domenica 21 ottobre 2012


l’Unità 21.10.12
Migliaia con la Cgil: il lavoro salva l’Italia
Con la Cgil «l’Italia che non si arrende»
Piazza San Giovanni piena. Camusso: la politica del rigore ha fallito, ora si cambi rotta
Il 14 novembre di nuovo in marcia con i sindacati europei
di Massimo Franchi


ROMA «Mai una manifestazione così». Finito di cantare con Eugenio Finardi una versione rock dell’Inno di Mameli, Susanna Camusso parte sottolineando subito la particolarità della giornata che ha riportato la Cgil a piazza San Giovanni, dopo due anni di assenza. Al mattino uomini e donne sparpagliati tra gli stand delle regioni e delle categorie per ripararsi dal sole dell’ottobrata romana. Nel pomeriggio l’area si è riempita (ma niente cifre, è ormai la regola del sindacato) per ascoltare il segretario generale per un comizio tutt’altro che scontato, che ha alternato attacchi al governo («non si salva il Paese se non si salva l’occupazione»), messaggi ai cugini di Cisl e Uil («venite con noi il 14 novembre per la manifestazione europea») e proposte innovative («la riforma delle pensioni non valga per le aziende in crisi»).
Una giornata importante «considerata con grande attenzione» dal ministro Corrado Passera, appoggiata e partecipata da buona parte del Pd (Fassina e Damiano erano presenti) e un po’ bistrattata da Raffaele Bonanni che in mattinata non si era «accorto» della piazza e nel pomeriggio deve rettificare: «Nessuna venatura polemica, rispettiamo le manifestazioni degli altri».
Attorniata dalle lavoratrici che hanno fatto staffetta sul palco nella lunga giornata e dai segretari generali guidati da Vincenzo Scudiere orgoglioso della «scommessa vinta», Camusso ricorda prima di tutto «il lutto per la centesima donna uccisa in Italia». Poi riparte dalla scelta della Cgil: «Mettere insieme le tantissime storie apparentemente differenti, unite dalla straordinaria ingiustizia di un Paese che non guarda al lavoro». Assieme «agli esodati e agli ancora troppi rassegnati al lavoro nero», ci sono le «madri che ho visto piangere mentre mi raccontavano che non potevano più permettersi di mandare i figli all’università». Li accomuna ai giovani che «grazie alla riforma del lavoro non vedranno rinnovati i loro contratti». «Le aziende in crisi o decotte, nominate da qualche ministro con disprezzo e mai risolte, lo sono perché si è sbagliato politiche e si è scelto di investire in finanza». Per il segretario generale della Cgil «vanno salvate, perché sono il patrimonio industriale del Paese» e «non negare che serva un intervento pubblico». Il momento è decisivo: «Il tempo di decidere è quello di oggi» e «la luce in fondo al tunnel» citata in estate da Monti «c’è se ogni giorno difendiamo e costruiamo il lavoro, difendendo diritti, legalità e trasparenza». E qui non manca un attacco alla legge sulla corruzione in approvazione: «Serve reintrodurre il reato di falso in bilancio nelle imprese». Il tema dei giovani rimane fondamentale: «i figli degli operai devono andare all’università».
«NON PREGIUDICATE IL FUTURO»
Arriva poi l’attacco forte al governo («quelli che si affrettano a dare voti a noi, inizino a fare loro i compiti a casa») e al liberismo. «La politica dei bilanci e dei tagli non solo è fallita, ma è la causa della crisi» perché «ha ridotto i consumi e non ha guardato al lavoro». Il governo Monti però dopo «aver pregiudicato questi mesi e questo presente, ora vuole ipotecare il futuro; non pretendete di pregiudicare il nostro futuro». Il discorso si allarga all’Europa: «Rispondiamo con una mobilitazione continentale, già decisa dal sindacato europeo per il 14 novembre nelle piazze con francesi, tedeschi, portoghesi». Quel mercoledì la Cgil sarà in piazza, ma «i modi» (lo sciopero generale, chiesto dalla Fiom e dalla Rete di Cremaschi, è molto difficile da organizzare in così poco tempo) saranno discussi con «Cisl e Uil, a cui chiediamo di manifestare con noi per cambiare la politica europea». La «buona
notizia» del reintegro dei lavoratori Fiom porta a un altro messaggio a chi parla di discriminazione contraria: «È un valore aggiunto per tutti perché la libertà sindacale è più importante di tutto».
ORGOGLIO E PROPOSTE
Sul capitolo pensioni arriva una ricetta innovativa. «Nella spending review ci ha sorpreso vedere regole di pensionamento diverso» per i lavoratori pubblici, per rimettere in sesto «una riforma sbagliata», attacca Camusso che propone al governo di far «valere le vecchie regole per tutte le aziende in crisi». Il tema è legato alla trattativa (al momento incagliata per le divisioni fra le imprese) sulla produttività: «La parola magica demansionamento vuole essere fatta passare perché dopo che hanno allungato la vita lavorativa di anni, ora vogliono chiedere a queste persone di finirla in condizioni peggiori». E allora l’altra proposta di Camusso è: utilizzare il miliardo e 600 milioni promessi dal governo per detassare gli accordi aziendali di produttività per «defiscalizzare assunzioni a tempo indeterminato per i giovani» perché «se invece il governo pensa di usarli per comprimere le retribuzioni, si sbaglia di grosso». Le altre proposte sono ribadite: detassazione delle 13esime, via il massimo ribasso negli appalti, creare le condizioni per un costo dell’energia che «impedisca lo spegnimento dei forni dell’Alcoa il 3 novembre».
«Siamo la parte del Paese che non si arrende, che si dà come primo appuntamento il 14 novembre e che dice che solo con il lavoro c’è futuro, perché senza il lavoro non si sorride più. Chi fa così non ci rappresenta».

l’Unità 21.10.12
Bersani: sul fisco con gli italiani onesti
Il leader Pd: «Non si deve parlare con chi fa base alle Cayman»
di Simone Collini

ROMA «Il punto è: che Paese vogliamo?». Ecco perché Bersani non lascia smorzare la polemica innescata dalla cena di finanziamento per Matteo Renzi organizzata da Davide Serra, titolare dell’ormai nota Algebris che gestisce un fondo alle Cayman. «Con la gente basata alle Cayman non deve parlare nessuno dice da Cernobbio, dove partecipa al Forum di Coldiretti è ora di finirla perché c’è gente che lavora e paga le tasse, non ci si deve fare dare consigli da chi viene dai paradisi fiscali». Il leader del Pd ne fa una questione di serietà, di essere conseguenti tra quel che si dice e quel che si fa: «In coerenza con quello che pensiamo dell’evasione fiscale, noi siamo duri con chiunque venga meno al patto di solidarietà fiscale nei confronti del suo Paese».
Il sindaco di Firenze replica a distanza e definisce il tutto «una barzelletta, la più divertente che abbia sentito negli ultimi tempi, un gigantesco autogol di Bersani»: «Se uno non vuole parlare con tutti coloro che hanno una sede alle Cayman vuol dire che non vuole parlare con quelli che ci comprano i nostri titoli di Stato». Renzi fa tappa col camper a Brescello, il paese dove Guareschi ha ambientato le storie di don Camillo e Peppone («conoscendolo Bersani ride vorrebbe fare don Camillo»). Qualcuno lo contesta, altri lo applaudono. «Lo dico per un candidato alla presidenza del Consiglio manda a dire a Bersani stia attento a dire “non parlo con questi” perché è la volta buona che rischia di creare una situazione economica nella quale nessuno viene più a investire in Italia».
Sono insomma due differenti visioni che si scontrano, con Renzi che definisce un «autogol» da parte di Bersani «gridare allo scandalo» e il leader Pd che dice che «c’è una finanza buona, corretta, che può dare una mano alle attività produttive, e ci sono soggetti che fanno base nei paradisi fiscali».
IL CONFRONTO TELEVISIVO
Difficilmente la polemica finirà qui, ed è anzi probabile che la questione sarà al centro del confronto tra i candidati alle primarie che si terrà prima del 25 novembre. Che si faccia ormai è certo, manca solo di sapere dove e quando. Per ora hanno offerto ospitalità il direttore di Rai 3 Antonio Di Bella (si pensa a “Ballarò”), quello di SkyTg24 Sarah Varetto e quello di TGcom24 Mario Giordano. Bisognerà però aspettare prima di tutto che si definisca la platea dei candidati (non ci sarà infatti una serie di faccia a faccia ma un confronto tra tutti gli sfidanti). Questo avverrà la sera di giovedì, quando scadrà il termine per raccogliere le 20 mila firme necessarie per correre.
TABACCI PRONTO A CANDIDARSI
Oltre a Bersani, Renzi, Vendola e Laura Puppato, sta raccogliendo le firme anche Bruno Tabacci. Finora l’assessore della giunta di Milano ha rifiutato di firmare la carta d’intenti «Italia bene comune» (condizione per poter partecipare alle primarie) per la mancanza di riferimenti all’azione di Monti, come l’esponente dell’Api ha spiegato anche in una lettera indirizzata a Bersani. Rosy Bindi (alla quale la missiva è stata inviata per conoscenza) ha però risposto a Tabacci spiegando che la carta d’intenti «non va letta come un testo blindato e concluso, ma come la base di un confronto che si svilupperà dopo le primarie» e che la sua firma «potrebbe essere accompagnata da un contributo esplicativo sul significato della tua candidatura». Ed è seguendo questa strada che Tabacci firmerà e si candiderà alle primarie.
Ma ieri a segnare la giornata, oltre al botta e risposta a distanza tra Bersani e Renzi, è stata la reazione di Serra alle parole di Bersani. Il fondatore del fondo Algebris, dopo aver fatto sapere di pagare le tasse a Londra, ha annunciato che i suoi «legali italiani e inglesi» chiameranno i giudici a decidere delle frasi del leader del Pd. «Essere stato definito “bandito” da lei mi offende», si legge in una lettera aperta recapitata all’Ansa in cui si parla di «lavoro pulito e trasparente» delegittimato e in cui si annuncia la querela. Scrive Serra, che Renzi definisce «una persona seria e perbene», dopo la lettura dei giornali: «Vede Onorevole Bersani, tutto quello che faccio lo faccio (voce del verbo fare e non parlare) con l’obbiettivo di migliorare il mio Paese di nascita, ma gli attacchi subiti, sul niente, da lei e dai suoi accoliti che fingono di avercela con me, ma di fatto vogliono delegittamare Renzi, mi danno la conferma che il lavoro da fare è lungo e duro».
Il portavoce del leader Pd, Stefano Di Traglia, chiede «dove e come Bersani avrebbe detto che Serra è un bandito»: «Il segretario Pd ha parlato di Cayman e non di Serra, che non ha il piacere di conoscere». E lo stesso Bersani manda a dire: «Non c’è nulla da offendersi, se si offende problemi suoi». Non sono invece problemi di una sola persona se passa il ragionamento che tutto è lecito. «È il caso di dire stop ribadisce il leader Pd in coerenza con quello che pensiamo dell’evasione fiscale, noi siamo duri, con chiunque venga meno al patto di solidarietà fiscale nei confronti del suo Paese».

l’Unità 21.10.12
Regole contro la speculazione: è questa l’urgenza
di Emilio Barucci


Il problema non è che Matteo Renzi abbia incontrato i finanzieri quanto capire cosa si siano detti.
La politica e la finanza sono centri di potere multiformi destinati a confrontarsi tra di loro, a volte scontrandosi e a volte collaborando.
È naturale dunque che si parlino.
Il momento è però particolare, non c’è dubbio che la crisi finanziaria e quella dell’euro stiano facendo voltare pagina a questa storia e che ci sia bisogno di un nuovo inizio. Quindi,occorre capire bene il messaggio che la politica – e un candidato alla premiership in questo caso –intende recapitareal mondo della finanza.
Bisogna partire dal fatto che le cause della crisi finanziaria e i rimedi per risolverla sono tutt’altro che condivisi. Nella opinione pubblica è passata l’idea che la finanza sia «cattiva», che le banche e i fondi di investimento, mettendo in circolo i famosi titoli tossici, abbiano appestato il sistema finanziario finendo per danneggiare l’economia reale e per appesantire oltre misura i
bilanci pubblici. Secondo questa interpretazione, la finanza ha bisogno di una bella «lezione» in quanto la regolazione e la supervisione non hanno funzionato a dovere. È questa la linea che l’amministrazione Obama ha sposato e che l’Ue con ritardo sta portando avanti: unione bancaria, proposta Barnier di separazione tra attività di investment banking e retail, Tobin tax.
Molti nella finanza e alcuni fautori del libero mercato sostengono invece che la politica sia stata all’origine del tutto favorendo la bolla immobiliare con l’amministrazione Bush e il propagarsi della stessa con i dispendiosi salvataggi bancari. Il lettore ricorderà che non sono mancati i sostenitori del fallimento di Lehman Brothers e dell’uscita della Grecia dall’euro. Può sembrare un’idea peregrina, ma c’è chi lo pensa. Questa posizione è popolare tra tutti gli operatori finanziari che mal sopportano l’ingerenza del pubblico nella loro attività (lo Stato azionista ha portato ad una calmierazione dei bonus) o che non hanno tratto alcun beneficio dall’intervento pubblico (i piccoli intermediari e quelli non regolamentati). Tra questi abbiamo gli hedge funds come quello che ha organizzato l’incontro con Renzi. Una tesi che curiosamente trova assonanze con le posizioni «anti sistema» di coloro che si battono contro i salvataggi bancari con i fondi pubblici. La loro richiesta è sostanzialmente di essere lasciati liberi di fare quello che vogliono, in cambio garantiscono di non chiedere aiuti pubblici.
Questa parte del mondo della finanza guarda con insofferenza alle mosse della politica e non ha nulla da guadagnare da un nuovo inizio, vorrebbe continuare sulla strada della deregolamentazione e tornare al più presto al business asusual limitando i danni.
In questo clima la politica deve mandare messaggi chiari al mondo finanziario. Spazzando via spauracchi, come l’ipotesi di nazionalizzazione, e demonizzazioni che non aiutano certo a risolvere i problemi, la politica deve aprire una nuova stagione della regolamentazione tenendo conto delle istanze del mondo finanziario ma senza farsi dettare la linea. La lezione da apprendere dalla crisi finanziaria è che i mercati finanziari sono talmente estesi e pervasivi che possono mettere a rischio la stabilità di un sistema economico. Poiché la stabilità e il benessere dell’economia non rientrano tra gli obiettivi che il privato intende perseguire, deve essere la politica ad occuparsene. Questo punto deve passare in modo chiaro nelle comunicazioni.
La linea da tenere è quella proposta dal commissario Barnier: separare attività creditizie di pubblico servizio (mutui, conto corrente, prestiti alle imprese) da quelle speculative. Le prime devono essere sottoposte a stretta regolazione con la garanzia
pubblica che l’intermediario non potrà fallire, le seconde devono essere alleggerite da vincoli operativi ma non devono godere di alcuna forma di garanzia pubblica. Il problema è come separare questi due mondi in modo efficace: occorre garantire che i piccoli risparmiatori non siano il parco buoi della finanza gestita in un’ottica puramente privata e che un eventuale fallimento della stessa non crei un dissesto a livello di sistema a spese dei fondi pubblici.
Si tratta di proposte che non faranno di sicuro piacere al mondo della finanza. La riregolamentazione porterà ad una segmentazione dei mercati e dell’attività finanziaria con profitti sicuramente inferiori rispetto al passato. Non è dato sapere cosa Renzi abbia sostenuto nel famoso incontro, speriamo abbia fatto la voce grossa, di sicuro nel suo programma (punto 2.a) c’è spazio per l’unione bancaria ma non c’è traccia di proposte di questo tipo.

l’Unità 21.10.12
Evasione fiscale, boom di segnalazioni alla Finanza
di Marco Ventimiglia


MILANO Sarà un luogo comune, o piuttosto la nuda realtà, fatto sta che è pratica diffusa l'associare un periodo di difficoltà economica, come l'attuale, al crescere dei comportamenti illeciti in ambito fiscale. C'è però un altro comportamento, questo certificato da dati attualissimi, che emerge in questi tempi di crisi, ovvero la montante insofferenza dei cittadini italiani nei confronti dei cosiddetti furbi, ovvero gli evasori fiscali. Continuano infatti a crescere le chiamate al numero telefonico 117, utenza della Guardia di Finanza. Per la precisione, come hanno comunicato ieri le Fiamme Gialle, nei primi nove mesi dell'anno le telefonate sono state quasi 50.000, con un aumento del 92% rispetto allo stesso periodo dell' anno precedente.
Il 117, è bene ricordarlo, è un numero gratuito di pubblica utilità operante 24 ore su 24, realizzato per instaurare un rapporto diretto tra la Guardia di Finanza ed i cittadini. Chiunque, con una semplice telefonata, può così entrare in contatto con le "sale operative" dei Comandi provinciali di tutto il territorio nazionale per fare una segnalazione, ottenere notizie e informazioni o chiedere l'intervento dei finanzieri. Quando, in base a quanto affermato dal segnalante al telefono, viene ritenuto necessario presentare direttamente un esposto, il cittadino viene invitato a presentarsi presso il reparto delle Fiamme Gialle più vicino per la formalizzazione della denuncia verbale.
TENDENZA COSTANTE
Nell'ambito di queste chiamate al 117 va evidenziato, appunto, l'incremento delle segnalazioni di violazioni fiscali (dalla mancata emissione dello scontrino, ai lavoratori in nero sino ai casi più complessi ed articolati di frode). Complessivamente, sempre dall’inizio anno alla fine di settembre, l'incremento registrato è risultato addirittura del 228%, con quasi 24.000 chiamate effettuate. Un boom di segnalazioni che era stato notato sin dai primi mesi del 2012, ma i dati di medio periodo confermano adesso un assestamento di questo trend destinato quindi a caratterizzare l’intero anno. Peraltro, crescono anche le denunce via telefono di presunti illeciti commessi in altri settori. L'incremento maggiore riguarda le segnalazioni relative ai distributori di carburante e, più in generale, i prodotti energetici (+152%), ma nel mirino ci sono anche giochi/scommesse/lotterie/monopoli (+73%) e sostanze stupefacenti (+24 %), tutti settori d'intervento caratterizzati dalla crescita delle segnalazioni rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente.
L'aumento delle segnalazioni, ritenuto «sintomatico della crescente partecipazione alla lotta all'illegalità economico-finanziaria», ha determinato anche il potenziamento del 117 con iniziative rivolte al Web. È appena stata aggiornata la specifica sezione del sito Internet www.gdf.gov.it, con la pubblicazione di modelli per le segnalazioni, che chiunque può compilare, stampare e presentare ai reparti territoriali. I nuovi format, che ora sono disponibili in versione editabile, contengono campi specifici che guidano l'utente nell'inserimento dei dati e delle informazioni, rendendo più agevole la compilazione.

l’Unità 21.10.12
Definite le regole. I renziani: porcata
L’elettore può registrarsi fino al momento del voto, anche del secondo turno, ma con procedura distinta
di Simone Collini


ROMA Le regole ci sono. Le polemiche anche. Sciolto anche l’ultimo nodo, riguardante il doppio turno, il Collegio dei garanti ha varato le norme che candidati ed elettori dovranno rispettare per le primarie del 25 novembre (con eventuale secondo turno il 2 dicembre nel caso in cui nessuno sfidante ottenesse il 50% più uno dei voti validi). E Matteo Renzi e i suoi sostenitori vanno all’attacco, fino a definire il regolamento, come fa la responsabile del tour del sindaco fiorentino Simona Bonafè, «una porcata degna del miglior Calderoli».
Come anticipato nei giorni scorsi da l’Unità, per votare si dovrà prima sottoscrivere (dal 4 novembre fino al giorno del voto) un appello pubblico a sostegno del centrosinistra e iscriversi all’Albo degli elettori: «Tale registrazione dovrà avvenire con procedure distinte dalle operazioni e dall’esercizio del voto». E questa è la prima norma contestata. La seconda riguarda chi potrà votare al secondo turno. Dopo una lunga discussione, si è deciso di mantenere aperta la possibilità di registrarsi anche in due giornate tra il 27 novembre e il 1° dicembre a tutti «coloro che dichiarino di essersi trovati, per cause indipendenti dalla loro volontà, nell’impossibilità di registrarsi all’albo degli elettori entro la data del 25 novembre». Non ci sarà insomma l’obbligo di provare con documentazione varia l’impossibilità di iscriversi entro il primo turno (come chiedeva il Pd, scontrandosi su questo con Sel). Spiega Luigi Berlinguer, che presiede il Collegio dei garanti, che «il Paese ci guarda e si attende anche attraverso questa occasione partecipativa un contributo al riscatto della politica e della serietà». Ma per il fronte renziano questa norma, insieme all’obbligo di registrarsi con «procedure distinte dalle operazioni di voto», è una «porcata» che impedisce proprio quella partecipazione che si vorrebbe garantire.
Per Salvatore Vassallo le regole «trasudano in ogni dettaglio la volontà di respingere gli elettori meno identificati e fedeli» e le primarie, dice Domenico Petrolo, così «vengono trasformate in una corsa ad ostacoli». Per il coordinatore del programma di Renzi, Giuliano Da Empoli, «queste sono regole 2geneticamente modificate’, fatte solo per far vincere qualcuno». E lo stesso sindaco di Firenze interviene nella polemica dicendosi «senza parole per le regole che hanno fatto oggi».
Parole che non piacciono alla portavoce del comitato Bersani Alessandra Moretti: «Le regole sono quelle che l’assemblea nazionale ha votato all’unanimità. Renzi ha deciso di non esserci in quell’occasione. Evidentemente non è abituato a discutere e confrontarsi negli organi collegiali ma nei teatri tra i fan. La democrazia però è una cosa seria, così come sono serie queste primarie di coalizione per individuare il prossimo candidato Premier del centrosinistra». Nico Stumpo dice che i garanti andrebbero ringraziati e non accusati, che è meglio abbassare i toni, archiviare i vittimismi e discutere di contenuti. «Se qualcuno pensa che si possa andare avanti così fino al 25 novembre dice il responsabile Organizzazione del Pd vuol dire che ha sbagliato intento».
Quel giorno i gazebo rimarranno aperti dalle 8 alle 20. Per votare bisognerà esibire al seggio un documento di identità, la tessera elettorale e il «Certificato di elettore del centrosinistra» rilasciato al momento della registrazione. Si potrà esprimere un’unica preferenza. Nel caso nessun candidato dovesse ottenere il 50% più uno dei voti validi, il ballottaggio tra i due più votati si terrà il 2 dicembre.
Sono state definite anche le regole riguardanti i candidati: potrà correre chi raccoglierà entro giovedì 20 mila firme in almeno 10 region, è previsto un tetto alle spese di 200 mila euro, sarà obbligatorio pubblicare la rendicontazione delle spese e saranno vietate le pubblicità a pagamento sui media.

il Fatto 21.10.12
Approvate le nuove regole delle primarie a ostacoli
Doppio turno, iscrizione e voto in luoghi diversi e niente sedicenni alle urne
I renziani “E’ una porcata”
di Caterina Perniconi


Alle ore 18 di ieri pomeriggio Matteo Renzi e Roberto Reggi, in tour con il camper per l’Emilia Romagna, non avevano ancora letto la missiva scritta dal loro finanziatore Davide Serra a Pier Luigi Bersani. La polemica sulle Cayman era già in secondo piano mentre dal comitato fiorentino continuavano a telefonare per raccontare al sindaco e al suo braccio destro i particolari scritti nelle 9 pagine che regolano le primarie.
DOPPIO TURNO (25 novembre e 2 dicembre), iscrizione in un luogo diverso da quello delle votazioni, una firma per l’appello pubblico in sostegno della coalizione di centrosinistra e un’altra per l’iscrizione all’albo degli elettori. Poi una novità dell’ultim’ora: cancellato il voto per i sedicenni, per la prima volta servirà la maggiore età. E un’apertura sul secondo turno: potrà votare anche chi si iscriverà dopo il primo, portando una giustificazione.
Reggi risponde al cellulare, dall’altra parte c’è la giovane Simona Bonafé: “Le regole appena approvate dal comitato dei garanti sono una porcata, degna del miglior Calderoli”. L’ex sindaco di Piacenza riflette: “Bersani in assemblea nazionale aveva detto facciamo le cose per bene e favoriamo il massimo della partecipazione. Deve aver cambiato idea, perché venerdì ha dichiarato che se dovesse votare meno gente del previsto alle primarie se ne farà una ragione”. Una ragione che, secondo Reggi, “dipende dai sondaggi che hanno in mano al Nazareno, molto diversi da quelli che diffondono”. Parla con Renzi, che quando sale sul palco esordisce: “Le altre volte avevamo un turno solo, secco oggi per andare a votare pare che sia un gioco dell’oca”.
Renzi e Reggi non sono gli unici a pensare che la paura del risultato abbia impedito ai bersaniani di non modificare le regole già rodate nel 2007 e nel 2009. “Il testo del regolamento per le primarie del centrosinistra trasuda in ogni dettaglio la volontà di respingere gli elettori meno identificati e fedeli – spiega il senatore democratico Salvatore Vassallo – dalle regole traspare il terrore, giustificato dai sondaggi, sui possibili risultati della competizione”. Per Vassallo una delle mancanze “più gravi” è quella di non permettere la registrazione on line.
“Il nostro partito si riempie la bocca di innovazione tecnologica e poi i risultati sono questi” commenta ancora Reggi. Non è chiaro invece se il 25 novembre l’iscrizione sarà nello stesso luogo della votazione o in uno diverso. Probabilmente la decisione resterà a discrezione dei comitati locali. “L’unico risultato è che avremo due file da fare, una per registrarsi e una per votare ” aggiunge Vassallo. Dopo la registrazione sarà rilasciato un certificato di elettore della Coalizione di centro sinistra “Italia Bene Comune”. Tito Boeri commenta su Twitter: “D’Alema dice ‘se vince Renzi non so se lo voto’. Con le nuove regole, non potrebbe votare alle primarie, impongono centralismo democratico”.
Le novità basteranno a dissuadere i famosi infiltrati? “Se pensano questo si sbagliano di grosso” spiega Vassallo, “otterranno solo che chi è indeciso invece di andare a votare resterà a casa”. A casa non ci resterà un altro senatore democratico, Stefano Ceccanti, che oggi andrà a firmare a favore della candidatura di Matteo Renzi: “Assumendo come parametri la piattaforma del Lingotto e l’agenda Monti, il candidato più vicino o comunque meno lontano è Renzi” dichiara Ceccanti. Che al seggio andrà con suo figlio. “Per fortuna compie 18 anni la settimana prima”.
MA I BERSANIANI respingono tutte le accuse al mittente: “Basta con i vittimismi e abbassiamo i toni – dichiara il responsabile organizzazione del Partito democratico, Nico Stumpo – se qualcuno pensa che si possa andare avanti così fino al 25 novembre, vuol dire che ha sbagliato intento. Le regole di cui tanto si discute sono il frutto di un voto espresso all’unanimità dall’assemblea nazionale del Pd e successivamente dal decalogo della coalizione ‘Italia bene comune’ a cui i garanti si sono attenuti”. Le nuove regole sulla carta riducono la partecipazione, quindi non favoriscono né Renzi né Vendola. Il secondo, ieri, ha preferito non commentare le decisioni che anche il suo partito ha contribuito a prendere. Secondo un sondaggio della Swg le possibilità di uno sfidante di battere Bersani ci sono solo a ridosso dei 4 milioni di votanti. O di saltatori di ostacoli.

La Stampa 21.10.12
Da attaccante a vittima E adesso Renzi cambia strategia
Parte oggi da Torino la campagna per ridare vigore alla sfida
di Fabio Martini


Faceva finta di niente, ma da una settimana il «ragazzaccio» era in ambasce. Dopo il passo indietro di Veltroni e D’Alema gli era stato subito chiaro come il successo della rottamazione potesse trasformarsi nella sua nemesi, l’autorottamazione. Ma, ieri pomeriggio, quando è stato informato sulle regole definitive delle Primarie decise a Roma, Matteo Renzi ha colto al volo il rischio ma anche le opportunità che si aprivano: «Pier Luigi non è stato di parola, mi aveva personalmente assicurato che avremmo fatto Primarie aperte. Io mi ero fidato, l’avevo detto pubblicamente... ». Quelle regole così scandite, calcolano gli amici del sindaco, potrebbero se non dimezzare, quantomeno dare un colpo alla quantità dei potenziali elettori di Renzi. E’ per questo motivo che ieri sera, Matteo Renzi ha deciso di cambiare drasticamente tattica: basta col «politicamente corretto», basta colpi di fioretto, basta risposte soft, come quella che si era imposto dopo l’attacco sulle Cayman. Da Reggio Emilia, dove si trovava, ha chiesto ai suoi di preparare comunicati durissimi, che preparano, per oggi, il terreno alla più drastica delle svolte: da attaccante a vittima.
Un atteggiamento, quello di chi affetta un torto, che in Italia ha sempre funzionato, per effetto di una opinione pubblica storicamente sensibile al vittimismo, tanto più in una stagione come quella in corso. Il vittimismo per necessità può ridare smalto alla campagna di Matteo Renzi, così almeno pensano il sindaco e i suoi. Anche se la vera svolta, chiamata a completare la prima, è quella che lui stesso ha preannunciato per oggi: spiegare finalmente la sua idea di Italia. Finora, l’immagine del rottamatore gli aveva consentito di pattinare e restare sul vago sulle proposte concrete, dal mercato del lavoro alla patrimoniale. Nel discorso al PalaOlimpico di Torino, Renzi ha deciso di scandire con chiarezza un concetto nuovo, spiegare che un’altra sinistra è possibile, che la «vera rottamazione è quella delle mentalità» e dunque deve essere rimossa una parte rilevante della classe dirigente, non soltanto di quella politica.
Renzi non ha mai creduto che un programma dettagliato possa rappresentare un forte appeal, ma oggi dovrebbe esplicitare e rivendicare alcune proposte-forti: la trasparenza totale per la pubblica amministrazione e per i politici, una flexsecurity senza se e senza ma, che comprenda contratti a tempo indeterminato per tutti, una protezione forte dei diritti fondamentali, ma anche la cancellazione del principio di inamovibilità: per chi perde il posto per motivi economici od organizzativi si propone un robusto sostegno del reddito e servizi di outplacement per la ricollocazione.
Renzi, che ha notato la stanchezza dei sondaggi, ha ben presente un altro rischio: quello di passare alla storia da rottamatore a «nemico del popolo». Per questo, tre giorni fa aveva frenato l’ardore dei suoi che avrebbero rispondere con durezza all’attacco di Bersani sui paradisi fiscali. Renzi aveva frenato: «Evitiamo la rissa, fermiamoci qui e se domani sui giornali si “beve”, pazienza! ». Rispondere a Bersani con i nomi di Penati, Consorte o Gavio? Il sindaco di Firenze ha capito che sarebbe stato messo all’indice come l’anti-partito e ha preferito accusare il colpo: «Se si continua a tirar bombe, non ci si ferma più». Anche perché Renzi è proverbialmente presuntuoso ma ha capito di aver commesso una leggerezza: per essere introdotto nella business community milanese avrebbe potuto scegliere una porta d’ingresso diversa da quella offerta da un fondo speculativo con base in Gran Bretagna.
Oggi a Torino il primo discorso più dichiaratamente programmatico e intanto è stato deciso che il trampolino finale per la campagna delle Primarie avrà luogo a Firenze: dal 15 al 17 novembre, alla ex Stazione Leopolda si terrà una convention nella quale confluiranno tutti i testimonial del mondo renziano e il sindaco sarà chiamato a lanciare il rush finale. E intanto i suoi cercano una sede nel quartere Prati a Roma, segno che, anche in caso di sconfitta, Renzi ha intenzione di andare avanti.

il Fatto 21.10.12
Firenze, i conti che non tornano
di Giampiero Calapà


Cayman è la parola della settimana. La stilettata di Pier Luigi Bersani a Matteo Renzi, per le sue frequentazioni milanesi, è diventata il terreno di scontro dei due contendenti alle primarie del 25 novembre. Ma Renzi ha molte altre spine, ben più concrete, a cui far fronte. La Corte dei conti continua ad interessarsi alle mosse del boy scout di Rignano sul-l’Arno. Dopo una condanna già inflitta alla sua amministrazione provinciale (danno erariale per 50 mila euro), adesso gli ispettori si occupano del Comune: sotto la lente di osservazione un aumento dell’indennità a otto dirigenti municipali. Riscontrata una “carenza di idonea istruttoria e mancanza di provvedimento collegiale nell’applicazione dei parametri e nell’effettuazione della ‘ripe-satura’” oltre al “mancato rispetto del divieto posto dall’articolo 9 del decreto legge 78 del 2010”, che pone dei tetti di spesa per il risparmio nella pubblica amministrazione.
Gli argomenti che il sindaco dovrebbe spiegare cominciano ad essere troppi e ben radicati a Firenze, altro che Cayman: queste le domande che meriterebbero risposta.
1. Dal 2009, anno del suo insediamento a Palazzo Vecchio, i debiti del Comune di Firenze sono aumentati del 20 per cento. Sono state approvate ben cinquantadue delibere senza il parere di regolarità contabile, motivo per cui l’assessore al bilancio Claudio Fantoni si è dimesso parlando di “insanabili divergenze sulla gestione economico finanziaria”. Non crede di aver esagerato?
2. La gestione della Provincia di Firenze, di cui è stato presidente dal 2004 al 2009, è già valsa una condanna della Corte dei conti per 50 mila euro di danno erariale, di cui 14 per sua diretta responsabilità. La Corte dei conti sta accertando anche la situazione di Florenze Multimedia, la mega struttura di comunicazione, in capo alla Provincia, che lei ha creato nel 2005; perché, come segnalato dal Tesoro, ha autorizzato “contratti, convenzioni, affidamenti al lordo, il cui importo triplica quello dei contratti di servizio di base”: per una spesa totale di 9.213.644 euro. Se queste sono storie del passato, si arriva anche all’oggi; sempre la Corte dei conti indaga sugli aumenti decisi lo scorso giugno, tra le 100 e le 200 euro nette, per otto dirigenti e direttori d’area. Si può parlare di gestione disinvolta di soldi pubblici? 3. Matteo Spanò è il presidente dell’associazione Museo dei ragazzi, a cui il Comune versa un contributo annuo di 600 mila euro. Il Museo dei ragazzi organizza, ad esempio, la notte tricolore, il 16 marzo 2011, e affida la comunicazione alla Dotmedia. Ma la Dotmedia è dello stesso Spanò e di Alessandro Conticini, quest’ultimo socio della famiglia Renzi. Non crede sia inopportuno?
4. Potrebbe apparire inopportuno anche che Maria Elena Boschi sia contemporaneamente coordinatrice dei suoi comitati elettorali per le primarie e consigliere d’amministrazione di Publiacqua, una partecipata del Comune di Firenze.
5. Lei piace a destra, non si fa problemi a chiedere anche quei voti: “Così si vincono le elezioni”. Ma potrebbe apparire eccessivo aver piazzato proprio Carlo Bevilacqua (il capo del Pdl in Provincia quando Renzi era presidente) alla guida di Firenze Parcheggi. Non correremo il rischio, con lei premier, di ritrovarci Angelino Alfano ministro?
6. Recentemente ha detto che “Sergio Marchionne ha tradito gli operai”, scatenando una guerra a distanza contro il manager Fiat, che ha risposto goffamente: “Renzi è sindaco di una piccola e povera città”. Ma nel 2010 proprio lei spiegò a Enrico Mentana che, “senza se e senza ma”, avrebbe votato a favore dell’accordo sottoscritto da Fim e Uilm, accordo peggiorativo delle condizioni di lavoro e di vita degli operai Fiat. Non ha mai detto una parola in solidarietà alla Fiom e ai lavoratori tesserati a quel sindacato che Marchionne, senza se e senza ma, ha discriminato. La sua idea di liberismo prevede la rottamazione di Marchionne, ma anche della Fiom? 7. A Firenze era pronta la delibera per realizzare un cimitero per i feti. Opera che lei ha deciso di congelare in vista delle primarie. Infatti evita di esprimersi sui diritti civili come si eviterebbe la peste. Si sente condizionato dai suoi legami con Comunione e liberazione e con l’Opus dei? Se così non fosse, potrebbe spiegare agli elettori cosa pensa della legge 40, dell’aborto, dei matrimoni tra persone dello stesso sesso e dell’adozione da parte di genitori omosessuali?

La Stampa 21.10.12
Marino: “Sto con il segretario È più autorevole”
“Nel programma del sindaco solo riferimenti generici su salute e diritti”
di Car. Ber.


L’ex sfidante Il presidente commissione sul Servizio sanitario Ignazio Marino ha sfidato Bersani nel 2009 nella corsa alla segreteria del partito. Allora arrivò terzo con il 12,5 per cento dei consensi dietro Bersani che vinse e Dario Franceschini
Professor Marino, lei ha deciso di sostenere Bersani che alle scorse primarie è stato un suo avversario. Perché?
«La situazione è diversa da quella del 2009: qui si sceglie il miglior candidato riformista per la premiership in un momento storico in cui attraversiamo la più grave crisi economica dal 1930. Quindi una posizione di grande responsabilità e chi si sente di assumerla deve avere un’autorevolezza tale da garantire agli italiani una fase di crescita, di orgoglio e di sicurezza. E sostengo Bersani anche per spingerlo più avanti sulla cultura del merito: chi lavora e ha dei risultati va confermato, chi sta in Parlamento anche solo da tre anni senza aver fatto nulla torni a fare il suo lavoro».
E cosa non la convince di Renzi?
«Innanzitutto bisogna restituire agli italiani un interesse per qualcosa, la politica, che la corruzione ha reso disgustosa. Viviamo un ritardo non solo sui temi economici: l’Italia, che io vedo dentro l’Europa del terzo millennio, deve tener conto che i diritti civili e sociali non sono una concessione. Il Pd del 2009, rispetto a parole chiave come laicità, unioni civili, cultura del merito, balbettava. Sul testamento biologico, dopo infinite riunioni, si disse che il Pd aveva una posizione “prevalente”, non ce lo dimentichiamo. Io chiedevo dei sì e dei no: due persone dello stesso sesso che si amano hanno gli stessi diritti? Una bimba che nasce in Italia è italiana, oppure no? Possiamo essere liberi di scegliere come curarci in ogni fase della vita? Ho soppesato le risposte di Bersani e credo che il Pd ora su questi temi sta dando dei sì e dei no netti. Dicendo addirittura che saranno quelli sui quali farà le prime leggi una volta al governo. Renzi ha derubricato questi nodi a polemiche laiciste... »
Insomma, è troppo vago sui diritti.
«Beh, mi ha sorpreso sentirgli dire che sul testamento biologico basta un registro. Vuol dire che non comprende che in un paese come il nostro servono delle leggi. Riscrivere la legge 40 perché chi ha meno soldi possa avere un bambino anche in Italia e non debba essere discriminati rispetto a una coppia più ricca, non è una polemica laicista. Aprire alla ricerca sulle cellule staminali embrionali, sugli embrioni abbandonati nelle cliniche per l’infertilità, non è una polemica laicista: in Inghilterra ci sono persone che con quei trapianti stanno guarendo da una maculopatia della retina che li aveva resi ciechi. Chi si proietta a Palazzo Chigi non può dimenticare questi diritti sociali e civili delle persone».
E sulla sanità, come si distinguono i programmi di Bersani e di Renzi?
«Basta leggere le poche righe on line molto generiche di Renzi sulla salute, rispetto al nostro lavoro che Bersani ha riconosciuto come punto cardine... La salute costituisce l’80% dei bilanci regionali e comporta delle scelte. Non si può dire genericamente “la salute per tutti”. Tagliare miliardi di euro sulla sanità pubblica significa che alle Molinette di Torino non c’è più acqua da bere per i malati la notte, se la devono comprare. Sanità non significa dire “voglio che tutti stiano bene” ma “cosa fare, con quali risorse e con quali tempi”. Nei documenti preparati nel Pd ci sono percorsi precisi in cui sono indicate risorse e spese non affermazioni di principio».

l’Unità 21.10.12
Le parole: fascisti antifascisti e fascistoidi
di Bruno Bongiovanni


SI È DISCUSSO, PER LA PAROLA ROTTAMAZIONE, DI UNA GENEALOGIA FASCISTOIDE. CIÒ PUÒ AVERE UN SENSO SOLO IN MERITO AL CULTO GIOVANILISTICO E GENERAZIONALE CHE IL FASCISMO PROFESSÒ. La cosa non riguarda gli aspiranti leader che vogliono diventare personalità politiche nuove, ma certo coinvolge i loro sostenitori che hanno accolto la rottamazione con antipolitico entusiasmo. Vi è oggi infatti sotto processo una generazione di baby boomers attivi nel ‘68, che hanno studiato bene e che hanno poi fatto carriera. Mangiandosi, secondo il volontarismo rottamatore, tutto. Ma proprio tutto. Poco lasciando a quanti sono venuti dopo. Alla lotta di classe (collegata al miracolo economico) è succeduta, a partire dagli anni ’80, l’invidia di classe, e poi, nel secolo nuovo, l’invidia generazionale. E fascismo, invece, che vuol dire? Accorparsi. Il fascio littorio – insieme di verghe legate tra loro nacque con l’antica repubblica romana e lo si ritrovò nella rivoluzione francese. A Bologna, nel 1883, fu costituito il Fascio della democrazia. Vi fu poi Il fascio operaio, periodico vicino al partito operaio. Nel maggio 1892, a Palermo, vennero poste le basi dei Fasci dei lavoratori, più noti come Fasci siciliani, movimento che combattè il latifondismo e che, nel 1894, fu represso da Crispi. Nel 1899, inoltre, gruppi di giovani cattolici fondarono i Fasci democratici cristiani. Mussolini nel gennaio 1915 fece gli interventisti Fasci di azione rivoluzionaria. Il significato non era mutato. Né era mutato quando, il 23 marzo 1919, vennero costituiti i Fasci italiani di combattimento. Se il termine fascista, come membro di un fascio, era già comparso nel 1897, e poi ripreso nel 1915, il sostantivo fascismo – semanticamente nullo emerse nel 1919. Nel 1920 arrivò antifascista, usato come insulto dai fascisti. Antifascismo fu presente nel 1921. Si passi ora, e ci si rivolga a tutte le età, all’antirottamazionismo.

Repubblica 21.10.12
Parisi: i finanziamenti degli imprenditori sono legittimi ma pericolosi. Io lascerò il partito democratico
“Il segretario ha paura di perdere se si citano le Cayman, spunta Unipol”
di Umberto Rosso


Onorevole Parisi, ha già annunciato che non si ricandiderà in Parlamento. Ma potrebbe anche lasciare il Pd?
«Si. Se le vicende dovessero confermare definitivamente la sconfitta delle mie idee non potrei che lasciare. Con il pianto nel cuore, per tante speranze deluse, dall’Ulivo al Pd appunto. Non potrei certo sostenere davanti ai cittadini una linea nella quale non mi riconosco. Meno che mai accettare o addirittura chiedere di chiedermi di tornare in Parlamento».
C’entrano anche le ultime polemiche, Bersani contro Renzi per il caso Cayman?
«L’esperienza americana ci insegna che neppure là le primarie sono un pranzo di gala. La speranza di non farle e la paura di farle da noi le ha rinviate oltre ogni prudenza. È così che siamo finiti nelle Isole Cayman. Vedrà le altre isole che verranno ora fuori, con contorno di Unipol, Merchant bank e a chi più ne ha più ne metta. Sarebbe meglio per tutti trovare temi più seri».
Finanziamenti da parte di imprenditori sono legittimi o no?
«Quello che è necessario è mettere alle spese tetti rigorosi e pagarle tutte con soldi offerti dai cittadini in modo trasparente. E computare oltre ai soldi anche le risorse messe di fatto a disposizione dalle strutture dei partiti. Tutto il resto può essere legale ma è sicuramente pericoloso».
Deluso dalle regole per le primarie?
«Ancora non le conosco nel dettaglio. So solo che si è evitata la soluzione più semplice. Prendere il regolamento delle primarie preno
cedenti ed applicarlo tale e quale. Condivido la scelta dei due turni. Tutto il resto mi lascia perplesso. Sa di paura di perdere. Di paura della democrazia e della partecipazione».
Teme primarie blindate?
«Votare per la scelta di un candidato ad una carica inesistente, è una domanda che non ha ancora una risposta. Dalle elezioni qualcuno uscirà certo per primo, sia
esso un partito, una lista, o una coalizione. Che il vincitore possa poi dar vita ad un governo e il suo leader possa mai diventare premier è un’altra cosa».
I giochi veri insomma si faranno solo dopo?
«Non è un caso che Casini e D’Alema dicono da sempre che si deciderà in Parlamento dopo il voto. A causa della vergognosa vicenda della legge elettorale la gara è iniziata senza che si sappia se e dove sta il traguardo. Ma anche se le primarie non fossero serie, abbiamo comunque il dovere di prenderle sul serio. Resta l’unico strumento per superare il pantano nel quale è finita la nostra democrazia. A destra e a sinistra».
Nell’annuncio di guerra lanciato da D’Alema c’è chi ha letto una minaccia di scissione.
«Una minaccia di certo. Di scissione non so. Bisogna tuttavia riconoscere che nel caso era una risposta ad un’altra minaccia. Rottamazione non è certo una parola gentile. Senza la sua violenza forse Renzi non avrebbe bucato. Sarebbe stato meglio tuttavia che avesse posto il problema della linea di D’Alema, non quello della sua persona. Ce ne sarebbe stato egualmente abbastanza».
Ma tra Bersani e Renzi alle primarie lei chi sceglierà?
«Il voto lo darò e lo dirò alla fine. Solo la sfida temeraria di Renzi ha reso vere le primarie, e solo l’intelligenza di Bersani possibili e senza Vendola non sarebbero state mai di coalizione. Spero proprio che non si riducano ad una contesa sul Pd ma crescano come un confronto sul futuro del Paese».
La sua preoccupazione qual è?
«Che si trasformino in uno scontro tra il Partito e i nemici del Partito. Sarebbe il tradimento dello spirito delle primarie. Un altro tradimento, assieme al grave arretramento sulla legge elettorale prodotto a mio parere dalla linea di Bersani. Non credo che riuscirei a restare ancora nel Pd».

Repubblica 21.10.12
E scatta anche la corsa agli intellettuali Gregotti con Pierluigi, Baricco con Matteo
Ecco come si divide la “sinistra culturale” in vista della sfida
di Goffredo De Marchis


ROMA — «Non mettete miei amici o gente che è stata già al governo. E il manifesto deve girare l’Italia, non voglio una roba da salotto ». Pierluigi Bersani ha affidato allo storico Miguel Gotor il dossier «intellettuali» con queste semplici regole d’ingaggio. La raccolta di firme è partita da qui e si è concretizzata in un documento scritto dallo scienziato della politica Carlo Galli. Documento che in effetti viene presentato in giro per il Paese, è aperto ad altri contributi, punta a radunare intorno a sé altre firme, centinaia possibilmente. È il tentativo di recuperare il rapporto della cultura con la politica. Con la sinistra, segnatamente. Ma fuori dalle logiche del circuito chiuso che avrebbero ricordato l’epoca dell’«intellettuale organico » o dei «firmaioli» come li chiamava Montanelli. Manifesto dei professori forse sarebbe stato un nome legato meno a formule del passato e più alla stagione del governo tecnico. Temerariamente è rimasto «manifesto degli intellettuali ». Ma non cambia la sostanza: dev’essere «alto» e popolare.
Matteo Renzi non farà niente del genere. Vuole distinguersi anche in questo campo. Nuovo contro vecchio. Il «manifesto» è un’idea da rottamare. Ma non disdegna gli endorsement culturali. Con Alessandro Baricco i contatti sono quasi quotidiani. «I suoi consigli mi aiutano molto», dice il sindaco. Dalla sua parte sono schierati il pratese e vincitore dello Strega Edoardo Nesi, il regista Fausto Brizzi che gli cura la scenografia del tour elettorale. Da Jovanotti Renzi si aspetta, prima o poi, una piena dichiarazione di sostegno. Affacciati alla finestra, candidato mio. I professori latitano e Renzi non li cerca. Ma uno l’ha trovato per caso ed è un nome importante della sinistra storica, altro che delusi del Pdl. Biagio De Giovanni, padre dei riformisti italiani, filosofo, non ha paura della rottamazione, anche se va per gli 82 anni. «C’era bisogno di una rottura e Renzi la sta interpretando benissimo».
Non è comunque questo il mondo del sindaco. Il suo resta quello del web per il quale sono molto più efficaci figure mitiche come Baricco o idoli come le rock star. Il presidente di Assomusica gli ha promesso una manifestazione del mondo della canzone. E, come per la cena con la finanza, Renzi non esclude di organizzare un happening con gli intellettuali. Senza chiamarli così.
Bersani invece è affezionato al manifesto di Galli. Lo considera quasi uno strumento di propaganda. Nel sito TuttixBersani ha un posto d’onore al pari degli slogan,
del logo, dei flash sull’ultima dichiarazione. Lo ha voluto intergenerazionale, giovani e meno giovani. Per dire, c’è l’architetto Vittorio Gregotti che ha 85 anni e l’italianista Claudio Giunta che ha esattamente la metà degli anni. Ha voluto un mix di culture dove possono convivere lo storico del Concilio Vaticano II Alberto Melloni e i «comunisti» Alfredo Reichlin e Beppe Vacca. Lo ha preteso con tante donne: tra le altre spiccano Nadia Urbinati, Michela Marzano e meno conosciuta ma di sicuro avvenire la vicepresidente dei teologi italiani Serena Noceti. Se doveva essere un miscuglio sembra riuscito perché tra i firmatari emerge anche una spaccatura nel circolo del Mulino. L’ha scovata il quotidiano Europa sottolineando che i muliniani Galli, Dell’Aringa, Paolo Prodi, De Cecco e Veca (per citarne alcuni) sono nell’elenco dei 48 ma il direttore del mensile Michele Salvati appare molto più vicino a Renzi. Le primarie come rimescolamento di carte, idee, progetti, vissuti: non è questo il senso ultimo della partecipazione?
Il corteggiamento agli intellettuali non è nel suo dna, ma Renzi pare sentire la lacuna e prepara qualcosa alla prossima Leopolda che lo lancerà verso lo sprint finale. Bersani chiede ai suoi 48 di mettere gambe in spalla e diffondere il documento. È in qualche modo un taglio con il ventennio berlusconiano che pure fu attraversato dal rovello sugli intellettuali, dal bisogno di rompere l’egemonia culturale della sinistra. Finì con la candidatura di alcune foglie di fico professorali che, delusissime, si fecero presto da parte. Nichi Vendola, il terzo uomo (ma con precedente di vittorie clamorose), ha la cultura al centro in alcune scelte di programma e di luogo. I primi due punti del suo progetto in fieri sono la scuola e il ministero della creatività. Ha esordito a Ercolano, sito archeologico che alcuni considerano superiore a Pompei e continuerà a seguire il filo della storia e della cultura. Il regista Gianni Amelio lo ha definito «il nostro oracolo» a un incontro con il mondo del cinema, Serena Dandini e Rocco Papaleo sono altri due fan nel mondo dello spettacolo. Ma la campagna del governatore è appena partita e agli intellettuali Vendola non rinuncerà.

Repubblica 21.10.12
Come votare alle primarie e alle urne di aprile
di Eugenio Scalfari


LA SETTIMANA che oggi si chiude è cominciata a Bruxelles, si è spostata a Roma tra Palazzo Chigi e il Senato, si chiude con le primarie del Partito democratico, precedute dal ritiro di Veltroni dalla carica parlamentare e da quello più “rabbioso” di D’Alema. Nel frattempo il berlusconismo continua a precipitare nel nulla, con gli ultimi sondaggi che danno il 5 per cento ad una lista guidata dal Silvio in versione Santanché. Enrico Mentana direbbe, come fa tutte le sere preannunciando i titoli del suo telegiornale, che c’è una mole di fatti drammaticamente interessanti, ma questa volta è proprio così.
Le conclusioni di Bruxelles penalizzano la Spagna: la Merkel ha dovuto accettare che la vigilanza della Bce su tutto il sistema bancario europeo abbia inizio alla fine del 2013 e sia compiuta nel 2014, ma ha sentenziato che nel frattempo non si estenderà alle banche spagnole. Ciò significa che il Tesoro spagnolo dovrà finanziare le proprie banche ormai prive di liquidità facendo aumentare il debito pubblico.
La domanda è questa: la Cancelliera tedesca esprime un’intenzione o ha il potere di trasformare l’intenzione in un precetto esecutivo? La risposta è no, per diventare esecutiva l’intenzione deve esser fatta propria dalla Commissione europea e questo finora non è avvenuto. L’Italia e la Francia non hanno alcun interesse a veder lievitare il debito di Madrid che è anche alla prese con le richieste di fondi dalla Catalogna e da altre regioni di quel paese. La questione è quindi aperta e Monti e Hollande dovranno impegnarsi al più presto su questo terreno.
* * *
Monti dal canto suo ha ricevuto una pagella sostanzialmente positiva dalla Commissione per quanto riguarda la sua legge di stabilità, ma la medesima pagella è stata invece accolta con molte riserve dai partiti che lo sostengono in Parlamento.
Le critiche, specialmente del Pd, riguardano vari punti di notevole importanza: le detrazioni con un tetto troppo basso, l’aumento dell’1 per cento dell’Iva che annulla di fatto la diminuzione dell’Irpef, l’assenza di provvedimenti a favore dei redditi al di sotto degli ottomila euro. Il governo non si oppone a eventuali modifiche nel corso dell’iter parlamentare purché i saldi restino invariati. In questo caso la domanda riguarda le alternative di copertura: ci sono o non ci sono?
Le alternative ci sono: una maggiore incisività nella lotta contro l’evasione (anche la Commissione europea ci incita a procedere con più energia su questo punto); tagli più consistenti sulle spese correnti, sia quelle delle forze armate sia quella dei contributi alle imprese; il calo degli oneri sul debito pubblico che, a causa della discesa dello “spread”, sono diminuiti di oltre cinque miliardi secondo le ultime stime.
Le cifre complessive di questi interventi sono molto consistenti; il recupero dell’evasione potrebbe fornire dieci miliardi in più del previsto, dei cinque miliardi ricavabili dal calo degli interessi abbiamo già detto; lo sfoltimento dei contributi alle imprese e la riduzione di spesa delle forze armate possono fornire economie fino ad almeno 50 miliardi.
Naturalmente la tempistica richiede parecchi mesi, ma siamo ad un totale realistico attorno ai 70 miliardi. C’è dunque spazio sia per cancellare l’aumento dell’Iva, sia per dare sollievo ai redditi di povertà, sia infine per ridurre il cuneo fiscale attuando per questa via un incoraggiamento alla crescita in attesa che la riforma delle pensioni e le liberalizzazioni entrino a regime.
A rinforzare questa politica economica in sostegno dell’economia reale si tenga presente la previsione (ufficiale) d’una diminuzione del fabbisogno di 40 miliardi nel 2013, con ripercussioni sull’andamento del debito nonché la cessione di alcuni “asset” alla Cassa depositi e prestiti per rendere finalmente esecutivi i crediti vantati dalle imprese nei confronti della pubblica amministrazione.
Cogliamo l’occasione di questo “panorama” per osservare che la diminuzione dello “spread” non è, come molti vorrebbero far credere, uno specchietto per allodole ma un fenomeno estremamente positivo per l’economia reale: riduce gli interessi sul debito pubblico e per conseguenza riduce anche l’interesse praticato dalle banche alla clientela e aumenta la propensione degli investitori esteri a sottoscrivere titoli e obbligazioni pubbliche sul mercato finanziario.
Ciampi a suo tempo stroncò la crisi finanziaria e valutaria che stava soffocando la nostra economia operando unicamente sull’altezza del tasso di interesse. Monti e Grilli stanno anch’essi procedendo su quel terreno che Ciampi aveva indicato. Le forze politiche che respingono come inefficace la cosiddetta agenda Monti guardino più a fondo a questi risultati prima di emettere giudizi temerari.
***
Nell’agenda così “questionata” c’era anche la lotta alla corruzione. Il ministro della Giustizia si è impegnato e ne è uscita una legge che ha ottenuto il voto favorevole del Senato e ora sarà discussa alla Camera dove il percorso è più incerto.
La Severino ha spiegato in un’ampia intervista al nostro giornale il perché della sua soddisfazione per quella legge, ha riconosciuto la validità di alcune critiche ma ha spiegato che le lacune evidenti del provvedimento in discussione non sono errori ma lacune volute che troveranno posto in un altro disegno di legge.
Questo è il pensiero della Severino ma, con tutto il rispetto per le opinioni del ministro, noi la pensiamo diversamente come ha scritto ieri Ezio Mauro.
È comprensibile il rinvio ad altro provvedimento (purché sia presto redatto e presto trasmesso al Parlamento) del ripristino del reato di falso in bilancio e di riciclaggio, ma non altrettanto per la riduzione della pena, e della prescrizione nel reato di concussione per induzione, spacchettato da quello per costrizione che si verifica molto più raramente.
La realtà è che quella norma avrà l’effetto di salvare molti concussori e di estinguere molti processi. Se entrerà in vigore costituirà anche un ostacolo alla sua successiva eventuale revisione avendo posto in essere un’attenuazione punitiva “pro reo” che sarà difficile capovolgere.
Almeno su questo punto, di estrema attualità, il governo dovrebbe emendare la legge o accettare eventuali emendamenti proposti dalle forze politiche più sensibili ai reati di cui si discute e sui quali c’è una profonda diversità tra i partiti dell’attuale maggioranza.
La neutralità del governo non può e non deve essere un limite alla sua azione su un terreno che investe in pieno non soltanto principi di moralità ma infligge anche pesanti danni all’economia e alla competitività dell’imprenditoria italiana.
Quest’ultima considerazione chiama in causa la produttività delle aziende, problema centrale della nostra crisi. Sembrava che le parti sociali stessero per raggiungere un accordo sul tema della contrattazione di secondo livello (aziendale) rispetto al contratto nazionale, ma poi tutto è saltato per iniziativa (corporativa e lobbistica) della Rete imprese e dell’Api e per l’opposizione della Cgil.
Il governo su questo punto è in regola: ha stanziato un miliardo e 600 milioni per detassare i salari se l’accordo ci sarà. Con tempi così grami opporsi all’accordo è un vero e proprio atto di autopunizione, sia da parte delle imprese sia del sindacato massimalista e populista in una fase storica che non consente errori così macroscopici.
Speriamo che le teste inutilmente calde si ravvedano, almeno di fronte al concreto rischio di essere abbandonate dai loro stessi seguaci.
***
Qualche parola per concludere questa rassegna, sullo stato dei partiti.
Il Pdl di fatto non c’è più. Il suo fondatore e capo non sa e non pensa. Ci vuole uno strappo, ha detto Giuliano Ferrara in un’intervista al nostro giornale. Ma non si capisce chi debba farlo e con quali obiettivi. Mantenere la Polverini ancora in circolazione non è cosa tollerabile: il ministro dell’Interno sa bene che la norma di legge in proposito è chiara: con un Consiglio regionale sciolto le elezioni debbono essere celebrate entro novanta giorni. O lo fa la Polverini o lo fa un commissario nominato dal Prefetto o dallo stesso ministro dell’Interno. Perciò la Cancellieri deve muoversi; assistere passivamente allo sperpero continuo e illegittimo di denaro pubblico la renderebbe corresponsabile d’uno spettacolo vergognoso.
Formigoni, con tutte le nefandezze che ha sulle spalle, lo strappo l’ha fatto lui: vuole indire le elezioni da celebrarsi entro l’anno. Una volta tanto è uno strappo salutare. Il centrosinistra indichi un candidato adeguato. Si può. L’avvocato Ambrosoli sembra la persona giusta e non soltanto per l’onorato nome che porta.
Sulle primarie del Pd esprimo una mia personale opinione. Non voglio entrare nel dibattito su Renzi, ne ho già parlato altre volte e non aggiungo nulla al già detto. Ma una cosa sì, deve essere chiara perché non è un’opinione ma un fatto: chi ha messo concretamente in moto queste primarie democratiche, il cambiamento che ne deriva e la mobilitazione che si sta verificando attorno ad esse, è stato Pierluigi Bersani quando ha deciso di abolire l’articolo dello statuto del partito che prevedeva il segretario come unico candidato alle primarie di coalizione.
L’Assemblea del Pd ha approvato quasi all’unanimità che le primarie di coalizione fossero aperte a tutti. Bersani ha messo quindi in gioco se stesso con ripercussioni sia sui sondaggi che vedono il Pd in crescita, sia sugli altri partiti nessuno dei quali prevede le primarie.
La rottamazione fa parte d’un lessico più barbarico che democratico, ma ormai non è più quello il tema e lo stesso Renzi ha dovuto riconoscerlo.
Ora si discutono programmi, contenuti, visioni chiare del bene comune. Un partito di riformismo radicale come quello che Veltroni disegnò al Lingotto di cinque anni fa non può che privilegiare l’eguaglianza nella libertà e non la libertà senza l’eguaglianza. Non può ignorare i vincoli che abbiamo assunto con l’Unione europea e deve battersi per un’Europa federata con le relative cessioni di sovranità da parte di tutti gli Stati nazionali che ne sono membri.
Voteremo in aprile per la democrazia italiana ed europea e per lo stesso obiettivo gli elettori del Pd voteranno il 25 novembre alle primarie.
Il sermone è stato un po’ lungo, spero almeno che sia stato chiaro.

il Fatto 21.10.12
Le due facce del governo Monti
di Furio Colombo


Non so se avete notato un fatto insolito: questo governo italiano, detto dei tecnici, ha due facce. Una è quella del presidente del Consiglio che va per il mondo ascoltato e rispettato e, se necessario, mette d'accordo potenti alleati che un tempo (parlo di Berlusconi) neppure notavano la presenza dell'Italia. La seconda è quella dei ministri (e vivaci sottosegretari come Polillo) che vanno ai talk-show e sembrano, anzi sono il passato, un po’ queruli, un po’ dissonanti (dicono o anticipano cose che non dovrebbero) e presentano un altro mondo, rispetto a quello che l’Europa riceve con rispetto e Obama consulta regolarmente al telefono. Cerco di precisare. Ci hanno appena fatto approvare una legge “per il miglioramento delle prestazioni sanitarie” che è un vecchio treno che corre su un vecchio binario.
VI TROVATE intatta la immorale indifferenza italiana per i disabili (si era parlato addirittura di tagli all'accompagnamento), i risparmi sbadati sugli insegnanti di sostegno (vuol dire infinite giornate scolastiche di sofferenza, dolore, umiliazione per i piccoli disabili senza sostegno e per i loro disperati insegnanti), e il vecchio tipo di “spending review” sugli ospedali che si fa sui libri contabili, ma non in corsia e nei corridoi del pronto soccorso, come se i pazienti fossero clienti un po’ petulanti e i medici dipendenti esosi da tenere a bada e, in ogni caso, da non consultare. Sono curioso del nuovo incarico dato a Bondi (il grande contabile che ha salvato quel che si poteva salvare di Parmalat) che diventa commissario alla Sanità della Regione Lazio. Perché, pur con persone migliori, si continua a usare il criterio del taglio di spesa, non del cambio di visione (che spetta al governo, non all'esperto). Ora il governo, il ministro Balduzzi in questo caso (mi riferisco al dibattito alla Camera e poi al voto sulla legge per migliorare la sanità) è apparso come qualcuno che non vede l'ora di liberarsi di una valigia pesante e cerca dove lasciarla, non con chi lasciarla o che cosa farne. Certo, mi rendo conto che si incrociano due situazioni. Una è che il Parlamento non può cambiare nulla delle leggi così come arrivano dal governo, altrimenti c'è il rischio di spezzare in un punto o nell'altro il friabile equilibrio dei rapporti europei.
PERCIÒ i parlamentari, anche quelli volonterosi, sono costretti e produrre lunghe file di ordini del giorno un po’ patetici perché o vengono respinti dal governo o non contano nulla neppure se accettati. Ma è la seconda situazione a preoccupare: chi ha detto che leggi severe debbano essere anche brutte, sbadate e ingiuste? Per brutte intendo dire che puntano sempre e solo a toccare le quantità, senza alcun tentativo (che pure un buon personale laureato e specializzato potrebbe fare) di cambiare la distribuzione. Dico “sbadate” per riferirmi alle occasioni frequenti in cui non sono stati notati fatti ovvi ma clamorosi, che lasciano gente in strada senza lavoro e senza pensione. Ma è troppo facile tornare sempre e solo sulla storia, già abbastanza tragica, degli “esodati”. È giusto notare che chiudono e licenziano fabbriche attive e produttive che bravi banchieri dovrebbero essere in grado di salvare trovando nel mondo (è il loro lavoro e la causa dei loro ingenti bonus) i compratori adatti. Ma nessun banchiere, fra i celebri membri del governo, sembra in grado di farlo. E credo che si possano definire “ingiuste” leggi o parte di leggi in cui stai bene attento a non ritoccare il peso secondo la forza di chi è chiamato a pagare. Lo ammetto, far pagare i poveri è più facile. Ma il senso di solitudine del Paese è dovuto al fatto che un limitato gruppo di ricchi e di manager beneficerà del salvataggio, che prima o poi ci sarà, pagato quasi interamente dagli ex lavoratori, dai quasi poveri e dai veri poveri. Anzi, andrà per il mondo a farsene un merito, mentre a chi ha perduto casa, lavoro e futuro dei figli (e persino l’insegnante di sostegno, se il figlio è disabile) verrà detto di rimboccarsi le maniche perché adesso c'è da riguadagnare il tempo perduto.
DUE EVENTI confermano questo desolante “secondo volto” di un governo che pure ci fa fare bella figura nel mondo. Uno è la legge sulla corruzione. Non mi riferisco a vita e prestigio del ministro Severino, mi riferisco alla legge così come è venuta fuori dopo infinite pressioni di commissione e nella “maggioranza”: manca il falso in bilancio, la prescrizione è come una indulgenza plenaria, la concussione è punita con pene lievissime, l’incriminazione della vittima protegge il reato, al punto che anche il Csm di Vietti si dichiara meravigliato. Ma un’altra, strana e anche un po’ ridicola, “nuova norma” è il nuovo orario imposto improvvisamente agli insegnanti di tutte le scuole, ovvero 24 ore settimanali, in più senza retribuzione. Tutto ciò non ha niente a che fare con la crisi. Volendo, possiamo anche mandare a casa un po’ di malati gravi, abolire le dialisi, tenere ferme le ambulanze. Oppure: volendo, possiamo rivenderci tutti gli F-35 a decollo verticale, di cui non abbiamo urgente bisogno, e sanare il bilancio. Insomma, mentre il vertice del governo sembra avere una visione chiara dell'Europa e del momento, il resto del governo (“il secondo volto”) sembra non sapere e non voler sapere nulla della sopravvivenza italiana. Chi mi spiegherà questi due volti da film di Hitchcock?

l’Unità 21.10.12
Equità e scuola: manovra sbagliata
di Guglielmo Epifani


Le polemiche che sono seguite al varo della legge di stabilità sono tutte molto fondate. Sono soprattutto due gli aspetti che proprio non vanno.
E che debbono essere cambiati in Parlamento: le conseguenze di equità sociale della manovra, gli ulteriori tagli operati nel campo della scuola. Non risulta equa una scelta che aumenta l’Iva per tutti e una riduzione delle aliquote fiscali che lascia fuori dai benefici la parte più povera e indigente della popolazione, sulla quale inoltre si scarica anche l’improvvida decisione di rendere permanente l’aumento delle accise sulla benzina.
Da un lato quindi prezzi che aumentano anche in presenza di un calo continuo dei consumi, dall’altro salari e pensioni fermi, oltre la disoccupazione che sale, con benefici fiscali che valgono solo in parte, e per una parte, a compensare la caduta del potere d’acquisto.
Il gioco sulle detrazioni e sulle franchigie, e quello sui tempi diversi tra vantaggi e svantaggi fiscali serve soltanto a compensare la riduzione del gettito, creando un precedente sbagliato di retroattività delle imposte assolutamente indigeribile per i contribuenti onesti in una fase di aumento della pressione fiscale. La conclusione di tale ragionamento sembra evidente: se si vuole più equità e anche più senso logico è preferibile la strada che porta a mantenere le aliquote dell’Iva invariate. Un’altra strada sarebbe a portata di mano, ma richiederebbe, insieme ad un credito per gli incapienti, di concentrare tutte le risorse per una riduzione del cuneo fiscale sul reddito da lavoro o almeno su quello dei giovani assunti a tempo indeterminato, convogliando qui anche le risorse previste per la detassazione della produttività. Gli interventi sulla scuola, in tutti gli aspetti, confermano e ripropongono una politica sbagliata. Un conto è intervenire sugli sprechi e inefficienze che vi sono, altro è continuare a tagliare risorse in un settore dove la spesa pro capite è già tra le più basse in Europa, e dove invece occorre, proprio per la pesantezza della crisi, investire di più e meglio. Il risultato che si ottiene per questa via è poi paradossale, perché nel campo formativo se si supera la soglia della sostenibilità finanziaria, il risultato non è quello di una maggiore efficienza ma esattamente il suo contrario, più inefficienze, più disorganizzazione, meno qualità e assenza di qualsivoglia programmazione di medio periodo.
Anche qui quindi il Parlamento è chiamato a cambiare il testo del governo e a evitare un ulteriore aggravamento della condizione della nostra scuola, di chi vi lavora e di chi ha diritto ad essere formato.
Chiarire e selezionare la natura dei cambiamenti, nell’iter parlamentare, è questione assolutamente rilevante. La portata delle critiche infatti è molto più ampia, e molto spesso in misura fondata. Il rischio che ne deriva però è altrettanto delicato. Se tutto si riducesse a un bilanciamento tra modifiche e conferme, a togliere qualcosa da una parte e ad aggiungere da un’altra senza un criterio di guida e di priorità, il rischio di non fare scelte diventerebbe molto probabile e con esso anche la conferma di un segno negativo della manovra. Si pone poi il tema dei saldi e il punto dei possibili risparmi del costo del debito. Se appare difficile nel quadro presente modificare i primi, si potrebbe però chiarire da subito l’eventuale destinazione dei secondi, in modo che problemi non risolvibili nel breve possano esserlo nel futuro, oppure, e sarebbe meglio, scegliendo con forza una destinazione delle risorse nel senso del sostegno a politiche e fattori di crescita.
Non siamo fuori dalla crisi e anche affermare che si intravede una via di uscita non può nascondere che per l’occupazione ci aspettano ancora tempi molto difficili. La manifestazione della Cgil è stata l’occasione per toccare con mano le difficoltà e spesso la disperazione di tante comunità e di tante famiglie, e per riportare nel verso giusto i termini del confronto pubblico, le scelte di imprese e responsabilità politica, e la stessa raffigurazione della condizione del mondo del lavoro.

Repubblica 21.10.12
L’ex governatrice del Lazio si è dimessa da un mese ma non convoca le elezioni
Il Viminale potrebbe a giorni sbloccare la situazione con una norma
Cancellieri, pressing sulla Polverini: votare subito
di Mauro Favale


ROMA — Ha impiegato 3 giorni per formalizzare le sue dimissioni annunciate in conferenza stampa. Poi, da allora, dal 27 settembre, è andata un paio di volte in tv, ha concesso qualche intervista, ha rinnovato 9 contratti ad altrettanti dirigenti di sua fiducia, ha programmato altre 2 nomine e ha impegnato circa 300 milioni di euro tra delibere, bandi e finanziamenti vari.
Di mandare il Lazio alle urne prima di Natale, però, Renata Polverini non ha alcuna intenzione, sostenuta dall’Udc e dall’obiettivo di preparare il suo sbarco in Parlamento dalla poltrona di governatrice, seppur dimissionaria. A nulla, finora, sono valse le pressioni che arrivano dall’opposizione (ieri è intervenuto il segretario Pd Pierluigi
Bersani chiedendo di «colmare il vuoto istituzionale»), dagli industriali e finanche dal Pdl che per bocca del “capocorrente” in Lazio, Fabio Rampelli, preferisce votare subito. La presidente, però, al contrario di Roberto Formigoni — pronto a chiamare i lombardi alle urne già a dicembre — resiste appellandosi a una serie di cavilli tecnico- giuridici che le impedirebbero di convocare le elezioni.
Proprio per questo, per togliere alla presidente gli ultimi appigli, il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, sta studiando la soluzione al problema. Secondo la legge, infatti,
l’unica che può portare il Lazio al voto è proprio la Polverini. E allora, la titolare del Viminale avrebbe pronta una norma interpretativa del decreto 174 (quello che taglia alle Regioni i costi della politica) che dovrebbe definitivamente sciogliere gli ultimi dubbi e confermare che si può andare al voto entro 90 giorni dallo scioglimento del consiglio regionale (e dunque entro la fine dell’anno) per eleggere 50 consiglieri, venti in meno degli attuali 70. Una norma che la Cancellieri porterà in settimana in consiglio dei ministri per un parere definitivo.
A quel punto, con l’ulteriore pressione dell’esecutivo, difficilmente la Polverini potrebbe fare finta di nulla. Negli ultimi giorni, davanti alle proteste dell’opposizione che è arrivata ad occupare per una notte il palazzo della giunta, la governatrice non ha aperto bocca. Ha solo fatto sapere che, sulla questione del voto, si sta «muovendo nella legalità e al sicuro da eventuali ricorsi».
Su di lei, però, pende un esposto presentato dal Movimento di difesa del cittadino che ipotizza l’abuso d’ufficio, il rifiuto d’atti d’ufficio e l’interruzione pubblico servizio. «Per evitare questi gravi reati — spiega l’avvocato Gianluigi Pellegrino — la Polverini convochi le elezioni entro fine ottobre, magari per il 16 dicembre. In caso contrario, il governo dovrebbe attivare la procedura prevista dall’articolo 126 della Costituzione, rimuoverla e convocare le urne». E mentre il candidato del centrosinistra, Nicola Zingaretti, accusa il «silenzio omertoso» della governatrice, il centrodestra naviga al buio: i sondaggi danno il Pdl al 13% e il partito non ha ancora individuato il nome dello sfidante.

l’Unità 21.10.12
Violenza e possesso: se questi sono gli uomini
di Sara Ventroni

«Ti sto osservando, stai studiando Kant», scrive Samuele a Lucia in un sms. Siamo a Palermo. I due ragazzi da qualche tempo hanno smesso di flirtare. Lucia ha rotto con Samuele ma lui non ci sta.
Allora lui la controlla, la segue, la osserva anche durante l’ora di filosofia. La minaccia con frasi cariche di presagio: «cenere sei e cenere ritornerai». Il resto è cronaca.
Leggendo i dettagli che hanno portato all’omicidio di Carmela, 17 anni, la sorella minore di Lucia che si è frapposta con il proprio corpo alla furia di Samuele, in agguato per colpire l’ex fidanzata, ci sentiamo tutti un po’ «lurker», come si dice in gergo: guardoni affamati di storie, di litigi al sangue, di tragedie. I lurker non si manifestano, non si espongono, non intervengono ma osservano, nutrendosi della vita degli altri. Un po’ come accade nel pomeriggio televisivo italiano, quando milioni di telespettatori si appassionano alle furiose litigate tra Teresanna e Francesco a «Uomini e donne» di Maria De Filippi o negli interminabili aggiornamenti di cronaca nera del primo pomeriggio di Raidue. I criminologi studiano i moventi dai profili facebook. Analizzano gli sms e la posta elettronica. Il pubblico in sala sbotta, applaude, parteggia, si indigna poi corre a dimenticare quello che non ha capito. Gli opinionisti adducono moventi, ma non hanno opinioni sulle cause dei fatti.
Da un buon ventennio abbiamo l’impressione di assistere a una grottesca messa in scena delle relazioni tra uomini e donne. Lo diciamo senza giudicare, lo diciamo sentendoci tutti parte in causa, consapevoli che a questo siamo ormai abituati, anche se questo non ci corrisponde. In prima serata i tiggì non lesinano dettagli nell’annunciare la morte sensazionale, la numero 100, di una ragazza di Palermo che ha difeso la sorella dalla furia omicida dell’ex moroso. La cosa fa notizia.
Femminicidio è una parola che pronuncia anche Salvo Sottile nel suo popolare «Quarto Grado». Fa piacere constatare che gli anchor-man si aggiornino, ma non vorremmo che l’espressione diventasse ora rubrica di palinsesto: apprendiamo che su facebook Samuele si faceva chiamare «Tigrotto» in omaggio a un peluche comprato con Lucia; guardiamo le sue foto a torso nudo, gli addominali perfetti, una leggera miopia che lo costringe agli occhiali, scaviamo nella sua storia familiare: il ragazzo è diplomato ma disoccupato. Carmela sognava di diventare medico. Aveva le media del 9. Ci concentriamo su di lei. Era una brava ragazza. Infine torniamo su Lucia: la studentessa voleva mollare Samuele, non ne poteva più delle sue attenzioni, per questo si era rivolta ai carabinieri e loro le avevano consigliato: cambia la scheda del cellulare. Noi che siamo semplici spettatori e, all’occorrenza, improvvisati ispettori di polizia sappiamo che la misura non è sufficiente. Un giorno forse ce lo spiegherà anche Barbara D’Urso, su «Pomeriggio Cinque», che interrompere la comunicazione non significa necessariamente spezzare una nèmesi culturale che vuole il maschio padrone della femmina. Giusto una settimana fa, a Torino, c’è stato un incontro sul tema del violenza sulla donne. Non si è parlato solo di femminicidio (esito estremo che giunge quando una donna decide di interrompere una relazione) ma del fondamento di possesso, di violenza e di esclusione che interroga gli uomini, le donne e la nostra democrazia.
«L’amavo più della sua vita», è il titolo della piéce teatrale scritta per l’occasione da Cristina Comencini. Il titolo si spiega da sé. Il suggerimento che ci arriva dalla due giorni torinese è di spostare lo sguardo. Come ha fatto Riccardo Iacona, che già anni fa si fece sentire con un’installazione alla Casa Internazionale delle Donne di Roma, e ora prova a fare un bilancio con il suo ultimo libro:«Se questi sono gli uomini». Nella discussione, evidentemente, va messo in conto che le donne non sono più disposte a vestire i panni delle vittime sacrificali. Lo sapeva bene Stefania Noce, giovane femminista di Se non ora quando, uccisa lo scorso 26 dicembre dall’ex fidanzato: «Le donne non appartengono a nessuno», diceva Stefania. Meditate, uomini, meditate.

La Stampa 21.10.12
Il delitto di Carmela
Cultura e coraggio per fermare la violenza
di Alessandro D’Avenia


Conosco quel quartiere e quella via. Conosco la scuola di Carmela, uno dei licei classici migliori di Palermo, nel quale l’anno scorso ho incontrato gli studenti e chissà che non ci fosse anche lei, Carmela, con quel suo viso pulito, sereno, pieno di sogni, dilaniati e dissanguati dal fendente di chi, per spiegare l’accaduto, dice: «Ho perso la testa». Non avevo dubbi. Ma il punto è che quella testa non c’è mai stata. Non è stata persa. Piuttosto nessuno ti ha aiutato a entrarci dentro. La violenza è dentro ciascuno di noi e in questo non siamo diversi da Samuele. Tutto le volte che l’uomo non accetta di averla in se stesso, la esteriorizza, la proietta sugli altri. Così è sempre stato e sarà, da Caino e Abele a Samuele e Carmela. Come spiega il grande antropologo René Girard, la violenza e il capro espiatorio (la sua vittima) sono un meccanismo da cui l’uomo non può liberarsi da solo e, infatti, proprio per salvarsi dall’autodistruzione costruisce attorno alla violenza le regole del sacro (i comandamenti) e del profano (le leggi), per arginarne (non risolverne) il deflagrare. La vittima perfetta, oggi più che mai, è la donna, innalzata da photoshop a icona di perfezione irraggiungibile e quindi a oggetto da dominare. Nella storia, per tentare di liberarsi dalla violenza che ha dentro, l’uomo ha sempre cercato di distruggere il nemico inventato all’occorrenza come bersaglio, quando invece di proiettarla fuori, questa violenza dovrebbe riconoscerla dentro se stesso e guardarla con coraggio, per poterla sgretolare da dentro, grazie a quella pietas (il riconoscimento della dignità altrui e propria), sempre più debole nella nostra cultura.
Come recuperare la pietas, l’empatia per l’altro?
Purtroppo l’incapacità di dare senso alla propria vita porta inevitabilmente a cercarne la soluzione nel consenso. Il consenso dello sguardo altrui. L’altro viene investito di una carica di assoluto che si spera possa redimere e salvare la propria mancanza di identità: dal grande fratello con il suo occhio senza pietà, alle relazioni (di lavoro, d’amore...) senza pietà. Perdere il consenso dell’altro, significa perdere in qualche modo se stessi. Senza l’altro non si è più nessuno. Questo porta all’ossessione in cui lo stesso Samuele è precipitato, con sms e minacce, precedenti al suo raptus. La sorella di Carmela, Lucia, sua ex-ragazza per lui aveva una colpa senza remissione possibile: essersi portato via Samuele, non solo se stessa, interrompendo la loro relazione. Samuele, forse, si sentiva qualcuno solo grazie o a spese di quella ragazza, non voleva tornare nel nulla di prima. La beffa blasfema dell’amore, come l’ha definito perfettamente ieri su queste colonne Mariella Gramaglia, è il potere, il controllo, il dominio. L’amore dice «per me è bello che tu esista» e accetta anche di non essere ricambiato, magari. Il potere invece dice «è bello che tu esista solo per me» e con tutti i mezzi è pronto a nutrirsi dell’altro, pur di sopravvivere, senza alcuna pietà.
Ma perché arrivare alla follia della distruzione dell’oggetto amato o dell’autodistruzione di sé? Sono storie che assomigliano alle mantidi che decapitano il partner dopo l’accoppiamento o alle falene che trovano la morte nella luce che le attira. Non siamo falene né mantidi, abbiamo l’anima, ma assomigliano a mantidi e falene quando l’anima si svuota. Dove manca il senso da dare alla propria vita, si pretende che siano le cose e le persone a determinarlo, dall’esterno, generando dipendenze e schiavitù di ogni tipo, che spesso culminano in un’overdose che distrugge o chi dipende o ciò da cui si dipende, o entrambi. È la ferrea e drammatica logica degli amori che non liberano.
Samuele ha rovinato la vita di due famiglie e la sua. Il bilancio finale non sembra razionalizzabile, ma io testardamente ho bisogno di provare a trovarne uno, per arginare il dolore della morte di una ragazza che poteva essere una mia alunna, per non ripetere gli stessi errori. Chiunque, se è stato scaricato, vorrebbe costringere l’altro a tornare (e magari userebbe la violenza fisica o psicologica, tanto fa male, se non si vergognasse di averlo anche solo pensato): il «funerale» di una storia d’amore viene rimandato tanto più quanto più quella storia d’amore dava senso ad un’esistenza personale priva di autonomia ed equilibrio.
Dico sempre ai miei studenti di «mettersi» con se stessi, prima che con un ragazzo o una ragazza, altrimenti useranno l’altro per riempire i propri buchi e non per amarlo. Sono storie d’amore con il conto alla rovescia e spesso ad esserne vittime sono proprio le ragazze (più raramente i ragazzi), disposte a passare sopra uno strattone, uno schiaffo, una minaccia, pur di non perdere quell’amore che le protegge dalle loro debolezze, con le quali invece imparare a convivere anche da sole.
È una dinamica interna all’amore, quella di poter regredire a «potere», e da questa possibilità non ci libereremo mai, se non cresciamo in autonomia e in cultura. E non è facile per nessuno, a partire da chi scrive.
Vorrei dire, soprattutto ai ragazzi che leggono queste righe, che un solo episodio di violenza in una relazione è un avvertimento: peggiorerà. L’unica cosa da fare è trovare il coraggio per troncarla, subito. L’altro non sarà salvato, cambiato, dall’amore: è quasi sempre un’illusione. Chi ha compiuto una violenza una volta, lo farà di nuovo. Ho ricevuto il racconto di una ragazza che, dopo aver rischiato di morire per le percosse ricevute dal suo ragazzo, ha accettato la proposta di lui: sparisco dalla tua vita se non mi denunci. Lei per paura di subire altro male, ha detto di sì. Quel ragazzo ora è la fuori a ripetere il giochetto con la prossima vittima.
Samuele è un ragazzo come tanti. Per lo più un sacco vuoto, muscoli da mostrare su Facebook e poca anima, un vuoto riempito momentaneamente da una ragazza più piccola e matura di lui, che magari sperava di cambiarlo. Ma poi lo aveva lasciato.
Il nichilismo affama le vite di un senso impossibile da trovare, e le nutre di risentimento, da scatenare contro la vittima più debole. E in una cultura maschilista ed erotizzata come la nostra, la donna è la vittima sacrificale perfetta, per redimersi dal vuoto in cui galleggiamo. Forse possiamo stupirci se a Mr. Grey, il personaggio più amato nelle classifiche librarie nostrane, sia possibile dire tra gli applausi: «Devi sapere che appena varchi la mia soglia per essere la mia Sottomessa, io farò di te quello che voglio. Devi accettarlo e desiderarlo... Ti punirò quando mi ostacolerai. Ti addestrerò a compiacermi»?

Corriere 21.10.12
L'ultimo tema di Carmela

«La sofferenza d'amore uccide le facoltà mentali»
di Felice Cavallaro


PALERMO — Il balordo trasformatosi nel suo assassino non sa e forse non potrebbe nemmeno capire quanto Carmela Petrucci, pur a soli 17 anni, abbia riflettuto sul rapporto «fra la sofferenza amorosa e il desiderio che può uccidere le facoltà mentali». Lo ha fatto immergendosi nella letteratura, a scuola, con un saggio sul Petrarca, con un'analisi della ballata scritta per il Canzoniere, una sorta di testamento rimasto fra le carte della sua professoressa di italiano.
Un documento che fa venire i brividi dopo i due fendenti mortali subiti per difendere la sorella Lucia, la vittima designata, raggiunta da venti coltellate, ancora ignara in Chirurgia, all'ospedale Cervello, pronta a chiedere continuamente notizie di Carmela e a ricevere le bugie di genitori e medici: «È in un altro ospedale».
Pietosa menzogna per alleviare le sofferenze di tagli profondi, netti, «come quelli di un bisturi», dice il primario che l'ha salvata, Giuseppe Termine. Una carneficina. Con un coltellaccio a doppia lama recuperato ieri in via Giordano dagli uomini del questore Nicola Zito su indicazione dello stesso assassino, Samuele Caruso, il «tigrotto» di 23 anni, come si faceva chiamare su Facebook mostrando i muscoli a petto nudo. Un'arma presa da casa sabato mattina, prima di andare al liceo Umberto e poi piazzarsi nell'androne di casa di Lucia e Carmela. Quanto basta al sostituto Caterina Malagoli per contestare l'omicidio volontario premeditato, aggravato da «motivi futili e abietti». Perché tali restano anche se Samuele offre come folle attenuante «la paura che Lucia avesse un altro».
«Vedrete che gli troveranno un bell'avvocato capace di scoprire l'infermità mentale», tuonava dubbioso e schifato ieri mattina uno studente alto e biondo appena conclusa l'assemblea tenuta con tutti i compagni di scuola dal preside Vito Lo Scrudato, pronto a recepire la richiesta dei ragazzi di attribuire a Carmela il diploma di maturità alla memoria.
Prospettiva che non può consolare nemmeno la professoressa di italiano, Francesca Bucalo, depositaria dell'analisi sulla ballata dedicata da Petrarca a Laura: «Un testo che avevo deciso di stampare e distribuire per mostrare a tutti gli allievi come si analizza un poema. Un lavoro esemplare, un modello...».
Carmela sottolinea come il poeta racconti che, quando egli stesso celava i suoi pensieri d'amore, «l'atteggiamento della donna verso di lui era gentile e il suo volto pieno di pietà», mentre «dopo la rivelazione del desiderio, Laura vela il volto e non osa più guardare il poeta». Un velo che domina, strazia e distrugge chi è privato «del "dolce lume" degli occhi dell'amata».
Al centro della poesia campeggia proprio l'oggetto del desiderio sottratto al poeta, mentre chi legge oggi, dopo il massacro di via Uditore, può correre agli equivoci, all'ambivalente interpretazione di un sorriso, all'ossessione del rifiuto culminata nel disegno della vendetta per una malintesa idea di amore non corrisposto. E, mentre lievitava il perverso atteggiamento di quel ragazzotto verso Lucia, ecco Carmela analizzare il dramma del poeta, «la profonda sofferenza provata da Petrarca perché Laura non gli rivolge più lo sguardo». Un dramma in due fasi: dai «suoni aspri, usati per mettere in evidenza il tormento e l'angoscia di Petrarca», si passa «a toni meno aspri che simboleggiano la rassegnazione del poeta, abbandonato ormai al suo dolore». Ecco la rassegnazione che l'assassino non ha mostrato, scagliandosi contro Lucia, l'«oggetto» dello sconforto, brandendo il coltello che ha ferito a morte Carmela, la sorellina pronta a fare scudo.
È il momento della riflessione, ma anche della paura che ieri ha fatto comparire tanti genitori ai cancelli per accompagnare i figli, prova di dialogo sempre più complesso. «Dobbiamo aprirci, se avessimo raccontato quel che sapevamo...», ha ammesso una compagna di classe ieri mattina, «pentita di non avere avvertito i genitori».
Tema anche questo affrontato da centinaia di palermitani scesi in piazza ieri sera a piazza Politeama, presenti i giovani dell'Umberto pronti a una fiaccolata organizzata per domani sera e a interrogarsi sulla voce rilanciata da Bianca Giammanco, leader del Movimento studentesco a Palermo, su una presunta denuncia fatta da Lucia ma rifiutata in una caserma. È solo una voce. Smentita da polizia e carabinieri. Ma basta ad alimentare l'ansia sull'ultima vittima del «femminicidio» e su minacce spesso sottovalutate.

l’Unità 21.10.12
Cittadinanza, un diritto per i nuovi italiani
di Jean-Léonard Touadi

Deputato Pd

È IN CORSO NEL NOSTRO PAESE UN DIBATTITO ACCESO SULL’ACQUISIZIONE DELLA CITTADINANZA ITALIANA DA PARTE DEI GIOVANI NATI IN ITALIA DA GENITORI D’ORIGINE STRANIERA. Un dibattito che divide la classe politica e l’agorà mediatica, mentre tutti i sondaggi d’opinione e le campagne di sensibilizzazione registrano una propensione favorevole della popolazione italiana nei confronti dei nuovi venuti in tema di cittadinanza, come dimostrato da tutte le campagne di mobilitazione promosse dal Pd e da associazioni di promozione dei diritti umani, dalle Ong e dai sindacati. Ma i palazzi della politica restano sordi alla maggioranza del Paese e sono ancora alti i muri di sbarramento alla concessione della cittadinanza ai figli d’immi-
grati.
Per gli oppositori, in effetti, la concessione della cittadinanza ai nati in Italia da genitori stranieri è un pericolo per l’identità italiana. L’Italia, per gli irriducibili della non-contaminazione, starebbe smarrendo le sue radici sotto i colpi mortali della globalizzazione e dell’immigrazione. Occorre prendere le giuste misure per salvare la gens italica insieme alla sua «civiltà». Secondo questa visione, vi sarebbe una perfetta coincidenza tra un etnos biologico italiano considerato come un’entità definita ed immutabile e una espressione culturale, frutto di questo sigillo biologico, da salvaguardare e trasmettere senza mutazioni alle future generazioni. In nome del totem dell’identità intesa come misto di sangue, patria e lingua, si nega ai bambini nati in Italia la patente d’italianità mentre la si riconosce più facilmente ai figli della terza, quarta e quinta generazione d’italiani immigrati in Canada, Australia e Stati Uniti o altrove. È la logica dello ius sanguinis che recita e prende passivamente atto che è italiano colui che può vantare una sola goccia di sangue italiano.
Un’altra visione, quella in cui ci riconosciamo è quella che mira a superare lo ius sanguinis per andare verso lo ius soli. Una cittadinanza più moderna che considera l’essere italiano non solo come un dato ereditario, ma come un’appartenenza ad una comunità basata sull’accettazione dei valori fondanti, sulla condivisione di un progetto collettivo con le sue regole e i suoi doveri, l’assimilazione di un humus culturale e linguistico tipico di quella terra. Tutte caratteristiche in possesso dei bambini nati in Italia che solo erroneamente chiamiamo immigrati poiché non si sono mai mossi dal nostro territorio. Sono nati in Italia, crescono da italiani, hanno e condividono con i loro coetanei un immaginario italiano per scoprire, al raggiungimento della maggiore età, di non essere parte della sola comunità nazionale che abbiano mai conosciuto e frequentato materialmente e culturalmente. Sono circa un milioni i bambini che vivono in Italia e che sono in questa condizione. Chiedono, esigono che sia restituita loro un’identità. Rivendicano con energia la loro appartenenza alla comunità nazionale. Italiani nel cuore e nella mente vogliono diventarlo anche dal punto di vista legale e rifiutano di dover chiedere il permesso di soggiorno per abitare la loro patria.
Si tratta di una battaglia di civiltà, una porta d’ingresso del nostro Paese nel novero dei Paesi che hanno scelto di essere più ricchi, più innovativi accettando la sfida dell’innesto. Altre grandi democrazie occidentali hanno scelto questa via (Usa, Francia, Germania...) scommettendo sulle potenzialità di una cittadinanza adatta alle dinamiche della globalizzazione la cui cifra – volenti o nolenti – è all’insegna delle connessioni, del meticciato che integra senza schiacciare, che aggiunge senza togliere.
Sarebbe sbagliato considerare il passaggio allo ius soli come una gentile concessione della maggioranza alla minoranza, quasi come un’elargizione filantropica. Per un paese invecchiato, impaurito e sempre più piegato dalla crisi economica diventata anche crisi di speranza, dobbiamo considerare i figli degli immigrati nati o cresciuti in Italia fiori profumati e cibi prelibati. La cittadinanza ai figli d’immigrati è una scommessa sul futuro, garanzia di innovazione e di capacità di dotarci del giusto alfabeto per entrare nel mare della globalizzazione. Per assicurare all’Italia una navigazione vincente, dobbiamo valorizzare e potenziare la “cultural diversity” come vantaggio competitivo nell’economia, nella cultura e nella costruzione di nuovi reti sociali.
Questa è la scommessa del Pd che ha promosso ed accompagnato nel paese e in parlamento. Bersani ha già risposto positivamente mettendo questa questione in cima all’agenda di governo della futura coalizione. Sarebbe auspicabile che altri candidati si pronunciassero con nitidezza su questo punto che rappresenta un elemento qualificante della proposta del centrosinistra dopo la lunga stagione della paura dell’alterità dei governi berlusconiani a trazione leghista.

Corriere 21.10.12
«L'Italia sono anch'io»

L'artista di strada e i 1.500 senza cittadinanza
di Alessandra Coppola


Le cose che non puoi fare sono tante, se ti senti italiano, ma non hai la cittadinanza. Te ne accorgi soprattutto quando cresci, quando entri nel mondo degli adulti. Non puoi fare il poliziotto e nemmeno il bidello. Sei laureato in Legge, ma non puoi diventare avvocato, hai l'abilitazione da insegnante ma non puoi partecipare al concorso, si vota e non puoi andare alle urne, vuoi comprarti uno smartphone e non puoi accedere al finanziamento.
I ragazzi della Rete G2-Seconde generazioni conoscono l'elenco a memoria e ieri mattina l'hanno recitato all'Arena civica di Milano. Kibra Sebhat tra gli altri, mentre aspettava che la sua faccia, in formato due metri per uno e quaranta, fosse montata su un pannello ed esposta insieme a trecento altre sul prato e sugli spalti.
Si chiama «InsideOut», il progetto dello street artist francese JR. Volti giganti e buffi, rielaborati in bianco e nero, che ridono, gonfiano le guance, sgranano gli occhi e nelle nostre città dicono: «L'Italia sono anch'io», la campagna per l'estensione della cittadinanza ai figli degli immigrati che qui nascono e crescono, senza passaporto e con la metà dei diritti.
Ora una proposta di legge di iniziativa popolare da duecentomila firme nelle mani dei parlamentari dovrebbe essere discussa a breve. L'aveva già fatto in giro per il mondo, JR, sul muro che divide israeliani e palestinesi, nelle favelas brasiliane, sul Municipio di Parigi. Adesso l'ha fatto in otto città italiane, capofila Reggio Emilia. Giovani fotografi volontari si sono appostati agli incroci e nei mercati, all'uscita dai cinema e alle feste di quartiere, hanno raccolto i volti più diversi, di quelli che si incontrano oggi in Italia, in metropolitana, in ufficio, a scuola, di ogni provenienza. Li hanno spediti allo studio dell'artista a Parigi. Lui li ha rielaborati e rimandati indietro col suo stile speciale che grida dai muri.
All'Arena di Milano, lungo via Libertà a Palermo, in piazza della Borsa a Trieste, all'ex Meccanotessile di Firenze, lungo il perimetro dei Musei civici di Reggio Emilia, sul Muro degli Stalloni a Crema, alla Mediateca del Mediterraneo di Cagliari, tra le panchine dei Giardini pubblici di Sassari. Millecinquecento facce di italiani in totale, esposte ai passanti, agli automobilisti, ai curiosi. Non finisce qui. Il progetto è stato creato per essere flessibile, allungabile. Accanto a ogni allestimento ieri c'era un set fotografico e a Milano c'era la fila: bambini, ragazzi, famiglie intere, una donna maghrebina accompagnata dal marito, con addosso ancora i pantaloni da lavoro. Altre facce ancora, e presto, sperano gli organizzatori, altre città.

La Stampa 21.10.12
Il Maxxi nei guai? Chiedete alla Melandri
Furono le sue scelte da ministro a creare le condizioni delle attuali difficoltà del museo
di Francesco Bonami


In Francia non fa scandalo che un politico diventi presidente di un’istituzione culturale o viceversa. Jean-Jacques Aillagon, già direttore di Palazzo Grassi nel 2004, è stato presidente del Centre Georges Pompidou dal 1996 al 2002 per diventare poi ministro della cultura sotto la presidenza Chirac. Dal 2007 al 2011 è poi tornato ad essere presidente di Versailles. Non dovrebbe nemmeno far scandalo allora che Giovanna Melandri sia finita presidente del Maxxi dopo essere stata ministro della Cultura. Quale è il problema quindi? Il problema è che la Melandri è stata il ministro che ha piantato il seme sbagliato dal quale è nata poi quella pianta sbagliata del Maxxi. Se il Maxxi è finito nelle condizioni nelle quali versa non è solo perché penalizzato dai tagli al suo budget. Il Maxxi è quello che è perché una volta pensato non è stato poi programmato nel modo giusto. Già a partire dal concorso per l’edificio. La giuria era presieduta da Daniele Del Giudice, bravissimo scrittore ma non certo un esperto di musei di arte contemporanea. Poi c’è stata la collezione, imbarazzante qualitativamente e per il suo costo, messa insieme da persone sempre selezionate da Giovanna Meladri. Il resto è storia. Funzionari che riescono a tramutarsi in direttori artistici del museo, programmazione scriteriata, staff curatoriale incompleto e bizzarro.
Adesso Giovanna Melandri si ritrova nel ruolo di «soluzione» per un problema al quale è stata lei stessa a dare il via. Il guaio non è l’eterno riciclaggio dei politici, pur rottamati, qualcosa potranno sempre fare, ci mancherebbe. Il guaio è la confusione delle professioni e delle competenze. Un archeologo non può essere al vertice di un museo di arte contemporanea, come un chirurgo dell’occhio non può essere il primario di una clinica ortopedica. Un politico può fare il presidente di una fondazione culturale come figura che ne tutela l’autonomia non quella che plasma la sua missione. Una figura che deve facilitare non complicare mettendo in piedi un comitato scientifico, entità tutta italiota, che funziona poi come direzione ombra nella programmazione del museo anziché come strumento di controllo.
Tutto ciò che scrivo verrà confutato dai diretti interessati con una scusa o con qualche citazione di decreti ministeriali. Verrà confutato se non addirittura negato perché nella cultura tutto è soggettivo, quindi non scientificamente provabile. Ma pur nella loro soggettività, legata alla personalità, spesso forte, di chi li dirige, i musei britannici, tedeschi, svizzeri, americani o francesi funzionano senza comitati scientifici, senza funzionari amministrativi trasformati in direttori, con consigli di amministrazione che ascoltano il 90% del tempo i programmi del direttore e dei curatori e parlano il 10%. Riuscirà Giovanna Melandri, pur abituata in modo molto diverso, a seguire questo metodo cosi tanto anti italiano? Riuscirà ad aver autocontrollo? Ce la farà a non cadere nella trappola dell’accontentare tutti per il quieto vivere consentendo finalmente, a quello che doveva essere uno dei più importanti musei d’Europa, di trovare la propria identità e dignità? Concediamo il beneficio del dubbio, ma il dubbio, almeno quello mio, rimane. Avendo imparato che Ubi Maxii minus sapiens.

l’Unità 21.10.12
Israele blocca Estelle il veliero filo palestinese diretto a Gaza


Il veliero «Estelle» con a bordo attivisti filo-palestinesi che tentava di rompere il blocco navale attorno a Gaza per portare aiuto alle popolazioni è stato abbordato ieri mattina da militari israeliani. Lo hanno riferito le forze armate israeliane, confermando la segnalazione della Freedom Flotilla. Durante l’abbordaggio i militanti «non hanno opposto resistenza e non c’è stata violenza», ha puntualizzato una portavoce militare. L’equipaggio della Estelle si era rifiutato di raccogliere le indicazioni della marina israeliana che invitava a cambiare rotta. Secondo quanto riferito da Freedom Flotilla, l’abbordaggio è avvenuto 35 miglia nautiche al largo della costa egiziana. La nave è stata scortata sino al porto israeliano di Ashdod, dove le persone a bordo sono state prese in custodia dalla polizia e consegnate alle autorità dell’immigrazione. «Un atto di pirateria internazionale» lo definisce il leader palestinese Hamas.
L’Estelle, che batte bandiera finlandese, era partito dalla Svezia e il 6 ottobre aveva fatto tappa a Napoli. A bordo ci sono 20 persone provenienti da otto Paesi europei, tra cui anche alcuni deputati e l’italiano Marco Ramazzotti Stockel, di 65 anni e da oltre 35 lavora nel settore della cooperazione. Sposato e padre di due figli, tiene a sottolineare di essere ebreo: «Se lotto contro l’occupazione, è proprio per gli ebrei, è a loro che fa male, oltre che ai palestinesi, l’occupazione». «Io sono cresciuto in un paese musulmano, sono vissuto in 12 paesi musulmani, il mondo musulmano è un mondo che mi è profondamente congeniale, gli arabi sono miei fratelli» aggiunge. «Non è possibile immaginare che un ebreo possa pensare che la propria salvezza, dalla shoah ai progrom, venga dal maltrattare altre popolazioni. I palestinesi sono dei maltrattati». Stockel, con un passato politico nel Pci e nella Cgil-Filcams, ha lavorato «per Ong italiane e straniere, la Commissione Europea, Agenzie delle Nazioni Unite, tra le quali la Fao, l’Ifad, l’Unicef e l’Unhcr». È laureato in Diritto internazionale.
L’ambasciata italiana di Tel Aviv si è «immediatamente attivata», e la Farnesina «segue costantemente l’evolversi della situazione per assicurare ogni assistenza affinché venga garantita «la sua incolumità». L’Unità di Crisi della Farnesina, hanno aggiunto dal ministero, è inoltre «in costante contatto» con la famiglia dell’italiano Marco Ramazzotti Stockel, a bordo dell’Estelle con altre 19 persone provenienti da otto paesi europei.

La Stampa 21.10.12
Nuovo tentativo di forzare il blocco
Israele, nave per Gaza bloccata dalla Marina
di Francesca Paci


Fra i trenta attivisti a bordo dell’Estelle un italiano e cinque deputati europei
Gli attivisti filo-palestinesi a bordo del veliero «Estelle» hanno mancato l’obiettivo concreto - essendo stati fermati dall’esercito israeliano prima di raggiungere Gaza - ma sono riusciti nell’intento «politico» di puntare ancora una volta l’indice contro il blocco navale che isola Gaza dal 2007, la presa di potere di Hamas.
Israele fa sapere che i circa 20 militanti, tra cui alcuni parlamentari internazionali e l’italiano Marco Ramazzotti Stockel, «non hanno opposto resistenza», scongiurando così lo spettro di due anni fa, quando nell’arrembaggio alla nave turca Mavi Marmara morirono 9 persone. Ma dalla Freedom Flotilla, salpata dalla Svezia il 6 ottobre, replicano ribadendo la propria «missione umanitaria» e denunciando «l’assalto di navi da guerra» all’imbarcazione «disarmata», un’azione che il portavoce di Hamas Abu Zuhri definisce «pirateria, crimine contro l’umanità e disprezzo del diritto internazionale» giacché, sostiene, avvenuta in acque internazionali).
Gaza è l’estrema frontiera e non solo geografica per Israele (ma anche per Hamas che sembra ne stia perdendo il controllo a vantaggio dei salafiti e per palestinesi di Cisgiordania che ieri, a differenza dei fratelli di Gaza, hanno votato per le amministrative). A bordo della «Estelle», che si trova ora al porto di Ashdod in attesa dell’espulsione dei suoi passeggeri, c’è anche l’attivista israeliano Reut Mor. «Il blocco è inumano e immorale» dice al suo governo che ne ripete la necessità in funzione anti-terrorismo. Due giorni fa la Freedom Flotilla aveva ricevuto il plauso del linguista americano Noam Chomsky in visita a Gaza.

Corriere 21.10.12
«L'Iran accetta negoziati con gli Usa sul nucleare»
Giallo diplomatico, Washington smentisce


WASHINGTON — E' una «sorpresa d'ottobre». Dalle conseguenze tutte da immaginare, e sulla quale pesa una immediata smentita della Casa Bianca. Ma è comunque una sorpresa. A due settimane dalle elezioni presidenziali e alla vigilia dell'ultimo duello in tv tra Obama e Romney, il New York Times ha rivelato un'intesa degli Usa con l'Iran per colloqui diretti sul nucleare. Trattive che tuttavia inizieranno soltanto dopo il voto americano poiché gli iraniani, non a torto, vogliono sapere chi ci sarà alla Casa Bianca. Aspetto non certo secondario. Se i democratici e Obama hanno sempre lasciato aperta la porta al negoziato, lo sfidante Romney e i repubblicani sono apparsi contrari. Vogliono la linea dura, ma sul piano pratico le posizioni non sono poi così lontane da quelle degli avversari.
Lo sviluppo diplomatico può essere importante anche se pieno di insidie. E irrompe a tutta forza nella campagna elettorale. La Casa Bianca può «vendersi» il sì di Teheran come il risultato della sua strategia fatta di pressioni, linee rosse e sanzioni pesanti. Vedete, dirà Obama, che alla fine il nostro approccio ha portato — in linea di principio — ad un risultato. E magari eviterà il rischio di un nuovo conflitto. Al tempo stesso, però, i critici possono ribattere che la risposta di Teheran agli inviti al dialogo è solo l'ennesimo trucco per guadagnare tempo. Chi guarda con scetticismo verso gli iraniani ritiene che mai e poi mai la Guida Ali Khamenei rinuncerà al sogno della Bomba. Dunque perché andare dietro a ipotesi negoziali che esistono solo sulla carta?
In realtà — osserva il New York Times che ha rivelato l'intesa sulla trattativa — anche Romney deve procedere con cautela. Respingerla a priori può scoprire il fianco a non pochi rilievi. Se vuoi essere presidente non puoi speculare su un dossier così importante e neppure fare muro. Anche perché non esistono molte alternative. Le sanzioni stanno incidendo — lo si vede dall'impatto devastante sull'economia — ma non è detto che basti. Ed allora tornerebbero l'opzione militare, scenario sul quale Romney è apparso molto cauto.
Alla possibile svolta si è giunti dopo un lungo lavoro discreto affidato ai diplomatici dei due paesi, con il coinvolgimento (punto significativo) di emissari di Khamenei. Contatti svoltisi anche in fasi piuttosto critiche. La Casa Bianca, da un lato, ha gli iraniani, negoziatori tosti e instancabili. Dall'altra Israele, alleato chiave in Medio Oriente e ancor più importante alla luce del caos provocato dalle «primavere arabe», ma determinato nel voler risolvere, in un modo o nell'altro, la questione nucleare. Per Gerusalemme il tempo sta volando via e come ha spiegato il premier Netanyahu nel discorso all'Onu entro la fine di aprile-maggio Teheran potrebbe raggiungere il punto di non ritorno. Ecco che allora i negoziati diventano davvero l'ultimo appello.
G.O.

l’Unità 21.10.12
Centomila in corteo a Londra
Sfida a Cameron contro l’austerità


Un corteo imponente, circa 100.000 persone, ha invaso ieri Londra per protestare contro i tagli alla spesa e l'aumento delle tasse decisi dal governo conservatore di Cameron, accusato di essere guidato da una élite della classe agiata che ignora i problemi degli elettori 'normalì. Sotto lo slogan «L'austerità sta fallendo», la marcia ha attraversato la città e la folla si è riunita a Hyde Park, dove rappresentanti dei sindacati e del partito laburista hanno parlato dal palco.
Secondo quanto riferisce la Bbc online, qualche incidente tra manifestanti e polizia si è verificato nella centralissima Oxford Street. «Orgogliosi di essere plebei», era un altro striscione del corteo che ha sfilato anche davanti al Parlamento: il riferimento è all'infelice frase pronunciata dal ministro Andrew Mitchell, che ha così definito un agente e per questo si è dovuto dimettere. Per i sindacati, la manifestazione è un modo per mettere sotto pressione Cameron e fargli capire che le sue misure servono solo a peggiorare gli effetti della recessione sui cittadini. Manifestazioni si sono svolte anche a Belfast e a Glasgow.

l’Unità 21.10.12
Walid Jumblatt
Il leader storico dei drusi, capo del Partito socialista progressista libanese e oppositore dei filo-siriani nel Paese dei Cedri
«Accuso Assad: incendia il Medio Oriente»
di Umberto De Giovannangeli


Il suo è un j’accuse possente, tanto più significativo perché a lanciarlo è una delle personalità politiche che hanno fatto la storia del Libano: Walid Jumblatt. Il leader druso, capo del Partito socialista progressista libanese, non usa mezzi termini nel chiamare in causa Damasco e il regime di Bashar al-Assad: «Accuso apertamente Bashar al-Assad e il suo regime di aver ucciso Wissam al Hassan», il capo dell’intelligence della polizia libanese vittima nell’attentato dell’altro ieri a Beirut. «L’obiettivo di Assad denuncia il leader druso è quello di destabilizzare il Libano e l’intero Medio Oriente. Per farlo usa le armi che lui ben conosce e che ha usato più e più volte: quelle del terrorismo. Un terrorismo di Stato».
Il Libano è sotto shock per l’attentato che è costato la vita al generale Wassam al Hassan. Il governo di Damasco si è affrettato a condannare l’azione terroristica...
«Lo aveva fatto anche dopo l’assassinio di Rafik Hariri e la serie di attentati costati la vita a quanti, politici, intellettuali, giornalisti, avevano combattuto il dominio siriano sul Libano. Il regime di Assad è esperto negli omicidi politici e bisogna che la nostra sia una risposta politica».
Quale dovrebbe essere questa risposta politica?
«Difendere con le unghie e con i denti l’indipendenza del Libano contro i destabilizzatori interni e i loro mandanti. E questo significa prendere una posizione chiara, attiva, nei confronti della mattanza che da oltre 19 mesi il regime di Assad sta conducendo in Siria. Il presidente che brucia la Siria, il “boia di Damasco”, si diverte, e non poco, se il Libano brucia. È lui il piromane che pur di mantenere il potere è disposto a tutto, anche a far esplodere il Medio Oriente. Deve essere fermato, prima che sia troppo tardi. Quello portato avanti da Assad è terrorismo. Un terrorismo di Stato, che consuma anche vendette politiche...». A cosa si riferisce in particolare?
«Il premier siriano si è preso una rivincita perché non ha più potuto utilizzare Michel Samah, l’ex ministro libanese arrestato lo scorso 9 agosto e aperto sostenitore di Damasco. Il generale al Hassan ha avuto un ruolo chiave nell’arresto di quest’ultimo. E ne ha pagato il prezzo più alto: quello della vita. In passato abbiamo provato a stabilire relazioni corrette con Damasco. Sappiamo bene che il Libano non può prescindere dall’avere buone relazioni con la Siria. Su questa strada c’eravamo mossi. Ma Assad non è interessato alle buone relazioni: ciò che vuole è dominare il mio Paese, direttamente o attraverso i suoi referenti interni. Non cerca alleati, vuole servitori. Questo è intollerabile».
Sul Paese dei Cedri torna ad aleggiare lo spettro della guerra civile?
«Non dobbiamo cadere nella trappola ordita dal “boia di Damasco” che intende trasformare il Libano nel teatro di una guerra condotta per conto terzi. Non è la prima volta che ciò accade. Occorre una svolta che certo non può essere garantita dall’attuale governo, dal suo primo ministro e dalle forze che lo sostengono. In gioco è la stabilità stessa del Libano, la sua indipendenza, la sua sicurezza».
Tra tutti i leader libanesi, lei è quello che più si è esposto a sostegno degli oppositori di Bashar al-Assad.
«Lo rivendico con orgoglio. Io mi sono pronunciato per una Siria libera. E questa libertà passa per l’uscita di scena di Bashar al-Assad. Il che non significa puntare sulla carta militare. Ogni persona sana di mente non può non sostenere una soluzione politica, perché le altre sono una lunga guerra civile e un logoramento continuo a tutti i livelli che non conviene al popolo siriano che chiede libertà, dignità e democrazia. L’esperienza con il regime siriano ci ha insegnato che esso è abile nel gioco dei rinvii e del guadagnare tempo. Sono convinto che il popolo siriano non si tirerà indietro dopo tutti i suoi sacrifici. Solo una soluzione politica di transizione che porti all’allontanamento di questo regime può porre fine alla crisi».
Ci sono condizioni particolari perché abbia successo quella che definisce una soluzione politica di transizione?
«Certo. Per praticare questo obiettivo è indispensabile un coinvolgimento della Russia. Occorre coinvolgere Mosca
nella definizione del “dopo Assad”, riconoscendo il ruolo della Russia sullo scenario mediorientale. Occorre trarre profitto dalla lezione libica».
Cosa significa per lei «imparare la lezione libica»?
«Significa che non va riproposto un intervento militare esterno. Ma questo non significa limitarsi a lanciare appelli alla moderazione a cui tra l’altro Assad ha sempre risposto inasprendo la repressione».
Dice no ad un intervento esterno. E allora cosa resta da fare?
«Sono gli insorti ad opporsi ad un intervento esterno. Chiedono di essere messi in condizione di combattere alla pari con l’esercito di Assad. È una richiesta che va supportata. Sono convinto che alla fine il popolo siriano vincerà e saprà liberarsi del dittatore. Ma il prezzo di sangue che dovrà ancora pagare dipenderà dall’atteggiamento della comunità internazionale. Deve essere chiaro a tutti che l’indifferenza equivale a complicità verso il boia di Damasco».

l’Unità 21.10.12
Libano: oggi il giorno della collera contro Damasco
L’opposizione chiama la piazza a manifestare contro la Siria

Il rischio di scontri armati
di U.D.G.


Tensione. Rabbia. Paura. Un Paese blindato. Strade bloccate, ceck-point rafforzati, quartieri militarizzati. L’opposizione libanese anti-siriana, riunita nella coalizione «14 marzo», ha fatto appello alla popolazione perché partecipi in massa oggi ai funerali del generale Wissam al Hassan, ucciso nell’attentato dell’altro ieri a Beirut, per «Una giornata di collera contro il macellaio Bashar al Assad», il presidente siriano che viene accusato di essere il mandante dell’assassinio. L’appuntamento è a piazza dei Martiri a Beirut. Lo slogan è esprimere la propria opposizione al regime siriano che «vuole esportare il sangue e la distruzione verso la nostra patria, il Libano». Le opposizioni chiedono le dimissioni del governo libanese, accusato di «applicare le politiche del regime criminale siriano e dei suoi alleati regionali e locali». Il riferimento è all’Iran e al movimento sciita libanese Hezbollah, che fa parte dell’esecutivo. La coalizione del «14 marzo» chiede alla Lega Araba e all’Onu di «prendere tutte le misure necessarie per garantire la sicurezza del Libano e la protezione del suo popolo».
La tensione è altissima a Beirut, Sidone, Tripoli, nella valle della Bekaa. Spari di arma da fuoco sono stati esplosi ieri dalla Siria in Libano, a pochi passi dalla frontiera, contro dei civili libanesi sunniti che manifestavano per l’uccisione del generale sunnita al Hasan, sunnita, che aveva di recente scoperto i dettagli di un piano siriano per destabilizzare il Libano. A riferirlo è l’agenzia nazionale libanese Nna, che precisa che gli spari sono stati esplosi dal villaggio siriano Mushayrafa, situato sulla collina che sovrasta Wadi Khaled, regione a maggioranza sunnita.
A Beirut i blocchi sono presenti nella zona ovest, a maggioranza musulmana, in prossimità delle tradizionali zone di frizione tra sunniti di Mustaqbal, vicino all’Arabia Saudita, e sciiti del movimento Hezbollah (filo-Iran) e del suo alleato Amal (filo-Siria). L’esercito libanese è mobilitato come nelle situazioni d’emergenza. Tutte le licenze sono state sospese.
Sul piano politico, il presidente della Repubblica Michel Suleiman ha chiesto al premier Najib Miqati, che aveva presentato le dimissioni, di rimanere al suo posto in attesa di concludere le consultazioni con i principali leader politico-confessionali. A riferirlo è lo stesso primo ministro in una conferenza stampa a Beirut al termine di una riunione straordinaria del Consiglio dei ministri presieduta da Suleiman. «Ho assicurato al presidente della Repubblica – dice Miqati che non sono mai stato, né sono adesso, attaccato al posto di primo ministro, e ho detto che è necessario formare un governo di consenso nazionale». «Il presidente aggiunge il premier mi ha risposto chiedendomi di restare in nome dell’interesse nazionale e in attesa che lui avvii e concluda un giro di consultazioni con i membri del Dialogo nazionale», piattaforma dei principali leader politico-confessionali libanesi.

La Stampa 21.10.12
Asma Ataie
“Mandare a scuola tutte le afghane Anche contro i taleban”
di P. Mas.


L’80 per cento delle donne afghane è analfabeta ma dalla caduta dei taleban oltre la metà delle ragazze frequenta la scuola (a sinistra allieve a Kabul)

Asma Ataie indossa il velo, e un magnifico sorriso. Ha 26 anni, viene dall’Afghanistan, e impersona l’altra faccia del suo mondo, quella che potrebbe cambiare la regione e darle un futuro: «La mia iniziativa si chiama Afghan Women Educational and Vocational Training Association, e ha lo scopo di diffondere l’istruzione tra le donne afgane. Circa l’80% di loro è analfabeta, e questo impedisce di trovare un lavoro, avviare un’attività, o anche semplicemente nutrire bene i figli e curarli. Dare conoscenza è il primo passo verso l’emancipazione e la realizzazione».
Asma è intelligente, legge i giornali, usa Internet, e quindi sa cosa è successo alla giovane pakistana Malala, che i talebani hanno cercato di uccidere proprio perché voleva andare a scuola: «Un giorno sono entrata in una casa in un villaggio a duecento chilometri da Kabul, per spiegare il mio progetto a una madre in assoluta povertà. Quando sono uscita, il marito mi ha fermata e mi ha spiegato che l’ignoranza era la chiave per tenere la moglie sottomessa: se io le mettevo strane idee per la testa, lei non avrebbe più obbedito. Quindi mi ha avvertita che se mi avesse vista di nuovo lì, sarebbe stato peggio per me. Lo so che corro dei rischi e non voglio fare una brutta fine, però se nessuno si muove non cambia nulla. Io vedo come sono forti e coraggiose le donne occidentali, e so che anche noi possiamo diventare così: non è vero che la maggioranza degli afghani la pensa come i taleban».
Asma rispetta la sua religione, al punto che ha avviato un’altra iniziativa: «Prestiti basati sulla finanza islamica. Invece di ricevere gli interessi, vietati dall’islam, chi dà soldi per avviare un’impresa diventa partner, condividendo utili e perdite. Come vedete, c’è la possibilità di vivere in maniera civile anche dalle nostre parti».

l’Unità 21.10.12
Il «Gramsci» oro di tutti
La Fondazione tra progetti futuri e polemiche d’archivio
Un miracolo di efficienza a vantaggio di studiosi e cittadini

E tra le grandi imprese c’è la nuova edizione nazionale gramsciana
di Bruno Gravagnuolo


«UN GRANDE GIACIMENTO CULTURALE CHE OFFRE UN SERVIZIO TERRITORIALE E NAZIONALE NON SOLO AGLI STUDIOSI ITALIANI MA AI RICERCATORI DI TUTTO IL MONDO». Sembra uno spot, ma Silvio Pons, storico del comunismo e dell’Europa Orientale, ha molti argomenti dalla sua, quando definisce così la Fondazione Gramsci da lui diretta. E per inciso a dire che il Gramsci è «una miniera d’oro», è uno dei più grandi studiosi viventi della guerra fredda, Arno Westa, che in questi archivi c’è stato, per scrivere il suo The global cold war. E allora torniamo al «vecchio» Gramsci, dove si andava a studiare da ragazzi in via delle Zoccolette a Roma e dove nel dopoguerra è passato il meglio della storiografia italiana e mondiale. Oggi l’Istituto ha una nuova sede, in Via Sebino a Roma, ex sezione Salario Pci, poi sede del Pd, dopo aver traslocato da poco dal Portuense. Il grosso delle carte e dei libri archivio Gramsci e archivio del Pci è già lì. E la sede funziona a pieno ritmo, inclusa la sala di lettura con la sua mobilia novecentista. Un piccolo miracolo di efficienza, che per Pons nasce da un fatto: «C’è l’archivio del più grande partito comunista dell’occidente completamente aperto alla consultazione e fungibile per ricerche anche lontane dal perimetro Gramsci-Pci». Di qui anche le quattro borse di studio, bandite annualmente dalla fondazione. Su storia d’Italia, politica internazionale, movimento operaio, storia della cultura, oltre che studi gramsciani. Dunque nessun uso «privatistico» di carte e fonti, come ha scritto Carmine Donzelli a proposito delle polemiche su Gramsci, bensì dice Pons, «trasparenza assoluta e possibilità di accesso con le dovute regole, se si tratta di originali preziosi». E fra l’altro lavora a pieno ritmo la famosa commissione con Lo Piparo e Canfora per capire se esiste un Quaderno di Gramsci «mancante», o se la leggenda nasce da una confusione di «etichette» sui medesimi dovuta a Tatiana Schucht o ad altri. E infine, nessun uso ideologico della Fondazione, che ambisce «a nutrire non solo la cultura della sinistra, ma tutto il patrimonio delle culture politiche italiane, minacciata da sradicamento nel clima antipolitico attuale».
Alcuni dati concreti. Sette dipendenti, un direttore Pons stesso e un presidente, Giuseppe Vacca. Un budget di circa 800mila euro finanziato oggi al 20% dal Ministero dei beni culturali con legge 534/1996 e per il resto autofinanziato da ricerche e finanziatori (senza benefici fiscali). Il Gramsci ha una sede garantita dal «Socio Fondatore» gli ex Ds ma aspetta ancora la sede promessa nel 2008 da Alemanno. E inoltre, benché di «fascia alta» in quanto Fondazione come la Feltrinelli e lo Sturzo i finanziamenti si sono ristretti, malgrado il rispetto dei «parametri» richiesti: dai servizi, alle iniziative, agli archivi consultabili. Insomma, un’azienda culturale che produce molto ma fatica a pagare i dipendenti: i finanziamenti di quest’anno non sono ancora arrivati (e vale anche per le altre Fondazioni). In altri termini, da un budget più esiguo dopo il decreto Tremonti del 2010 che tagliava il 50% dei fondi alla cultura (e non faceva distinzioni tra «fasce» e qualità degli Istituti). Fino alla messa in dubbio dell’esistenza stessa di contributi statali. Un vuoto al quale Monti ha posto rimedio, assicurando la continuità del finanziamento ed elevandolo nominalmente per gli istituti d’eccellenza. E però i soldi ancora non ci sono, dovendo pagare i dipendenti, digitalizzare di continuo l’archivio e promuovere iniziative web. Come quella realizzata su Togliatti. Le cui carte sono consultabili sul sito del Senato. O come gli inventari su Visconti, Squarzina, Sibilla Aleramo (www.fondazionegramsci.org). «Per fortuna spiega Pons c’è il 5 per mille, col quale raccogliamo molti fondi». E per non parlare delle decine e decine di convegni, seminari, presentazioni di libri. E poi della madre di tutte le iniziative. Impresa che impegna uno stuolo di studiosi coordinati da Gianni Francioni: l’edizione nazionale delle Opere di Gramsci. Sotto l’egida della Presidenza della Repubblica. Nel 2007 sono usciti i Quaderni di traduzione del prigioniero non pubblicati nell’edizione Gerratana. Nel 2009 i primi due volumi dell’epistolario: 1906-1923. Si attendono per il 2013 i volumi di scritti giornalistici: dal 1910-1926. Alla fine i volumi saranno 25, e includeranno oltre ai Quaderni del Carcere (risistemati «logicamente»), l’intero carteggio di Gramsci e «attorno» a Gramsci. Cioè la fitta trama epistolare che lega tutti i personaggi del dramma gramsciano, familiari e politici. Già in cantiere, a cura di Nerio Naldi, il carteggio Sraffa Tatiana. E quello tra Tatiana e la famiglia Schucht, a cura di Rossana Platone. Impresa mai vista, per nessun autore al mondo. E immenso lavoro di trasparenza. Che riserverà sorprese e chiarirà ogni possibile zona d’ombra attorno al pensatore sardo. A proposito: il 9 novembre a Roma ci sarà un convegno su Aldo Natoli, che nel 1990 «rivelò» all’opinione pubblica il vissuto del recluso, persuaso di essere stato condannato da «un tribunale più vasto» di quello fascista, e di essere stato danneggiato nel 1928 da una lettera di Ruggero Grieco ricevuta a San Vittore. Laddove però come ancora dal Gramsci è venuto fuori il vero motivo dei sospetti di Gramsci, oltre ai dissensi sulla svolta staliniana del 1930, era l’idea che Grieco avesse fatto trapelare che il Pci si sarebbe vantato, contro il regime, di una sua eventuale liberazione a mezzo di una trattativa con l’Urss (illusione di Gramsci, documentata con tutto il resto da Giuseppe Vacca nel suo Vita e pensieri di Antonio Gramsci, Einaudi).
MESSAGGIO ALLE ALTRE FONDAZIONI
Ma non di solo Gramsci vive il Gramsci. Il 9 novembre ci sarà un grande convegno «global»: Scrivere la storia del Comunismo. E fra i protagonisti e i relatori ci sono, molti di quelli che hanno partecipato al Dizionario del Comunismo diretto da Pons. Tiriamo le fila. Il «Gramsci» è vivo e in salute. Offre un servizio vero al paese e alla comunità degli studiosi. E resiste, nella morsa dei tagli e del rigore. Ma il messaggio che lancia è anche un altro. Occorre far vivere anche tutte le Fondazioni che conservano la memoria della repubblica. Per sottrarre allo sfacelo il valore etico e culturale della politica, in tempi di «rottamatori» e capi-popolo. E qui Silvio Pons fa una proposta: «Creiamo un unico istituto nazionale per la Storia della Repubblica che abbia come base tutte le fondazioni d’eccellenza. Una confederazione con fine comune, e diverse storie e vocazioni». Dunque, idea aperta e generosa dove coesistono pluralismo e identità. L’appartenenza del Gramsci alla sinistra europea (è dentro le Fondazioni socialiste), con l’apertura ad altre tradizioni. E l’ennesimo esempio di «laicità» è questo: una Storia di Italia dal 1980 ad oggi. Fatta in casa? No, fatta con la Fondazione Einaudi del liberale Zanone e la Società italiana di storia contemporanea. E la morale (gramsciana) è: si può competere per l’egemonia, e anche cooperare con l’avversario, in vista di una civiltà superiore. Metodo e stile di pensiero che Gramsci chiamava così: «riforma morale e intellettuale».

l’Unità 21.10.12
Alienati di tutto il mondo unitevi
La riscoperta di Marx ripropone l’alienazione in chiave sociale
Era stato Hegel il primo a proporre il concetto nella Fenomenologia dello spirito. Marx lo aveva rielaborato. Quindi è stata la volta di Freud. Ora la crisi cambia i paradigmi del confronto
di Marcello Musto


Negli anni 60 esplose una vera e propria moda: in tutto il mondo si pubblicavano libri sull’alienazione

L’ALIENAZIONE È STATA UNA DELLE TEORIE PIÙ DIBATTUTE DEL XX SECOLO. LA PRIMA ESPOSIZIONE FILOSOFICA DEL CONCETTO AVVENNE GIÀ ALL’INIZIO DELL’OTTOCENTO E FU OPERA DI GEORG W. F. HEGEL. Nella Fenomenologia dello spirito, egli ne fece la categoria centrale del mondo moderno e adoperò il termine per rappresentare il fenomeno mediante il quale lo spirito diviene altro da sé nell’oggettività. Tuttavia, nella seconda metà dell’Ottocento, l’alienazione scomparve dalla riflessione filosofica e nessuno tra i maggiori pensatori vi dedicò attenzione.
La riscoperta di questa teoria avvenne con la pubblicazione, nel 1932, dei Manoscritti economico filosofici del 1844, un inedito appartenente alla produzione giovanile di Karl Marx, in cui, mediante la categoria di «lavoro alienato», egli aveva traghettato la problematica dalla sfera filosofica a quella economica. L’alienazione venne descritta come il fenomeno attraverso il quale il prodotto del lavoro si manifesta «come un ente estraneo, come una potenza indipendente dal producente». Contrariamente a Hegel, che l’aveva rappresentata come una manifestazione ontologica del lavoro, che coincideva con l’oggettivazione in quanto tale, Marx concepì questo fenomeno come la caratteristica di una determinata epoca della produzione: quella capitalistica.
Ci sarebbe voluto ancora molto tempo, però, prima che una concezione storica, e non ontologica, dell’alienazione potesse affermarsi. Infatti, la maggior parte degli autori che, nei primi decenni del Novecento, si occuparono di questa problematica lo fecero sempre concependola un aspetto universale dell’esistenza umana. In Essere e tempo, ad esempio, Martin Heidegger la considerò come una dimensione fondamentale della storia, la tendenza dell’Esserci (Dasein) a perdersi nell’inautenticità e nel conformismo del mondo che lo circonda. Anche Herbert Marcuse identificò l’alienazione con l’oggettivazione in generale e non con la sua manifestazione nei rapporti di produzione capitalistici. A suo giudizio, esisteva una «negatività originaria del fare lavorativo», che egli reputava appartenere alla «essenza stessa dell’esistenza umana». La critica dell’alienazione divenne, così, una critica della tecnologia e del lavoro in generale. E il suo superamento fu ritenuto possibile soltanto attraverso l’affermazione della libido e del gioco nei rapporti sociali, unici momenti nei quali l’uomo poteva raggiungere la libertà negatagli durante l’attività produttiva.
Nella seconda parte del Novecento, il concetto di alienazione approdò anche alla psicoanalisi. Coloro che se ne occuparono partirono dalla teoria di Freud, per la quale, nella società borghese, l’uomo è posto dinanzi alla decisione di dovere scegliere tra natura e cultura e, per potere godere delle sicurezze garantite dalla civilizzazione, deve necessariamente rinunciare alle proprie pulsioni. Gli psicologi collegarono l’alienazione con le psicosi che si manifestano, in alcuni individui, proprio in conseguenza di questa scelta conflittuale. Conseguentemente, la vastità della problematica dell’alienazione venne ridotta a un mero fenomeno soggettivo.
Tra le principali elaborazioni non marxiste dell’alienazione vi fu anche quella degli esistenzialisti francesi. A partire dal secondo dopoguerra, questa problematica fu da loro assunta come riferimento ricorrente sia in filosofia che in narrativa. Tuttavia, con essi l’alienazione assunse un profilo molto generico, identificata con un indistinto disagio dell’uomo nella società, con una separazione tra la personalità umana e il mondo dell’esperienza e, pertanto, come condition humaine non sopprimibile.
A partire dagli anni Sessanta esplose una vera e propria moda per la teoria dell’alienazione e, in tutto il mondo, apparvero centinaia di libri sul tema. Fu il tempo dell’alienazione tout-court. Il periodo nel quale numerosi autori, diversi tra loro per formazio-
ne politica e competenze disciplinari, attribuirono le cause di questo fenomeno alla mercificazione, alla eccessiva specializzazione del lavoro, alla burocratizzazione, al conformismo, al consumismo, alla perdita del senso di sé che si manifestava nel rapporto con le nuove tecnologie; e persino all’isolamento dell’individuo, all’apatia, all’emarginazione sociale ed etnica, o all’inquinamento ambientale. La popolarità del concetto e la sua applicazione indiscriminata crearono, però, una profonda ambiguità terminologica. Nel giro di pochi anni, l’alienazione divenne una formula vuota che inglobava tutte le manifestazioni dell’infelicità umana e lo spropositato ampliamento del suo utilizzo generò la convinzione dell’esistenza di un fenomeno tanto esteso da apparire immodificabile.
Con il libro di Guy Debord La società dello spettacolo, uno dei manifesti della generazione del 1968, la teoria dell’alienazione approdò alla critica della produzione immateriale. Riprendendo alcune tesi avanzate da Max Horkheimer e Theodor Adorno in Dialettica dell’illuminismo, secondo le quali nella società contemporanea anche il divertimento era stato sussunto nella sfera della produzione del consenso per l’ordine sociale esistente, Debord affermò che, quando il capitalismo è più sviluppato, l’operaio viene «apparentemente trattato come una persona vera, con cortesia premurosa e ciò perché ora l’economia politica può e deve dominare gli svaghi e l’umanità del lavoratore». Tale riflessione lo spinse a porre al centro della sua analisi il mondo dello spettacolo: «nella società odierna lo spettacolo corrisponde a una fabbricazione concreta dell’alienazione». Per il teorico francese, con esso l’alienazione si affermava a tal punto da diventare persino un’esperienza entusiasmante per gli individui, i quali, spinti da questo nuovo oppio del popolo al consumo e a «riconoscersi nelle immagini dominanti», si allontanavano sempre più dai propri desideri ed esistenze reali.
Anche Jean Baudrillard utilizzò il concetto di alienazione per interpretare criticamente le mutazioni sociali intervenute con l’avvento del capitalismo maturo. In La società dei consumi, del 1970, egli individuò nel consumo il fattore primario della società moderna. Secondo Baudrillard «l’era del consumo», in cui pubblicità e sondaggi di opinione creano bisogni fittizi e consenso di massa, era divenuta anche «l’era dell’alienazione radicale: la logica della merce si è generalizzata, in quanto oggi non regola solamente i processi di lavoro e i prodotti materiali, ma anche l’intera cultura, la sessualità, le relazioni umane. Tutto è spettacolarizzato, cioè evocato, provocato, orchestrato in immagini, segni e modelli consumabili».
Negli anni Cinquanta, il concetto di alienazione era entrato anche nel vocabolario sociologico nord-americano. L’approccio col quale venne affrontato questo tema fu, però, completamente diverso rispetto a quello prevalente in Europa. Infatti, nella sociologia convenzionale si tornò a trattare l’alienazione come problematica inerente il singolo essere umano, non le relazioni sociali, e la ricerca di soluzioni per un suo superamento fu indirizzata verso le capacità di adattamento degli individui all’ordine esistente e non nelle pratiche collettive volte a mutare la società. Questo approccio finì col mettere ai margini, o persino escludere, l’analisi dei fattori storico-sociali che determinano l’alienazione, producendo una sorta di iper-psicologizzazione dell’analisi di questa nozione, che venne assunta anche in questa disciplina, oltre che in psicologia, non più come una questione sociale, ma quale una patologia individuale la cui cura riguardava i singoli individui.
Questo profondo mutamento della concezione dell’alienazione, manifestatosi nell’ambito delle scienze sociali, fu arginato dalla pubblicazione di nuovi inediti marxiani, in particolare dai Grundrisse, i manoscritti preparatori de Il capitale, o dalle celebri pagine sul «feticismo delle merci», contenute nel primo volume del suo magnum opus. La comprensione dell’alienazione tornò a essere finalizzata al suo superamento pratico, ovvero all’azione politica di movimenti sociali, partiti e sindacati, volta a mutare radicalmente le condizioni lavorative e di vita del proletariato. Con la diffusione di questi testi, la teoria dell’alienazione uscì dalle carte dei filosofi e dalle aule universitarie per irrompere, attraverso le lotte operaie, nelle piazze e divenire critica sociale.
La vittoria del neoliberismo ha completamente stravolto questo scenario. Negli ultimi 20 anni si sono susseguiti significativi mutamenti politici ed economici che hanno visto aumentare drammaticamente il distacco tra l’accumularsi delle ricchezze di élite sempre più ristrette e la crescente marginalità e pauperizzazione delle classi lavoratrici. Dopo essere stato protagonista indiscusso del XX secolo, il mondo del lavoro è divenuto un attore muto nel dibattito politico e culturale contemporaneo, in conseguenza anche della maggiore difficoltà da parte delle forze sindacali in un contesto in cui la prestazione lavorativa è stata piegata a forme sempre più precarie, flessibili e senza diritti di rappresentare e organizzare nuove generazioni e lavoratori migranti.
Al contempo, i movimenti globali di protesta si sono contraddistinti, sino ad oggi, per una generica rivendicazione di maggiore eguaglianza sociale, alla quale è spesso mancata, però, una adeguata riflessione sulla centralità del lavoro, delle sue nuove problematiche e delle sue radicali trasformazioni. In un’era in cui la produzione, a dispetto delle tesi, di fine secolo scorso, che annunciarono con grande clamore la «fine del lavoro», assume nuovamente gli standard di sfruttamento e di ingiustizia sociale ottocenteschi vicende come quella dello stabilimento cinese della multinazionale Foxconn sono, oramai, all’ordine del giorno in tutto il mondo c’è da augurarsi che la critica dell’alienazione ritorni tra le bandiere e le rivendicazioni di un nuovo movimento operaio. In fondo il vento soffia ancora.

Corriere 21.10.12
Maurizio Ferraris
La cosa esiste quando è «segnata»
di Pierluigi Panza


Dopo la svolta «realista», il filosofo Maurizio Ferraris sta sperimentando varie argomentazioni per consolidarne il senso. Una di queste è stata il mettere a confronto le tesi di un nuovo realismo con gli oggetti realizzati dall'uomo, come quelli di architettura e design. Lo ha fatto in una lectio alla Facoltà di Architettura di Napoli, ora tematizzata in un libro intitolato Lasciar tracce: documentalità e architettura (a cura di F. Visconti e R. Capozzi, Mimesis, pp. 94, 10). Ferraris riposiziona l'ente «cosa» in una dimensione compresa tra Cartesio e Kant, dove la «res» non è determinata dall'interpretazione o mutabile in relazione ai sensi. In questo perimetro ci sono la Natura, ma anche quelle cose particolari realizzate dall'uomo e sulle quali l'uomo deposita dei segni. Queste cose, come l'architettura, diventano territori di scrittura sulle cose che consentono una loro riconoscibilità non a-priori e non altra-da-sé, ma quella e solo quella. L'architettura, in particolare, diventa «la più duratura e tenace delle scritture» e in questo si iscrive nel vasto ambito della memoria che è la possibilità di fondazione degli oggetti, specie degli oggetti sociali.
C'è un precedente su questo tema. Nel 1986 si svolse a Genova un convegno, intitolato «Materia signata-Haecceitas: tra restauro e conservazione», in cui echi di analoga teorizzazione venivano fondati su padri della filosofia. Tra i quali Duns Scoto, il cui riferimento alla cosa come «materia signata» e, per questo, carica di significati veniva letto in contrapposizione ad ogni intuizione di cosa in sé presente anche in Tommaso d'Aquino. Ferraris attualizza ciò pensando l'architettura come «luogo della memoria durevole»; e questo spiega perché «adesso l'architettura sia così legata alla monumentalità»: di fronte alla fragilità si cerca di legarsi a un'idea di durevolezza esemplata anche dal monumentalismo.

La Stampa 21.10.12
Darwin, i vermi pilastri dell’evoluzione
di Massimiliano Panarari


C’era una volta la talpa della storia, intenta a scavare in maniera instancabile. Ma, decisamente più oscuro, e più in profondità, c’è un piccolo invertebrato che, pure lui, scava indefessamente. E se la prima aveva sollecitato la riflessione politicoescatologica di Karl Marx, anche il secondo, l’oscuro Lumbricus terrestris (più volgarmente conosciuto come verme), ha attirato l’attenzione, sino a tramutarsi in una sorta di magnifica ossessione, di un altro grande dell’Ottocento. Vale a dire, Charles Darwin (1809-1882), il padre della teoria dell’evoluzione per selezione naturale, il quale, nel 1881, diede alle stampe L’azione dei vermi nella formazione del terriccio vegetale, la sua ultima opera, per tanto tempo negletta e adesso sugli scaffali delle librerie italiane per i tipi di Mimesis (pp. 196, euro 16, con la cura di Giacomo Scarpelli e la traduzione di Milli Graffi).
Fu una passione inarrestabile quella che legò lo scienziato ottocentesco a uno dei più umili esponenti del regno animale, destinata a prendere avvio proprio al suo ritorno dalle Isole Galapagos, dove aveva sottoposto alla sua attenta osservazione ben altre, e molto più voluminose, specie etologiche. Il «colpo di fulmine» scientifico per il piccolissimo animale scoppiò sul finire dell’estate del 1837, a Maer Hall, la proprietà di campagna di suo zio, Jos Wedgwood, ove Charles ebbe modo di notare un lembo dell’appezzamento incolto, nel quale detriti di varia natura (pietrisco da costruzione, calce e cenere) erano penetrati nel terreno in profondità, generando uno strato anomalo di limo argilloso. Effetto, a giudizio del più anziano parente, non dell’erosione atmosferica, ma dell’operato dei lombrichi: un’ipotesi investigativonaturale da sottoporre, quindi, a esami empirici. Si configurò così la ferma volontà darwiniana di restituire ai vermi il giusto posto che spettava loro nella grande trama evolutiva, e che il disprezzo cui soggiacevano da secoli aveva occultato, a partire dalle campagne dove, rimarcava sempre il saggio zio Jos, gli agricoltori per primi non si erano mai resi conto di quanto la fecondità dei loro campi dipendesse dal lavorio incessante di questi oltraggiati animaletti.
Nei decenni seguenti, Darwin si rivelò troppo indaffarato nell’elaborazione della sua poderosa teoria dell’evoluzionismo, destinata a cambiare la nostra visione della storia degli esseri viventi e il volto delle scienze biologiche (influendo pure, seppure all’insegna di interpretazioni non direttamente discendenti dal naturalista, su quelle sociali). Ma il «primo amore» non si scorda mai, e lo studioso ebbe modo di recuperarlo, per restituire ai vermi il loro onore nella catena evolutiva, in finale di partita. Allo scoccare dei settant’anni, immerso nella tranquillità della sua casa di Down, nel Kent, Darwin si rimette di buzzo buono sull’argomento e completa lo studio. Con molta passione, trasformando la sala da biliardo di casa in un laboratorio, e decidendo perfino – vincendo così le preoccupazioni per la sua salute della moglie Emma – di effettuare un sopralluogo nel sito megalitico di Stonehenge, dove si accorse di come il parziale interramento dei menhir fosse da attribuire al millenario intervento dei vermi. Il volume vede finalmente la luce sei mesi prima della dipartita di colui che era divenuto, nel tempo, un’autentica star planetaria delle scienze naturali, e proprio per questo la comunità scientifica lo accoglierà con rispetto, pur considerandolo, alla fin fine, alla stregua di un’eccentricità senile. Invece, il fondatore dell’evoluzionismo aveva individuato in questa specie animale un attore a pieno titolo, e fondamentale, per l’impianto esplicativo della sua teoria, poiché, sosteneva, «c’è da dubitare che ci siano molti altri animali che hanno giocato un ruolo così importante nella storia del mondo». E, così, con L’azione dei vermi licenziava un dettagliatissimo zibaldone sulla loro etologia, i loro comportamenti e le loro abitudini, occupandosi davvero, in maniera enciclopedica, di ogni aspetto della vita dei lombrichi, dall’alimentazione alla modalità di scavare, sino all’ipotesi della presenza, in loro, di una forma di intelligenza (delle «facoltà mentali», come le chiamava) a lungo sottovalutata e che si esprimeva, per esempio, nel fatto di introdurre materiali all’interno dei tunnel che scavavano non prendendoli sempre nello stesso modo.
I microscopici eroi dell’ultimo libro darwiniano, in virtù della funzione da loro giocata nell’erosione e nell’escavazione della terra, nella conservazione delle antiche rovine e nella fertilizzazione delle campagne, rappresentano gli oscuri (sordi e privi di occhi, ma capaci di distinguere la luce del buio), ma imprescindibili, operatori dell’evoluzione.

Corriere Salute 21.10.12
Galeno, medico modernissimo e uomo «rinascimentale»
di Armando Torno


Véronique Boudon-Millot ha appena pubblicato presso le Belles Lettres di Parigi l'atteso saggio su Galeno. È un'opera che esamina dettagliatamente la vita e l'opera di uno dei più grandi medici dell'antichità, infanzia compresa, avvalendosi delle ultime scoperte e dei recenti dibattiti critici; ne ricostruisce le frequentazioni filosofiche, gli insegnamenti, i viaggi — da Cipro alla Licia, da Siria e Palestina alla permanenza a Roma — e il suo esilio volontario. Non soltanto: la Boudon-Millot dedica pagine dense alle «cose viste e intese» da Galeno in Asia; ripercorre le mille esperienze, da medico dei gladiatori a curatore dell'alta società dell'Urbe e di imperatori, né tralascia la ricostruzione delle sue malattie e della morte. Insomma, un ritratto che è anche un importante capitolo di storia della scienza oltre che della filosofia.
Véronique Boudon-Millot ci confida: «Curioso di tutto, parla molto di se stesso, contrariamente a quanto facevano gli antichi (si pensi a Ippocrate), e prima di Agostino e delle Confessioni è un caso da porre tra le eccezioni». Anni di lavoro, di ricerche della studiosa francese. Considera Galeno quasi nostro contemporaneo e ci ricorda che «ha frequentato i maestri della sua generazione, ma non aveva una scuola di riferimento e ha preso il meglio in un mondo dalle forti presenze culturali». Del resto, anche se il suo nome resta immortale - l'aggettivo galenico rimanda direttamente al medicinale preparato dal farmacista in base ad una prescrizione medica, destinato a un particolare bisogno - non ha dato vita a insegnamenti istituzionali. «Sarà un riferimento per la medicina, non il padre di una scuola», osserva la Boudon-Millot.
D i più: la studiosa ci ricorda lo straordinario e attuale metodo di Galeno. «Egli cercava — precisa — di comprendere i problemi causati dalla malattia, parlando a lungo con il paziente; in altri termini possiamo dire che desiderava capire anche i riferimenti culturali della persona che si era rivolta a lui». È inevitabile aggiungere che in codesta prospettiva era compreso anche quell'accompagnamento alla fine della vita su cui ci stiamo interrogando, senza accorgersi che i problemi che tanto oggi suscitano discussione si sono affrontati due millenni fa, e forse con uno spirito migliore. Certo, c'è anche un Galeno polemista: la Boudon-Millot ricorda che una parte della sua bibliografia è dedicata alle confutazioni rivolte alle dottrine di Erasistrato di Ceo, anatomista greco del III secolo prima di Cristo e attivo alla corte di Seleuco I Nicatore, tra i fondatori della scuola medica di Alessandria d'Egitto: egli considerava gli atomi costituenti essenziali del corpo e li riteneva vitali grazie all'aria esterna (pneuma), la quale sarebbe stata in grado di circolare nelle arterie. Galeno non amava né Epicuro né Democrito e, di conseguenza, non poteva approvare una simile concezione.
Del resto prese le distanze e confutò anche le opinioni di Asclepiade di Prusa (morto nel 40 a. C.), seguace di quelle teorie fisiche che intendevano il corpo composto da atomi separati da spazi vuoti (pori), sostenitore dell'ipotesi che la malattia nascesse dallo squilibrio tra gli stessi atomi e i pori. Pensò che quando questi ultimi si presentano molto larghi causano pallore e pochezza di forze, se troppo stretti rossore e calori.
I suoi rimedi terapeutici, proprio per questa sua visione fisica dei problemi, si basavano su massaggi, bagni termali, passeggiate e musica. Non ebbe particolare fiducia nei salassi, e a tale giudizio negativo aggiunse anche i farmaci.
G aleno era lettore di filosofi, come Ippocrate, e pensatore egli stesso. Più vicino a grandi maestri quali Platone e Aristotele, conosceva bene gli stoici, non ignorava i lavori degli epicurei e dei pirroniani, ma - come nota la Boudon-Millot - questi ultimi «ne font pas partie de ses maîtres à penser». Il saggio ci restituisce uno scienziato poco noto, nato nel 129 d. C., vissuto sette secoli dopo Ippocrate, che non entrò in contraddizione con il suo illustre predecessore e scrisse moltissimo. La sua opera, d'altra parte, corrisponde a circa un ottavo di tutta la letteratura greca che conosciamo. Con essa arricchì e trasmise l'eredità ippocratica, al punto che la sua gloria soppiantò la precedente per tutto il Medioevo e il Rinascimento; oggi, invece, sembra accadere il contrario. Insomma, colui che ebbe l'onore di curare Marco Aurelio fu, oltre che testimone privilegiato della società romana del suo tempo, l'uomo di scienza che desidera «introdurci nell'intimità dei suoi malati, ricchi e poveri, e nel segreto delle loro case».
Scorrendo le pagine della Boudon-Millot, ci accorgiamo che Galeno di Pergamo padroneggiava innumerevoli materie oltre quelle mediche, tra le quali sono da considerare anche terapeutica e igiene; la sua mente spaziava nella filosofia (era un eccellente conoscitore di etica), nelle matematiche, non era secondo nel teatro e nella poesia, poteva discutere di architettura e di quella disciplina che oggi chiamiamo linguistica. Insomma, una mente universale che si dedicava a diagnosticare la malattia e a curarla con una metodologia che mai dimenticava l'umanità necessaria per essere vicino al paziente.
Ci sarebbero infinite notizie da aggiungere. I suoi interessi religiosi (riguardavano anche ebrei e cristiani), gli esperimenti con gli animali, l'uso che fece dell'oppio unito all'alcol per creare analgesici.

Corriere 21.10.12
La virtù della temperanza è il pilastro che sostiene la sua concezione di vita


Una prefazione di Véronique Boudon-Millot, docente alla Sorbona, apre anche un libro di Giorgio Cosmacini e Martino Menghi Galeno e il galenismo. Scienza e idee della salute (Franco Angeli, pp. 176, 20). L'opera, appena uscita, mette a fuoco in due saggi l'antico scienziato e la sua fortuna attraverso i secoli. Se Menghi pone in evidenza il «medico filosofo», soffermandosi sulla formazione di Galeno, sulle sue opere e soprattutto sulle terapie del corpo e dell'anima da lui proposte o testimoniate, Cosmacini approfondisce il concetto di «galenismo», ovvero di quell'«ideologia di lunga durata» che giunge ai nostri giorni passando attraverso la scuola salernitana o la medicina ebraica e araba, Descartes, Harvey, l'illuminismo. Insomma, non è autore da dimenticare nemmeno oggi, giacché - scrive Cosmacini - «la virtù galenica della temperanza... è un pilastro che sostiene una concezione di vita dove questa è vista scorrere senza scompensi e senza affanni, in buona salute e in sicura salvezza, se incardinata su una medicina intesa come arte spirituale e razionale e come medianità (dal nome medietas deriverebbe il nome "medicina")». Menghi, da parte sua, mette in evidenza la profonda trasformazione che avviene con Galeno: dal medicus amicus delineato da Celso si passa alla «condizione psicologica di sottomissione che si traduce nella puntuale osservanza delle indicazioni, nell'obbedienza alle sue direttive e prescrizioni». Descrizione da intendersi senza mai dimenticare il concetto di medicus gratiosus, «che preferisce convincere i suoi pazienti piuttosto che impartire loro degli ordini». E anche se tradiva Seneca e la sua concezione circolare dei «benefici», portava qualcosa di nuovo e diventava il garante della salute fisica e morale dell'umanità. Inoltre, quei suoi consigli in materia di temperanza alimentare ed erotica inducono inevitabilmente il medico ad essere un punto di riferimento anche per la morale. Ma non tutto finisce qui. Si incontrano in queste pagine anche le problematiche legate alla dissezione, che Galeno praticò e insegnò, alla quale il medico renano Günther von Andernach - grecista e traduttore di opere del maestro - proclamò la sua avversione ricordando a tutti di volere «servirsi del coltello solo a tavola».

Corriere 21.10.12
Tutte le opere raccolte in 60 volumi


Il progetto di pubblicazione delle opere di Galeno nella serie greca de Les Belles Lettres è di una sessantina di volumi, l'ultimo dei quali — inedito sino alla recentissima scoperta — è il De indolentia (titolo francese: Ne pas se chagriner). Un elenco completo delle opere conservate e perdute di Galeno si legge nel saggio di Véronique Boudon-Millot alle pagine 351-374. In italiano la raccolta più ampia di scritti tradotti si deve a Mario Vegetti (il nostro maggior specialista del medico filosofo) e Ivan Garofalo: Opere scelte, volume di 1144 pagine edito nel 1978 nei «Classici della scienza» Utet, collana diretta da Ludovico Geymonat. Il De indolentia e il De propriis placitis, invece, sono usciti quest'anno in un volume Bur con il titolo L'anima e il dolore, con traduzione e testo a fronte. Nel 2011 presso Fabrizio Serra è stato pubblicato il De differentiis febrium libri duo arabice conversi. Ma il nome dell'antico scienziato si ritrova anche in molte discussioni contemporanee, come mostra il saggio di David Sedley Creazionismo. Il dibattito antico da Anassagora a Galeno (editore Carocci). O nelle questioni alimentari, come insegna Mark Grant con La dieta di Galeno. L'alimentazione degli antichi romani (edizioni Mediterranee).

Corriere La Lettura 21.10.12
Non c'è spazzatura nel Dna
Smentita dai ricercatori la presenza di zone inattive nel genoma
Ogni tratto delle sequenze contribuisce a controllare le proteine
di Edoardo Boncinelli


Lo studio della genetica è entrato in una fase adolescenziale, con le immancabili crisi di identità, e non sappiamo dove andrà a parare. Quello che è certo è che bisogna smettere di immaginare il genoma come pieno di materiale inutile e prepararsi a ripensare dalle fondamenta il concetto di gene. Il nostro patrimonio genetico, infatti, brulica di geni, se solo li si sa vedere. Questo il verdetto degli ultimi cinque o sei anni di studi e il risultato diretto di una serie di lavori recenti, tra i quali spicca quello, in via di pubblicazione sulla rivista «Nature», di un gruppo italiano guidato da Stefano Gustincich della Sissa di Trieste, con la collaborazione di studiosi di diversi istituti di ricerca. Ma andiamo per ordine. Si sa da tempo che solo un 3-4 per cento del nostro Dna specifica direttamente la struttura delle proteine e quindi, se chiamiamo gene quel tratto di Dna che specifica la sequenza di una determinata proteina, solo il 3-4 per cento del Dna contiene geni. E tutto il resto del Dna del nostro genoma che cosa ci sta a fare? C'è da considerare inoltre che il Progetto Genoma ne ha contati solo 24 mila di tali geni, un numero piuttosto basso, paragonabile a quello di un moscerino o di una piccola piantina. Se si considera poi che molti geni si assomigliano considerevolmente in molte specie, non si capisce bene quale sia la nostra specificità, e in che cosa ci distinguiamo da una scimmia, ma anche da una volpe. È noto, per esempio, che i nostri geni sono simili al 98,6 per cento a quelli di uno scimpanzé, che pure è abbastanza diverso da noi. C'è quindi qualcosa che non va.
Una maniera per uscire da queste difficoltà è pensare che la natura delle proteine di cui siamo fatti non sia tutto, e risulti al contrario di gran lunga più importante il modo in cui queste sono combinate tra di loro. Possiamo pensare le diverse proteine un po' come i diversi mattoncini del Lego, che sono sempre fondamentalmente gli stessi, ma con i quali si può costruire una casetta, una cattedrale o un autocarro. Se è così, allora non contano tanto il numero e la struttura delle proteine, ma come vengono accostate e giustapposte. Non contano quindi i geni direttamente codificanti proteine, ma il modo in cui vengono accesi o spenti e più in generale fatti agire. Una prima evidenza sperimentale, vecchia di qualche decennio, dice che ogni gene ha bisogno dell'intervento di un bel po' di Dna circostante per essere correttamente attivato e guidato nella sua azione. Ma anche se includiamo questo «Dna di controllo» non si arriva a più del 30 per cento delle sequenze. Resta ancora un buon 70 per cento del Dna che sembra inutile, al punto che qualcuno anni fa è arrivato a battezzarlo Dna in eccesso o addirittura «Dna spazzatura», in inglese junk Dna. Ebbene, emerge ora che questo Dna in eccesso è la sede di una frenetica attività, tutta finalizzata, direttamente o indirettamente, a controllare le proteine del corpo. Non c'è nemmeno una minima regione del genoma che non sia impegnata in questo compito, il compito, ripetiamo, di controllare la presenza e la disposizione dei mattoncini che compongono il nostro corpo. Qui occorre entrare in qualche dettaglio tecnico. Per fare una proteina, il corrispondente tratto di Dna, cioè il suo gene, deve essere oggetto di un certo numero di operazioni. Il Dna, composto di due eliche appaiate e avvolte l'una sull'altra, si deve «aprire» proprio in corrispondenza del gene e la sequenza interessata deve essere trascritta, cioè copiata in un corto filamento di Rna, l'acido nucleico antico cugino del Dna. Questa molecola, chiamata Rna messaggero, deve poi uscire dal nucleo della cellula e andarsi a posizionare correttamente sugli organelli cellulari, detti ribosomi, deputati infine alla sintesi della proteina in questione. Il passaggio finale dall'Rna messaggero alla proteina si chiama traduzione. Ciascuno di questi passi deve essere finemente controllato ed è controllato in maniera piuttosto complessa, ma ferrea, proprio dal Dna che si riteneva inutile! La verità è che il Dna dell'intero genoma viene trascritto, cioè copiato in molecole di Rna più o meno lunghe e sono proprio queste molecole che, anche se non sono direttamente tradotte in proteine, ne controllano la sintesi finale. Come dire che nel genoma ci sono numerosissimi geni dei quali prima non ci eravamo accorti. Se chiamiamo geni soltanto i tratti di Dna che specificano direttamente la sequenza di una determinata proteina, questi non sono più di una ventina di migliaia, ma se chiamiamo geni tutti i tratti di Dna che sono trascritti in altrettante molecole di Rna e che cooperano al controllo della sintesi delle diverse proteine, questi sono tanti di più, un numero che ancora non conosciamo in tutta la sua estensione. Queste molecole di Rna fanno tutti i mestieri possibili: controllano la trascrizione degli Rna messaggeri, ne determinano la sopravvivenza e perfino l'efficienza della traduzione finale in proteine funzionanti. Quest'ultima cosa l'hanno vista proprio adesso Gustincich e i suoi collaboratori. Esiste nel cervello un gene, Uchl1, il cui Rna messaggero non viene praticamente tradotto se non è «aiutato» da una lunga molecola di Rna «coadiutore», che sta lì per quello. Da dove viene questa molecola di Rna? Dalla trascrizione della stessa zona di Dna, condotta però non sull'elica del Dna che porta la sequenza del gene, ma dall'altra, quella che sembra che stia lì a non fare niente. Il Dna ha due eliche, quindi, non solo per potersi replicare correttamente, come videro Watson e Crick quasi sessanta anni fa, ma anche per non sprecare neppure una briciola della sua preziosa informazione biologica. Un'elica aiuta l'altra e tutte e due generano la vita quale noi la conosciamo. Sarà una faticaccia tremenda sbrogliare questa gigantesca matassa, alla faccia del Dna inutile e del possesso di pochi geni!

Corriere La Lettura 21.10.12
Anoressia: troppo facile incolpare le modelle
di Chiara Lalli


«L'anoressia? È tutta colpa di Twiggy e dell'icona di donna pelle e ossa che ha generato». E se Twiggy è invocata da chi era giovane negli anni Sessanta e le nuove generazioni l'hanno sostituita con altre modelle o attrici, la connessione causale rimane intatta: si diventa anoressici perché il modello culturale ci rimanda a una donna magrissima, cui vogliamo adeguarci. E l'anoressia non è altro che il nostro desiderio imitativo che ci sfugge di mano. La moda è spesso considerata la pecora nera nel fragile mondo della rappresentazione e dell'istigazione all'ossessione per la magrezza. Vale anche al contrario: a fine settembre alcuni autoscatti di Lady Gaga con qualche chilo in eccesso sono stati presentati come un esempio di autocompiaciuta ribellione alla magrezza imposta. In questa nebbia il recente libro di Carrie Arnold Decoding Anorexia (Routledge) indica una strada diversa, nascosta dal brusio colpevolizzante verso le modelle spigolose. La Arnold unisce il racconto di esperienze e vissuti — compreso il suo passato di anoressica — a un'analisi biologica e scientifica delle cause dei disturbi alimentari. E, supportata da ricerche e numeri, ci ricorda non solo che le anoressiche sono sempre esistite, ben prima delle supermodelle, ma che esistono in realtà rurali e non bombardate da pubblicità e sfilate. Non solo: i fattori culturali condivisi sembrano essere meno rilevanti come elemento scatenante rispetto a quelli individuali — una violenza subita, per esempio — e il richiamo imitativo non spiega perché non si ammalano di anoressia tutti quelli esposti al modello di bellezza scheletrica. La connessione tra moda e anoressia potrebbe anche contribuire alla sottovalutazione della patologia, a rinforzare la convinzione — tipica di ogni forma di dipendenza — del «posso smettere quando mi pare», perché in fondo non sto male, è solo una fissazione passeggera. E invece l'anoressia è una patologia ostinata e mortale, anche perché strettamente intrecciata a forme depressive gravi e a tentativi di suicidio. È difficile, a volte impossibile, asciugare il terrore di assumere calorie al punto da rifiutare l'acqua, smettere di controllare il proprio peso e quello del quarto di mela concesso per pranzo o non procurarsi il vomito per scongiurare un allucinatorio senso di pienezza. Il modello esplicativo che appiattisce le cause all'industria del fashion, favorito dai media, rischia di condannare al sommerso quanto sfugge a questa spiegazione. Come al solito avere una fotografia più nitida è la condizione necessaria per ipotizzare più correttamente un rimedio e non sprecare energie sostenendo anatemi contro la taglia 40.

Corriere La Lettura 21.10.12
La filologia applicata al buddhismo ci libera dalla beata ignoranza
Per Richard Gombrich, il fondatore della religione è un pensatore empirista
Spesso travisato da filosofi (a partire da Schopenhauer)
di Guido Vitiello


Nietzsche scoprì la Ruota del Dolore buddhista, la maledizione delle rinascite, gli eterni cicli del samsara, e battezzò tutto questo Gaia Scienza: «Sarei curioso di sapere qual era la sua idea di una Scienza dolorosa», commentava Chesterton. Certo è che di questi tempi la prospettiva di una nuova vita, fosse anche come alce o armadillo, ci appare, se non proprio gaia, neppure così sciagurata. Chi un giorno si interrogherà sulla persistente moda della reincarnazione in Occidente potrà dedurne le cause da alcuni fattori contestuali: un certo benessere materiale, l'allungamento della vita media, una fifa cieca che nasce dalla scarsa dimestichezza con la morte, l'ideologia dilatoria della seconda, terza o quarta possibilità; non ultimo, l'esser cresciuti con i videogame a vite multiple. Le idee nascono e si affermano sempre in un punto determinato della Storia, anche quando paiono trascenderla o negarla.
È vero anche per le idee di Buddha, come mostra il libro di un indologo e studioso di sanscrito, Richard Gombrich, figlio del grande storico dell'arte Ernst. S'intitola Il pensiero del Buddha (Adelphi), e porta anzitutto a chiedersi se sia lecito trattare il propugnatore di una dottrina di salvezza alla stregua di un filosofo. Gombrich ne è persuaso: «Non discuto che, come fondatore di una religione, il Buddha possa essere inserito nella stessa categoria di Mosè, Gesù o Muhammad. Ma non per questo dobbiamo escluderlo dalla classe di pensatori come Platone, Aristotele e Hume». Questi tre accostamenti potranno stupire, perché quando si parla di buddhismo e filosofia il nome che affiora alle labbra fatalmente è uno solo: Arthur Schopenhauer, il grande rinunciante che proclamava di insegnare le stesse cose di Buddha e che definì l'esistenza «una strada sbagliata, tornare indietro dalla quale è redenzione».
Il punto, quando si è sbagliato strada, è trovare un modo per cavarsene fuori. L'impaziente si mette a correre alla ventura, grida sperando in un passante che lo soccorra, impreca contro chi lo ha messo lì, si rannicchia in un angolo e piange. Buddha, dal canto suo, scelse una via più pragmatica. Posto che siamo persi in un labirinto doloroso, tutto sta a cercare l'invisibile filo d'Arianna che ci riporti all'ingresso. Questo filo è la catena della causalità: «È come se il Buddha avesse originariamente cominciato dalla fine; si domandò: "Qual è la causa di tutte le nostre pene e sofferenze?". Dopo aver risposto alla domanda dicendo: "È il decadimento e la morte", si chiese poi: "E qual è la causa di questi?", e proseguì facendosi la stessa domanda fino ad arrivare all' ignoranza». A passo di gambero, l'uscita è riguadagnata, con un metodo che Gombrich associa, prima e più che alla cupa metafisica di Schopenhauer, alla maieutica socratica e alle «congetture e confutazioni» di Karl Popper. Prove ed errori: Buddha era un empirista, non un metafisico. Le speculazioni teoriche, anzi, lo irritavano: chi è colpito da una freccia pensa a curare la ferita, non ad almanaccare sul nome dell'arciere. Allo stesso modo, a Buddha non interessava pronunciare sentenze ontologiche definitive: quando parla di realtà, si riferisce a «ciò di cui possiamo avere esperienza», ed è tutto quel che ci serve sapere per ritrovare il bandolo nel labirinto. «Ma del resto il Buddha rifiutava tutte le questioni del tipo "x esiste?" e le riformulava in "possiamo avere esperienza di x?"». Questo metodo lo applicò anche all'esistenza o inesistenza degli dèi. Non sapremo mai se Buddha vi credesse o meno, perché considerava la domanda irrilevante. E aveva un atteggiamento pragmatico anche rispetto al linguaggio, e al suo stesso insegnamento: certe sue formule che la tradizione ha ossificato in una dottrina immutabile nascono in realtà da contingenze polemiche, perfino da motti di spirito coniati a danno dei brahmani; un capitolo del libro di Gombrich si intitola «Il Buddha come satirista» (ma va pur detto che è un tipo di satira che fa sghignazzare solo i sanscritisti a congresso).
Certo, Buddha non era un pragmatista esasperato, un sostenitore del «basta che funzioni». La tradizione buddhista vuole che la dottrina funzioni perché è vera, non il contrario. Ma il Buddha «popperiano» aiuta Gombrich a sgombrare il campo dalle tante immagini distorte che spazientiscono lo studioso: «Sì, il mondo è pieno di ignoranza e di stupidità, ma cosa mai può battere l'idiozia di quello che persone istruite sono pronte non soltanto a dire, ma persino a pubblicare sul buddhismo?». Se a monte della catena delle cause sta l'ignoranza, anche la filologia è una dottrina di liberazione.

Corriere La Lettura 21.10.12
Il divorzio è Legge: dopo 18 Ore (e 4 Svenuti)
di Carlo Vulpio


Se sciogliere il matrimonio era il «male assoluto» per la Chiesa, il Pci fu tiepido. I partiti a favore divennero i «nemici della famiglia» per i cattolici, che vennero sconfitti al referendum nel '74. Oriana Fallaci scrisse: «Siamo cresciuti. Senza i promotori non lo avremmo saputo»

Oggi il problema è opposto rispetto a quello di quarant'anni fa. Allora, la Democrazia cristiana di Amintore Fanfani, il Movimento sociale italiano di Giorgio Almirante, il Partito monarchico di Alfredo Covelli, i Comitati civici del professor Gabrio Lombardi, e anche papa Paolo VI, credevano che il divorzio fosse il «male assoluto». Ma oggi il problema è inverso, e se lo pone soprattutto la Chiesa cattolica, che si domanda come non escludere e anzi recuperare i divorziati — anche quelli che si sono risposati —, non come impedir loro a tutti i costi di ricorrere allo scioglimento del matrimonio, il «malefico» divorzio. Di più, la Chiesa sembra voler guardare ancora più lontano, se lascia che un teologo come Bruno Forte, vescovo di Chieti-Vasto, vada in giro per università a parlare della «drammatica situazione dei figli dei divorziati che si sono risposati» e ribadisca ogni volta «la necessità di avviare una riflessione sui modi e i tempi necessari per il riconoscimento della nullità del vincolo matrimoniale».
Oggi, i clericali più accaniti possono pure gridare allo scandalo, considerare questa via più esiziale della breccia di Porta Pia e rispolverare accuse di «protestantizzazione» della Chiesa di Roma (magari facendo notare di sfuggita che il più attivo in tema di divorzio è proprio il clero tedesco e che, guarda caso, anche Martin Lutero era tedesco...), ma ormai una nuova strada è stata tracciata.
Quarant'anni fa, no: non era così. Era davvero un altro mondo quello in cui — la notte fra il 30 novembre e il 1° dicembre del 1970 — il Parlamento italiano, dopo una seduta lunga diciotto ore in cui quattro deputati si sentirono male e svennero, approvava con 325 voti a favore e 283 contrari (164 sì e 150 no al Senato) la legge numero 898 istitutiva del divorzio, intitolata «Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio» e più nota come legge Fortuna-Baslini, dai nomi di Loris Fortuna (socialista e poi anche radicale) e Antonio Baslini (liberale) che unirono in un solo testo i rispettivi progetti di legge. In quel mondo così diverso, quel tema così scabroso — il divorzio, nientedimeno — stava viaggiando già da cinque anni su un treno chiamato Lid, Lega italiana per il divorzio, fondata nel 1965 e guidata dallo stesso Fortuna e da Marco Pannella, il quale per il divorzio si batterà da par suo anche durante il referendum del 1974, nonostante l'oscuramento subìto dalla Rai, che non lo inviterà a nessuna delle tribune referendarie con la scusa che non è il segretario di un partito presente in Parlamento.
Pannella e i radicali in particolare, assieme a socialisti, liberali e repubblicani, in quegli anni furono additati dal mondo politico cattolico come i nemici della famiglia, quelli che volevano distruggere il nucleo primario e fondamentale della società, e questo diciamo pure che era abbastanza normale. Meno normali erano invece gli attacchi e le scomuniche che dovettero subire dal Partito comunista italiano prima, durante e dopo l'approvazione della legge. I comunisti, infatti, erano tiepidi nei confronti dell'introduzione del divorzio in Italia perché, dicevano sempre, «ben altri» erano i problemi e gli obiettivi di «un grande partito» come il Pci. E quando non erano tiepidi, erano feroci. Aldo Tortorella, uno dei massimi dirigenti del partito, che allora di fatto era già guidato da Enrico Berlinguer a causa della grave malattia che colpì Luigi Longo, diede dei divorzisti questa amena definizione: «Sono servi dei padroni, vogliono ostacolare la politica dell'incontro e del dialogo con i cattolici». Naturalmente, dopo la vittoria dei No al referendum del 1974, il primo della storia repubblicana, voluto dal fronte antidivorzista, «l'Unità» titolerà: «Grande vittoria della libertà».
La legge 898 tuttavia fu votata — sebbene per motivi di opportunità politica — anche dai comunisti. Ed era una legge, si sfiancavano a spiegare i suoi sostenitori, che non incitava a divorziare, ma era soltanto la medicina necessaria a cui ricorrere quando la malattia era già insorta.
Nella sua versione originaria, per esempio, la legge prevedeva che la sentenza di divorzio potesse essere pronunciata solo dopo cinque anni di separazione giudiziale, che diventavano sei in caso di opposizione dell'altro coniuge e addirittura sette in caso di separazione pronunciata per colpa esclusiva del coniuge che richiedeva il divorzio. Cautele che non bastarono a dissuadere il fronte referendario antidivorzista, che provò a chiamare a raccolta il popolo in nome della salvaguardia della integrità della famiglia, ma venne sconfitto. Il 59,3 per cento degli italiani che andarono a votare disse di no all'abrogazione della legge che istituiva e regolava il divorzio. Ma fu un no dell'Italia centro-settentrionale e, grande sorpresa, della Sicilia (50,5 per cento di no), cioè proprio la regione più citata nei comizi e nei dibattiti in quanto patria per eccellenza del «delitto d'onore», ovvero della più nefasta conseguenza dell'adulterio, che era la prima causa di fallimento del matrimonio e quindi la patologia più grave a cui il divorzio («meglio una separazione di un omicidio») doveva rimediare. Tutte le altre regioni del Sud e, altra sorpresa, il Trentino (50,6 per cento di sì) votarono compatte per l'abolizione della legge Fortuna-Baslini. L'Italia però non era più a metà del guado, con l'introduzione del divorzio scoprì d'essere diventata un Paese più adulto. «Siamo cresciuti, siamo cambiati. Senza i promotori del referendum non lo avremmo saputo. Bisogna ringraziarli», scrisse ironica ed emozionata Oriana Fallaci.
E infatti siamo così cambiati che oggi la prima causa di divorzio non è nemmeno più l'adulterio, ma la noia, assieme all'incomunicabilità e all'incompatibilità di carattere. Siamo così cambiati che più dell'aumento dei divorzi (10.618 nel 1975, 54.456 nel 2009) colpisce la diminuzione del numero dei matrimoni (419 mila nel 1972, 210 mila nel 2010). Non siamo cambiati invece nella capacità di rendere difficile e persino odioso l'esercizio dei diritti. Così accade che per ottenere la sentenza di divorzio, che oggi dovrebbe arrivare dopo tre anni dalla pronuncia di separazione, e nonostante 4 divorzi su 5 siano consensuali, si impieghino «normalmente» dai sette ai dieci anni, con costi che riducono sul lastrico molti coniugi e costi umani che li avvelenano e li tengono impegnati in una guerra permanente che nemmeno La guerra dei Roses, il celebre film di Danny De Vito con Kathleen Turner e Michael Douglas. Il risultato è quello che Paolo Guzzanti nella prefazione al libro I perplessi sposi di Gian Ettore Gassani (Aliberti) ha definito «turismo divorzile»: per far prima e meglio si stabilisce per poco tempo la residenza all'estero, ad esempio in Francia, e si divorzia lì, facendosi poi trascrivere la sentenza in Italia.
Un altro calvario che, riconoscono molti giuristi, richiederebbe un aggiornamento della legge 898 è quello degli obblighi di assistenza economica tra i coniugi anche dopo il divorzio, mentre sull'affidamento dei figli si entra in una landa desolata che meriterebbe un discorso a parte.
Siamo cambiati, non c'è dubbio. Oggi se Domenico Modugno cantasse di nuovo L'anniversario verrebbe applaudito da tutti. «Amore senza data, senza carta bollata/ Ti sposo ogni mattina e tu rispondi sempre sì/ Noi non giuriamo niente, perché non c'è bisogno/ Con un contratto non si lega un sogno...». La canzone era a sostegno della legge sul divorzio, ma potrebbe andare benissimo anche per il Family Day e il Gay Pride.

Repubblica 21.10.12
“Non siete solo peccatori, la Chiesa è con voi” 

La rivoluzione del Sinodo: apriamo ai divorziati
di Marco Ansaldo


CITTÀ DEL VATICANO — I divorziati risposati non possono essere ridotti a una «realtà peccatrice». E la Chiesa «deve trovare soluzioni» al loro caso. C’è una buona notizia che viene dal Sinodo dei vescovi in corso in Vaticano. Ed è la significativa apertura, da parte della Chiesa ufficiale, alle coppie divorziate e risposate, con una riflessione sui loro figli e l’accesso a comunione e sacramenti. Monsignor Felix Gmur ha 46 anni, ed è uno dei più giovani fra i vescovi partecipanti ai lavori. L’altro ieri, in un’aula che lo ascoltava con attenzione, e molte teste che annuivano, diceva: «Io conosco una coppia: sono sposati da 50 anni e tutti e due hanno alle spalle brevi esperienze matrimoniali. Questi 50 anni non contano nulla? È solo una realtà peccatrice? Forse qui la Chiesa deve immaginare un nuovo trattamento».
Così, il giovane episcopo Gmur è andato in profondità: «Pensiamo a una ragazza che vive con sua madre e con il compagno della madre — si è chiesto ancora — allora bisogna ripensare le relazioni del corpo della famiglia, del corpo della Chiesa e anche del corpo umano, della sessualità». Il suo appello non è stato il solo a risuonare nell’aula. Qualche giorno prima ne aveva accennato un monsignore di Malta, il vescovo Mario Grech: «Per le coppie di fatto che sentono l’insegnamento del Magistero come un macigno sulla loro testa e sui loro cuori — aveva detto — e trovano difficoltà a riconciliarsi con la Chiesa e forse con Dio, l’avere la Chiesa che cammina accanto a loro si rivela veramente come una buona notizia». E il presule maltese ha poi continuato: «Direi che queste coppie oggi aspettano dal Sinodo un “messaggio imperiale”, una parola illuminante come quella che ha pronunciato il Santo Padre a Milano. Cioè che “questo problema dei divorziati risposati è una delle grandi sofferenze della Chiesa di oggi”, e che “a queste persone dobbiamo dire che la Chiesa le ama, ma esse devono vedere e sentire questo amore”».
Così l’altro giorno, uno dei big alla riunione, l’arcivescovo Robert Zollitsch, presidente della Conferenza episcopale tedesca, si è espresso a favore di una soluzione: «Questo non è un tipico problema dell’Europa centrale» ha precisato, sottolineando che il tema «è sentito anche tra vescovi latinoamericani e africani».
Gli italiani non si sono tirati indietro. Un teologo riconosciuto come Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, ha caldeggiato «una decisa svolta nel senso della carità pastorale» sul tema dei divorziati risposati, ai quali è negata la comunione e, in particolare, dei loro figli, «che spesso vengono resi estranei ai sacramenti dalla non partecipazione dei loro genitori». E ieri mattina un altro nome importante, il cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze, rilevava
alla Radio Vaticana che «nessuno è buttato fuori dalla comunità per una sua irregolarità di situazione familiare». Si tratta anzi di «creare spazi in cui ci sia accoglienza rispetto all’immagine del matrimonio che Gesù ci ha affidato ».
Betori è anche il presidente della commissione per il messaggio conclusivo del Sinodo. Un testo che sarà emendato e messo ai voti venerdì. Data la rilevanza del tema e le posizioni più volte espresse da Papa e vescovi, non si esclude che l’argomento entri nel documento finale al voto. Due segnali di attenzione giungono in proposito. La
pubblicazione sull’ultimo numero di Civiltà cattolica, rivista che esce con l’imprimatur della Segreteria di Stato vaticana, di un approfondito articolo dal titolo “Separazioni e divorzi in Italia”. E il fatto che lo stesso pezzo sia riportato sull’Osservatore Romano di ieri. Il Papa, dicono i bene informati, «forse sta preparando qualcosa su questo tema».

Repubblica 21.10.12
Marcia su Roma
Un colpo di Stato dietro una commedia
di Massimo L. Salvadori

In quella che fu la prima opera di grande respiro storiografico sul fascismo, La dittatura fascista in Italia, uscita in una prima versione nel 1927 e nell’edizione definitiva l’anno successivo, Gaetano Salvemini scrisse che la marcia su Roma non fu una rivoluzione, ma piuttosto «un colpo di Stato, messo su come se si trattasse di una sollevazione spontanea di “camicie nere”, ma in realtà condotto da una “mano nera” militare». L’icastico giudizio era una sprezzante espressione polemica verso la leggenda costruita intorno alla marcia da un odiato regime. Il problema era naturalmente comprendere e far comprendere in quali circostanze la marcia fosse avvenuta, quali i fattori che l’avessero provocata, quali le condizioni storicopolitiche che l’avessero resa possibile e ne avessero determinato il successo, consentendo a Mussolini di presentarsi al re, dopo avere ricevuto l’incarico di formare il nuovo governo, nelle vesti di colui che gli portava «l’Italia di Vittorio Veneto, riconsacrata dalla vittoria».
Salvemini aveva analizzato con il suo acume di storico, nonostante scrivesse pochi anni dopo l’ottobre 1922, per quali responsabilità, per quali debolezze e inettitudini il fascismo aveva potuto imporsi fino a portare Mussolini alla guida del governo. L’analisi si presentava tanto pertinente quanto impietosa verso la classe politica liberale avviata sempre più al fallimento, le fallaci ambizioni di una sinistra ideologicamente ubriaca intesa a progettare una rivoluzione che non sapeva fare, il giovane Partito popolare che appoggiava in sede parlamentare i liberali per avversione verso i rossi ma mal digeriva di farlo e si divise di fronte al fascismo. In seguito altri esuli antifascisti pubblicarono libri importanti e persino memorabili quali anzitutto Nascita ed avvento del fascismodi Angelo Tasca, uscito nel 1938, dove era contenuto un penetrante studio degli antefatti e del significato della marcia su Roma. E, dopo il 1945, la storiografia sull’argomento è diventata imponente. La più recente disamina di questi antefatti e questo significato è contenuta nel terzo volume edito da il Mulino, fresco di stampa, della Storia delle origini del fascismo di Roberto Vivarelli, che merita di essere discusso per le sue non scontate interpretazioni. Proprio sulla marcia vi è una pagina che credo valga citare. Scrive l’autore: «Di per sé quando si dice “marcia su Roma” si intende quella particolare spedizione militare con la quale, negli ultimi giorni dell’ottobre 1922, le squadre fasciste mossero verso la capitale. In realtà [... ] l’espressione “marcia su Roma” ha un significato ben più ampio: con essa si indicano le ultime fasi di un processo che si concluse con la conquista fascista del potere e la vittoria di Mussolini. Di quel processo la spedizione militare è solo una delle componenti, neppure la maggiore, ed è futile chiedersi come e perché quella spedizione militare non fu fermata, quasi che un momentaneo successo del governo potesse allora bastare a sanare quella crisi politica che della vittoria di Mussolini fu la vera causa. Di questa crisi, tra l’agosto e l’ottobre 1922, si consumò la conclusione ».
La minacciata insurrezione fascista — è sempre Vivarelli — era in sé e per sé «niente più che una commedia»; ma fu l’evento simbolo della crisi del regime liberale, e della disfatta politica e strategica dei partiti socialista e popolare usciti trionfanti dalle elezioni del 1919. Di tale crisi e disfatta fu testimonianza bruciante il fatto che un disgustato Salvemini potesse dire nel 1923 che avrebbe quasi preferito un regime fascista di dieci anni al ritorno di un Bonomi o di un Facta.