recessiva in atto, dalla quale è complesso uscire».
«La legalità è questione di ordine nazionale, ma è pur vero che è nel Mezzogiorno che si scarica maggiormente il peso. A proposito del documento Cgil sulla legalità ha affermato Taranto mi ritrovo molto nelle parole del procuratore Scarpinato, che sottolinea come il sottosviluppo sia fondamentale per il riprodursi del potere criminale. Occorre piena integrazione tra politiche per la legalità e politiche per lo sviluppo». Per questo è stata richiamata la necessità di aiutare le imprese ad avere la capacità di non cedere al ricatto e di resistere alla pressione del potere mafioso, insieme alla necessità di prevedere concretamente l’espulsione dalle associazioni imprenditoriali di chi si piega al ricatto della sfida mafiosa.

il Fatto 19.10.12
Legge anticorruzione
Davigo:“L’elenco di quello che manca è infinito”
di Beatrice Borromeo


Altro che brodino, come il Financial Times ha definito la legge anticorruzione. Per Piercamillo Davigo, consigliere della Corte di Cassazione, “se uno è rigoroso, fa le cose diversamente”. A partire da un certo regalino che il magistrato di Mani Pulite proprio non si spiega.
Dottor Davigo, cosa la stupisce di più di questa legge? Direi il fatto che hanno dimezzato le pene previste nel caso di concussione per induzione. Perché l’hanno fatto?
L’Ocse chiedeva da tempo all’Italia di punire il privato che paga il pubblico ufficiale, cioè il concussore, e questa legge lo prevede. Non basta?
No, perché così si aggira soltanto l’obbligo di punire chi dà denaro al funzionario pubblico, traendone vantaggi. Il concusso alla fine la fa franca. Viene punito, ma la pena è ridotta. E le norme favorevoli sono retroattive. Con il risultato che molti processi in Cassazione verranno annullati.
Meglio eliminare la retroattività?
No, meglio non ridurre le pene!
Quanto ci manca per essere conformi alle richieste dell’Europa?
Non so cosa fosse ottenibile, ma di certo l’Italia è ancora molto indietro rispetto agli altri Paesi europei. Se solo ci fosse la volontà, basterebbe procedere in modo molto più semplice, copiando le convenzioni internazionali. Così saremmo conformi di sicuro.
Cosa cambia per quanto riguarda il traffico di influenze, cioè quando i potenti si mettono d’accordo per darsi un aiuto (illecito) reciproco?
In questo caso il vero problema è che la pena edittale prevista per questo reato (cioè la reclusione a tre anni) non consente le intercettazioni telefoniche. Ma come pensano di scovare questi reati? Li scopriremo solo se ce li verranno a raccontare. Almeno, però, hanno aumentato i termini per la prescrizione da 7 anni e mezzo a 11 per i reati di corruzione, concussione per induzione e traffico di influenze. Basterà per terminare in tempo i processi?
C’è un equivoco di fondo. Non sono i termini di prescrizione a essere necessariamente troppo brevi, il problema è che in Italia la prescrizione comincia a decorrere non dalla scoperta del reato, ma da quando il reato è stato commesso. E di solito non si becca il criminale in flagrante. È ridicolo: in altri paesi, una volta che il processo comincia, i termini per la prescrizione non decorrono più. Poi c’è un’altra questione.
Quale?
Da noi ci sono 35 mila fattispecie di reati penali, e invece di ridurle, questa legge
le ha ulteriormente aumentate. Rendiamoci conto che anche se abolissimo il 90 per cento dei reati, ne resterebbero ancora migliaia.
Forse però andrebbe introdotto il reato di autoriciclaggio. Oggi quelli che, ricevute
le mazzette, usano i soldi per acquisti e investimenti, non vengono puniti.
Il ministro Severino ha detto che non voleva ritardare i tempi del disegno di legge, che se ne occuperà a parte. Forse ha ragione. Però noto che l’autoriciclaggio è stato inserito nella lista dei reati persino in Vaticano...
Hanno anche evitato di reintrodurre il falso in bilancio, cancellato dal governo Berlusconi.
Lasciamo stare, l’elenco di quello che manca è infinito. Cosa pensa invece dell’incandidabilità? I condannati in via definitiva a pene superiori ai 2 anni dovranno mollare la poltrona.
Già. Peccato che oltre il 90 per cento delle condanne, anche quelle per concussione, tra rito abbreviato e attenuanti generiche vanno pesantemente sotto i due anni. E poi basta che uno patteggi per evitare la condanna. E quindi l’incandidabilità.

il Fatto 19.10.12
Incandidabilità, specchio per le allodole
di Bruno Tinti


DOPO LA bella prova di sé che hanno dato governo e Parlamento con il ddl anticorruzione, adesso sembra si vogliano occupare della incandidabilità: i condannati non potranno fare gli onorevoli (ma va?). Ammesso che questa cosa veda mai la luce, si tratterà di uno specchietto per le allodole, come la legge anticorruzione.
1 – L’incandidabilità scatterebbe a seguito di una sentenza di condanna definitiva a pena maggiore di 2 anni di reclusione (ma si parla anche di 3).
2 – Omicidio, rapina e traffico di droga in genere sono sanzionati con pene superiori. Ma è difficile che i parlamentari commettano reati di questo tipo: hanno altri mezzi più sicuri per arricchirsi. Comunque, è vero, l’onorevole che ammazza la moglie non potrà più frequentare il Parlamento.
3 – I reati tipici di questa gente, come ognuno (e anche il governo) sa benissimo, sono concussione, corruzione, traffico di influenze, voto di scambio, falso in bilancio, frode fiscale, abuso in atti d’ufficio.
4 – A eccezione della concussione con violenza o minaccia (che non si verifica mai) tutti gli altri reati sono a prescrizione garantita. Bisogna arrivare a sentenza definitiva entro 10 anni e 8 mesi per la concussione per induzione ed entro 7 anni e mezzo per gli altri reati. Siccome le indagini, per questo genere di delitti, cominciano a distanza di qualche anno dal fatto (in media 3 o 4) gli anni che restano non sono sufficienti per celebrare i processi in Tribunale, Appello e Cassazione. Quindi la sentenza definitiva sarà: “Reato estinto per prescrizione”. Cioè che l’imputato ha commesso il reato ma non può essere condannato. Sicché niente sentenza definitiva di condanna e niente incandidabilità.
5 – Per il traffico di influenze e il voto di scambio non si possono fare le intercettazioni telefoniche. Senza di queste le indagini non partono nemmeno. I trafficanti sono uniti da un patto ferreo: nessuno denuncia l’altro perché andrebbe in prigione pure lui. Ne consegue che i processi che potrebbero portare a condanne definitive non si faranno. Niente incandidabilità.
6 – Il falso in bilancio non esiste più. Anzi esiste ma di fatto non è perseguibile; lo sanno anche i sassi. Quindi niente incandidabilità.
7 – Perché sussistano traffico di influenze, voto di scambio e abuso d’ufficio occorre che il premio dato o promesso al delinquente sia denaro o altro vantaggio patrimoniale. Insomma, soldi. Ma è ovvio che in questi casi di soldi non ne circolano. Il premio consiste nel fatto che oggi io aiuto te e domani tu aiuti me. Sono tutti “a disposizione”. Niente soldi, niente reato; niente reato, niente incandidabilità.
8 – Se, hai visto mai, a condanna definitiva si dovesse arrivare (si dice che le vie del Signore sono infinite, peccato che non sia vero) c’è sempre Santo (per restare in tema) patteggiamento. Ma non si patteggia a più di due anni perchè altrimenti niente sospensione condizionale, cioè galera immediata. Quindi niente incandidabilità.
Ma quando la smetteranno di prenderci per... il fondo dei pantaloni?

La Stampa 19.10.12
Corruzione, i passi mancanti
di Vladimiro Zagrebelsky


Il testo di norme anticorruzione, per far approvare il quale il governo ha dovuto porre la questione di fiducia in Senato e così superare incredibili resistenze, ha subito incontrato forti critiche. Insufficiente ed anche controproducente, si è detto, con qualche buona ragione. E’ il versante penale di quel testo che giustifica le critiche.
Il fatto del pubblico ufficiale che abusa dei propri poteri o qualità per indurre altri a dare o promettere denaro o altra utilità, non sarà più punito come concussione con la pena massima di dodici anni, ma con quella minore di otto anni di reclusione.
La pena massima non ha in generale grande importanza nelle sentenze di condanna, essendo estremamente raro che i giudici fissino la pena sul massimo. Ma conta invece per stabilire i termini di prescrizione, che, per effetto della diminuzione della pena, si riducono da quindici a dieci anni. Nel sistema italiano, che già ha lunghi tempi processuali, la prescrizione del reato comincia a correre dal momento in cui questo è commesso (e non da quando se ne ha notizia e iniziano le indagini) e questo tipo di reati resta solitamente a lungo sommerso e viene a galla occasionalmente, nel corso di altre indagini, a distanza di tempo. Si comprende quindi la gravità dell’abbreviazione dei termini di prescrizione, che favorisce il loro maturare prima che si esauriscano tutti i gradi del giudizio. Non solo, ma le leggi più favorevoli agli imputati si applicano immediatamente anche ai fatti precedenti, con il risultato che gravi processi in corso finiranno nel nulla. Dalle convenzioni internazionali cui l’Italia è legata, pare ricavarsi che, come per la corruzione, occorra punire anche chi, indotto ma non costretto, paga il pubblico ufficiale concussore. E ciò è stato previsto dalla nuova norma.
Ma tutti gli organismi internazionali chiedono insistentemente all’Italia di punire «efficacemente» corruzione e concussione e deplorano l’alta percentuale di prescrizioni, che rendono nulla la repressione di questi crimini. Rispetto a quest’obbligo che ci deriva dagli impegni internazionali (ma non dovrebbe essere necessario il richiamo esterno!), la riforma peggiora il problema. E l’esito che produrrà sui processi in corso giustificherà polemiche velenose. Per il futuro è possibile che la nuova norma spinga verso qualche distorsione applicativa e che per non punire il privato concusso (e così indurlo a collaborare e non coprire il concussore) si tenda a vedere una «costrizione» in quella che invece potrebbe essere solo una robusta «induzione» e contestare quindi il più grave reato di concussione per costrizione. La riforma ora introdotta sarebbe senza effetto, ma lascerebbe il danno di discussioni senza fine e forse un problema in più nelle mani dei giudici.
Quanto alle varie ipotesi di corruzione, le pene massime sono state aumentate, cosicché d’ora innanzi per tutte sarà ammesso l’essenziale mezzo d’indagine rappresentato dalle intercettazioni. Alla pena massima, infatti, è legata anche la possibilità o il divieto di ricorrere alle intercettazioni. Ma non si è provveduto a reintrodurre un’efficace repressione penale del falso in bilancio. Il falso in bilancio consente di creare le disponibilità di denaro «in nero», necessarie per corrompere. Le indagini e l’efficace repressione della corruzione passano quindi anche per quelle del falso in bilancio.
Infine l’introduzione nel sistema penale italiano del reato di «traffico di influenze illecite» non sembra poter contrastare efficacemente un fenomeno deleterio. Si tratta del fatto di chi sfrutta le sue relazioni con il pubblico ufficiale per fungere da intermediario in relazione ad atti che questi deve compiere nei confronti di altri. Ma per la punizione è stato richiesto che il mediatore si faccia pagare o promettere qualche vantaggio patrimoniale. Che debba trattarsi di vantaggio patrimoniale costituisce un limite molto forte, poiché esclude il semplice scambio di favori, magari non contemporanei e non previsti, esclude l’essere «a disposizione». Esclude la raccomandazione. Ed è condizione non richiesta dalla Convenzione penale contro la corruzione del 1999 che l’Italia ha finalmente ratificato nel giugno scorso e che parla semplicemente di «vantaggio indebito». Si può capire che il Parlamento fosse preoccupato di far della raccomandazione e della intermediazione un reato. Quanta parte dell’attività di «cura del collegio elettorale» si traduce proprio in questo, per mantenere ed allargare il consenso elettorale? Ma l’estensione della corruzione, grande e piccola, eccezionale o quotidiana, mette radici proprio nel costume di forzare, aggirare le regole eguali per tutti e trasformare i poteri pubblici in occasione per gratificare gli amici o gli amici degli amici.
E’ passata praticamente inosservata la parte del testo approvato dal Senato che non riguarda la materia penale e che pure potrebbe rivelarsi di grande importanza. Si tratta di una minuziosa previsione di modifiche e integrazioni delle norme che regolano il funzionamento delle pubbliche amministrazioni. E’ impossibile qui dar conto di tutte le innovazioni. Esse si raggruppano in vari filoni che riflettono la volontà di assicurare trasparenza all’agire dell’amministrazione pubblica, di tutelare in qualche modo il pubblico dipendente che segnala gli illeciti che sono commessi nell’amministrazione, di rendere i dirigenti responsabili dell’attuazione di piani di prevenzione della corruzione. Si vieta poi che i funzionari pubblici assumano incarichi in conflitto d’interesse rispetto all’amministrazione cui sono addetti, e si escludono dalla nomina a posizioni di dirigente pubblico e dalle commissioni per l’accesso ai pubblici uffici o per la gestione di fondi pubblici coloro che hanno subito condanne anche non definitive per reati contro la pubblica amministrazione ed anche, per un certo periodo, chi ha svolto funzioni politiche. Si prevede infine la incandidabilità per un certo lasso di tempo al Parlamento o in enti locali in conseguenza di certe condanne passate in giudicato.
Una parte di queste nuove disposizioni di legge sarebbero inutili se elementari criteri di buona amministrazione e di correttezza intervenissero spontaneamente. Ciò vale evidentemente ad esempio per le candidature al Parlamento proposte dai partiti. Non tutto ciò che le leggi consentono è, oltre che legale, anche lecito e opportuno. Quello ora introdotto è un insieme di norme molto complesso, che rischia di appesantire il funzionamento della amministrazione pubblica, se si ridurrà a un’attuazione puramente burocratica. Ma è possibile invece che contribuisca a «drammatizzare» una questione, quella della lotta quotidiana alla corruzione, che deve proprio essere sentita come una drammatica questione nazionale, che riguarda la democrazia, il rispetto per i cittadini, la dignità del servizio pubblico. Non solo, come ora si usa sottolineare, per l’impatto che ha sul Pil, importante, ma non unico metro della qualità di una società.

Repubblica 19.10.12
Il Csm boccia il ddl anticorruzione “Un passo indietro incoerente pene lievi, così il sistema gira a vuoto”
Ecco il parere che il Consiglio voterà lunedì
di Luana Milella


«RISCHIO di far lavorare a vuoto il sistema», detto della riforma delle pene per la corruzione. Questo, ma anche molto altro. Di fatto una stroncatura. Stavolta a fare il «grillo parlante» — fastidioso animale polemicamente citato al Senato dal Guardasigilli Severino appena un giorno fa contro i suoi detrattori — è il Csm. Che finalmente, quando rischia di essere troppo tardi, piglia in mano il disegno di legge anti-corruzione e dice la sua. Un parere di sole otto pagine, perché ormai a palazzo dei Marescialli non vanno più di moda i rapporti monstre. Ma l’effetto, a ben vedere, è ancor più tranchant. Lunedì il testo sarà definitivamente votato nella commissione per le Riforme.
Repubblica ne anticipa il contenuto. Con un obiettivo. Un parere così non può essere ignorato, ma soppesato riga per riga. Visto che lancia uno warning sostanziale quando dice: «Sembra opportuno porre in evidenza il grave rischio di avviare riforme di diritto sostanziale, inserite nell’attuale metodo di calcolo della prescrizione dei reati, che possono far lavorare a vuoto il sistema». Il Csm non cita processi in via d’estinzione, ma dopo una frase così il pensiero non può non andare proprio a quei casi, anche clamorosi, da Penati a Berlusconi, che rischiano di finire in crisi. A quel punto, per certo, il sistema «avrà lavorato a vuoto».
INDUZIONE KILLER
Non si può che partire da qui, dalla tanto criticata concussione (o corruzione) per induzione, il neo più evidente di questa manovra anti-corruzione. Oggi nel codice penale c’è una sola concussione, articolo 317, punita da 4 a 12 anni. Prescrizione 15 anni. Domani ce ne saranno due. La prima concussione per costrizione sarà punita da 6 a 12 anni. Stessa prescrizione. La seconda, quella per induzione, vedrà pene da 3 a 8 anni. Troppo poco dice il Csm. Prescrizione 10 anni. Troppo bassa anche quella. A rischio, di conseguenza, i processi in corso. Il ministro della Giustizia Paola Severino la difende. Il Csm la stronca. Ne parla così: «La condotta di induzione, il nuovo articolo 319 quater, prevede una sanzione edittale sensibilmente inferiore a quella fino a oggi applicata. Ciò oggettivamene costituisce un arretramento particolarmente significativo nell’attività di contrasto di un comportamento che oggi risulta essere la forma statisticamente più diffusa di integrazione del reato di concussione». Si badi, il Csm parla di questa forma di concussione come di quella «statisticamente più diffusa», quindi è evidente che i processi in corso, per la maggior parte, dovranno rientrare nella fattispecie punita meno duramente e con la prescrizione breve anziché nell’altra. Tant’è che il Consiglio osserva: «Oltre che sul piano operativo, con la sensibile riduzione dei termini di prescrizione del reato, la diminuzione di pena costituisce un segnale simbolico incoerente con le intenzioni che animano l’impianto complessivo delle modifiche proposte, volte a determinare un rafforzamento del contrasto al fenomeno illecito».
SEGNALE INCOERENTE
Qui sta il punto. Nell’incoerenza di voler lottare un fenomeno, ma con armi che lo favoriscono. Il “grillo” Csm non ha bisogno di chiose. Neppure quando mette in mora un’altra scelta di Severino, contenuta nello stesso reato, quella «di punire anche la condotta della vittima della concussione per induzione». L’ex pm Di Pietro lo considera un «colpo mortale» alle indagini sulle tangenti. «Non parlerà più nessuno» ripete da mesi. Scrive il Csm: «È una scelta che suscita perplessità. La pena prevista, per la sua entità, fino a tre anni, non è probabilmente in grado di costituire un serio deterrente. D’altra parte essa avrà molto probabilmente l’effetto di ostacolare le indagini nei reati di concussione per induzione, atteso che crea un nesso di solidarietà criminale tra i protagonisti della fattispecie, normalmente uniti da un patto segreto privo di tracce ulteriori, che condividono
l’interesse a evitarne l’accertamento». Anche in questo caso, come per l’induzione, il Csm certifica i timori cui le stesse toghe dell’Anm, ma non solo, hanno dato voce. Poi dà un consiglio: prevedere «un’ipotesi di non punibilità della vittima o una forte attenuazione della sanzione se collabora », magari distinguendo «tra chi subisce l’induzione per pura coazione psicologica da chi persegue un proprio vantaggio».
REATI SPUNTATI
Una preoccupazione dopo l’altra. Ecco quella sui nuovi reati — il traffico d’influenze e la corruzione tra privati — propagandate come la vera arma futura contro i corruttori. Sentiamo il Csm che ne pensa. Premessa soft, «costituiscono un utile arricchimento all’armamentario punitivo dello Stato». Indorata la pillola, arriva la batosta: «Deve osservarsi come l’efficacia appare fortemente condizionata dall’esiguità della pena edittale stabilita. La sanzione massima a tre anni preclude l’utilizzo delle intercettazioni che, in contesti fortemente connotati dalla relazione personale tra le parti coinvolte, sono di fondamentale utilità». Né, scrive il Csm, si può arrivare alle misure cautelari «utili a interrompere le contiguità in cui le condotte punite maturano». Per finire la ciliegina sulla torta, la prescrizione che, con quella pena, sarà «assai breve». Bocciatura inclemente anche per la corruzione tra privati «limitata alle sole figure apicali delle società commerciali», punibile se vi è «un danno per la società», per giunta «procedibile esclusivamente a querela della persona offesa, pur afferendo a condotte spesso dannose per l’intera collettività».
LE GRANDI ASSENTI
L’Europa, la tanto citata Europa, ci aveva chiesto di allungare la prescrizione per perseguire i corrotti. Ricorda il Csm: «Senza un suo radicale ripensamento ogni modifica legislativa rischia di risultare vana in quanto le statistiche dimostrano che il principale ostacolo nella repressione del fenomeno sta nell’attuale sistema di calcolo e nei termini troppo brevi della prescrizione». Ebbene la prescrizione resta com’è, nel caso della concussione per induzione si accorcia, nei nuovi reati è addirittura ridottissima. Accanto alla prescrizione lunga come grande assente si aggiungono un ritorno all’antico per il falso in bilancio e il reato di autoriciclaggio, del tutto ignorati nel ddl anti-corrotti. E anche questo il Csm segna con la penna rossa.

Repubblica 19.10.12
Anticorruzione, la beffa
di Gianluigi Pellegrino


Basta già guardarla. Ottantaquattro commi in un solo articolomonstre affastellati uno sopra l’altro. Tutto e il suo contrario. Molto diavolo e poca acqua santa. Questa è la legge che chiamano “anticorruzione” approvata mercoledì in Senato. E pure, come avvertito da ripetuti appelli del Capo dello Stato e della comunità scientifica, il groviglio normativo costituisce il pantano preferito per i caimani e i furbastri della corruttela.
Al paradosso della forma, corrisponde la beffa della sostanza, il pasticcio che a questo punto la Camera deve scongiurare. Vediamoli i principali buchi neri che implorano rimedio.
1) Sino ad oggi un presidente o un consigliere regionale concussori perdevano il posto e non avevano più accesso a nessun altro incarico pubblico. Da domani invece se questa legge venisse approvata, potranno tenerli ben stretti i loro posti e ottenerne anche di nuovi. È l’effetto diretto della nuova fattispecie (“Indebita induzione”) uscita dal cilindro del compromesso al ribasso.
2) I processi per concussione dei colletti bianchi se non dovranno ricominciare da zero, andranno comunque tutti o quasi in prescrizione, accorciata di ben cinque anni. E nessun cittadino concusso (ora “indotto”) avrà più interesse a denunciare, dissuaso da una pena assai severa e senza alcuna riduzione per la collaborazione. Qui siamo davvero al pro-concussione. La fiducia messa al Senato ha per questo dato l’impressione di un patto tacito per sfuggire alle irrinunciabili correzioni, più che un modo per mettersi al sicuro da margini di peggioramento che davvero non ci sono. I danni qui sono irreversibili perché basterà un solo giorno di vigore della nuova legge, per rendere definitivo il colpo di spugna che su questo giornale segnalammo già in giugno.
3) Anche i nuovi reati sono stati ridotti a specchietti scarichi, per allodole sfinite. Il cosiddetto “Traffico di influenze” che dovrebbe punire l’intermediario dell’illecito pubblico, prevede una pena persino inferiore al millantato credito. Con il paradosso che l’illecito mediatore è punito di meno se ha sfruttato davvero la conoscenza, i favori del pubblico ufficiale (per intenderci, lo schema lombardo dei Daccò).
Del resto che altri sarebbero dovuti essere i necessari obiettivi, lo si capisce dalla stessa relazione governativa che accompagna la legge. Si parla infatti di “un deciso inasprimento delle pene” senza nulla aggiungere e precisare. È purtroppo un falso bello e buono, atteso che proprio per il peggiore dei reati la pena è fortemente diminuita, ed una relazione di accompagnamento ne avrebbe dovuto spiegare ragioni, giustificazioni e impatto sui processi in corso. E non affermare il contrario che ha il sapore della coda di paglia.
Il punto è che non siamo in una situazione ordinaria dove poter discettare di un eventuale disegno organico di riforma del codice penale, magari di stampo libertario. Se fosse questo il tema, non starebbe all’ordine del giorno di un governo di emergenza nazionale a fine mandato. Si è in presenza invece di un allarme corruttivo che rende urgente rafforzare gli strumenti di contrasto. Quanto meno per i reati già esistenti, che sono quelli compiuti da Fiorito e colleghi. Ed invece per il più odioso di questi la pena viene abbassata e abbreviata la prescrizione; mentre per gli altri si sta bene attenti a non allungarla e a impedire l’uso di adeguati mezzi di indagine. E così la beffa sulle misure di contrasto offusca anche quello che di buono c’è nella norma con riguardo alla futura opera di prevenzione. Ma qui il malato è agonizzante, non si tratta di prevenire ma di intervenire con cure da cavallo. Basterebbe una norma secca: come stabilito dalla commissione europea per la corruzione internazionale, sarebbe sufficiente prevedere l’interruzione della prescrizione con il rinvio a giudizio o con la condanna in primo grado. Eccola qui una norma semplice e degna del titolo “anticorruzione”. Un comma solo, al posto di ottantantaquattro. Se non è possibile, è forse meglio archiviare la pratica. Almeno resta la possibilità di rivolgere al prossimo governo l’istanza corale dei cittadini tra cui gli oltre trecentomila che hanno firmato l’appello di Repubblica.
Comunque si eviti di fare danno e di allestire il banchetto per concussori e loro avvocati che ovviamente già si fregano le mani. Mario Monti non dovrebbe farsene molto di un’etichetta da portare in Europa. Il plauso sarebbe effimero perché quando capiranno cosa c’è sotto, rischiamo che ci ridano dietro. Ma soprattutto è il sistema paese che resterebbe spossato dalla beffa e dall’incapacità di migliorare. Sempre preda di appiccicose e interessate resistenze, che sia politico o tecnico il suo governo.

l’Unità 19.10.12
Qualcuno era comunista e ha salvato la sinistra
Il tentativo di cancellare la storia di un’esperienza che ha contribuito a costruire la democrazia e ha tenuto in vita un universo sociale che rischiava di sparire
di Pietro Spataro


POTRÀ APPARIRE STRANO, MA IL PCI RISCHIA DI DIVENTARE IL CONVITATO DI pietra di queste complicate primarie del centrosinistra. Non perché ci sia qualcuno che sia così folle da riportare in vita un partito che è stato sciolto ormai più di vent’anni fa, in quel teso congresso di Rimini che nel febbraio del 1991 decretò la nascita del Pds.
Quella è storia, ormai. E chi l’ha vissuta in prima persona ricorda che fu una storia dolorosa, scritta con la fatica di una dura battaglia delle idee che non ha uguali nelle vicende della politica italiana. Due congressi, diversi comitati centrali, migliaia di assemblee nel tentativo di salvare il nucleo vitale di un’esperienza che aveva segnato la vita della democrazia italiana. Oggi però il Pci ritorna nelle pieghe dello scontro come se dopo tanti anni restasse aperta quella che un tempo si chiamava la «questione comunista», e cioè l’originalità di un percorso che, con tutti gli errori e le omissioni, è stata parte fondamentale nella costruzione dell’Italia repubblicana. Proprio ieri Giorgio Gori, inventore del successo di Mediaset e oggi uomo-immagine di Matteo Renzi, ha rilanciato su Twitter una frase pronunciata da Piero Sansonetti, per lunghi anni giornalista di punta de l’Unità: «L’uscita di scena di Veltroni e D’Alema segna la vera fine del Pci. Il Pci non è finito nel ’91, è finito ingloriosamente oggi». Gori ha fatto sua quella frase e l’ha scagliata nel web perché, come spiega in un’intervista al nostro giornale, rappresenta bene quel che sta accadendo.
Ma che cosa sta accadendo? L’impressione è che sulle note della rottamazione torni nella politica italiana il fastidio per una storia, l’insofferenza nei confronti di una sinistra libera dal massimalismo e dal radicalismo e che è una forza nazionale di governo. Un approdo che, anche qui con qualche errore, ha tenuto saldo il rapporto con un universo sociale che rischiava di perdere qualsiasi rappresentanza politica, soprattutto nell’era dell’egoismo sociale interpretato da Silvio Berlusconi. Un mondo di operai, impiegati, precari, piccoli imprenditori potremmo chiamarli i produttori che nell’eldorado promesso dal Cavaliere non avevano alcun posto e non potevano svolgere alcun ruolo. Allo stesso modo rischiavano di sparire dal vocabolario della politica alcune parole che costituiscono i punti cardinali della sinistra: l’uguaglianza, la democrazia, la giustizia, l’equità, il lavoro. Parole oggi ancora attuali e che segnano l’agenda di tutte le forze progressiste europee.
È stato proprio Berlusconi, sin dal suo apparire sulla scena politica, il più fervido anticomunista: aveva capito che lì stava l’ostacolo da abbattere, il nemico vero da sconfiggere, la comunità da cancellare per spianare la strada all’Italia padrona in casa propria e al potere assoluto del denaro. Questa «guerra ai comunisti» è stata combattuta anche con la complicità di un modello politico che ha imposto il presidenzialismo come vocazione. Grazie anche ad alcuni cedimenti del centrosinistra, è passata l’idea che bastasse l’uomo solo al comando, che i partiti come organismi collettivi e reti di relazioni fossero ormai un ferro vecchio e che il sistema mediatico e la bella immagine potessero tutto. Si è imposta insomma una politica liquida che ha rischiato di cancellare uno dei tratti distintivi della sinistra: il suo essere popolare, perché fatta di persone con la passione civile, il coraggio delle proprie idee e un profondo spirito di appartenenza a una casa comune. Quanto di questa ispirazione venga dalla storia dei comunisti italiani, che sono stati parte centrale della sinistra, non può non essere evidente. Le cose potevano anche andare in un altro modo. Se in quel lontano 1989, di fronte alle immagini del crollo del muro di Berlino, il Pci non avesse avuto il coraggio, e a tratti anche l’incoscienza, di una rottura estrema, oggi di fatto non esisterebbe la sinistra in Italia. Certo, quella svolta ebbe le proprie debolezze culturali e qualche cedimento eccessivo a un nuovismo che rendeva rarefatto il rapporto con le altre forze europee. Però ha consentito di trasferire nel nuovo mondo il nucleo fondamentale di un’esperienza storica che è passata attraverso l’antifascismo, la Resistenza, la Costituzione, la costruzione di una Repubblica democratica fondata sul lavoro e la sua difesa contro gli assalti del terrorismo e delle stragi. Che ha portato sulla scena milioni di uomini e donne che prima non avevano né voce né dignità. Che ha consentito, per la prima volta, di condurre quella sinistra al governo del Paese assicurando all’Italia il suo ancoraggio all’Europa e mettendo in pratica un riformismo che resta forse la stagione più proficua della Seconda repubblica. E che infine ha dato vita al Partito democratico, facendo incontrare quelle culture politiche riformiste che la guerra fredda aveva tenuto contrapposte.
Non si può dimenticare che a guidare questa lunga marcia tra sconfitte e vittorie, e quindi a difendere il ruolo della sinistra in Italia, c’erano molti di quelli che oggi sono finiti nella lista nera della rottamazione. Forse è un caso, forse anche no.

il Fatto 19.10.12
Cgil con Bersani
La Camusso punta tutto (e rischia)
Il sostegno del sindacato al leader Pd, le ambizioni da ministro di Guglielmo Epifani
Domani tutti in piazza con lo stesso slogan: “Cambiare l’agenda Monti”
di Salvatore Cannavò


Circola una battuta maligna in Cgil, tra coloro che non fanno parte della cerchia del segretario generale: quando la finirà questa organizzazione di occuparsi delle scelte elettorali del Pd? Siano le elezioni nazionali o appuntamenti più circoscritti come le primarie, il primo sindacato italiano entra in fibrillazione quando c’è in gioco il destino della “ditta”. Le primarie costituiscono un passaggio cruciale per i destini futuri del Pd e anche per la possibilità che ci sia un governo di centrosinistra permeabile alle esigenze della Cgil. Se poi si pensa alle mosse di Massimo D'Alema e la sua volontà di andare allo scontro fino in fondo, il posizionamento della Cgil diventa strategico.
L'APPOGGIO a Pier Luigi Bersani è piuttosto scontato perché dopo quello che Matteo Renzi ha detto a proposito dei sindacati, sostenerlo sarebbe semplicemente autolesionista. “Però c’è modo e modo di abbracciare una causa”. All’interno del palazzo di Corso Italia c’è chi parla di un impegno “pancia a terra”, di destini legati a doppio filo, nell'ipotesi che il sostegno di oggi possa rivelarsi redditizio sul piano politico e sindacale domani. Nel Pd, invece, si
EX NEMICI
fanno già i conti e c’è chi si dice sicuro della vittoria finale perché sicuro “dell’appoggio dei pensionati” o delle camere del lavoro più importanti.
Non è un mistero che la Cgil, da diverso tempo, scommetta sui governi “amici” per ottenere risultati non raggiunti con la sola lotta sindacale. E da quando Cisl e Uil hanno intrapreso la strada degli accordi separati e dei rapporti privilegiati con il centro o anche con la destra dello schieramento politico, il rapporto con il Pd è diventato sempre più vitale.
A SOSTENERE questa lettura dei fatti i nostri interlocutori, rigorosamente anonimi, citano episodi visibili a occhio nudo. Innanzitutto, la manifestazione nazionale di domani a Roma che ha l'obiettivo di riempire piazza San Giovanni. “Se si guarda il volantino di indizione si può leggere che lo slogan centrale, “Cambiare l'agenda Monti” è lo stesso di quello di Bersani” spiega un dirigente di lungo corso della Cgil. La manifestazione, convocata su una piattaforma dettata dalla drammaticità delle vertenze in atto, sarà fortemente antigovernativa e servirà a indurre lo stesso governo Monti a concedere qualcosa al sindacato. E al Pd. Secondo segnale, il viaggio in Sicilia di Susanna Camusso della scorsa settimana, passato piuttosto in sordina. Invece di andare a sostenere la difficile battaglia dell'ex segretario regionale della Fiom, Giovanna Marano (candidata da Sel, Idv e Federazione della sinistra, dopo l'esclusione di Claudio Fava) Camusso ha preferito dare una mano alla segretaria della Cgil, Mariella Maggio, candidata nel listino di Crocetta che corre in alleanza con l'Udc. Replicando alle critiche, Camusso ha respinto l'idea di una “Cgil spaccata” ma il fatto è sintomatico. L'iniziativa più rilevante, però, si terrà la prossima settimana ed è di quelle che non si possono non notare. La Cgil ospiterà
a Firenze un grande convengo che vedrà la presenza di esponenti della Spd tedesca e del Psoe spagnolo ma, soprattutto, quella dell'ex presidente della Commissione europea, Jacques Delors accanto a Pierluigi Bersani. Delors è un po' un nume tutelare del riformismo a cui si ispira il Pd. A lui guardava con deferenza Prodi e le sue radici cattoliche unite al rapporto con il Partito socialista francese (la figlia è Martine Aubry, segretario del Ps) rappresentano compiutamente quello che il Pd potrebbe essere. Logico utilizzarla come “endorsment” per il leader democratico. L'iniziativa si svolgerà all'Auditorium fiorentino e oltre a Camusso ci sarà anche il saluto del presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, bersaniano di ferro, ma non ci sarà, invece, quello del sindaco, Matteo Renzi.
OSPITE dell'iniziativa c'è anche l'ex segretario della Cgil e attuale presidente della fondazione Bruno Trentin, Guglielmo Epifani. Chi conosce la Cgil e la vive quotidianamente assicura che Epifani conserva ancora un ruolo di primo piano all'interno del sindacato e quindi questa sua presenza è espressione, oltre che di cultura sindacale, anche di potere in-
terno. Tanto più che il suo nome viene fatto per un possibile incarico di ministro del Lavoro in un eventuale governo Bersani. Si tratta di voci, ovviamente, ma autorevoli e sostengono che l'accordo sarebbe stato già assicurato.

l’Unità 19.10.12
Cena col finanziere delle Cayman
Lo staff di Renzi: non sapevamo
Sotto accusa la raccolta dei fondi di Davide Serra
di Vladimiro Frulletti


Bersani lo invita a non prestare troppa attenzione alle slide dei banchieri e Vendola lo paragona a un contradditorio rivoluzionario apprezzato dai poteri forti. Ma soprattutto vari osservatori lo mettono in guardia dagli scivolosi terreni della finanza.
LE CAYMAN
E in effetti la cena in piedi, con relativo foundraising (raccolta di finanziamenti cioè), organizzata a Milano l’altra sera a Matteo Renzi potrebbe creare più di un imbarazzo. È quello ad esempio che sostiene Franco Locatelli, già capo della redazione Finanza e Mercati ed editorialista del Sole 24 ore, dal suo sito di informazioni economiche Firstonline (che ha fondato assieme al collega Ernesto Auci e di cui è direttore responsabile). Locatelli infatti ritiene che certi abbracci a Renzi potrebbero risultare troppo “stretti”. In particolare quello di Davide Serra (che con Renzi condivide un passato scout) e che è colui che materialmente ha organizzato la cena alla Fondazione Metropolitan con 150 persone (imprenditori, manager, banchieri, finanzieri) per «dare una mano a Matteo». Il motivo lo spiegava ieri il Corriere della Sera. In un piccolo, ma pungente articolo di Stefano Agnoli si faceva notare come la società di Serra sia controllata da una holding che è stata costituita nella isole Cayman. Un paradiso fiscale. «Luogo annota il Corsera che non spicca per trasparenza». Del resto una delle “qualità” più apprezzate delle Cayman, oltre alle bassissime imposizioni fiscali, è anche la assoluta riservatezza garantita a chi decide di farci nascere qualche società. Tanto più che uno dei peggiori mali italiani messi in luce da Serra nell’incontro con Renzi era stata proprio l’evasione fiscale che nelle slide targate Algebris Investments si propone di combattere eliminando qualsiasi pagamento in contanti. Contraddizioni sottolineate dal deputato Pd (fa parte del Copasir) Ettore Rosato. «Che c’entrano i paradisi fiscali col rinnovamento» si domanda Rosato che critica le «porte chiuse» dell’incontro e descrive Serra come il «nuovo guru» dell’agenda economica di Renzi. E se Bersani invita Renzi alla cautela su certe «slide in pillole della finanza» perché non vanno prese per buone «le ricette masticate che ci hanno propinato alcuni centri della finanza internazionale». Vendola invece parla di Renzi come «un innovatore che piace ai conservatori del passato regime». È come se Lenin, è il paragone usato dal presidente della Puglia, fosse stato apprezzato dai Romanov o Robespierre applaudito dall’Ancien Regime.
I FONDI
Osservazioni che dallo staff del sindaco di Firenze però rimandano al mittente spiegando che Serra non ha alcun ruolo, che non fa parte dell’organizzazione di Renzi e tanto meno è il responsabile economico del sindaco. «Ha voluto dare come tanti un contributo di idee» dicono. E poi fanno notare che a Milano Renzi non ha visto solo banchieri. Ma ieri mattina s’è incontrato con associazioni di volontariato del comitato editoriale del magazine Vita dove ha bocciato la legge di stabilità spiegando che «l’aumento dell’Iva e la stretta sulle donazioni sono una follia». Quanto ai soldi raccolti nella cena organizzata da Serra dal comitato di Renzi assicurano che in quelle stanze non rimarranno chiusi segreti. Che tutto, nomi e cifre, sarà messo online come è stato fatto fin qui con tutti gli altri finanziatori. Una scelta che lo stesso Renzi chiede anche a Pd e Sel che invita a mettere online le fatture degli ultimi tre anni. «Le polemiche sulla trasparenza dei costi iniziano ad essere non noiose ma divertenti dice Renzi a margine dell’assemblea Anci di Bologna -. Noi abbiamo messo online tutti quelli che danno i contributi. Chi dà solo un centesimo al finanziamento della mia campagna elettorale è online in modo trasparente. Io ho messo online anche tutte le fatture del Comune di Firenze». Però da Sel gli fanno notare che loro i propri conti li pubblicano sul sito «oramai da anni». E Nicola Fratoianni lo invita a copiare Vendola che ha istituito l’anagrafe pubblica degli eletti in Puglia «mentre sul sito del Comune di Firenze alla sezione sindaco e giunta non c’è traccia di dati su retribuzione e condizione patrimoniale».

il Fatto 19.10.12
D’Alema pronto al partito nuovo
E’ convinto che se Renzi vince, cadrà il Pd. Ma “La sinistra esiste in natura”
di Antonello Caporale

Massimo D'Alema è pronto a costruire un nuovo partito nel caso l'attuale cadesse nelle mani di Matteo Renzi. È deciso a timbrare con la sua opera un nuovo simbolo sulla scheda elettorale, il simbolo di una formazione autenticamente socialdemocratica, “perchè la sinistra esiste in natura” e non può essere destinata a divenire un rottame del Novecento, deglutita nelle fauci di questo fiorentino e del suo pop stil novo. È pronto dunque a scommettere che il Partito democratico esploderà, cadrà in una sanguinosa guerra civile, se dovesse accadere l'irreparabile, l'evento politico più disastroso di questo nuovo secolo: la caduta di Bersani, la vittoria dell'altro. Del nemico. Ieri, anche ieri come oramai accade ogni giorno di questa lunga e sfibrante disfida, Renzi ha proseguito nel suo incedere. La caduta del Lider Maximo coincide con la conclusione “della fase uno della rottamazione” ha decretato un po’ militarescamente. Poi però l’ha definita “una scelta nobile”, si è rivolto a D'Alema chiamandolo “presidente” garantendo che “non ci sarà più mezza parola su questo argomento”. L'arresto del passo demolitorio di Renzi fa i conti anche con una valutazione politica: la rottamazione rischia di cancellare ogni altro carattere della contesa, impicca lo sfidante a quella parola e agevola per di più le caratteristiche del segretario. Lo aiuta anzi ad alleggerirsi del peso della nomenklatura, ombra che anch’egli considera troppo lunga. Perciò la riduzione di tono e forza della campagna demolitoria. Che comunque continua a mietere vittime e a sviluppare una singolare scia di sangue nel partito.
Dopo Veltroni e D’Alema si attende che Rosi Bindi parli e dichiari la sua rinuncia. “Tu hai sessant'anni e non ne vivi altri sessanta. Quindi sta' calma”. Sono le parole di Melfi, la mamma di Rosy. È la trascrizione dell'amore della mamma per la figlia, ma anche il timbro esatto del suo stato d’animo, della serenità che manca. La Bindi aspetta di parlare con Bersani per conoscere il suo destino. Fioroni, un altro dei candidati alla decapitazione, trova più humour. Renzi dice: “Non è che mandiamo via D'Alema e ci teniamo Fioroni”. Lui gli invia un sms: “Grazie per la stima, pensavo di non contare nulla”. Finanche Enrico Letta, giovane d'età ma già con qualche mandato sulle spalle, annuncia l'ultimo giro: dopo questa prossima candidatura nessun'altra in programma.
QUESTO il quadro di famiglia denso di dolore per un presente così incerto, in una casa che non sembra più ospitale. E questo quadro aveva preso in mano D'Alema quando aveva iniziato a pronunciare parecchie settimane fa l'infausta diagnosi, e a illustrare quell'intento, pronunciare quella parola fatidica nel giro anche largo degli amici. Si sorrideva insieme. “Non sai mai se D'Alema dice una cosa perchè la pensa e la vuol fare per davvero. Fino a ieri non credevo che avesse voglia, non lo pensavo così incapricciato e deciso. Oggi dico che ci siamo, si va”. Il deputato chiede l'anonimato, ed è comprensibile. Ma non è certo il primo che sa. E non è certo il solo a saperlo. È avvertito e consapevole Pier Luigi Bersani col quale D'Alema intrattiene rapporti formali, di buon vicinato e poco più. Non sono amici e lo danno a vedere. Alleati sì, però. E non è una cattiva notizia per il segretario avere un D'Alema belligerante: intanto ne godrà la sua dote elettorale e sarà certo utilissimo anche quell'apporto: Bersani e Renzi sono sostanzialmente appaiati, e la fotografia dell'oggi fa presagire un testa a testa formidabile. Si conteranno le schede fino all'ultimo. Ciascuno ha bisogno di ogni voto, di ogni spinta possibile. Se Renzi riesce a scovare simpatizzanti nell'antico mondo democristiano del secolo scorso e un vecchietto come l'ex sottosegretario Luciano Faraguti, noto a chi oggi viaggia sulla sessantina per la sua attività politica e le posizioni vicine a Donat Cattin, figurarsi il piacere del segretario del Pd di vedere schierato al suo fianco, con una determinazione finora non scontata, tutti i dalemiani: “La questione D'Alema la chiudiamo qui. Adesso abbiamo le primarie”, dice il segretario. Poi si vedrà. Nichi Vendola, il terzo incomodo nella sfida per le primarie, è poi il primo interessato all'eventualità che l'esplosione del Partito democratico, il bing bang prossimo venturo, ridia linfa e speranza al progetto di una nuova sinistra europea, per ora bloccato a un modesto 5 per cento, la cifra con la quale i sondaggisti accreditano la dote elettorale di Sel, la sua formazione politica. In qualche modo sono stati avvisati anche gli italiani e maggiormente i militanti del partito, i frequentatori delle feste dell'Unità, l'apparato largo dei funzionari e degli iscritti che si rifanno alla tradizione di Botteghe Oscure. “Ho cambiato radicalmente idea – comunica D'Alema due sere fa a Otto e mezzo, il programma de La7 Bersani sa di avere la disponibilità del mio seggio in Parlamento... Se dovesse vincere Renzi sarà scontro totale”. Domandano in studio: in quel caso esplode il Pd? Lui risponde con un laconico: “Non so”. La novità di queste ore è la conversione di quel dubitativo. C'era il sole e si fa pioggia improvvisa. Poco più di un mese di attesa: il 25 novembre si tiene il primo turno, agli inizi di dicembre, volendo comprendere anche il secondo turno di selezione, la scelta del candidato premier. Poi, in agenda, la battaglia campale.

Corriere 19.10.12
D'Alema alla Camera consola i suoi «orfani»: ora tutti con Pier Luigi
Madia: è un grande, sa l'Iliade a memoria
di Fabrizio Roncone


ROMA «Com'è l'umore di Massimo? Oooh... è eccellente!», finge di scandalizzarsi Marina Sereni, vicepresidente del Pd, umbra di stretto rito fassiniano, quindi bersaniana, scarsamente incline al pettegolezzo e sempre misurata, diplomatica (poi però aggiungerà: «No no, giuro: D'Alema è davvero in gran forma. Appena mi ha vista, stamani, in Aula, mettendo su quell'inconfondibile aria ironica, si è lamentato perché dice che in Umbria, nella sua tenuta di Otricoli, gli vietano di produrre lo spumante rosato. Io gli ho risposto che in Umbria, grazie al cielo, abbiamo leggi severe. Lui allora, con un sospiro dei suoi, mi ha detto che lo sa, e ha tirato fuori due multe. Poverino, andava a 55 all'ora, ma l'autovelox all'imbocco del paese l'ha pizzicato lo stesso»).
Montecitorio, Transatlantico.
Mattina tardi.
La notizia più rumorosa resta quella che ha dato Massimo D'Alema in tivù, su La7, a «Otto e mezzo», poche ore fa. «Se alle primarie vince Bersani, non mi ricandido. Se invece vincesse Renzi, ci sarà battaglia politica».
Una mossa a sorpresa, non scontata e non facile (ha 63 anni, con una biografia così: direttore dell'Unità, segretario del Pds, presidente del Consiglio, ministro, poi vicepresidente dell'Internazionale socialista e presidente del Copasir). Una mossa che, raccontano i suoi, sta suscitando apprezzamento, rispetto, ammirazione.
Prima, nell'emiciclo, sono saliti a rendergli omaggio in tanti (ha colpito, ad un certo punto, la piccola processione degli ex Margherita: Franceschini, Boccia, Bressa, la Bindi con un sorrisone largo di forte complicità, e poi anche Castagnetti, pacato e sereno come sempre).
Lui, D'Alema, in abito scuro e perfettamente a suo agio nel ruolo del grande capo che stringe mani, rincuora, detta la linea: «Ora dobbiamo avere un solo obiettivo: far trionfare Bersani alle primarie...».
Molti tornano ai loro posti con un'idea precisa: D'Alema sembra essersi scrollato di dosso l'amarezza e la collera dei giorni scorsi (sebbene quell'elaborazione pulp del concetto renziano di «rottamazione», con quel tipo che martedì sera, a Empoli, s'è sdraiato sotto il camper del sindaco di Firenze mimando l'incidente stradale, lo abbia turbato profondamente); D'Alema, piuttosto, appare determinato, carico, pronto a gettare sul campo delle primarie tutto il suo carisma.
La sensazione è precisa, adesso, mentre imbocca il corridoio laterale.
Qual è, presidente, il suo reale stato d'animo?
«Mah, vede: io, con il mio gesto, spero di aver dato un segnale. Ci sono state tante chiacchiere inutili. Io ho voluto metterle da parte, sgomberando la scena da ogni polemica. Ora è arrivato il momento di parlare dei programmi, ora dobbiamo spiegare alla gente le idee che abbiamo per governare il Paese».
Lei pensa che...
«No, aspetti, mi faccia finire: perché io vorrei fosse chiaro che qui, in queste primarie, stiamo parlando di una cosa seria, serissima... stiamo parlando del governo di questo Paese. E un Paese non si governa con gli slogan vuoti...» (a questo punto D'Alema stringe e apre il pugno destro, come quando si vuol lasciare intendere un'assenza di sostanza).
Slogan vuoti: si riferisce a Renzi?
«Guardi, credo che il Corriere abbia fatto bene a pubblicare quel colonnino in cui si parla di quella società nata nelle isole Cayman... così, come dire, la gente comincia a capire con che genere di personaggi abbiamo a che fare... (Davide Serra, golden boy della finanza, l'altra sera ha organizzato una cena per raccogliere fondi in sostegno di Renzi: il Corriere ha ricordato che la holding proprietaria del gruppo di Serra, la Algebris Investments Ltd, è stata costituita a suo tempo nelle isole Cayman, riconosciuto e intoccabile paradiso fiscale, luogo che non spicca per la trasparenza).
A Montecitorio mancherà tanto D'Alema, stavano dicendo in Transatlantico alcuni cronisti politici.
«Rassicuri pure i suoi colleghi. Perché si può fare politica anche fuori da qui...» .
Alla buvette sta bevendo un caffè Marianna Madia, che rischia di perdere il compagno di banco.
«Non voglio nemmeno pensare all'ipotesi che D'Alema lasci il Parlamento. Ma se le serve una mia dichiarazione, scriva così: scriva che siamo nell'epoca dei motorini, eppure qualche Ferrari, in giro, ancora si trova».
Molto affettuosa.
«No, dico: lo sa che mentre commentavano le feste di quelli del Pdl travestiti da Ulisse e con le teste di maiale, D'Alema ad un certo punto s'è messo a recitare l'Iliade? Secondo lei, qui, a Montecitorio, quanti ce ne sono che sanno l'Iliade a memoria?».

La Stampa 19.10.12
“Noi non molliamo” Bindi e Fioroni resistono a Renzi
Ventidue veltroniani firmano per Bersani
di Carlo Bertini


Sarà forse perché ritiene di aver neutralizzato i due bersagli grossi che Matteo Renzi archivia la «fase uno della rottamazione» per dedicarsi ai programmi: ma sarà pure perché conosce l’arte della guerra dei suoi amici ex democristiani, con i quali se la dovrà veder Bersani in una resa dei conti solo rinviata. Infatti, se Veltroni si tira fuori e D’Alema decide di fare un passo indietro, al centro ce ne sono due che non si muovono di un centimetro: sono gli altri due bersagli preferiti da Renzi, la Bindi e Fioroni, che non paiono intenzionati a farsi da parte. Come Franco Marini, che dopo aver annunciato a giugno che non si sarebbe ricandidato, dopo aver rinunciato a far esplodere una grana in assemblea sulla deroga allo statuto per Renzi, ha fatto sapere di aver cambiato idea.
La Bindi, a sentire i più fidati consiglieri politici, fatica a tenere a freno la rabbia e fino ad oggi ha preferito evitare esternazioni contro una piega che hanno preso gli eventi per lei poco tollerabile. Di sicuro non vuole sottostare al diktat della rottamazione e aspetta la nuova legge elettorale (è una delle poche sostenitrici delle preferenze), per affrontare la questione delle candidature. Ma certo non è contenta del trattamento riservato da Bersani ai big più big, perché quel «non chiedo a nessuno di ricandidarsi» era un evidente mancanza di riguardo pure a lei, che è pur sempre la presidente del partito, oltre che un presidio dell’area cattolicomoderata del Pd.
Approfittando della citazione regalatagli da Renzi su Repubblica, «non è che mandiamo via D’Alema e ci teniamo Fioroni», l’interessato invece gli risponde via sms: con un «grazie molte, perché pensavo di non contare nulla e mi hai tranquillizzato, meglio tardi che mai. Buon lavoro»; un messaggino in cui a dispetto delle apparenze, il sugo sta in quel sibillino «buon lavoro», perché l’altra postilla di Fioroni è che «le candidature si vedranno al momento opportuno e le vive male chi non ha un lavoro. Siccome io un lavoro ce l’ho questo problema non me lo pongo... ».
Ma oltre alla «resistenza» dei big cattolici, il terremoto delle primarie riesce anche a far dividere la variegata area che fa capo all’ex leader Veltroni. A differenza dei vari Gentiloni, Ichino, Morando, Tonini, Ceccanti, Vassallo, tutti a favore di Renzi, un gruppo di 22 veltroniani doc come Verini, Melandri, Minniti, Causi, Agostini, Morassut, firmano un documento pro-Bersani. Quel Bersani però che dice in assemblea «Monti l’abbiamo voluto noi» e non quello che firma la Carta dei Valori con Vendola dove Monti non c’è, tengono a chiarire. Perché «le primarie possono rappresentare un’occasione per affermare il profilo che dal Lingotto era alla base della nascita del Pd, un partito coraggioso e innovatore». Un altro segnale di quel cambio di marcia che ora si impone sulle primarie. «Lo scontro diventa più politico, veniamo da retroterra diversi, sbaglia chi lo ha ridotto a uno scontro tra classi dirigenti, che altro finora non è stato se non un regolamento di conti a sinistra», fa notare il renziano Mario Adinolfi. Renzi l’altra sera ha provato a rovesciare il celebre assioma maoista, «la rivoluzione non è un pranzo di gala», riunendo a Milano il gotha della finanza per spiegare la bontà del processo di rinnovamento da lui innescato. Ma a Vendola e Bersani, questo spuntino fino a 5000 euro a coperto è piaciuto poco. «Ne abbiamo abbastanza delle slides e delle proposte della finanza. Abbiamo già dato e consiglio molta cautela con i banchieri», lo ha avvisato Bersani.

La Stampa 19.10.12
Asse bipartisan alla Camera per difendere il Porcellum
di Marcello Sorgi


La lunga serie di emendamenti piovuti sul testo della riforma elettorale in Senato conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, che l’approvazione della nuova legge che dovrebbe sostituire il Porcellum non sarà affatto una passeggiata. A Palazzo Madama tuttavia il centrodestra può ancora contare su una maggioranza PdlLega, a cui in commissione s’è associata anche l’Udc: questo fa pensare che in un modo o nell’altro in aula i senatori daranno il via libera a un testo. E che il Pd, favorevole a un premio di maggioranza più consistente, rifletterà prima di confermare il suo «no».
I guai veri però cominceranno quando la discussione si trasferirà alla Camera, dove nell’attesa si sta formando un partito trasversale, composto da deputati di destra e sinistra, che punta, nel segreto dell’urna, a far saltare la riforma e a mantenere in vita il Porcellum. Le ragioni di questo movimento sono facilmente percepibili: a Montecitorio ormai il cento per cento degli eletti sono in realtà dei «nominati», scelti cioè dai leader dei rispettivi partiti, e non considerano questa un’ignominia, tutt’altro. La polemica sull’esproprio degli elettori, che dalla legge dell’ex ministro Calderoli sarebbero stati privati del diritto di decidere da chi farsi rappresentare, la considerano pretestuosa. Spiegano che nella Seconda Repubblica è sempre stato così: erano «nominati» i 175 che con il Mattarellum venivano eletti nei «listini» del canale proporzionale; e altrettanto metà, o più della metà degli altri deputati, provenienti dai collegi «sicuri». Quando il segretario ti assegnava ad un certo collegio insistono tu sapevi prima se saresti stato eletto o no. Inoltre, tra gli obiettori di coscienza della riforma, c’è perfino chi dice che anche nella Prima Repubblica il Pci era in grado di stabilire a tavolino chi doveva entrare in Parlamento e chi no: ma è un esempio che porta troppo lontano.
La realtà di oggi e della prossima discussione alla Camera è che il fronte che si sta costituendo, e minaccia di ingrossarsi nell’attesa, non è a favore di un certo sistema elettorale piuttosto che un altro. Ma, più semplicemente, contrario a qualsiasi riforma e geloso del Porcellum che ha garantito finora la «nomina» a deputato in cambio della fedeltà al proprio leader. Certo, è sorprendente che un partito del genere possa nascere in quelle che ormai si considerano le ultime settimane della Seconda Repubblica. Ma è così. Ed è con questo partito che dovranno fare i conti, non solo i fautori del compromesso al Senato, ma anche il Quirinale e Palazzo Chigi.

Repubblica 19.10.12
La Melandri al Maxxi rottamata e riciclata
di Filippo Ceccarelli


SONO giorni difficili. E anche per questo non ha reso un buon servizio alla politica e neanche alla cultura e in ultima analisi al suo governo il ministro tecnico dei Beni culturali Ornaghi, benedett’uomo, che ieri ha nominato l’onorevole Giovanna Melandri, del Pd, alla presidenza del Maxxi di Roma, il più prestigioso, ma già gracile museo per le arti contemporanee.
Sono anche giorni un po’ selvatici, come in Italia ne capitano più o meno ogni vent’anni. E siccome adesso – come suona l’esclamativo slogan della rottamazione — non si va troppo per il sottile, ma chi governa ha la responsabilità di valutare in anticipo reazioni e conseguenze delle proprie scelte, forse il ministro Ornaghi, che è un valente studioso di politica e un prudente, anzi un prudentissimo, di più, è un prudentissimissimo uomo molto vicino a Santa Romana Chiesa, potrebbe anche chiedersi se non ha reso un cattivo servizio anche a Melandri.
La quale tuttavia ha subito accettato l’incarico, non si dirà qui la poltrona, e dopo aver cortesemente ringraziato ha promesso che ce la metterà tutta. E su questo c’è da esserne sicuri perché il personaggio, a suo modo, è tosto e anche piuttosto infaticabile assommando su di sé, insieme ovviamente ai limiti, le virtù della secchiona e quelle della prima della classe, e tante altre che qui, a parte un’ottima conoscenza dell’inglese, caso raro nel ceto politico nostrano, non pare comunque il caso di approfondire, perché non è questo il punto, o non è più solo questo.
A maggior ragione si chiederà indulgenza nel ridurre al minimo le ragioni che hanno portato alla scelta. Basti sapere che a Melandri, ministro dei Beni Culturali nei governi D’Alema e Amato, risale l’impegno di aver dato via al progetto originario del Maxxi; e se questo si è poi rapidamente indebolito, per innata cialtroneria alla vaccinara, mancanza cronica di fondi e spudoratissimo eccesso di appetiti politici (Polverini, per dire, ci ha piazzato dentro il suo temerario spin doctor), se sul Maxxi incombe l’ombra di un definitivo fallimento non è colpa della neo nominata presidente.
Né francamente pare opportuno approfondire la nomina di monsignor Ornaghi inoltrandosi con fiducia in una complicata rete parentale per cui Giovanna è effettivamente cugina di Giovanni Minoli, la cui figlia è la sposa di un alto dirigente, a nome Salvo Nastasi, che a via del Collegio Romano fa da qualche annetto il bello e il cattivo tempo. Con dei risultati, occorre purtroppo aggiungere, di cui è assai difficile rallegrarsi.
Ma queste malevoli spiegazioni, che immediatamente hanno fatto il giro dei palazzi e delle redazioni, e che da ieri sera entreranno ufficialmente nell’agenda salottiera capitolina, sono a loro modo un segno, un indizio, un sintomo del clima generale, come si diceva un po’ aspro e ruvido e crudo e perciò, dall’altra parte, eccezionalmente aperto alla legge del “si salvi chi può”.
In altre parole la rottamazione, formula tanto crudele e sbrigativa quanto efficace e contagiosa, pone i potenziali “rottamandi” nell’infelice, ma pressante stato d’animo di trovarsi non già una via d’uscita dal potere, ma qualche sistema, qualche marchingegno, qualche amicizia, qualche soluzione o nomina per restarci. Sotto altre forme, in altre vesti, con obiettivi diversi e anche nobili, ma trasmettendo drammaticamente il messaggio secondo cui senza potere (stipendio, segretaria, telefoni, macchina, rassegna stampa, viaggi, giorna-listi, fotografi, primi posti in platea e ammirazione dei gonzi), insomma senza tutto questo non c’è salvezza. E pazienza se il pubblico non lo capisce: io sono io.
Anche per definire questo percorso c’è un’espressione ingenerosa e poco simpatica, che in Italia ricorre anch’essa ogni ventennio: riciclaggio. Così sarà anche umano, ma proprio quando ci sarebbe più bisogno di umiltà, di ottimismo, di spirito di sacrificio, i “rottamandi” fanno di tutto per togliersi quelle virgolette e decisamente, rispetto a quella sorte, si preferiscono riciclati. Anche a costo di capirlo, questo processo, e perfino di soffrirne, diventando permalosi e irascibili con se stessi e con gli altri.
Melandri ha avuto finora una carriera molto bella e fortunata. Sempre che sia un vantaggio – e questa storia un po’ lo smentisce – è entrata gloriosamente a Montecitorio, unica eletta della sinistra a Roma dopo l’alluvione berlusconiana, a 32 anni. Ha dato parecchio alla sua causa. Ma molto le ha dato la politica e, per quel poco che si può giudicare, anche la vita.
C’era qualche ragione di pensare che qualcosa si sentisse, per ragioni anche di formazione oltre che sentimentali, di restituire. Anche a se stessa, in termini di fiducia. Nella primavera dell’anno scorso, a Oxford, era rimasta folgorata da un progetto di imprenditoria e innovazione sociale, capitalismo filantropico, storie anche straordinarie di impegno sul futuro, tecnologie, alfabetizzazione, università “a piedi scalzi” capaci di trasformare vecchie signore analfabete del Sudamerica in ingegneri solari. A questo mondo fantastico di persone “irragionevoli”, pochi giorni fa, aveva dedicato il suo impegno battezzandolo “Uman”. E presentazioni, prolusioni, articoli, tutto. Ma adesso si scopre che non era tutto. È passato il Maxxi e lei, zàc, l’ha preso al volo. Magari farà benissimo, ma forse non se lo meritava.

l’Unità 19.10.12
L’adozione da parte delle coppie gay
risponde Luigi Cancrini

Vendola propone la possibilità di adozione per le coppie omosessuali e, come risposta, riceve un coro di no dal mondo politico e religioso. Si obietta che un bambino non crescerebbe bene se educato da genitori gay. Accade già ora che i gay crescano dei figli: ad esempio quando un genitore scopre la sua omosessualità in età adulta.
di Roberto Colombo

La discussione sulla possibilità di adozione da parte delle coppie gay va valutata nel concreto della situazione in cui si svolge oggi il percorso delle coppie adottive. Partendo dall’idea per cui i bambini adottabili sono pochi e molte sono, invece, le richieste di adottarli ma tenendo conto, soprattutto, del fatto per cui la scelta della coppia cui affidare quel bambino o quella bambina è affidata alle competenze di un giudice, togato o esperto, che dovrebbe valutare, utilizzando il buon senso e l’esperienza, i bisogni particolari del piccolo e le risorse particolari della coppia. Escludere le coppie gay che eventualmente riusciranno a formalizzare il loro rapporto è necessario? Io penso proprio di no anche se credo che il giudice dovrebbe valutare con particolare attenzione vantaggi e svantaggi della scelta particolare che farà: tenendo conto dell’età del bambino e della sua provenienza ma tenendo conto, anche, dell’equilibrio affettivo e relazionale di una coppia che, per essere riconosciuta tale, ha dovuto a volte affrontare passaggi difficili. Quello che conta nelle adozioni, a mio avviso, è soprattutto la disponibilità a farsi aiutare nella difficile impresa di curare un bambino che ha vissuto comunque, per essere ora adottabile, traumi e difficoltà non comuni e che ha bisogno soprattutto di incontrare persone sufficientemente serene e mature: dal punto di vista emotivo ed affettivo.

La Stampa 19.10.12
In Cina la crescita frena. Ma è solo una pausa prima della ripresa
di Wei Gu


Attestandosi al 7,4%, il tasso di crescita del Pil cinese del terzo trimestre è stato il più basso degli ultimi tre anni. Eppure, sembra che la fase peggiore del recente rallentamento sia ormai alle spalle. Certo, il tasso di crescita del Pil rimane piuttosto basso, almeno se paragonato al risultato del 10% che il Paese è stato in grado di portare a casa durante tutto lo scorso decennio. Tuttavia, un’analisi più accurata delle statistiche restituisce un quadro meno sconfortante. Innanzitutto, secondo i calcoli di Ubs, il tasso di crescita trimestrale annualizzato, corretto a seconda dei cambiamenti stagionali, è stato del 7,6% e quindi al di sopra del 6% e del 7% registrati negli ultimi due trimestri. Gli sforzi del governo per mettere in moto la ripresa sembra stiano dando i loro primi frutti. Nel terzo trimestre, anche le vendite immobiliari si sono riprese e, con loro, sono tornate a crescere anche le vendite di mobili, aumentate del 27% su base annua.
Farmaci, dispositivi per la telefonia e abbigliamento hanno tutti registrato tassi di crescita di almeno il 20%, se non maggiori. Mentre l’industria pesante, come quella dell’acciaio, sta ancora attraversando un momento difficile, quella tecnologica, quella farmaceutica e quella alimentare stanno tenendo duro. Data la situazione, probabilmente, gli investitori potrebbero permettersi di sperare che le cose vadano per il meglio. All’inizio del mese, secondo le stime della Reuters, le loro aspettative riguardo al tasso di crescita annuale delle esportazioni non superavano il 5%. Il dato reale ha raggiunto il 9,9%. Nonostante ciò, molti investitori sono riluttanti a separarsi dall’idea di un rallentamento generalizzato. Forse preferirebbero l’adozione di un programma di sostegno ai prezzi delle azioni. Malgrado, a settembre, il tasso di inflazione dei prezzi al consumo sia stato solamente dell’1,9%, la nuova generazione di leader cinesi preferisce dar retta all’Istituto nazionale di statistica, convinto che si riuscirà a raggiungere l’obiettivo annuale di crescita del Pil del 7,5%. Insomma, sembra che Pechino abbia fatto un ottimo lavoro nel rimettere in quadro la sua economia, ancora in rapidissima crescita.

Corriere 19.10.12
L’economia cinese rallenta ancora. E tutto il mondo trattiene il fiato
di Marco Del Corona


Vista dalla quasi immobilità, se non dalla marcia indietro, dei tassi di crescita dei Paesi europei, Italia compresa, quella della Cina tutto sembra tranne che una frenata. Eppure il più 7,4% del Pil da luglio a settembre è il settimo rallentamento trimestrale consecutivo della Repubblica Popolare, sotto l'obiettivo annuo indicato lo scorso marzo del premier Wen Jiabao davanti al Parlamento: una crescita che nel 2012 fosse almeno del 7,5%. A Pechino sono preoccupati. E non bastano le rassicurazioni dell'Ufficio statistico nazionale, che ha rilevato nel solo mese di settembre un più 7,7%, pari alla media dei primi nove mesi dell'anno. Né tranquillizzano altri indicatori comunque migliori delle previsioni, come l'incremento dei consumi (14,2% in settembre sul 13,2% di agosto) e la maggior produzione industriale (9,2% contro un 8,9% del mese prima). Sono i segnali che i meccanismi che hanno servito la crescita formidabile della Cina necessitano una revisione. Il congresso del Partito comunista dell'8 novembre che rinnoverà la leadership ha dunque su di sé anche quest'ipoteca. Le vibrazioni della lunga frenata cinese si irradiano altrove, com'è ovvio. Non soltanto investendo la relazione con il Giappone, già sconquassata dal confronto fra i rispettivi nazionalismi per le isole contese Diaoyu/Senkaku (crollo delle vendite di auto, produzione rallentata, la joint venture Toyota a Tianjin che si ferma per una settimana). È l'intero reticolo delle economie che sconta gli affanni della seconda potenza mondiale, e non può che essere così se — come ha notato il Fondo monetario — Pechino è il primo o il secondo partner commerciale di 78 Paesi che tutt'insieme generano oltre la metà della ricchezza globale. L'effetto domino risalta con nitidezza nel caso delle materie prime, e l'acciaio ne è un esempio: minor produzione in Cina, calo delle importazioni di minerali ferrosi, crollo dei prezzi, contraccolpi su nazioni che contano sull'industria estrattiva, Australia e Brasile, «colonie» cinesi dell'Africa e Indonesia. Allo stesso modo, un mercato immobiliare in equilibrio instabile su una bolla non ancora domata, con il contemporaneo crollo delle vendite di terreni, tocca una vasta gamma di prodotti e materiali, sia importati sia «made in China». Persino il mercato del lusso risente del ristagno dell'economia. Se non altro, perché la progressiva sofisticazione dei clienti con maggiore disponibilità induce a preferire marchi di nicchia sempre più esclusivi. Una tendenza avviata, che adesso invece anche il Financial Times considera una dinamica in grado di modificare le caratteristiche del mercato cinese. E, dunque, i mercati del mondo.

La Stampa 19.10.12
Newsweek si arrende, da gennaio sarà solo online
Il prestigioso settimanale americano travolto dal calo di lettori e pubblicità: un nuovo inizio o il preludio alla fine?
di Vittorio Sabadin


Anche Newsweek si arrende. Dopo 80 anni, uno dei settimanali più prestigiosi e famosi del mondo non distribuirà più l’edizione su carta e sarà disponibile esclusivamente online. Per anticipare il nuovo corso, il suo direttore Tina Brown ha dato la notizia ai dipendenti solo con una email, rinviando a oggi un incontro diretto nel quale annuncerà quanti giornalisti saranno licenziati. Nella sua lettera, Tina Brown ha voluto sottolineare che Newsweek non muore: si trasformerà da gennaio in una pubblicazione digitale che si chiamerà Newsweek Global, «una singola edizione internazionale focalizzata su un target di persone in movimento, opinion leader che vogliono essere informati sugli eventi mondiali in un contesto sofisticato». A tutti sono sembrate parole troppo pompose per essere sincere, di quelle che si usano per rinviare ancora di qualche mese un inevitabile funerale.
Che la sorte di Newsweek fosse segnata si era già capito due anni fa, quando il novantenne Sidney Harman, un pioniere della radio, acquistò la testata dal Washington Post per la ridicola cifra di un dollaro. Agli occhi dei suoi editori, Newsweek non valeva molto di più: nel 2003 (solo nove anni fa) vendeva 4 milioni di copie, precipitate a 1,5 milioni nel 2010. In due anni terribili, tra il 2007 e il 2009, i ricavi sono scesi di quasi il 40 per cento, mentre i costi del mantenere 22 uffici di corrispondenza nel mondo e di stampare edizioni in giapponese, arabo, spagnolo, coreano e polacco sono rimasti gli stessi.
Fondato nel 1933 da un ex capo servizio degli Esteri di Time, Thomas J. C. Martyn, Newsweek ha sempre rappresentato l’anima liberal americana, quella che si batteva per i diritti civili, si entusiasmava per il nuovo corso di John e Robert Kennedy e criticava la guerra in Vietnam. Un suo giornalista fu il primo a scoprire il legame tra il presidente Bill Clinton e la stagista Monica Lewinsky e, più recentemente, il settimanale ha denunciato gli abusi commessi sui prigionieri di Guantanamo. Focalizzato sulla politica nazionale, sull’estero e sui commenti, Newsweek era secondo solo a Time per diffusione e spesso lo superava nella qualità delle analisi.
Quando Sidney Harman lo ha comprato, i tagli resi necessari dal cattivo andamento dei conti avevano già prodotto deleteri effetti nella qualità del settimanale, ma il peggio doveva ancora venire. Subito dopo avere versato al Washington Post il suo dollaro, Harman ha proposto a Tina Brown di fondere Newsweek con il Daily Beast, il sito web di informazione che la giornalista aveva lanciato nel 2008 grazie ai finanziamenti del miliardario Barry Diller, che ancora ne supporta le perdite. Con la fusione, le notizie sarebbero andate subito online, le riflessioni e le analisi su quanto accaduto sarebbero state di competenza del settimanale.
Sembrava una buona idea, che lasciava però perplessi quelli che conoscevano da vicino Tina Brown. Ex direttrice del New Yorker e di Vanity Fair, prima di inventarsi il Daily Beast aveva voluto farsi un magazine tutto suo, Talk, lanciato nel 1999 con un party per 800 persone a Liberty Island e con la più grande festa di fuochi d’artificio che New York ricordi. Dopo avere perso 100 milioni di dollari in due anni, il mensile venne chiuso senza lasciare grandi rimpianti. Come nuova direttrice di Newsweek, Tina Brown ha trovato un po’ troppo noiose quelle pagine piene di analisi e reportage politici e ha deciso di inserire nel settimanale un po’ di gossip, di moda e di cultura pop che sono diventati i temi principali delle sue copertine. I vecchi abbonati che compravano Newsweek per schiarirsi un po’ le idee sulle cose del mondo se ne sono andati, mentre nuovi lettori e nuovi inserzionisti pubblicitari non si sono visti, rendendo inevitabile la decisione di rinviare la fine chiudendo l’edizione su carta.
Sorvolando sui suoi errori che hanno snaturato l’anima del settimanale, Tina Brown ha dato la colpa di tutto alla crisi dei media tradizionali, travolti dalla riduzione dei ricavi, dall’avvento di Internet e dalla diffusione dei dispositivi digitali mobili. Negli Stati Uniti ha ricordato sono operativi 70 milioni di tablet e il 39% degli americani si informa ormai solo online. Per le stesse ragioni a Londra il quotidiano The Guardian sta pensando di abbandonare l’edizione su carta e di uscire solo nella versione digitale, non potendo più sopportare perdite di quasi 130 mila euro al giorno. Il problema vero è che i ricavi dell’online non sono ancora sufficienti a pagare i costi di una struttura giornalistica di qualità e i giornali si trovano nella posizione più scomoda e più difficile da mantenere: a metà del guado tra il passato e il futuro. Può darsi che tra qualche anno, superata la crisi economica globale, l’online produca abbastanza risorse da consentire il completamento della transizione. L’importante è arrivare ancora vivi a quella data, conservando integra la qualità che ancora differenzia sul web l’informazione prodotta dai giornali dal resto. Newsweek non ce l’ha fatta.

Corriere 19.10.12
L'Italia sta crollando: i tagli alla cultura che cancellano la storia
A questo punto meglio eliminare il ministero
di Andrea Carandini


La politica è come un morto che afferra il vivo dell'Italia, ha scritto Galli della Loggia («Corriere della Sera», 16 ottobre). Da vent'anni ci siamo allontanati dalla nostra storia, recente e anche lontana, vegetando in un presente che non ricorda e non progetta, privo di visione. Questa morte si materializza anche nel corpo del Paese, con frane e terremoti, monumenti che crollano e il volto della Patria — il paesaggio — sfigurato, mancando ogni argine al cemento (il ministro dell'Agricoltura ha proposto un'ottima legge al riguardo: è prevista una corsia preferenziale?).
Nei tagli sempre più orizzontali e pesanti l'articolo 9 della Costituzione mai vale per creare quell'eccezione culturale in cui consiste la natura storica della Penisola, epicentro di pensieri e di opere di valore universale per due millenni e mezzo. Questa nostra modernità è caduta prima nel vuoto di un'ignoranza elogiata e poi nel pieno, ma troppo esile, di uno specialismo autorevole ma privo di una prospettiva oltre l'economia. La causa sta forse in un'idea sbagliata di progresso.
Nelle scienze della natura le scoperte si elidono, per cui si superano a vicenda. Ma così non è nelle scienze storiche. Le domande di Platone e di Vico appaiono ormai insulse? Omero è stato superato dal cinema di Hollywood? La storia rivive in un presente che sappia fondere l'orizzonte tramontato con il proprio, in un dialogo ininterrotto, in cui l'oggi prepara il domani, pascendosi dei secoli trascorsi.
Abbiamo obliterato le tradizioni, nel pregiudizio per il quale ogni radice deve essere recisa per librarsi nella vita, e così siamo precipitati nel nulla attuale. La cultura è per noi come il gioco di animali e bambini: una funzione centrale dell'essere, che si interpone tra noi e la vita ordinaria, funzione di cui è rarissimo sentire parlare ai più alti livelli istituzionali e mediatici, dediti alla finanza. Per questa ragione avevo proposto con Galli della Loggia un museo sintetico della storia d'Italia: dobbiamo pur avere un punto da dove cominciare a rammendare l'abito mentale lacerato della nazione, nel senso di uno sviluppo produttivo ordinario intrecciato a uno sviluppo umano straordinario, fatto di istruzione, ricerca, cultura e produttività creativa. Ma per ritrovare chi siamo e cosa potremmo essere nel globo dobbiamo smettere di considerare unicamente il Pil, tornando alla politica nel più alto senso della parola. Se non risuscitiamo nell'anima i nostri grandi, antichi e moderni, moriremo a una vita piena anche noi.
Intanto di male in peggio per il ministero dei Beni culturali. Sono scomparsi i Comitati tecnico-scientifici, per risparmiare 10.000 euro di missioni. L'anno prossimo rischiamo di avere fondi ulteriormente dimezzati: solo 86 milioni realmente disponibili per mantenere il patrimonio di storia e d'arte della nazione (i tagli cadono per intero sui Beni culturali, per risparmiare lo spettacolo). Una trentina di dirigenti rischiano di scomparire (nonostante il rapporto 1 a 150), per cui le pratiche paesaggistiche non potranno essere più evase (con organico inadeguato il silenzio-assenso diventa pericolosissimo). Neppure sono in vista i vantaggi fiscali più volte richiesti. A questo punto la spesa rappresentata dal ministero appare inutile: tanto varrebbe eliminarlo. Lo smarrimento da questo punto di vista è completo.

Corriere 19.10.12
Veca

Quella fantasia che fonda il nostro pensiero
di Arturo Colombo


Salvatore Veca lo conosco da decenni, e ogni volta mi accorgo che (a differenza di molti suoi colleghi) non pretende mai di imporre le sue idee, le sue tesi, quasi fossero altrettante «verità» indiscutibili. Al contrario, nei suoi discorsi — così come nei suoi libri — c'è sempre una forte carica di spirito critico e autocritico e una meritoria volontà di dialogo, che rende partecipe e coinvolge chi lo ascolta o lo legge. Persino quando, a «incontrarsi» con lui è la nipotina Camilla, detta Billa, come sa bene chi ha letto Il giardino delle idee. Quattro passi nel mondo della filosofia (pubblicato anni fa da Frassinelli).
Anche adesso, nel libro appena uscito, L'immaginazione filosofica e altri saggi (Feltrinelli, pp. 188, 20), che è anche «una sorta di autobiografia intellettuale, civile e politica», Veca — fra i vari argomenti che affronta — non rinuncia a chiarire subito quello che considera «il piacere dell'esplorazione», convinto che «la ricerca non ha fine», perché — qualunque siano i temi su cui riflettere — «l'ultima parola è inesorabilmente destinata alla conversione nella penultima»…
Naturalmente, con abilità dialettica Veca chiama a sostegno delle sue idee anche filosofi e pensatori, antichi o contemporanei, del calibro di Platone o Hume, di Rawls o Amartya Sen, di Giulio Preti o Bernard Williams, non solo per convincerci — caso mai non l'avessimo ancora capito — che in un mondo sempre più «globalizzato» il ruolo della cultura (non più limitato a piccole élite) è tanto più indispensabile oggigiorno in quella che Veca non esita a definire «una prospettiva illuministica e democratica».
La filosofia, ci ricorda Veca, proprio perché non può non continuare a essere «incompleta», deve «prendere sul serio il più vasto repertorio offerto dal sapere delle cose umane», specie quando si tratta di affrontare problemi fondamentali, dall'azione politica alla giustizia nel panorama contemporaneo. Tuttavia, il punto-chiave, che dà titolo al libro, riguarda «come funziona l'immaginazione filosofica», di cui Veca ci offre due immagini, che sono diverse ma nient'affatto alternative; anzi, possono risultare anche felicemente complementari. Infatti, convinto che «l'incompletezza» caratterizza ogni indagine filosofica, Veca pone a confronto da un lato «l'esploratore di connessioni», cioè «uno che mira a mettere insieme, a legare fra loro idee, concetti, congetture, ipotesi», e dall'altro «il coltivatore di memorie», ossia «uno che sa bene quanto l'immaginazione filosofica si alimenti del suo passato e della sua complicata tradizione». Ma in entrambi i casi Veca non rinuncia a metterci in guardia, ricordandoci che «si procede a tastoni su un terreno scivoloso, in faccende come queste». E tuttavia, nonostante il persistere di simile incertezza, queste sono le «sfide intellettuali, politiche e morali per un mondo meno ingiusto».

Repubblica 19.10.12
Le lezioni all’estero dei filosofi italiani


NEW YORK — Si chiude oggi alla Columbia University, con l’introduzione di Jean L. Cohen e il dibattito con Étienne Balibar, il fitto tour di conferenze statunitensi di Giacomo Marramao. Il filosofo italiano, che si trova oltreoceano per presentare la traduzione inglese di Passaggio a Occidente(condotta sulla base della nuova edizione accresciuta del 2009 e pubblicata con il titolo The Passage West: Philosophy After the Age of the Nation State dalla prestigiosa casa editrice Verso), ha già discusso i temi del libro in alcune fra le più importanti università americane. A Berkeley il 10 ottobre, le
lectures di Marramao hanno poi coinvolto molti intellettuali di spicco, come Judith Butler, Martin Jay e Peter Carravetta, presso la University of California-Irvine, il Texas A&M University (TAMU) di College Station e, ieri, nella Stony Brook University di New York.
Ma un’ulteriore dimostrazione della crescente fortuna della filosofia italiana all’estero arriva da Bonn, in Germania, dove tra il 24 e il 28 ottobre si terrà un convegno internazionale sul tema “Il ritorno della metafisica”. I relatori saranno americani, inglesi, russi, francesi, ma — tolti ovviamente i tedeschi — la nazione più rappresentata sarà l’Italia. Oltre a Gianni Vattimo e Maurizio Ferraris, infatti, molti giovani ricercatori nostrani presenteranno il loro contributo con relazioni più brevi.

Repubblica 19.10.12
L’altro Pound
La figlia Mary de Rachewiltz ha 87 anni E svela il lato famigliare dello scrittore
di Simonetta Fiori


TIROLO DI MERANO «Solo ora posso capire i miei genitori, la loro lunga storia sentimentale, anche il riserbo, le sensibilità ferite. Posso capire ora che ho l’età di mio padre Ezra Pound quando si congedava dal mondo, incompreso fino alla fine ma in fondo sereno, quasi sorridente». Mary de Rachewiltz ha 87 anni e la grazia di una
charming princess, come era chiamata nel bel mondo americano. Abita in un castello dalle torri merlate nelle valli tirolesi, “la casa senza maniglie alle porte” che colpì l’immaginazione di Quasimodo. Una magione cupamente fiabesca in cui venne a stare nel 1946 con il neosposo principe de Rachewiltz, e per una lunga stagione “buen retiro” di Pound e della sua illustre tribù. «Ma qui mio padre si annoiava mortalmente, si sentiva isolato dal mondo », aggiunge Mary con lo humour affinato da anni di tragedie. «Vi arrivò sul finire degli anni Cinquanta, dopo l’esperienza della gabbia — sì, la gabbia — e poi l’internamento nell’ospedale psichiatrico del St. Elizabeth’s a Washington. Era stato attratto dal fascino medievale del castello, ma lui cercava l’Italia, il paese che aveva amato senza esserne ricambiato. E qui certo, pur tra vallate meravigliose, non poteva trovarla».
Sorride sempre Mary, scintille d’oro negli occhi turchesi, mentre s’appresta a ricordare l’“Omero del Novecento” a quarant’anni dalla morte. Ma lo sguardo tradisce distanza e pensieri remoti, come ad inseguire un mondo di eleganza intellettuale che non esiste più. Un mondo intessuto di buon gusto e cultura, gemme preziose ma anche sentimenti crudeli, da lei conquistato tardivamente — e non senza tormento — dopo un’infanzia trascorsa in Val Pusteria tra mucche e carriole di letame. «Sì, mi sento tuttora una pastora», dice lei civettando con l’infanzia agreste. «Alla nascita i miei genitori mi affidarono a una coppia di contadini di Gais. Crebbi come una di loro, gioiosamente affamata di canederli e speck. Ogni tanto mi venivano a trovare il Signore e la Signora. Avevo una gran voglia di accarezzare le scarpe lisce e lucide che dondolavano davanti ai miei occhi. Ma la mamma contadina, vigile sulla soglia, me lo impediva».
La storia di Mary è una favola triste del Novecento, frutto della lunga storia sentimentale tra Pound e la violinista americana Olga Rudge. Due artisti legati per cinquant’anni da amore profondo — a lei, alla sua compagna coraggiosa rimasta con lui fino alla fine, sono dedicati gli ultimi versi dei Cantos — però mai sposati, essendo Ezra coniugato con la pittrice inglese Dorothy Shakespear. «Sono una figlia naturale, mai riconosciuta legalmente », racconta Mary sistemandosi il nastro di raso alla vita. «Nel dopoguerra mio padre fu privato dell’autonomia giuridica e non poté mettere le cose a posto. Quello — non la gabbia — fu il vero crimine commesso contro di lui dagli americani: la libertà gli venne concessa sotto la tutela legale della moglie». Mary è anche l’unica figlia biologica, essendo Omar Pound «figlio di Dorothy e di un egiziano, riconosciuto da mio padre per gentilhommerie verso la moglie. Ma davvero queste cose hanno importanza?». No, non ne hanno affatto. E se anche qualcuno tenterà di aggrapparvisi — ad esempio Casa Pound, citata in giudizio da Mary per appropriazione indebita del nome paterno — dovrà scontrarsi con un’eredità intellettuale ben più ingombrante di un atto legale. «Del processo non voglio più parlare, avendo già detto tutto: un’organizzazione politica come questa non ha niente a che fare con la figura di mio padre».
Oltre a esserne figlia, Mary è anche la traduttrice scelta da Pound per i Cantos, “la mia ossessione”, una sorta di prigione da cui non è riuscita ad evadere. «Credo che ancora ci siano molti equivoci su quell’opera, così come sul personaggio di Pound. È un grandioso poema, paragonabile alla commedia dantesca. Mio padre me l’affidò che ero appena una ragazzetta. Non dovevo mostrargli la traduzione prima di avere scritto una pagina intera. E inevitabilmente la faceva a pezzi». Perché quel titolo ibrido, plurale all’inglese di una parola italiana? «Perché sono musica pura, come disse mio padre a Pier Paolo Pasolini. Fu tentato anche dall’equivalente spagnolo, cantares, ma poi per omaggio a Dante scelse cantos». Mary lo ricorda per le calli veneziane, come immerso in un silenzio sospeso. «Finché non prorompeva in una specie di canto che poteva durare per ore. Nulla d’articolato: suoni quasi da ventriloquo, come se un potere estraneo gli barbugliasse in petto un linguaggio non d’umani. Un veloce scribacchiare su un pezzo di carta, il furioso annotare in un libro. S’era dischiuso qualcosa, un verso o una nuova idea».
Ovunque nel castello di Brunnenburg galleggiano le effigi del padre Ezra, molti i calchi in bronzo «che però ebbe il buon gusto di realizzare da vivo». Meno presente la madre Olga, talentuosa interprete di Bach e dama di gran mondo. Sinuosamente fasciata di velluti, la faceva sentire ancora più goffa e sgraziata nelle sue vestine da pastorella pusterlese. «Per motivi oscuri ne avevo paura. Era per me un’entità incomprensibile, mossa da un sordo rancore, come se di continuo le facessi torto. Desiderava un figlio maschio, e nacqui io». La vide piangere, una sera a Venezia. Mary voleva tornarsene a Gais dai suoi genitori contadini. E Olga si scontrava con il suo fallimento di madre. «Era come una dea piangente, di rabbia e di orgoglio ferito. Fino a quel momento conoscevo le lacrime provocate da sofferenze vere, come perdere un bambino, malattia,
fame. Scoprivo che si poteva piangere anche per un sentimento offeso». Era Olga «la vera artista della famiglia», come le disse una volta il Babbo. Del loro difficile rapporto Mary scrisse, al principio degli anni Settanta, in straordinarie memorie autobiografiche che portano il titolo di Discrezioni (controcanto del paterno Indiscretions).
«Mia madre ci rimase molto male. Non comprese. Forse si sarebbe aspettata un
memoir molto più colto e mondano. Io scrissi con sentimento, anche con gratitudine per l’educazione ricevuta». E suo padre? «Non disse nulla, ma era nella sua natura tacere».
Pound tacque anche quando, sotto la guerra, si trovò a convivere nella stessa casa di Rapallo con l’imperiosa Olga e la moglie Dorothy. «Due donne che l’amavano, che egli amava, ma che fra loro si odiavano». Sono passati tanti anni, forse ora si può alleggerire. «Oltretutto nessuna delle due sapeva cucinare », insomma un vero guaio.
Il clima è meno lieve quando si evoca il Disciplinary Training Center dove nel maggio del 1945 lo scrittore fu rinchiuso dagli americani con l’accusa di tradimento. Mary lo andò a trovare, e ancora occupa la sua visione «l’immagine del babbo invecchiato, gli occhi rossi, i piedi nudi in scarpe senza lacci e l’abbraccio forte di un tempo». Pound assurge a mito, nessun sospetto può sfigurarlo agli occhi della figlia. «L’accusa di antisemitismo era ingiusta. Aveva amici ebrei e nel 1938 dedicò il suo libro al figlio del rabbino di New York». I radiodiscorsi, però, sono inequivocabili. «Porca miseria sì, c’è anche quello» si lascia andare Mary, uno dei pochi momenti di abbandono, «ma è sbagliato inchiodarlo alle sue parti peggiori. Non sapeva niente dei campi di concentramento, solo su
Time Magazine vedemmo le prime immagini terrificanti». E dopo, al suo rientro dal St Elizabeth’s Hospital, aveste modo di riparlarne? «Non si sentiva colpevole, aveva usato un linguaggio che usavano in molti all’epoca. Certo lui non è mai stato perdonato dagli italiani. Ricordo quando nel 1961 riuscimmo a convincerlo a leggere i Cantos all’università. Intorno a lui il clima era ostile, un braccio alzato di saluto fu scambiato per omaggio al fascismo. Da Parigi era arrivato anche Quasimodo, che però si concedeva con sussiego, dandosi delle arie». Un passato che non passa. «Ancora oggi vedo scarsa attenzione, la sua opera sembra dimenticata, oscurata dagli errori». Ma oggi che è diventata coetanea dell’ultimo Pound, cosa ha capito di suo padre? «Tutti lo ritraggono corrucciato, assorto, lo sguardo cupo. Era sì tormentato, ma solo in apparenza. In fondo a sé aveva trovato pace, in armonia piena con mia madre. Forse aspettava i suoi blooming angels».

Repubblica 19.10.12
Un gigantesco studio del Karolinska Institutet di Stoccolma ha coinvolto 1,2 milioni di pazienti
Il legame fra creatività e disturbi mentali è stato svelato con nitidezza, specie in scrittori e pittori
Quei pazzi di Van Gogh e Dalì la scienza spiega la follia dei geni
di Elena Dusi


«Non esiste genio senza una vena di follia ». Se ne era accorto Seneca. Per Aristotele «gli uomini eccezionali in filosofia, politica, poesia o arte» hanno un eccesso di bile nera che li rende malinconici. Un legame fra squilibrio mentale e talento era addirittura inconcepibile secondo Lombroso. Salvador Dalì però non era d’accordo. «L’unica differenza — diceva con gli occhi allucinati e i baffi come due aghi verso il cielo — fra me e un matto è che io non sono matto».
Il fascino del rapporto fra genio e follia nel frattempo ha contagiato anche le neuroscienze. Per dare risposta a un quesito con più di duemila anni sulle spalle, il Karolinska Institutet di Stoccolma ha messo in piedi uno studio gigantesco, coinvolgendo quasi 1,2 milioni di pazienti psichiatrici visitati o ricoverati in Svezia negli ultimi 40 anni insieme ai loro parenti, arrivando ai cugini di secondo grado.
Nello studio più esteso mai condotto sull’argomento, il legame fra creatività e malattia mentale è apparso in tutta la sua nitidezza. I più colpiti dal “mal di genio” sono gli scrittori. La loro mente, come Lord Byron, David Foster Wallace e infiniti altri possono testimoniare, sembra un campo minato. Oltre ad avere il 50% di probabilità in più di suicidarsi, gli autori professionisti soffrono più della media di schizofrenia, ansia, depressione, abusi di alcool e droghe. Le altre categorie prese in considerazione dallo studio (scienziati, danzatori, fotografi, artisti) non sono di per sé rappresentate negli studi degli psichiatri più della media. Ma fanno parte di famiglie che soffrono in maniera spiccata di schizofrenia e disturbo bipolare. Un dato in sintonia con il fatto che per molte malattie psichiatriche è stata scoperta una base genetica ed ereditaria.
Una volta accertato un legame fra arte, scienza e mestieri creativi da un lato e malattia mentale dall’altro, resta ancora da capirne il perché. Studi precedenti, al Karolinska come in altri istituti del mondo, avevano già cercato di scrutare all’interno del rapporto fra creatività e follia. Una delle teorie più gettonate è che il cervello
di artisti e scienziati non abbia un filtro efficiente con la realtà esterna. Tutti gli stimoli provenienti dal mondo vengono riconosciuti come importanti, permettendo all’individuo di stabilire connessioni originali e sorprendenti.
Creatività e capacità di pensare fuori dagli schemi vengono però in alcuni casi pagate caro, perché l’incapacità di filtrare gli stimoli è considerata una fra le possibili cause delle psicosi ed è stata osservata nelle fasi iniziali della schizofrenia, in cui a volte si affacciano pensieri mistici ed esperienze religiose.
In termini di evoluzione, la ma-lattia mentale può essere considerata come un prezzo da pagare in cambio di una grande originalità di pensiero. In realtà resta ancora un mistero se sia nato prima l’uovo o la gallina. Se cioè sia la malattia mentale a scardinare il flusso ordinato dei nostri pensieri donandogli originalità o siano piuttosto creatività e profondità di pensiero a condurre il cervello sull’orlo dell’abisso della malattia mentale.
In ogni caso Simon Kyaga, il giovane ricercatore del Karolinska che ha condotto lo studio e sembra deciso a sbrogliare la matassa, è convinto che «In psichiatria, e in medicina in generale, si è abituati a considerare una patologia in termini di bianco o nero. Se imparassimo a riconoscere che alcuni aspetti della malattia mentale possono essere benefici, potremmo escogitare nuove tecniche per trattarla».

Repubblica 19.10.12
L’attore Alessandro Bergonzoni: “Sofferenza, non bellezza”
“È come una finestra aperta dove tutto entra ed esce”
di E. D.


«I due lati di un muro. I due estremi di un tavolo da ping pong in cui si gioca comunque insieme». Per Alessandro Bergonzoni, attore, scrittore e scultore, questo è il rapporto fra creazione e follia. Due ambiti accomunati dal “ritrovarsi oltre”».
Con la differenza che l’artista sa tornare indietro, il folle no?
«Quella dell’artista è una salute del dolore. La sua sofferenza nasce da un’energia che viene smossa. A volte la creazione garantisce un ritorno di fama o vendite. Ma a volte anche l’artista si ritrova solo, finendo in parte nello stesso territorio del folle».
Cosa ha imparato dai suoi incontri con malati mentali?
«A dialogare in maniera sciolta, senza mete. La prima volta che sono entrato in un ospedale psichiatrico avevo 15 anni, prima della legge Basaglia. Quel che ho visto era dispersione totale, un essere lontano e ovunque. Un’enormità, che è l’opposto della norma. Ma l’estraneità e la genialità delle persone malate sono legate alla sofferenza. Sgombrerei il campo dall’idea che la follia rappresenti una bellezza. Così come non condivido la tentazione di cercarla attraverso la chimica. Né mi piace la concezione che ne aveva Steve Jobs: follia come desiderio di un sogno del mercato. La follia dell’artista è aprire le finestre, lasciare che tutto entri ed esca e puntare alla trascendenza. Ritrovarsi in condizione di squilibrio e dubbio continuo, in cui la paura esiste, ma viene tradotta e usata».