mercoledì 24 ottobre 2012

l’Unità 24.10.12
Primarie e litigi, il Pd rischia di spezzarsi
di Cristoforo Boni

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l’Unità 24.10.12
Spezzare il Pd è un delitto politico
di Cristoforo Boni


QUANDO SI PASSA ALLE VIE LEGALI NON È MAI BUON SEGNO. È VERO CHE LA LITIGIOSITÀ CRESCE UN PO’ OVUNQUE. Ma è inutile addolcire la pillola: c’è un linguaggio demolitorio, un’aggressività dei toni unita, un vittimismo esasperato, un’implicita delegittimazione in alcune parole d’ordine che spinge le primarie in zona di pericolo. Sarebbe bene darsi una regolata. A meno che qualcuno non abbia davvero intenzione di provocare una rottura postuma.
C’era un tempo in cui si diceva tutto il bene possibile delle primarie. Che avrebbero portato consensi ed entusiasmo, senza alcuna controindicazione. Le primarie sono un segno distintivo del Pd, della sua idea di democrazia e anche del suo desiderio di cambiamento del sistema politico: ma le primarie contengono rischi. E in talune occasione hanno prodotto sconfitte e lacerazioni. Bisogna dunque tenere la guardia alta. E mantenere un certo grado di coesione tra i competitori: la condivisione minima riguarda proprio la responsabilità dell’impresa.
Se oggi c’è tanta attenzione sulle primarie, questa è dovuta certamente al fatto che il Pd è il solo «partito» rimasto in campo. Crediamo che sia dovuta anche alla grande domanda di partecipazione, diffusa tra i cittadini di ogni orientamento. Questa è indubbiamente una grande opportunità per il centrosinistra. Ma è anche la leva per operazioni ostili al Pd. Non c’è dubbio che tanti soggetti esterni oggi progettano incursioni (anche solo mediatiche) per allargare le divisioni interne fino a decretare una incompatibilità politica. Condividere la responsabilità dell’impresa vuol dire condurre la sfida senza introdurre tossine tali da trasformare l’avversario interno in avversario integrale. Vuol dire sfruttare la simpatia esterna senza assecondare il disegno di chi, non potendo più sperare in una rivitalizzazione del centrodestra prima delle elezioni, scommette tutto su una scomposizione del Pd (dopo le primarie, o dopo le successive secondarie).
La questione riguarda il destino stesso del Pd. Va oltre le primarie di oggi, e va anche oltre Bersani e Renzi. Attenzione: le primarie sono state concepite dal segretario del Pd come una prova di coraggio e di umiltà verso una società inquieta e delusa, che chiedeva al maggior partito e al suo gruppo dirigente di rimettersi in discussione, di rischiare. Non tutti erano convinti che le primarie fossero la strada giusta. Ma tutti sapevano bene che il Pd doveva lanciare un segnale coerente con quella «riscossa civica» che sta chiedendo al Paese. Il problema è l’entità del rischio. Non si rischia solo una sconfitta. La politica è fatta di vittorie e di sconfitte, e anche chi sta all’opposizione è chiamato ad assumersi le proprie responsabilità verso il Paese.
Nel rischio, stavolta, c’è il futuro del Pd. Che è sopravvissuto a tre sconfitte elettorali (caso unico nella storia repubblicana per un partito nato da una fusione). Ma che ora deve riuscire a mantenere la propria unità nella previsione di una possibile vittoria. Rompere il Pd sarebbe semplicemente un delitto. Non è vero che la sinistra si libererebbe di un equivoco e i liberal acquisterebbero una centralità fin qui negata. È vero invece che salterebbe in aria la sola robusta alternativa al fallimento della destra italiana e dei conservatori europei. E sarebbero più deboli, molto più deboli sia le ragioni della sinistra che quelle dei cattolici democratici e di chi pensa che in Europa sia giunto il tempo di una svolta. Brinderebbero i soliti noti: quelli che applaudono Grillo come hanno applaudito Berlusconi, e che magari sperano che dalle primarie del Pd esca banalmente la conferma del «governo tecnico».

l’Unità 24.10.12
Bersani vede Gabriel
«Con l’Spd per l’altra politica in Europa»
di M. Ze.


ROMA Una piattaforma comune dei partiti progressisti europei per portare la Ue fuori dalla crisi: è stato questo il succo dell’incontro di ieri tra il segretario del Pd Pier Luigi Bersani e Sigmar Gabriel, leader della Spd. Da soli non si va da nessuna parte, concetto ribadito anche dal leader tedesco ieri in conferenza stampa congiunta, «dobbiamo spiegarlo ai nostri elettori, dobbiamo agire uniti». Questo è quello che, spiega Gabriel, sta facendo il suo partito nel Paese di Angela Merkel: da soli nessuno vince, neanche uno Stato forte come la Germania può farcela se l’Europa non si rafforza. Ma il monito è anche in casa socialdemocratica: «Noi partiti socialdemocratici la dobbiamo smettere di guardare soltanto nei nostri paesi. Libertà e responsabilità devono andare di pari passo».
«Solo così dice Pier Luigi Bersani le opinioni pubbliche possono comprendere che si può scommettere ancora su un comune destino europeo». A patto che gli Stati accettino di cedere un po’ di sovranità, aggiunge, altrimenti «se la prenderanno i mercati».
«Neanche oggi abbiamo sovranità sostiene Gabriel -. Facciamo finta di essere Stati sovrani ma ho l’impressione che a livello sociale non lo siamo. Dove vengono prese le decisioni? A WallStreet. Ma noi la sovranità ce la riprendiamo se agiamo uniti. Il prezzo da pagare è la cessione di un po’ di autonomia». In gioco c’è il destino di tutti i Paesi europei, perché, argomenta il leader tedesco, «il più grande scandalo» a cui assistiamo è quello che vede «le persone comuni pagare la crisi, ma non le banche e tanti ricconi si permettono di prestare denaro agli Stati e guadagnano con gli interessi».
Alla base della debolezza della Ue davanti alla ferocia con cui la crisi ha colpito secondo il segretario Pd c’è anche il fatto che l’Ue «in questi anni ha perso la sua materia prima fondamentale: la solidarietà e il comune progetto europeo». Alla vigilia dell’incontro con il premier, fissato per oggi alle 14.30, nel corso di quale il segretario affronterà i nodi della legge di stabilità, Bersani dice di approvare l’idea di Monti di un vertice con tutti i capi di stato e di governo contro i populismo e l’euroscettcismo, ma aggiunge«sarà utile se quel giorno si fa una tassa sulle transazioni finanziarie, così i populismi scendono. Se invece si parla di populismi senza prendere nessuna decisione, i populismi crescono perché l’opinione pubblica europea ha bisogno di vedere qualche misura concreta di solidarietà e sostegno al lavoro». Sintonia tra i due leader sul futuro dell’Europa: sarà in grado di superare l’euroscetticismo soltanto se ritroverà il «coraggio di coloro che firmarono i Trattati di Roma», come dice Gabriel, ma soprattutto se sarà in grado di fare politiche economiche e sociali «concordate» in grado di mettere fine «all’euro-anarchia» e per sapere «cosa vogliamo fare assieme nei prossimi 10-20-30 anni». Altrimenti così come è «non dura».
Le misure per mandare segnali di un cambiamento di rotta, dice Bersani, possono essere diverse, «golden rule, project bond, tassa sulle transazioni finanziarie», ma non possono essere rimandate. «Dobbiamo vergognarci che un’intera generazione di giovani abbia paura dell’Europa», avverte Gabriel. L’obiettivo non può essere soltanto l’unione monetaria, deve essere quello di avvicinare le condizioni sociali ed economiche nei vari Paesi, un operaio italiano deve guadagnare quanto un operaio tedesco.
E alla domanda se Monti sia socialdemocratico, Gabriel risponde. «Non lo so se lo è, ma sono curioso di sentire cosa ci dirà domani (oggi per chi legge, ndr)» sulla crisi. E Bersani: «Noi siamo molto interessati al fatto che il presidente Monti ascolti anche la voce dell’Spd e che possa considerare il tipo di legame che stiamo costruendo tra il Pd e tutti i partiti progressisti e socialisti». E lasciando la conferenza stampa il segretario Pd ricorda l’altro incontro avvenuto con Gabriel, pochi giorni prima che Berlusconi lasciasse Palazzo Chigi: «Sono contento di accompagnare Sigmar Gabriel da Monti, fu con noi alla grande manifestazione a San Giovanni dopo la quale Berlusconi se ne andò. Ha aperto anche lui un po’ la porta a Monti e domani lo ricorderemo».

il Fatto 24.10.12
Il segretario Pd sfida Monti e Grilli
di Caterina Perniconi


Sulla strada che separa Pier Luigi Bersani da Palazzo Chigi ci sono almeno due ostacoli. Il primo, Matteo Renzi, è il nemico da battere alle primarie del centrosinistra. Il secondo è molto più insidioso perché occupa già la poltrona di premier: Mario Monti.
Anche per questo motivo il segretario del Partito democratico ha messo da parte ogni timore nell’attaccare il governo, soprattutto quando “fa propaganda”. La definizione è di Stefano Fassina, responsabile Economia del partito, che ieri mattina ha aperto con la sua relazione sulla legge di stabilità la segreteria del Pd.
UN ATTACCO diretto contro il ministro dell’Economia, Vitto-rio Grilli, colpevole di aver definito “un sollievo per il 99% dei cittadini” misure invece “pesantissime, che ricadranno sugli stipendi medio bassi”. Fassina ha messo i conti sul tavolo di Bersani: se l’aumento dell’Iva vale 6,6 miliardi all’anno, mentre la minore Irpef ne vale 4,5, la differenza è di oltre 2 miliardi di maggiori imposte. Che puniscono sempre gli stessi.
Dopo di lui è stata la volta di Francesca Puglisi, responsabile Scuola, che ha spiegato il taglio a studenti e insegnanti. Poi Cecilia Carmassi, addetta al Terzo settore, che ha lamentato le riduzioni agli enti locali e la ricaduta sui “non autosufficienti”. A Bersani è bastato per capire che poteva puntare al bersaglio: “Apprezzo l’intenzione del governo a valutare modifiche – ha premesso il segretario Pd – ma dire che la legge così come è non pesa sulle condizioni di vita dei cittadini e sulla domanda interna è ardito. Servono modifiche o non l’approveremo perché non siamo affatto d’accordo con Grilli, noi abbiamo dati diversi”.
Valutazione che coincide con quella fatta sia dall’Istat che dalla Corte dei Conti nelle audizioni alle commissioni Bilancio di Camera e Senato. Il vice direttore della Banca d’Italia, Salvatore Rossi, ha addirittura invitato il ministro dell’Economia a vagliare la possibilità di ulteriori interventi sulla spesa in primavera per blindare il pareggio dopo il 2013. “C’è il rischio – ha detto Rossi – che molti enti decentrati, per compensare gli effetti sulla quantità e qualità dei servizi forniti, inaspriscano l’imposizione fiscale locale”. Altre tasse, quindi, in contrasto con la necessità del Paese di crescere.
“C’è una preoccupazione serissima per le autonomie locali e la sanità. Occorre trovare soluzioni per alleggerire il carico” ha specificato Bersani, entrando nel merito delle misure. “Sul giro fiscale punterei a una maggiore equità e maggiore appoggio alla domanda interna. Ho visto che c’è una disponibilità da parte del ministro Profumo sulla scuola che per noi è un tema irrinunciabile”.
IL PRESIDENTE del Consiglio ha rimandato la discussione a questo pomeriggio, quando Bersani varcherà la porta di Palazzo Chigi insieme al leader dell’Spd tedesca, Sigmar Gabriel (pedina del suo riposizionamento a sinistra, domani toccherà al francese Francois Hollande). Grilli ha espresso durante le audizioni la disponibilità a modifiche sul provvedimento, ma resta la chiusura totale sui saldi, che il Pd manifesta l’intenzione di voler rispettare. Il nuovo corso bersaniano non è piaciuto affatto all’inquilino del Colle più alto: “Oggi il rigore non rappresenta una scelta ma una necessità” ha dichiarato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in visita in Olanda, “la situazione di crisi finanziaria legata al debito sovrano è all’attenzione dell’Europa per le pressioni che da essa giungono alla moneta unica e questo rende imperativa la disciplina fiscale”. Secondo il Capo dello Stato “l’attuale governo italiano sta facendo la sua parte con decisione”. Un messaggio chiaro a Bersani perché la sua campagna elettorale non metta in pericolo l’esecutivo tecnico. “Nessun problema – ha provato a scherzare a tarda sera il segretario del Pd – è appena arrivato Sigmur Gabriel, proprio come l’anno scorso, una settimana prima delle dimissioni di Berlusconi. Anche lui ha aperto un po’ la porta a Monti”. Ora il leder Spd deve aiutare Bersani ad aprire la sua.

La Stampa 24.10.12
Azzerare tutto l’impianto Il Pd lo chiederà oggi a Monti
Svolta del leader democratico, poiché la legge non corregge i conti tanto vale non toccare le imposte
di Fabio Martini


Si è consumato tutto nel giro di pochi minuti. Il ministro Vittorio Grilli aveva appena concluso la sua audizione davanti alla Commissione Bilancio di Montecitorio e di lì a poco le sue argomentazioni hanno corroborato e accelerato nel Pd la svolta. Un giro di boa che Pier Luigi Bersani meditava da giorni e che, salvo sorprese, riferirà questo pomeriggio a Mario Monti nel previsto incontro a palazzo Chigi, l’ultimo del giro di consultazioni con i leader della maggioranza avviato lunedì. La posizione maturata nel corso di una riunione a porte chiuse del Pd è questa: poiché la legge di stabilità non corregge i conti ma li mette in sicurezza, poiché quello che è in più può anche essere in meno, tanto vale neutralizzare il più possibile la manovra: azzerare l’insidioso aumento dell’Iva, la poco influente riduzione dell’Irpef, la contestatissima retroattività delle detrazioni fiscali.
Corposa novità da parte del Pd, che è il prodotto di una iniziale intuizione di Pier Luigi Bersani e di una convergenza tra le due tendenze di politica economica, quelle che nella segreteria Bersani fanno capo a Stefano Fassina e a Francesco Boccia, due quarantenni che si sono perfezionati all’estero, il primo al Fondo Monetario Internazionale, il secondo alla London School of Economics. In particolare sono state le relazioni di Vittorio Grilli e del presidente dell’Istat Enrico Giovannini ad incoraggiare la messa a punto della nuova posizione. Spiega Francesco Boccia: «Preso atto delle cifre esposte dal presidente dell’Istat Giovannini nell’audizione in Commissione e cioè che gli interventi attuati nel corso dell’ultimo anno hanno avuto effetti restrittivi nel triennio per un totale di 203 miliardi, pari a 4 punti di Pil in media; considerato ciò che ci ha detto il ministro Grilli, per la prima volta non si chiedono maggiori risorse e l’obiettivo è tenere i conti in ordine, a questo punto la legge di stabilità può essere tabellare, limitandosi ad un paio di miliardi per le operazioni che occorre fare».
Nel corso della riunione Stefano Fassina ha fatto notare: «Grilli continua a dare una rappresentazione infondata degli effetti dell’aumento dell’Iva, che vale 6,6 miliardi all’anno, mentre la minore Irpef vale 4,4 miliardi l’anno. C’è una differenza di oltre 2 miliardi di imposte che produce un effetto regressivo su 10 milioni di persone con reddito inferiore al minimo imponibile Irpef e su milioni di famiglie a reddito medio». Oggi a palazzo Chigi, ad accogliere Pier Luigi Bersani (accompagnato dal vicesegretario Enrico Letta e dai presidenti dei gruppi parlamentari, Finocchiaro e Franceschini, oltre al presidente del Consiglio Mario Monti, ci sarà anche il ministro dell’Economia Vittorio Grilli, che ovviamente conosce numeri, dettaglio ed elaborazioni che hanno prodotto la legge di stabilità.
In questi ultimi giorni si sono molto inasprite le esternazioni pubbliche dei dirigenti del Pd nei confronti del governo. Monti ha preso nota della evoluzione sinistrorsa seguita all’accordo con Nichi Vendola, ma ha evitato di replicare. E anche se le esternazioni di Monti consentono sempre letture in controluce, per effetto delle sue notazioni sulfuree, per una volta ieri il presidente del Consiglio è sembrato prender le parti dei «suoi» partiti persino «contro» i tedeschi. Intervenendo ad un convegno dello Iai, dopo aver definito addirittura come «una ossessione» la recente richiesta della Cancelliera Merkel di un supercommissario ai bilanci degli Stati, Monti ha ironizzato sul fatto che la Germania non sia l’unico Paese ad avere un Parlamento e un elettorato: «In Paesi come la Germania lo sforzo deve essere quello anzitutto di tenere presente che l’elettore è una caratteristica scomoda di tutti i Paesi e nessuno può ritenere di essere l’unico ad avere questo privilegio, perché per fortuna è diffuso...».

il Fatto 24.10.12
La brutalità tecnica di Monti
di Dario Fo


Qualche giorno fa ho assistito, grazie a un telegiornale, a un intervento del presidente del Consiglio Mario Monti. Parlava in una sala gremita di sindaci. Tutti erano molto irritati con il governo per i programmi delle imposte drastiche di cui erano bersaglio. Ciò che in particolare mi colpì fu la risposta del presidente. Egli disse: “Purtroppo, devo ammettere che per quanto riguarda le tasse imposte nell’ultima legge emanata, ci siamo comportati con brutalità”. Avevo senz’altro frainteso. Una brutalità prodotta da persona così a modo, discreta, imparziale ed equilibrata era impossibile! Ma qualche minuto dopo, ascoltando un altro telegiornale, mi resi conto che quella “brutalità ” l’aveva pronunciata proprio lui, col suo classico aplomb di statista educato e civile. Mi sono chiesto: possibile che l’ex Rettore dell’Università Bocconi abbia frainteso il valore di quel termine, tanto da farne uso con tanta leggerezza? Sul dizionario Sansoni, alla voce brutale leggiamo: aggettivo. Da bruto, bestiale, feroce, pesante; malvagità: circostanza aggravante dell’omicidio. Sostantivo: brutalità. Avverbio: brutalmente.
IL TERMINE nasce dal lessico latino del V secolo a. C. diretto al comportamento di Bruto Lucio Giugno, fondatore della Repubblica Romana che mise a morte i propri figli che avevano cospirato per il ritorno dei Tarquini. La miseria! È detto brutale colui che manda a morte i propri figli. Proprio feroce e malvagio, circostanza aggravante dell’omicidio! Un po’ pesante come svarione lessicale. E subito ci viene in mente l’espressione di Dante: “Nati non fummo a viver come bruti, ma per seguir virtude e canoscenza”. Quindi non è per virtù che il nostro Monti ha brutalizzato i sudditi, pardon, i cittadini della nostra patria. Bè, non esageriamo con la ferocia delle tasse: prima di tutto il prof. Monti non ha usato su tutti l’atto violento, ma solo verso coloro che non avrebbero potuto reagire adeguatamente se il massimo responsabile del governo ammettesse di essersi scagliato brutalmente su un’enorme quantità di inermi! Avrei voluto vedere io se qualcuno avesse brutalizzato altri cittadini di maggior livello tipo i notai, farmacisti, dentisti, assicuratori, prestatori a strozzo e banchieri... avremmo visto saltare in aria città intere! Dice Queneau, il filosofo: “Ognuno soffre di un duro trattamento solo in conseguenza della sua collocazione nella società e in seguito alla probabile reazione adeguata che esprime davanti a ciò che considera sopruso”. Quindi è una costante matematica: la violenza del potere si proietta dal basso verso l’alto in rapporto alla potenza economica di cui il colpito dispone. D’altra parte Mario Monti e il suo gruppo di tecnici sono stati chiamati al governo per risolvere il problema della nostra disastrata economia.
E QUALCUNOdovrà pur pagare. La situazione drammatica in cui viviamo la si può capovolgere solo se ogni cittadino partecipa al salvataggio. Se poi, in seguito alla reazione di alcuni gruppi economici, chiamiamole lobby, il governo è costretto a ritirare le proposte che imporrebbero a costoro di versare il dovuto, non facciamone una tragedia, spingiamo un po’ di più l’acceleratore su coloro che non possiedono né mezzi, né santi in paradiso o deputati in Parlamento a proprio comando. Saranno loro a pagare anche per quelli che avrebbero i mezzi per risolvere democraticamente ed egalitariamente il loro compito civile. A proposito di brutalità non ricordiamo però un medesimo aplomb dimostrato verso i cosiddetti esodati: una valanga di cittadini che ha dovuto subire una beffa a dir poco crudele. Essi, all’istante, si sono ritrovati licenziati e totalmente privi di pensione. L’ingiustizia ha creato scandalo e il governo ha promesso che sarebbe corso subito ai ripari, ma ancora non si vede spuntare alcun atto risolutivo. Tanto esodato fa rima con diseredato. Quindi tranquilli e avanti così. Parallela è la notizia apparsa lunedì 22 ottobre su Il Fatto Quotidiano a proposito dell’imperversare di centinaia di migliaia di slot machine nei bar e nelle sale giochi d’Italia. Il governo Monti ha concesso il diritto al gioco d’azzardo pubblico, si può ben dire totale. Il Fatto ci ricorda che fu Berlusconi, nel suo secondo mandato, a legalizzare le macchine chiamate scannagonzi. La maggiore azienda che gestiva queste trappole oscene intascò in un solo anno più di 7 miliardi di euro.
MA QUELLA pacchia da gangster non poteva durare, infatti ecco che all’apparire del governo di tecnici i nuovi ministri propongono una legge che impone norme severe contro ogni gioco d’azzardo. E così, finalmente, esattamente una settimana fa ecco che il ministero dell’Economia mette nero su bianco una controlegge che dichiara che il gioco d’azzardo pubblico non si tocca. Come mai un vergognoso ribaltone del genere? Per il semplice fatto che lo Stato, il governo, hanno bisogno di quei soldi. Come?! Hanno bisogno di denaro sottratto a cittadini irretiti da una mania dal nome tanto spietato come ludopatia? In particolare, giacché tutta o quasi l’équipe che dirige questo governo è composta da uomini e donne di estrazione cattolica, addirittura provenienti da un’Università che si chiama Cattolica, come riescono a declinare la loro fede e nello stesso tempo accettare di vestire la giubba del biscazziere quello sì, davvero brutale e indegno? Forse state per rispondermi che purtroppo la nostra società è schiava del denaro e spararci la triviale banalità della moneta senza odore? No signori e signore la moneta ha odore, anzi puzza, soprattutto di ipocrisia e di cinismo. Vi saluto con tutto il rispetto e la sobrietà possibile.

il Fatto 24.10.12
L’assalto di Renzi: le regole di Bersani violano la privacy
L’apparato “Rispetti le decisioni”
di Wanda Marra


Il regolamento delle primarie viola la legge sulle privacy: il comitato Matteo Renzi lo mette nero su bianco e sceglie le vie legali presentando un ricorso al Garante della Privacy. Dopo settimane di guerra fredda sulla questione delle regole, Renzi va all’attacco e il Pd arriva alle carte bollate. L’oggetto del ricorso è l’obbligo per chi voglia votare di “sottoscrivere il pubblico appello di sostegno alla coalizione” e “iscriversi all’albo degli elettori”. Ora, l’albo c’è sempre stato, fin dalle primarie di Prodi. Ma in realtà i nomi dei votanti non sono mai stati resi pubblici. Quello che denunciano i renziani è che il regolamento possa essere interpretato nel senso di imporre “il rilascio di un consenso alla diffusione e pubblicazione dei nomi dei sottoscrittori”. D’altra parte lo va dicendo lo stesso Nico Stumpo, fedelissimo , del segretario, responsabile Organizzazione del Pd: “Sono risorse che devono essere a disposizione del centrosinistra”.
PUNTO CRUCIALE: Bersani ha dalla sua gli elettori tradizionali del Pd e della sinistra, Renzi punta a conquistare tutti, dai pidiellini agli indecisi, dai grillini ai digiuni di politica. E dunque, quelli che potrebbero avere non proprio piacere a essere riconosciuti come elettori del centrosinistra.E se questa è l’unica norma contro cui si può ricorrere a un’autorità terza, non è certo l’unico punto di disaccordo. La questione principale è l’apertura della partecipazione per dirla con i renziani, il controllo di chi va a votare, per dirla con i bersaniani. Il regolamento così com’è approvato venerdì sera, pubblicato sabato al sindaco di Firenze e ai suoi proprio non va giù. E ora ci sono una serie di dettagli apparentemente organizzativi aperti, su cui il Collegio dei Garanti (presieduto da Luigi Berlinguer e in cui siedono i rappresentanti della coalizione, dunque non i renziani) ha dettato dei principi e poi demandato al Comitato dei Garanti per l’organizzazione (tra loro spicca Stumpo). Sono due i punti più controversi: ora ci si deve registrare e poi votare in due luoghi diversi, seppure “prossimi”. I renziani spingono per semplificare: che lo si possa fare anche “online”. E poi c’è la questione secondo turno: non sarà chiuso a quelli che non hanno votato al primo, ma per registrarsi ci saranno a disposizione solo due giorni in cui ci si potrà registrare, previa dichiarazione di essere stati impossibilitati a farlo prima. Anche qui, la regola si può ammorbidire con certificazione online e dichiarazione solo di facciata. I bersaniani hanno tutto l’interesse a blindare il bacino elettorale del primo turno, dove il segretario e Vendola hanno la maggioranza. Nello stesso tempo tutti i sondaggi dicono che più gente va a votare, più il sindaco di Firenze ha possibilità di successo.
MA PERCHÈ ora questo ricorso? “Il regolamento è stato pubblicato sabato”, spiega Lino Paganelli, storico responsabile delle feste democratiche, passato in forza a Renzi. Ma va detto che dopo averla spuntata sulla rottamazione con il ritiro di Veltroniequello annunciato di D’Alema, il sindaco di Firenze (che ieri è stato anche fischiato in Sardegna) ha perso un po’ di verve polemica e stenta a trovare un altra chiave per la sua campagna. Senza contare le polemiche su Davide Serra e la finanza amica con i rapporti con i paradisi fiscali. “Due candidati e solo loro due, Bersani e Vendola denuncia Reggi hanno scritto le regole. E ci tengono fuori dai livelli organizzativi locali”. Ora la parola è al garante della privacy. Che per inciso è Antonello Soro ex capogruppo Pd alla Camera uomo vicino a Franceschini, arrivato lì a giugno in quota Bersani. Il quale non dice nulla, se non che “opererà con la massima sollecitudine”. Quando , non è dato sapere. Di certo, se il ricorso non avrà un effetto concreto, mira ad averlo mediatico. E i renziani per far passare il messaggio si agitano non poco. Reggi provoca: “Siamo pronti a ritirare il nostro ricorso anche domani mattina se Bersani e Vendola rendono noti gli iscritti ai loro partiti”. Berlinguer ci tiene a chiarire: “Siamo per la massima partecipazione”. E Bersani alla fine replica: “Renzi non rispetta le regole approvate all’unanimità”. Il 6 ottobre, in un’assemblea che è praticamente ricominciata un attimo dopo essere finita, con un voto all’unanimità che ognuno ha interpretato a modo suo e che ha lasciato tutto aperto.

Repubblica 24.10.12
Al voto incappucciati
di Sebastiano Messina


Secondo il comitato pro-Renzi, i votanti alle primarie del Pd dovrebbero avere la possibilità di barrare una casella “nego il consenso” sul trattamento dei propri dati personali, esattamente come facciamo quando apriamo un conto corrente o firmiamo un contratto per il gas. Non per difendersi dalla propaganda non gradita o dalle telefonate dei call center, ma per evitare che si venga a sapere che hanno votato alle primarie. Ora, un conto è invocare il sacrosanto segreto sul nostro voto, un altro è pretendere che non si sappia in giro che abbiamo votato. Applicando questo principio, dovremmo stabilire che ai comizi, ai cortei o ai dibattiti, per non essere schedati, si possa andare tutti incappucciati. E riconoscersi, magari, con una parola d’ordine pronunciata sottovoce: “Sopra la panca la capra campa”, per esempio.

Repubblica 24.10.12
Il segretario democratico non vuole retrocedere rispetto alla normativa già concordata
Ma Pierluigi passa al contrattacco “Sa di perdere e prepara un’exit strategy”
di Goffredo de Marchis


ROMA — «Sembra proprio che stia preparando un’exit strategy ». Pier Luigi Bersani e il suo gruppo di lavoro sulle primarie esaminano l’ultima uscita di Matteo Renzi e si convincono che il sindaco stia giocando anche una partita tutta sua. Dentro la competizione del centrosinistra ma tenendosi una porta aperta, in caso di sconfitta, per altre iniziative fuori dal perimetro dell’alleanza. «Il ricorso al Garante contro il suo partito è davvero preoccupante», dicono i bersaniani. Che comprendono il tentativo di riattivare il dibattito intorno all’apparato, «un modo per denunciare i presunti trucchi della nomenklatura. Fanno un po’ ridere quando vengono da chi ha organizzato una cena supersegreta con i banchieri, ma non ci stupiamo». Questa però è l’interpretazione più benevola di un gesto di rottura come l’intervento degli avvocati e delle carte bollate. L’altra analisi riporta sempre lì, al Renzi che guarda oltre il Pd e oltre la sua coalizione. «Lavora per delegittimare il meccanismo e quindi tutta la costruzione dell’alleanza».
Lo fa, secondo gli uomini e le donne del segretario, perché l’inversione di tendenza dei sondaggi è lampante. Se prima i due sfidanti principali erano appaiati, adesso Bersani ha ripreso un vantaggio cospiscuo. I motivi? Sono i bersaniani i primi a dirlo: «L’annuncio di Massimo D’Alema sulla non ricandidatura. Da quel momento è cambiato tutto». Per quello il messaggio del leader pronunciato nel videoforum di Repubblica tv doveva essere chiaro, netto: «Non sarò io a candidare di nuovo D’Alema». E il presidente del Copasir fece un passo indietro. A Renzi è stato tolto il “marchio di fabbrica” della sua candidatura e il livello dello scontro si è spostato sulle regole. Ma il sindaco di Firenze, questo è il punto, sta già cominciando a pensare a cosa fare dopo, in caso di un insuccesso? La denuncia al Garante della privacy, che lo mette di fatto contro il suo partito, è stata fatta l’ultimo giorno utile. Fra oggi e domani infatti Renzi, per correre alle primarie, è chiamato a firmare il protocollo dei candidati in cui qualsiasi controversia viene rimandata ai garanti interni. Potrebbe essere quindi l’ultimo attacco mediatico dei renziani prima di tuffarsi nel mese decisivo di campagna elettorale. Ma la scelta di rivolgersi al Garante lascia pensare a qualcosa di più grande. E più imprevedibile.
La squadra di Bersani è stata incaricata di rispondere all’attacco di Renzi difendendo le primarie, le regole, la trasparenza, la cessione di sovranità che il centrosinistra fa ai suoi elettori chiedendogli in cambio un sostegno “visibile” al programma. Ma la vera chiave è il futuro del Pd se lo scontro metterà in pericolo la solidità del partito. Sono tanti i dirigenti, i parlamentari, i sindaci, cioè una parte della spina dorsale democratica ormai schierati con il sindaco. E il Pd non vuole e non può perderli. Hanno retto all’onda d’urto dei tanti ricorsi dopo il voto delle primarie, a Napoli e altrove. Ma può reggere a una guerra preventiva?
Questa è la preoccupazione del segretario Bersani. Il candidato invece si sente più forte, i sondaggi non sono più un tormento quotidiano, la distanza è quasi quella di sicurezza. E il vero obiettivo di Bersani è la vittoria del primo turno. Perché al ballottaggio conteranno poco gli apparentamenti e molto di più la spinta della novità rappresentata da Renzi.

La Stampa 24.10.12
Le primarie e il conflitto d’interessi di Soro
di Marcello Sorgi


Nel Pd la corsa alle primarie diventa più dura e si arriva alla carta bollata. L’esposto che Matteo Renzi ha presentato all’Autorità garante della privacy, contro l’obbligo di sottoscrivere l’appello ed essere inseriti in un elenco per partecipare alle votazioni, segna un ulteriore passo avanti verso una campagna senza esclusione di colpi. Una tendenza già manifestatasi nei giorni scorsi, quando Bersani, dopo l’incontro di Renzi con un gruppo di uomini di finanza, lo aveva accusato di accompagnarsi troppo disinvoltamente con soggetti che frequentano i paradisi fiscali delle Cayman Islands.
Ma il ricorso di Renzi al Garante della privacy rischia di essere imbarazzante per un’altra ragione. A capo dell’Autorità, pochi mesi, fa è stato nominato Antonello Soro, l’ex capogruppo del Pd, e prima ancora della Margherita, che aveva lasciato il posto di presidente dei deputati alla Camera a Dario Franceschini. Soro, va detto, è una persona seria, non è tipo da prestarsi a giochi e giochini. Inoltre, trovandosi a capo di un organo collegiale, difficilmente potrebbe far passare una decisione politica camuffandola da ordinanza giuridica.
Ma con il clima che sta montando dentro e fuori il Pd (vedi le polemiche che hanno accompagnato la designazione di Giovanna Melandri alla presidenza del Maxxi), sarà inevitabile che il responso dell’Autorità venga attaccato. Se infatti accoglierà le obiezioni di Renzi, si dirà che lo ha fatto perché Soro, obbedendo alla sua natura democristiana, s’è schierato con lui contro Bersani. E se invece gli darà torto, si sosterrà che, per la stessa ragione, tra il sindaco cattolico di Firenze e i suoi avversari democristiani del Pd, ha scelto i secondi.
Forse Soro farebbe bene ad astenersi dal partecipare alla seduta del consiglio dell’Autorità che, «presto», come lui stesso ha assicurato, si occuperà del caso. Ma anche se lo farà, non è detto che la sua assenza non suoni da conferma alle obiezioni che tendono a sottolineare il possibile conflitto di interesse tra la sua lunga carriera politica e l’incarico di garanzia che adesso ricopre.
Quando Soro fu designato, a protestare contro la sua nomina, fu Romano Prodi in persona: disse che non erano più tempi di lottizzazione e che il Pd con quella scelta correva il rischio di farsi male. Non poteva immaginare che sarebbe accaduto così presto. Ma con quel che sta accadendo in questi giorni, oggi il monito dell’ex-presidente del consiglio e leader dell’Ulivo suona come un presagio.

l’Unità 24.10.12
Alla sinistra serve un balzo di tigre
di Mario Tronti


NON BASTA CHE VINCA BERSANI. È NECESSARIO CHE BERSANI VINCA AL PRIMO TURNO. Questo è l’impegno che, nel campo del centro-sinistra, dovrebbero prendere le persone dotate di buon senso politico. Ed è la conseguenza da trarre, visto il tono, e il senso, che ha preso il dibattito delle primarie nelle ultime settimane. Si è disvelato un progetto, si è presentata l’alternativa, vera: la rottamazione è l’azzeramento finale di una storia. Attenzione, non la storia della sinistra, ma la storia delle componenti popolari che hanno fatto civile, e moderno, e avanzato, il Paese.
Si vuole portare a termine il lavoro sporco che il ventennio berlusconiano, con i suoi fallimenti, non è riuscito a compiere. Nell’esperimento Pd, non con tutta la chiarezza che sarebbe stata necessaria, quelle componenti, quelle culture, quegli insediamenti sociali, non sono semplicemente sopravvissuti, sono cresciuti, fino a proporsi come possibile, probabile, soluzione di governo, dentro la crisi, e oltre la crisi.
Questo ha gettato nel panico l’establishment, bisogna dire meno quello direttamente economico, di solito più sobrio e attento, piuttosto quello politico-mediatico, più superficiale e volgarotto, specchio però sempre di interessi ben definiti. Per questi, di bocca buona, tutto va bene, se serve allo scopo: ben venga la corruzione di alcuni per dire male di tutti, ben vengano i privilegi di casta per demonizzare la professione politica, ben vengano le pulsioni populiste per indebolire le istituzioni, e soprattutto ben vengano i rottamatori se servono per liberarsi dei competitori. Missione quasi compiuta, esultano in questi giorni.
Si è sbagliato a non reagire in tempo, a lasciar passare questo gioco al massacro, senza alzare la voce, per avvertire che, alimentando quest’aria cupa di vendetta contro quella storia, si recava un danno incalcolabile allo sviluppo della coscienza civile del Paese, si mettevano in crisi, non le stanze del Palazzo, ma la democrazia dei partirti. Badate, quella storia viene aggredita non per le battaglie che ha perso, ma per quelle che ha vinto, conquistando per i lavoratori salari decenti, sicurezze sociali, diritti intoccabili. È questo che si vuole rottamare, in continuità tra governi di centro-destra e governi di centro-tecnica.
Bersani davanti alla pompa di benzina ha offeso la sensibilità degli opinionisti del Corriere. Ma come: ancora dalla parte dei benzinai, invece che da quella dei petrolieri? Ma allora siete sempre voi, sempre quelli, proprio inguaribili, dalla parte di chi lavora con le mani. Per fortuna, è arrivato chi vi rottama. Non so se si è capito, ma questa è l’aria che si respira. La parola brutta rottamazione non è sufficiente sostituirla con la parola bella rinnovamento. Questi non vogliono rinnovare un bel niente. Trent’anni di liberismo selvaggio, in cui si sono presi tutte le soddisfazioni possibili contro il mondo del lavoro e si è permesso il loro laissez faire non gli bastano. Ancora, ancora, dicono come i bambini quando gli fai lo scherzetto. Non contenti di comandare su tutto, vogliono comandare in casa nostra: togliete quello, mettete quest’altro. È questo che sta accadendo. Un partito ha il dovere, collegiale, di difendere il suo gruppo dirigente, sotto attacco, altrimenti si espone a tutte le scorribamde possibili. Il ricambio lo decidono i militanti, i quadri, gli iscritti, non i giornali o le televisioni, non si decide sui blog e con i twitter.
Non siamo di fronte al vecchio nuovismo. Stavolta è diverso. I novatori anni Novanta stavano legittimamente all’interno del nostro campo. Quelli di oggi parlano da fuori. Concediamo la buona fede. Forse per scarsa accortezza politica, forse per eccessiva autostima, o forse per quella spregiudicata intraprendenza che hanno imparato dai codici delle leggi di mercato, non si accorgono di star recitando una parte loro assegnata. Danno la loro voce al coro di questa tragedia moderna contemporanea, che ripete ogni giorno: fine della politica, fine della storia, fine dei grandi soggetti collettivi, che con la politica volevano cambiare il corso della storia. Non è la proposta di un rinnovamento, è la miseria di una reazione rancorosa, ripeto, vendicativa. Va resa chiara la posta in gioco al nostro popolo, organizzando una controffensiva.
Attraversando la piazza della Cgil di S. Giovanni, sabato scorso, mi dicevo: certo, per vincere si deve allargare il campo ai vicini, agli amici, agli alleati, non si è così ingenui da pensare di farcela da soli, ma se non si parte da qui, da queste persone, da queste storie, da queste vite, non si è niente, niente. Si vada a chiedere consiglio a queste vittime viventi del lavoro, invece che ai maghi rampanti della finanza.
Si imparerebbe che cos’è politica. Politica non è camminare su e giù per un palco con un microfono in mano: Non è attraversare a nuoto lo stretto di Messina. Non è uscire vincente da un faccia a faccia per virtù demagogiche. Da che parte stai, e perché e come. E se non vieni da lontano, non andrai molto lontano. Questo ci hanno insegnato i nostri padri. E certo, anche «la golpe e il lione», ma non verso i tuoi, contro i tuoi avversari. Prima di iscriversi direttamente alla Presidenza del Consiglio, ce n’è strada da fare.
Allora. Ci vuole un atto simbolico che spezzi la spirale perversa. Bersani al primo turno. Non va concessa al rottamatore la tribuna del ballottaggio. Anche se battuto, marcherebbe, per il dopo, una presenza che il suo messaggio non merita. Occorre concentrare tutto il consenso disponibile, da subito. Poi, c’è un percorso ulteriore da impiantare. Ma questo passaggio assumerebbe il significato di un atto fondativo. È importante il governo, ma altrettanto importante, e per lo stesso governo, è che emerga e cresca una grande forza di popolo, che prenda in mano le sorti di questo devastato Paese, con dignità e responsabilità, per portarlo nell’Europa di domani, non più quella dei mercati, ma quella del lavoro. Capita, è capitato, che una forza che si vuole distruggere, si rinnova veramente e fa il balzo di tigre nel futuro.

La Stampa 24.10.12
Cambierà partito un elettore su tre
di Elisabetta Gualmini


È insufficiente guardare al duello tra Renzi e Bersani solo tramite le lenti della personalizzazione, dello scontro tra due leader. Una lotta senza esclusione di colpi tra due mondi contrapposti. Il segretario in carica e lo sfidante. Il leader maturo e rassicurante contro il competitore giovane e aggressivo. Il detentore del sigillo della sinistra tradizionale, garante di una comunità costituita molto prima del 2007, anno di fondazione del Pd, contro il riformatore che vuole infrangere i tabù più intoccabili di quella storia, muovendosi a piede libero tra gli elettori delusi e politicamente borderline. L’uno che vuole essere soprattutto credibile, proiettandosi tutto intero nella realtà quotidiana, tra la pompa di benzina e l’officina (“Il Bersani vero è questo qui” dice il segretario). L’altro, scattante ed elettrico, proteso in avanti a immaginare il futuro. Che si cimenta ad accendere le fiammelle della speranza e del coraggio, prendendo un po’ da Obama un po’ da Blair, con l’ossessione di «guardare tutti dritto negli occhi» come a non volersi far scappare nessuno. Tutto questo c’è. E ragionare per opposti aiuta, semplifica i messaggi, offre scorciatoie cognitive per chi deve prendere posizione.
Ma la posta in gioco legata alle primarie del Pd è molto più grossa della sfida tra due candidati, tra una classe dirigente che c’è già, da troppo tempo, e una che non c’è ancora, tra la visione liberal e quella socialdemocratica della sinistra. Sullo sfondo c’è molto di più, qualcosa che non riguarda solo una singola forza politica. Sono infatti in atto nel nostro paese processi profondi di «disallineamento» tra i partiti e il loro elettorato che segnano la fine di un ciclo. Per dare un’idea della mobilità e delle fluttuazioni dei votanti, i politologi usano una semplice misura (la volatilità elettorale) data dalla somma delle differenze, in valore assoluto, tra le percentuali registrate da ciascun partito in una data elezione rispetto alla precedente. Questo indicatore ha sempre oscillato durante la Prima Repubblica intorno al 7% (eccetto che nel 1946 e nel 1948, dove non a caso era presente anche il Fronte dell’Uomo Qualunque). E’ poi schizzato al 36,7% nel 1994, l’anno del passaggio alla Seconda Repubblica, quando i partiti della Prima erano letteralmente scomparsi dalla scena mentre ne erano apparsi di nuovi. Per poi tornare ad assestarsi nel periodo successivo intorno all’8%. Se lo si misurasse oggi, assumendo che le intenzioni di voto riportate dagli ultimi sondaggi siano veritiere, assumerebbe un valore altissimo, pari al 33,2%. Si noti: nonostante che, ad eccezione del Movimento 5 Stelle, l’offerta sia rimasta inalterata. In altre parole, esiste oggi almeno una quota non inferiore (e verosimilmente superiore) al 33,2% di elettori mobili e disponibili.
L’intenzione di voto per Grillo è il segnale più evidente, e preoccupante, di «dealignement», di presa di distanza dal «sistema dei partiti». Per sapere se nel prossimo futuro l’Italia tornerà, politicamente, un paese normale, con un sistema partitico stabile, capace di produrre maggioranze di governo coese, basate sulla competizione tra una sinistra e una destra civili, dovremo vedere se e come al disallineamento, segnalato oggi dai sondaggi, farà seguito un «riallineamento» tra partiti ed elettori. La principale posta in gioco della competizione interna al Pd è qui. Da essa dipende la possibilità che quelle del 2013 siano «elezioni critiche», che ridefiniscono il crinale destra-sinistra e danno avvio a nuovi allineamenti.
Come è noto, mentre Bersani si rivolge all’elettorato fedele, il suo sfidante può recuperare una parte dei disillusi più incalliti, pronti a votare per Grillo, ed intercettare il voto di un elettorato moderato, attirato in precedenza dalla Lega o da Berlusconi, che può dire: «questa volta voto per Renzi». Ma se fosse lui il candidato del 2013, Renzi potrebbe modificare stabilmente l’immagine del centrosinistra ponendo forse le premesse per nuove appartenenze. Da qui l’enorme potere di decisione che viene dato ai cittadini che parteciperanno alle primarie. I quali, al di fuori di ogni recinto, perimetro o steccato, potranno scegliere non solo tra due leader che si contendono realmente (già questo è molto) la guida del centrosinistra, ma anche tra due diversi possibili assetti del sistema politico nel prossimo decennio.

Repubblica 24.10.12
La mala rottamazione
di Barbara Spinelli


I rottamatori sono fieri di chiamarsi così, e quando l’operazione riesce esibiscono le spoglie del vinto: «La rottamazione comincia a produrre i primi frutti», ripeteva Matteo Renzi, domenica in un’intervista in tv.
La lotta per l’avvicendamento ai vertici della politica ha sue ragioni, e lo stile brutale risponde a un’ansia, enorme e autentica, di cambiamento: si vorrebbe azzerare l’esistente, e come nella poesia di Rimbaud ci si professa «assolutamente moderni». È un conflitto legittimo, anche necessario: che va portato alla luce perché nell’ombra degenera o ammutolisce. È il grande merito del sindaco di Firenze, come di Grillo. Impressionante è la campagna di quest’ultimo in Sicilia: lunga, martellante, è rifiuto del mutismo. Da due settimane è nell’isola; nessuno s’era messo per tanto tempo in ascolto delle sue collere. Ma la parola rottamazione, anche se Renzi intende cambiamento, resta ustionante e parecchi la prendono alla lettera. L’avversariorivale è trattato alla stregua di arnese metallico. Se l’idea della rottamazione non avesse alle spalle una storia lunga, di degradazione della persona a oggetto servibile, non susciterebbe tanto disagio. Non sveglierebbe fantasie di uomini «di troppo», di rottami. Forse chi la usa (non solo il sindaco di Firenze) non se ne rende conto, ma il termine alligna nelle terre della pubblicità ed è lessico della generazione Berlusconi.
È nato con lui, con le sue disinvolture verbali. Non ingentilisce ma corrompe il discorso pubblico. È figlio della rivoluzione non solo politica ma linguistica, di stile, che Berlusconi inaugurò nel ‘94. Fu una rivoluzione della noncuranza, del «tutto è permesso»: non badava alle conseguenze di quel che veniva detto, ai tabù infranti.
È una parola del tutto anomala, inoltre. In Europa o America, nessun politico che magnifichi il Nuovo oserebbe condurre una campagna in cui gli anziani, i
seniores, vengano definiti ferrivecchi. Nell’aprile 2002, quando il socialista Jospin alluse all’età del rivale Chirac, i sondaggi lo punirono, screditandolo. Aveva avuto l’impudenza e l’imprudenza di dire che il Presidente era «affaticato, invecchiato, vittima dell’usura». Gli elettori non amavano Chirac, ma la mancanza di gentile rispetto dell’anzianità, in Jospin, fu ritenuta intollerabile.
Una cosa è attaccare la linea dell’avversario: soffermandosi su di essa, senza censure. Altra cosa è assalire la persona.
Se rottamazione scomparisse dal vocabolario giornalistico e politico non sarebbe male. Conterebbe più la sostanza: l’errore di Veltroni, quando affondò l’ultimo governo Prodi annunciando che il Pd, rompendo le catene della sinistra radicale, sarebbe «corso da solo» (come se non fosse stato il centro a silurare Prodi). O si potrebbe raccontare D’Alema: il suo rapporto sprezzante con giornalisti e magistrati, i piaceri che fece a Berlusconi, i dispiaceri che procurò a Prodi, l’influenza eccessiva esercitata su
Bersani. Ci dedicheremmo a quel che Renzi vuol dire, e alla fiducia che riscuote in persone di prestigio come Pietro Ichino. Rottamazione è un cartello stradale che depista: non dice quel che promette, né sull’Europa né sulla corruzione né sulla ‘ndrangheta che ci assilla. Vale la pena ripercorrere la storia di questo vocabolo, tanto più cruento in un paese fragile: dopo la Germania, siamo il popolo che più invecchia in Europa. Vale la pena tener viva la memoria, perché lo sgarbo non è episodico ma ha radici in una sistematica denigrazione dei più anziani: nei luoghi di lavoro e nella politica. Il Parlamento si era appena insediato, nel ‘94, e fu subito offensiva contro un
senior come Norberto Bobbio. Eletto alla Camera alta, Franco Zeffirelli giubilò: la Seconda repubblica aveva spazzato via «la triste sfilata dei senatori a vita, uno più cadaverico dell’altro, una vecchia Italia che non vogliamo più e che si è seppellita da sola». Facendogli eco, Maurizio Gasparri diceva di Indro Montanelli: «Quello è arrivato al tramonto della vita e anche delle capacità intellettuali del suo cervello» L’offensiva rottamatrice proseguì, più feroce, nel 2006-2008. Ricordiamo gli improperi riversati su Rita Levi Montalcini, e sulla sua tenace presenza in Senato per sostenere il governo di centro sinistra. Sul Giornale del 14-7-07, Paolo Guzzanti parlò di vecchi «scongelati, inchiavardati allo scranno e costretti a pigiare col ditino il pulsante guidato da una senatrice badante». Storace promise «un bel paio di stampelle da consebrutta
gnare a domicilio. Si comincia dalla senatrice a vita Levi Montalcini ». Su Libero,
diretto da Vittorio Feltri, apparve il titolo d’apertura: «La dittatura dei pannoloni».
Siamo dunque lontani dal vero, quando scriviamo che Berlusconi è finito, e con lui il lessico d’insulti della Lega. Il loro modo d’essere e di dire sgocciola come da una flebo nelle vene di un’intera generazione. È il suo marchio, così come le parole del ’68 intrisero due generazioni. I francesi faticano ancor oggi a uscire dalla generazione Mitterrand.
Faticheremo anche noi, più di quel che si dica.
Il cambiamento è altra cosa. È la crisi non come decadenza ma trasformazione: un desiderio che Renzi intuisce, e vuol incarnare. È un conflitto ineluttabile: fra ieri, oggi, domani. È un progetto diverso di crescita, non nuovo tra l’altro, se già nel 1987 il rapporto Brundtland scriveva: «Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni». È un orizzonte dato a giovani cui non si può dire, come il ministro Fornero: «Siete troppo choosy!» («schizzinosi » è mal tradotto, cancella il furto della scelta). E che volto devono avere le nostre città, i nostri pubblici spazi e servizi? Come congegnare pensioni che non tramutino gli anziani in gente bandita o – abbondano anche qui truci aggettivi – in esuberi o esodati?
Dai tempi dei Viceré e del Gattopardo sappiamo che cambiar facce non basta alle Grandi Trasformazioni. Rottamazione oltre che parola è diseducativa, non prepara alcunché. Alla sua insegna non può svolgersi dibattito fra candidati alla guida del Paese. Eppure di discussioni dirette c’è bisogno: per districarsi da soli, senza mediatori nei giornali o in Tv. Nelle primarie americane e francesi è la norma, sebbene scabrosa. Il rottamatore di professione, presente ovunque nei partiti, ti fruga, alla ricerca degli istinti più bassi, delle passioni più tristi. Viene in mente il Viaggio agli inferni del secolo di Buzzati: nei sotterranei milanesi, sotto la metro, c’è un mondo parallelo in cui i vecchi, inservibili, sono scaraventati dalle finestre nei marciapiedi.
Entrümpelung, parola che Buzzati prende dal lessico nazista, significa repulisti, sgombero: è una variante dell’igienica rottamazione. Anche quel repulisti viene celebrato come «festa della giovinezza, della rinascita, della speranza», del Mondo Nuovo.
Accade così che il diverso appaia come uomo di troppo: povero o vecchio, esodato o immigrato. Sono i disastri del moderno, non del barbarico. Una volta che te la prendi con classi d’età, quindi con la biologia, entri nella logica del capro espiatorio, dell’innocente che paga per il collettivo. Il rito è la ripetizione di un primo linciaggio spontaneo, secondo René Girard, che riporta ordine in seno alla comunità. Nel linciaggio, la violenza di tutti contro tutti sfocia in violenza di tutti contro uno. Sarebbe bello se a dirlo, con voce non bassa, fossero anche i giovani.

l’Unità 24.10.12
Il Fatto attacca l’Unità e dimentica il passato


CHE VI SIA UNA DIFFERENZA ENORME TRA RIPORTARE I SOLDI IN ITALIA attraverso un regolare scudo fiscale (una legge dello Stato) e tenere ben protetti i propri capitali in un paradiso fiscale lontano dalle tasse del proprio Paese, lo sanno anche i bambini. Ma il Fatto quotidiano fa finta di non saperlo. Riprendendo le volgari insinuazioni del Giornale e di Libero, ieri ha confezionato un'intervista a Maurizio Mian, uno dei soci della Nie (società editrice de l’Unità), con domande e titolazione fatte apposta per suscitare vivo scandalo contro di noi. Ma come è il filo conduttore dell'intervista sollevate il caso del finanziere Serra (quello della cena pro Renzi) che ha la sua holding alle Cayman e poi siete fatti della stessa pasta? A poco vale sapere che i capitali de l'Unità sono tutti italiani, come ha spiegato in una nota anche l'amministratore delegato della Nie solo qualche giorno fa. A poco vale sapere che l'utilizzo dello scudo è stato fatto dieci anni fa e che Mian ha acquistato le quote de l'Unità nel 2003. Il maldestro tentativo del Fatto è dimostrare che non abbiamo la coscienza a posto per poter polemizzare con chi si rifugia alle Cayman. Gli è andato storto il nostro titolo: "Le primarie in paradiso fiscale". Problemi loro. Ma le insinuazioni no, quelle le respingiamo perché non abbiamo nulla da nascondere. Stiano tranquilli, le nostre battaglie continueremo a farle a testa alta e senza fare sconti. L’Unità non si fa intimidire da nessuno.
Ps. A proposito del 2003: quando Mian acquistò le quote de l'Unità Antonio Padellaro era il condirettore di questo giornale, Marco Travaglio un suo autorevole commentatore e l'autrice dell'intervista Wanda Marra una sua giornalista. C'è davvero poco da aggiungere.

il Fatto 24.10.12
Campidoglio, comincia il ballo del mattone
Destra e sinistra senza candidati. Così Caltagirone pensa a un suo uomo
L’ex palazzinaro rosso Alfio Marchini
di Paola Zanca


“Calce e martello”, suo nonno lo chiamavano così. L'azienda di famiglia donò Botteghe Oscure al partito Comunista. E anche lui, il nipote, è stato azionista de l'Unità, amico di Massimo D'Alema e consigliere della fondazione ItalianiEuropei. Eppure, la dinastia romana dei palazzinari rossi sembra arrivata a un bivio: per uno strano percorso del destino, Alfio Marchini, potrebbe diventare il candidato dell’Udc e di una parte del centrodestra alle prossime elezioni per il Campidoglio. Sposato con una erede dei Ferruzzi, cattolico praticante e vicino all'Opus dei, Marchini junior è legatissimo a Francesco Gaetano Caltagirone: giornali e mattoni, la loro passione in comune; banche, finanza e società immobiliari, gli interessi che li fanno andare a braccetto.
E CALTAGIRONE – editore del Messaggero, palazzinaro romano per eccellenza – un certo peso nella scelta del sostituto di Gianni Alemanno ce l'ha. Su Marchini aveva puntato per la poltrona di Acea, la municipalizzata che si occupa di energia. D’altronde Marchini, a nemmeno cinquant’anni, ha già alle spalle una carriera di tutto rispetto, non solo negli affari. Con la politica si è sporcato le mani. Antonio Di Pietro lo accusò di aver manovrato contro di lui Il Sabato – giornale di cui Marchini era editore – per conto di Massimo D'Alema. Irene Pivetti, quando era presidente della Camera in quota Lega, lo volle nel consiglio di amministrazione della Rai.
A viale Mazzini durò sei mesi. Ma ora l'incontro con i palazzi (quelli della politica) potrebbe essere più fortunato. Che a Roma il ruolo dell'Udc sia a sostegno del centrodestra è ormai chiaro per due ragioni: la prima è che Caltagirone – tra le altre cose suocero di Pierferdinando Casini – già sostenitore di Alemanno è definitivamente entrato in rotta di collisione con il Pd per una serie di vicende, tra cui alcuni intoppi con il candidato alla regione Lazio, Nicola Zingaretti. La seconda è che il partito romano, guidato da Luciano Ciocchetti, è rimasto saldo in sella con Re-nata Polverini: nonostante lo scandalo Fiorito, il vicepresidente Udc non ha abbandonato il Pdl al suo destino. Nel centrodestra non confermano, dicono che il candidato naturale è sempre lui, il sindaco uscente, Gianni Alemanno.
EPPURE è lui stesso che domenica, pubblicando il suo appello dal titolo “Non possiamo più attendere”, fa sapere che “la nostra attenzione si sposta inevitabilmente verso l’Udc di Casini e verso quelle forze della società civile e del mondo cattolico che hanno in vario modo manifestato la volontà di scendere in campo”.
A Casini in persona, ha scritto il Corriere, Alemanno avrebbe offerto la sua poltrona. Ma sembra che entrambi siano più orientati per ruoli di rilievo nazionale. Al contrario, raccontano che il percorso con Mar-chini sia seriamente avviato, complice l'impasse del centrosinistra che, dopo aver dirottato Zingaretti sulla Regione, è in pieno panico per la ricerca di un candidato di peso. Mar-chini, negli ultimi anni, ha evitato la pubblica ribalta. Le uniche occasioni in cui si è parlato di lui sono i mondiali di Polo, dove ha guidato, da capitano, la squadra italiana. Ora chissà se tornerà a far parlare di sé. Racconta che Guido Carli glielo ripeteva spesso: “Gli incarichi non si scelgono, ma ti vengono incontro”.

il Fatto 24.10.12
Roma a braccio teso: altri tre blitz neofascisti nei licei
Il sindaco condanna, ma l’estrema destra nel Comune l’ha portata lui
di Chiara Paolin


Tono solenne, faccia seria. “Esprimo fermissima condanna per questi gesti. Mi sembrano manifestazioni tra il violento e il puerile”. Così Gianni Alemanno ha commentato i blitz di Lotta studentesca: ieri mattina azione contemporanea in tre istituti romani, fumogeni e volantini per dire che i tagli del governo Monti alla scuola sono una vera schifezza. Il giorno prima altri due agguati liceali: un bidello s'è preso uno spintone, nessun danno serio.
Si preoccupano, i giovani di Destra, perché l'istruzione sta diventando un business grazie alla legge Aprea (del Pdl): più autonomia didattica e autogestione finanziaria per tutti. Vanno in giro con cappucci e sciarpe sulla faccia urlando “Viva Mussolini! ” ora che le politiche sociali precipitano a zero ed è giunto il momento di dirgliene quattro a chi comanda.
SOLO CHE chi comanda oggi in città sta in una posizione assai scomoda e scivolosa. Già Alemanno ha dovuto sputare una sentenza familiare ostica per il saluto romano esibito dal figlio in una foto ricordo. “Manfredi ha sbagliato – ha detto il sindaco –. Privatamente affronterò questa questione con lui, per spiegargli che anche in un contesto privato bisogna mantenere dei comportamenti seri e composti”.
Perciò bando alla maleducazione nostalgica, basta manipoli che invadono cortili e sale mensa con urla belluine. “Queste azioni possono degenerare in cose più gravi di un fumogeno – ha aggiunto ancora Alemanno –. E poi non è ammissibile entrare in un edificio pubblico con il volto coperto. Sono manifestazioni puerili, non si può pensare di protestare con simili azioni. Tutto è finalizzato ad avere un titolo sul giornale. Quindi il mio invito è quello di non dare troppo spazio a queste manifestazioni fatte da gruppetti di persone. Saranno il questore e la magistratura a valutare la gravità di queste azioni dal punto di vista penale”.
Dunque gli agitatori scolastici risultano sgraditi al sindaco: non fanno buona campagna nè a lui nè alla sua giunta pluri impastata, azzoppata da Parentopoli e indagati vari. Ci manca solo che il Blocco CasaPound o Lotta studentesca si mettano a combinar danni nei licei del centro: azioni che risultano persino più rumorose delle ripetute aggressioni stradali, con mazzate annesse, sciorinate nei quartieri di periferia.
Perché se i colonnelli di Alemanno sono saliti all'Ama e all'Atac, all'Eur spa e al Consiglio comunale, i ragazzi continuano a battere metro a metro il territorio in cerca di nemici. Il pericolo indicibile è che, un giorno lontano, il fronte della protesta passi al contrattacco invocando lo stop alle ruberie romane. Scenari fantafuturibili più che futuristi: per ora.

La Stampa 24.10.12
I blitz neofascisti continuano Colpiti altri tre licei romani
Polemica sul sindaco Alemanno. Il Pd: «Minimizza»
di Rosaria Talarico


Non si fermano le incursioni di militanti dell’estrema destra in alcune scuole della Capitale. Ieri è toccato al liceo Galilei di viale Manzoni, all’Azzarita in zona Parioli e all’Alberti dell’Eur. La modalità è la stessa utilizzata per il blitz di due giorni fa al liceo Giulio Cesare: lancio di fumogeni e di volantini contro i tagli alla scuola. Gli attivisti di Lotta studentesca hanno esposto uno striscione «Più potere agli studenti» nel cortile del Galilei. La protesta è durata pochi minuti e le lezioni si sono svolte regolarmente all’interno dell’istituto. Poi un paio di ragazzi sono stati identificati da polizia e carabinieri. Una forma di manifestazione del dissenso che non ha trovato solidarietà tra gli studenti: «Noi del Giulio Cesare non ci stiamo. Riteniamo doveroso comunicare il nostro più sentito disaccordo per ciò che è successo. Rifiutando gli sterili pregiudizi comparsi sul giornale riguardo una supposta ideologia di appartenenza della nostra scuola. Affermazioni che ci insultano non solo in quanto studenti, ma soprattutto in qualità di cittadini». E fioccano le reazioni sdegnate della politica.
«Chiediamo al governo di riferire in Parlamento su come vorrà intervenire per garantire la sicurezza negli istituti e contrastare queste chiare dimostrazioni di apologia fascista», afferma Maria Coscia, capogruppo del Pd nella Commissione cultura della Camera. Più minimalista il sindaco di Roma Gianni Alemanno che le definisce «manifestazioni tra il violento ed il puerile» esprimendo comunque fermissima condanna per questi gesti. Una presa di posizione non sufficiente per David Sassoli, capogruppo del Pd al parlamento europeo che punta il dito verso la «responsabilità della politica nel chiamare lo squadrismo con il proprio nome. Derubricare a puerili le irruzioni avvenute in questi giorni, equivale a minimizzare fatti di una gravità inaudita». Il delegato del sindaco per le Politiche della sicurezza, Giorgio Ciardi, invita invece la sinistra a non strumentalizzare questi episodi: «Ovviamente nessuno è disposto a tollerare alcun tipo di manifestazione prevaricatoria o violenta: il confronto democratico è tutt’altra cosa. Però è fondamentale che tutti recepiscano le motivazioni di una protesta che. per quanto non condivisibile nel metodo, viene dal basso ed è sentita dai giovani che si trovano privati del loro futuro». Per il leader di Sel Nichi Vendola invece: «Roma non è più una città aperta. I blitz squadristici che si susseguono nelle scuole della Capitale da due giorni, gli insulti antisemiti sul web contro un assessore municipale e l’attacco di qualche giorno fa al circolo Mario Mieli dimostrano come l’estrema destra romana si senta a suo agio e agisca violentemente nel silenzio della destra istituzionale». Di irruzioni preoccupanti e assolutamente inaccettabili parla invece l’assessore alle Politiche scolastiche della Provincia di Roma, Paola Rita Stella, «perché quando si intende manifestare il proprio pensiero lo si fa in modo democratico e civile e nel rispetto degli altri». «Sarebbe da irresponsabili sottovalutare la situazione è il pensiero del segretario del Pd Lazio, Enrico Gasbarra -. Condanniamo i blitz violenti nelle scuole e chiediamo più controlli per evitare nuovi e più pericolosi focolai di violenza. Crediamo sia necessario che anche le istituzioni e tutte le forze politiche si uniscano, senza timidezze, nell’isolamento verso tali pseudo movimenti».
La procura di Roma sta valutando l’apertura di un fascicolo: prima di decidere e formulare le possibili ipotesi di reato gli inquirenti attendono l’informativa della Digos.

l’Unità 24.10.12
La marcia dei nostalgici in camicia nera
Cene, dibattiti, commemorazioni
I nostalgici celebrano Mussolini
di Roberto Rossi

qui


l’Unità 24.10.12
Marcia su Roma ieri e oggi: il filo sottile
di Bruno Gravagnuolo


CON LA BARBA DI TURATI NOI FAREMO SPAZZOLINI Per lustrare gli stivali a Benito Mussolini». La variante era: «Con la barba di Bombacci...». Poi Bombacci, tra i fondatori del Pc. d’I, finì a Salò e se la fischiettava da solo la canzoncina, che accompagnava le «scampagnate» squadristiche al tempo della Marcia su Roma di cui il 28 ottobre ricorrono i 90 anni. Il messaggio rottamatorio di quei motivetti, a cominciare da «Giovinezza, giovinezza»? Distruggere e spazzar via tutto il ceto politico dell’Italia giolittiana. Socialisti, comunisti e cattolici in primis.
Era l’«antipolitica» dell’epoca. E vi si buttarono a capofitto élites giovanili e intellettuali di vario tipo: capipopolo, spostati, ex combattenti, futuristi, gente rovinata dalla guerra, disoccupati e proprietari piccoli e no, esacerbati da tasse e lotte contadine. Poi vennero in aiuto gli industriali, che già avevano foraggiato il Mussolini interventista. Ma il nerbo autonomo del fascismo stava in questo: ceto medio in rivolta e avanguardie estremistiche di sinistra e di destra. Che volevano rivoltare l’Italia borghese e liberale come un calzino. E manganellare i privilegiati, la «casta» di allora, come racconta Ardengo Soffici nel suo picaresco e profetico Lemmonio Boreo del 1911 (Il Blasetti fascista vi si ispirò per un film). Il dramma fu che manganellatori e rottamatori trovarono un capo abile ed esperto. Ma soprattutto trovarono via via il consenso, nel vuoto politico nel quale i socialisti (primo partito nel 1919!) non riuscirono a incidere. Dividendosi dai cattolici, e al loro interno. E blaterando di rivoluzione. La fecero quegli altri «la rivoluzione». Dal basso, con le botte e il populismo. E dall’alto, con il Re, i militari e i prefetti. Contro partiti, statuti, regole, etc. Ps: Ogni movimentismo carismatico (light o hard) vuole sempre liquidare, rigenerare, spazzare, estirpare. E rileggasi a riguardo Le origini del totalitarismo della Arendt.

il Fatto 24.10.12
Il Maxximo del minimo
La Melandri confermata presidente: slalom tra l’imbarazzo e le critiche
di Malcom Pagani


Dar partito rottamaaata, dar Piddì riciclataaaa/dar Piddì riciclataaaa”. 16 manifestanti dalla Giovane Italia più milanisti che mazziniani: “Oranghi/Ornaghi/era mejo Pippo Inzaghi”, 5 poliziotti sbadiglianti, 3 turisti americani affogati nella birra. “What’s the problem? ”. Il Risorgimento di Giovanna Melandri al secondo piano del Ministero dei Beni Culturali è un brano di teatro dell’assurdo. Con una camicia rossa in luogo della giubba e in profonda crisi nella distinzione tra curatore e direttore della Fondazione Maxxi di cui accetta con sventolato sentimento la presidenza: “Sono emozionata”, Giovanna va alla guerra in un annoiato pomeriggio di metà ottobre.
IL PDL L’HA scelta come capro espiatorio per regolare faide non più procrastinabili con Monti. I tecnici che non possono scegliere i politici, la politica in crisi di astinenza che chiede il ritorno al pieno controllo sulle nomine. Tilt da palazzo romano impazzito che fotografano l’alba del vecchio giorno e il tramonto di un esperimento. Così mentre Gatto e Volpe, Cicchitto e il tenue Gasparri minacciano parlando di “cooptazione vergognosa di cui si discuterà ancora a lungo”, Melandri si difende. Fa ricorso al gergo calcistico (userà il termine “ripartenza” per 4 volte), si appella all’inglese: “Ci vuole una public call”, “bisogna fare reshaping”, ma per dare forma all’assedio: “Sono state scritte inesattezze intollerabili” ringhia rabbiosa, sembrano mancarle i fondamentali. Il Maxxi, commissariato e ora in via di guarigione, non ha un soldo. Al di là dell’elemosina ministeriale: “Il ministro – vengono informati i 200 cronisti – ha trovato sei milioni”, non c’è un’euro. E se Ornaghi, marcato stretto dal portavoce Ferrari: “Abbiamo spazio per sole 3 domande”, si assume la piena responsabilità della scelta: “Non è strano che un tecnico chiami un politico, se ho sbagliato, l’errore è mio”, a Giovanna, a quanto si capisce, hanno affidato il compito di girare con il cappello in mano. Porta a porta. Dalle Fendi a Benetton, perché “internalizzazione” altro non vuol dire che affido ai privati di ciò che lo Stato non è più in grado di tenere in piedi. Lo afferma la ragione. Lo rivendicano gli apologeti come Giancarlo Politi di Flash Art: “Chi meglio di Melandri? Lei che può alzare il telefono e parlare con i Della Valle, i Tronchetti Provera... e in perfetto inglese con Gagosian, Saatchi o magari con Soros e Bill Gates? ”. In attesa di discutere di arte contemporanea direttamente con dio e nel pieno cuneo del modello Colosseo-Tod’s, giura Ornaghi, il bel volto di Giovanna sui manifesti è cosa sua.
LA DECISIONE sarebbe stata presa “il 19 ottobre”. La Melandri conferma non senza sbandare: “Quando qualche settimana fa mi ha chiamato il ministro… volevo dire qualche giorno fa, mi sono sentita onorata”. Entrambi glissano sulla solitudine dei numeri primi. Il gelo del Pd. La preoccupata indifferenza di Monti, premier a sua insaputa come già in occasione di Villa Adriana. L’ostilità di Catricalà. E poi il benestare dell’indiretto parente Salvo Nastasi, ex capo di gabinetto ora agli Spettacoli dal Vivo che liquida la presunte ingerenza con un lapidario: “Questione assolutamente ridicola”. In questo momento, Giovanna avrebbe bisogno di tutti. Non trova mai la nota giusta. Né quando tenta di “stemperare il clima” ironizzando sulla ressa/rissa mediatica: “Il primo grande risultato è stato ottenuto”, né quando trasforma l’assise in un burocratico salmodiare sulle palanche a cui rinuncia. Quelle di Montecitorio: “mi dimetterò, gli incarichi non sono incompatibili, ma è ora di restituire qualcosa alla politica” e quelle del Maxxi: “che non esistono, prenderò 90 euro all’anno, 30 per ogni Cda”. Nessuna brama “di poltrona”, ma “spirito di servizio”. Il resto è artistica fuffa sparsa con sapienza: “occasione straordinaria”, neologismo d’occasione: “partnerariato”, richiesta di improbabile pietà: “Giudichiate solo al termine del mio percorso”, denuncia del “clima un po’ impazzito del nostro Paese”. Più prende coraggio, più spaventa la platea: “Il Maxxi è una Ferrari con il freno a mano tirato”. O anche, in un sussulto di orgoglio: “ci vediamo quando avremo un milione di spettatori, pardon, di cittadini”. Un sacrificio, si capisce, davanti al quale sarebbe stato improprio “rendersi indisponibile”. Chi meglio di lei? Ornaghi offre il petto: “Melandri ha avuto una legion d’onore e una laurea honoris causa. Io ne ho due, lei ne ha conseguita qualcuna? ”. La giornalista aveva fatto solo una domanda. Non ride nessuno. Prendi l’arte e mettila da parte. Il maxximo del minimo ha già un titolo.

Repubblica 24.10.12
Diffamazione, resta il bavaglio ai giornalisti dal Senato primo sì, oggi la legge in aula
Niente carcere ma multe super per stampa e blog. Fnsi in piazza: è censura
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Il senatore pd Vincenzo Vita esce sbuffando dalla commissione Giustizia del Senato, dov’è stata appena approvata la riforma della diffamazione: «Sono avvilito. Va malissimo». La capogruppo democratica Anna Finocchiaro si presenta al sit-in dei giornalisti al Pantheon per dire che sì, quel testo appena varato è da cambiare. Il segretario dell’Fnsi Franco Siddi parla di azione «liberticida » e «dal sapore fascista». Questo il clima attorno a una legge che doveva salvare il direttore del Giornale Alessandro Sallusti dal carcere, e che per farlo inasprisce a dismisura le pene per i giornalisti. Estendendole anche a siti, blog, motori di ricerca. Il ddl va in aula oggi, sarà approvato domani, poi passerà alla Camera. Pd, Udc e IdV dicono di volerlo cambiare, ma anche tra loro c’è chi lo considera «un punto di equilibrio» come il presidente dei senatori pdl Maurizio Gasparri. E come il senatore pd Felice Casson.
Il primo punto sono le sanzioni. «In caso di diffamazione a mezzo stampa, con l’attribuzione di un fatto determinato, si applica la multa da 5mila a 100mila euro, tenuto conto della gravità dell’offesa e della diffusione dello stampato ». Pene raddoppiate in caso di recidiva. «Tutto questodice Siddi in contemporanea con il mantenimento delle cause civili milionarie, ha il sapore di una minaccia preventiva nei confronti della libera stampa». Non basta. Ci sono le pene accessorie, tra cui «l’interdizione della professione per un periodo da uno a sei mesi. In caso di reiterazione nei due anni successivi, da sei mesi a un anno. E in caso di ulteriore condanna da uno a tre». Senza passare dall’ordine dei giornalisti. C’è poi la norma che secondo la relatrice pd Della Monica è anti-macchina del fango, ma che Luigi Zanda, del suo stesso partito, considera un’assurdità: «La pena è aumentata fino alla metà qualora il fatto sia commesso dall’autore, dal direttore o dal vicedirettore, dall’editore, dal proprietario, o comunque da almeno tre persone». Come? Con riunioni prima di scrivere un pezzo? Firmando tutti insieme? L’emendamento non è chiaro. «Salterà», predice Zanda, che però di tutta la bagarre in commissione, della mediazione saltata sulla sanzione massima a 50mila euro dice pure: «È il segno orrendo di come un pezzo del Parlamento considera la stampa».
Perché se l’emendamento Caliendo anti-Gabanelli, quello che toglieva la copertura economica dell’azienda al giornalista, è stato ritirato, restano altre pene accessorie, come la diminuzione o la perdita del contributo pubblico dei giornali che ce l’abbiano. E non c’è, mette in luce il presidente Fnsi Roberto Natale, «la possibilità che la rettifica interrompa l’azione penale». Un’eventualità messa in luce dallo stesso ministro della Giustizia Paola Severino, che ha spiegato: «Una volta che c'è la rettifica il processo penale può anche fermarsi se c'è piena soddisfazione della persona offesa». Questo principio nel ddl non è passato. La rettifica può portare solo a una diminuzione della pena. In più, spiega il deputato centrista Roberto Rao, «le condizioni per richiederla sono troppo ampie nei contorni, mentre troppo stringenti diventano le forme con cui dovrà essere effettuata ». E cioè, si legge all’articolo 8, «Il direttore è tenuto a pubblicare le rettifiche dei soggetti di cui siano state pubblicate immagini o cui siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della dignità o contrari a verità, purché le rettifiche non abbiano contenuto suscettibile di incriminazione penale». E dovranno essere pubblicate non oltre due giorni dalla richiesta, nella stessa pagina in cui è apparsa la notizia, in testa di pagina, nella loro interezza, senza commento. Il giudice può costringere il giornale a pubblicarle, e può imporre di pagarne la pubblicazione su altri giornali. Senza preoccuparsi che tali rettifiche come chiede uno dei primi firmatari della legge, Vannino Chiti, ora scettico siano in alcun modo «documentate». Infine, la stretta riguarda anche Internet: «L’interessato può chiedere ai siti e ai motori di ricerca l’eliminazione dei contenuti diffamatori o dei dati personali». In caso di inottemperanza, anche qui, multe fino a 100mila euro.

Repubblica 24.10.12
Grosso boccia il nuovo testo: eliminare la detenzione è ragionevole, ma il resto è una follia assoluta
“Quelle sanzioni sono intimidatorie un attentato alla libertà di stampa”
di L. Mi.


ROMA — «Incredibile». «Allucinate». «Una follia assoluta». Carlo Federico Grosso, notissimo penalista e professore di diritto penale, legge sul pc il testo del Senato e trasecola: «Eliminare il carcere è assolutamente ragionevole sul piano della politica criminale. Ma tutto il resto è un attentato alla libertà di stampa».
Il presidente della Fnsi Natale dice «meglio il carcere che questo ddl». È così?
«In astratto sì, anche perché in prima o seconda battuta ci sono sospensione condizionale e affidamento in prova. Il carcere per la diffamazione non ha proprio ragione di esistere perché la pena detentiva è l’estrema ratio da usare per i reati più gravi».
Multe risarcimenti sospensioni sono peggio?
«Si tratta di misure assolutamente irragionevoli. A partire dal carico economico. Multe da 5 a 100mila euro cui si somma una riparazione pesante per le vittime, cui si somma il risarcimento dei danni. Così si rischia di arrivare a un carico molto pesante»
Chi sostiene le misure dice che serve un deterrente. Ma fatta così non è un’intimidazione?
«Lo è obiettivamente, perché i giornali piccoli potranno fallire e anche le società di quelli grandi e importanti saranno messe in difficoltà e intimidiranno i direttori e i giornalisti per evitare inchieste troppo pungenti e a rischio querela. Alcuni editori potrebbero decidere di non farsi più carico delle somme da pagare e caricarle sui giornalisti. Chi potrà affrontare simili spese? In quest’ottica, mi pare proprio che il tipo di sanzione sia oggettivamente un’intimidazione e rischi di alterare la libertà e la correttezza nell’informazione dei cittadini».
Non è ritorsione ipotizzare di restituire i fondi per l’editoria?
«Qui siamo quasi al paradosso. Si è costretti a pagare una sanzione pecuniaria e poi pagare una seconda volta sotto veste di rimborso. Quando mai s’è vista una simile duplicazione della medesima sanzione?»
La sospensione dall’albo tappa la bocca alla stampa?
«È un modo per intimorire i giornalisti. Certo, nei casi più gravi una sospensione temporanea ci può anche stare. Ma servono misura e ragionevolezza.
Il ddl invece affianca pericolosamente la previsione di sospensioni come pene accessorie e ulteriori sanzioni disciplinari decise dall’ordine dei giornalisti. Il che mi suona come una duplicazione di sanzioni analoghe».
Come giudica il nuovo sistema delle rettifiche?
«Disciplinarle in maniera più puntuale come strumento di ristoro della vittima è un’esigenza indubbiamente avvertita. Da qui a enunciare una disciplina così dettagliata, burocratica e invasiva della libertà del direttore mi pare rispondere a uno spirito fortemente punitivo dell’informazione piuttosto che a esigenze di tutela della persona offesa. Anche qui il Parlamento è andato oltre ogni misura ragionevole».
Il mondo dei blog è in rivolta, come quello dei libri. È possibile applicare a loro le stesse norme?
«In astratto lo è, ma dato che si tratta di realtà che di regola sono economicamente deboli, prevedere simili sanzioni significa rischiare di strangolarle».
Il caso Sallusti giustifica la repressione?
«Ho l’impressione che lui non c’entri nulla».

Repubblica 24.10.12
Fermiamo la legge bavaglio
di Francesco Merlo


Il testo che va in aula stamani al Senato non è infatti un sopruso contro noi giornalisti ma è quel bavaglio all’informazione che, perseguito come una chimera maligna negli anni del berlusconismo, solo ora sta per diventare legge nella complice distrazione dei tecnici. Certo, è un colpo di coda del regime che muore. Ma è a doppia firma. C’è la destra che fa il suo solito sporco lavoro, ma c’è la sinistra che mentre millanta nobiltà approfitta dell’inghippo liberticida per mettere a frutto il suo gruzzolo di vendette.
Ieri la Cassazione ci ha spiegato che la condanna di Sallusti sanziona non il giornalismo fazioso, che rimane nobile qualunque sia il punto di vista, ma il giornalismo in malafede fondato sull’insulto, la disinformazione e lo stravolgimento della verità. Tuttavia secondo noi la galera rimane una pena spropositata, sempre e comunque, anche nel caso di DreyfusSallusti che non ha mai chiesto scusa e continua ancora oggi a negare la diffamazione.
E però solo uno sgherro travestito da senatore poteva immaginare una rettifica che pur non estinguendo la querela diventa una gabbia, una prigione di parole da pubblicare comunque e subito, a prescindere dal processo, sempre in testa alla pagina, senza replica, senza limiti di rigaggio e senza l’obbligo più ovvio, che si tratti cioè di verità. Se io per esempio scrivo un articolo documentato su Formigoni, lui l’indomani può impaginare il mio giornale come gli pare. Ed è evidente che gli conviene presentare una rettifica ogni volta che viene scritto il suo nome e sperare anzi che venga ripetuto molto spesso: solo così può violentare le notizie e farne propaganda. Come si vede, questa idea di rettifica non è soltanto un’occhiuta operazione di censura preventiva, ma è anche un orrore di incompetenza, un insulto all’intelligenza.
E come può un piccolo giornale pagare le multe che oggi arrivano sino a cinquemila euro e che invece da cinquemila partirebbero per arrivare a centomila euro? I minimi diventano massimi e i massimi diventano ceppi su cui inchiodare le notizie. Tanto più che alla multa bisogna aggiungere il danno che partirebbe – nientemeno – da trentamila euro impedendo così quelle transazioni con le quali oggi si risolvono molti conflitti prima di arrivare a processo.
E al giornalista recidivo raddoppiano la pena. Con la diffamazione per fatto determinato il giornalista è interdetto d’ufficio da uno a sei mesi la prima volta, da sei mesi a un anno la seconda volta, e per tutte le altre volte da uno a tre anni. Davvero è una tagliola che nessun Paese civile conosce, inedita e inaudita. Nessuno di noi si sentirebbe libero. Non solo perché l’editore (spaventato) entrerebbe in redazione, ma perché vogliono zittire le parole, “talking without speaking, hearing without listening” cantano Simon e Garfunkel.
Ad ogni condanna per diffamazione all’editore toglierebbero parte dell’eventuale finanziamento pubblico. E alla terza diffamazione gli sospenderebbero il contributo di un anno. È un crescendo di trovate rozze ma efficaci. Se i colpevoli sono almeno tre (basta una doppia firma e il consenso di un caporedattore) la pena è raddoppiata. E il direttore, del quale tutti capiscono l’abnormità dell’omesso controllo, risponderebbe come autore se l’articolo non fosse firmato, e non importa se si trattasse di una breve o di una notizia di agenzia.
E ce n’è pure per gli editori di libri che verrebbero sommersi di rettifiche da fare pubblicare a loro spese sui quotidiani. Pensate ai libri di inchiesta e all’indice dei nomi. Ognuno di quei nomi ha diritto ad una rettifica preventiva e illimitata. È chiaro che l’inchiesta, per non parlare del pamphlet, sparirebbe dalle librerie italiane. Solo narrativa. Solo le poesie di Sandro Bondi e i romanzi di Veltroni.
E tutto va esteso ai siti Internet purché facciano informazione, non importa di che genere, da Dagospia a Lettera 43, Blitz quotidiano, il Post, Giornalettismo… E da tutti i siti potranno essere cancellati, a semplice richiesta del presunto diffamato, senza cioè sentenza, articoli e dati personali. Non ditemi che esagero: è come Fahrenheit. Anziché bruciare i libri cancellano le parole, è una forma sofisticata di rogo di scrittura, e anche di memoria, di storia, sono buchi negli archivi. Immaginate che anziché in un archivio di Internet entrassero in un’emeroteca per bruciare i microfilm.
Rimane da dire una cosa sola. Da oggi la legge va in aula dove tutto è pubblico e dove si vota con la faccia e con il nome. Nessuno può fare finta di non aver visto, di non essersi accorto, di non avere capito. Non è materia che consente pilatismo. E noi che non abbiamo altra forza possiamo solo seguirvi uno per uno, pubblicarvi uno per uno, tutti e 315, anche a costo di morire soffocati sotto il peso di 315 lunghissime, querule rettifiche.

Repubblica 24.10.12
Corruzione, il Csm conferma l’allarme “Ricadute dannose dalla prescrizione”
Critiche sui giudici fuori ruolo. Sì alla Camera in tempi stretti
di Liana Milella


ROMA — Cos’è il ddl anti-corruzione? «Un piccolo miracolo» dice Vietti addebitandolo a Severino. «Una modifica legislativa che rischia di risultare vana senza un radicale ripensamento della prescrizione », com’è scritto nel parere del Csm che oggi sarà licenziato dal plenum. Eccola, ancora una volta, la grande contraddizione di questa manovra contro i corrotti che corre verso il voto definitivo. È l’unica legge che è stata politicamente possibile, frutto del compromesso (ma molti lo chiamano inciucio) tra Pdl, Pd, Udc, ma “non è” la legge sufficiente. Lo ribadiscono i magistrati. Ancora ieri ecco il presidente dell'Anm Sabelli: «Questo ddl è un bicchiere che dev’essere riempito fino all’orlo e del quale va corretto il contenuto». Ecco, ancor più tranchant, il procuratore di Torino Caselli che punta l’indice contro la corruzione per induzione (meno pena di adesso, meno prescrizione): «È una norma incoerente. Mentre si dice di voler combattere la corruzione, di fatto la si favorisce. C’è il rischio, praticamente la certezza, che in futuro si lavori a vuoto, mentre per il passato potrebbero essere cancellati moltissimi processi, tra cui alcuni celebri, come Penati e Ruby-Berlusconi ».
È così, purtroppo. «Il livello di corruzione è un danno all’immagine internazionale del Paese», come dice Napolitano. Però questa legge, senza la prescrizione lunga come ci chiede l’Europa e come il Csm ricorda, «rischia di risultare vana». Parole pesanti e da memorizzare bene. Sulle quali il Parlamento non vuole fare i conti, anche adesso che sono definitive e non più «asserite» (Vietti) come quando Repubblica e Sole-24 Ore le hanno anticipate (ed erano proprio le stesse). Tutti vogliono andare avanti. Le commissioni bruceranno i tempi, in aula già da lunedì per sfruttare la finestra che rimane prima della legge di stabilità. Niente emendamenti, «non li faremo» dice Costa (Pdl), o invito a non farne, come da Ferranti (Pd). Un rush. Frena solo l’Idv, Di Pietro «ddl ridicolo, non serve a nulla», Palomba «un’amnistia mascherata».
Qui pesa il parere del Csm. «Solo tecnico» precisa il presidente della sesta commissione Auriemma. Sia pure. Intanto il Consiglio scopre un singolare «refuso materiale ». È scritto, per i magistrati fuori ruolo, che la norma sulla durata decennale degli incarichi decorre «dall’entrata in vigore della presente legge “anche se conferiti successivamente” ». Pure gli incarichi futuri «dovranno cessare comunque alla scadenza del decimo anno dall’entrata in vigore della legge, il che appare obiettivamente irragionevole ». La fretta fa di questi scherzi. È la ciliegina sulle critiche alla norma sulle toghe, «disarmonica » perché «affronta in maniera del tutto estemporanea, in un contesto completamente estraneo» una questione così delicata.
Sul resto le critiche del Csm sono “tecnicamente” pungenti. Della prescrizione che non c’è s’è detto, ma sarebbe difficile «farla per decreto», secondo Severino. Il reato di traffico d’influenze «appare fortemente condizionato dall’esiguità della pena» (né intercettazioni, né misure cautelari). Niente di buono per la corruzione tra privati. Non parliamo poi della concussione dove «non appare di immediata comprensione» aver escluso l’incaricato di pubblico servizio. Quanto alla concussione per induzione il Csm dice quanto segue: la pena inferiore «costituisce un arretramento particolarmente significativo nell’attività di contrastato di un comportamento che oggi risulta essere la forma statisticamente più diffusa di concussione. Ciò determina la sensibile riduzione della prescrizione e di fatto non consente di rafforzare il contrasto al fenomeno illecito, rivelandosi così incoerente con le intenzioni che animano l’impianto complessivo delle modifiche». È positivo questo giustizio? Non pare proprio. Verrà ignorato? Pare proprio di sì.

l’Unità 24.10.12
Gaza, l’emiro del Qatar rompe l’assedio
di U. D. G.


I capi di Hamas lo hanno accolto come il «nuovo Saladino». Un liberatore carico di petrodollari. Il nuovo «padrone» di Gaza: l’emiro del Qatar, Sheikh Hamad bin Khalifa Al-Thani, primo capo di Stato arabo a visitare la Striscia dal colpo di mano condotto nel 2007 dagli islamici contro il regime di Abu Mazen. «Si tratta di una giornata davvero storica», ha esultato il capo dell’esecutivo di Hamas, Ismail Haniyeh, nell’accogliere l’ospite giunto dal Qatar assieme con la moglie Muzha, con una folta delegazione di dignitari e con progetti di aiuti economici per un valore complessivo di 400 milioni di dollari.
La soddisfazione di Hamas evidenziata da migliaia di stendardi del Qatar esposti nelle strade principali assieme a gigantografie dell’ospite è stata duplice, ha precisato Haniyeh, perché proprio in questi giorni il suo movimento celebra il primo anniversario dello scambio di prigionieri con Israele in virtù del quale mille detenuti palestinesi
hanno riacquistato la libertà. Al senso di euforia degli uomini di Haniyeh ha corrisposto il gelo dei dirigenti dell’Anp a Ramallah, costernati nel vedere lo sceicco al-Thani sostenere in maniera così plateale i rivali politici, con una mossa che rischia di approfondire ulteriormente la frattura politica fra al Fatah e Hamas, e fra la Cisgiordania e Gaza.
Anche Israele che in passato ha avuto relazioni cordiali con il Qatar ha espresso disappunto per l’iniziativa di al-Thani che, secondo un portavoce governativo, «si è schierato con gli estremisti e con i violenti, spingendo così la pace sotto le ruote di un autobus».
In sette ore di permanenza a Gaza, lo sceicco al-Thani ha gettato le basi per una serie di progetti di sviluppo che promettono di rimettere in moto l’economia della Striscia, cronicamente sofferente di disoccupazione e povertà. Questi piani includono: la costruzione di una superstrada lungo i 40 chilometri del litorale, che dimezzerà i tempi di transito; la costruzione di 3.000 nuovi alloggi in un sobborgo di Khan Yunes che sarà chiamato «Città al-Thani»; e la costruzione di un ospedale specializzato nella riabilitazione dei feriti gravi. Per ringraziare degnamente l’ospite, Hamas ha chiesto alla popolazione di riversarsi nello stadio cittadino. Ma gli spalti, affermano testimoni, non erano pieni. Al-Thani, è stato spiegato, è tuttora visto a Gaza come una figura ambigua, «con i piedi in tutte le staffe, incluse quelle degli Stati Uniti e di Israele».
Per realizzare i progetti illustrati da Haniyeh e dallo sceicco al-Thani occorrerà garantire l’introduzione nella Striscia delle materie prime necessarie: ossia garantire il sostegno attivo di Egitto ed Israele. Solo quando i cantieri saranno davvero aperti la popolazione di Gaza si aprirà a sua volta all’ottimismo.

Corriere 24.10.12
«Ma negli Usa la ferita del razzismo non si è chiusa»
Toni Morrison: «Le tensioni con i bianchi accresciute dal controesodo dei neri in fuga dal Nord industriale»
di Alessandra Farkas


NEW YORK — «Avevo 29 anni quando, nel 1960, assistetti al linciaggio di una ragazza di 19 — racconta al Corriere il premio Nobel Toni Morrison —. Come allora mi rifiutai di permettere a quel veleno di insinuarsi nella mia coscienza e avvelenarla, anche oggi mi rifiuto di lasciare che questo nuovo e inenarrabile orrore mi intossichi, come sperano i tre mostri di Winnsboro. Perché, se lo facessi, vorrebbe dire che hanno vinto loro».
Al telefono dalla sua casa a nord di Manhattan l'autrice di capolavori della narrativa americana quali Sula, Jazz e L'occhio più azzurro (Frassinelli) ha un peso sul cuore. «Sono rimasta inorridita da questo brutale attacco che mi ha fatto ripiombare indietro nel tempo a un'era ben più malvagia. Provo un grande dolore per la giovane vittima».
Lei pensa che ancora oggi il colore della pelle possa suscitare odio cieco?
«Non posso rispondere a tale domanda perché non capisco la natura del razzismo e non riesco neppure ad approssimarmi al sentire di un individuo del genere. Ma si può chiamare uomo quello? Quale uomo può vantarsi di aver dato fuoco a una giovane donna nera indifesa? Non mi meraviglio che quei tre si siano coperti il volto mentre commettevano un atto di tale profonda e irrazionale codardia».
In attesa di avere più particolari sui fatti, che cosa può spingere ad atti del genere?
«Un razzismo di tale natura tradisce un serio disturbo della personalità, una forma di pazzia. Chiunque si faccia una ragione di vita nell'andare in giro incappucciato a bruciare croci dovrebbe essere rinchiuso in manicomio. Comunque sono certa che il tempismo di quest'attacco non sia affatto casuale».
Che cosa intende dire?
«Il razzismo sembra più intenso alla vigilia delle prossime elezioni presidenziali in cui l'America torna a decidere tra un nero intelligente, equilibrato ed esperto e un bianco volubile che cambia idea ogni momento. Negli Stati del Sud il livello di ostilità nei confronti del presidente Obama è fortissimo, irrazionale, malevolo».
Pensa davvero che l'attacco sia coinciso intenzionalmente con l'approssimarsi delle elezioni?
«Certo. Gli esperti hanno coniato un'espressione, Obama Derangement Syndrome, detta anche Baracknophobia, che descrive la paura irrazionale prodotta dall'arrivo di Obama alla Casa Bianca e che spinge chi è affetto da tale patologia a estremi di follia e violenza incontrollati. Molti, anche in Europa, non si rendono conto di quanto profondamente razzista sia ancora una larga parte del nostro Paese».
Nell'ultima intervista al «Corriere» lei stessa ha raccontato di come, durante la sua prima trasferta nel Sud segregato, a metà degli anni 50, le porte di hotel e ristoranti si chiudevano quando la vedevano arrivare insieme ad altri nove studenti universitari e tre docenti di colore. Eppure molti speravano che la ferita del razzismo si fosse rimarginata con l'elezione del primo presidente nero della storia.
«Il problema per i più facinorosi è dovuto al fatto che il Sud non è più bianco come un tempo in seguito al contro-esodo che negli ultimi anni ha visto molte famiglie afro-americane lasciare le grandi città industriali del Nord per tornare al paese da cui erano fuggite durante gli anni bui delle Leggi Jim Crow (le norme sulla segregazione razziale, ndr). Il voto degli afro-americani ha fortemente indebolito i politici repubblicani locali e ciò spiega il grande sforzo del Gop per impedire ai neri del Sud di votare».
Pensa che il loro tentativo possa andare in porto dopo la denuncia dei media e delle associazioni per i diritti civili?
«Purtroppo si tratta di una pratica antichissima, radicata in tutto il Sud prima della rivoluzione di Martin Luther King. Il pericolo per i repubblicani, oggi, viene anche da ispanici, nativi americani e minoranze in generale e, infatti, anche questi gruppi sono nel mirino dei maneggioni dei seggi».
Ritiene che i fatti della Louisiana si possano leggere come un avvertimento contro il voto dei neri?
«Ci vuole ben altro per intimorire i neri americani che nella loro lunga e travagliata storia hanno sopportato e trionfato contro le avversità più inumane. Tanti di loro sono morti durante il movimento per i diritti civili, così come nei 200 anni precedenti, ma niente e nessuno li ha fermati. Questa è solo una cicatrice in più sulla nostra pelle».
Il Sud è ancora pericoloso per i neri?
«Anche New York e Chicago sono pericolosi per un nero. Il Sud grava maggiormente sulle nostre anime a causa dell'epidemia di razzismo ed estremismo politico che da sempre inquina le frange estreme del partito repubblicano. È strano, se si pensa che il partito repubblicano è stato fondato da due abolizionisti, il nero Frederick Douglass e il bianco William Lloyd Garrison, insieme a Susan B. Anthony, pioniera del movimento per la liberazione delle donne. A quei tempi i razzisti erano i democratici e il Gop dimostra di non conoscere neppure la propria storia».

Corriere 24.10.12
I comunisti cinesi «dimenticano» il compagno Mao
Sparito dai documenti del Politburo
di Marco Del Corona


SHANGHAI — Sono giornate in cui i politologi si trasformano in filologi. In attesa che i 2.270 delegati del Partito comunista cinese si ritrovino l'8 novembre per celebrare il 18° congresso e a incoronare la nuova leadership, è tutto un leggere tra le righe, interpretare segni, scovare indizi. Se è certo che Xi Jinping assumerà il ruolo di segretario del Pcc, tutto il resto è imbozzolato in una coltre d'incertezza, compreso il numero dei membri del comitato permanente del Politburo (davvero scendono a 7 da 9 che sono?), compresa la volontà o meno di imprimere alla Cina una svolta riformista (ma poi: che cosa si intenderà per «riforme»?). È così che non è passata inosservata l'omissione del «pensiero di Mao Zedong» da un passaggio di un documento del Politburo.
Il testo annuncia l'intenzione di emendare durante il congresso la costituzione del partito. Niente di irrituale. Lo è invece il capoverso che raccomanda «di tenere alta la bandiera del socialismo con caratteristiche cinesi, di farsi guidare dalla teoria di Deng Xiaoping e dall'importante pensiero delle Tre Rappresentanze (la teoria politica dell'ex leader Jiang Zemin, ndr), di continuare a sostenere la Visione scientifica dello Sviluppo», cioè il contributo del segretario uscente Hu Jintao. Non una parola sul marxismo-leninismo né sul «pensiero di Mao», cardine mai apertamente rinnegato dell'apparato ideologico cinese.
Nell'impossibilità di attribuire l'assenza a un preciso orientamento programmatico, un'interpretazione plausibile suggerisce di guardare più alle stanze del potere attuale e meno ai sistemi filosofici del passato. Potrebbe essere un monito, l'ennesimo, alla sinistra cosiddetta «neomaoista» che ancora piange la defenestrazione politica di Bo Xilai. L'ex sindaco, ex ministro, ex segretario della megalopoli di Chongqing, è stato espulso dal partito e sarà processato per corruzione e altro. Nelle stesse ore aveva preso a circolare una petizione indirizzata al parlamento (l'Assemblea nazionale del popolo) chiedendo di non privare Bo dell'unica carica che gli è rimasta, quella di deputato ormai senz'appartenenza partitica, e concedergli di difendersi. Un altro lieve smottamento è un articolo pubblicato da un giornale della Scuola centrale del partito che indicava, come esempio utile per la Cina, il caso del Partito d'Azione popolare, formazione che da sempre governa Singapore. Riferimento interessante, perché il Pap controlla per via elettorale la quasi totalità dei seggi in Parlamento, attuando politiche cui Pechino guarda con interesse e gestendo un potere di fatto autoritario. Anche i vertici militari hanno subito un rimescolamento osservato con minuzia, mentre più facile da leggere risulta la seconda apparizione pubblica recente del grande ex, Jiang Zemin. I capi di oggi e di ieri muovono i pezzi, la scacchiera si estende da Pechino a Shanghai (la vecchia costituency di Jiang) mentre gli aruspici del potere rosso continuano il loro lavoro.

Corriere 24.10.12
E l'orso ferì il lupo a morte
Il racconto epico e tragico della battaglia di Stalingrado
di Dino Messina


Ha scritto Paul Carell che, in base ai criteri adottati nella Seconda guerra mondiale, il 27 settembre 1942 Stalingrado poteva considerarsi tecnicamente conquistata dalle armate naziste. Invece, quel che appariva come un'evidenza agli uomini della VI Armata guidata da Friedrich Paulus o ai piloti della Luftwaffe che continuavano a sganciare bombe, di notte veniva smentito. Da cantine, cunicoli, fogne della città intitolata al Piccolo Padre spuntavano cittadini armati o soldati sovietici che avevano finto di arretrare. Quella che si combatté attorno e all'interno del centro industriale sul Volga tra l'agosto 1942 e i primi di febbraio 1943 fu la battaglia determinante della Seconda guerra mondiale in Russia: rappresentò non solo un decisivo scacco per la mastodontica operazione Barbarossa (140 divisioni e 3,5 milioni di uomini mobilitati) con cui Hitler nel giugno 1941 aveva deciso di annientare il nemico slavo, l'odiata potenza «ebraico bolscevica», ma, assieme a El Alamein, la vera svolta del conflitto in favore delle potenze alleate.
A questo scontro decisivo dedica un libro, La battaglia di Stalingrado (Longanesi, pagine 160, 11,60), Alfio Caruso, giornalista e storico. In precedenza non solo si è occupato dei 77 soldati italiani che, andati a cercar legna, rimasero intrappolati nello scontro, ma ha scritto, sempre per Longanesi, due saggi di successo dedicati all'armata italiana in Russia, Tutti i vivi all'assalto, e a El Alamein, L'onore d'Italia.
Il racconto di Caruso si divide in due parti: nella prima ci sono i tedeschi all'attacco e i sovietici che subiscono, giacché indietreggiare — almeno nelle prime fasi — non è possibile, per non andare incontro alle conseguenze delle severe disposizioni emanate da Stalin. Nella seconda parte, che inizia nel novembre di 70 anni fa, sono i soldati nazisti, in particolare i 280 mila della VI Armata, nella parte dei perdenti. Vittime due volte: accerchiati da un nemico totalmente rinvigorito da uomini ben comandati, ben coperti, cosa non secondaria nell'inverno russo, e bene armati, grazie soprattutto al carro armato T34; succubi degli ordini di Hitler, che prima promette rifornimenti che non è in grado di mandare, infine, quando è evidente che tutto è perduto, ordina ai suoi di resistere fino all'ultima munizione. Il risultato è un doppio massacro: dopo sette mesi di battaglia, dei 500 mila abitanti di Stalingrado, ridotta in macerie al 99 per cento, ne rimanevano soltanto 1.500; i soldati sovietici caduti furono circa mezzo milione. Sull'altro versante si contarono 250 mila morti e dei 108 mila prigionieri almeno la metà morì di fame e di freddo.
Quella che doveva essere la facile conquista di una tappa intermedia per arrivare alla conquista dei pozzi petroliferi del Caucaso (sotto il controllo tedesco erano rimasti soltanto i giacimenti in Romania) si risolse in un'ecatombe. E una battaglia simbolo in cui si dispiegò in tutta la sua ferocia lo scontro tra il lupo nazista e l'orso sovietico. Fu una guerra sporca sin nelle intenzioni: Hitler, lanciando l'offensiva Barbarossa, aveva parlato di «subumana razza slava» e non fu un caso che la maggior parte dei prigionieri sovietici catturati dai nazisti, il 60 per cento, non sopravvissero, contro una percentuale di poco superiore a un terzo dei prigionieri britannici e americani. Alfio Caruso racconta con sapienza questa ferocia facendo ricorso ora ai diari dei sopravvissuti, dell'una e dell'altra parte, ora alle voci della letteratura. Da Ernst Jünger, di stanza in quei mesi a Parigi, che ricordando i commilitoni in Russia citava la Bibbia e la maledizione di Mosè, «il cielo che sta sopra il tuo capo sarà di bronzo e la terra sotto i tuoi piedi di ferro», alla poetessa Anna Achmatova, «Io odio», o allo scrittore Ilja Ehrenburg, che su «Stella Rossa» lanciò l'appello: «Non contate i giorni, non contate i chilometri. Contate solo il numero di tedeschi che avete ucciso». Parole che ben testimoniano il successo della mobilitazione nazionale capeggiata da Stalin.
Naturalmente l'ossatura del libro è costituita da gesta militari, manovre, aggiramenti, assalti, decisioni prese e mancate, in cui quel che conta è soprattutto il fattore umano. Lo stato d'animo della truppa e dei comandanti. Caruso non manca di sottolineare la totale sudditanza psicologica di Paulus verso Hitler, la doppiezza del suo vice Arthur Schmidt che gli fu messo accanto per controllarlo, il distacco dalla realtà del comandante dell'aviazione Hermann Göring, pronto a farneticare in un discorso radiofonico nel gennaio 1943 di russi allo stremo delle forze, quando si stava verificando proprio il contrario. Dall'altro lato, l'iniziale impreparazione cui Stalin rimediò con la scaltrezza e la ferocia delle disposizioni imposte anche alla popolazione civile, l'abilità del capo di Stato maggiore, Georgij Žukov, lo spirito di sacrificio di cui diedero prova non solo soldati e abitanti di Stalingrado, ma anche le élite, dal generale Andrej Eremenko al commissario del popolo Nikita Krusciov, futuro leader dell'Urss, che nel 1956 avrebbe denunciato i crimini di Stalin.

Corriere 24.10.12
La fede cieca dei soldati che difendevano la città


Alla ricerca di un segreto — l'eccezionale capacità di resistenza dei sovietici a Stalingrado — lo storico tedesco Jochen Hellbeck è giunto a un'importante conclusione: più che il terrore delle punizioni, poté la propaganda. Hellbeck, riporta la rivista «Der Spiegel», pubblica nel suo «Stalingrad-Protokolle» le testimonianze di 215 soldati sovietici sopravvissuti all'ecatombe. Sono racconti d'epoca, raccolti negli anni 40 da una commissione russa istituita dallo storico moscovita Isaak Minz. Lontani da controlli, i testimoni riferirono d'aver resistito non per timore d'essere puniti con la morte, ma perché convinti di battersi per un'ideologia superiore a quella nazionalsocialista. Gli opuscoli e le menzioni d'onore, insieme a qualche simbolica razione di cioccolato o mandarini, ebbero insomma un effetto rinfrancante sugli spiriti. Il resto lo fece l'odio per l'invasore e la prosopopea razzista. (d. fert.)

Corriere 24.10.12
La Repubblica del lavoro, origini di una frase discussa
risponde Sergio Romano


Non ho mai capito il significato dell'articolo 1 della nostra Costituzione. L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro? Che cosa vuol dire? Io credo sia fuorviante.
Non sarebbe meglio affermare: «L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sull'operosità»? Così ognuno saprebbe che deve darsi da fare, impegnarsi a fare qualcosa per se stesso e per il suo Paese. Ci sono moltissime persone che «pretendono» un lavoro a prescindere dal loro impegno!
Benedetto Altieri

Caro Altieri,
I membri comunisti dell'Assemblea costituente e alcuni socialisti proposero che l'Italia fosse definita «Repubblica dei lavoratori». Era la formula utilizzata nelle Costituzioni delle democrazie popolari, create nei Paesi occupati dall'Armata Rossa alla fine della Seconda guerra mondiale, e non piacque ai democristiani, ai socialisti riformisti, ai repubblicani, ai liberali. «Fondata sul lavoro», quindi, fu il risultato di un compromesso, un minor male rispetto alla formula proposta dal partito di Togliatti. Ma occorre riconoscere che l'omaggio al lavoro era gradito anche al cattolicesimo sociale che ispirava allora una parte importante della Democrazia cristiana. Fu spiegato che nella sua redazione definitiva l'articolo 1 avrebbe sepolto, una volta per tutte, i privilegi sociali dello Stato monarchico. Sarebbe scomparso lo Stato «feudatario» dei baroni, dei padroni, dei «galantuomini», delle persone che davano del tu agli umili ma esigevano per sé il lei o il voi. I cittadini lavoratori sarebbero stati tutti eguali di fronte alla legge e l'unico «titolo di dignità», come scrisse un grande giurista, Costantino Mortati, sarebbe stato il lavoro. In questa scelta ideologica, per la verità, vi fu più continuità che rottura. Anche il fascismo, negli anni precedenti, aveva concepito uno «Stato dei produttori» in cui l'industriale e l'operaio, il proprietario terriero e il contadino, il direttore e l'impiegato sarebbero stati uniti da una stessa funzione nazionale nell'ambito dello Stato corporativo.
In realtà la sostanziale parità dei diritti fu un processo graduale, non ancora compiuto e dovuto soprattutto all'evoluzione della società piuttosto che a una grida retorica collocata all'inizio di un testo costituzionale. Le Costituzioni sono tanto più utili quanto più si concentrano sulle istituzioni, sui loro compiti e sul loro funzionamento.
Oggi, per di più, quell'articolo è diventato involontariamente ironico. Il lavoro continua a essere la migliore misura della dignità della persona, ma esiste una parte importante della classe politica del Paese che al lavoro preferisce il vitalizio, la sinecura, la poltrona, la tangente, il malaffare, lo scambio di favori e quella pioggia di benefici che molti eletti, per esempio, hanno distribuito a sé stessi. Non giova alla credibilità di una Costituzione, ormai invecchiata, cominciare con parole che suscitano nel lettore un amaro sorriso.

Corriere 24.10.12
Addio a Cini, il fisico che si oppose alla lectio del Papa alla «Sapienza»
di Giovanni Caprara


«Sono convinto che anche le conoscenze scientifiche non sono verità assolute ma sono relative e contingenti e debbono essere vagliate da altri punti di vista, tra i quali anche quello della filosofia. Naturalmente anche questi punti di vista sono a loro volta relativi e contingenti: un punto di vista assoluto e immutabile non esiste». Questa era l'idea della scienza di Marcello Cini, scomparso lunedì a Roma all'età di 89 anni. E le sue parole rivelavano il metodo che lui applicava alla vita in generale, sempre, ponendo in discussione tutto pur restando fedele alla sua visione dell'uomo.
L'ultima sua uscita clamorosa risale al novembre 2007, quando scriveva al rettore dell'Università di Roma «La Sapienza» chiedendogli di annullare la lectio magistralis di Papa Benedetto XVI all'inaugurazione dell'anno accademico, giudicandola inadatta all'occasione. E fu l'ultima volta in cui riuscì a coagulare intorno a sé il consenso di 67 docenti che firmarono con lui, ma provocando fuori dell'ateneo accese reazioni, soprattutto da parte del mondo cattolico. Diventò un caso che sollevò contestazioni e disordini. E il Pontefice tre giorni prima della visita, nel gennaio successivo, rinunciava all'invito. Cini sostenne in modo risoluto la laicità dell'istituzione: considerava la presenza del Papa una violazione. E con questo manifestava anche la sua idea di laicità assoluta. Era uno dei tanti volti di Marcello Cini, il primo dei quali era tuttavia quello dello scienziato: sulla cultura scientifica egli costruiva le sue certezze.
Era nato a Firenze il 29 luglio 1923, arrivando ad insegnare fisica teorica alla «Sapienza» chiamato da Edoardo Amaldi. Poi abbracciava le frontiere più avanzate della fisica quantistica. Nonostante i suoi pensieri di fisico fossero molto astratti e apparentemente distaccati dalla quotidianità Marcello Cini guardò alla Terra e alla difesa della vita con la stessa intensità con la quale difese la laicità.
Negli anni Sessanta diventò uno dei padri, il più nobile, degli ambientalisti. Cini era un fine intellettuale le cui idee potevano non essere condivise, ma era stimolante considerarle: il confronto generava sempre un arricchimento. Ma sapeva anche mettersi in discussione come nel libro Dialoghi di un cattivo maestro.
Le sue accese convinzioni, la voglia di incidere sulla realtà lo portò inevitabilmente in politica. Partecipò alla fondazione del quotidiano «Il Manifesto» e negli anni Sessanta fece parte del Tribunale Russell sui diritti dell'uomo, recandosi in Vietnam e raccontando poi le atrocità della guerra. Alla direzione della rivista «SE/Scienza Esperienza», fondata da Giulio Maccacaro, la sua linea fu discutere e diffondere lo stretto rapporto tra scienza e società. Come i suoi articoli, ancor di più facevano discutere i suoi libri, in cui scavava ancora più a fondo la visione sociale della scienza. Per questo L'ape e l'architetto, Il gioco delle regole e Il paradiso perduto segnarono davvero un'epoca.

Repubblica 24.10.12
Esce un volume che raccoglie le interviste al grande scrittore Un’occasione per ricordarlo
Memorie di Calvino
Sorrisi, ironie e confessioni “Un disastro, se mi esprimo”
di Bernardo Valli


Il volume in cui sono raccolte, in seicentocinquantotto pagine, centouno interviste orali o scritte date da Italo Calvino tra il 1951, quando non aveva ancora trent’anni, e il 1985, suo ultimo anno di vita, puo’ suscitare una reazione singolare, ma non poi tanto strana: la gelosia dei ricordi. Capita spesso che i tuoi non coincidano con quelli degli altri. O che si allontanino sempre più dalla supposta realtà. Da quel ricco, bel volume, curato da Luca Baranelli, un fedelissimo di Calvino, e con l’introduzione di Mario Barenghi, suo costante, altrettanto fedele cultore, emerge spesso un Calvino allergico alla parola («questa roba che esce dalla bocca, informe, molle molle...»), un Calvino che rivendica la laconicità, un uomo di carattere piuttosto chiuso, se non ombroso, refrattario all’uso dell’io, ai richiami autobiografici (Sono nato in America, Mondadori). Anche se generoso nel rilasciare interviste, poiché le centouno pubblicate non sono neppure la metà di quelle rintracciate. Ho comunque conservato di Calvino un’immagine personale: quella di un meraviglioso attore.
È vero che non c’è nulla di meno assoluto e di più relativo del ricordo, ma la prima reazione mi conduce a credere che con quel libro, in cui si può rintracciare un sia pur vago, sfuggente, autoritratto in divenire, si sia infiltrato nella mia memoria un dubbio devastatore, un virus capace di sfocare le immagini che vi galleggiano come relitti. Un virus assassino che tenta di spegnere la luminosa figura di un Calvino conservata come un’icona, irreale ma ben disegnata nella mente, da quella tarda estate del 1985 in cui ho assistito alla sua sepoltura nel cimitero sul mare di Castiglione della Pescaia. E nasce poi l’inevitabile, contraddittorio sospetto che a tradirmi sia la mia stessa memoria, in cui i ricordi oltre a sfilacciarsi, ad annebbiarsi, si adeguano a desideri inconsci. Nei ricordi si è conservatori.
Il volume dedicato alle interviste di Calvino mi ha lasciato dunque nell’incertezza. Ma non per molto. Il mio ricordo è stato sopraffatto o si è appannato? Il tempo riduce all’essenziale l’immagine delle persone scomparse e non dimenticate. Ed io vedo ancora, appunto, Calvino come un grande attore, capace di sprigionare con lo sguardo espressioni chiare, chiarissime: rigetto, noia, ironia, comprensione, indifferenza,
fastidio, amicizia, simpatia, a volte persino un entusiasmo candido, ingenuo; e con la parola capace di suscitare forti emozioni. Era un padre tenero, e apprensivo, quello che all’aeroporto di Fiumicino, mi affidò la figlia Giovanna, adolescente, che veniva a trascorrere le vacanze nella casa di Danielle, a Hammamet.
Parlando Calvino si inceppava spesso, si interrompeva, emetteva frammenti e rottami aforistici, ricorda Pietro Citati, suo amico da quando aveva ventiquattro anni, nella Torino grigia di quello che era ancora il dopoguerra. Allora Calvino era un giovane luminoso, con uno sguardo fresco e gentile, che si innamorava spesso. Era un ingenuo, di una limpidezza provinciale. Poi ha subito una lunga metamorfosi, è diventato un grande narratore, ma anche un uomo via via sempre più tormentato dalla imperativa necessità dello scrittore di mettere in movimento delle idee. E anche il suo sguardo si è via via oscurato. Questo dicono coloro che hanno seguito Calvino in tutto l’arco della sua vita.
L’ho conosciuto soltanto negli ultimi dieci anni, soprattutto in quelli parigini, e quindi non ho termini di paragone. Lo ricordo come un meraviglioso attore perché in varie occasioni l’ho visto uscire dal suo silenzio, dalla sua riservatezza, in cui sembrava rinchiuso come in una bolla di vetro. Ho assistito a evasioni dalla laconicità simili a esplosioni, che mandavano in frantumi la timidezza. E non accadeva soltanto quando aveva a disposizione un pubblico e scattava quello che oso chiamare il suo istinto d’attore.
Lo rivedo al Beaubourg, una sera, mentre parlava a centinaia di giovani parigini che straripavano sulla piazza, sotto gli altoparlanti, dai quali usciva il suo accentato, caldo francese. Le parole scorrevano senza esitazioni. Senza inciampi. Il tema della conferenza era la pittura metafisica di De Chirico. Un argomento ideale per l’autore delle
Città invisibili e delle Cosmicomiche.
E fu un successo, da grande spettacolo. Ci furono lunghi applausi, quasi come quelli all’Opéra Garnier, il giorno in cui andammo insieme a vedere il Simon Boccanegra,
e lui, Calvino, era il solo a non indossare lo smoking, allora quasi di rigore alle prime, e il suo vestito grigio chiaro risaltava nella platea come una macchia bianca. Situazione che non lo imbarazzava affatto, anzi che lo rendeva di buon umore. La sua ironia era in quell’occasione smagliante. Al Beaubourg gli applausi prolungati lo resero felice. Era appagato. Non sprecava certo le parole. Ma era pronto ad aprirsi. A mio avviso, da giovane, gli è capitato di voler essere un attore.
Roland Barthes, che fu un suo ammiratore, ricorreva a una parola antica (lui diceva settecentesca) per definire quel che vedeva nell’arte di Calvino, e quel che traspariva dell’uomo da quel che scriveva: une sensibilité.
Aggiungeva: un’umanità. Avrebbe voluto dire anche una bontà, ma la parola gli sembrava troppo pesante da portare e quindi da infliggere. Per Barthes in tutta l’opera di Calvino c’è un’ironia mai offensiva, mai aggressiva, e anche un costante distacco e un sorriso. Tutto questo era ben visibile anche nel personaggio non solo nei suoi scritti. Ed io, testardo come Cosimo, il Barone rampante, conservo questa immagine.
Le interviste sono da centellinare. Non da leggere tutto d’un fiato come un racconto. Luca Baranelli è stato un bravo ingegnere: ha ricostruito una lunga strada zigzagante, piena di curve, con sensi unici che all’improvviso prendono direzioni opposte. Insomma un itinerario con tante inevitabili contraddizioni. In trentaquattro anni di vita, quanti sono quelli in cui sono state concesse le interviste, gli umori, le situazioni, i sentimenti, le idee cambiano. E cambiano gli interlocutori, di incostante qualità. Calvino si adegua. Se la cava a volte ricorrendo allo scritto. Scrive persino le domande. Gli capita di recitare. Come quando dice che quando si esprime, sia a voce che per scritto, “è un disastro”.
Lo vedo ancora al Café de Flore, a Saint-Germain-des-Prés, davanti alla casa in cui aveva un piccolo appartamento, proprio accanto alla Brasserie Lipp. Poche stanze, affacciate su un cortile interno, comperate dopo avere lasciato il quasi periferico Square de Châtillon dove aveva vissuto per anni con la moglie Chichita e la figlia Giovanna. Lui pensava che al Flore, un tempo frequentato da Sartre e Beauvoir, e da tante altre celebrità letterarie (la non sua amica Marguerite Duras abitava nell’attigua rue Benoit), e poi finito in mano a una clientela turistica, le uova strapazzate al salmone, una specialità della casa, fossero esageratamente care. Aveva ragione. Ed è quindi davanti a una bottiglia di acqua minerale che cominciò a parlarmi di Stevenson.
C’era stata un’ennesima nuova edizione del Master of Ballantrae e dovevo fargli un’intervista per Repubblica.
Ma ci sbrigammo presto, perché nella conversazione fece irruzione Conrad. E allora iniziammo un gioco: una specie di gara a chi conosceva meglio le trame dei suoi romanzi e racconti: Lord Jim (del quale credo avesse cominciato e poi interrotto la traduzione), Tifone, La linea d’ombra, Il negro del Narciso, Il corsaro, L’agente segreto, La follia di Almayer...
Si era laureato con una tesi su Conrad, ma lo ignoravo. Fui spesso corretto, e in definitiva largamente battuto. Non umiliato perché era indulgente. Mi redarguiva col sorriso. Aveva una memoria rapida, scattante. I nomi dei personaggi conradiani, e le loro vicende, gli uscivano precisi. Parlava senza incepparsi. Sciolto. Animato. Davanti al bicchiere d’acqua minerale posato sul tavolino del Flore, era un grande attore. E così amo ricordarlo.

“Sono nato in America...” a cura di Luca Baranelli (Mondadori pagg. 708 euro 25)

Repubblica 24.10.12
Il convegno
La rivoluzione liberale di Piero Gobetti


VICENZA — “Piero Gobetti: che cos’è la rivoluzione liberale oggi?”. È la domanda a cui intende dare risposta, a 90 anni dall’avvento del fascismo che mise fine allo Stato liberale, il convegno promosso dal circolo Nessuno Escluso e dal Centro Studi Gobetti, in programma a Vicenza (Viest Hotel) il 27 ottobre. Tra gli ospiti: Carla Gobetti, del Centro Studi Gobetti, Enzo Marzo, direttore di
Critica Liberale,
Franco Sbarberi, docente di filosofia politica all’Università di Torino, Graham Watson, presidente del Partito Liberale Europeo, Valerio Zanone, ex segretario del Partito Liberale Italiano. Le conclusioni saranno affidate a Paolo Colla e Matteo Quero, fondatori del Circolo Nessuno Escluso.

l’Unità 24.10.12
Uomini contro la strage
Iacona: il femminicidio è un’emergenza nazionale
Il giornalista ha scritto un libro sul massacro delle donne «Il governo deve intervenire. Servono politiche ad hoc, fondi veri e va velocizzata anche la risposta giudiziaria»
di Federica Fantozzi


«SE QUESTI SONO GLI UOMINI» (CHIARELETTERE) È IL VIAGGIO DEL GIORNALISTA RICCARDO IACONA NELLE TERRE DESOLATE E TRASVERSALI DEL FEMMINICIDIO. Da Nord a Sud, attraverso metropoli e paesini, periferie e quartieri middle class: cento donne solo quest’anno hanno perso la vita per mano maschile. L’ultima, a Palermo, per salvare la sorella da venti pugnalate. L’ennesimo degli «omicidi italiani con lo stiletto» a cui il settimanale americano Newsweek dedica un reportage: «Si sta accendendo la luce su una vera epidemia»
Come le è venuta la curiosità di affrontare il tema del femminicidio?
«A furia di sentire le notizie che arrivavano in redazione a Presa Diretta. Mi ha colpito la cadenza: ogni due, tre giorni moriva una donna. Mi sembrava qualcosa di più grande e complesso, qualcosa da affrontare come emergenza nazionale e non come cronaca di una storia andata a male».
Un’emergenza nazionale presuppone similitudini, collegamenti. Che nessi ha visto?
«Nel tempo del governo Monti, dell’allarme spread, della disoccupazione e delle fabbriche che chiudono, esiste un mondo parallelo con altre priorità. Una macchina da guerra che macina lutti e dolore e si muove secondo le sue logiche. Guardiamo la mappa degli omicidi: Nord, Sud, grandi città, periferie, quartieri della classe media. Queste morti ci dicevano più di quanto apparisse sui media. Io ho tentato di ricostruirle parlando con parenti, vicini, magistrati, forze dell’ordine. Ho scavato nel pregresso». E che cosa ha trovato?
«Avevo ragione. Queste storie ci raccontano che l’Italia è un Paese ostile alle donne. Violenze che durano da anni, campanelli d’allarme inascoltati. La soglia di attenzione è drammaticamente bassa».
Le forze dell’ordine, di solito, ribattono che non c’era una denuncia oppure che ci sono troppi casi del genere per poterli seguire tutti.
«Non è proprio così. Se si riconosce che c’è un’emergenza si attivano determinate pratiche. Se invece si pensa alla degenerazione di liti in famiglia, le si tratta in altro modo. Penso a Serafina Migali, uccisa dal marito con sua figlia e sua madre. Una strage. Serafina era andata dai carabinieri, che non avevano neppure redatto un verbale, limitandosi a una bonaria ramanzina al futuro assassino. Eppure, la legge c’è». Si riferisce alla legge contro lo stalking varata dall’ex ministro delle Pari Opportunità Mara Carfagna?
«Sì, un testo che contiene norme importanti. Una delle poche cose buone fatte dal governo Berlusconi. Insieme alla firma del piano anti-violenza che fino ad allora era rimasto fuori dall’agenda politica. Ma servono soldi: per i centri anti-violenza, per i punti d’ascolto. In alcune regioni neppure esistono. In Sicilia c’è una decina di posti letto per vittime di maltrattamenti su una popolazione femminile pari a due milioni e mezzo...».
Finanziamenti, quindi. Che altro manca per stroncare questo fenomeno?
«Un’assunzione di responsabilità in sede istituzionale. Non sono casi isolati di cronaca nera: senza riconoscere che c’è un lavoro da fare non se ne esce. È violenza endemica, nel senso che si tratta di un’epidemia. I dati Istat del 2007, gli ultimi disponibili, parlano di 7 milioni di donne oggetto di violenza almeno una volta nella vita. È un terzo della popolazione femminile italiana».
Molti ritengono che l’aumento della violenza sia una forma di resistenza degli uomini alla progressiva emancipazione delle donne.
«È vero. Ma queste sacche di resistenza vanno debellate. Le raccomandazioni del Consiglio Europeo prevedono 5700 posti letto per situazioni simili. L’Italia ne ha 500. Un decimo della soglia. Siamo dietro Grecia, Albania e Turchia. È un problema politico, non un problema delle donne. Servono politiche ad hoc, non si può lasciare alle donne il carico di un tema che tocca tutte le regioni e tutte le fasce sociali».
In concreto, come può intervenire lo Stato?
«Servono fondi organici, non legati a convenzioni con i singoli Comuni ormai in rosso. Solo così si può costruire un progetto di vita alternativa. E poi attraverso la repressione dei reati. Facendo rispettare la legge anche dentro le case che spesso si trasformano in prigioni. C’è troppa complicità diffusa».
È di ieri la notizia di un possibile favoreggiamento dell’assassino della 17enne di Palermo, Carmela. Un cugino, un amico e la di lui madre lo avrebbero aiutato a fasciarsi la ferita. Perché lo fanno?
«Il punto è sensibilizzare. Bisogna far capire che simili reati sono inaccettabili. E velocizzare la risposta giudiziaria. Stanno aumentando le denunce, ma la ribellione scatena la punizione esemplare. “Se non mi vuoi peggio per te”. Così però si certifica il fallimento dello Stato che non sa proteggerle. E altre donne, leggendo un epilogo così tragico, si scoraggiano dal reagire». Quale delle vicende che ha approfondito si sarebbe potuta evitare?
«Tutte. A Cesena sono state uccise 4 donne in due anni. L’ultima Sabrina Biotti nel maggio 2012, l’anno prima una 17enne davanti a scuola, Stefania Garattoni. In quel caso ci fu il processo e la condanna dell’ex fidanzato. Emerse che lei era stata oggetto di dominio per cinque anni, nel quartiere tutti sapevano e nessuno è riuscito a spezzare questo cammino».
Esiste una pagina Facebook, «Noi no», dove gli uomini (tra cui nomi noti come Benni, Capossela) esprimono il loro rifiuto per il femminicidio. Secondo lei aiuta?
«Ci vado subito anche io. Aiuta eccome. Noi uomini dobbiamo fare un percorso di crescita, doloroso ma necessario, che ci conduca al rispetto e a un rapporto di parità con le donne»

l’Unità 24.10.12
La sacra causa di Darwin
I due biografi del naturalista inglese sulla vera natura dell’evoluzionismo
Si apre domani a Genova il Festival della Scienza
Tra gli ospiti anche James Moore, coautore dell’articolo che pubblichiamo. Lo storico delle scienze all’università di Cambridge tratterà le «ragioni nobili» del darwinismo
di Adrian Desmond-James Moore


È «IL DESTINO ABITUALE DI NUOVE VERITÀ COMINCIARE COME ERESIE E FINIRE COME SUPERSTIZIONI» SCHERZAVA IL MASTINO DI DARWIN, THOMAS HUXLEY. La tesi della nostra biografia di Darwin campione di vendite del 1991 (ora in 10 lingue; edita in italiano per la prima volta nel 1992) inizialmente fu certamente controversa, avendo causato scandalo e approvazioni in egual misura. È difficile credere che la sua tesi sia oggi considerata naturale. Il libro fu scritto provocatoriamente per mostrare come un eremita socialmente conservatore e impeccabilmente rispettabile, che aveva cura della sua buona reputazione, potesse aver abbracciato un’immagine sovversiva dell’evoluzione che imparentava l’uomo alla scimmia. O meglio, è stato scritto per mostrare che il metodo usato da Darwin per far fronte alle sue convinzioni incendiarie fu di posporne la pubblicazione. Darwin covò le sue teorie in modo risoluto e piuttosto scomodo per vent’anni. Egli infatti ideò la selezione naturale nel 1838, ma la rese pubblica solo nel 1858. L’Origine delle Specie venne l’anno seguente.
La nostra analisi su Darwin ha alzato un polverone in alcuni ambienti: le icone non devono essere deturpate, i geni non devono essere smontati. La storicizzazione dei risultati di Darwin non ha fatto esplodere l’arsenale della brigata dell’evoluzione nella sua guerra contro il creazionismo? Non furono i fatti a urlare a Darwin, costringendolo ad accettare l’evoluzione? E, se l’evoluzione era evidentemente vera, perché egli nascose la sua teoria? «Tradimento», ha gridato qualcuno; abbiamo pugnalato Darwine i darwinisti alle spalle, facendo del genio un uomo del suo tempo.
Anche il nostro Darwin era un libro del suo tempo, come avrebbe potuto non esserlo? La fine faticosa di un decennio disastroso di tactherismo in Gran Bretagna e Reaganomics in America, con il loro individualismo distruttivo e il capitalismo senza regole, ci ha praticamente invitato a mostrare come i valori dell’epoca vittoriana fossero fusi con la biologia darwiniana della sopravvivenza del più adatto. Se, come ha osservato Marx, Darwin ha visto la società del suo tempo nella natura, con la sua divisione del lavoro, la competizione, l’apertura di nuovi mercati, e una maltusiana «lotta per l’esistenza», il nostro compito era scoprire come quella società entrò in primo luogo nelle teorie di Darwin. Oggi il fermo ammonimento della società anglicana di Darwin è ben nota agli studiosi, e l’immagine della ventennale reticenza di Darwin è la colonna portante di molte biografie. Dall’apparizione del nostro libro, comunque, sempre meno ricerche originali riguardanti Darwin sono state pubblicate. Sappiamo di più riguardo alle piccole cose, riguardo a Darwin come geologo, alla sua collezione messa insieme sul Beagle, ai suoi studi sui cirripedi, alla famiglia e alla salute. Del resto, gli esegeti testuali che tra gli anni Settanta e gli Ottanta del secolo scorso fondarono la “fabbrica di Darwin”, stanno raggiungendo i sessant’anni. Gli studiosi di Darwin adesso sembrano vivere in un periodo post-industriale. È un’epoca di consolidamento, mentre gli storici mettono insieme una nuova tela e dipingono il più grande ritratto della scienza vittoriana nella società vittoriana.
Mentre la storia che abbiamo raccontato nel 1991 sembrava essere autosufficiente, ci ha lasciato con almeno un dubbio assillante: se Darwin covò la sua teoria sull’evoluzione per vent’anni, tanto era preoccupato da come sarebbe stata accolta, perché l’avrebbe concepita? Altri avevano visto le cose che egli vide intorno al mondo: navi di naturalisti avevano notato che le lumache di terra variavano da isola ad isola in arcipelaghi simili alle Galapagos senza pensare "Evoluzione!". Zoologi e botanici avevano attraversato i radicali sconvolgimenti del 1830 senza reinventare radicalmente la propria scienza. Cosa rese Darwin così diverso? Inoltre, cosa poteva aver spinto un gentiluomo rispettabile con così tanto da perdere a buttarsi in un progetto così rischioso? Doveva essere un impulso potente, qualche spinta profonda per la quale valeva la pena assumersi il rischio. Doveva esserci qualcosa di precedente e alla base delle sue speculazioni sull’evoluzione.
Moore affrontò il problema in avanti, cercando le cause familiari, e Desmond indietro, guardando ai risultati dell’evoluzione. Riflettiamo prima sull’ultima strada.
L’evoluzione ad albero darwiniana era unica anche tra i cosìdetti evoluzionisti dei suoi giorni. Darwin rese ogni forma di vita imparentata ai suoi fratelli di razza e tutti discendenti da un antenato comune. I nonni, i bisnonni e gli antenati erano la chiave. La metafora della genealogia umana era fondamentale nei suoi appunti sull’evoluzione, dove espose la sua teoria. La «discendenza comune» era il grande tratto dell’evoluzione darwiniana. Un triliardo di discendenze comuni dalle famiglie umane, agli altri primati, a tutti gli animali e le piante tutte rivolte all’indietro verso un organismo ancestrale nel fioco passato geologico. Il compito di Moore fu di guardare al rilevante impegno morale della famiglia di Darwin, forza motrice delle loro azioni per tre generazioni: il movimento antischiavista con le sue convinzioni sulla fratellanza tra esseri umani. (...) Tutti loro detestavano la schiavitù, odiavano la crudeltà, sia ne confronti degli uomini che degli animali; e all’Università di Cambridge, Darwin ebbe molti esempi etici simili. Raggiunse la maggiore età credendo appassionatamente che gli schiavi neri e i padroni bianchi fossero fratelli, imparentati da una discendenza comune e non specie separate come sostenevano molti difensori dello schiavismo.
Nel nuovo millennio ci ritroviamo daccapo insieme per spiegare il significato di questo antischiavismo alla base della «discendenza comune». È il tema del nostro La sacra causa di Darwin. La «sacra causa» di Darwin, come lui stesso rivelò a un naturalista giamaicano, era l’emancipazione dei neri. Il libro, in una parola, è un prequel del nostro Darwin (per usare un orribile gergo hollywoodiano). Mostra perché Darwin avrebbe naturalmente guardato alle razze come imparentate per sangue, perché poi visto che razze e specie differivano solo per grado avrebbe esteso un antenato comune a tutte le vite che combattono e soffrono. Più di tutto mostra perché tenne così tanto alle sue eretiche convinzioni evoluzionistiche per vent’anni, nonostante l’antropologia andasse in un’altra direzione, verso un razzismo scientifico a favore dello schiavismo. Così Darwin e La sacra causa di Darwin sono libri gemelli realizzati, come Star Wars, in ordine inverso.
Charles Darwin è stato sempre complesso: un pastore di campagna mancato, un gentleman paradossale che rischiò il ridicolo presentandosi come «cappellano del diavolo». Bisogna addentrarsi a fondo nella sua cultura per capire il fuoco morale che lo guidava.
(adapted from Darwin, I Grandi Pensatori, Bollati Boringhieri, 2012)

l’Unità 24.10.12
Festival della scienza
Quest’anno la kermesse è dedicata all’immaginazione

Il Festival della Scienza di Genova (da domani al 4 novembre), dedica la sua decima edizione all’immaginazione. «L’immaginazione è più importante della conoscenza. La conoscenza è limitata, mentre l’immaginazione abbraccia il mondo, stimolando il progresso e facendo nascere l’evoluzione», diceva Albert Einstein. Anche quella che ha animato il festival in questi anni, del resto, è un’idea visionaria: rendere la scienza accessibile a tutti e trasformarla in un grande gioco. Anche quest’anno moltissime le iniziative e tanti gli ospiti. Tra gli altri, ci sarà anche James Moore, uno degli autori dell’articolo che pubblichiamo, che il 3 novembre parlerà della «sacra causa» di Darwin. Da segnalare il Progetto Piazza Europa, una grande piazza fisica e virtuale dedicata alla presentazione della ricerca scientifica europea e non solo. Su www.festivalscienza.it il programma completo.

l’Unità 24.10.12
Una risposta al Corsera...
Giù le mani dallo scoutismo
di Tommaso Giuntella


UN ARTICOLO PUBBLICATO SUL CORRIERE DELLA SERA DI IERI TITOLAVA: «SCOUT CONTRO SESSANTOTTO, LE DUE ANIME DEL PD» senza fortunatamente dare seguito nel testo a questa quantomai bizzarra lettura delle dinamiche interne. Una categoria contro un’altra, un’idea contro un’altra, uno stile di vita contro un altro. Ovviamente si parlava di Renzi contro Bersani. L’esito è un facile slogan, che contrappone in modo specioso e strumentale gruppi di persone, attribuendo loro persino una identità quasi comune che a ben guardare neppure hanno. Se non altro perché la prima categoria scuot è una associazione educativa e non politica e la seconda - sessantottini non è neanche una associazione.
Siamo abituati ormai alle strumentalizzazioni; se serve combattere la Chiesa si arma il cardinale Martini, se si vuole evocare lo spettro del comunismo e della rivoluzione (o più sottilmente celebrare il «nuovo» contro il «vecchio», attribuendo a quest’ultimo un nostalgico e stantio ritorno alla «lotta» del Sessantotto) si utilizza l’immagine del bravo ragazzo che aiuta la vecchina ad attraversare la strada.
Lo scoutismo è altro: è educazione alla cittadinanza prima di tutto, nel senso più profondo e vero del termine. Non al partitismo, ma alla responsabilità cosciente di fronte al proprio Paese, non solo perché se ne rispettano le leggi, ma perché mettendosi al servizio dell’altro e della comunità si contribuisce al benessere comune.
Lo scoutismo è prima di tutto un metodo e non un’ideologia, un metodo al servizio della comunità civile e per chi crede della Chiesa. Un metodo fondato sul servizio e sul gioco, sulla lealtà e sullo spirito di squadra, sulla fedeltà e sul rispetto. Il buono scout è un buon cittadino. Non un buon renziano, né un buon bersaniano. È questo il motivo per cui nel partito, e più in generale nel campo dei progressisti, coabitano tanti scout, e assumono diverse posizioni tra schieramenti e correnti secondo il loro giudizio. È per questo che sarebbe ora che gli scaltri di ogni sorta la facessero finita con questi tentativi di mettere le mani sullo scoutismo.
Forse dello scoutismo bisognerebbe parlare di più per tutto quello che ha fatto per questo Paese, dalla Resistenza, all'alluvione di Firenze, a tutti i terremoti e le situazioni di emergenza, per tutto quello che fa sul piano educativo con centinaia di migliaia di ragazzi, ogni giorno. Ha scritto il fondatore Baden Powell: «Lo scopo dell’educazione scout è quello di migliorare la qualità dei nostri futuri cittadini, specialmente per quanto riguarda il carattere e la salute; di sostituire l’egoismo con il servizio e di rendere ciascun giovane efficiente, sia nel fisico che nel morale, al fine di utilizzare questa efficienza al servizio della comunità.
Il civismo è stato definito in poche parole “attaccamento alla comunità”. In un Paese libero è facile, ed anche piuttosto comune, che uno si consideri buon cittadino solo perché osserva le leggi, fa il suo lavoro ed esprime la sua scelta politica, lasciando che “gli altri” si preoccupino del benessere della nazione. Questo è un concetto passivo del civismo.
Ma cittadini passivi non bastano per difendere nel mondo i principi della libertà, della giustizia, dell’onore. Per far questo occorre essere cittadini attivi. E non immaginatevi di avere dei diritti nel mondo oltre a quelli che vi conquisterete da voi. Avete diritto di essere creduti se ve lo guadagnate dicendo sempre la verità e avete diritto di andare in prigione se ve lo guadagnate rubando; ma ci sono tanti che vanno in giro proclamando i loro diritti senza aver mai fatto nulla per guadagnarseli. Non fate come loro. Non accampate alcun diritto senza aver fatto prima il vostro dovere» (Baden-Powell, Lo Scoutismo per i ragazzi, A. Salani, Firenze, 1947, pp.240-241).
E il fondatore diceva ancora: «Siate quindi uomini, fatevi una vostra idea e decidete da soli ciò che, secondo il vostro giudizio, è meglio dal punto di vista nazionale, e non per qualche piccola questione locale e votate per quel partito finché esso continua ad agire nel modo giusto e cioè per il bene della comunità nazionale. Molta gente si lascia trascinare da qualche nuovo uomo politico per amore di qualche nuova idea estremista. Non credete mai nell’idea di un uomo prima che questa sia stata ben studiata e considerata da ogni punto di vista. Le idee estremiste assai di rado valgono qualche cosa; se andrete a cercare nella storia vi accorgerete che quasi sempre sono state già provate in qualche luogo ed hanno fatto fallimento» (Baden-Powell, Scoutismo per ragazzi, Nuova Fiordaliso, Roma 2000, pp.348-350).
Più della metà della popolazione italiana è passata attraverso l’esperienza dello scoutismo. Non è prerogativa di un partito o di una corrente. Essere scout è un modo di vivere l’impegno politico. Non un serbatoio di voti. Sarebbe ora di smetterla di utilizzare l’esperienza scout come una patente rivoluzionaria, innovativa, clericale, reazionaria, solidale, buonista, progressista a seconda degli interessi del momento. Gli scout non sono in vendita. Per nessuno.

l’Unità 24.10.12
Il libro
Franco Basaglia Il dottore dei matti

A trent’anni dalla scomparsa di Franco Basaglia, l’Università eCampus presenta domani alle ore 18 nella sede di Roma (via del Tritone, 169) il libro «Franco Basaglia. Il dottore dei matti», scritto dal nostro giornalista Oreste Pivetta (Dalai Editore). Obiettivo dell’opera è quello di riconnettere la figura di Basaglia alla cultura e alla politica dei suoi tempi, intrecciando la sua battaglia nel cammino d’emancipazione della società italiana da pregiudizi e aggressiva emarginazione nei confronti del diverso.

Corriere 24.10.12
Il mondo chiuso in una stanza diventa entusiasmo per la vita
Io e te. Bertolucci si confronta con i sogni e gli incubi di due ragazzi
di Paolo Mereghetti


Rivedendo il film una seconda volta, dopo la prima a Cannes, meno «coinvolto» dalla storia e dai suoi accadimenti (l'autoesilio di un quattordicenne nella cantina di casa per non partecipare alla settimana bianca di classe è interrotto dall'arrivo della sorellastra drogata), mi sono trovato a interrogarmi non tanto sulle ragioni che avevano portato Bertolucci a scegliere quella storia quanto su che cosa cercasse di farci davvero vedere.
Le «ragioni» della scelta erano facilmente intuibili. Bloccato su una sedia a rotelle da diversi anni (l'ultimo suo film era del 2003: The Dreamers I sognatori), Bertolucci ha trovato nel romanzo breve di Niccolò Ammaniti Io e te (pubblicato nel 2010 da Einaudi) lo spunto ideale per tornare a girare nonostante i limiti che gli imponeva la sua paralisi: praticamente un unico luogo (la cantina-rifugio), praticamente un'unica azione (l'incontro-scontro tra Lorenzo e Olivia) e in fondo un'unica «durata» (quella specie di sospensione temporale che intreccia giorno e notte durante i quattro o cinque giorni in cui i due si nascondono in cantina). Ce n'era a sufficienza per «giustificare» il film. A cominciare dalla voglia di superare i propri limiti per tornare a misurarsi con il mestiere (e la vocazione) di tutta una vita che in passato, non bisognerebbe dimenticarlo, lo aveva portato a toccare alcune delle vette della professione (compresi nove Oscar). Ma tutto questo non basta per entrare davvero nel film.
Vedendo e rivedendo i film di Bertolucci (e leggendo quello che è stato scritto, spesso con grande sagacia, su di lui) mi è sembrato che davanti ai suoi film venissero spesso alzati degli schermi interpretativi: l'importanza della psicoanalisi, quella della cinefilia, l'ambizione «hollywoodiana» o a turno «nouvellevaghiana» delle sue messe in scene... Tutte cose giustissime e sacrosante. Ma alla fine insufficienti. Anche per capire questo Io e te, che pure sottolinea, rispetto al testo letterario di Ammanniti, una serie di elementi molto psicoanalitici e molto bertolucciani (il rapporto edipico con la madre, la figura paterna dell'analista, gli sconfinamenti tra maschile e femminile). Così come gli elementi scenografici che possono dare il senso del Tempo e della Storia (a cominciare dalla testa mussoliniana in profilo continuo di Renato Bertelli). Tutte sottolineature che però non diventano le «chiavi» per capire il film o per trarne una qualche «morale». Sono piuttosto gli elementi che contribuiscono a ottenere il risultato finale, restituendo allo spettatore l'esperienza della complessità e della varietà del reale.
A differenza di altri film e registi che leggono il reale per «estrarne» una qualche morale o suggestione, Bertolucci fa il percorso inverso: utilizza tutti gli strumenti affinati negli anni, dalla psicoanalisi alla cinefilia alla consapevolezza politica per restituire sullo schermo le tante sfaccettature del mondo. Il quattordicenne Lorenzo raccoglie nel suo sguardo imbronciato e nelle sue ruvidità relazionali tutta la complessità di ogni adolescente sospeso tra l'affetto familiare e la voglia di ribellarsi, l'indipendenza e il bisogno d'aiuto, la rabbia e l'ingenuità. Di cui la sorellastra Olivia diventa l'immagine speculare, bisognosa di attenzione e tenerezze quanto vogliosa di apparire indipendente e adulta, aggressiva e fragile insieme, risentita e infine riconoscente.
In un film anti kolossal come questo, tutto concentrato sui volti e i corpi dei due protagonisti (tanto immediati e diretti, a cominciare dalla forza espressiva dei due giovani attori, Jacopo Olmo Antinori e Tea Falco, che quasi stonano l'utilizzo del dolly e dei movimenti di macchina), dove la sceneggiatura finisce per spogliarsi di tutte le possibili «divagazioni» narrative suggerite dal romanzo (che ha un inizio e una fine ambientati dieci anni dopo l'incontro in cantina), la messa in scena di Bertolucci sfrutta ogni elemento per restituire allo spettatore la ricchezza e la complessità del mondo reale. E di due personaggi che forse finiranno per diventare il Marcello del Conformista, il Paul o la Jeanne di Ultimo tango, la Caterina della Luna, il Jason dell'Assedio ma che per intanto ci raccontano la bellezza e l'entusiasmo della vita. Che la foto fissa con cui si chiude il film non fa che rafforzare ancora di più, ribadendo il ruolo della finzione (lo stop sull'immagine rompe la credulità dello spettatore) ma sottolineandone anche la forza e il messaggio.