lunedì 22 ottobre 2012

l’Unità 22.10.12
Scuola, il colpo è inaccettabile
Ultimatum di Bersani: non voteremo queste norme
di B. Dig.


Davanti al ministero a correggere i compiti. È la protesta che centinaia di insegnanti, dopo essersi convocati via sms, hanno inscenato ieri a Roma per contestare la norma contenuta nella legge di Stabilità che porta da 18 a 24 le ore settimanali di insegnamento: perché il lavoro di un insegnante questo il senso della protesta non finisce a scuola ma continua a casa, nel tempo libero o per strada come ieri. E Bersani lancia un duro messaggio al governo: o cambiano le norme sulla scuola contenute nella legge di Stabilità o il Pd non le voterà.

ROMA Sulla scuola è rivolta. Anche parlamentare. «Voglio dirlo con chiarezza: noi non saremo in grado di votare così come sono le norme sulla scuola, sono norme al di fuori di ogni contesto di riflessione sull’organizzazione scolastica e finirebbero per dare un colpo ulteriore alla qualità dell’offerta formativa». Lo dice a chiare lettere il segretario Pd Pier Luigi Bersani. I Democratici annunciano il voto negativo, se il governo dovesse insistere nel mantenere quel testo. In particolare la disposizione che porta a 24 ore settimanali l’orario dei professori: sei ore in più per coprire «spezzoni» e supplenze giornaliere. Tagliando fuori, così, circa 30mila precari, secondo la Cgil, circa 10mila secondo il ministero. Da cui fanno sapere di star già lavorando per soluzioni alternative. Il sottosegretario Marco Rossi Doria assicura: nessun taglio ai posti di lavoro.
«Sono contento che Bersani alla fine la pensi come noi sulla scuola e sugli effetti disastrosi delle scelte del governo ha commentato subito Nichi Vendola Ora però aspettiamo di vedere coerenza e comportamento dei parlamentari Pd. Il segretario Pd alza il livello del confronto. «In questi giorni continueremo nell’approfondimento della legge di Stabilità e discuteremo con altri gruppi di maggioranza cercando il massimo di convergenza», assicura. Nel rispetto dei saldi, «chiediamo al governo di rendersi disponibile a modifiche significative continua Noi metteremo attenzione alla questione fiscale cercando una soluzione più equa e più adatta ad incoraggiare la domanda interna». E non solo. Tra i punti sotto «osservazione» anche gli esodati, per cui gli ulteriori 100 milioni stanziati non bastano ancora. Ma le norme sulla scuola, per il segretario Pd, «così come sono non saremo in grado di votarle insiste il segretario Voglio credere che ciò sarà ben compreso dal governo. Diversamente saremmo di fronte ad un problema davvero serio».
Il «problema serio» significa che il governo uscirebbe battuto in Parlamento, e allora sarebbero guai. Il ministro Francesco Profumo, tuttavia, ha già fatto sapere di essere pronto a modifiche. La norma sull’aumento dell’orario avrebbe prodotto 720 milioni di risparmi nel settore, rispetto ai 183 richiesti da esigenze di bilancio. L’eccedenza sarebbe stata reinvestita nell’edilizia scolastica e in programmi di formazione. Ma per gli insegnanti quello schema è ingestibile, tanto che ogni giorno spuntano manifestazioni di protesta. Formazione e edilizia dovranno trovare risorse da altre parti e non nelle tasche degli insegnanti. Gli uffici di Viale Trastevere stanno già studiando misure alternative, con limature di spesa fondate sull’efficientamento degli uffici. Per ora non si supereranno i 183 milioni richiesti.
«Siamo in piena sintonia con il Presidente Napolitano: anche per noi la scuola è parte fondamentale della nostra società, ed è in questo senso che i parlamentari del Pd si stanno impegnando», aggiunge l’europarlamentare Debora Serracchiani. La quale attacca le «vacue» uscite della Lega sull’abolizione dei compiti a casa. «Quelli del Carroccio aggiunge parlano senza pensare ai danni che provocano creando false aspettative in migliaia di precari del Nord in attesa di stabilizzazione».
IL FISCO E I MENO ABBIENTI
Ma da modificare per il Pd c’è molto di più che la scuola. Sul fisco il relatore Pier Paolo Baretta chiede un «serio confronto tra la maggioranza ed il governo». Nella composizione della legge di Stabilità «i redditi più bassi risultano in assoluto i più penalizzati aggiunge Baretta converrà rimodulare la distribuzione» tra la riduzione dell’Irpef e l’aumento dell’Iva. Ormai sono sempre più numerosi gli istituti che valutano peggiorativo l’intervento fiscale soprattutto per le fasce più deboli. Ma il ministro Vittorio Grilli continua a difendere la «sua» legge. Intervistato ieri dall’Avvenire ha annunciato che ci sono 900 milioni disponibili per le modifiche, ma che non accetterà «controriforme». «Grilli deve finirla di fare propaganda», commenta Stefano Fassina.
Su un punto il ministro annuncia novità in arrivo: il nuovo Isee (indicatore di situazione economica equivalente), cioè quello strumento in base al quale si erogano trasferimenti o sconti su servizi sociali. Il nuovo testo è già stato preparato dal ministero del Welfare, e già la prossima settimana andrà al vaglio dell’Economia. Per essere varato servono almeno altri due passaggi (Consiglio di Stato e commissioni parlamentari), per questo non vedrà la luce prima della fine dell’anno. Per arrivare poi all’applicazione servirà che i Comuni lo adottino, con il relativo regolamento. Il nuovo testo presenta molte novità: si prevede ad esempio anche l’indicazione delle spese per la badante, o dei costi per la casa sia degli affittuari che dei proprietari. Inoltre, proprio a causa della crisi, si offre la possibilità di fare riferimento alle condizioni correnti, e non a quelle dell’anno prima, per poter «registrare» anche i casi di disoccupazione o di perdita di reddito di altro tipo. Inoltre è previsto che tutti i dati che l’amministrazione già possiede (per esempio la dichiarazione dei redditi Irpef) vengano acquisiti automaticamente. Un occhio di riguardo viene dato alle famiglie con minori.
Ma sull’idea del ministro di «incrociare» i dati Isee con quelli Irpef per aiutare i cosiddetti incapienti (quelli tanto poveri che non pagano le tasse) i tempi sono ancora lunghissimi. Di fatto, basare gli sconti fiscali o i trasferimenti non più sulle dichiarazioni, significherebbe rivoluzionare tutte le detrazioni e deduzioni (non solo tagliarle come è stato fatto oggi). Insomma, è un lavoro ancora da fare. Per ora resta l’aggravio per le famiglie.

l’Unità 22.10.12
I nostri insegnanti, lavorano di più guadagnano meno
di Mario Castagna


La dichiarazione di Bersani sulla necessità di una retromarcia per le misure sulla scuola contenute nella legge di stabilità, sono l'ultima dura presa di posizione del Partito democratico a difesa della scuola pubblica. Non è la prima volta che il Pd , negli ultimi anni sempre sulle barricate contro l'ipotesi di tagli all'istruzione, alza la voce anche contro il governo che gode della sua fiducia. Lo aveva già fatto contro il provvedimento sulla meritocrazia del ministro Profumo, riuscendo ad ottenerne il ritiro senza alzare polveroni. Questa volta però Bersani ha usato parole piuttosto forti, minacciando, per la prima volta, di non votare a favore del governo. Non è solo il clima delle primarie a suggerire al segretario dem di alzare i toni. Giungono infatti pressioni da molti deputati, dai responsabili scuola del partito ma anche dagli esponenti del governo, come il sottosegretario Rossi Doria, per fermare alcune misure che sembrano francamente ingiustificate. In questi ultimi anni, questo il succo del pensiero di molti esponenti democratici, il mondo della scuola ha già dato molto e ci si aspettava un'inversione di tendenza. Il governo Monti aveva promesso di rimettere al centro dei processi di crescita il sapere e l'istruzione ed invece nell'ultima l’ennesima manovra economica il governo chiede al Miur di tagliare di 183 milioni di euro il proprio bilancio. Per ottenere questo risparmio di spesa si chiede ai docenti di incrementare del 30% l'orario di lavoro a parità di salario. Le ore lavorate in più serviranno ad evitare di chiamare i supplenti. Ma il risparmio così ottenuto sarà però largamente superiore ai 183 milioni richiesti dal ministero dell'Economia, arrivando addirittura, secondo le stime dei sindacati e del Pd, ad 1 miliardo di euro l'anno. Un eccesso di zelo del ministro Profumo che vuole fare più e meglio di quanto richiesto dal governo. Una dieta strettissima che però rischia di rendere indigeste le carote destinate ai docenti e agli studenti italiani.
Il pressing sul governo ha già ottenuto i suoi frutti. Due norme che il Pd contestava, una sui docenti inidonei obbligati a diventare personale tecnico o amministrativo e l'altra sulle nuove certificazioni richieste per gli studenti disabili, sono sparite dalla bozza di decreto. Una parziale vittoria ma ora il Pd si appresta, sul piede di guerra, a contrastare con ogni mezzo l'aumento di orario per i docenti.
Solo questa settimana si saprà se nella commissione Bilancio della Camera si riuscirà a trovare una nuova copertura ai tagli proposti dal governo. Bersani ha dichiarato più volte che i saldi dovranno rimanere invariati e la prima proposta del Pd è di spostare quel taglio dal capitolo di bilancio destinato all'istruzione a quello destinato alla difesa. In alternativa si possono trovare fonti di risparmio anche all'interno del bilancio della scuola ma questo lavoro deve essere fatto in maniera mirata. Una delle proposte del Pd è l'adozione del software open source (gratuito e senza costi di licenza) nei computer delle scuole. Questa misura potrebbe portare ad un risparmio di un centinaio di milioni di euro.
Ma è la situazione generale dei docenti italiani, sempre più a rischio impoverimento, a preoccupare il Pd. Se il titolo di Professore era prima un vanto, oggi sembra quasi uno stigma. I docenti italiani già lavorano più ore dei loro colleghi europei sia nella scuola primaria (22 ore settimanali contro 19,6 di media) che nella secondaria superiore (18 contro 16,3). Gli stipendi invece rimangono al palo. Il loro potere d'acquisto, secondo Eurydice, la banca dati europea sulla scuola, è calato leggermente a partire dal 2010 ma il rischio grosso è che, a seguito delle misure di austerity, siano loro i più toccati dai tagli. Sedici Paesi Ue hanno già congelato o addirittura ridotto gli stipendi per i docenti. Gli insegnanti di Irlanda, Grecia, Spagna, Portogallo sono stati i più colpiti. Il rischio è che i prossimi siano proprio gli italiani. Con ieri il Pd ha forse voluto lanciare il segnale d'allarme prima che sia troppo tardi.

l’Unità 22.10.12
La protesta dei professori Flash mob al ministero
di Luciana Cimino


Diverse centinaia di docenti si sono radunati ieri mattina in una manifestazione spontanea sotto il ministero della Pubblica Istruzione. Un protesta che si ripeterà domenica prossima e inserita in un percorso preparato da assemblee cittadine di professori (alle quali partecipano anche studenti) affollatissime che si stanno tenendo a Roma in queste settimane. Parte di questo percorso è stata anche la correzione pubblica dei compiti davanti al Parlamento, sabato, e l’adesione di studenti, professori di ruolo e precari al «No Monti Day» del 27 ottobre in un unico spezzone della formazione. «In questo fermento spontaneo è nata una convergenza che salda varie anime della scuola – spiega Massimo del Coordinamento Precari Scuola – i docenti di ruolo che non vogliono le 24 ore a parità di salario, i precari perché viene tagliata una cattedra su 4, e gli studenti che partecipano a queste assemblee perché capiscono che i tagli incidono sul tipo di istruzione che ricevono». Come alla manifestazione del 12 ottobre degli studenti, anche ieri gli insegnanti hanno inondato di carote il Miur. «È una risposta creativa alla frase sul bastone e la carota di Profumo che rimane una uscita inaccettabile», dice il Cps. Docenti precari e di ruolo valutano con attenzione le aperture del sottosegretario Rossi Doria, del Ministro Giarda e del segretario Pd Bersani. «Il dato positivo è che nel momento in cui nasce una mobilitazione forte qualcosa si muove» ma avvisano «non si deve abbassare la guardia».

La Stampa 22.10.12
La rivolta delle cattedre
Anche chi è lontano dalle organizzazioni sindacali è pronto a scendere in piazza
Troppe 6 ore in più di lavoro Il governo studia l’alternativa
di Flavia Amabile


E i professori fanno il «flash mob» Ieri mattina centinaia di docenti hanno dato vita ad un flash mob sulle scalinate del ministero dell’Istruzione, in viale Trastevere, a Roma. Senza simboli politici o di sindacati, i docenti si sono radunati con cartelli che hanno spiegato come le ore di lezione sono solo una parte del lavoro svolto. Non sono mancate le «carote di protesta» a ricordare la manifestazione della scorsa settimana degli studenti.
In queste ore al ministero stanno studiando ipotesi alternative perché si è capito che l’aumento di sei ore delle lezioni in classe degli insegnanti è una misura poco difendibile sia politicamente che tecnicamente. Nelle scuole si sta preparando una rivolta di proporzioni finora mai viste, che coinvolge professori che finora non erano mai scesi in piazza e che hanno deciso di organizzarsi lontano da tessere di partito o di sindacati.
Il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo aveva già mostrato i primi segnali di apertura la scorsa settimana affermando di essere «certo che il confronto parlamentare sarà all’altezza del difficile compito che ci spetta, con l’obiettivo comune di consegnare all’Italia una scuola migliore, più europea, per studenti ed insegnanti. Per questa ragione ogni suggerimento ed eventuale modifica all’interno dei vincoli di bilancio votati dallo stesso Parlamento, sarà il benvenuto».
Nessun accanimento contro i prof e la scuola, insomma. Si può intervenire anche su altro, l’importante è far quadrare i conti e si sta lavorando per riuscirci. D’altra parte i tempi stringono e la conferma è arrivata anche da Piero Giarda, ministro per i Rapporti con il Parlamento, sottolineando la disponibilità del Miur a «rivedere, d’accordo con i gruppi parlamentari, la proposta contenuta nel ddl». Lo stesso promette il sottosegretario all’Istruzione Marco Rossi-Doria che scrive: «Troveremo una soluzione diversa per la legge di stabilità».
Saldi invariati: questa è la parola d’ordine, sottolinea anche il ministro Giarda. E per il Miur vuol dire capire come risparmiare 180 milioni di euro nel 2013, 173 milioni per il 2014, e 237 milioni per il 2015, molto meno di quello che si preparava a incassare il ministero dell’Economia con l’aumento delle ore di lezione dei prof e la cancellazione delle supplenze dei precari dalle scuole.
Dove trovare in alternativa i risparmi richiesti? Lo si capirà nei prossimi giorni. Nel frattempo il ministro Profumo auspica una maggiore flessibilità nel lavoro degli insegnanti, con prof che lavoreranno di meno ed altri che lavoreranno di più. Se ne discuterà il prossimo anno, forse in una Conferenza della scuola per avviare la trattativa del nuovo contratto.
In prospettiva, insomma, i professori dovranno lavorare 24 ore ma ci si arriverà in tempi molto più lunghi e con modalità meno rigide di quelle definite da una legge di stabilità. Si punta ad una riforma radicale dell’orario che non deve coincidere con l’attività didattica nelle classi ma andare a comprendere anche la programmazione didattica, i rapporti con le famiglie, il recupero delle carenze, la promozione delle eccellenze.
Ma i prof vogliono risposte subito e chiedono soprattutto che sia cancellato l’aumento di ore di lezione. E sono scesi sul piede di guerra. Sabato alcuni insegnanti hanno organizzato un’iniziativa di protesta spontanea andando a correggere i compiti davanti alla
Camera dei Deputati. Ieri mattina si sono ritrovati davanti al Miur per un flashmob che ha bloccato il traffico per un’ora. Da oggi si continua con un dimezzamento dell’attività didattica in molti licei. Ci saranno insegnanti che interromperanno l’ordinaria attività didattica senza indicare una data per la ripresa: staranno in classe senza fare lezione, il che vuol dire uno stop alle interrogazioni, ai compiti in classe, gite scolastiche, attività pomeridiane.

l’Unità 22.10.12
Così si voterà alle primarie
Per il ballottaggio ci si può iscrivere fino all’1 dicembre


Il regolamento per le primarie è stato stabilito dal Comitato dei garanti formato da Luigi Berlinguer, Francesca Brezzi, Francesco Forgione e Mario Chiti. Queste le regole.
La partecipazione alle primarie è aperta a tutte le elettrici e gli elettori, in possesso dei requisiti previsti dalla legge, che sottoscrivono il pubblico appello di sostegno della coalizione di centrosinistra “Italia Bene Comune” e dichiarano di riconoscersi nella sua Carta d’intenti.
Possono partecipare al voto i giovani che compiono 18 anni entro il 25 novembre 2012; i cittadini e le cittadine
dell’Unione europea residenti in Italia e i cittadini di altri Paesi in possesso di regolare permesso di soggiorno e di carta di identità.
Per esercitare il diritto di voto, come detto, è necessario sottoscrivere il pubblico appello di sostegno alla coalizione e iscriversi all’Albo degli elettori dal 4 al 25 novembre 2012. Sarà il coordinamento provinciale a stabilire il luogo e sarà necessario versare un contributo di almeno due euro per le spese.
L’ufficio elettorale territorialmente competente rilascia un certificato di elettore della coalizione, valido per poter partecipare al voto. Ogni elettore può votare solo nel seggio che include la propria sezione elettorale esprimendo un'unica preferenza in corrispondenza del candidato prescelto.
Non sono ammessi al voto per le primarie coloro che non abbiano sottoscritto il pubblico appello e la Carta di intenti o coloro che svolgano attività politica in contrasto con la coalizione. Il coordinamento nazionale adotta delibere attuative relative al voto degli italiani all’estero, degli studenti e dei lavoratori domiciliati fuori dalla regione di residenza, nonché ai seggi speciali.
La novità introdotta riguarda il ballottaggio. Al secondo turno, se nessun candidato raggiunge il 50% più uno dei consensi al primo, potranno partecipare anche quanti dichiarino di essersi trovati impossibilitati a iscriversi all’Albo entro il 25 novembre.
Per accedere al voto del secondo turno, però, dovranno registrarsi in due giorni che saranno stabiliti nell’arco di tempo che va tra il 27 novembre e il 1 dicembre.

La Stampa 22.10.12
Il governatore Rossi: è presuntuoso, ma a Firenze faticò
“Troppo sicuro, nella sua città non vinse neanche al primo turno”
di Carlo Bertini


Dall’altro capo del telefono risuona una risata sincera e fragorosa. Enrico Rossi, governatore della Toscana, bersaniano di ferro, uno di quelli che più erano contrari a cambiare lo statuto per far correre il sindaco di Firenze alle primarie, reagisce così quando sente che Renzi dice «con me il Pd va al 40% e con voi resta al 25%». Perché certo «il personaggio non difetta di sicumera, ma c’è solo un dato di riferimento reale, le elezioni al sindaco di Firenze, quando non vinse al primo turno... ». E anche se ne è passata di acqua sotto i ponti, «l’atteggiamento è lo stesso, l’attacco verso la sinistra è identico, così come il desiderio di compiacere l’elettorato di centrodestra. Un conto sono i sondaggi compiacenti, un altro i voti reali. Una battuta un po’ presuntuosa, via». Piuttosto, Rossi si interroga sul perché Renzi non si pronunci sulle scelte del governo: «Si potrebbe pensare ad una patrimoniale sulle grandi ricchezze, per una finanziaria più equa che rilanci gli investimenti e riduca i tagli a sanità e scuola. Che ne pensa Renzi? Non basta costruire suggestioni, bisogna entrare nel merito delle cose».
Certo il labirinto di regole per votare alle primarie può scoraggiare la partecipazione e limitare infine la capacità espansiva del Pd. O no?
«Penso che questo albo degli elettori vada fatto e costruito con serietà, anche per ricostruire un rapporto tra i partiti e gli elettori. E chi è deluso dalle politiche di Berlusconi e vuole partecipare alle scelte del centrosinistra, è giusto che ci metta la faccia».
Ma ad esempio, perché non potersi iscrivere on line e andare a ritirare il certificato, pagare e poi votare negli stessi gazebo?
«Le regole è giusto che ci siano ed è giusto che chi decida di votare per il centrosinistra si esponga ma deve esser anche data la possibilità di cancellarsi dall’albo se si cambia opinione. Ma sarebbe singolare se qualche elettore, spinto dagli appelli venuti da Berlusconi e Santanché, venisse a votare alle primarie e cambi opinione da qui alle elezioni. Vanno evitate furbizie e brogli, perché i contraccolpi delle primarie di Palermo e Napoli hanno rischiato di mettere in dubbio la credibilità del partito. Detto questo, mi sembra che Renzi voglia uscire dall’angolo in cui si è messo con la rottamazione e con le frequentazioni con la finanza, ributtandola sulle regole che lo penalizzerebbero».
E secondo lei queste regole non penalizzano Renzi?
«In realtà l’assemblea nazionale del Pd si è riunita per concedere a lui questa modifica dello statuto ad personam: e uno non si aspetta di essere ringraziato per questo, anche se un po’ di educazione non guasterebbe. Doveva esser lì, chieder di parlare e ringraziare».
Ma alla luce di questi paletti così stringenti, sipuòdirecheallafineBersanisia stato condizionato dalla nomenklatura del Pd che vuole blindare lo status quo? In altre parole, il segretario ha voluto rassicurare al massimo tutte le correnti che lo sostengono?
«Credo siano lineari i comportamenti di Bersani e invito Renzi a non definire sleale il suo competitor che è il segretario del suo partito. Capisco il bisogno di essere al centro della scena e dello spettacolo, ma le parole si devono misurare: definire sleale Bersani che per primo si è impegnato ad avere primarie aperte, malgrado il parere di molti, non è proprio accettabile. E comunque certe letture derivano da una scarsa conoscenza del personaggio Bersani: un uomo pacato, ma così determinato che nei suoi propositi non lo smuove nessuno».

Corriere 22.10.12
Paolini: il voto per Puppato (ricordando Tina Anselmi)
L'attore: corre alle primarie, è brava, eppure quasi ignorata
di Marco Paolini


Nel '78 ero un teatrante di provincia, quella mattina dopo lo spettacolo per le scuole avevamo solo fame, ma un vigile agitato non ci faceva passare dalla bella piazza rotonda di Badoere, piena di contadini e macchine agricole in mostra: «C'è il Ministro» diceva, e si sentiva la maiuscola nella voce.
Un'ora dopo ci fa passare e andiamo al ristorante lì vicino. Dopo un po' che siamo seduti entra un ciclone: una donna e dietro un codazzo di maschi, veneti, democristiani agitati, c'è anche il vigile. È il Ministro, la prima donna Ministro della Repubblica.
Cresciuto a Treviso, avevo dei democristiani conoscenza diretta e nessuna simpatia, ma spiarli al loro tavolo era irresistibile, non si sentivano le parole ma solo un rumore di fondo: per adulare tubavano come colombi in piazza San Marco. Lei ascoltava, era evidente chi fosse l'unico al tavolo a possedere gli attributi, ma non li esibiva. Il sindaco manda il vigile a chiamarci, si pavoneggia con Lei presentandoci come «artisti che hanno fatto uno spettacolo per i nostri bambini». «No artisti — dico — teatranti siamo».
Lei mi guarda dritto negli occhi, sembra una delle maestre che portavano i bambini a teatro «Bravi!» ci fa e TAC!, una pacca sulla spalla, ma forte. Non me l'aspettavo.
La seconda volta che l'ho incontrata era il '95 e aveva già smesso di fare politica. Quelli di Cuore avevano appena provato a candidarla presidente della Repubblica, ma il Parlamento non li aveva presi sul serio. Peccato, mi sarebbe piaciuta Tina Anselmi al Quirinale. Ero andato a fare il racconto del Vajont a Castelfranco Veneto e dopo lo spettacolo è venuta, mi ha abbracciato e abbiamo parlato di Tina Merlin, la giornalista del Vajont. Era commossa l'Anselmi mentre ne parlava, io ero emozionato, volevo dirle qualcosa, anche solo grazie, per aver fatto la più importante riforma di questo Paese, quella del servizio sanitario nazionale del '78, per aver fatto ogni sforzo possibile per andare a fondo sulla P2 in mezzo a pressioni del suo stesso partito e degli alleati di allora. Volevo dirle grazie ma senza adularla come i colombi quel giorno al suo tavolo, così alla fine non le ho detto niente, solo TAC!, una pacca sulla spalla, ma piano, adesso siamo pari.
Chiedo scusa per aver preso tutto questo spazio per raccontare di Tina Anselmi in modo così personale, ma mi serviva per parlare di Laura Puppato.
Partecipa alle primarie del Partito democratico; partecipa ma apparentemente non corre, pare essere lì per puro spirito olimpico. Quasi ignorata dai giornali, schiacciata dalla dicotomia Bersani-Renzi, appare solo un elemento di contorno, una quota rosa. Non è così.
Conosco Laura Puppato da quando era un sindaco di provincia e dalla prima volta che l'ho incontrata ho pensato a Tina Anselmi: mi sembra che abbiano una cosa in comune, sono un'eccezione alla regola. Tina Anselmi è riuscita a farsi apprezzare anche da chi (come me) aveva un pregiudizio ideologico verso di lei. Oggi il pregiudizio si rivolge in blocco alla classe politica. Quel pregiudizio conterà moltissimo tenendo sempre più gente lontana dai seggi a meno che non si cominci a cambiare le regole. A questo servono le eccezioni, come dice Brecht aiutano a riconoscere che ciò che è diventato regola a volte è sbagliato e va cambiato.
La candidatura a presidente della Anselmi non venne presa sul serio dalle regole della politica. La proposta di candidarsi alle primarie Laura l'ha fatta da sola ed è una candidatura seria, capace di motivare anche chi sente oggi quel pregiudizio sulla politica. Scrivo per stimolare chi pensa a lei come suo candidato possibile alle primarie a fare una campagna dal basso per farla conoscere. Le primarie sono un'occasione per dare un po' di sostanza e speranza alla democrazia.
Una volta il Veneto, di regola, generava soprattutto emigranti e donne di servizio per la gente di città e una classe politica di scarso rilievo nazionale con poche eccezioni. Ogni tanto, in una di queste eccezioni, genera anche una donna di servizio pubblico tenace, senza soggezione verso chi è più potente di lei, capace di farsi apprezzare anche da elettori di campo avverso. «Brava!» e TAC! TAC! TAC! TAC! perché Laura corra la maratona, servono decine, centinaia di migliaia di piccole e convinte pacche sulle spalle.

Corriere 22.10.12
La normalità è una chimera
Assumiamo che Pier Luigi Bersani non riesca a vincere le primarie del Pd al primo turno
di Angelo Panebianco


Assumiamo che Pier Luigi Bersani non riesca a vincere le primarie del Pd al primo turno. Di fronte a tale eventualità, Bersani dovrebbe cominciare a preoccuparsi un po' meno dei voti che raccoglierà Matteo Renzi al primo turno e molto di più di quelli che si concentreranno su Nichi Vendola. Perché se Vendola otterrà un buon successo, una percentuale ragguardevole di voti al primo turno, allora sì che saranno guai per il Pd. Al secondo turno, nel ballottaggio fra Bersani e Renzi, i voti di Vendola rifluirebbero su Bersani e, se risultassero decisivi per la sua affermazione, il messaggio che verrebbe inviato urbi et orbi sarebbe inequivocabile: il Pd, dopo tanto peregrinare, è tornato alle origini, è di nuovo un partito di sinistra-sinistra grazie anche alla iniezione di anticapitalismo vendoliano. Il (fragile) equilibrio che Bersani ha fin qui tentato di mantenere fra le diverse istanze del partito si spezzerebbe. Il rischio di fare la fine della gloriosa macchina da guerra di occhettiana memoria diventerebbe forte. Anche a dispetto dello stato di marasma in cui versa oggi il centrodestra. D'altra parte, ci sono già segnali in quella direzione, dal crescente distacco dalle politiche del governo Monti (in coincidenza con la radicalizzazione della Cgil) alle battute, infelici ma rivelatrici, sul mondo della finanza.
Difficilmente, un Pd così spostato a sinistra potrebbe ottenere i numeri per governare. Se, per ventura, e a dispetto dei santi, li ottenesse, si troverebbe comunque a fare i conti con l'allergia di una parte ampia del Paese che chiede sviluppo e non ideologia, con il giudizio negativo dei mercati, con i sospetti dell'Europa a guida tedesca. Giusto o sbagliato, c'è comunque un prezzo da pagare per fare parte del più ampio sistema europeo.
Il problema del Pd (che, peraltro, grazie alla sfida di Renzi, sembra al momento l'unico partito tradizionale con un po' di vitalità) rispecchia il più generale problema della democrazia italiana in questo frangente.
Una democrazia può benissimo, per fronteggiare situazioni di emergenza, adottare soluzioni eterodosse. Il governo detto tecnico è stato appunto una di queste soluzioni. Ma molto presto si dovrà tornare alla normalità, a governi fondati sulla legittimazione elettorale. Se non che, a pochi mesi dalle elezioni, le forze politiche che avrebbero dovuto preparare il Paese a questo rientro nella normalità non l'hanno fatto. Non sono state ancora capaci di fare una buona legge elettorale tale da favorire condizioni di governabilità. Così come non sono state capaci, nonostante scandali e discredito, di riformare radicalmente i meccanismi di finanziamento della politica.
Normalmente, nelle fasi di crisi, sono gli elettori a sciogliere, con le loro scelte, i nodi più intricati. Ma possono farlo solo se vengono messi di fronte ad alternative chiare.
Occorre che l'offerta politica sia congegnata
in modo da consentirlo. Ciò che spaventa tutti, in Italia e fuori, è che, al momento delle elezioni, l'offerta politica risulti così destrutturata, così slabbrata, da non permettere la formazione di governi stabili. È comprensibile che i politici si preoccupino più del proprio destino che di quello che potremmo chiamare il «disegno più ampio». Ma ci sono anche momenti in cui la stessa sopravvivenza a breve termine del politico dipende dalla sua capacità di guardare lontano. Il problema è che c'è ormai poco tempo per ridare funzionalità, attraverso una chiara ristrutturazione dell'offerta politica, a una democrazia che sappia fare i conti con vincoli esterni sempre più stringenti.

Corriere 22.10.12
Il 68% degli elettori vuole le preferenze
di Renato Mannheimer


Negli ultimi giorni si parla un po' meno del progetto di riforma elettorale in esame al Parlamento. Malgrado sembri passato di attualità, il provvedimento è tuttora considerato dai cittadini una priorità assoluta. Lo afferma quasi metà dell'elettorato (45%), con un'accentuazione tra i laureati, i meno giovani e gli elettori del centrosinistra. Solo una parte minoritaria della popolazione, attorno al 20% (con un'accentuazione tra i giovanissimi), reputa la riforma elettorale un provvedimento non così importante o che sarebbe meglio prendere comunque dopo le prossime elezioni.
La diffusa consapevolezza dell'urgenza di dare una nuova normativa al voto ha portato, inaspettatamente, a un maggiore interesse degli elettori verso le proposte che sono state sviluppate al riguardo. Ben un italiano su tre dichiara di avere seguito attentamente il dibattito e di conoscere bene di cosa si tratta. In più, oltre il 50% della popolazione afferma di avere sentito parlare della questione, pur non avendo compreso bene tutti gli aspetti tecnici. Nell'insieme, quasi l'85% degli italiani è al corrente della discussione in atto. I più giovani e chi segue poco le vicende politiche sembrano saperne di meno.
Naturalmente, trattandosi di una tematica assai complessa, molti elementi che la compongono sfuggono ai più, malgrado l'attenzione dedicata. In generale, la questione che ha più colpito è quella delle preferenze. Come è noto queste hanno comportato rilevanti fratture tra le forze politiche. Alcuni hanno sostenuto l'importanza di reintrodurle, poiché esse permetterebbero ai cittadini di riappropriarsi della possibilità di scegliere i candidati preferiti, oggi sottratta dal Porcellum (così è chiamato il sistema in atto) che affida di fatto alle segreterie dei partiti la scelta degli eletti. Altri obiettano che in realtà le preferenze possono essere uno strumento di manipolazione e compravendita dei voti, che lo sono state certamente in passato e che, per questo, un referendum approvato dalla netta maggioranza dei cittadini ha di fatto provveduto ad eliminarle dal nostro ordinamento.
Cosa ne pensano gli elettori? Un sondaggio condotto in questi giorni mostra come venga considerata prevalente l'esigenza di riconquistare, dopo l'esperienza del Porcellum, la possibilità di scegliere chi si elegge. È di questo avviso poco meno del 70% degli italiani, con una accentuazione tra le età (35-55 anni) e le professioni (lavoratori autonomi, impiegati) più centrali. Non a caso, appare più affezionato alle preferenze chi rigetta il potere dei partiti e omette non solo di indicare la propria preferenza di voto, ma rifiuta anche di collocarsi nel tradizionale continuum sinistra-destra, sostenendo spesso che si tratta di categorie obsolete. Vi è, d'altra parte, più di un italiano su cinque (22%) che rigetta l'introduzione delle preferenze: si tratta in particolare di ultrasessantacinquenni (che hanno una maggiore esperienza di voto), dei laureati e degli elettori dei partiti del centrosinistra.
C'è dunque una forte attenzione e un forte auspicio per la riforma elettorale. Ma c'è al tempo stesso, come avviene ormai quasi sempre quando si parla di decisioni politiche, una estesa sfiducia che il mutamento dell'attuale sistema di voto vada davvero in porto. Tanto che la maggioranza (62%) della popolazione ritiene che, alla fine, non se ne farà nulla, che il Parlamento non riuscirà ad approvare una nuova legge e che si finirà con il votare con il sistema attuale. Sono particolarmente pessimisti, come sempre, i più giovani (in particolare gli studenti), coloro che posseggono titoli di studio più elevati e gli elettori dei partiti di opposizione (Movimento 5 stelle e Lega). Insomma, ancora una volta, alle aspettative degli elettori si contrappone la convinzione che i partiti in Parlamento non riescano (o non vogliano) realizzarle.

Repubblica 22.10.12
Addio Seconda Repubblica, ma la Terza ancora non c'è
di Ilvo Diamanti

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Repubblica 22.10.12
Scalfari, da Fazio: ‘’La colpa è nostra. Ogni paese ha la classe politica che si merita''
"Se Renzi vince, il Pd muterà antropologicamente"

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Repubblica 22.10.12
Cancellieri: ridare la parola ai cittadini del Lazio
di Anna Maria Cancellieri


GENTILE dottor Scalfari, ho letto con molta attenzione il commento pubblicato oggi sul quotidiano la Repubblica dal titolo «Come votare alle primarie e alle urne d’aprile».
Mi consenta solo una precisazione, non per polemizzare, ma per dovere di correttezza nei suoi confronti e dei tanti lettori del suo giornale. Come lei giustamente scrive, «il ministro dell’Interno sa bene che la norma di legge in proposito è chiara».
Infatti, in base allo Statuto della Regione Lazio del 2004 e alla legge regionale di attuazione delle relative previsioni statutarie del 2005, le elezioni nella Regione Lazio sono di esclusiva competenza del Presidente regionale uscente.
E’ pertanto esclusa, nell’attuale assetto ordinamentale, ogni competenza in materia del ministro dell’Interno e del prefetto capoluogo di Regione.
Del resto il quadro normativo scaturito anche a seguito della riforma del titolo V della Costituzione rende le Regioni sostanzialmente autonome nel disciplinare i meccanismi che conducono allo scioglimento e al rinnovo dei propri organi. Senza più alcuna possibilità, ahimè, per lo Stato, di attivare interventi di tipo sostitutivo. Desidero tuttavia confermare anche in questa circostanza, come già dichiarato in Parlamento, la disponibilità del Governo e mia personale a valutare con leale spirito collaborativo ogni aspetto della questione, anche per le sue possibili interferenze con i processi di riforma in atto.
So bene, infatti, che in queste circostanze ridare rapidamente la parola ai cittadini è il modo più giusto per rispettare non solo le istituzioni ma uno dei capisaldi della democrazia.
L’autrice della lettera è il ministro dell’Interno

l’Unità 22.10.12
Polverini alle strette, Viminale in pressing
Settimana cruciale per il braccio di ferro sulla data del voto
Il ministro vuole affrettare i tempi
di Alessandra Rubenni


ROMA «Frangetta nera... facce vota’», chiedono i manifesti anonimi spalmati da qualche giorno sui muri di Roma. Ma colei a cui si appellano sembra non avere la minima intenzione di accontentare in tempi brevi gli autori di questa “pasquinata” in formato poster pubblicitario. Il Lazio travolto dallo scandalo Fiorito è in preda alla paralisi. Renata Polverini, alla quale spetta fissare la data delle prossime elezioni regionali, è decisa a tirarla per le lunghe e ad appoggiarla, 26 giorni dopo le sue dimissioni, c’è ancora l’Udc. Il tutto sotto il fuoco delle opposizioni, che invocano urne subito. Ma con un problema di fondo: capire se è possibile andare verso un voto che non sia esposto al rischio di una pioggia di ricorsi. Contestazioni che potrebbero nascere, innanzitutto, dal fatto che il governo ha stabilito che nei prossimi consigli regionali si debbano eleggere 50 consiglieri al posto degli attuali 70, mentre nel Lazio il consiglio ormai sciolto non ha fatto in tempo a modificare lo statuto regionale per restringerne il numero.
Ma in una manciata di giorni, in un modo o nell’altro, dalla palude si uscirà. La legge, infatti, prescrive che le elezioni vanno fissate entro 90 giorni dallo scioglimento del consiglio. Secondo l’interpretazione più stringente della norma dovrebbero quindi essere indette a brevissimo, per consentire di andare alle urne prima di Natale e assicurare 45 giorni di campagna elettorale prima del voto. Come noto, il centrodestra contesta il termine dei 90 giorni: è il tempo che si può utilizzare per fissarle, dicono, ma non significa che si debba andare al voto entro questa scadenza.
Il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri ha già ribadito a quattr’occhi alla ex governatrice la necessità di accelerare. E l’Avvocatura di Stato le avrebbe confermato la scadenza perentoria dei 90 giorni. Ma ora, oltre al pressing sulla presidente dimissionaria, se ne aggiunge un altro sul Viminale.
Un gruppo di parlamentari Pd Luigi Zanda, Enrico Gasbarra, Lionello Cosentino e Jean Leonard Touadi ha lanciato alla Polverini un messaggio chiaro qualche giorno fa: «Se nelle prossime ore la Regione rimanesse ancora ostaggio del muro di gomma costruito su alibi giuridici, cavilli e giochi di potere, invocheremo il pronunciamento diretto del Consiglio dei ministri e quindi l’attivazione dell’articolo 126 della Costituzione». E l’articolo 126 è quello che, per «atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge» potrebbe come estrama ratio consentire il commissariamento della Regione, «con decreto motivato del Presidente della Repubblica». Un fatto mai accaduto, invero. Ma che solo ad evocarlo dà l’idea del livello al quale potrebbe arrivare il braccio di ferro sulla data del voto.
DECRETO INTERPRETATIVO
Per uscire dallo stallo, il ministro Cancellieri potrebbe intervenire nei prossimi giorni con un decreto interpretativo per sciogliere gli ultimi dubbi sulle scadenze. Nel frattempo però Polverini spinge per un’altra strada e si terrà proprio oggi la riunione solllecitata da lei, fra l’ormai ex presidente del consiglio Mario Abbruzzese e i capigruppo, per sondare la possibilità di riaprire l’assemblea regionale chiusa da un mese per modificare lo Statuto e ridurre il numero dei consiglieri a 50.
Un tempo ago della bilancia, l’Udc ci sta. «Se si trova una unità d’intenti si può approvare una legge che poi non sia soggetta a eventuali ricorsi», anticipa il capogruppo Francesco Carducci, che però non fa scommesse sull’esito della riunione di oggi: «Facciamo una verifica, si vedrà». Anche nel Pdl però le posizioni sono discordanti, qualcuno vuole andare subito alle urne e i numeri per imboccare il percorso di riforma con conseguente allungamento dei tempi proprio non ci sono.
«È una riunione tardiva e inutile, buona solo per perdere tempo. Parteciperemo solo per cortesia istituzionale», fa sapere l’ex capogruppo Pd Esterino Montino. «Il Consiglio regionale è sciolto e non può procedere a modificare alcuna legge, tantomeno quella elettorale. La presidente Polverini fissi la data delle elezioni, la riduzione del numero dei consiglieri da 70 a 50, e si metta fine a questa indegna sceneggiata».

l’Unità 22.10.12
Ettore Scola
«È la responsabile dello sfascio, assurdo lasciarle le redini»
L’ex governatrice spera che gli italiani dimentichino
di Toni Jop


«Tanto l’italiano è di memoria corta, non ricorda volentieri cose sgradevoli, gli piace dimenticare, azzera volentieri i conti, sogna costantemente una innocenza impossibile ma necessaria per la sua tranquillità. Per questo la signora Polverini prende tempo e se può rinviare il rendiconto elettorale sul Lazio lo fa volentieri; scommette su questa diffusa disposizione dell’animo italico»: siamo di fronte alla chiave del dramma di una Regione che, per volontà di un presidente decaduto, non riesce ad andare ad elezioni con la sollecitudine che la situazione imporrebbe? Ettore Scola ne è convinto, il pensiero è suo, sua quella chiave che affonda in una «serratura di melina» sociale e culturale prima che politica. Quindi, innanzitutto: fare melina, negare, pasticciare, rinviare, poi si vedrà, spiega il gran maestro della commedia italiana.
Si vedrà che cosa? Non è forse questo dramma governato da una crudeltà, da un cinismo che comunque alla fine non pagheranno?
«Il problema è: in quanto tempo. E la funzione del tempo è ben chiara a molti, sulla scena politica attuale, non solo alla Polverini. Se da un lato lei, appesa a una situazione imbarazzante, spinge per spostare le elezioni più avanti possibile, c’è un altro interprete, Grillo, che gioca esattamente sulla stessa frequenza di quelle inclinazioni culturali meno nobili degli italiani. Grillo tende a presentarsi come bravo e buono mentre gli altri sono indegni, urla che bisogna fare piazza pulita, che la politica è tutto uno schifo: gioca, cioè, su un vecchio dispositivo italiano, il populismo, per raccogliere facilmente consensi. Prima o poi quel “banco” da cui distribuisce le carte salterà, ma intanto...».
Intanto, Polverini ha in mano le carte, rischia di poter decidere lei quando si va a votare...
«E non ti pare un clamoroso controsenso che a decidere sia la massima responsabile, sotto il profilo politico almeno, dello sfascio di una istituzione la cui esplosione l’ha costretta alle dimissioni? Il fatto è che la legge, e qui sta una buona dose di assurdità, glielo consente. Può fissare lei la data invece di essere chiamata al più presto a rispondere di questa responsabilità fallita. La legge dovrebbe essere cambiata, ma intanto lo spettacolo così diluito nel tempo aumenta il tasso di disaffezione nei confronti delle istituzioni. Non siamo messi bene».
Staranno riorganizzando il parco “idee”, loro stanno peggio di noi...
«Sarà così. Ma dove vanno? Fin qui, l’unico progetto politico che la destra ha messo in campo è stata la sistemazione dei vicini, quello sanno fare, altre idee non ne hanno, hai voglia a pensare. Predicano la bontà dell’election day, così si risparmia denaro pubblico, assicurano. Lo dicono loro, adesso, “hai capito?”, tanto per poter mescolare i piani, le politiche nazionali e le regionali, e nel casino si intravedono sconti possibili. L’unica via d’uscita è far casino, negare l’evidenza...». Altro sport in gran voga: pare che da quando Olindo e Rosa hanno negato di essere i responsabili del massacro di Erba, nonostante li inchiodasse una vittima, non c’è un colpevole che abbia avuto la decenza e il coraggio di ammettere la sua responsabilità...
«Errore prospettico. Questa è invece un’altra delle chiavi italiane. Pensa a Craxi e alla sua linea di difesa quando fu chiaro ciò di cui si era reso responsabile: disse che lo avevano fatto tutti, tutti ladri, nessun ladro. Non è un argomento miserabile? Napolitano dovrebbe cominciare a distribuire medagliette per premiare questi campioni...».
Che almeno non sono endemici a sinistra...
«Per fortuna no. Ma anche in casa della sinistra c’è chi fa melina. Chi punta alla confusione, chi finge di mirare un bersaglio e invece sta puntando altro. Renzi è anche un prodotto della crisi della sinistra, non avrebbe spazio se questa area politica avesse badato a trattenere con fermezza e coerenza per sé il linguaggio di chi non ha potere, di chi ha bisogno, il linguaggio dell’uguaglianza. Ma la scena delle primarie qualcosa di positivo la dice: tra mille problemi ed errori, la sinistra sa cos’è la democrazia meglio di altri e lo racconta con generosità al Paese. Veltroni, da questo punto di vista, ha compiuto per primo un gesto importante, non abbastanza, mi pare, valorizzato: ha detto che non si presterà ad una lite condominiale e ha rinunciato alla candidatura. Ti sembra una decisione da poco?».

Corriere Economia 22.10.12
Lazio: soldi ai consiglieri, non ai disoccupati
di Sergio Rizzo

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La Stampa 22.10.12
Fuga da Roma, cercasi sindaco disperatamente
Zingaretti era in pole: “Ma alla regione c’è una voragine... ”
Sale lo spettro di Grillo. In città il primo partito sono i 5Stelle e questo fa paura
La corsa al Campidoglio, la poltrona di sindaco di Roma per diversi motivi fatica a trovare aspiranti
Non una serie di no, ma qualcosa nell’aria che ormai scoraggia tutti
di Fabio Martini


C’è qualcosa di nuovo, anzi di nuovissimo nella corsa ad una delle poltrone più prestigiose della politica italiana, quella di sindaco di Roma: a sorpresa, i più quotati sfidanti di Gianni Alemanno, si stanno via via sfilando. Nicola Zingaretti, presidente della Provincia di Roma, che studiava da sindaco da anni, appena è passato il treno per la Regione, ci è salito con una rapidità degna di un vero decisionista. Enrico Gasbarra, che della Provincia è un ex presidente, ha fatto sapere a Pier Luigi Bersani: «Sto facendo il segretario regionale, il lavoro non manca, mi piace e preferirei continuare». Zingaretti e Gasbarra non sono due qualunque, sono gli ultimi eredi di due tradizioni, quella del Pci romano e quella della Dc andreottiana, che nella Capitale hanno pesato sempre molto e soprattutto sono tra le personalità più presentabili del centrosinistra.
Non se la sentono per paura di riflettori troppo invasivi? Per timore di non farcela? Ovviamente sono diverse - e non sovrapponibili - le ragioni che tengono lontani dal Campidoglio Zingaretti e Gasbarra, ma il loro «non possumus», si unisce a quello di due ministri in carica - Fabrizio Barca, Andrea Riccardi - portatori di dinieghi di altra natura. Una ritirata collettiva che è soltanto una somma di no diversi tra loro, oppure c’è qualcosa nell’”aria” che comincia a tenere lontani da poltrone prestigiose dei degni aspiranti?
Nel dopoguerra conquistare Roma ha significato cose via via diverse. Il Campidoglio è stato luogo di grande potere per i sindaci democristiani, Rebecchini, Petrucci, Darida; conquista simbolica per i comunisti (nel 1976 con Giulio Carlo Argan) ; trampolino verso la premiership per chi ha ben amministrato (Rutelli, Veltroni). Da 20 anni, a sinistra, il king-maker (di successo) di tutte le poltrone è Goffredo Bettini, perno di un sistema di potere sul quale si vorrebbe mantenere il controllo. Da anni, per il Campidoglio, Bettini aveva puntato tutto sul “fratello del commissario Montalbano: Nicola Zingaretti. Ma quelli che erano requisiti giusti fino ad alcuni mesi fa (un ordinato cursus honorum post-comunista, una fama di persona perbene, una lunga militanza nel clan Bettini), è come se fossero “invecchiati” in poche settimane. Sotto l’effetto si dice - di un rapporto burrascoso con Francesco Gaetano Caltagirone, uno dei pochi poteri forti della città, ma anche per effetto dell’onda lunga dell’antipolitica? Zingaretti nega: «E’ vero fare il sindaco sarebbe stato più prestigioso, ma io non vado in vacanza e davanti alla voragine che si era aperta alla Regione non potevo pensare alle mie ambizioni personali». Eppure, per lui e per Gasbarra, deve aver giocato ciò che il sondaggio di un grande istituto rende esplicito: oggi a Roma il primo partito è quello di Grillo. E, a differenza della Regione dove si vota a turno unico, al Comune un ballottaggio con un grillino, tosto e occhiuto, può diventare un rischio molto serio.
Nei giorni scorsi è stato sondato anche l’unico personaggio che metterebbe d’accordo tutti i big del Pd, il ministro Andrea Riccardi, che ha già risposto «non si può fare». Oltre a dover fronteggiare un potenziale “conflitto di interessi” - in una città come Roma essere leader di Sant’Egidio è una virtù a doppio taglio - Riccardi interpreta anche un fastidio attribuito a Mario Monti per eventuali disimpegni anticipati di suoi ministri. Fabrizio Barca, anche lui sondato, ha detto all’”Espresso”: «Spero che nessun ministro si candidi». Naturalmente c’è anche chi accetterebbe la nomination. Candidati di pesi diversi: Paolo Gentiloni, un ex ministro, che al Campidoglio ha già fatto l’assessore e il portavoce; l’ex mezzobusto del Tg1 David Sassoli, europarlamentare eletto con 400.502 preferenze. Ma anche l’assessore alla Provincia Patrizia Prestipino (slogan per le Primarie «l’uomo giusto per il Campidoglio») ; il capogruppo Pd in Consiglio comunale Umberto Marroni, figlio di Angiolo, entrato in Consiglio provinciale nel 1965 ed uscito dal Consiglio regionale 40 anni dopo; l’animalista Monica Cirinnà: «Dal cilindro può uscire un coniglio bianco, oppure una coniglia... ». E così, in una parte del Pd, ma anche al Centro (dove sono tentati da Alfio Marchini) si fa strada la speranza che conceda uno spiraglio uno dei ministri più autorevoli del governo, Anna Maria Cancellieri. Sempre che Mario Monti conceda la “dispensa”.

La Stampa 22.10.12
Melandri Maxxi arroganza
di Rocco Moliterni


Nei giorni scorsi dopo la nomina di Giovanna Melandri alla presidenza del Maxxi, più che le proteste scontate della destra (ma a parti invertite cosa avrebbe detto o fatto la stessa Melandri se avessero nominato Bondi, in qualità di ex ministro «che ha aperto il museo»?), ha sorpreso l’arroganza della neo-nominata. Un’arroganza che in alcune occasioni ha toccato punte surreali come quando ha sostenuto che quello che contava non era il giudizio di politici invidiosi ma di un’archistar come Zaha Hadid. Ora la Hadid avendo ricevuto, grazie alla Melandri, una parcella immaginiamo cospicua per progettare il museo, ci mancherebbe altro che non fosse contenta. Oppure quando l’ex ministro per la Cultura dall’alto della sua competenza ha affermato che il presidente della Tate guadagna 300 mila sterline l’anno, confondendolo con il direttore (il presidente non becca un penny).
Certo la Melandri può dire che a sostenerla c’è stato il comunicato dell’Amaci (l’Associazione dei musei d’arte contemporanea). Ma, come più volte si è scritto in questa rubrica, la vera debolezza dei musei d’arte contemporanea italiani è proprio quella di essere in balia dei capricci dei politici: in assenza di capitali privati che nessuno sa o vuole davvero cercare, sono gli assessori a permettere che la baracca vada avanti. Quindi è naturale che l’Amaci appoggi anche questo capriccio-pasticcio di un politico camuffato da tecnico al vertice del Maxxi (museo che fa parte dell’associazione). Peraltro rimediando, come dicono a Firenze, una figura «cacina»: da sei mesi l’Amaci elemosina un incontro con Monti (Ornaghi li snobba pubblicamente non partecipando neppure alla presentazione delle giornate del contemporaneo promosse dalla stessa associazione) e loro che fanno? Si congratulano con la Melandri per la nomina e con il ministro per avere rispettato la scadenza di fine commissariamento del Maxxi senza neppure fare un accenno alla latitanza del Governo nel campo del contemporaneo, e soprattutto senza chiedere criteri seri per la scelta dei vertici dei musei (la nomina scriteriata della Melandri al Maxxi fa il paio con quella di Giovanni Minoli a Rivoli, peraltro i due sono anche cugini). Come direbbe Nanni Moretti, allora ve la meritate la Melandri.

Repubblica Tv 22.10.12
Videoforum con Nicola Zingaretti

Oggi alle ore 10 il presidente della Provincia di Roma, candidato alla presidenza della Regione Lazio, sarà ospite di Repubblica Tv per rispondere alle vostre domande
qui

Repubblica 22.10.12
Lezioni e incontri sulla “Città ribelle”


ROMA – Da venerdì 26 a domenica 28 ottobre, nel Nuovo Cinema Palazzo, si svolgerà il Festival di storia “Roma città ribelle”: lezioni, dibattiti e spettacoli ripercorreranno i momenti salienti delle ribellioni e delle resistenze che nei secoli hanno attraversato la capitale. All’evento, organizzato dal Dipartimento di Storia, Culture, Religioni della Sapienza in collaborazione con diverse associazioni culturali, parteciperanno, fra gli altri, lo storico Lucio Villari, che discuterà con Marina Caffiero delle esperienze repubblicane a Roma, Anna Foa, che parlerà insieme a Giuseppe Marcocci delle eresie religiose, e Miguel Gotor, che chiuderà la rassegna confrontandosi con Gabriella Bonacchi sui luoghi e sulle lotte degli anni ’70.

Repubblica 22.10.12
"Così si colpisce la libertà di stampa, l’editore non può entrare nelle redazioni"
Gustavo Zagrebelsky attacca sulla cosidetta legge salva-Sallusti che rischia di diventare una legge bavaglio:
"Mondo politico insofferente al giornalismo d'inchiesta. Neppure il fascismo aveva previsto una disciplina del genere"
di Carmelo Lopapa

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l’Unità 22.10.12
Reato d’immigrazione Firma per cancellarlo
di Marco Pacciotti
Coordinatore Forum Immigrazione Pd


LA CRONACA LOCALE DEI QUOTIDIANI CI RACCONTA SPESSO DI EPISODI PARTICOLARI. Il più delle volte si tratta di storie di violenza o drammatiche, raramente quelle a lieto fine. Ci sono poi le storie quasi a lieto fine che ti lasciano l’amaro in bocca perché manca il classico e fiabesco «...e tutti vissero felici e contenti». È questa la sensazione che ho avuto leggendo un articolo in cui si raccontava la storia di una famiglia romana tratta in salvo da alcune persone, forse marocchine. Le hanno letteralmente strappate dalle acque dove erano finiti con la macchina. Compiuto l’eroico gesto, contrariamente a qualsiasi epilogo letterario buonista, i tre migranti marocchini si sono dileguati, senza lasciare i loro nomi. Diventando così tre eroi invisibili. Come mai?
La risposta la danno i carabinieri, intervenuti in un secondo momento, sostenendo che quelle persone straniere fossero probabilmente dei «clandestini». Uno status che li accomuna alle migliaia di lavoratori stagionali impiegati in nero nei campi. Il «clandestino» è colui che non possiede o ha perduto (suo malgrado o anche temporaneamente) il proprio permesso di soggiorno. Una condizione personale che in Italia è considerata reato e come tale perseguibile. Si punisce così la persona non per un comportamento contrario alle norme ma per una condizione personale di difetto. Non quindi per quello che fa, ma per come si è. Una aberrazione giuridica introdotta dal passato governo. Una norma in palese contraddizione con la nostra Costituzione che all’articolo 3 dice: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Per queste ragioni riteniamo che l’articolo 10 bis della legge 94 del 2009, sia da abrogare. In esso si considera la condizione personale del migrante irregolare come elemento di diseguaglianza davanti alla legge, ponendo di conseguenza evidenti ostacoli a impedimento del pieno sviluppo della persona e della sua libertà.
Questo spinge tante persone a vivere nascoste e nella paura. Rendendosi invisibili e ricattabili, oggetti di tratte criminali anziché soggetti portatori di diritto. Per questo, come Forum immigrazione del Pd e insieme ai Forum giustizia e sicurezza, abbiamo lanciato nei giorni scorsi una petizione popolare che, oltre a chiedere l’introduzione del reato di tortura e l’abolizione della legge ex Cirielli, chiede l’abolizione del reato di immigrazione clandestina. Riprendendo una proposta di legge presentata nel 2011 con primi firmatari i nostri deputati Touadì e Melis.
Una battaglia di civiltà da affrontare con decisione, che permetta a queste donne e uomini invisibili di non essere più tali, di affrancarsi dalla paura quotidiana di essere perseguibili per un «reato» assurdo, che per paradosso concorre nei fatti a determinare alla loro condizione di marginalità e vulnerabilità. Raggiungere l’obiettivo sarebbe importante. Se così fosse, sarebbe più facile per tanti lavoratori far valere i loro diritti sociali. Se così fosse, sarebbe più facile contrastare con efficacia la tratta di donne ridotte in schiavitù sulle nostre strade. Se così fosse, quella madre potrebbe oggi ringraziare chi ha salvato la vita a lei e ai suoi cari. Questa bella storia di coraggio e di civismo ci lascia invece con l’amaro in bocca. È triste e incredibile accettare l’idea che nel nostro Paese una persona possa essere considerata un delinquente in modo preconcetto e per questo vivere nella paura. Quella stessa paura che ha spinto questi eroi per caso a tornare invisibili. Credo che dovremmo ringraziarli per il loro coraggio e scusarci per non celebrarli come meriterebbero.

Repubblica 22.10.12
Il grido d’aiuto inascoltato delle vittime degli stalker
di Chiara Saraceno


Spaventata dall’insistente persecuzione da parte dell’ex fidanzato, dalle sue minacce ricorrenti per telefono, via messaggi, via Facebook, Lucia aveva chiesto aiuto alla polizia. Come era già successo a tante altre, aveva solo ricevuto qualche consiglio su come evitare che lui le telefonasse o mandasse messaggi. Ancora una volta, di fronte ad un aggressore, il consiglio era stato di cercare di evitare di farsi trovare. Nulla è stato fatto per fermare l’aggressore, per spaventarlo a sufficienza perché si fermasse e ci ripensasse. Ancora una volta, le minacce non sono state prese sul serio, derubricate a pure molestie, spiacevoli ma non pericolose. Sappiamo come è andata. Lucia si è salvata dalla morte, ma non da ferite gravi, solo perché la coraggiosa sorella Carmela la ha difesa con il suo corpo, facendosi ammazzare.
Il reato di stalking è stato riconosciuto nel codice penale italiano nel 2009. Ma la giurisprudenza è molto cauta nel riconoscerlo. Soprattutto, nelle more tra la denuncia e l’eventuale pronuncia del tribunale, il tempo gioca a sfavore della vittima. Nessuno pensa che ogni vittima di stalking debba entrare in un sistema di protezione simile a quello cui sono sottoposti i giudici di mafia, i testimoni contro i mafiosi, i ministri, e chiunque corra pericolo per la funzione pubblica che ricopre o le idee che manifesta. Ma bisognerà ben incominciare a riflettere sul fatto che essere una vittima di stalking per una donna comporta un effettivo rischio di vita, che non può mai essere sottovalutato, neppure quando la vittima non è (ancora) pronta a sporgere querela. Non basta neppure un’ingiunzione a stare lontani, come testimoniano, ahimé, molti, troppi casi. Occorre che l’ingiunzione sia accompagnata da altre sanzioni in caso di non ottemperanza. Penso anche che sarebbe necessario integrarla con la richiesta di entrare in un percorso di rieducazione riflessiva.
L’assenza di aiuto da parte delle forze dell’ordine in questi casi appare tanto più grave e sorprendente alla luce degli eccessi di disponibilità ad intervenire quando sono in gioco conflitti tra adulti e bambini. È il caso dell’intervento delle forze dell’ordine a Cittadella, per eseguire un ordine del Tribunale dei minori in merito all’affidamento di un bambino conteso tra i due genitori separati. La polizia si è presentata per far valere il diritto del padre, negato sistematicamente dalla madre. Di fatto, l’intervento delle forze dell’ordine ha avuto come oggetto e vittima il bambino, portato via a forza nonostante le sue proteste. A differenza di quanto avviene spesso nei casi di stalking e di violenze famigliari, nessun poliziotto ha consigliato al padre di portare pazienza, di cercare un’altra via. Tanto meno lo ha fermato quando trascinava il figlio. Anzi, qualcuno lo ha aiutato. Proprio dove era meno opportuno, la capacità di intervenire delle forze dell’ordine si è dispiegata appieno.
La polizia è stata chiamata ed è intervenuta, pochi giorni dopo, anche in un altro caso, meno noto, che ha visto in una scuola elementare di un Comune veneto una maestra alle prese con l’aggressività di un bambino affetto da disturbi psicologici e in situazione di disagio familiare. Incapace di contenerlo, la maestra e la direttrice scolastica hanno pensato bene di chiamare la polizia, invece che i servizi sociali da cui pure il bambino è seguito. Non è chiaro che cosa si aspettassero da un intervento della polizia in funzione di lupo cattivo. In effetti, le forze dell’ordine se ne sono andate senza far nulla, dopo aver preso atto della situazione. Ma il “bambino difficile” e i suoi compagni avranno capito che la polizia potrebbe essere usata contro di loro, se “non si comportano bene”.
In troppi casi ci si rivolge alle forze dell’ordine per risolvere conflitti nei rapporti interpersonali ed educativi, che avrebbero bisogno, non di una esibizione di muscoli, e neppure del ricorso alla forza della legge, ma di ascolto reciproco, tempo per sciogliere nodi difficili, appoggio esterno competente e accessibile. È quindi opportuno che le forze dell’ordine imparino a valutare caso per caso ed eventualmente dirottino sulle agenzie competenti le richieste improprie che ricevono, senza tentazioni di supplenza.
Proprio per questo, la sproporzione tra gli interventi (a favore dei diritti degli adulti) nei casi di conflitto tra adulti e bambini e i mancati interventi nei casi di stalking appare non solo inaccettabile, ma incomprensibile. Viene richiesta pazienza e capacità di autogestione del rischio proprio quando ne mancano le condizioni minime ed è in gioco la sopravvivenza stessa della vittima designata.

La Stampa 22.10.12
L’aereo delle polemiche
A Cameri la fabbrica del jet dove decollano solo i costi
L’F35 sale da 80 a 127 milioni di dollari. La Fiom: “Le assunzioni? Poche decine”
di Teodoro Chiarelli


I capannoni costruiti dalla Maltauro di Vicenza e ancora freschi di intonaco si intravvedono appena oltre le recinzioni off limits. Sì perché l’ultimo stabilimento dell’Alenia, realizzato per assemblare il cacciabombardiere F-35, detto anche Jsf (Joint Strike Fighter), progettato dall’americana Lockheed Martin, si trova all’interno di un aeroporto militare. Siamo a Cameri, provincia di Novara, sito storico (fondato nel 1909) dell’aviazione tricolore. Oggi ospita il Reparto Manutenzione Velivoli che fa assistenza ai Panavia Tornado e agli Eurofighter Typhoon. L’eco delle polemiche sollevate sul costo dei 90 aerei che l’Italia si è impegnata ad acquistare, qui arriva attutito. Le rare persone che entrano o escono veloci in auto non si fermano neppure per dire “buongiorno”. Off limits, zona militare, appunto.
Già, le polemiche. In una intervista al portale specializzato “analisidifesa.it”, il generale Claudio Debertolis, segretario generale della Difesa, ha ammesso candidamente che il costo dei cacciabombardieri F-35 per Aeronautica e Marina italiane sarà ben più alto dei circa 80 milioni di dollari per ciascun esemplare dei primi tre apparecchi, comunicati a suo tempo al Parlamento. «Il dato si è rivelato irrealistico - ha spiegato il generale - poiché si riferiva a una pianificazione ormai superata dalle vicende del programma e verteva sul solo aereo nudo».
I primi F-35 avranno un costo previsto attualmente in 127,3 milioni di dollari (99 milioni di euro) a esemplare per la versione A e di 137,1 milioni di dollari (106,7 milioni di euro) per la versione B a decollo corto e atterraggio verticale (Stovl) che verranno acquisiti dal 2015.
Una volta usciti dalle catene di montaggio di Cameri, all’inizio del 2015, i primi 3 caccia “stealth” Lockheed Martin F-35A Ctol a decollo convenzionale per l’Italia (60 quelli previsti), saranno inviati presso il centro di addestramento negli Stati Uniti per iniziare la formazione dei piloti e degli specialisti. Nel 2016 saranno seguiti dai primi 2 di un successivo gruppo di 3 esemplari. Il primo F-35A si schiererà sulla base di Amendola dell’Aeronautica militare nel marzo 2016, mentre il primo F-35B Stovl a decollo corto e atterraggio verticale (30 fra Marina e Aeronautica), il cui contratto d’acquisto è previsto nel 2015, comincerà a operare dalla base di Grottaglie a partire dalla seconda metà del 2018.
Questo, dopo il taglio di 41 esemplari deciso a febbraio dal governo, è il nuovo programma di acquisto degli Jsf, secondo quanto illustrato dal generale Debertolis. Il quale non ha negato le criticità emerse in America sul fronte industriale del programma Jsf: il costo è aumentato a una media di ben 40 milioni di dollari al giorno in 11 anni, preoccupando non poco il Pentagono. Anche perché, vista la crisi economica mondiale, già alcuni Paesi hanno deciso di tirarsi indietro.
In Italia, invece, pur con un programma ridotto rispetto all’originale (approvato via via dai governi Prodi, Berlusconi, D’Alema, Prodi e di nuovo Berlusconi), l’esecutivo Monti, che vede alla Difesa l’ammiraglio Giampaolo Di Paola, uno dei principali sostenitori del progetto, ha deciso di proseguire. L’Italia dovrebbe alla fine spendere qualcosa come 16,9 miliardi di dollari e, secondo, Debertolis, ne avrebbe un ritorno industriale del 77%, pari a circa 13 miliardi. Oltre all’assemblaggio dei propri aerei e di quelli di qualche altro Paese europeo, l’Italia avrebbe assegnata la costruzione di un migliaio di ali. Sinora il nostro Paese ha speso per il programma fra i 2 e i 2,5 miliardi di euro e ha avuto ritorni industriali per 631 milioni di dollari.
Sullo stabilimento di Cameri, che si trova nel collegio elettorale del presidente della Regione Piemonte Roberto Cota, ha messo grande enfasi la Lega, tanto da farne oggetto di visite entusiastiche dell’allora ministro Umberto Bossi. La fabbrica, denominata “Faco” (Final assembly and check out) è costata allo Stato 800 milioni di euro. Qualche anno fa fu messa in giro la voce che il programma F-35 avrebbe portato alla creazione in Italia di 10 mila posti di lavoro. In realtà si è rivelata una bufala.
Oggi a Cameri, come confermano fonti sindacali e aziendali, lavora solo un centinaio di persone, per lo più “in missione” dall’Alenia di Caselle: solo alcune decine sono nuovi assunti. «In pratica il personale occupato sulle linee di Cameri non sarà a “somma”, ma a “sottrazione” di quello di Caselle - spiega Gianni Alioti, responsabile esteri della Fim Cisl nazionale - Alla fine il numero di persone impiegate nella “Faco”, fossero anche i 1.816 su tre turni di cui ha parlato il ministero della Difesa nel 2010, o i più realistici 600 lavoratori che risultano a noi sindacati, saranno solo in parte nuovi posti di lavoro».
Ma non è solo una questione di costi fuori controllo e di occupazione fantasma. «Il programma dei cacciabombardieri F-35 è industrialmente un errore - sostiene Lino Lamendola che segue il settore per la Fiom piemontese -. Come Paese siamo passati dal partecipare a programmi proprietari in consorzio con altri partner europei al ruolo di fornitori di aziende Usa. Non abbiamo nessun ruolo nello sviluppo della tecnologia, siamo fuori dall’ingegneria e dalla progettazione. Una condizione di subalternità letale per l’industria nazionale. Una scelta di politica suicida».
Il paradosso è che non ci sono certezze neppure di rientrare dagli 800 milioni investiti dal governo per la “Faco”. «Non c’è nulla di garantito ha rivelato il segretario generale della Difesa -. Dagli Americani abbiamo un contratto effettivo per 100 ali e una dichiarazione di intenti per 800». Come cantava Giorgio Gaber, «anche per oggi non si vola».

Repubblica 22.10.12
Ha portato il social network in tribunale: “Viola le leggi Ue” Così uno studente austriaco rischia di inguaiare Zuckerberg
“A 25 anni denuncio Facebook nel nome della privacy di tutti”
di Andrea Tarquini


BERLINO Ha appena 25 anni, lo studente viennese di Legge che sfida Facebook. In nome del diritto alla privacy garantito dalle legislazioni europee contro l’abuso dei dati personali. «Anche queste battaglie decideranno come sarà il mondo di domani », dice. Si chiama Max Schrems, e raduna veloce consensi.
Europe vs. Facebook è la sua piccola rivoluzione online. Ha raccolto un dossier di oltre 1200 pagine, e ventimila adesioni. Ha lanciato un fund raising per mettere insieme 100mila euro almeno per affrontare sicuri i costi di una causa contro Facebook in Irlanda, base legale dell’azienda di Mark Zuckerberg in Europa. «È stata un’avventura esaltante e carica di tensioni positive fin dall’inizio», mi racconta al telefono.
Signor Schrems, come le è venuta in mente?
«Mi sono cominciato a chiedere se le leggi che pressoché tutti condividiamo in Europa a difesa della sfera privata possano imporsi ed essere difese o no anche per limitare il comportamento di grandi gruppi americani nel mondo virtuale. Quei gruppi hanno un’idea di privacy diversa dalla nostra».
Facebook come esempio o capro espiatorio?
«Facebook è un caso esemplare, se solo pensiamo alle sue dimensioni. Ma la questione è rispondere alla domanda se riusciremo a imporre in Europa il rispetto delle leggi europee sulla privacy, o se queste resteranno solo una foglia di fico».
Come ha cominciato a lanciare la sua iniziativa?
«Ho studiato sei buoni mesi nella Silicon Valley. Là un portavoce di Facebook ci ha parlato delle leggi europee sulla privacy con un approccio totalmente diverso da quello del Vecchio continente. Secondo lui, finché gli internauti non dicono espressamente “no” alla diffusione di notizie su di loro, si sottintende che approvino ogni uso dei loro dati. Gli risposi: “No, guardi, in Europa è diverso”».
E poi?
«Ho scritto una dissertazione sul tema per l’università dove studiavo, dopo aver ascoltato alcuni amici. Abbiamo fatto con loro un test: inviando dati in rete sui profili e poi cancellandoli per vedere cosa ne facevano. Facebook è stata abbastanza ingenua da continuare a usare dati da noi cancellati. Anche i dati più problematici».
Che cosa avete scoperto quindi?
«Ho discusso con i miei amici di come rendere pubblico il problema. Ci siamo detti che potevamo rivolgerci alle autorità irlandesi perché gli affari europei e internazionali di Facebook fanno base in Irlanda, per motivi fiscali».
Come hanno reagito le autorità irlandesi?
«Hanno accolto il ricorso. Ma le loro autorità per la difesa della privacy sono soverchiate dalla mole di lavoro. Hanno 22 persone soltanto. Ora aspettiamo una decisione della magistratura entro fine anno».
Quali sono le vostre accuse concrete?
«Si riferiscono a una ventina di casi diversi. Abbiamo verificato che quanto cancellavamo restava on line un anno. Sul mio profilo ho visto anche informazioni su di me inserite da altri. Volontà degli utenti violata, dunque. Trasparenza e controllo sono i problemi. Senza approvazione esplicita non si possono, in Europa, diffondere i dati di qualcuno. Se un utente cancella i proprio dati, deve avere la garanzia che non li usino più. È un errore grossolano, loro si giustificano parlando di “problemi di comunicazione”».
Come va con le autorità irlandesi?
«Parlano ma non agiscono. Al massimo inviano lettere. Abbiamo discusso molto con loro. Non ci è concesso un accesso agli atti, neanche alle repliche di Facebook alle nostre accuse».
Facebook ha reagito male?
«No, sono molto corretti. Richard Allan, loro responsabile per l’Europa, è gentilissimo. Niente atteggiamenti ostili, niente pressing. Si sforzano di convincere che il loro comportamento in Europa è in ordine, noi non siamo d’accordo».
Che accadrà ora?
«La denuncia è a nome mio, sentenza possibile entro fine anno. In Irlanda gli avvocati sono carissimi. Cerchiamo di raccogliere da 100mila a 300mila euro per la certezza di coprire le spese legali. Se vinco, Facebook mi dà i soldi, se perdo, devo pagare anche i suoi avvocati. Ma sono tranquillo. Quella irlandese sarà una sentenza- precedente, un modello cui tutti dovranno adeguarsi, Google e eBay. Facebook ci piace, è una tecnologia eccellente, ma è un monopolio e va adeguato alle leggi. Gli effetti della sentenza saranno globali, che vinciamo o no. Per questo ci chiamiamo Europe vs.Facebook, ne va di valori costitutivi europei. Se vinciamo avremo posto un precedente per la privacy nel web. Se perdiamo possiamo lanciare un dibattito politico su un tema-chiave del futuro».

Repubblica 22.10.12
“Lo studio del cinese aiuta a fare carriera” boom dei corsi in Italia
Dalle medie all’università: iscritti raddoppiati
di Vladimiro Polchi


ROMA — «Wo hui shuo hanyu». Sempre più italiani oggi possono azzardare questa frase: «Io parlo cinese». Tra istituti Confucio, università pubbliche e private, scuole superiori, medie e perfino elementari, sono oltre 10mila i nostri connazionali che quest’anno studiano il mandarino: una crescita costante. Un esempio? All’Orientale di Napoli gli studenti di cinese sono lievitati da 200 a 400 in meno di quattro anni. Avamposti della marcia del mandarino nel nostro Paese restano gli istituti Confucio, finanziati dalla Repubblica popolare cinese. Oggi sono 10: da Torino a Napoli. «Gli italiani che stanno studiando cinese nei nostri istituti sono 1.500 — fa sapere Zhang Linyi, consigliere dell’ufficio per l’educazione dell’ambasciata cinese — e questo per limitarsi agli iscritti al semestre in corso». Un dato in crescita ogni anno. Lo prova la curva degli iscritti all’istituto Confucio presso l’università la Sapienza: fondato nel settembre 2006, nei primi quattro anni ha registrato l’iscrizione di duemila studenti. «Negli ultimi due anni — spiegano all’istituto — abbiamo un aumento del 30 per cento degli studenti: ogni ciclo di corsi vede l’attivazione di 25/30 classi di diverso livello, per un totale di 350/400 studenti a semestre».
Qual è l’identikit dello studioso di cinese? «Sono adulti, lavoratori e professionisti che vedono nello studio del cinese una possibilità di crescita in ambito lavorativo. Altri sono appassionati di filosofie orientali, arti marziali, medicina tradizionale e studiano il cinese per avvicinarsi ulteriormente a questa millenaria cultura ». L’istituto Confucio di Roma è anche sede d’esame HSK di lingua cinese: qui il numero di iscritti è passato dai 58 del 2006 ai 243 del 2012.
Non è tutto. All’università dell’Insubria di Como, quest’anno a frequentare i corsi di cinese sono oltre 200. A Milano, alla sola università Bicocca gli studenti del mandarino sono saliti a 260 e in tutta la Lombardia sono ben sette gli atenei dove si può studiare la lingua del Dragone. E in Sud Italia? «All’Orientale di Napoli — racconta Valeria Varriano, docente di lingua e letteratura cinese — nel corso di laurea in lettere gli studenti di cinese sono raddoppiati negli ultimi quattro anni, passando da 200 a 400. Di solito sono studenti che provengono dai licei e che sono interessati sia agli aspetti culturali di quel mondo, sia ad avere una chance in più nel mercato del lavoro». Ma è l’Orientale nel suo insieme «a risentire del crescente interesse verso il “pianeta Cina” — aggiunge Patrizia Carioti, docente di storia e civiltà dell’estremo Oriente — perché per imparare una lingua come il cinese non basta lo studio dei vocaboli, bisogna entrare in una cultura altra rispetto alla nostra e capire davvero le differenze ».
Non c’è solo il fronte universitario in prima linea nello studio del cinese. Al liceo linguistico di Recanati quest’anno 83 studenti studiano il mandarino. «A Napoli e provincia — nota la Varriano — tra scuole medie e superiori oltre dieci istituti hanno avviato corsi di lingua cinese». In Lombardia sono già 18 le scuole attive, per un totale di 57 corsi e oltre 1.500 studenti impegnati. «Nell’ultimo anno scolastico — dicono all’istituto Confucio di Roma — sono stati svolti corsi di lingua cinese in 13 istituti di Roma e del Lazio». Insomma, a conti fatti e stando alle fonti universitarie, oggi in Italia ben diecimila nostri connazionali studiano la lingua del Paese del Dragone.

Repubblica 22.10.12
Trionfo alle urne degli eredi dell’Eta i Paesi baschi agli indipendentisti
La Galizia non punisce Rajoy per i tagli: il Pp conserva il suo feudo
di Omero Ciai


NESSUNA punizione per Rajoy nella sua Galizia dove ieri il governatore uscente, Alberto Nuñez Feijóo, è stato riconfermato alle elezioni regionali con una maggioranza assoluta anche più solida, tre seggi in più, di quella che aveva ottenuto nel 2009. Dove invece grazie al voto di ieri cambia tutto lo scenario è nell’altra regione spagnola chiamata ieri al rinnovo del parlamento regionale: i Paesi Baschi. Qui, dal 2009, era al governo una insolita coalizione formata dai socialisti e dalla destra, i popolari, che aveva mandato all’opposizione il Pnv, lo storico partito nazionalista basco. Dal voto di ieri socialisti e popolari escono malissimo travolti da una nuova ondata indipendentista. Il Pnv si conferma primo partito mentre l’area più radicale del nazionalismo ottiene con la formazione “Bildu” un risultato eccezionale: quasi il 25% dei voti e 21 seggi nel parlamento di Vitoria. I socialisti del “lehendakari” (il governatore in euskera, lingua nazionale dei baschi) uscente, Patxi Lopez, perdono nove seggi crollando da venticinque a sedici. Con i popolari, loro alleati nel governo uscente, che ne perdono tre e scendono a dieci. Un terremoto che modifica tutto il panorama regionale: ora i partiti nazionalisti (Pnv+Bildu) hanno il 60 per cento dei voti e con 48 seggi su 75 quasi i due terzi della rappresentanza parlamentare. Uno scenario che ricorda la situazione catalana dove insieme alla crisi economica crescono le spinte secessioniste.
Quello di Bildu, una formazione che tre anni fa non esisteva perché gli indipendentisti radicali erano fuorilegge, è il miglior risultato di sempre per un partito “vicino” all’Eta. Nel 1998, Euskal Herritarrok, l’ultima trasformazione (prima di Bildu) di Herri Batasuna, storico movimento fiancheggiatore del terrorismo basco, braccio politico del separatismo armato, aveva ottenuto poco più del dieci per cento dei voti. Gli osservatori spiegano l’exploit di Bildu proprio come una conseguenza della fine dell’Eta. Quelle che si sono svolte ieri nel Paese Basco sono state a tutti gli effetti le prime elezioni senza la minaccia degli omicidi mirati dei terroristi di “Euskadi Ta Askatasuna” (Paese Basco e Libertà). Ragione che avrebbe convinto una parte dei nazionalisti a sostenere Bildu che si presenta come formazione separatista – molto più radicale del Pnv – ma pacifica. Così nei Paesi Baschi assistiamo ad una evoluzione politica simile nella sostanza a quella della Catalogna con i fantasmi secessionisti che possono prendere sempre più corpo.
Per Mariano Rajoy, presidente del governo spagnolo, il risultato della Galizia, storico bastione dei Popolari, è un gran sospiro di sollievo. Nonostante la crescita sostenuta dell’astensione, la conferma della maggioranza assoluta è un segnale positivo anche per il governo centrale. Un po’ come Rajoy, anche Feijóo è arrivato al governo promettendo lotta alla disoccupazione e ripresa economica.
E poi, come Rajoy, è stato costretto a tagliare il budget regionale e a scelte economiche dure per evitare il fallimento. Proprio i timori per le elezioni in Galizia, la regione dov’è nato, e cresciuto politicamente come Fraga, il fondatore del Partido Popular, sono stati la ragione principale del rifiuto di Rajoy a chiedere finora il soccorso del Fondo salvastati europeo per la Spagna. Perdere la Galizia per Rajoy avrebbe significato un forte indebolimento suo personale all’interno del partito. Chi esce con le ossa rotta dal voto in Galizia, dove perdono sette seggi, e nei Paesi Baschi dove ne perdono nove, sono i socialisti del Psoe di Rubalcaba. La pesante sconfitta nelle due regioni può aprire anche una crisi a livello nazionale mettendo in discussione il futuro dell’attuale segretario socialista.

La Stampa 22.10.12
Putin all’offensiva. Sotto attacco i nemici del Cremlino
Incriminato Udaltsov, leader della piazza: preparava disordini
di Mark Franchetti

Corrispondente da Mosca del Sunday Times di Londra

Serghey Udaltsov è stato arrestato il 17 ottobre da poliziotti mascherati che hanno fatto un raid nel suo appartamento

Sette mesi dopo il ritorno di Vladimir Putin al Cremlino per un terzo mandato presidenziale da record, il giro di vite contro ogni forma di dissenso politico in Russia è in pieno svolgimento. Mercoledì scorso a Mosca poliziotti armati e con i passamontagna neri a coprirgli i volti, hanno fatto irruzione nell’appartamento di Serghey Udaltson, irriducibile (e controverso) leader dell’opposizione di sinistra diventato uno dei protagonisti di spicco delle massicce manifestazioni anti-Cremlino.
L’appartamento di Udaltsov è stato perquisito, e lui preso in custodia e interrogato fino a notte tarda. La polizia lo sta indagando per il sospetto di aver progettato l’organizzazione di disordini e perfino di attacchi terroristici. In seguito è stato rilasciato con il divieto di abbandonare Mosca. Se condannato, rischierebbe diversi anni di prigione.
Se ascoltate il Cremlino vi sembrerà che la polizia e i magistrati stiano solo facendo il loro lavoro. Ma la peculiarità della politica russa sotto il Putin 3.0 è che appena qualcuno critica il presidente, a velocità di record viene accusato di crimini indicibili. Sette mesi dopo il ritorno ufficiale di Putin al timone, è difficile trovare un solo oppositore che non abbia avuto seri problemi con la legge.
L’umore politico dell’opposizione non è mai stato così nero. Alexey Navalny, l’avvocato e blogger anti-corruzione che divenne famoso per aver soprannominato il partito di Putin «partito dei ladri e dei cialtroni», è sotto indagine e con il divieto di lasciare Mosca già dall’estate. Viene accusato di aver rubato fondi a una compagnia statale. «Sono vecchi trucchi sovietici», ha detto Navalny mercoledì commentando l’indagine contro Udaltsov. «Le autorità stanno seguendo la strada della Bielorussia: repressione e incarcerazione con diversi pretesti».
Sia Navalny che Udaltsov non hanno dubbi: il Cremlino ha già deciso di metterli in prigione per anni per imporgli il silenzio. Quando l’appartamento di Navalny è stato perquisito, quest’estate, per 13 ore, i poliziotti hanno sequestrato perfino i file con le foto dei suoi bambini.
Poi è arrivato il caso di Ghennady Gudkov, ex ufficiale del Kgb, stimato membro del Parlamento che aveva fatto parte del Comitato per la difesa. Nella vita del compagno Gudkov tutto andava bene fino a che non ha commesso l’errore di passare pubblicamente con l’opposizione, partecipando alle proteste di massa in piazza, le più numerose dalla fine del comunismo. Prima è stato costretto ad abbandonare il suo business di security, e poi, in un voto senza precedenti, la Duma ha deciso di togliergli il mandato da deputato con la scusa che i membri del Parlamento non possono avere interessi d’affari. Mai prima il Parlamento aveva votato contro uno dei suoi membri. L’accusa suona particolarmente ridicola perché la maggior parte dei deputati della Duma hanno interessi d’affari. «E’ una cattiva notizia, perché ci stiamo tagliando le mani da soli, ma c’era troppo pressione dal Cremlino. Non avevamo scelta. E questo crea per tutti noi un precedente pericolosissimo», ha commentato un deputato filo-Cremlino, che peraltro è anche un multimilionario.
Xenia Sobchak, la più famosa celebrity russa, figlia del mentore politico di Putin, guadagnava circa due milioni di dollari l’anno come presentatrice televisiva. Ma da quando si è unita all’opposizione, ha scoperto che nessun canale tv di Stato vuole più assumerla. E’ diventata persona non grata perfino nei talk-show, perché i produttori temono che un invito per lei possa venire letto da quelli al potere come una dichiarazione politica. Anche il suo appartamento è stato perquisito da poliziotti mascherati.
Una trasmissione d’indagine in tv è stata chiusa l’altra settimana dopo aver mandato in onda un’intervista alla madre di Sobchak in cui lei si lasciava sfuggire un commento critico sul presidente. Decine di giornalisti considerati non sufficientemente leali hanno perso il loro lavoro dopo il ritorno di Putin al potere. Mai prima nella Russia post-comunista i proprietari dei media hanno applicato un controllo così rigido sul lavoro dei loro dipendenti.
In una tendenza che sta preoccupando l’opposizione, il Parlamento ha scodellato una serie di leggi che impongono restrizioni a Internet, restituiscono lo status di crimine alla diffamazione e limitano pesantemente l’operato delle Ong. Ogni organizzazione russa che riceve fondi dall’estero ora viene obbligata per legge a dichiararsi «agente straniero». Diversi manifestanti dell’opposizione rischiano pene detentive con l’accusa di aver provocato disordini a una manifestazione il 6 maggio scorso.
Un giro di vite sull’opposizione pesante, e destinato a diventare sempre più aggressivo. La linea del fronte è stata tracciata e la tensione da entrambi i lati della barricata sta crescendo. Due cose colpiscono in modo particolare. La portata della repressione rivela l’insicurezza che il sistema costruito da Putin prova di fronte anche al più minimo dei cambiamenti. Al Cremlino il livello di paranoia di fronte a qualsiasi dissenso è paragonabile solo alle illusioni dell’opposizione sulla sua propria popolarità a livello nazionale.
Il secondo aspetto a colpire è che, dopo più di un decennio di stagnazione e apatia politica, almeno a Mosca e tra le élite, la politica è tornata al centro dell’attenzione.
Due decenni dopo l’implosione dell’Unione Sovietica e dopo dodici anni di regno di Putin, la Russia è di nuovo in transizione. Le sue placche tettoniche si stanno muovendo di nuovo. I metodi repressivi contro il dissenso restano quelli di una volta, ma il risultato che produrranno a lungo termine è imprevedibile.

Repubblica 22.10.12
Pussy Riot trasferite in colonie penali a centinaia di chilometri da Mosca

qui

Repubblica 22.10.12
Beirut, assalto al palazzo del governo battaglia ai funerali del generale ucciso
di Alberto Stabile


BEIRUT — L’assalto al Gran Serraglio scatta senza un ordine immediato. E’ un attimo. E centinaia di giovani con le bandane azzurre della Corrente del Futuro e le bandiere bianche e rosse delle Forze Libanesi, musulmani sunniti e cristiani maroniti, uniti nell’odio verso la Siria, si lanciano contro le difese del Gran Serraglio, la sede del governo, protetto sin dalla mattina da uno schieramento di agenti in assetto di guerra. E così, dopo le preghiere dei mufti e le note della marcia funebre di Chopin, intonate ai funerali del generale Wissam Hassan e del suo autista, Hamed Sahyuni, nel centro di Beirut risuonano le raffiche di mitra sparate in aria per disperdere la folla e le sirene delle ambulanze.
Alcuni feriti, soprattutto per aver inalato i gas. Qualche contuso. Ma incidenti analoghi sono scoppiati nelle maggiori città libanesi. Una bambina di 9 anni sarebbe rimasta uccisa a Tripoli, nel nord. Esito drammatico di una tensione che covava da venerdì pomeriggio, quando nel quartiere di Ashrafyeh è esplosa l’autobomba che avrebbe ucciso il capo dell’Intelligence, il suo autista e una madre di famiglia, Georgette Sarkissian, che tornava a casa dal lavoro.
Wissam Hassan era stato il motore di alcune inchieste vitali per le sorti del paese. Ma, soprattutto, ad agosto, aveva denunciato e fatto arrestare l’ex ministro dell’Informazione Michel Samaha, un sostenitore del regime di Damasco, il quale, in combutta con il capo dei servizi segreti siriani Alì Mamluk, avrebbe ordito una trama stragista per destabilizzare il Libano. E quest’ultima inchiesta sarebbe costata la vita ad Hassan. Da qui, le accuse feroci contro il presidente siriano, Bashar el Assad e contro il primo ministro Najib Miqati, che guida un governo considerato troppo cedevole alle pressioni di Damasco.
“Vai, vai, Najib” urlava uno striscione sostenuto da una decina di giovani con le bandane azzurre della Corrente del Futuro, il partito guidato da Saad Hariri, figlio ed erede politico di Rafik Hariri. Oppure, alla maniera della primavera araba, ecco un altro striscione: “Il popolo vuole abbattere Najib”. Ma non c’erano soltanto i giovani della corrente del Futuro a manifestare, più che davanti alla grande Moschea, Mohammed el Amin e, più tardi al Gran Serraglio (dove in serata è tornata la calma). Molte erano le bandiere bianche e rosse con al centro il profilo del cedro, simbolo delle Forze libanesi di Samir Geagea. E qua e là si vedevano anche i vessilli della rivolta siriana.
Ora se c’è un luogo che racconta quella che agli occhi di metà del paese appare come la Storia del Grande Complotto, questo è la tenda-mausoleo dove sono sepolti Rafik Hariri e le sette guardie del corpo morte con lui, nell’attentato del giorno di San Valentino del 2005, e dove la Corrente del Futuro, vale a dire Hariri figlio, ha deciso dovessero essere sepolti anche il generale Hassan e il suo autista. Simbolo di un ferita tuttora aperta, quest’enorme tendone dalle pareti di gomma plastificata che si vanno disfacendo col tempo, è diventato anche l’emblema della precarietà del potere libanese.
Quando riusciamo ad entrare, il tendone è pieno di dirigenti e notabili che si abbracciano e si baciano tre volte con il trasporto di chi teme che potrebbe essere l’ultimo saluto. L’atmosfera e densa di commozione. Si capisce che il generale era molto vicino al partito e alla famiglia Hariri. L’ex premier riposa, da solo, sotto un letto di rose bianche circondato dai grandi foto che lo ritraggono sorridente, o pensoso. Al di là di un paravento, in un’area più piccola, una accanto all’altra le sette lapidi della scorta, davanti alle quali sono state scavate due buche fresche, con accanto i cumuli di terra rossa che le ricoprirà. Come dire, è questo il filo che lega un’unica tragedia nazionale.
Dalla moschea, distante soltanto pochi metri, arriva la voce di Fuad Siniora, l’ex primo ministro che subì l’impatto della guerra del 2006 scatenata da Israele contro gli Hezbollah. «Nessun negoziato sul sangue dei nostri martiri. Nessuna trattativa se prima il governo non si dimette», dice accusando Miqati di essere corresponsabile della morte di Hassan.
Ora non è questa, certo, la sede in cui si deciderà il destino del governo a suo tempo benedetto da Damasco. Il politico di Tripoli, Musbah Ahdab, sunnita, sembra piuttosto ipotizzare un alternativa: «O Miqati riesce a creare un nuovo equilibrio politico, una nuova ampia maggioranza, o dovrà dimettersi». Ma queste per ora sono soltanto ipotesi. La realtà è questa sfilata di vittime del Grande Complotto (Amyn Gemayel, la giornalista May Chidiac, Anna, la moglie del generale e i suoi due ragazzi in lacrime) che arrivano al seguito delle due bare ondeggianti su un mare di braccia protese.

Repubblica 22.10.12
La guerra esportata
di Bernardo Valli


IL CONFINE tra la Siria e il Libano segue un tracciato diverso sulle mappe ufficiali dei due paesi. Non è mai stato concordato dai governi di Damasco e di Beirut. I libanesi hanno chiesto più volte di delimitarlo con precisione, ma i siriani hanno sempre evaso la domanda.
COME se i siriani preferissero una frontiera approssimativa, vaga, quindi superabile, a significare il comune destino dei due popoli. E in particolare il diritto di ingerenza del più potente, quindi del più invadente, dei due. Non a caso per circa trent’anni la Siria ha esercitato un potere diretto sul Libano. I suoi soldati se ne sono andati soltanto nel 2005.
Adesso, con l’attentato di venerdì scorso nel cuore cristiano di Beirut, si ha l’impressione che la guerra civile siriana si stia estendendo al Libano, quasi fosse la propaggine geografica e politica naturale del grande vicino. E infatti lo è. Sono pochi ad avere dei dubbi in merito, anche se per ora si tratta di un segnale d’allarme. Un segnale da prendere sul serio perché potrebbe annunciare il passaggio dalla guerra civile in Siria a una guerra regionale in Medio Oriente.
Quest’ultima è in parte già in corso poiché varie potenze partecipano “per procura” al conflitto che infuria attorno a Damasco e ad Aleppo. Da un lato, in favore di Bashar al-Assad, l’Iran e la Russia, dall’altro, con i ribelli, l’Arabia Saudita, il Qatar, la Turchia e con variabile, prudente impegno i maggiori paesi occidentali. Nel Libano pluri-etnico e pluri-confessionale sono rappresentate, non tanto in miniatura, tutte le forze a confronto in Siria. Basta poco perché si riaccenda, a Beirut, in seguito al contagio siriano, la guerra civile che ha dissanguato il paese per anni, a partire dal 1975.
Ma ritorniamo ai confini incerti, i quali hanno un alto valore non solo simbolico. Sul percorso Nord-Sud, lungo il massiccio dell’Anti- Libano, come su quello Est-Ovest, lungo il Nahr al-Kabir, le linea di confine tra Siria e Libano resta approssimativa. La regione di Deir el-Achayer, in prossimità della strada per Damasco, è ad esempio considerata territorio nazionale dai siriani come dai libanesi. Altro esempio la fattoria di Shebaa, nel Sud del Libano, occupata da Israele dal 1967, e rivendicata sia dalla Siria sia dal Libano.
Fino a quattro anni fa la situazione era ancora più confusa. E’ infatti soltanto nell’agosto 2008, vale a dire più di sessant’anni dopo l’indipendenza dei loro rispettivi paesi, che il presidente libanese Michel Suleiman e il presidente siriano Bashar el-Assad hanno deciso di stabilire normali relazioni diplomatiche. Era abbastanza strano che due nazioni limitrofe, membri delle Nazioni Unite e della Lega Araba, non avessero mai ufficializzato i loro intensi (e agitati) rapporti con un ovvio scambio di ambasciatori. L’anomalia veniva attribuita a diversi motivi. Il meno credibile dei quali era la dichiarata inutilità di rapporti diplomatici tra due paesi gemelli, che per secoli, sotto l’impero ottomano, avevano fatto parte dello stesso insieme territoriale. Il più credibile era la volontà della Siria di non riconoscere ufficialmente l’esistenza di un paese che gli era stato sottratto da accordi intercorsi tra le potenze occidentali, vincitrici (nel 1918) della Grande Guerra.
Per il regime di Damasco, impegnato da diciannove mesi in una guerra civile senza visibili soluzioni, il Libano resta un terreno di sfogo, da usare nei casi di emergenza. In questa stagione offre l’opportunità di allargare il conflitto al fine di coinvolgere la società internazionale.
La quale sarebbe costretta a intervenire per spegnere un fuoco che potrebbe dilagare in una zona strategica di importanza mondiale. Trovandosi in una situazione disperata, Bashar el-Assad può insomma usare il piccolo, fragile ma esplosivo Libano come un kamikaze usa un’autobomba. Gli ingredienti ci sono.
L’attentato di venerdì scorso era firmato Damasco. Sono pochi ad avere dubbi in proposito. L’esplosione nel quartiere cristiano di Ashrafieh era mirata e non ha mancato l’obiettivo. La principale vittima, il generale Wissam al-Hassan, era il nemico numero uno di Damasco. Nella sua veste di capo dell’intelligence delle Forze di sicurezza interne, il generale al-Hassan aveva contribuito a smascherare (per conto del Tribunale speciale internazionale per il Libano) la rete degli assassini del primo ministro Rafik Hariri, ucciso il 14 marzo 2005. E sempre lui, al-Hassan, aveva intercettato nello scorso agosto l’ex ministro Michel Samaha mentre si preparava a consegnare una ventina di cariche di TNT destinate a compiere vari attentati in Libano, sotto la direzione di Ali Mamluk, uno dei capi dell’intelligence siriana.
Il grande investigatore Wissam el-Hassan era un sunnita, considerato favorevole all’insurrezione contro Bashar el-Assad, ma egli agiva in un Libano governato da una coalizione giudicata favorevole al regime di Damasco. Le cariche, se non proprio i poteri reali, a Beirut, sono suddivise, secondo la Costituzione, tra i rappresentanti delle principali comunità. Il presidente è un cristiano maronita; il primo ministro un musulmano sunnita; il presidente del Parlamento un musulmano sciita. La presenza nel governo del Partito di Dio (Hezbollah), espressione anche armata della comunità sciita, e con stretti legami con l’Iran, a sua volta principale alleato di Bashar el-Assad, dà al potere esecutivo un connotato che lascia scarsi dubbi.
Per quei confini incerti, vaghi, e quindi permeabili, appena descritti, ed anche per la comune storia dei due popoli, adesso divisi in nazioni separate, la società libanese vive, è influenzata e teme la tragedia siriana. Ed è spaccata in due: con Bashar el-Assad sono schierati gli Hezbollah e in generale gli sciiti; con l’insurrezione contro Assad in generale i sunniti e i cristiani. Ma la spaccatura è tutt’altro che netta. Nulla è geometrico in Libano. E le alleanze sono instabili.
Una notte, nei primi anni Ottanta, durante la guerra civile, mi trovai in mutande, in un corridoio dell’Hotel Cavalier di Beirut, accanto all’ambasciatore Franco Luccioli Ottieri. Una banda di guerriglieri armati ci aveva tirati giù dal letto e frugava nei nostri bagagli. L’ambasciatore Ottieri dormiva nella camera attigua alla mia (essendo la sua residenza insicura) e quindi abbiamo condiviso quella piccola, breve avventura, più scomoda che pericolosa. Durante la conversazione notturna arrivammo alla conclusione che i libanesi erano «degli italiani al cubo ». Credo sia ancora così.
Un anziano giornalista e vecchio amico, libanese e cristiano (padre greco ortodosso e madre maronita), che abita proprio ad Ashrafieh, dove venerdi è avvenuta la strage, mi diceva venti giorni fa: «Aspettiamo di vedere quel che faranno gli hezbollah». Intendeva dire cosa ordinerà loro di fare il regime di Damasco o quello di Teheran. Forse la bomba di venerdì era già una prima risposta. Ammesso che gli hezbollah, come molti pensano, siano in qualche modo implicati (per conto di Damasco) nell’attentato di Ashrafieh, non va trascurato il fatto che essi hanno altre risorse, più sofisticate delle azioni terroristiche. Lo dimostra il drone, made in Iran, che avrebbero lanciato dal Sud del Libano e che sarebbe penetrato all’inizio del mese nello spazio aereo israeliano.

Corriere 22.10.12
Elezioni americane
I due giorni che cambieranno il mondo
di Francesco Daveri


Il prossimo 6 novembre tutto il mondo guarderà con interesse ed emozione all'esito delle elezioni presidenziali americane. Dei temi che stanno dominando il dibattito pre-elettorale tra il presidente Barack Obama e lo sfidante repubblicano Mitt Romney sappiamo già quasi tutto. Obama rischia la non rielezione perché non è riuscito a far scendere la quota dei senza lavoro — oggi ancora all'8 per cento, sia pure in calo da qualche mese — ai livelli a cui gli elettori americani erano abituati negli anni che hanno preceduto la globalizzazione. Di questo lo accusa Romney che, per rilanciare l'economia, propone la solita ricetta repubblicana: meno tasse, anche per i ricchi. Solo con tasse più basse, sostiene Romney, l'America potrà riguadagnare la competitività perduta e ricominciare a creare posti di lavoro. La sfida in America è su come rilanciare la crescita e il sogno americano.
Più o meno negli stessi giorni di novembre sull'altra sponda dell'Oceano Pacifico avverrà un altro evento epocale di cui però non sappiamo quasi niente. L'8 novembre l'attuale presidente e segretario generale del Partito comunista cinese Hu Jintao e il suo primo ministro Wen Jiabao si faranno da parte per lasciare il posto all'attuale vice presidente Xi Jinping e all'attuale vicepremier Li Keqiang. Del nuovo presidente Xi non si sa molto se non che la maggior parte della sua famiglia, compreso il suo unico figlio e la sua prima moglie, vivono all'estero. Sull'identità e anche sul numero (nove? Sette?) degli altri membri del futuro politburo si sa molto poco. È comunque una transizione politica preparata da tempo e che in apparenza avviene all'insegna della continuità. In Cina, però, il passaggio del potere da un gruppo di governanti a quello successivo non avviene tutti i giorni, ma ogni dieci anni: i nuovi leader del 2012 rimarranno in carica fino al 2022. Nessun altro leader occidentale oggi in carica ha di fronte a sé un orizzonte temporale tanto lungo. Per questo capire le conseguenze dei cambiamenti politici cinesi è oggi diventato tanto urgente quanto capire dove andrà l'America.
La domanda delle domande quando arriva un nuovo presidente cinese è sempre la stessa: quella che viene sarà la volta buona per una più decisa espansione delle libertà politiche in Cina? Nel 2002, l'arrivo di Hu portava con sé la speranza che, oltre alle libertà economiche, fosse venuto il momento dell'accelerazione delle riforme politiche in senso liberale. Nulla di tutto ciò è avvenuto in questi dieci anni. Come raccontato a Time da Zhang Yihe, una popolare scrittrice cinese figlia di un ex-dirigente del partito epurato, «invece di accrescere le libertà, sono aumentati i controlli politici». E non di poco: su esplicita ammissione del governo cinese, gli apparati di sicurezza sono arrivati a ricevere l'enorme cifra di 110 miliardi di dollari, pari all'1,4 per cento del Pil cinese (gli Usa, con un Pil doppio di quello cinese, spendono poco meno di 50 miliardi per l'Intelligence non militare).
Sul fronte delle riforme politiche, la Cina di Hu ha insomma completamente deluso le speranze degli occidentali, quelli che — nelle parole del futuro presidente Xi — «con la loro pancia piena e non avendo niente di meglio da fare ci puntano il dito addosso». Il giro di vite in senso repressivo non è stato del tutto inatteso, tuttavia. La diffusione di Internet ha infatti accresciuto anziché diminuire la necessità di controlli capillari da parte del potere politico, spaventato dall'instabilità indotta dalla Primavera araba del 2011. E poi c'è stata la diffusione del malcontento sociale. La spettacolare crescita economica cinese degli ultimi dieci anni è stata molto diseguale, esattamente come in Occidente. Sono decisamente diminuiti i poveri, ma è anche aumentata molto la distanza tra chi beneficia del capitalismo di Stato cinese e chi rimane ai margini del sistema. Se poi a questo si aggiunge la dilagante corruzione della classe politica locale che giorno per giorno continua a farsi guidare dal vecchio detto «le montagne sono alte e l'imperatore è lontano», il quadro è completo. Con il malcontento sociale che serpeggia le esigenze di stabilità si sono fatte sentire molto più di quelle di democrazia. Non è quindi sorprendente che la transizione politica cinese di oggi avvenga con chiari di luna molto diversi rispetto a dieci anni fa.
In tre soli giorni, all'inizio di novembre, si deciderà molto dei destini del mondo dei prossimi anni. La casuale coincidenza temporale dei due eventi serve a ricordarci che, anche se in America si vota e si vince su chi può promettere un futuro migliore al popolo americano, le promesse elettorali dei candidati americani saranno più facilmente attuate solo se i futuri leader cinesi sapranno coniugare stabilità e democrazia nel loro Paese.

Repubblica 22.10.12
Spara davanti a centro commerciale
3 morti e 4 feriti in Wisconsin

qui
 

Corriere 22.10.12
«Nubi fascistoidi sull'Europa»
Claus Offe: la cura necessaria contro la crisi rafforza la destra populista
di Alessandro Cavalli


Considerato tra i massimi studiosi di opinione pubblica, il sociologo politico tedesco Claus Offe è stato collaboratore di Jürgen Habermas e fa parte della seconda generazione della Scuola di Francoforte. Autore di diversi saggi tradotti anche in italiano, attualmente insegna Sociologia politica alla Hertie School of Government di Berlino.
Nei giorni scorsi sono stato colpito da un titolo della «Süddeutsche Zeitung», che recitava «Il lento tramonto dell'Europa: la sovranità degli Stati e la moneta unica non vanno d'accordo».
«Sì, è così, non vanno d'accordo. Ma avremmo dovuto saperlo prima. Infatti sono stati commessi diversi errori. Il primo è la dimensione sbagliata dell'area euro. Paesi con produttività differente e differente costo unitario del lavoro, che è una variabile decisiva, non possono avere la stessa moneta. Perché i perdenti perderanno ancora di più e i vincenti vinceranno ancora di più. La Germania, l'Olanda, la Finlandia, il Lussemburgo e altri Paesi sono per loro natura dei "surplus nati", mentre i Paesi meridionali sono perdenti, inevitabilmente. Questo è il primo errore. Il secondo è che in quest'area monetaria, già di per sé mal disegnata, non c'è una politica fiscale e sociale unitaria. Questo è un aspetto che si sarebbe dovuto regolare fin dall'inizio. Ci sono alcuni sostituti molto deboli: i criteri di Maastricht, che in realtà non regolano nulla, non sono un valido sostituto a un regime fiscale e sociale uguale per tutti gli Stati membri».
È un punto cruciale e non mi sembra facilissimo trovare una risposta chiara.
«Sì, ma c'è un modo normativo di rispondere, ed è quello di chiedersi chi ha beneficiato di più o sofferto di meno per gli errori commessi. Questi, secondo un'idea condivisa, sono quelli che dovrebbero pagare di più il costo degli errori. E se ci si chiede chi è il beneficiario relativo degli errori commessi in passato, la risposta è: la Germania. Perché gli squilibri del commercio hanno favorito la Germania attraverso i surplus di export, che in assenza della moneta unica non sarebbero stati possibili. L'euro è un meccanismo che favorisce le esportazioni tedesche perché gli Stati membri sono indifesi di fronte alla moneta unica, non possono più fare quello che hanno fatto negli anni Ottanta e Novanta e «aggiustare» la propria moneta ricorrendo alla svalutazione. Non ho mai capito perché Spagna e Italia fossero così entusiaste dell'introduzione dell'euro, nonostante questo significasse de facto un'autolimitazione della loro autonomia».
Però l'euro ha funzionato almeno per i primi dieci anni, fino alla grande crisi del 2008.
«Esatto, fino alla grande crisi. Ma quello che ho detto finora resterebbe valido anche se la crisi non ci fosse stata. Tuttavia la crisi ha posto gli errori in tutta la loro drastica evidenza. La risposta di tipo morale che ho appena cercato di dare è: quelli che hanno tratto maggiori vantaggi devono oggi compensare gli altri Paesi o condividere la maggior parte degli oneri di compensazione. Ancora una volta, però, da un punto di vista politico questo non è fattibile, perché qualsiasi governo che proponga una divisione sproporzionata degli oneri o la mutualizzazione dei debiti o gli Eurobond o cose del genere rischia di perdere le prossime elezioni. Ad esempio, troverei rischioso, addirittura suicida, che in Germania la Spd proponesse una strategia di mutualizzazione del debito su base volontaria. Siamo di fronte a una contraddizione classica: quello che è ormai assolutamente necessario, anzi obbligatorio, in termini sia economici sia morali, per poter stabilizzare l'euro, è impossibile in termini di politica interna.
«Ma vorrei aggiungere gli ultimi due degli errori commessi. I partiti politici, tutti senza esclusione in Germania, ma anche negli altri Paesi (Francia e Italia non fanno eccezione), hanno fallito nello spiegare al loro elettorato ciò che ho appena tentato di riassumere: abbiamo fatto degli sbagli, cerchiamo di trovare un modo corretto di pagare per questi sbagli. Spiegare all'elettorato questo concetto dovrebbe essere una responsabilità dei partiti, ed essi hanno fallito miseramente nel far fronte alle loro responsabilità. I partiti si stanno deteriorando, si limitano ad agire opportunisticamente per mantenere il potere. L'assenza di una chiara linea politica e di un programma, di un'ideologia, la mancanza di standard che definiscano che cosa è giusto e corretto li induce a trascurare il loro compito principale, cioè educare il proprio elettorato, esercitando su di esso una forma di egemonia (ricordiamoci Gramsci), ed essere leader di una visione strategica per una società bene ordinata.
«Vengo ora all'ultimo punto. Credo che Mario Monti abbia ragione nel diagnosticare il problema, mentre ha delle difficoltà a dare una prognosi: la democrazia e il regime parlamentare sono incompatibili con ciò che si deve fare adesso per affrontare questa situazione. In un certo senso la crisi distrugge gli elementi chiave della democrazia, perché rende necessarie azioni che non hanno il sostegno dell'opinione pubblica. I partiti hanno fallito nell'educare l'opinione pubblica su questo punto, e ora sono di fronte a un bivio: o fare la cosa giusta o fare la cosa che ha il sostegno popolare. Ma così, da un punto di vista politico, si arriva a un punto morto».
Ma tutto ciò mette a repentaglio la sopravvivenza stessa della moneta unica?
«No, non credo. Sono abbastanza fiducioso e penso che alla fine l'euro sopravviverà, e probabilmente anche la Grecia resterà all'interno dell'Eurozona. Ma sopravviverà in modo tecnocratico, cosicché le forze di estrema destra e i sentimenti antieuropei si rafforzeranno ovunque. Dieci anni fa ho scritto che l'Europa erode più sostegno di quanto non riesca a generarne, lo usura lentamente senza fornire nuova linfa alle motivazioni profonde che dovrebbero sostenere l'idea stessa di Unione. Questo circolo vizioso è sempre più rapido e nessuno sa come fermarlo.
«Lo scenario da incubo che mi prefiguro è che vedremo risorgere una forma di autoritarismo simile a quella degli anni Trenta, che io chiamo fascismo austroclericale, in un gruppo di Paesi europei, cinque almeno: Austria, Ungheria, Romania, Bulgaria e Grecia. C'è una tradizione di autoritarismo specifica dell'Europa sud-orientale e abbiamo bisogno dell'Unione Europea per controllarlo e resistervi: lo vediamo all'opera adesso in Romania e in Ungheria, ha rischiato di prevalere in Austria ai tempi di Haider.
«Mi lasci dire un'altra cosa. Per i democratici europei, l'Europa è sempre stata una forza civilizzatrice che prende, mantiene ed esercita il controllo sulle tendenze patologiche che la storia ci ha fatto conoscere. È vero: abbiamo bisogno dell'Europa per controllare le passioni e le patologie dei diversi Stati membri, in particolare la Germania. Quindi abbiamo bisogno di un'autorità europea, un governo europeo, una quasi-federazione europea che sia in grado di esercitare questa funzione di controllo. Per queste ragioni politiche, in Europa c'è una forte discussione storica in favore di questa "autorità super partes". Ora l'abbiamo ottenuta, ma come operazione di emergenza: si tratta della Bce, l'istituzione meno democratica di tutte le istituzioni depoliticizzate o politicamente inaccessibili dell'intero assetto istituzionale dell'Unione Europea. La Bce, con il suo consiglio direttivo formato da 23 membri, tra cui i governatori di 17 banche centrali dell'area euro, avrà la maggiore autorità per fare e realizzare l'Europa; mentre l'immagine che si forma agli occhi dell'Europa sinceramente democratica è invece quella di un'Unione profondamente antidemocratica e tecnocratica».

Corriere 22.10.12
Dove ci sospinge l’umana curiosità
di Giulio Giorello


«Costruire Stati e dinastie, dar vita a stirpi, propagare credi, accumulare fortune e consumare il superfluo» son tutte imprese che «appaiono futili al paragone con i traguardi della scienza». Così l'economista Thorstein Veblen (1857-1929, nella foto) definiva Il posto della scienza nella civiltà moderna, articolo comparso nel 1906 in un'autorevole rivista di sociologia.
La modernità ha dato prova di insolita capacità nella comprensione del nostro ambiente, «in modo impersonale e spassionato»; analogamente, la tecnologia ha saputo procedere «in base a una sequenza impersonale e non in base ai termini dettati dalla natura umana o da interventi sovrannaturali». Gli scienziati, per loro conto, non si preoccupano di esigenze pratiche; anzi, «non ambiscono né possono ambire ai miglioramenti tecnologici». La loro indagine è fine a se stessa «come quella dei creatori dei miti» presso i cosiddetti selvaggi. Ma chi fa scienza «ha imparato a pensare nei termini in cui agiscono i procedimenti della tecnica».
Come è stata possibile questa convergenza, così importante per la nostra esistenza quotidiana? Due anni dopo (1908) Veblen delineava L'evoluzione del punto di vista scientifico, passando da Hegel e Marx a Darwin. Proprio quest'ultimo aveva cambiato l'immagine della scienza e aveva anche fornito una quantità di spunti per capire come fosse emersa la scienza stessa. Prima di Darwin il sapere mirava «a definire e classificare»; dopo Darwin, l'indagine scientifica si era invece modellata sullo studio di processi apparentemente senza scopo e termini ultimi.
Nato nel Wisconsin da una famiglia norvegese, Veblen, già celebre per la sua Teoria della classe agiata (1899), uomo del Nord industriale ma attratto dal Sud «cavalleresco», sentiva la cerniera di due mondi ostili, che si erano scontrati nella Guerra civile americana (1861-1865). I due saggi, di cui sopra si è detto, appaiono oggi riuniti in edizione italiana sotto il titolo Il posto della scienza (Bollati Boringhieri, pp. 128, 11,50, traduzione di Barbara Del Mercato). Se scrivesse ai nostri giorni, Veblen sarebbe certo colpito dalle conquiste dell'informatica più che dai macchinari dell'industria pesante. Ma ancora riscontrerebbe il nodo di necessità e contingenza che scandisce la storia della natura e dell'uomo. E ne ribadirebbe l'aspetto globalmente privo di finalità: Dio non si intromette nelle dinamiche indagate dalla scienza, ma nemmeno i sentimenti dell'uomo possono distorcere la crescita tecnologica.
Molti possono sentirsi insoddisfatti della razionalità di «uno scettico pedante nel suo laboratorio» o di un ingegnere che non è altro che «un regolo calcolatore vivente». L'essere umano ha via via provato sulla propria pelle «una biforcazione» tra la conoscenza dei fatti, che gli ha finora permesso di salvarsi nella lotta darwiniana, e quel che resta di quelle interpretazioni «drammatiche» che hanno costituito la linfa di miti, leggende, religioni, credenze morali, eccetera, con cui nei secoli si è fatto appello agli dei e agli eroi per dare un senso all'universo. Entrambi gli atteggiamenti, in realtà, sono figli dell'umana curiosità; ma la tensione tra di loro ha attraversato, talvolta con esiti tragici, gran parte delle umane vicende, e in particolare quelle del Novecento, il secolo insieme troppo «breve» e terribilmente «lungo».
Nell'introduzione al volume, Francesca Lidia Viano e Carlo Augusto Viano opportunamente richiamano gli effetti della grande biforcazione anche nel nostro Paese, quando uomini di scienza ebbero il coraggio «di far sentire la propria voce al di fuori delle rispettive specialità, nella costruzione della cultura nazionale e nella progettazione della scuola moderna»; ma si trovarono di fronte alla reazione idealistica di Croce e Gentile.
Non fu che un caso tra i tanti, quando il presunto sapere «filosofico» scelse di esprimere «il rimpianto per i miti uccisi nei laboratori», una mossa che sostanzialmente significa fuga dalle responsabilità che emergono dalla nostra stessa storia evolutiva.

Corriere 22.10.12
Gli insensati anni di piombo
Le vittime del terrorismo di ieri e quelle dell'oblio di oggi
di Francesco Piccolo


A pagina 19 del libro di Giovanni Bianconi, sono saltato sulla sedia, ma non voglio spiegare subito il perché. Il titolo è Figli della notte. Gli anni di piombo raccontati ai ragazzi (Dalai editore). Bianconi si propone di riattraversare, in modo rapido, la storia del terrorismo in questo Paese, dalla strage di piazza Fontana fino all'omicidio di Ezio Tarantelli, con un epilogo rapido fino a Massimo D'Antona e Marco Biagi; si rivolge a coloro che non possono avere memoria degli anni della tensione e che guardando l'Italia di ora, così com'è, non sanno bene che cosa l'abbia davvero attraversata.
Ma Bianconi si propone qualcosa in più: gli anni di piombo sono raccontati non soltanto ai ragazzi, ma dai ragazzi, perché, al tono incalzante, si sovrappone lo sguardo del figlio di una vittima, un essere umano su cui è caduto il masso insopportabile del destino segnato da un pensiero che soltanto il terrore e le guerre hanno: non contano gli esseri umani, ma ciò che rappresentano. Per questo il terrorismo ha ucciso: perché non colpiva i singoli individui, ma l'idea che rappresentavano. E questo è diventato ancora più paradossale quando sono stati colpiti uomini per caso, come a piazza Fontana o sull'Italicus o alla stazione di Bologna. Lì, addirittura, contava un luogo, il numero delle vittime. Il modo di ragionare terroristico ha reso possibile ciò che è spaventoso. Ed è difficile da raccontare, perché vuol dire cercare di spiegare l'insensato — e il libro lo fa con dedizione.
C'è anche da dire, per capire l'importanza del punto di vista che assume Bianconi, che negli ultimi anni sono stati proprio i libri dei figli delle vittime (basti citare, a titolo di esempio, il libro molto bello di Mario Calabresi, o quello di Benedetta Tobagi) a ribilanciare la questione storico-politica con quella emotivo-umana. E questo la dice lunga sulla capacità del nostro Paese di affrontare il nodo degli anni di piombo: i figli delle vittime hanno dovuto risistemare quasi da soli le conseguenze emotive e pratiche della questione. Per questo motivo, Figli della notte è importante: perché a chi non ha memoria va raccontata tutta quella storia dei terrorismi neri e rossi e delle infiltrazioni dello Stato, con il sentimento che abbiamo oggi, che ha sguardo (abbastanza) obiettivo, e coscienza di aver superato quella stagione nel modo più faticoso e doloroso possibile.
Ma nonostante tutte queste avvertenze, che arrivano dal titolo, dal sottotitolo e dall'impianto narrativo del libro, a pagina 19, si salta sulla sedia. Bianconi sta raccontando di un governo guidato da Rumor, e dice che ministro degli Esteri è Aldo Moro; poi apre una parentesi e scrive testuale: «Ricordatevi di questo nome»; e poi chiude la parentesi.
Ora, è possibile che bisogna appuntarsi il nome di un leader che ha determinato la politica italiana per decenni e che poi è stato rapito e assassinato da presidente del maggiore partito e in un momento e in un modo che ha cambiato per sempre la storia di questo Paese? Non è, per quanto riguarda la storia d'Italia dalla fine del fascismo, l'evento più importante della seconda metà del secolo scorso?
Ecco: a chiunque non sia un ragazzo, questa parentesi toglie il fiato, davvero. Il problema però, è se Bianconi abbia ragione o no ad averla messa. Basterebbero la sua serietà e il modo in cui esercita il suo mestiere, basterebbero i libri che ha scritto in precedenza (tra i quali, forse, il migliore è proprio il libro su Moro, Eseguendo la sentenza —, mentre qui sceglie di raccontare la storia dell'appuntato Ricci, quasi vent'anni passati a proteggere il presidente, attraverso gli occhi ammirati del figlio Gianni). Ma c'è anche la nostra esperienza di genitori, parenti, professori, spettatori, lettori e quant'altro che ci dice che «i ragazzi» ai quali si rivolge il libro, è spietatamente evidente che vivano, partecipino chi più e chi meno alla vita pubblica, pensino e votino, senza sapere (o sapendolo in modo molto sfocato) chi sia Aldo Moro e cosa è successo, a lui e al Paese, nel 1978. Sembra impossibile, ma è possibile.
Dalla frase di pagina 19, quindi, Figli della notte si trasforma immediatamente da libro interessante a libro necessario.
E non si tratta di recupero della memoria, ma di rinarrazione della storia recente, realizzata in modo rapido e minuzioso — anzi, se il libro ha un difetto è nella bulimia (e nell'etica) giornalistica dell'autore di non riuscire a tralasciare nessun passaggio prima di giungere ai nodi centrali sia degli anni di piombo, sia delle singole storie dei figli di vittime.
Attraverso gli occhi di Silvia, Michele, Massimo e gli altri, Giovanni Bianconi unisce le due bibliografie sempre divise sugli anni di piombo: le ricostruzioni storiche, politiche, complottistiche; e lo sguardo doloroso, tutto emotivo, di coloro che amavano chi è stato ucciso senza colpe; cercando di tenere insieme il senso storico di quella insensatezza, e la portata umana ed emotiva delle conseguenze di ogni singolo sparo. E forse i ragazzi potranno avere gli strumenti utili per definire con la parola «insensatezza» sia il fatto che sono state rovinate le vite di coloro che hanno subito le morti; sia che il terrorismo alla fine è stato sconfitto; sia il fatto che le trame sotterranee, se non hanno vinto, non sono state mai definitivamente spazzate via dall'unica forza propulsiva di un Paese civile: la verità.

Corriere 22.10.12
L'Accademia del Vaticano promuove le idee di Darwin
di Telmo Pievani


I l presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, Werner Arber, biologo premio Nobel per la Medicina nel 1978, ha tenuto il 12 ottobre scorso una relazione sui rapporti tra scienza e fede, presentata al Pontefice e ai membri del Sinodo dei vescovi, nella quale ha illustrato con chiarezza le basi della spiegazione evoluzionistica contemporanea. Il testo integrale è disponibile sul sito dell'Accademia (www.casinapioiv.va). Nel contesto di una riflessione «sulle mutue relazioni e compatibilità tra la conoscenza scientifica e i contenuti fondamentali della fede», Arber ha scelto come esempio di acquisizioni scientifiche essenziali l'evoluzione dell'universo e l'evoluzione della vita sulla Terra, in quanto «fatti scientifici stabilmente accertati».
Il microbiologo dell'Università di Basilea, succeduto a Nicola Cabibbo alla fine del 2010, ha poi spiegato che le variazioni genetiche spontanee e la selezione naturale costituiscono la forza motrice dell'evoluzione biologica. Arber ha elencato anche i molteplici meccanismi di variazione genetica contingente che alimentano il processo selettivo e che rendono conto dell'accumulo di quei cambiamenti microevolutivi che costituiscono il presupposto per l'evoluzione della biodiversità.
In sintesi: l'evoluzione biologica è un fatto e la sua spiegazione è neodarwiniana. Dinanzi a un tale uditorio, sentire che, a fronte di una costante generazione di variazione genetica, «sarà poi la selezione naturale a vagliare e a mantenere quelle rare varianti che procurano un vantaggio funzionale all'organismo» è una novità significativa, una buona premessa per superare fraintendimenti ancora presenti in alcuni settori conservatori del mondo cattolico, che si ritroveranno senz'altro spiazzati da questa presa di posizione autorevole.
La svolta è importante per almeno due ragioni. Con la sua relazione il presidente dell'Accademia pontificia smentisce quanto dichiarava il cardinale di Vienna Christoph Schönborn, sul «New York Times» del 7 luglio 2005, a proposito della falsità dell'evoluzione per selezione naturale e della «palmare evidenza di un disegno biologico» riscontrabile dagli scienziati. In secondo luogo, dopo anni di confusioni sull'esistenza di presunte «teorie alternative», quello di Arber è un chiarimento salutare. Pur non volendo essere assimilati al creazionismo americano, persistono infatti ancora oggi movimenti d'opinione che rifiutano per motivi religiosi la validità della spiegazione evoluzionistica corrente (che è saldamente darwiniana nel suo nucleo, pur con tutti i profondi aggiornamenti ben puntualizzati da Arber). Il premio Nobel ha sottolineato che esistono altri modi per cercare una compatibilità tra fede e scienza, nella sfera della ricerca personale di ognuno, senza negare le conoscenze scientifiche acquisite.
Con un certo coraggio, ha aggiunto che se Gesù Cristo fosse ancora vivo «sarebbe favorevole all'applicazione di una solida conoscenza scientifica per il bene a lungo termine dell'umanità». In tal senso, «i metodi recentemente adottati nel preparare gli organismi transgenici seguono le leggi naturali dell'evoluzione biologica e non comportano rischi legati alla metodologia dell'ingegneria genetica». Sarà interessante per tutti scoprire quale seguito avranno questi consigli nella comunità alla quale si rivolgono. Forse adesso la serena accettazione dell'evoluzione darwiniana è un po' più vicina.

Repubblica 22.10.12
L’enciclopedia della bellezza scritta dai ragazzi
di Edoardo Nesi


La proposta dello scrittore per “catalogare” la nostra cultura

Persino, e soprattutto, a chi crede che la politica possa ancora continuare per molto a rispondere con affermazioni di principio a problemi reali. La modestissima proposta è quella di decidere di investire in quel bene immenso e immensamente delicato che è la conoscenza, poiché è proprio – mi verrebbe da scrivere solo - dalla conoscenza e dal contributo che le nostre figlie e i nostri figli potrebbero dare alla sua diffusione che potrebbe nascere uno straordinario, duraturo ritorno economico.
Come?
Si cominci usando la ragione, eliminando per sempre dalle menti la sciagurata idea secondo la quale la spesa pubblica per la cultura non è che un costo, sostituendola con il concetto che rappresenti, invece, e da sempre, l’investimento migliore possibile per l’Italia, magari istituendo severissime pene per chi osi ripetere in pubblico che “con la cultura non si mangia”.
Piuttosto che certi economisti di gran nome e strenua loquacità e cattedra insigne e quasi sempre estera, sempre curvi sui loro testi sacri a strologare su cosa sia ancora possibile tagliare dal sanguinante bilancio dello Stato, si prendano a esempio e guida gli umili e furbi ambulanti di Piazza dei Miracoli a Pisa, che apparecchiano le loro bancarelle all’ombra del Battistero e della Primaziale poiché sanno bene che è solo grazie all’accostamento o alla vicinanza, concettuale e persino fisica, alla sublime grandezza dell’arte italiana che riusciranno a vendere la loro paccottiglia.
Ci si renda finalmente conto che l’Italia ha poche eccellenze vere e riconosciute in tutto il mondo. Forse solo due: il nostro immenso patrimonio culturale e quel meraviglioso intreccio di piccola e media industria e artigianato e tecnologia che, nei suoi esempi di maggior successo, proprio alla fonte della cultura e della conoscenza si abbevera da sempre. E poi, santo Dio, si smetta di massacrarle a furia di tagli fatti con la durlindana, queste nostre eccellenze. Si tagli altro, maledizione!
Si prosegua dimenticando l’altra idea sciaguratissima secondo la quale per un ragazzo o una ragazza di vent’anni oggi l’optimum sia trovare occupazione a tempo determinato in una grande industria, constatata la fine miseranda di alcune tra le più antiche e illustri delle nostre grandi aziende, o in una di quelle multinazionali a lungo invocate e poi invogliate a forza di ingiustissime agevolazioni a impiantare fabbriche da noi, poiché, come si vede e si è visto, molto spesso quelle stesse fabbriche vengono chiuse senza esitazione, alle prime difficoltà, magari per essere delocalizzate. Si vada invece a cercare migliaia e migliaia di ragazze e ragazzi, e suggerirei di scegliere tra i laureati in materie umanistiche – persone preparatissime, fresche d’una conoscenza preziosa e rara eppure oggi sfiduciate e smarrite – e si investa in loro chiedendogli di trasformarsi in amanuensi moderni, e catalogare ogni eccellenza artistica italiana.
Ogni opera d’arte, ogni chiesa, ogni edificio architettonicamente rilevante, ogni museo, ogni sito archeologico. Tutto. Immaginate un’Enciclopedia dell’infinito patrimonio artistico italiano.
Già questa sarebbe un’operazione grandemente meritoria e necessaria, di cui le generazioni future ci sarebbero grate, ma ora provate a immaginare di proiettare nel futuro questo atto d’amore e rispetto verso il passato, e di rendere L’Enciclopedia facilmente consultabile e digitalmente disponibile a tutti, su internet e su ogni telefonino, in qualsiasi momento e in tutto il mondo.
Immaginate un’Italia che riesce a trasformare secoli di conoscenza, tutti i gioielli della sua storia e della sua cultura, in un prodotto globalmente desiderabile. Un’Italia che offre ai milioni di nuovi benestanti del mondo – tra l’altro resi tali dalla globalizzazione che ha così crudelmente colpito il nostro grande cuore manifatturiero – la conoscenza del patrimonio artistico più straordinario del pianeta attraverso il loro telefonino: basterebbe puntarlo contro una chiesa, inquadrarlo nello schermo, e apparirebbe l’informazione che, guarda un po’, dentro quelle mura c’è un Caravaggio.
E poi, perché fermarsi? Perché non inserire nell’idea di patrimonio italiano anche il culto del saper vivere? Perché non affiancare all’arte anche le grandezze del nostro design, dell’arte contemporanea, della moda, della musica, dell’opera, del teatro e del cinema, dell’artigianato, persino del cibo e del vino? Perché non segnalare al mondo la bellezza, sia quella che si può comprare, sia quella che non si può comprare: i panorami più belli del mondo, i luoghi della storia, le spiagge più belle, i gioielli che sono le nostre isole?
Eh, ditemi, perché no?

l’Unità 22.10.12
Meglio Machiavelli di chi teorizza le moltitudini
di Luca Baccelli

Docente di filosofia Università di Camerino e Firenze

«NEL NOVECENTO LA FUNZIONE DI ADDOMESTICAMENTO DEL POTERE L’HA SVOLTA IL CONFLITTO SOCIALE». Con queste parole Marco Revelli ha evocato un incubo della tradizione filosofico-politica occidentale. Perché nei più influenti pensatori antichi Aristotele in primis la contesa è vista sempre come una patologia del corpo sociale, nel quale ogni membro deve svolgere la funzione per cui è adatto e ogni soggetto deve occupare il posto che gli compete: genitori e figli, maschi e femmine, padroni e schiavi, governanti e governati. E la democrazia è vista come una forma degenerata di governo del popolo, se non come il «governo della canaglia». L’idea dell’ordine come fine ultimo del corpo politico e del conflitto come turbamento del suo equilibrio fisiologico attraversa la teologia cristiana nonostante il «non sono venuto a portare la pace ma la spada» di Matteo 10,34 e arriva fino ai pensatori della modernità. Un altro filone di pensiero, che da Thomas Hobbes arriva Carl Schmitt e oltre, considera invece il conflitto come dato antropologico, caratteristica ineludibile della natura umana; ma attribuisce allo Stato il compito di neutralizzare il conflitto per impedire la regressione della comunità nella guerra civile.
Proprio per questo i Discorsi sopra Tito Livio segnano una rottura radicale, che causa uno shock nella storia del pensiero politico occidentale. Lì Niccolò Machiavelli afferma che nella repubblica romana la «dissensione» fra i nobili e la plebe ha avuto effetti positivi: attraverso il conflitto si è realizzata l’inclusione del popolo nella cittadinanza, a sua volta alla radice della «potenza» della città, e si sono prodotte «leggi ed ordini in benefico della publica libertà». Per Machiavelli, tuttavia, non tutte le forme di conflitto sono virtuose. Anche a Roma a un certo punto i tumulti sono divenuti distruttivi, fino alla definitiva crisi della repubblica. E le Istorie fiorentine narrano la sequela di contrapposizioni fra famiglie e gruppi di potere a cominciare dalla faida fra Buondelmonti e Uberti, nel 1215 che coinvolgono la cittadinanza in un crescendo di violenze.
Cosa differenzia le forme virtuose di conflitto da quelle perniciose? Per molti interpreti, sarebbe l’ambizione della plebe a provocare la degenerazione violenta del conflitto e Machiavelli inviterebbe alla moderazione. In realtà per Machiavelli la via alla tirannide si apre non tanto quando il conflitto si radicalizza, ma piuttosto dal momento in cui il popolo sceglie di affidare la protezione dei suoi interessi, e ancora più la vendetta sui suoi nemici, a un individuo potente. Machiavelli, insomma, distingue il conflitto che nasce dalla contrapposizione di gruppi sociali ben definiti ed esprime gli «umori» fondamentali della cittadinanza da quello che si origina dalla ricerca del potere personale e si collega con la costituzione di clientele, fazioni, gruppi armati finalizzati a tale potere. Il primo è virtuoso e produce libertà, il secondo è patologico e conduce alla tirannide. È difficile negare che Machiavelli imposti esattamente la questione, con sconcertante attualità.
Revelli sottolinea che nel Novecento è stata «l’azione collettiva del movimento operaio» a controllare «i demoni del potere»; è intorno al conflitto fra capitale e lavoro che si sono definiti gli «umori» della cittadinanza e le fondamentali contrapposizioni ideologiche, e questo conflitto ha contribuito all’inclusione sociale producendo forme nuove di ordine. Revelli rileva lucidamente che oggi siamo invece di fronte all’atomizzazione e alla privatizzazione del lavoro. Le immagini dei lavoratori costretti a scendere in fondo ai pozzi o a salire in cima ai campanili, fino all’autolesionismo in diretta tv per ottenere attenzione mostrano drammaticamente la loro solitudine di fronte al potere economico-finanziario. E tuttavia bisognerebbe fare un passo oltre le diagnosi di Revelli.
Oggi anche nel mondo del lavoro il conflitto può avvenire in modalità tendenzialmente entropiche, che difficilmente riescono ad esprimere «leggi e ordini». Per non dire delle forme di conflitto connesse all’emergere di micro e macronazionalismi, fondamentalismi culturali e religiosi, xenofobie e separatismi. Le tensioni che hanno essenzialmente a che fare con la sfera economica, la distribuzione del reddito, la disuguaglianza sociale rischiano di trovare qui una perversa espressione, dall’estrema destra scandinava all’Ungheria di Orbàn, alla greca Alba dorata, fino alle involuzioni xenofobe e ai tanti fascismi nei Paesi fondatori dell’Ue.
Occupy Wall Street ha diffuso una parola d’ordine estremamente evocativa: «Siamo il 99%». Il punto è: perché questa maggioranza numerica non intraprende una comune azione politica? Perché l’1% non teme, come dovrebbe, il 99%? In altri termini: si possono cogliere nelle società globale linee di frattura intorno alle quali il conflitto sociale può tornare ad assumere una funzione strutturante, formativa? Ormai da diversi anni una parte della sinistra radicale vede nella «molti-
tudine» («tutti coloro il cui lavoro è direttamente o indirettamente sfruttato e soggetto alle norme capitalistiche di produzione e riproduzione») il soggetto rivoluzionario globale. Ma siamo ancora in attesa di un’analisi sociale ed economica puntuale di questo nuovo proletariato, al di là delle narrazioni evocative.
Machiavelli non sostiene che ogni rivendicazione «dal basso», ogni azione conflittuale del popolo siano buone. Il popolo capace di proferire la vox Dei, cui Machiavelli allude, è il popolo «che comandi e sia bene ordinato», il popolo «incatenato» dalle leggi. In determinate forme il conflitto politico ha effetti «ordinatori» e dà forma alla stessa moltitudine. In altri casi, date altre condizioni, no. Il conflitto, se avviene entro una cornice giuridica e istituzionale solida, contribuisce a rafforzarla (e questo è nell’interesse del popolo: l’inimicizia fra il popolo e i potenti è insuperabile «perché, volendo il popolo vivere secondo le leggi, e i potenti comandare a quelle, non è possibile cappino insieme») e attiva una dinamica virtuosa.
Insomma, Machiavelli segnala la necessità di interrogarsi sui processi di formazione e sviluppo del popolo, del suo ruolo sociale, della sua articolazione, del suo divenire soggetto politico. Di tutto questo fornisce una fenomenologia ricca ed articolata nelle sue opere. E ci indica il problema che una politica progressista ha di fronte: siamo condannati a forme corporative o disperate di conflitto, dobbiamo rassegnarci alla proliferazione di sètte e consorterie strumentalizzate per l’affermazione di poteri personali, a presunti scontri di civiltà, collisioni di fondamentalismi, all’esclusione dell’altro, del diverso, dello straniero? Oppure è possibile che si formino nuovi attori collettivi? E le istituzioni e le organizzazioni politiche e sociali, per la loro parte, possono svolgere un ruolo?

l’Unità 22.10.12
La bambina da Nobel
Cristiana Pulcinelli narra della scienziata McClintock
Nel suo nuovo libro la vita avventurosa della grande genetista che rivoluzionò le teorie scientifiche sul Dna ed è stata premiata a 80 anni
di Pietro Greco


È LA STORIA DI UNA RAGAZZA TERRIBILE – BARBARA MCCLINTOCK, PREMIO NOBEL PER LA MEDICINA NELL’ANNO 1983 – QUELLA CHE CRISTIANA PULCINELLI RACCONTA NEL SUO NUOVO LIBRO, Pannocchie da Nobel (pagg. 80, euro 12,00) appena pubblicato con l’Editoriale Scienza con le illustrazioni a colori di Allegra Agliardi. È la storia di una ragazza terribile che ha combattuto contro due pregiudizi che si infiltrano e mettono radici anche nel mondo della scienza. Il primo pregiudizio è quello della «discriminazione di genere», una definizione colta dietro cui si nasconde l’idea infondata – il pregiudizio appunto – che le donne non sono adatte al lavoro scientifico. Il secondo pregiudizio riguarda quello che il fisico e storico americano Thomas Khun, proprio cinquant’anni fa, cambi di paradigma: ovvero quella certa tendenza conservatrice che hanno (anche) gli scienziati ad abbandonare la propria visione del mondo e ad accettare le nuove idee che emergono dai fatti e dalla necessità di spiegare con nuove teorie le nuove evidenze.
Per abbattere questi due pregiudizi Barbara McClintock ha utilizzato quattro materiali poveri e comunque disponibile a tutti: la determinazione, la passione, lo spirito di indipendenza e, infine, quelli che Galileo Galilei chiamava «gli occhi nella fronte e nel cervello».
Con la determinazione Barbara, nata il 16 giugno 1902 ad Hartford nel Connecticut, ha vinto tanto i pregiudizi dei ragazzini che non volevano farla giocare a calcio, quanto quelli della mamma (che non la voleva scienziata, ma sposa e madre felice), quanto quella dei professori della Cornell University che non volevano ragazze nei laboratori di genetica. Barbara ha giocato a calcio a dispetto dei ragazzini, è diventata una scienziata malgrado la madre, è entrata nei laboratori di genetica nonostante l’ostracismo di alcuni professori.
Con la passione Barbara ha vinto tutti gli ostacoli e ha fatto «quello che le piaceva», diventato bravissima – la migliore di tutti – nello studio della genetica del mais e tra le più grandi genetiste in assoluto del XX secolo. Tanto da diventare la prima donna a ricevere un premio Nobel scientifico da sola, senza doverlo dividere con altri. La genetica è quella scienza che studia come i genitori trasmettono i loro caratteri – il colore degli occhi e della pelle, la forma del naso e del viso, l’altezza e la struttura ossea – ai figli. E come i figli, pur ricevendo i caratteri dai loro genitori, sono tutti un po’ diversi non solo dal papà e dalla mamma, ma anche dai propri fratelli.
Con lo spirito di indipendenza Barbara ha tracciato un suo percorso di studi, molto fruttuoso, che non ha abbandonato mai, sia quando a richiamarla erano le sirene effimere del successo, sia quando a cercare di bloccarla era il silenzio assordante dei colleghi che non la capivano.
Con «gli occhi nella fronte», Barbara ha visto al microscopio «cose mai viste prima»: cromosomi che si intrecciavano, geni che saltavano. Con «gli occhi nella testa» ha saputo interpretare quei fatti e ha abbattuto vecchi paradigmi. Ce n’era uno, formidabile, che aveva attecchito nella mente dei biologi della sua generazione. Negli anni ’50 del secolo scorso i biologi avevano capito che i caratteri ereditari sono iscritti in una grossa molecola, il Dna, che si trova nel nucleo di ciascuna nostra cellula. E avevano immaginato che il Dna – non a caso definito il «codice della vita» – fosse come un enorme libro scritto una volta per tutte su pochi, lunghi papiri. Al microscopio Barbara ha visto «con gli occhi della fronte» che non era affatto così. E con gli «occhi del cervello» ha proposto una nuova immagine del Dna, molto più «viva». Con singole parti che possono passare da un papiro all’altro (crossong-over), con geni (i tratti che definiscono un carattere) che saltano come grilli da una parte all’altra, trascinandosi dietro altri geni meno carismatici o inducendo altri a comportamenti anomali. Nessuno voleva crederle. Ma alla fine la ragazza terribile, Barbara, ha avuto ragione. E, ha 80 anni passati, ha ricevuto il Nobel. Una storia bella. Una storia da leggere. Anche perché è scritta molto bene. Cristiana Pulcinelli si è calata alla perfezione nel personaggio ed è riuscita a proporre la sua storia in prima persona. Facendoci rivivere in presa diretta le emozioni di Barbara. Ragazzi, fate leggere questo libro ai vostri genitori.

l’Unità 22.10.12
In viaggio con Borgna sul sentiero della follia che si fa condivisione
In libreria il nuovo testo del grande psichiatra sempre alla ricerca del confronto con la creatività umana
di Valeria Viganò


C’È IN SENTIERO IMPERVIO CHE DOVREMMO PERCORRERE PER NON VIVERE A CASO, SENZA RIFLESSIONE PROFONDA, ATTRATTI DA MITI E CONSUMO, IN UNA TOTALE INDIFFERENZA PER GLI ALTRI. Un sentiero che si inerpica e discende, ci porta in cima, dove l’orizzonte è vastissimo, e a valle dove ritroviamo la comunità umana. La psichiatria, ci dice Eugenio Borgna, usa metafore. E il sentiero appena descritto Borgna lo conosce bene. È la nostra guida, lo è sempre stato, da quando ha cominciato a scrivere sulle emozioni della follia dandoci le chiavi per comprenderle attraverso una rilettura specchiante delle parole della poesia e della letteratura, dell’arte. Le figure a cui queste parole appartengono hanno già percorso il sentiero, lo hanno descritto mirabilmente e talvolta hanno fallito, precipitando. Woolf, Pozzi, Plath, Holderlin, Nietzsche, Kirkegaard, Sachs, Celan, Trakl, Dickinson, Rilke, Bachmann sono tra gli innumerevoli personaggi che sono entrati nei saggi di Borgna scardinare i misteri della psiche umana e delle sue percezioni. Sono autori che hanno provato a sondare l’infinito insondabile, offrendoci squarci di comprensione e interpretazioni di senso nel non-senso che sembra talvolta la vita. In Di armonia risuona e di follia (Feltrinelli, pag 207 €18),uscito da poco in libreria, Eugenio Borgna prosegue il cammino di esperienze psichiatriche e di confronto con la creatività umana, spesso marchiata da un dolore trasfigurato. È lì che dobbiamo cercare aiuto per dare parola o suono o immagine al lato più fragile e talvolta compromesso della malattia dell’anima. La consonanza, il vibrare reciproco è lo zaino che sempre è sulle sue spalle mentre cammina nel territorio aspro e frondoso della depressione o della schizofrenia. Laddove c’è una sofferenza del mondo interiore, là può esistere l’ascolto e la condivisione. Anche in questo ultimo volume troviamo quella lingua alla quale siamo abituati, che chiama, trascolora, diventa anch’essa poetica. Ritroviamo l’aggettivo vertiginoso, vocabolo che l’autore predilige, perché benissimo restituisce sia il tipo di sentiero di cui stiamo parlando, sia il senso di smarrimento o di meraviglia che contraddistingue le esistenze molto sensibili. La vertigine si prova quando sotto di noi si apre un baratro nel quale rischiamo di sfracellarci ma si esperisce anche quando l’emozione è talmente forte da farci vacillare in ebbrezza. La vertigine è un ondeggiamento, una perdita di equilibrio e ci conduce in uno stato d’animo in cui non è la ragione a prevalere (semmai e soltanto a rispondere) ma le paure più nascoste. È da questa consapevolezza e coscienza nell’amplissima analisi metaforica e reale dello scompenso mentale che nasce la cura, ci dice Borgna. La psichiatria è questo, il faticoso restare tra distanza e vicinanza, cercando ora l’una ora l’altra in un’attenzione perenne.
FOLGORAZIONE DEL CORPO
Un altro aggettivo caro a Borgna è sfolgorante. Anche in questo caso, la folgorazione è un movimento del corpo e della mente, un’epifania e non un moto rettilineo uniforme del tempo. Sfolgorante è luminoso oltre misura, oltre la normalità. Sono sfolgoranti i ghiacciai bianchi e accecanti delle vette, le ultime illuminate prima della notte. Quale metafora più adatta potrebbe spiegare meglio i momenti rapsodici di una crisi di follia o di un verso poetico che arrivano fulmineamente? Di armonia risuona e di follia è, come sempre in Borgna, un’eco che rimbomba e propaga il suo pensiero illuminante e ricchissimo, che, a mo’ di scandaglio, arriva anche negli abissi popolati di creature sconosciute e per questo mostruose. E arriva in cielo quando, in uno degli ultimi capitoli che compongono il saggio, lo psichiatra si confronta con il mistero del misticismo, nelle forme prese da tre Santa Teresa: d’Avila, di Lisieux, di Calcutta, che interpretano il dolore umano nell’unione con il trascendente, con Dio. Unione vissuta in modi diversi anche da Simone Weil. Tornando alla fallacità umana senza conforto ultraterreno, mi preme sottolineare l’esaustivo capitolo dedicato ad alcune mostre che hanno per tema La malinconia ( Parigi 2006 e Verona 2007) e ai pittori presenti, il capitolo destinato alla inquietudine dell’anima di Virginia Woolf e quello su Etty Hillesum e la comunità di destini nel buco nero della persecuzione. Perché, come ribadisce fermamente Borgna «la psichiatria, del resto, o è psichiatria sociale (potremmo quasi definirla politica nel significato di appartenenza a una polis, ndr.) o non è», e la dignità umana deve, in prima istanza, precludere a qualsiasi esclusione della diversità.