giovedì 25 ottobre 2012

l’Unità 25.10.12
La sfida di Camusso
Il ruolo nazionale del sindacato
di Michele Prospero


Non ci sono toni celebrativi nel libro-intervista di Susanna Camusso (Il lavoro perduto, editori Laterza). La «ragazza con la sciarpa rosa», che continua ad amare Hobsbawm anche ora che è alla guida della Cgil, avrebbe potuto solleticare l’orgoglio di sindacato.
Cosa sarebbe l’Italia senza la Cgil? In anni turbolenti, che hanno sconvolto la repubblica dei partiti e spezzato simboli, organizzazioni, identità, il mondo del lavoro è rimasto, con le sue strutture di mobilitazione, un presidio per una democrazia smarrita. Questo anello della continuità storica della nazione nonché garante della tenuta sociale in un sistema sfilacciato nelle sue istituzioni, ha consentito al Paese di reggere il carico di sfide difficili.
Più che rivendicare i meriti acquisiti, a Camusso preme ragionare sulle difficoltà del sindacato oggi, costretto a divincolarsi in «una stagione difensiva» entro cui il lavoro percepisce il suo scivolamento verso una condizione di povertà. Il segretario della Cgil avrebbe potuto accentuare il ritratto a tinte fosche di un’età di capitalismo irresponsabile inginocchiato dinanzi ad una aggressiva finanza speculativa («Prima della crisi le imprese hanno goduto a lungo di alti profitti. Hanno scelto di spostare gli asset nella finanza, immaginando di ricavarne un guadagno alto e a breve»). E invece la sua ossessione è di ricercare la via dell’innovazione culturale e organizzativa per riparare ad un deficit di rappresentanza (delle professioni precarie, autonome e flessibili).
Disgregato dalle delocalizzazioni, frantumato dal micro capitalismo, disarticolato dalle invenzioni giuridiche di una miriade di tipologie contrattuali, intrappolato dall’indebolimento della contrattazione nazionale, il mondo del lavoro deve cicatrizzare le ferite e inventare strategie per rappresentare i nuovi e antichi ceti subalterni. Certo che la rappresentazione dei nuovi lavori invisibili e la sorte disperata delle due generazioni usa e getta, sfidano anche il sindacato, spesso percepito come la trincea dei garantiti («Dove le assunzioni si fanno, i nostri iscritti sono anche i giovani», ricorda Camusso). Ma il sindacato penetra nell’universo del lavoro atipico, nei call center o negli studi professionali è la vittima di questa cieca propensione del capitale ad edificare un regime dell’insicurezza permanente (anche a chi lavora in un cantiere fanno aprire una partita Iva!), non certo l’artefice di gabbie di esclusione. Nondimeno Camusso riconosce che la linea della solidarietà con i precari si è infranta e che «abbiamo sbagliato a non usare la forza collettiva dei più garantiti per difendere anche le persone senza contratto o con contratto atipico».
Il blocco parassitario insediato in Italia non è riconducibile al sindacato dei diritti, che invoca mutazioni di processo e di prodotto, ma a un capitalismo che accumula ricchezza senza alcuna innovazione, che compete nel mercato globale senza effettuare gli investimenti adeguati. Solo con il contenimento del costo del lavoro e con la precarizzazione di massa non si determina però la crescita, si sparge anomia e inefficienza. Rispetto all’asfissia dell’impresa e ai ritardi delle istituzioni, il sindacato pratica da sé l’apertura universalistica che solo il lavoro può sprigionare. Andando oltre le stratificazioni etniche, riconosce un ruolo all’immigrato (il 15 per cento degli iscritti è straniero) sulla base dell’assunto di Camusso che «il sudore del corpo che lavora ha un solo colore».
Le contraddizioni del tempo non giustificano i ritardi (Camusso trova strano che i giudici con «interpretazioni ardite» abbiano letto l’art. 18 come il divieto di licenziamento in assoluto) nella costruzione della postmoderna rappresentanza sociale (gli autonomi precari pagano la stessa aliquota di un dipendente senza avere però uguali prestazioni previdenziali, assicurative, sanitarie). La lotta alle diseguaglianze non esclude per Camusso un momento di cooperazione con una impresa che davvero interpreti l’innovazione e smetta di sognare un soggetto insicuro, precario, più povero. Non Marchionne, con le sue venature dispotiche, ma Squinzi («Un imprenditore che ama la sua azienda, non punta a dividere i sindacati e non vuole entrare in politica») può essere un interlocutore nel ridefinire il rapporto tra impresa e lavoro.
Nella debolezza del sistema produttivo una redistribuzione del reddito passa più che su una strategia del conflitto su una leva fiscale che combatta l’evasione come fattore di diseguaglianza. Per Camusso il conflitto va declinato in forme nuove. La figura centrale della classe (il bracciante, l’operaio di fabbrica) non è oggi disponibile e anzi la categoria con la maggiore quota di iscritti nella Cgil è quella dei lavoratori del terziario (commercio, servizi, turismo dove peraltro l’età media dei delegati è sotto i 30 anni). Ciò impone al sindacato un potenziamento della sua natura confederale e la rinuncia a sirene corporative. Il richiamo al generale non è estraneo al sindacato che non respinge le politiche di rigore, quando necessarie. Per il carico di sacrifici connessi alla pratica della concertazione, Camusso polemizza con le deformazioni semantiche di Monti che descrive un fantasioso paradiso di concessioni e di sprechi. La classe lavoratrice non ha mai avuto bisogno di lezioni edificanti per rispolverare il senso dello Stato, appannato proprio nei ceti dominanti.
La crescita per Camusso scavalca gli accordi tra le parti sociali ed evoca un nuovo governo pubblico (grandi opere, politica industriale, riacquisizioni, investimenti di qualità e di indirizzo a utilità differita, cura di aziende strategiche). Il nesso con la politica è ineludibile: «Il sindacato deve essere autonomo da ogni governo, non indifferente a chi governa». Il ruolo politico del sindacato non significa, come ha ritenuto la Fiom, costruire uno specifico soggetto. Implica invece per Camusso la possibilità di guardare con attenzione agli sforzi per recuperare un radicamento sociale dopo le scorciatoie del Lingotto. Dinanzi a un partito che con Bersani torna a cimentarsi sulla rappresentanza del lavoro, la Cgil non può restare indifferente.
Oggi Camusso rimarca un connubio insidioso tra liberismo e antipolitica proposto dai poteri dell’economia che hanno sostenuto il ventennio berlusconiano con la sua grottesca fabbrica della devianza. Il lavoro è rimasto l’unico principio di realtà in un Paese che proprio nelle sue classi dirigenti si è lasciato incantare da stupide narrazioni. Le velleità di ricollocare la sinistra sul terreno del liberismo (la vita come un eterno centro commerciale in cui il consumatore trova appagamento simbolico e cestina cultura, civismo, beni pubblici e comuni) appaiono sorprendenti.
Riscoprire il lavoro perduto secondo Camusso è la risposta a queste derive. Senza il lavoro si spezza l’identità del soggetto, si infrange la via della responsabilità, si inaridisce il percorso dell’autonomia. Non si combatte la disuguaglianza, l’esclusione, la marginalità e il declino senza provare a rappresentare il lavoro. Il lavoro è in Camusso la condizione per la restituzione di visibilità allo spazio pubblico, che pare sempre più colonizzato dalle potenze del denaro. Riemergono così antiche questioni di libertà e liberazione. Camusso le ripropone con una bella immagine di Trentin: «Un operaio deve poter imparare a suonare il violino se vuole».

La Stampa 25.10.12
“Mi fa paura l’autoritarismo del movimento di Grillo”
Camusso: è un’organizzazione considerata come proprietà del leader
di Stefano Lepri


Saggi Nella foto sopra la copertina del libro-intervista al segretario della Cgil Susanna Camusso «Il lavoro perduto» di Stefano Lepri edito da Laterza

Quello che segue è un estratto del libro intervista di Stefano Lepri al leader della Cgil Susanna Camusso
L’ irrigidimento delle strutture dei vecchi partiti favorisce il formarsi di partiti nuovi
Il Movimento 5 Stelle è un misto singolare di partecipazione volontaria e di leaderismo...

«A me fanno paura le formazioni politiche o i partiti, diciamo così, personali, perché hanno in sé una quota di autoritarismo, di non costruzione dell’interesse collettivo. L’ho pensato e lo penso del berlusconismo, e lo penso ora di Beppe Grillo. Paradossalmente, lo penserei anche di Sinistra e Libertà nel momento in cui diventasse un raggruppamento costruito attorno al nome di Vendola e non una vera organizzazione. Anche nell’Italia dei Valori è presente, almeno in parte, questo problema. Purtroppo esistono anche esiti pessimi, come dimostra la Lega Nord, quando le generazioni successive sono già indicate, quando ci sono i discendenti del capo. Ovvero quando si ha un’idea della politica come luogo del proprio potere personale anziché come luogo di rappresentanza. Nel movimento di Grillo intravedo già alcuni fenomeni di questo tipo, di un’organizzazione considerata come proprietà personale del leader. Va detto tuttavia che Grillo è sicuramente un innovatore: il modello che ha costruito (sempreché lo rispetti), e cioè l’organizzazione aperta sulla Rete, il fatto di non andare in televisione (non so se per scelta o per obbligo) suggerisce un’idea nuova. Fa capire che forse non c’è un solo modo di fare politica, tutto molto formalizzato e virtuale (la tv), ma che si può usare l’informatica in maniera diversa. Anche se la Rete è anch’essa una realtà virtuale: in teoria è interattiva, poi non so quanto lo sia davvero».
Nelle ultime esperienze, Internet serve molto più a sfogarsi che a interagire con gli altri. Spesso quello che emerge è il peggio delle persone.
«Talvolta è così. In partenza è un modello che può essere anche interattivo; poi succede che siccome Internet è una forma di anonimato diffuso, vale il fatto ben noto da sempre che nelle lettere anonime la gente non dà il meglio di sé. Però usare la Rete per organizzare l’attività politica è sicuramente un’innovazione importante; ha risposto a una spinta che indubitabilmente esisteva. La sua fortuna è l’autoreferenzialità del sistema politico, così è facile apparire vicini alle persone, comunicare con loro. Su questa base, Grillo fa poi un’operazione di rottamazione violenta, ed io non sono affatto convinta che la rottamazione di per sé sia un valore. Per quel che vedo, Grillo non ha un’idea del Paese, non la comunica; la sua idea, per quanto è dato capire, è che si deve buttare via tutto. Secondo lui, nulla di ciò che è stato fatto è degno di essere salvato. Questo modo di pensare mi lascia quantomeno perplessa, perché in fondo se siamo qua... Certo, l’Italia ha tanti problemi, ma siamo diventati anche un grande Paese, abbiamo tante risorse, idee, cultura. Prendere tutto e buttarlo dalla finestra insegue la logica della contestazione per il gusto di protestare; ti consente anche di non dire cosa vuoi fare tu. Gridare che tutti fanno schifo fa molta audience, non c’è dubbio, raccoglie un sentimento popolare, ma poi? Se è vero che l’elezione del sindaco di un Comune disastrato da tante vicende di malgoverno come Parma si è giocata sulla questione dell’inceneritore, e l’ha vinta chi dice che l’inceneritore è la morte, ho seri dubbi che solamente su questo si possa costruire un’altra politica».
Spesso il «fanno tutti schifo» si lega al rifiuto di qualsiasi novità: non si deve costruire nulla, nemmeno le pale eoliche, stiamo bene così. Sui blog dell’antipolitica, siparlapocodisindacato, ma se si fa una ricerca sul nome di Susanna Camusso, si trovano soprattutto insulti perché ha detto sì alla Tav.
«La Cgil, nel suo congresso, ha detto sì alla Torino-Lione con il discernimento che ha sempre cercato di avere. Ci accusano di aver ceduto soltanto perché crea posti di lavoro. Ma non è affatto vero che qualunque opera pubblica ci vada bene. Per esempio, ci siamo opposti al ponte sullo Stretto di Messina. Non condividiamo invece l’idea che qualunque opera pubblica, siccome può essere frutto di corruzione, può avere gli appalti truccati, spende denaro pubblico, o potrà provocare in futuro impatti ambientali oggi imprevedibili, allora no, non si deve fare mai. Che idea di Paese ne viene fuori? Dove vogliamo andare? Qual è la struttura del Paese che si immagina? ».

Corriere 25.10.12
Landini avverte Camusso: contratto, poi la produttività
di Enrico Marro


ROMA — «Bloccare la trattativa sulla produttività fino a quando la Federmeccanica non accetterà di discutere anche con la Fiom il rinnovo del contratto di lavoro dei metalmeccanici». Questa la richiesta che il leader della stessa Fiom, Maurizio Landini, ha fatto ieri al numero uno della Cgil, Susanna Camusso, in un vertice con tutta la segreteria confederale. Incontro che si è svolto alla vigilia dell'incontro di oggi tra Federmeccanica e sindacati (tranne la Fiom) che potrebbe portare presto al rinnovo del contratto. Ma un nuovo contratto «separato», cioè senza la Fiom, sarebbe, secondo Landini, «in palese violazione dell'accordo del 28 giugno 2011» sottoscritto dalla Confindustria e dalle confederazioni sindacali, compresa la Cgil. «Quell'accordo dice infatti che hanno diritto di negoziare il contratto tutti i sindacati con un indice di rappresentatività pari ad almeno il 5%. Ma la Fiom — dice Landini — è pronta a verificare se abbiamo più del 5%, e comunque abbiamo più iscritti di Fim-Cisl e Uilm messe assieme. Come possono escluderci?». Per il segretario Fiom «c'è una palese contraddizione quando da un lato Confindustria, Cisl e Uil vogliono un accordo sulla produttività anche con la Cgil e dall'altro permettono, in barba all'intesa del 28 giugno, alla Federmeccanica e a Fim e Uilm di arrivare a un contratto separato. Per questo ho chiesto alla Cgil di sospendere la trattativa interconfederale sulla produttività». E che cosa le hanno risposto? «Che al momento non c'è una trattativa, ma posizioni diverse in campo». Landini ha comunque ottenuto che la confederazione si esprimerà a sostegno delle sue battaglie. «Oltre allo sciopero generale del 16 novembre, la Fiom non esclude alcuna iniziativa. Se Federmeccanica e gli altri sindacati arriveranno di nuovo a un contratto separato noi non lo riconosceremo e ci batteremo nelle fabbriche, nei territori e se necessario nelle aule di tribunale per impedire che esso venga applicato». Insomma, una dichiarazione di guerra che Landini aveva già preannunciato agli stessi vertici di Federmeccanica incontrati riservatamente lunedì. «Noi — continua — il contratto lo vogliamo rinnovare e abbiamo anche avanzato una proposta di un accordo fino alla fine del 2013 in attesa di misurare la rappresentanza e intanto difendere il lavoro. Loro invece stanno discutendo di un'intesa che distruggerebbe il contratto nazionale, generalizzando il modello Fiat: più orario, 250 ore di straordinario obbligatorio, niente paga per i primi tre giorni di malattia». Ma l'ultimatum di Landini pesa anche sulla trattativa tra la Confindustria, le altre associazioni imprenditoriali e Cgil, Cisl e Uil: «Per fare un accordo sulla produttività, prima bisogna ripristinare il diritto della Fiom di negoziare il contratto».

l’Unità 25.10.12
Pd, è scontro sul ricorso di Renzi
Enrico Rossi: «Il sindaco sta preparando una exit strategy in caso di sconfitta?»
Reggi: va tutelata la riservatezza del dipendente Mediaset o di chi ha clienti di destra
Oggi il termine per le firme, allarme di Puppato
di Maria Zegarelli


ROMA Beppe Fioroni twitta: «Tra ricorsi e diktat dobbiamo scegliere chi guiderà l’Italia e per ora scegliamo gli avvocati...». E «speriamo di non farci male». Sono in parecchi a incrociare le dita nel Pd ora che le primarie sono finite in mano agli avvocati, ferme lì sulla scrivania del Garante della privacy per volontà di Matteo Renzi.
Renzi vuole sapere se la pubblicità dell’elenco degli elettori sia una violazione della privacy, questo il succo. In realtà al sindaco queste regole non sono andate giù dal minuto successivo a quando l’Assemblea nazionale, compresi i suoi supporter, le ha votate. E se Bersani dice che proprio in virtù di quel voto adesso tutti le devono rispettare il suo sfidante non ci sta e la vicenda passa in mano agli avvocati e al Garante. E anche qui non mancano le polemiche: il Garante è Antonello Soro, ex parlamentare Pd, area franceschiniana. Saprà essere imparziale, si chiedono osservatori e parti in causa. «Dimostrerò coi fatti di essere imparziale», risponde il diretto interessato mentre sul web battagliano bersaniani e renziani con le moderne armi a disposizione: twitter, facebook, blog.
Anche Don Gallo affida a twitter il pensiero del giorno: «Non ho ancora capito a che partito appartiene Matteo Renzi». C’è chi, come il presidente della Toscana Enrico Rossi, pensa che il sindaco stia preparando la sua exit-strategy, «delle forme per dire “se perdo comunque c'è un responsabile”». Queste regole, replicano dal comitato del sindaco, sono un «percorso ad ostacoli», «fatte apposta per ridurre l’affluenza». Il più agguerrito è Roberto Reggi: «Bersani non è stato di parola». Matteo Renzi dal suo tour in Sardegna fa sapere: «Non mi occupo del ricorso». Per lui parla Reggi. Il ricorso al Garante, spiega, nasce «per limitare i danni di quella che è già una maratona ad ostacoli e che rischia di diventare una via crucis con la morte definitiva della partecipazione. Con questo ricorso tuteliamo anche il segretario così, qualora vincesse, nessuno potrà dire che si fa le regole pro domo sua». Contro la pubblicazione dell’elenco degli elettori (la pubblicità riguarda coloro che sottoscrivono il Manifesto del centrosinistra) Reggi porta come motivazione la ritrosia che potrebbe avere un dipendente di Mediaset, o di una pubblica amministrazione o chi ha «clienti di centrodestra». Rosy Bindi, che del partito è presidente, ricorda: «Sulle regole per le primarie l’Assemblea nazionale si è espressa in modo unanime e consapevole. Così consapevole da approvare una modifica dello Statuto che ha permesso a Renzi di partecipare alle primarie». Chi ha partecipato a quell’Assemblea sapeva cosa votava, aggiunge, quindi «non si capisce quali siano le aspettative o le intese che sarebbero venute meno». Se per Bindi non si può «pretendere segretezza» per l’identità dei «votanti in una consultazione così impegnativa che riguarda la scelta del candidato premier», per i renziani è vero esattamente il contrario. «Stupita e amareggiata», Marina Sereni, per il ricorso: «Dà da pensare che uno dei contendenti usi questo come argomento di campagna elettorale». Da Sel si pronuncia Francesco Forgione, ex presidente della commissione Antimafia, nonché membro del Comitato dei garanti (e quindi coautore delle regole): «Dico subito che avremmo voluto che si potesse votare nell’eventuale ballottaggio iscrivendosi lo stesso giorno all’Albo degli elettori, come richiesto anche da Matteo Renzi», ma aggiunge, «Renzi ha torto marcio sul problema della presunta violazione della privacy, dovendo gli elettori delle primarie dichiarare identità e accettazione della carta dei valori della coalizione “Italiabenecomune”».
LA BATTAGLIA DI LAURA PUPPATO
Ed è una vera e propria corsa contro il tempo quella che sta facendo Laura Puppato, l’altra candidata del Pd, per poter raccogliere le 20mila firme necessarie per partecipare alle primarie. Ieri pomeriggio era a quota 13mila e il termine scade quest’oggi: «Il problema non è trovare le firme, che ci sono, ma di certificarle perché la procedura è troppo lenta». Per questo aveva chiesto una proroga dei termini. Dal Comitato dei garanti è però arrivato soltanto l’ok a presentare le firme via fax o email e poi gli originali entro il 27. «Così si corre il rischio di lasciare fuori una parte di quella società civile dice l’unica candidata donna che si stava riavvicinando alla politica, al centro sinistra e al Pd».
«Le primarie stanno prendendo una piega preoccupante: bisogna ricondurre rapidamente i toni nell'alveo di un confronto più sereno, in cui le idee non siano soffocate da bordate reciproche», commenta l’europarlamentare Debora Serracchiani. Sembra facile. Intanto Casa Pound provoca: alle primarie voteranno Bersani, dicono.

il Fatto 25.10.12
Le “consultazioni della libertà” e l’invidia di Renzi
di Wanda Marra

ROTTAMAZIONE e primarie anche a destra. #Adesso anche i più duri capiranno che convincere gli altri non è reato, ma l'unico modo per vincere”. Matteo Renzi non si fa sfuggire l’occasione di commentare l’addio di Berlusconi, come una sua personale vittoria e con una provocazione. Sceglie rigorosamente Twitter per dire due cose: che la battaglia della rottamazione, un tormentone che lui porta avanti da due anni, ha raggiunto il suo obiettivo. A tutto tondo. E che le primarie a destra sono tutta un’altra cosa. Sì, proprio le consultazioni che si preannunciano talmente aperte da essere incontrollabili, con tanto di voto on line. Insomma, meglio le primarie della libertà che quelle del suo partito, il Pd, che ha fatto un regolamento che sembra una corsa a ostacoli nel tentativo di controllare gli elettori?
D’altra parte siamo allo scambio di cortesie: per Matteo hanno espresso il loro gradimento molte donne del Pdl, da Nunzia De Girolamo, a Iva Zanicchi . Michaela Biancofiore è andata pure a un suo comizio, mentre Barbara Berlusconi ha fatto sapere che da lui si sentirebbe rappresentata. Senza contare endorsement come quello di Lele Mora e Giorgio Squinzi. Lui, il sindaco di Firenze, ha iniziato la sua discesa in camper, l’11 settembre a Verona, chiedendo i voti del Pdl. “Renzi si candida sia alle primarie Pd che a quelle del Pdl” sintetizzava ieri Twitter.

l’Unità 25.10.12
Esposto dell’ex An. Indagata la segretaria di Bersani


Zoia Veronesi, storica segretaria di Pier Luigi Bersani, ha ricevuto dalla Procura di Bologna un avviso di garanzia con invito a comparire per truffa aggravata ai danni della Regione Emilia-Romagna, di cui è stata dipendente fino al marzo 2010. La vicenda non è nuova. L'inchiesta è partita da un esposto del deputato di Fli, Enzo Raisi. La Procura ipotizza che tra il 2008 e il 2009 la Veronesi sia stata pagata dalla Regione lavorando, in realtà, per il leader dei democratici. Ipotesi respinta con decisione da Zoia Veronesi e dal suo avvocato, Paolo Trombetti. «Dimostreremo che è tutto regolare, che non ci sono ombre in questa vicenda dice Trombetti Zoia aveva un ufficio nella sede della Regione a Roma e tre giorni di permanenza alla settimana, svolgeva il suo incarico pubblico al 100% e fuori dall’orario di lavoro teneva l’agenda di Bersani» . Il segretario del Pd ha commentato: «Visto che c'è un esposto, ancorchè di Raisi, è giusto che la magistratura accerti. Sono comunque sicuro che le cose siano state fatte per bene». La Procura ha precisato che «le indagini sono circoscritte a Veronesi». CLA.VI.

il Fatto 25.10.12
Indagata per truffa la segretaria storica di Bersani
Avviso di garanzia per Zoia Veronesi
L’accusa: lavorava per il leader Pd stipendiata dalla Regione Emilia Romagna (90mila euro lordi)
di Emiliano Liuzzi


Lavorava per Bersani, stipendiata dalla Regione Emilia Romagna a una cifra di 90 mila euro l’anno lordi: è l’accusa che la Procura di Bologna muove nei confronti di Zoia Veronesi, segretaria storica del segretario del Partito democratico, il filtro attraverso il quale era obbligatorio passare, la donna che teneva l’agenda, segnava gli incontri, selezionava gli aspiranti interlocutori. Una tegola che arriva in piena campagna per le primarie e che è destinata a occupare uno spazio nei dibattiti e i confronti a distanza tra Bersani e Matteo Renzi. Una polemica annunciata, visto che il sindaco di Firenze è da tempo che punzecchia Bersani sullo staff, tutto al libro paga del Pd. Figuriamoci con un’inchiesta per truffa aggravata che coinvolge una delle persone più vicine a Bersani, la sua agenda appunto, la donna che quando salutò Bologna e la presidenza della Regione, il politico di Bettola volle al suo fianco. Vicino a lui Veronesi fu anche nei due anni del governo Prodi, segretaria di Bersani ministro, prendendo un’aspettativa dalla Regione dove era assunta. Poi, caduto l’esecutivo nel 2008, questa l’accusa, avrebbe lavorato per almeno un anno e mezzo per il segretario Pd, ma con lo stipendio regionale e una qualifica di dirigente professional.
La Guardia di finanza, coordinata dal pubblico ministero Giuseppe Di Giorgio, ha ricostruito gli eventi, appurando che non esiste alcuna traccia della sua prestazione lavorativa in favore della Regione tra il 2008 e il 2009. Veronesi, che è stata invitata a rendere un interrogatorio che si terrà nei prossimi giorni, era stata distaccata con un provvedimento della stessa Regione a Roma, dove doveva intrattenere rapporti con le “istituzioni centrali e con il Parlamento”. Ma per gli inquirenti in quell’anno e mezzo non svolse in realtà nessuna attività per conto della ente di viale Aldo Moro.
L’INCHIESTA fu aperta nel marzo 2010, dopo un esposto del deputato di Fli, Enzo Raisi, nel quale si parlava di un incarico creato ad hoc per lei: la posizione che Veronesi andò a ricoprire, infatti, venne creata dal capo di gabinetto, Bruno Solaroli, il 27 maggio 2008 e il ruolo venne assegnato a Veronesi tre giorni dopo, il 30 maggio, nominandola “dirigente professional”. Quello stesso Raisi che oggi si può anche divertire sulla bufera che ha innescato: “Da garantista, dico che nessuno è colpevole sino a eventuale condanna, ma il fatto che un esposto abbia prodotto indagini mi conforta, perché vuol dire che non erano esposti strumentali come qualcuno disse allora. Detto ciò ricordo bene che quando presentai gli esposti fui rimproverato da Berlusconi pubblicamente in una sua visita a Bologna... che dire?. Solo che un parlamentare, sottolinea l’ex Pdl, “nel momento in cui viene informato di comportamenti illegali, ha il dovere di informare l’autorità giudiziaria. L’ho sempre fatto e continuerò a farlo”.
Secondo il legale di Veronesi, l’avvocato Paolo Trombetti, la donna “lavorava per la Regione a Roma e in quel periodo ha fatto solo attività volontaria per Bersani, fuori dall’orario di lavoro, tenendo la sua agenda. È una vicenda in cui nulla le può essere rimproverato”. Una posizione questa, che verrà ripetuta anche davanti ai magistrati.
SEMPRE CHE riescano a convincerli. Sicuramente, in giorni come questi, l’indagine non è uno degli antipasti che Bersani poteva aspettarsi. “Visto che c’è un esposto”, ha detto Bersani, “ancorché di Raisi, è giusto che la magistratura accerti. Sono comunque sicuro che le cose siano state fatte per bene”. Parole precedute da un annuncio ufficiale del Pd nel quale l’inchiesta è stata liquidata come vecchia, nonostante l’avviso di garanzia sia stato recapitato a Veronesi solo una settimana fa e in linea con quelli che sono i tempi della Procura di Bologna. Mastica amaro Bersani, mastica amaro la linea ufficiale del partito.
Proprio ieri, poi, il giorno in cui Editori Riuniti Internazionali, casa editrice vicina da sempre alla linea ufficiale del fu Bottegone, annuncia un libro a orologeria intitolato Rottamare Renzi, pamphlet di 127 pagine che demolisce ciò che di Renzi sembra il lato inespugnabile e incontrovertibile: essere una novità nel paludato mondo politico nazionale. Nel libro Renzi è definito l’epilogo della Seconda Repubblica.

Repubblica 25.10.12
Zoia Veronesi respinge le accuse. E i suoi amici scrivono su Facebook: attaccano te, ma il vero obiettivo è Pier Luigi
“Resterà solo il fango che mi buttano addosso ho sempre lavorato e non ho nulla da temere”
di Michele Smargiassi


BOLOGNA — Un’emiliana di ferro. Quando l’avvocato Paolo Trombetti l’ha informata, ieri, della spiacevole novità giudiziaria, Zoia Veronesi non ha fatto una piega: «Ho sempre lavorato, un sacco di persone mi hanno visto lavorare, non ho nulla da temere», gli ha risposto tranquilla. Del resto, quell’esposto le pende sulla testa da oltre due anni e non le ha mai cambiato l’umore. Ci vuol altro per una come “la Zoia”. A tutti basta quel suo nome emiliano, come emiliano doc è il suo pedigree politico.
Figlia di Protogene Veronesi, fisico, parlamentare del Pci negli anni Settanta, cresciuta a pane e politica, nessuno l’ha mai considerata solo “la segretaria di Bersani”. Piuttosto il braccio destro, la devota custode degli affari riservati, l’organizzatrice globale, l’efficiente depositaria dell’agenda, lo scudo che aveva l’autorevolezza per bloccare le telefonate anche dei pezzi grossi del partito: chiunque volesse “parlare con Pierluigi” passava dal suo filtro. Da vent’anni, quando non si sa dove trovare Bersani, si “chiede alla Zoia”. E solo lei, affabile, elegante, inflessibile, decide se farlo trovare o no. Sottovoce, ai tempi del ministero, deputati e dirigenti la ribattezzarono «il sottosegretario Veronesi». Quando Pierluigi Bersani, nel ’92 incontrò negli uffici regionali del partito la sua quasi perfetta coetanea (nata nel 1951, ventun giorni prima di lui), non ci fu bisogno di referenze («diploma di scuola media superiore, discreta conoscenza della lingua inglese» dicono le carte) per far scattare una fiducia infrangibile: un anno dopo, Bersani presidente della Regione Emilia-Romagna la volle con sé nello staff, e dopo ancora seguì a Roma, lei che si riteneva «una oscura provinciale », il ministro e il segretario Pd.
Una cosa è certa, che Zoia Veronesi ha sempre lavorato per Bersani anche oltre gli orari e le mansioni del suo lavoro vero e proprio. Nel 2003, quando i Ds bolognesi ancora in crisi per la perdita del Comune cercavano disperati un sindaco credibile per la rivincita, e il nome invocato da tutti era quello del «briscolone» Bersani, che però aveva tutt’altri progetti, fu lei a troncare le discussioni alzandosi in piedi in una tesa assemblea di partito al quartiere Navile, intimando ai più insistenti: «Ma perché non vi candidate voi, e lasciate in pace Bersani?».
Sulla sua bacheca Facebook, si deposita ora il sostegno di amici bolognesi: «Zoia siamo con te». Intuiscono che colpire lei vuol dire lambire il segretario Pd: «Gira fango per scopi non chiari ». Lei forse userebbe un’altra parola, quella che le venne spontanea in un’intervista di due anni fa, alla notizia dell’esposto: «Alla fine rimarrà solo la cacca che è stata tirata addosso a me».

il Fatto 25.10.12
Il problema non sono i fatti, ma il Fatto


L’Unità” preferisce prendersela con il Fatto piuttosto che con le esplicite dichiarazioni di uno dei suoi editori, Maurizio Mian. Il quale in un’intervista a questo giornale ha dichiarato tranquillamente di aver comprato le quote del quotidiano con dei capitali rientrati con lo scudo fiscale. Insomma, il problema è il Fatto, non la vicenda in sé. Tanto che l’Unità ricorda polemicamente che nel 2003 il direttore Padellaro, il vicedirettore Travaglio e l’autrice dell’articolo Marra erano rispettivamente “condirettore”, “autorevole commentatore” e “giornalista” di quel giornale. Sarebbe stato più logico criticare le dichiarazioni dell’azionista che proprio ieri alla Zanzara di Radio 24 ha detto di leggere poco il giornale sul quale ha messo parecchi quattrini. Ma si sa, il padrone non si tocca, soprattutto per evitare i morsi del cane Gunther.

il Fatto 25.10.12
Berlusconi scappa. L’ultima barzelletta
di Antonio Padellaro


Silvio Berlusconi ha tanti difetti, ma non è certo stupido. Da quando, proprio un anno fa, venne cacciato da Palazzo Chigi a furor di popolo e di spread, ha cercato in tutti i modi di rianimare un partito morto. Ha perfino messo in giro la voce di una sua ricandidatura a premier sperando in un sussulto dei sondaggi, ma la picchiata del Pdl non si è fermata.
Ora, mettetevi nei panni di colui che per quasi vent’anni si è sentito (ed è stato) il padrone dell’Italia, per tre volte presidente del Consiglio, ma in grado di gestire un potere assoluto anche dall’opposizione grazie a una sinistra compiacente, signore incontrastato delle tv, servito e riverito come neppure il duce ai suoi tempi, uno che ha fatto votare al Parlamento qualunque cosa (perfino Ruby nipote di Mubarak), un tipo che ha trasformato le istituzioni in un’orgia non soltanto metaforica. Ecco, mettetelo davanti alla prospettiva di guidare ancora un’armata politica di sbandati rissosi e popolata dai Fiorito e dalle combriccole dedite al furto di pubblico denaro. Perché mai questo anziano viveur dovrebbe desiderare di trascorrere le giornate con Cicchitto e la Santanchè mentre il suo impero si sbriciola e i processi incalzano? Insomma, ridotto com’è non gli restava altro che scappare velocemente dalle macerie del Pdl raccontandoci l’ultima barzelletta del passo indietro “per amore dell’Italia”. Quanto alle primarie, difficile pensare che non si risolvano in un regolamento di conti tra clan e fazioni accelerando la dissoluzione di un partito personale inventato sul predellino di un’auto e cementato dall’odio. Lui era già finito da tempo. Forse il giorno in cui ai vertici europei cominciarono a ridergli dietro. Adesso non gli resta che garantirsi uno straccio d’immunità con un seggio al Senato e sperare nella clemenza di Monti. A sua imperitura memoria resta il disastro a cui ha condotto il Paese.

il Fatto 25.10.12
Il senso di B. per il Senato
Lo slalom tra immunità e prescrizione
di Antonella Mascali e Caterina Perniconi


Chi conosce bene Silvio Berlusconi ci ha messo un attimo a capire che le sue parole non erano di certo un azzardo. Soprattutto processuale. “Guardate che Berlusconi ha detto che si dimette da premier, non da parlamentare”, chiarisce pochi minuti dopo l’annuncio la deputata pdl Jole Santelli in Transatlantico. “Andrà a Palazzo Madama come padre nobile del partito. Alla Camera resteranno i giovani, e fate attenzione a questa parola”.
Lo scenario è quello della rottamazione. Si può fare forse per tutti, nel Pdl, ma nessuno provi a farlo con lui. Perché a Berlusconi un seggio serve, e non soltanto per fargli indossare le vesti di senatore e padre nobile: gli serve soprattutto per conservare l’immunità. È sempre il palazzo di Giustizia di Milano a preoccupare di più Berlusconi. Tra oggi e domani è attesa la sentenza del processo sui diritti televisivi. L’ex presidente del Consiglio è accusato di frode fiscale, insieme al presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri, e ad altri imputati. Secondo l’accusa, sono stati gonfiati per anni i costi della compravendita dei diritti televisivi, allo scopo di accantonare fondi neri all’estero.
NEL CORSO DEL TEMPO, la prescrizione ha azzerato una parte dei reati. Restano in piedi le presunti frodi fiscali per il 2001, 2002 e 2003. Secondo i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, sono stati evasi 14 milioni di euro d’imposta. La procura ha chiesto una condanna a 3 anni e 8 mesi e Berlusconi rischia grosso, in caso di sentenza sfavorevole: l’eventuale pena, infatti, potrebbe diventare definitiva, prima che si apra il paracadute della prescrizione. In astratto, i tempi ci sono: la prescrizione scatta infatti nel-l’aprile 2014 e se si considera che questa settimana contestualmente al dispositivo della sentenza saranno presentate anche le motivazioni, si guadagnano 60-90 giorni. Restano dunque 18 mesi, che possono essere sufficienti per il processo d’appello e per arrivare al verdetto definitivo della Cassazione.
Entro dicembre, poi, potrebbe arrivare anche la sentenza sul caso che ha fatto il giro del mondo: le “cene eleganti” di Arcore, le feste del bunga-bunga e i suoi rapporti con la minorenne marocchina Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori. L’ex presidente del Consiglio è imputato di concussione (ha fatto pressioni sui funzionari della questura di Milano, chiedendo il rilascio della “nipote di Mubarak”, fermata per furto a Milano il 27 maggio 2010) e di prostituzione minorile (per averla inserita, minorenne, nel contesto sessuale delle feste di Arcore, pagandola).
SETTIMANA SCORSA, Berlusconi ha pronunciato dichiarazioni spontanee in tribunale, affermando di essere stato veramente convinto che Ruby, minorenne marocchina, fosse la nipote del presidente egiziano e di essersi “informato” presso i funzionari della questura per evitare un incidente diplomatico.
Sempre a Milano, Berlusconi ha in corso un altro processo che potrebbe andare a sentenza entro l’anno: quello in cui è imputato di rivelazione di segreto d’ufficio per la diffusione dell’intercettazione segreta, del luglio 2005, tra il presidente di Unipol, Giovanni Consorte, e il segretario dei Ds, Piero Fassino, che esclama: “Allora abbiamo una banca? ”. Quella registrazione (neppure trascritta per i magistrati che indagavano sulle scalate bancarie dei “furbetti del quartierino”) fu ascoltata ad Arcore la vigilia di Natale e poi pubblicata dal Giornale il 31 dicembre 2005.
A Bari, invece, il leader del Pdl è accusato, assieme al faccendiere Valter Lavitola, di aver indotto a dichiarazioni mendaci l’imprenditore Gian-paolo Tarantini, procacciatore di escort per l’ex presidente del Consiglio. Quattro procedimenti penali, quattro buoni motivi per restare in Parlamento.

il Fatto 25.10.12
Lo spot del Colle per Monti
Marco Revelli: “Irrituali mosse del Quirinale. Ma non avranno seguito”
di Silvia Truzzi


Di monito in monito, dove si arriva? Marco Revelli – politologo, professore all'Università del Piemonte Orientale – trova gli interventi del Colle decisamente “irrituali”: “Da qualche tempo vedo un protagonismo del Quirinale che va oltre i rigorosi confini attribuiti, in un sistema parlamentare, alla Presidenza della Repubblica”.
Professor Revelli, siamo diventati un po’ presidenzialisti?
Queste forme di intervento, addirittura in un campo tanto delicato come l'orientamento elettorale, pongono un problema. Voglio essere chiaro: non penso che il presidente abbia violato in modo formale la Costituzione. C'è però una trasformazione della nostra Costituzione materiale, di una pratica consolidata, in un ruolo che a me sembra più simile al semi-presidenzialismo. Oggi la situazione italiana lungo l'asse Palazzo Chigi-Quirinale mi sembra più simile, nella pratica, al modello francese.
Quando è iniziato?
È stato evidentissimo nella genesi del governo Monti. Da allora questo interventismo si è accentuato. Ciò di cui discutiamo oggi è perfettamente in linea con il ruolo che ebbe allora Napolitano: un ruolo da potere sovrano. Carl Schmitt, alla domanda su chi fosse il sovrano nella Repubblica di Weimar, rispose: “Chi decide nello stato d'eccezione? ”. Ecco, lo scorso anno Napolitano esercitò il potere sovrano.
Nel passaggio tra Berlusconi e Monti crede ci sia stato uno spostamento di baricentro tra i poteri?
Indubbiamente, con un indebolimento della sovranità del Parlamento. Anche se l'intervento di Napolitano probabilmente fu salvifico, non lo nego. Il Colle, bisogna dirlo, si mosse in un contesto in cui i partiti avevano fallito: di fronte a un rischio reale di default del nostro Paese i partiti erano impotenti. E si fecero ben volentieri da parte, rimettendo la patata bollente nelle mani del Quirinale. Ho l'impressione che quella situazione di fallimento dei partiti si prolunghi.
Infatti non protestano. Anzi...
Perché sono paralizzati dalle loro contraddizioni interne. Tutto questo impone un severo esame di coscienza alla presidenza della Repubblica, ma anche alle forze politiche e anche a noi che ne siamo i critici.
Ci sono dei rischi?
Vedo dei rischi nella liquefazione del sistema politico e nella supplenza sempre più intensa della presidenza della Repubblica, di fronte alla crisi della rappresentanza politica.
Un atteggiamento de-responsabilizzante per il Parlamento.
Certo, ma non dimentichiamo che l'elettorato sarà chiamato a giudicare. E io credo che il corpo elettorale punirà severamente questi partiti che hanno abdicato al compito di far funzionare un potere sovrano come il Parlamento. L’hanno riempito di inquisiti e pregiudicati e svuotato di responsabilità. Gli appelli al voto premiale rispetto alle politiche del governo Monti, appartengono alle retoriche di rassicurazione: non credo però che troveranno sostegno. Il buon lavoro svolto dal governo Napolitano...
... il governo Napolitano?
Che lapsus! Volevo dire Monti. Ma forse non è così sbagliato chiamarlo Monti-Napolitano, visto com’è nato. Comunque quel lavoro ha dato buoni frutti nel campo della finanza pubblica e di quella privata che se è giovata. Ma è stato pagato duramente nel mondo del lavoro, nel mondo dei bisogni e dei servizi: penso alla sanità e allo stato sociale. Ogni volta che ascoltiamo un'esternazione di questi ministri, quello che scandalizza è la radicale insensibilità sociale. Alcune ministre ricordano la Maria Antonietta delle brioches, con una assoluta cecità nei confronti della parte sofferente del Paese. Non so se apprezzeranno il lavoro dei tecnici gli esodati, i giovani che si sono sentiti dare degli schizzinosi o i cittadini di Taranto che si sono sorbiti le esternazioni del ministro Clini: non s'è mai visto un ministro dell'Ambiente così ostile all'ambiente e così legato alla proprietà.

il Fatto 25.10.12
Lettera a Vietti
Anticorruzione, il capo dello Stato bacchetta il Csm
Non è piaciuto il parere negativo sulla legge approvata al Senato
di Antonella Mascali


Non disturbate il manovratore. Sembra questo il messaggio subliminale lanciato dal presidente Giorgio Napolitano attraverso la lettera al vicepresidente del Csm Michele Vietti in cui critica i consiglieri per il parere – negativo – sul disegno di legge anticorruzione. Naturalmente Napolitano non entra nel merito del documento, ci mancherebbe altro, ma nella sostanza accusa il Consiglio di aver leso le prerogative della politica. Certo, il Csm gli ha “alzato la palla”: ieri ha votato un parere solo a legge approvata già a metà. Avrebbe potuto, invece, esprimersi a giugno, dopo il primo sì della Camera, e magari un altra volta dopo il maxiemendamento del governo, presentato in Senato poco prima del voto della settimana scorsa. Ha scritto Napolitano: “I pareri del Csm sui disegni di legge devono essere espressi in termini e in tempi rispettosi della sovranità del Parlamento, non interferendo nella fase culminante del libero confronto parlamentare”. Ma ai tempi della riforma dell'ordinamento giudiziario Castelli-Mastella il Csm diede più pareri durante l'iter parlamentare, man mano che cambiava il testo. La lettera contiene anche una censura alla stampa. Napolitano si lamenta delle anticipazioni proprio in merito al parere sulla legge anticorruzione: “Non posso tacere il mio forte disagio e rammarico per l’avvenuta pubblicazione su un importante e diffuso quotidiano (Repubblica e Sole24Ore, ndr) del testo di una bozza di parere che la competente commissione del Csm non aveva esaminato e tanto meno approvato”. E ancora: “Quello che è accaduto nei giorni scorsi non può non considerarsi lesivo del prestigio del Csm, prestandosi a dannose strumentalizzazioni e speculazioni e non giovando di certo al consolidamento di un importante istituto (quello del parere, ndr)” . Quindi raccomanda ai consiglieri di osservare “rigorosamente la regola di riservatezza”. Ieri, comunque, il plenum del Csm ha votato il parere licenziato lunedì dalla commissione Riforme. Un parere per nulla “positivo”, contrariamente a quanto si affanna a dire Vietti. Le pene per i nuovi reati, traffico di influenze e corruzione privata, il binario doppio per la concussione, per costrizione o induzione, l'assenza del reato di autoriciclaggio, la mancata “radicale riforma della prescrizione” che manda al macero almeno 170 mila processi l'anno, svuotano questa legge che dovrebbe punire ed essere anche un deterrente. Per esempio: di per sé i reati di traffico di influenze e corruzione “costituiscono un utile arricchimento dell’armamentario punitivo dello Stato...”. Peccato, però, che le pene previste li fanno diventare inutili. La pena massima a 3 anni “preclude l’utilizzo delle intercettazioni che sono di fondamentale utilità”. Non si può neppure procedere all'arresto utile “a interrompere le contiguità...”. In merito alla concussione, il Csm critica la differenza di pena tra quella per costrizione (fino 12 anni) e quella per induzione (fino a 8 anni). Dunque quest’ultima, la più diffusa, si prescrive non più in 15 ma in 10 anni. “Ciò oggettivamene costituisce un arretramento”. Quanto alla pena prevista anche per la vittima di concussione per induzione (fino a 3 anni), avrà come effetto quello di “ostacolare le indagini”. Inoltre il Csm chiede una modifica del reato di voto di scambio per colpire efficacemente “la corruzione politico-mafiosa”.

l’Unità 25.10.12
Battaglia in Senato
Diffamazione, scontro sulla legge-capestro
Commissione: sono 140 gli emendamenti al testo
Il Pd: ridurre multe e durata dell’interdizione Fnsi: mobilitazione continua
di Natalia Lombardo


Dall’emendamento contro la denuncia dei «festini», alla mannaia su siti web e blog, dalle supermulte ai direttori di giornali messi in castigo per tre anni senza poter esercitare la professione. Travalicando le norme che già regolano la diffamazione e l’obbligo di rettifica, il disegno di legge «salva-Sallusti» sta diventando l’occasione buona, soprattutto per i parlamentari Pdl, per vendicarsi di ogni articolo di stampa o servizio tv che abbia messo sotto lente di ingrandimento meccanismi e distorsioni nel funzionamento del sistema politico, economico, finanziario. Una trappola che imbavaglia la stampa e il web, e sono sempre più le voci di chi propone di non legiferare in fretta su un tema così delicato e limitarsi a cancellare quell’antica (e fascista) punizione con il carcere per chi diffama.
LEGGE VENDETTA
Ieri il testo di quella che ormai è stata chiamata «legge-vendetta» è arrivato in aula al Senato, dove è cominciata la discussione generale. Allo scadere delle 12 sono stati depositati ben 140 emendamenti. Un gruppo bipartisan di senatori del Pd e del Pdl, è intenzionato a fermare l’iter superveloce del ddl (la corsia preferenziale era stata aperta per evitare l’arresto del direttore del Giornale) e far tornare il testo in commissione Giustizia a Palazzo Madama, per «approfondimenti».
Secondo Gentiloni, deputato Pd, la cosa da fare è «stralciare» la norma che prevede il carcere e buttare nel cestino il resto della legge. Infatti spiega che alla Camera la «norma urgente che impedisce il carcere per il direttore del Giornale può essere inserita in uno dei decreti di conversione» , perché il testo in discussione al Senato è «una minaccia per libera informazione e per testate e siti web, deve tornare in commissione. Non ha senso colpire tutti i giornalisti per salvarne uno». I relatori, Berselli del Pdl e Della Monica del Pd si rimettono alle decisioni dell’aula del Senato, e la prossima settimana il ddl sarà calendarizzato alla Camera. «Si sta lavorando non per tornare in commissione, ma per arrivare ad un’intesa. dice il capogruppo Pdl Maurizio Gasparri. «Molte questioni sono state chiarite ha detto ma restano ancora dei nodi da sciogliere come quello del web che è il tema più complesso di tutti. Non è detto poi che il voto debba essere unanime».
Il Pd ha presentato 14 emendamenti, alcuni firmati dalla capogruppo Anna Finocchiaro e dal vice Luigi Zanda: l’abbassamento delle multe da 100mila a 50 mila euro al massimo (Vita Casson), un altro, a firma Casson, riduce l’interdizione dalla professione per recidiva al massimo di un anno (il testo ne prevede tre).
Vincenzo Vita propone di escludere le testate web dall’obbligo di rettifica, o di pubblicarla «dopo un ragionevole tempo» e collegata all’articolo incriminato. Un altro emendamento (VIta-Finocchiaro) chiede di sopprimere la restituzione dei contributi pubblici alle testate che ricevono la condanna per diffamazione.
Contrari alle restrizioni anche l’Idv, Fli e l’Udc, Fra le assurdità l’emendamento del Pdl Malan, che vorrebbe moltiplicare per cinque le pene nel caso si «denuncino inefficienze» delle Camere o «eccessi di spese non reali i festini dei consiglieri del Lazio o paragoni con altri Parlamenti europei che possono screditare le istituzioni italiane», denuncia l’Idv Li Gotti che battezza l’emendamento «pro-casta». No, è «anti-menzogne», ribatte il senatore Pdl.
A tarda sera era ancora in corso la riunione dei capogruppo. La vicepresidente del Senato Emma Bonino ha aggiornato i lavori dell’aula a stamane: si riprende alle 9 e 30.
L’ORDINE DEI GIORNALISTI
Se questa legge passerà l’Ordine dei giornalisti ricorrerà alla Corte di Strasburgo, avverte il presidente, Enzo Iacopino, e questo non vuol dire che si voglia «l’impunità», ma ricorda le migliaia di «giornalisti sfruttati da editori contro i quali lo stato continua a non fare nulla», che devono lavorare dieci anni per mettere insieme le cifre previste dalle multe. La Federazione della Stampa annuncia nuove battaglie come quelle che fermarono la legge sulle intercettazioni con il governo Berlusconi.

l’Unità 25.10.12
Il bromuro all’informazione
di Luca Landò


Attenzione, quello che state per leggere è un articolo diffamatorio. Perché nelle righe finali contiene affermazioni vere ma che risulteranno sicuramente sgradite ad alcune persone. E il punto è proprio questo.

Se il disegno di legge sulla diffamazione che il Senato sta esaminando in queste ore dovesse entrare in vigore senza modifiche, un articolo in qualche modo scomodo o sgradito potrà facilmente venire considerato diffamatorio: a quel punto per il giornalista che l’ha scritto e il giornale che l’ha pubblicato si aprirebbero le porte di un inferno burocratico, economico e penale. A cominciare dalla rettifica, che secondo le norme in esame dovrebbe essere pubblicata entro due giorni senza commento e senza tagli: anche se falsa, anche se non documentata, anche se dovesse occupare intere pagine di giornale. Bisogna stamparla e basta. In caso contrario, il direttore si vedrebbe arrivare un ordine di pubblicazione e una sanzione da 15.000 a 25.000 euro. Se poi la notizia è stata pubblicata su un sito, chi si ritiene diffamato può chiederne l’immediata cancellazione dai motori di ricerca, pena un altro ordine di rimozione e una multa da 5.000 a 100.000 euro. Poco importa che il sito abbia ragione e il richiedente abbia torto: prima si toglie, poi si discute.
Superata la fase della rettifica obbligatoria che a differenza di quanto avviene in altri Paesi non servirà a evitare la causa l’autore di un articolo “diffamatorio” rischia di vedersi comminata una sanzione da 5.000 a 100.000 euro con l’obbligo da parte dell’editore di risarcire un danno che non potrà mai essere inferiore a 30.000 euro.
Calcolando che un giornale riceve in media 50-70 querele l’anno, la legge proposta provocherebbe un fatto tanto prevedibile quanto inaccettabile: che mentre le grandi testate potranno comunque scegliere se correre o meno il rischio di affrontare una causa per diffamazione, i giornali medio-piccoli dovranno starne ampiamente alla larga onde evitare di affossare bilanci sempre più in bilico soprattutto in questi tempi di crisi. Un bromuro legislativo su redazioni e libertà di informazione, insomma, ma che solo i grandi gruppi editoriali potrebbero avere la forza di rifiutare. Sempre che vogliano, ovviamente.
Andiamo avanti? Il giornalista che sbaglia, anche se in buona fede, viene trattato come un diffamatore di professione, perché entrambi vengono sospesi dal lavoro (e dallo stipendio). L’unica differenza riguarda la durata della sospensione: da uno a sei mesi se si tratta della prima condanna, da sei mesi a un anno per la seconda e da uno a tre anni per le diffamazioni prodotte in serie.
È vero, il disegno di legge contiene un aspetto positivo perché non prevede più il carcere per chi diffama, tanto che qualcuno l’ha definita legge salva-Sallusti. Peccato che questo innegabile passo avanti sia accompagnato da molti, inaccettabili balzi indietro.
Per liberare un giornalista, insomma, si finisce per ingabbiare tutta l’informazione. Lo hanno detto a chiare lettere commentatori di ogni schieramento politico e provenienza: «Un attentato alla libertà di stampa, una follia assoluta, norme allucinate» (Carlo Federico Grosso, docente di diritto penale); «Un’azione liberticida e dal sapore fascista», (Roberto Siddi, segretario della federazione nazionale della stampa); «L’interdizione dalla professione è fascistoide» (Mauro Paissan); «Una legge pericolosa, una minaccia» (Paolo Gentiloni); «Una normativa intimidatoria, un’indole vendicativa» (Vittorio Feltri), «Norme assurde e pericolose, un disprezzo assoluto per la libertà di stampa» (Giulio Anselmi, presidente della federazione degli editori).
Frasi dure ma realmente pronunciate e che qualcuno, gli autori del disegno di legge ad esempio, potrebbe d’ora in avanti ritenere sgradite se non diffamatorie. A meno che le norme che il Senato sta discutendo in questo momento non vengano cestinate e riscritte. Prima che sia troppo tardi.

il Fatto 25.10.12
L’intervista. L’ex presidente Baldi
“Maxxi importante la politica lo rivuole”
di Alessandro Ferrucci


Appetibile. “Improvvisamente è diventato appetibile, quasi centrale. Strano, no... ”. Ironico, sarcastico, con venature di malinconia, l’ex presidente del Maxxi, Pio Baldi, offre la sua lettura riguardo alla nuova ondata di celebrità per la struttura museale romana dopo la nomina di Giovanna Melandri.
È stupito per l’arrivo di un politico?
Non ci avevo pensato, immaginavo più una figura legata al mondo economico, magari un banchiere, o un grosso industriale. Insomma, chi poteva garantire finanziamenti importanti.
Perché?
Il Maxxi deve cercare investitori, stipulare accordi, sponsorizzazioni. Emanciparsi dai soldi pubblici.
Ma qual è il vantaggio nel diventare presidente?
Dà un grandissimo potere di comunicazione. In un articolo del 2010 il New York Times ha scritto: cari cittadini americani, se andate a Roma, non mancate di visitarlo.
Quindi relazioni internazionali.
Eccome! Con tutti i grandi poli museali del mondo. Ma voglio togliermi un sassolino.
Quanto grande?
Abbastanza. Vede, tutto quello che abbiamo costruito in questi anni sembra scomparso dai comunicati o dalle dichiarazioni. Come se il museo fosse stato portato e consegnato dagli angeli.
Lei è stato costretto alle dimissioni nel maggio di quest’anno per una sofferenza economica della struttura.
Il bilancio consultivo del 2011 era in attivo di oltre un milione e 600 mila euro, i numeri sono on line, forse si sono dimenticati di toglierlo. Quello preventivo del 2012 non l’ho firmato.
In conferenza stampa hanno parlato di risanamento.
Chi lo dice è disonesto intellettualmente. Ma lei sa come lo hanno ottenuto?
Ce lo dica lei...
Con un milione di euro del ministero e altri quattrocentomila dalla controllata dello stesso Mibac.
A breve gireranno molti milioni attorno al Maxxi.
Si riferisce alla costruzione di quello che probabilmente sarà il Palazzo Fendi?
Proprio quello.
Sì, parliamo di 25 milioni per l’edificazione e altrettanti per occupare l’area.
Il presidente avrà il potere di valutare le offerte?
Tutto secondo la legge degli appalti pubblici, con concorso. Soldi privati in bene pubblico.
Questa formula l’ho pensata io per emancipare la cultura dal solo intervento dello Stato. Ma attenzione: un museo pubblico deve mantenere la sua indipendenza. Se le entrate sono troppo vincolate all’intervento di esterni, saranno quest’ultimi a dettare la linea. E questo soprattutto quando parliamo di una struttura dedicata all’arte contemporanea, dove la creatività deve stare al primo posto.
Torniamo all’assegno da un milione e quattrocento staccato dal Mibac per il Maxxi. Non potevano farlo con lei dentro?
Evidentemente il ministero aveva deciso che era giunto il momento di gestire in prima persona una struttura che iniziava a dare grosse soddisfazioni. Però vorrei specificare una cosa.
Prego.
Come già detto, il Maxxi non è spuntato all’improvviso: da Veltroni ministro della Cultura in poi c'è stato un lavoro di anni nel quale ognuno ha dato il suo contributo, in maniera attiva. Tra questi non dimentichiamo i funzionari.
Anche la Melandri è stata così attiva quando era responsabile del Mibac?
Certo. E comunque a lei voglio porgere i miei auguri. Il Maxxi è nel mio cuore.

l’Unità 25.10.12
L’olocausto di Rom e Sinti ricordato dalla Merkel
di Virginia Lori


«Questo monumento ci ricorda un popolo troppo a lungo dimenticato» e un’olocausto dimenticato: con queste parole la cancelliera tedesca Angela Merkel ha inaugurato ieri un memoriale dedicato ai 500mila Rom e Sinti sterminati dai nazisti tedeschi, promettendo inoltre di difendere la minoranza dalle discriminazioni di cui ancora oggi è vittima in Europa.
«L’omaggio alle vittime comprende inoltre una promessa, quella di proteggere una minoranza, un dovere per oggi e domani», ha aggiunto Merkel parlando davanti a Rom sopravvissuti nei campi di concentramento, alle loro famiglie e a deputati tedeschi. «I Rom soffrono ancora oggi di discriminazioni e rifiuto, devono ancora oggi battersi per i loro diritti ha ribadito la leader tedesca, promettendo è dovere della Germania e dell’Europa sostenerli».
Il memoriale ai Sinti e ai Rom, ideato dall’artista israeliano Dani Karavan, si trova di fronte al Reichstag, il Parlamento tedesco, non lontano da quello per le vittime della Shoah e da quello dedicato agli omosessuali uccisi nel corso del Terzo Reich. È costituito da un pozzo con al centro una stele sulla quale verrà posato ogni giorno un fiore appena colto.
Alla cerimonia ha partecipato anche il rom olandese Zoni Weisz, sopravvissuto all’inferno di Auschwitz, dove invece sono periti i suoi genitori, la sorella ed un fratello. «Grazie per essere oggi tra noi», ha affermato in tono commosso la Merkel rivolgendosi al settantacinquenne sopravvissuto aggiungendo che il ricordo delle «inimmaginabili sofferenze» della comunità Sinti e Rom ad opera dei nazisti provocano «dolore e vergogna». «Il massacro subito dai Sinti e dai Rom ha lasciato tracce profonde e ferite ancora più profonde», ha concluso la cancelliera Merkel a 67 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale.

La Stampa 25.10.12
Berlino, un memoriale anche per i rom
Inaugurata nel Tiergarten una fontana dedicata alle vittime dell’«Olocausto dimenticato»
di Alessandro Alviani


L’olandese Soni Weisz, 75 anni: «La società nulla ha imparato da quanto è accaduto allora»
500.000 sterminati Secondo gli storici, i rom e i sinti perseguitati perché «di razza inferiore» sono tra 220mila e 500mila
11.000.000 oggi in Europa La maggioranza dei Rom e Sinti vive negli Stati centro-orientali : Romania, Bulgaria, Ungheria e Slovacchia

Berlino Il luogo del ricordo all’«Olocausto dimenticato», come lo definisce il sopravvissuto Soni Weisz, è nascosto dietro una fila di alberi, che lo rendono invisibile a chi si trovi a passare di lì per caso. Solo un paio di pannelli trasparenti rivolti in direzione del Reichstag, che si erge dall’altra parte della strada, tradiscono la sua presenza. Al di là degli alberi e dei due pannelli c’è una fontana di 12 metri di diametro, con al centro una pietra triangolare sormontata da un fiore, che verrà sostituito ogni giorno da uno fresco. Tutt’intorno i versi della poesia «Auschwitz», composta dal musicista rom italiano Santino Spinelli. Eccolo, il memoriale ai sinti e rom uccisi dai nazisti, inaugurato ieri a Berlino. Un memoriale «che ricorda un gruppo di vittime che per troppo tempo è stato preso in considerazione troppo poco», ammette la cancelliera Angela Merkel nel suo intervento.
Ci sono voluti vent’anni per inaugurarlo: anni di scontri con l’artista israeliano che l’ha creato, Dani Karavan; anni di fratture tra gli stessi rappresentanti delle vittime, divisi tra quanti, come la presidente dell’Alleanza dei sinti, Natascha Winter che proponeva per l’iscrizione la denominazione «zingari» e quanti, come il Consiglio centrale dei sinti e rom, respingeva quella definizione come discriminatoria.
Che cosa sono però vent’anni rispetto ai quasi cinquanta che la Germania ha impiegato per riconoscere ufficialmente questo genocidio? Un passo avvenuto solo nel 1982, due anni dopo che un gruppo di dodici rom, tra cui cinque sopravvissuti ai campi di concentramento, iniziò uno sciopero della fame. Tra loro c’era anche Romani Rose, oggi presidente del Consiglio dei sinti e rom. «In Germania non c’è una sola nostra famiglia che non abbia perso dei parenti, questo plasma ancora oggi la nostra identità», ha detto ieri. Le stime parlano di mezzo milione di sinti e rom ammazzati dai nazisti. Da quel genocidio «la società non ha imparato nulla, quasi nulla, altrimenti oggi ci si comporterebbe in modo diverso nei nostri confronti», constata amaramente Soni Weisz, che ad Auschwitz ha perso i genitori e i fratelli. «Anche oggi sinti e rom soffrono l’emarginazione e il rifiuto», aggiunge Merkel.
Il memoriale, costato 2,8 milioni di euro, si trova nel cuore di Berlino, su un fianco del Reichstag. A non più di duecento metri dall’opprimente mare di stele grigie che compongono il Memorial agli ebrei vittime dell’Olocausto, inaugurato nel 2005; di fronte, si erge, seminascosto dagli alberi del Tiergarten, una grossa stele asimmetrica con una sola apertura, una finestra al di là della quale scorre un video in cui coppie di uomini e donne si baciano con passione: il monumento agli omosessuali perseguitati dai nazisti. Una scelta che si spiega con una decisione presa in passato dalla Germania: quella di non dedicare un unico memoriale centrale ai diversi gruppi di vittime della follia nazista.

l’Unità 25.10.12
Doc d’autore al Medfilmfest
Il conflitto israelo-palestinese in due film sorprendenti
«The invisible Policeman» storia di un poliziotto palestinese di Ebron e «Soldier/Citizen» tra i giovani militari di Israele
di Gabriella Gallozzi


CRONACHE DI QUOTIDIANA VIOLENZA, SOPRUSI E SEGREGAZIONE RAZZIALE. NEL GIORNO IN CUI IL QUOTIDIANO ISRAELIANO HA'ARETZ PUBBLICA lo sconcertante sondaggio che dice di una maggioranza della popolazione di Israele favorevole all’Apartheid per i palestinesi, il cinema, quello del reale, ci racconta due storie emblematiche. Stiamo parlando, infatti, di due documentari, inediti in Italia, passati ieri al MedFilm Festival di Roma, storica rassegna (è alla 18esima edizione) capace di offrire sguardi fondamentali alla comprensione del nostro presente. Come due facce della stessa medaglia ecco il palestinese The Invisible policemen di Laith al-Juneidi e l’israeliano Soldier/Citizen di Silvina Landsmann, programmati insieme dal curatore della sezione doc del festival Gianfranco Pannone.
PER LE STRADE DI EBRON
Nel primo film, straordinario, seguiamo il paradosso che vive quotidianamente Nidal, poliziotto palestinese di Ebron. In questa città, considerata il punto di partenza dell’ebraismo, le poche centinaia di israeliani che ci vivono tengono in pugno l’intera popolazione palestinese. Spingendola via via, fuori dal centro storico, praticamente assediato dall’esercito. Nidal è uno dei residenti che da anni subisce le aggressioni israeliane. La sua casa già incendiata una volta, uno dei suoi nove figli morti e ogni, giorno, al suo ritorno nel quartiere l’obbligo di levarsi le mostrine da poliziotto, perché per quelle strade sono i soldati israeliani ad avere il controllo. Così è sorprende seguire Nidal che va al lavoro ogni mattina, impegnato magari in azioni di ordine pubblico, arresti, pattugliamenti e poi, una volta a casa, spogliarsi delle mostrine, vittima lui stesso di una totale e più grande ingiustizia. Mentre le sue figlie, ragazzine appena, gli chiedono: «papà oggi hai sparato? Hai arrestato i mascalzoni?». E lui, «poliziotto invisibile», come suggerisce il titolo stesso, sorridere loro da padre amorevole e comprensivo. Paradossi imposti da una situazione paradossale che si perpetra nel tempo. E che, col passare degli anni, imbarbarisce ancora di più gli animi. È difficile poter pensare ad un futuro di pace per il Medioriente, infatti, vedendo Soldier/Citizen l’altro, documentario. Quello israeliano e girato in Israele all’interno di una classe di studenti-soldato che, al termine del servizio militare, possono approfittare per completare i loro studi. Per tre settimane l’educazione civica, sì proprio quella, diventa la materia fondamentale per questi ragazzi educati prima di tutto a tenere il fucile in mano. Anche in questo caso è il paradosso il cuore del film. I giovani soldati dopo aver imparato la guerra, imparano o meglio, dovrebbero imparare il significato di parole come «diritti civili», «diritti umani», «pluralismo democratico», «discriminazioni», per dare uno spiraglio, una chance almeno alla risoluzione del conflitto israelo-palestinese.
L’insegnante è lì democratico, aperto. A dire che prima di essere soldati bisogna essere persone capaci di dialogare con l’altro. A farli discutere quei ragazzi e ragazze, giovani, impegnati, con tutto il futuro davanti. Ma è solo il prof a pensarla così. Le risposte dei ragazzi sono più o meno tutte uguali: gli arabi sono terroristi, banditi e la democrazia vale a senso unico, cioè solo per loro. Come del resto rivela il sondaggio riportato da Ha'aretz. Il Medfilmfestival, diretto da Ginella Vocca, proseguirà fino al 28 ottobre, con un calendario molto ricco. Della selezione di undici, documentari, del resto, nove sono inediti in Italia. Tra questi segnaliamo domani (ore 18 Casa del cinema) Il santo nero di Antonio Bellia, storia di una coppia di africani ad Agrigento. Sabato, poi, sarà la volta di una ricca tavola rotonda sulle primavere arabe.

Repubblica 25.10.12
I segreti della seconda Rivoluzione cinese
Siamo alla vigilia del 18° Congresso del partito comunista, chiamato a scegliere i nuovi “principi rossi”. Dopo il pensionamento di Hu Jintao
I nuovi padroni di Pechino
di Giampaolo Visetti


Tra scandali politici e il dilemma tra capitalismo di Stato e liberismo sfrenato
La locomotiva rallenta, il sistema importa problemi e la libertà viene soffocata

Giorni fa sono tornato a visitare il mausoleo di Mao Zedong, al centro di piazza Tienanmen. Per transitare in pochi istanti davanti alla sua mummia, ho condiviso tre ore di coda con altre migliaia di cinesi. Molti mi hanno mostrato le loro reliquie: fotografie, vecchi esercizi di calligrafia e poesie del Grande Timoniere, fogli che inneggiavano a un ritorno della patria ai valori maoisti. Nessuna critica, dopo oltre sessant’anni. Tra la gente il mito di Mao si rafforza, assieme alla domanda di adottarlo come esempio per combattere le ingiustizie. Qualche compagno di pellegrinaggio ha timidamente convenuto che se Mao fosse ancora vivo, oggi non regnerebbe su Pechino, ma languirebbe in qualche ignoto carcere alla periferia dell’Impero.
Un funzionario locale mi ha ricordato che un vecchio ha rischiato di essere linciato dalla folla per aver insultato pubblicamente Mao. Nessun leader, al contrario, ha difeso il padre della repubblica: e per la prima volta, due giorni fa, un importante documento della leadership si è dimenticato di ricordarlo.

I cinesi venerano la loro icona defunta, ma il loro successo economico si fonda sulla sua negazione e negli ultimi trent’anni le autorità hanno mantenuto la stabilità grazie all’impegno a demolire scientificamente il sistema-Mao. L’incertezza, le contraddizioni e il mistero che incombono sulla piazza davanti alla Città Proibita, sospesa tra la nostalgia del socialismo e l’orgoglio per le conquiste del capitalismo, sono così le stesse che in queste ore scuotono il potere della seconda superpotenza globale. L’8 novembre, si aprirà il 18° Congresso del partito, chiamato ad avviare il decennale passaggio del potere. Come nel mausoleo di Mao, le apparenze celano la realtà. La propaganda è impegnata ad imporre l’idea di una «transizione pacifica e armoniosa », sostenuta da una massa soddisfatta. I fatti rivelano invece un partito e un sistema-Cina in frantumi, divisi dalle scelte sul futuro e dalla valutazione del presente, tra la trincea del collettivismo e l’abbandono al liberismo. L’unico dato certo è che il congresso sancirà, a partire da marzo, il pensionamento del presidente Hu Jintao, del premier Wen Jiabao e di sette su nove dei leader che dal 2002 hanno guidato la Cina. Tutto il resto è un enigma e gli stupefacenti scandali scoppiati a partire da febbraio contribuiscono ad accrescere la debolezza dei mercati finanziari e l’allarme della comunità internazionale.
A meno di catastrofici colpi di scena, fino al 2022 l’attuale vicepresidente Xi Jinping succederà a Hu Jintao e l’attuale vicepremier Li Keqiang prenderà il posto di Wen Jiabao. In un sistema complesso come l’autoritarismo capitalista di Stato, questa è però solo la parte meno interessante della notizia. In queste ore l’esercito popolare di liberazione, il più grande del pianeta con oltre due milioni di effettivi, sta cambiando sette tra i dieci generali più potenti. Saranno questi nuovi militari a difendere il nascente potere, proiettando la rinata egemonia cinese nel Pacifico e verso Occidente. Due giorni dopo l’elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti, in carica per cinque anni, Pechino comunicherà poi i nomi dei suoi leader per i prossimi dieci, ma pure di quelli già investiti della successione fino al 2032. Dopo Xi Jinping e Li Keqiang verrà qualcuno che tra pochi giorni vedremo ascendere nell’élite della tecnocrazia collegiale che domina la seconda economia del pianeta.
La lotta per il potere ventennale è la ragione dei sismi politici che in queste ore scuotono la Cina, facendo trattenere il fiato alla diplomazia straniera. Alla Casa Bianca il potere dura cinque anni e viene considerato prevedibile. Nel fortino a sud della Città Proibita viene pianificato per un ventennio e la classe dirigente cinese si proietta nell’ignoto. A ciò si aggiunge la congiuntura straordinaria del 2012 in Asia. Dopo la Cina, entro poche settimane cambieranno leadership anche Corea del Sud e Giappone. La mappa dei grandi decisori della terra uscirà rivoluzionata.
L’opinione pubblica dell’Occidente, distratta dalla spettacolarità delle elezioni Usa, fatica a cogliere la portata del mutamento segreto in corso ad Oriente. Il destino di tutti, in questo secolo, sarà determinato però dalle scelte che in questi giorni vengono opacamente adottate dal partito comunista cinese, decisive anche sul voto a Seul e a Tokyo. Ipotecare vent’anni, nella civiltà del web, è un’impresa disumana. La Cina è reduce da una crescita economica senza precedenti e la sua ascesa è il fatto più importante dopo il crollo dell’Urss. Anche il decennio di Hu Jintao e di Wen Jiabao, è la storia di un successo commerciale. La propaganda di Pechino l’ha battezzato «decennio d’oro». La Cina ha superato i record di tutti in quasi tutto, ha salvato Usa e Ue dal crollo e continua a saldare i nostri debiti. Gli stessi cinesi concordano però su un punto: il modello-export è esaurito, la locomotiva frena, il sistema importa problemi e rivela che al «decennio d’oro» dell’economia è corrisposto il «decennio perduto» della politica. Hu Jintao, con il mantra del “weiwen”, il “mantenimento della stabilità”, ne è il simbolo più grigio. Per conservare la dittatura del partito si è limitato ad applicare i piani economici
varati da Jiang Zemin negli anni Novanta. Il prezzo del trionfo del business è stata la stagnazione politica. La Cina ha scalato le classifiche della ricchezza, ma è precipitata in quelle della libertà, della giustizia sociale e dei diritti umani.
La sproporzione tra peso commerciale e dimensione politica è il nodo drammatico che giunge al pettine del Congresso alle porte.
Hu Jintao e Wen Jiabao escono di scena esibendo le Olimpiadi di Pechino, l’Expo di Shanghai e il Nobel per la letteratura di Mo Yan, icone del nuovo soft-power economico-culturale dell’impero che guida il pianeta post-americano. Se ne vanno ricordando però anche i volti del Nobel in carcere Liu Xiaobo, del Dalai Lama in esilio da un Tibet nuovamente in fiamme e di Bo Xilai, il leader della sinistra epurato per evitare «di condannare la Cina ad una nuova rivoluzione culturale». I media di Stato sono dunque costretti ad ammettere che la transizione affida ai nuovi leader un mandato epocale: «Promuovere subito riforme strutturali e aperture sostanziali in ogni campo». Questioni essenziali, confidano accademici illuminati, rischiano di «far venire l’infarto ad un gigante economico rimasto un nano politico »: la corruzione del potere, le differenze tra ricchi e poveri, i rancori etnici, la repressione del dissenso, la distruzione dell’ambiente, l’avvelenamento del cibo. La domanda che si aggira sopra piazza Tienanmen è se Xi Jinping e Li Keqiang, i nuovi “principi rossi” cresciuti non con Mao Zedong, ma Deng Xiaoping, sono gli uomini giusti per accendere il motore delle riforme politiche e dello Stato di diritto in una Cina che economicamente non può resistere altri vent’anni costruendo solo fabbriche e grattacieli. A Pechino simili dilemmi fanno sorridere. Qui ci si limita a registrare gli ultimi accadimenti: lo scoppio dello scandalo Bo Xilai, con la sconfitta del neomaoismo che aveva messo sotto accusa «un potere senza più ideali », il boom delle spese per sicurezza e forze armate, la temporanea scomparsa di Xi Jinping, l’isolamento di Tibet e Xinijang, la ripresa delle dispute territoriali nel Pacifico, la nuova repressione contro dissidenti e popolo del web.
Questa tesa e ritardata vigilia congressuale, segnata dal tentativo della sinistra di salvare l’immunità di Bo Xilai, restituisce così l’immagine di una Cina più attenta a conciliare gli interessi di nuovi ricchi e crescente ceto medio, piuttosto che decisa a varare le riforme che possono costruire una moderna nazione sviluppata, fondata su una concezione universale della democrazia di mercato. Il partito resta dominato dal terrore atavico dell’instabilità e delle rivoluzioni che travolgono le dinastie: «Difende l’imperatore – ha scritto l’archistar Ai Weiwei – ma non semina le risaie». Per questo la sfida di Xi Jinping e di Li Keqiang, dall’8 novembre, è trovare equilibri collegiali di partito più forti delle ossessioni dell’esercito. «Ottenuto il benessere – diceva uno dei compagni in fila per salutare la mummia di Mao – dobbiamo liberarci dalla sindrome della rivoluzione permanente e avviare un’evoluzione costante». Dalla repressione al consenso. Ha detto così, ma è sembrato solo. Per la maggioranza dei cinesi «diventare ricchi è meglio che sentirsi liberi». E il partito-Stato, anche dopo la tragedia del 1989, a dispetto delle apparenze resta piuttosto attento all’aria che tira attorno al mausoleo in piazza Tienanmen.

La Stampa 25.10.12
L’impianto produceva armi
Raid su una fabbrica il Sudan accusa Israele
di P. Dm.


KHARTOUM Una catena di esplosioni, poi un inferno di fuoco: è lo scenario della devastazione abbattutasi la notte scorsa su una fabbrica di armi vicino a Khartoum, che le autorità sudanesi attribuiscono a un’incursione aerea israeliana. L’episodio - che richiama alla mente il raid americano del 1998 avrebbe provocato almeno due morti e 18 feriti. Ed è stato accolto in Israele dal gelido silenzio di governo e stato maggiore, che si sono rifiutati di confermare, ma anche di smentire alcunché.
«Noi riteniamo che Israele abbia condotto questo bombardamento», ha denunciato il ministro sudanese dell’Informazione, Ahmed Belal Osman, durante una conferenza stampa a Khartoum. «Ci riserviamo di rispondere nel luogo e nel momento che giudicheremo opportuni», ha avvertito. Secondo Osman, l’impianto colpito - la fabbrica militare Yarmouk - produceva «armi tradizionali» ed è stato «parzialmente distrutto» dagli ordigni lanciati da «quattro aerei da combattimento».
Testimoni oculari hanno confermato di aver visto il lampo di «un missile» o di «un aereo» prima dei boati e delle fiamme, mentre nell’aria si levavano esalazioni tossiche. Secondo analisti militari, il Sudan rappresenta agli occhi dell’intelligence israeliana una base di traffici e una retrovia nella quale Hamas - la fazione palestinese al potere nella Striscia di Gaza - può rifornirsi di dotazioni belliche, missili inclusi.

Corriere 25.10.12
Quando il tempo era fatto di miracoli
Le Goff torna alla «Legenda» di Iacopo da Varazze, una guida sacra per l'aldilà
di Chiara Frugoni


Il titolo in copertina dell'edizione italiana, Il tempo sacro dell'uomo, è allettante ed enigmatico. Solo all'interno si scopre che il soggetto è la Legenda aurea del domenicano Iacopo da Varazze, intendendosi in latino, come ovvio, per Legenda: cose che devono essere lette.
Questo libro d'oro, potremmo dire (che l'autore compose a partire dal 1260, ma al quale continuò a lavorare fino al 1297, anno della morte), fu, nel Medio Evo, il più letto dopo la Bibbia e subito tradotto nelle lingue volgari, compresa la nostra. Il successo fu dovuto all'abilità narrativa dell'autore, alla capacità di tenere chi legge col fiato sospeso, alla pervasiva e fiabesca presenza del meraviglioso nel racconto delle vite dei santi. Un libro che i laici leggevano più che volentieri (esorto a riprendere in mano la Legenda) ma che, secondo Le Goff, dissimulava la serietà di un impegno assai coraggioso da parte di Iacopo da Varazze, fornire una riflessione complessiva sul valore e sul significato del tempo, combinando tre dimensioni: «temporale, vale a dire il tempo ciclico della liturgia cristiana; santorale, il tempo lineare scandito dalla successione delle vite dei santi; escatologica, ovvero il cammino dell'umanità cristiana nel tempo fino al giudizio finale».
Il libro sostiene con molta determinazione tale tesi, spesso in disaccordo con quelle espresse da altri autorevoli studiosi con cui Le Goff polemizza in modo pacato ma fermo, procedendo con la sua limpida prosa avvincente. Il titolo francese: À la recherche du temps sacré, sottolineava, più di quello italiano, l'impianto ideologico che secondo Le Goff struttura la Legenda aurea, impianto che il grande medievista si propone di mettere in luce e dimostrare.
A lettura finita, mi è tornato in mente ciò che dicevano le compagne di Chiara. La santa spesso faceva venire in monastero predicatori colti, spiegando poi alle consorelle il contenuto e il significato di quanto udito: «Chiara godeva ad ascoltare un sermone dotto, pensando che dentro il guscio delle parole si nasconde la mandorla, che Chiara sapeva penetrare con acutezza, assimilandone tutto il sapore e il gusto». Jacques Le Goff, in un libro dove non mancano citazioni di brani assai godibili della Legenda aurea, ci porge la sua «mandorla», esponendo le linee di una approfondita ricerca.
Lode all'autore e all'editore che hanno fatto ritornare le note a piè di pagina: un ritorno da rimarcare, che permette a chi legge di formulare subito un giudizio senza distrarsi, costretto altrimenti a interrompersi, ad andare a cercare i riferimenti in fondo al volume, o peggio ancora, sollecitato a impigrirsi e accontentarsi, senza verificare. Immaginando che il libro sarà presto ristampato, sarebbe assai utile l'aggiunta di un indice dei nomi e dei luoghi: impossibile ricordare tutto, nella folla di santi e autori chiamati alla ribalta. (L'indice, oltre a essere di grande aiuto al lettore, permetterà di eliminare qualche difformità di citazione, ad esempio il Papa che ha consacrato il Pantheon, e altri piccoli refusi).
Jacques Le Goff sottolinea poi giustamente la precisione della collocazione storica dei personaggi da parte di Iacopo da Varazze, con scarti minimi rispetto alla realtà perché — nota acutamente Le Goff — Iacopo vuole convincere il lettore che tutto quello che egli apprende è vero: vere le storie dei santi, veri i miracoli e vere le cose meravigliose che accadono; rispettivamente, prodigi compiuti da Dio per mezzo dei santi, fenomeni sorprendenti, ma naturali. Le Goff si spinge a dichiarare che il titolo francese: «Alla ricerca del tempo sacro», sarebbe potuto essere sostituito con: «Alla ricerca del tempo vero».
Quando Iacopo scriveva la sua Legenda aurea il Purgatorio si era ormai affermato (qui il rinvio d'obbligo è al celebre volume di Le Goff stesso) e tale credenza aumentava la responsabilità dei vivi verso i defunti. Dio permette allora ai santi di scendere dal Paradiso sulla terra per indicare ai fedeli comportamenti virtuosi che abbrevino le pene dei loro cari; inoltre le preghiere dei santi sono efficacissime e ascoltate da Dio.
Ecco dunque che i santi hanno acquistato, nota sempre Le Goff, un'importanza maggiore rispetto al passato, perché, nella concezione ottimistica di Iacopo da Varazze, sono chiamati a portare in cielo la maggior parte degli uomini e tutte le anime purganti. Conclude Le Goff: «Il nostro domenicano vuole mostrare come solo il cristianesimo abbia saputo strutturare e sacralizzare il tempo della vita umana e accompagnare l'umanità verso la salvezza».

Il volume da oggi in libreria: Jacques Le Goff, «Il tempo sacro dell'uomo. La "Legenda aurea" di Iacopo da Varazze», traduzione di Paolo Galloni, Laterza, pagine 208, 16

Corriere 25.10.12
Pahor e Severino sono i vincitori del Premio Alessandro Manzoni


Il filosofo Emanuele Severino e lo scrittore Boris Pahor, vincitori del Premio letterario internazionale Alessandro Manzoni-Città di Lecco, saranno festeggiati domani, con la cerimonia di premiazione alle 17, nell'Auditorium Casa dell'economia, a Lecco. Severino, premio alla carriera, terrà una lectio intitolata «Del sacro». Pahor, triestino di nazionalità slovena, con «Figlio di nessuno. Un'autobiografia senza frontiere» (Rizzoli), scritto con Cristina Battocletti, è stato votato all'unanimità dalla giuria, presieduta da Matteo Collura, quale vincitore della sezione romanzo storico. Tra gli altri vincitori del premio dedicato al romanzo storico, Antonia Arslan, Grazia Livi, Marta Morazzoni, Alessandro Barbero; del premio alla carriera, Umberto Eco, Ermanno Olmi, Luca Ronconi, Mario Botta. (M. Fu.)

Corriere 25.10.12
Senza le piccole librerie storiche le città italiane perdono l'identità
di Aldo Cazzullo


Arrivi a Firenze, fai un giro di librerie, e non le trovi più. Nel tempo hanno chiuso Marzocco, Martelli, Le Monnier, la libreria del Porcellino, quella dell'Editrice fiorentina, Seber, Sp44, Aleph, la Cima (la prima ad aprire una caffetteria); e ora sta chiudendo pure Edison. Praticamente la città che ha inventato la lingua e la letteratura italiana è rimasta con due sole librerie «omnibus», rivolte a tutti i lettori: entrambe di catena, per quanto gestite con amore; e una attaccata all'altra.
Arrivi a Napoli, sali al quartiere borghese, il Vomero, e vedi che di librerie non ce ne sono più: chiusa la storica Guida, sta chiudendo pure la Fnac; mentre la Treves ha sbarrato l'antica sede di via Roma per riaprirne un'altra, molto più piccola.
Accade in tutta Italia. A Venezia chiude la libreria di calle Vallaresso, a un passo da San Marco. A Verona chiude la storica Barbato di via Mazzini, la spina dorsale della città, per riaprire in periferia. E gli esempi potrebbero continuare.
Molte librerie indipendenti sono in grande difficoltà. La crisi addenta i Piccoli, anche in questo cruciale settore. Perché non sono a rischio soltanto posti di lavoro e volumi d'affari; sono pezzi di città che svaniscono, luoghi di aggregazione che vanno perduti, un patrimonio di cultura e di storia che si impoverisce. E' evidente che si deve fare qualcosa.
Il fenomeno non è nuovo. Ma con la crisi sta precipitando. La legge pensata per bloccare gli eccessi di ribasso, vale a dire gli sconti, alla fine si è rivelata controproducente. Perché, se girano meno soldi, e se la promozione diventa più difficile, si vendono meno libri.
Va trovata un'altra soluzione. Che non può consistere nell'andare contro la modernità. L'e-commerce si ricaverà spazi crescenti, proprio come gli e-book (sia pure a ritmi diversi da quelli americani, dove sono messe male pure le grandi catene). L'unico modo per uscire dall'attuale crisi del libro, e per prevenire le crisi prossime venture, è lavorare sia sulla domanda che sull'offerta, sia sul fronte del cliente che su quello del commerciante, sia sul lettore sia sul libraio.
Non c'è dubbio che la cultura della parola scritta — e stampata — stia vacillando, proprio mentre si diffondono l'interesse per la vita pubblica e per il mondo globale, insieme con la consapevolezza che l'informazione e i legami di interdipendenza tra i vari Paesi e i vari mercati condizioneranno sempre di più le nostre vite. Occorre diffondere l'abitudine al libro e il piacere della lettura fin dalla scuola. Non sarebbe male che la televisione dedicasse più spazio ai libri. Ma occorre anche formare meglio i librai.
Come in tutti i mestieri che si tramandano di padre in figlio, può accadere che il talento passi attraverso le generazioni, o si smarrisca. Se qualcuno pensava che il mercato del libro garantisse una rendita, ora ha senz'altro capito di essersi sbagliato. Il mercato è anzi in continua flessione: a settembre di quest'anno faceva segnare meno 9 per cento rispetto al 2011, che pure era stato un anno negativo. A questo si aggiungono il caro-affitti, in particolare per i locali nei centri storici, e le difficoltà nell'accesso al credito. Si spiegano così i fallimenti, le rinunce, le chiusure.
Per fortuna, i librai italiani sono capaci di resistenza e di reazione. Il loro amore per i libri e per il mestiere li salverà. La passione, da sola, non è una condizione sufficiente; ma è necessaria. Il libraio del futuro dovrà sempre di più fare delle scelte. In Italia si pubblicano sin troppi libri. Si tratta di tenere quelli che incontrano il gusto della propria clientela— a costo di non fare entrare novità che l'editore vorrebbe imporre —, e di ritagliare uno spazio per classici ed “evergreen” oggi introvabili. Una via può essere la specializzazione. Ma è importante anche mantenere aperto il canale con il pubblico, continuare o tornare a consigliare il cliente, investire tempo ed energie non solo nelle defatiganti operazioni di esposizione ma anche nel conoscere e suggerire il contenuto dei libri. Salvare le librerie storiche, e i loro librai, è nell'interesse di tutti: di chi i libri li scrive, di chi li pubblica, di chi li compra. E degli italiani consapevoli che una libreria fa parte del paesaggio di una città, concorre a definirne l'identità, ne custodisce un frammento di anima che non deve volare via.

Repubblica 25.10.12
Profondo Est
Il nuovo libro di Rumiz ci accompagna in un viaggio particolare che attraversa le frontiere dell’Europa orientale fino alla Turchia
L’altro Orient Express da Kliningrad verso Istambul
di Franco Marcoaldi


La letteratura di viaggio è per sua natura “ totale”. Perché mette in movimento il cervello e il corpo, i sensi e l’anima. Paolo Rumiz, che ha sempre fatta sua questa postura, se possibile la accentua ancor di più in Trans Europa Express (già uscito in Francia e ora pubblicato da Feltrinelli), originale viaggio “in verticale” lungo le frontiere europee orientali: dal Mar Glaciale Artico fino a Odessa e oltre, verso Istanbul.
Aggiungendo a quanto detto una semplice equazione: più difficoltà si incontrano lungo il tragitto e maggiori sono le possibilità di fare incontri, dunque di raccontare. Ecco perché il bagaglio sarà ridotto all’osso. Mezzi privilegiati di spostamento saranno treni, autobus e battelli fluviali. Il ricovero notturno verrà offerto da pensioncine scalcagnate e il caso e la ventura prevarranno sugli appuntamenti prefissati: dunque nessun incontro con personaggi di prima fila e largo invece agli anonimi, o meglio ancora agli ultimi.
Qualcuno potrebbe individuare nell’atteggiamento di Rumiz un tratto eccessivamente romantico, passatista, ma i risultati si vedono dal libro: crivellato da immagini vivide e commoventi di paesaggi periferici e ignoti, di intatta bellezza o rovinosamente post- apocalittici. Abitati da uomini e donne inghiottiti dall’imbuto della storia (poveri contadini, profughi di ogni risma, pescatori di granchi giganti, modesti apicoltori, cacciatori di renne, fisarmonicisti d’antan), capaci sempre di offrire allo straniero tempo e calore umano; insomma, quanto la nostra insensata e incupita frenesia pare aver dimenticato.
La cartina geografica che Rumiz si è creato su misura non fa affidamento alle nazioni, con relative bandierine, ma affonda nelle antiche regioni frontaliere smembrate dai giochi geopolitici. E così è un succedersi ininterrotto di nomi dagli echi fiabeschi: Carelia, Livonia, Curlandia, Masuria, Volinia, Rutenia, Podolia.
Rumiz scende lentamente queste terre segnate immancabilmente dall’acqua. Annota con cura i cambiamenti del mondo vegetale: il passaggio dalle betulle ai tigli, «poi le querce, quindi le vigne, i platani e i fichi». Si eccita quando rintraccia antichi incroci etnici e religiosi. Gusta i sapori delle zuppe di verdura e della frutta di bosco. Si inalbera di fronte a ogni sopruso, a maggior ragione quando è figlio dell’imperturbabile burocrazia tecnocratica dell’Unione. E intanto, sempre procedendo a zig-zag, entra ed esce dalle frontiere europee spostate ora verso Est, spesso ancora più rigide e spietate di quelle del passato.
Quanto scorre sotto i miei occhi non è altro da noi, ripete di continuo Rumiz. Al contrario, questo è il vero centro dell’Europa, anche se ce lo siamo dimenticati, mentre affondiamo irrimediabilmente nella più «perfetta incoscienza». È qui che pulsa la vera, nuda vita. Non certo nelle nostre città tirate a lucido, asettiche e anodine.
Appena avverte sentore di turismo, rileccamenti e tour organizzati, il Nostro scappa a gambe levate. Gli succede a Vilnius, e non lo fa certo a cuor leggero, visto tutto quello che la “Gerusalemme del Nord” ha rappresentato nel passato. Meglio, infinitamente meglio Kaliningrad, enclave russa, «l’isola dei reclusi, circondata dalla fortezza Europa», ora trionfo di limousine, sommergibili e mafiosi: «terra di nessuno, spazio rarefatto dell’immaginazione, un fantastico non luogo come Trieste e Odessa, una città illusionistica e di intrighi, paragonabile alla Vienna postbellica, una scenografia ideale per i film di Humphrey Bogart».
E meglio ancora le esperienze inattese e casuali legate a inesplicabili deviazioni verso località sperdute, dove viene a contatto diretto con “l’anima slava”, indiscutibile cuore del suo itinerario. Basti, per tutti, l’incontro che ha luogo a Ludza, dove dentro una ex sinagoga trasformata nel ’41 dall’esercito nazista in stalla per cavalli, oggi vivono Rita e Volodia: una coppia di «anziani russi intrappolati in Lettonia dal gioco delle frontiere mobili, una storia inimmaginabile, di europei dimenticati, passeggeri di terza classe, nascosti come una vergogna nelle ultime vetture del lussuoso treno comunitario».
È sufficiente guardare il loro passaporto per capire che si è in presenza di due “non persone”, di due “alieni”. In compenso, con un cuore grande così.
Rita tira fuori le foto di una vecchia orchestra, composta per lo più da ebrei, ormai tutti morti. L’unico non ebreo, e l’unico ancora vivo, è Volodia, il marito, ex fisarmonicista. La donna ne parla mentre mette in tavola pane, burro, pesce affumicato e soprattutto un brandy di orzo fermentato e fatto in casa. È la svolta: il vecchio Volodia, dopo anni, riprende in mano lo strumento. La festa può avere luogo e sarà indimenticabile. Qui c’è tutto, scrive Rumiz: «la slavità, gli ebrei, lo sradicamento, il fascismo che torna, la bontà degli Ultimi. E questo cielo lettone che riassume il Nord e il Sud del mio continente».
L’alcol, consumato in abbondanza, sta facendo la sua parte. Al resto ci penseranno una breve passeggiata notturna lungo il lago, la luna piena, l’abbaiare dei cani e il gracidare sguaiato delle rane. «Ludza è il mio centro d’Europa», esulta Rumiz. Ora ne è certo: il viaggio, questo viaggio, ha trovato la sua ragione d’essere.

Repubblica 25.10.12
Brasse, il fotografo che inchiodò i nazisti
Morto a 95 anni il “ritrattista” di Auschwitz. Fece quasi 40mila scatti dei prigionieri ebrei che arrivavano nel lager
Alla fine della guerra riuscì a salvare la sua documentazione che servì come prova al processo di Norimberga
di Andrea Tarquini


BERLINO Il suo talento di fotografo gli salvò la vita, ma lo condannò poi a un’esistenza di notti insonni tra i tormenti della coscienza e dei ricordi. Fu il testimone e l’archivista per forza della Shoah, il ‘Ritrattista’ dell’Olocausto, fornì al mondo le prove del Male assoluto.
Wilhelm Brasse, patriota polacco, noto al mondo come “il fotografo di Auschwitz”, è morto a 95 anni nella città natale Zywiec. Con lui scompare un eroe umile e sconosciuto quanto prezioso per la Memoria. Salvò quasi tutte le 40mila e passa foto di prigionieri che scattò, disobbedendo agli ordini dei nazisti e rischiando la morte. Quella fotogalleria di morti viventi, spoon river in celluloide, inchiodò a Norimberga ideatori, responsabili e esecutori del genocidio del popolo ebraico.
«Per tutto il dopoguerra tentai invano di ricominciare da fotografo una vita normale. Ogni volta, nel mirino, mi apparivano quei volti giovani e belli, ragazzi, anziani, fanciulle da registrare subito prima che finissero come cavie degli esperimenti del Dottor
Mengele o vittime del gas Zyklone- B», disse. Forse più d’ogni altro lo tormentava il viso dolce e terrorizzato della quattordicenne Czeslawa Kwoka, assassinata dai nazisti il 12 marzo 1943.
Figlio di un austriaco e d’una polacca, Brasse si sentì polacco da sempre. Come il padre, nel 1920-21 soldato di Pilsudski (che inflisse all’Armata rossa l’unica disfatta della storia). Nel 1939, con l’attacco nazista-sovietico, Wilhelm fu catturato dalla Gestapo. Rifiutò di giurare fedeltà a Hitler, fuggì per unirsi all’Armia Krajowa, l’esercito partigiano, o alle forze armate polacche a Londra. Invano. Catturato, divenne la matricola 3444 di Auschwitz. Un numero come tanti, la professione lo salvò: appunto, fotografo professionista.
Meticolosi e precisi, i nazisti gli ordinarono di fotografare di fronte, di lato e di tre quarti ogni deportato. Brasse fu costretto a scattare istantanee d’ogni momento dell’Olocausto: le giovani sotto i ferri del dottor Mengele, sezionate senza anestesia, o col cemento iniettato nell’utero, 800 prigionieri di guerra polacchi e sovietici mandati per primi nel settembre ‘41 alle ‘docce’ per provare l’efficacia del Zyklone-B, i bimbi scheletriti. A volte, i nazisti gli chiedevano fotoritratti per mogli o amichette. Come lo Umtersturmfuehrer Grabner, condannato a morte dopo il ’45 per 25mila assassinii.
Da fotografo per forza Brasse fu un privilegiato controvoglia, lacerato nel cuore dal senso di colpa, e dalla paura di venire eliminato come testimone scomodo. Nel 1943, il famigerato Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich ordinò di non fotografare più gli “oggetti” della “Soluzione finale”: bastava registrare il numero tatuato sul braccio. Davanti ai sovietici in avanzata, le SS ordinarono a Brasse di bruciare i film. Lui li gettò nelle fiamme, poi partiti i nazisti spense il fuoco, e salvò le prove. Fu deportato a Ovest, e liberato dai GI americani. Tornò a casa, nel ’46 si sposò. Alla moglie non parlò mai di Auschwitz, ma lei sapeva.

Repubblica 25.10.12
È morto Paul Kurtz, filosofo e scettico

NEW YORK — È morto il filosofo statunitense Paul Kurtz, portavoce del movimento scettico internazionale, conosciuto come «il papa dei non credenti». Aveva 86 anni. Autore di oltre 40 libri, presidente e cofondatore (con Carl Sagan e Isaac Asimov) dell’International Academy of Humanism, ha fondato nel 1976 il Csicop – Committee for the Scientific Investigation of Claims of the Paranormal, sulla cui falsariga Piero Angela ha dato vita in Italia al Cicap – Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale.

Repubblica 25.10.12
L’ultimo Sinodo che ha radunato Vescovi e teologi è stato molto importante per diverse ragioni
Intanto perché il Papa ha rievocato il Vaticano II e si è posto delle domande che riguardano credenti e laici
La Chiesa. Il dialogo possibile tra fede e modernità
di Eugenio Scalfari


È stato molto importante il Sinodo che ha radunato duecentocinquanta Vescovi venuti dai cinque continenti insieme a numerosi teologi e collaboratori. Importante per il tema che dovrà avere concreti seguiti da parte di tutte le Diocesi cattoliche e riguarda una nuova evangelizzazione della fede di cui la Chiesa sente estremo bisogno; ma è importante anche perché ha coinciso con il cinquantenario del Concilio Vaticano II.
I Vescovi riuniti nel Sinodo hanno rievocato il Concilio, ma il Papa stesso lo ha ricordato e insieme a lui i relatori del Sinodo. Sono state formulate molte domande e date molte risposte; domande in alcuni casi volutamente provocatorie e risposte in larga misura discordanti tra loro così come discordanti sono state le interpretazioni sull’essenza del Vaticano II. Alcuni interventi sono stati fatti non solo dai Vescovi e dai teologi del Sinodo ma anche da teologi e Vescovi che ne hanno scritto su giornali cattolici e sulla stampa di informazione e da laici interessati ai temi in discussione. Insomma sull’attuale stato della Chiesa cattolica l’attenzione del “popolo di Dio”, della gerarchia che lo guida o pretende di guidarlo e di quanti – credenti o non credenti o credenti in altre religioni – sono interessati al dibattito sui valori della religione, è stata intensa. Vogliamo anche noi cogliere l’occasione che l’attualità ci offre ed esprimere una nostra valutazione.
Benedetto XVI diffonderà prossimamente un suo nuovo libro sulla figura di Gesù e si è pubblicamente già posto due domande: «Chi siamo noi? Che cos’è la Chiesa?». Nell’attuale crisi di valori queste domande interessano tutti molto al di là dei recinti delle Chiese cristiane che del resto rappresentano la religione storicamente più rafu
dicata nel nostro continente, anche se è proprio in Occidente che la sua crisi imperversa ed è l’Occidente l’obiettivo territoriale e culturale della nuova evangelizzazione che il Sinodo ha lanciato. Ce n’è dunque abbastanza per risvegliare il nostro interesse.
* * *
Il Vaticano II durò tre anni. Il Concilio precedente si era svolto novant’anni prima e aveva avuto come risultato più visibile la proclamazione dell’infallibilità del Papa nonché il recepimento delle indicazioni fornite pochi anni prima dal “Sillabo”. L’essenza di quell’imponente raduno di Vescovi e di teologi fu il rafforzamento del centralismo curiale e
cioè d’una gerarchia verticistica, depositaria della politica della Santa Sede, e dell’insegnamento cattolico, dell’interpretazione delle Scritture, della formazione del clero e del suo reclutamento, dei tribunali ecclesiastici. Tutto ciò avveniva mentre i Bersaglieri di La Marmora entravano nella città del Papa dalla breccia di Porta Pia abbattendo definitivamente il potere temporale della Chiesa.
Novant’anni dopo il nuovo Concilio indetto da Giovanni XXIII con un obiettivo che non è eccessivo definire opposto al precedente: rilanciare il tema della pastoralità e insieme ad esso quello del confronto e del dialogo con il pensiero moderno: un capovolgimento spettacolare arricchito da molti altri temi affidati allo studio di altrettante commissioni di Vescovi, di teologi, di storici del pensiero religioso. Riguardavano il contributo del laicato cattolico, la posizione della donna nella Chiesa, il celibato dei sacerdoti, la modifica della liturgia, lo sfoltimento e il risanamento della Curia, la diffusione delle Scritture tra i fedeli e quindi il rapporto diretto dei fedeli con Dio senza più il monopolio dell’interpretazione sacerdotale.
Insomma una spinta al rinnovamento che suscitò fughe in avanti e fughe all’indietro dentro il Concilio e fuori di esso. Nel frattempo Papa Roncalli era morto. Paolo VI che gli succedette cercò di impedire e comunque di gestire sia il radicalismo degli innovatori sia quello dei tradizionalisti ad oltranza. In parte ci riuscì anche se si verificò nel frattempo il piccolo scisma dei lefebvriani concentrato sulla liturgia, sulla messa celebrata non più in latino ma nelle lingue parlate nei vari paesi e sul celebrante rivolto verso la platea dei fedeli e non più verso il tabernacolo con i fedeli alle sue spalle.
Non era soltanto una questione di forma, ma di sostanza: la liturgia aveva rappresentato infatti per molti secoli la custodia ben sigillata della ritualità tradizionale. La sua innovazione aveva aperto quella custodia e liberato una creatività che in qualche modo riscopriva il ruolo essenziale del “popolo di Dio” rispetto ai sacerdoti e alla gerarchia. La pastoralità diventava l’elemento essenziale e dunque la predicazione del Cristo e degli apostoli così come le Scritture l’avevano trasmesse, nelle diverse letture che di esse potevano farsi.
Per gli innovatori più radicali quest’apertura della liturgia alla creatività significava qualche cosa di più: il rito diventava subordinato alla pastoralità, cioè al dialogo tra le anime. E Dio perdeva alcuni dei suoi connotati acquistandone altri. Dio perdeva i connotati della nazionalità, perdeva soprattutto l’appartenenza a questa o a quella Chiesa cristiana e perfino a questa o quella religione monoteista. Il Dio trascendente non poteva esser rivendicato come cattolico o luterano o mormone o battista, ma neppure come ebreo, neppure come musulmano. Dio era ecumenico, il Vaticano II aveva proclamato l’ecumenismo e il dialogo tra le diverse religioni come un obiettivo fondamentale; aveva anche aperto al dialogo con i non credenti. Da un lato con finalità di proselitismo, dall’altro come confronto di anime nel rispetto delle loro credenze o non credenze.
Restava ferma la fede nel Cristo incarnato in Gesù di Nazareth, nel suo sacrificio e nella sua resurrezione. Restava il mistero trinitario, sconosciuto alle altre due religioni monoteiste. Ma attorno a questo pilastro c’era e c’è un amplissimo spazio per il dialogo, il confronto e l’incontro.
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La rievocazione del Vaticano II ha reso attuale un altro tema tutt’altro che secondario: l’apostolicità della Chiesa cattolica. Se quella parola ha un senso – e certamente ce l’ha – significa che la parola dei Vescovi riuniti in apposite sedi è sicuramente consultiva ma può dar luogo anche a deliberazioni che la gerarchia dovrà rendere operative.
Papa Ratzinger che all’epoca del Vaticano II fu uno dei più fervidi sostenitori dei suoi contenuti innovativi, ha colto l’occasione del Sinodo degli scorsi giorni per sottolineare che quella cattolica non è e non dev’essere una Chiesa conciliare; i Concili nella visione del Papa, sono soltanto organi consultivi e così pure i Sinodi e i singoli Vescovi titolari di Diocesi. Il Papa sarà sempre molto sensibile ai loro suggerimenti, ma non si tratta in nessun modo di organi “costituenti”. Quand’anche proclamassero nuovi dogmi, quei dogmi saranno già stati deliberati dal Vicario di Cristo e il Concilio funzionerà soltanto come “amplificatore” di quanto è già stato elaborato e deliberato da chi siede sul trono di Pietro.
Su questo punto tuttavia il dibattito è aperto e chi lo ha posto al centro delle sue riflessioni è stato Carlo Maria Martini, da poco scomparso.
Martini partiva da un dato sorprendente: in duemila anni di storia del Cristianesimo cattolico i Concili sono stati 21, con una media di uno ogni cento anni. Ma la media, come sempre avviene nella statistica, nasconde una realtà storica abbastanza sorprendente: i 21 Concili si sono addensati in certi periodi e in altri non si sono tenuti affatto. Se ne tennero tre o quattro a cavallo del terzo e quarto secolo; altri a cavallo del decimo e undicesimo, altri ancora due secoli dopo. Infine ci fu il Concilio di Trento e poi un salto di quasi trecent’anni, fino al Vaticano I con in mezzo un Concilio-farsa voluto da Napoleone.
Una Chiesa così organizzata si può definire apostolica? I Vescovi sono i discendenti degli apostoli allo stesso titolo per cui il successore di Pietro è il vicario di Cristo in terra. Senza entrare nel controverso tema se si tratti di organi consultivi o deliberanti, resta il fatto che andrebbero convocati (ma possono anche autoconvocarsi) con maggiore frequenza e regolarità. Una delle proposte martiniane fu un Concilio in occasione d’ogni Giubileo e nell’intervallo molteplici Sinodi.
Una Chiesa del genere avrebbe capacità di ecumenismo molto maggiore di quella attuale e vedrebbe aumentare il peso del laicato cattolico, degli oratori rispetto alle parrocchie, della libertà resa più fertile dalla ravvicinata convivenza tra le varie Chiese cristiane nonché con le altre due religioni monoteistiche. Se il Papa, in quanto Vescovo di Roma, ricevesse la sua preminenza da questo titolo e non soltanto dal Conclave cardinalizio e se anche i Concistori assumessero un più ampio spazio consultivo, ecco che la Curia verrebbe a configurarsi come una sorta d’Intendenza e non come la sede effettiva del potere cattolico.
Sono questioni molto delicate. Non c’è dubbio alcuno che la Chiesa non sarebbe durata duemila anni senza un’architettura centralistica, ma non c’è egualmente dubbio che quell’architettura l’ha coinvolta in un “temporalismo” che spesso ne ha distorto le funzioni ed ha tradito proprio quella predicazione evangelica e quella pastoralità che avrebbero dovuto rappresentare la sostanza del Cristianesimo. La Chiesa delle Crociate, la Chiesa corrotta e simoniaca che dette indegno spettacolo tra il Quattrocento e il Seicento, la Chiesa-Stato che ha rappresentato l’ostacolo principale alla mancata nascita della nazione italiana, la sua partecipazione alle guerre in Europa in subordine a volte alla Spagna a volte alla Francia e infine i roghi dell’Inquisizione e delle streghe, non sono brevi episodi dei quali pentirsi. L’istituzione-Chiesa ha preservato la predicazione e la pastoralità per duemila anni, l’abbiamo già detto, ma il suo costo è stato altissimo e continua in forme per fortuna molto più attenuate ma comunque responsabili della secolarizzazione e dell’allontanamento dell’Europa dall’icona del Cristo crocifisso e poi risorto.
Se proprio l’Europa è diventata terra di missione e di nuova evangelizzazione, un motivo ci sarà. L’architettura distorta della religione non ne è il solo ma certamente ne è uno dei principali.
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Infine il dialogo con la modernità. Non è e non sarà un dialogo facile. La modernità è un’epoca che ha combattuto l’assoluto mettendo al suo posto il relativismo. Ha detronizzato la metafisica, ha sottolineato l’autonomia della coscienza e il desiderio della conoscenza. Ha affidato l’etica all’autonoma responsabilità dell’individuo.
Un dialogo è auspicabile ma difficilmente potrà portare ad esiti positivi se la Chiesa terrà ferma i paletti dei principi non negoziabili.
Il solo principio non negoziabile dal punto di vista della Chiesa è il Cristo figlio di Dio. A me è accaduto da vecchio laico non credente d’incontrare un sacerdote come Carlo Maria Martini con la sua incrollabile fede in un Cristo risorto, da lui definito “sempre risorgente”, quindi non un’icona immobile ma una presenza dinamica da riconquistare quotidianamente.
A quel Cristo sempre risorgente non ho contrapposto ma ho affiancato Gesù di Nazareth, figlio di Maria e di Giuseppe, predicatore e profeta dei deboli, degli oppressi e degli esclusi, figlio dell’uomo.
Questo e non altro è il dialogo possibile tra la modernità e la Chiesa. Il tempo delle evangelizzazioni è finito ed è cominciato invece il tempo delle fertili contaminazioni tra diversi, animati da sentimenti di carità. La carità come la intendeva Gesù quando esortava ad amare il prossimo come si ama se stessi. Per lui quello era il solo modo di adorare il Dio di tutti e di ciascuno. Per noi è la visione del mondo dei giusti, un’utopia che può realizzarsi se ciascuno di noi lo vorrà.

Nel numero del Venerdì in edicola domani con Repubblica, un’intervista a David Grossman

Repubblica 25.10.12
“L’amnistia contro il sovraffollamento” La Cei: carceri, problema non più rinviabile


ROMA — «L’auspicio è che il Parlamento si faccia carico del problema giustizia e carceri, probabilmente non più rinviabile ». Lo ha detto monsignor Domenico Pompili, direttore delle comunicazioni della Cei, intervistato da RadioCarcere su Radio Radicale. «Di amnistia si parla da diverso tempo, e più di recente la questione è stata sollevata dallo stesso Presidente della Repubblica, senza dubbio la necessità di una amnistia si impone per affrontare il sovraffollamento delle carceri e per affrontare situazioni ambientali spesso insostenibili».

Repubblica 25.10.12
Gruppo Espresso, utili a quota 26,4 milioni
Tengono i ricavi, cala l’indebitamento. Repubblica quotidiano più venduto in edicola


MILANO — Nonostante la crisi in atto nel settore dell’editoria, il Gruppo Editoriale L’Espresso conferma la chiusura in utile dell’esercizio 2012, con una sostanziale tenuta dei ricavi e una riduzione dell’indebitamento netto.
Il consiglio di amministrazione presieduto da Carlo De Benedetti ha approvato ieri i conti dei primi nove mesi dell’anno. Numeri che si inseriscono in un contesto generale negativo: «Il deterioramento del quadro economico - si legge in una nota - caratterizzato da una fase decisamente recessiva e da forte incertezza sulle prospettive, si riflette pesantemente sul settore editoriale».
A pesare è soprattutto il calo degli investimenti pubblicitari: da gennaio ad agosto, la stampa ha registrato un calo del 14,8%, la televisione del 10,9% (con un -14,5% per la tv tradizionale e un +15,7% per satellitari e digitali), la radio del 7,4%. L’unico settore che ha mostrato nuovamente un’evoluzione favorevole è Internet, che ha registrato un incremento dell’11%.
L’andamento della gestione del Gruppo Espresso vede la tenuta sostanziale del fatturato. I ricavi netti dei primi nove mesi ammontano a 594 milioni, in calo del 9,1% rispetto allo stesso periodo del 2011. La flessione è dovuta alla contrazione dei ricavi pubblicitari e alla riduzione dell’attività nel segmento dei prodotti collaterali. I ricavi diffusionali, esclusi i prodotti collaterali, sono pari a 199,3 milioni con una flessione del 3%. I ricavi pubblicitari, pari a 342,4 milioni, hanno registrato una flessione del 10,1%, in un mercato in calo del 10,5% ad agosto. Positivo l’andamento della pubblicità su Internet, in crescita del 14,3% a fronte di un mercato salito dell’11%. Con 1,7 milioni di utenti unici, Repubblica.it si conferma anche nel 2012 il primo sito di informazione di lingua italiana.
Sulla base degli ultimi dati Ads, la Repubblica si conferma come primo quotidiano per vendite in edicola e come primo giornale di informazione per numero di lettori giornalieri (3,2 milioni). Gli acquirenti dei prodotti digitali del quotidiano a settembre ha superato i 50mila abbonati attivi. L’Espresso è al primo posto tra i magazines di attualità con 2,7 milioni di lettori, in crescita dell’1,6%.
Il risultato netto consolidato registra un utile di 26,4 milioni, contro i 41,4 milioni dei primi nove mesi del 2011. La posizione finanziaria netta consolidata, tenuto conto dei dividendi per 25 milioni e dell’acquisto di azioni proprie per 1,6 milioni, è pari (al 30 settembre 2012) a 105 milioni contro i 112 milioni del 30 settembre 2011.
Nonostante le difficoltà «il gruppo ha chiuso i primi nove mesi con un risultato significativamente positivo e conferma la previsione di un risultato in utile anche per l’intero esercizio, pur in sensibile riduzione rispetto al 2011». Per l’immediato futuro, a causa «del carattere strutturale della crisi in atto » il gruppo sarà «nuovamente impegnato in interventi di salvaguardia della propria economicità, nel breve e medio termine, che devono riguardare ulteriori riduzioni dei costi e accelerazione dello sviluppo del digitale».