venerdì 26 ottobre 2012

l’Unità 26.10.12
Bersani-Hollande, serve un governo politico
La sfida del dopo Monti
Il leader Pd all’Eliseo: agenda progressista e governo politico in Italia. «Ma il premier non tornerà alla Bocconi»
di Simone Collini


«All’Italia serve un governo sostenuto da una maggioranza politica omogenea. Anche per realizzare una svolta in Europa». E François Hollande non solo annuisce, ma assicura a Pier Luigi Bersani che un suo «aiuto» affinché l’obiettivo sia centrato, prima delle prossime politiche, non mancherà. Il leader de Pd riparte da Parigi soddisfatto. All’incontro all’Eliseo con il presidente della Francia si è non solo registrata un’intesa sui rischi di un «avvitamento» tra austerità e recessione, sul fatto che al rigore vadano affiancate misure per la crescita, sulla necessità di realizzare l’agenda dei progressisti per un’Europa «più solidale».
La tappa francese è servita a Bersani per dimostrare che non è vero che all’estero si tifi esclusivamente per il Monti-bis. C’è un fronte progressista, che come evidenzia la conquista dell’Eliseo da parte di Hollande negli ultimi mesi cresce nei consensi, che vede come una «eccezione» da non ripetere un governo dei tecnici sostenuto da una maggioranza eterogenea. Lo ha detto l’altro giorno arrivando a Roma il presidente della Spd tedesca Sigmar Gabriel. E anche Hollande, che per primo ha rotto il fronte conservatore conquistando l’Eliseo contro Nicolas Sarkozy, auspica ora di vedersi affiancare da altri governi di segno progressista. E se Bersani e Gabriel (in Germania si va alle urne in autunno) sono andati la primavera scorsa a Parigi per siglare il manifesto dei progressisti e lanciare la volata all’allora candidato del Partito socialista francese, il favore prima delle prossime politiche verrà ricambiato.
UN’ALTRA EUROPA È POSSIBILE
Bersani arriva nel cortile d’onore dell’Eliseo visibilmente soddisfatto del colloquio avuto. Parla di incontro «amichevole», con Hollande, sorridendo: «Non è la prima volta che ci vediamo, ma questa volta l’ho chiamato signor presidente ed è stata una grandissima soddisfazione». I due si sono trovati d’accordo sul fatto che «un’altra Europa è possibile», e sul fatto che c’è «la possibilità di una piattaforma che vede una convergenza larga e precisa dei partiti progressisti e dei governi che si ispirano alle forze progressiste». L’obiettivo è «avere un’Unione europea che insieme al rigore metta un po’ di lavoro. Il meccanismo austerità-recessione-austerità sta mettendo in difficoltà tutta l'Europa».
Hollande e Bersani si sono trovati d’accordo anche sul fatto che mentre sulla teoria si va forte, sulle risposte concrete da dare le risposte non sono così veloci come dovrebbero. «La cosa che abbiamo sottolineato entrambi è che non abbiamo molto tempo», racconta Bersani sottolineando che «le proposte ci sono, la piattaforma pure, e quindi le decisioni devono essere più rapide»: «Non si può essere trattenuti dalle diverse situazioni nazionali, opinioni pubbliche, elezioni. Bisogna arrivare a qualche decisione. Questa è nettamente la mia opinione, considerando in particolare il caso dell'Italia che è molto problematico».
Per quanto riguarda il nostro Paese, il leader del Pd esclude che la soluzione per superare la crisi sia da individuare
nel Monti-bis. A chi gli domanda quante possibilità ci siano di ripetere l’esperienza del governo tecnico, Bersani rispode così: «Zero, se Monti-bis vuol dire andare avanti con delle maggioranze spurie. Per il resto decide la politica, abbiamo diritto in Italia ad avere un confronto politico come negli altri Paese, dare coerenza ad un progetto politico. Questa è la responsabilità che le forze politiche devono prendersi nei confronti dell'elettorato. Non credo affatto che una persona come Monti possa tornare alla Bocconi, la Bocconi ne farà a meno. Assieme a lui, se tocca a noi, valuteremo quale può essere il suo miglior contributo».
E l’incontro con Hollande è servito a Bersani a dimostrare che neanche all’estero si ritiene che un reincarico a Monti sia l’unica soluzione per dare stabilità al nostro Paese e, di conseguenza, al quadro europeo. «Con Hollande abbiamo una visione comune racconta ancora il leader del Pd lanciare un grande progetto europeo sul piano politico e culturale. C'è l'esigenza di un orizzonte europeo che non può essere ritenuto utopia, perché l'alternativa è un disastro». La ricetta prevede una maggiore integrazione e, accanto alle norme sul rigore, comuni politiche economiche e fiscali che aiutino a creare maggiore occupazione, redistribuzione, equità.
Oggi Bersani sarà a Tolosa, dove interverrà al congresso del Partito socialista francese. Ma poi saranno i francesi a venire in Italia, prima della prossima primavera. Il leader del Pd sa infatti che da parte di Hollande «non mancherà», per la prossima campagna elettorale italiana, «incoraggiamento e aiuto».

l’Unità 26.10.12
L’Europa che vuol uscire dalla crisi a sinistra
di Paolo Soldini


Parlare d’Europa guardando a sinistra. La sostanza politica dell’incontro di ieri all’Eliseo tra il presidente francese François Hollande e il leader Pd Pier Luigi Bersani è tutta qui.
La crisi economica è grave e quella sociale è intollerabile; la strategia dell’austerity à la Merkel sta affondando se stessa e le economie nazionali in una recessione tanto evidente che anche alla Commissione di Bruxelles e alla Bce a Francoforte non fanno più molto per nasconderlo. Ma il riconoscimento di un fallimento non significa automaticamente l’indicazione di un’alternativa. Il 17 marzo scorso, tre forze importanti della sinistra europea provarono a delineare «un’altra politica per l’Europa» con quello che venne chiamato il «Manifesto di Parigi», firmato dal Parti Socialiste, dalla Spd e dal Partito democratico e appoggiato da altre formazioni, come il Labour, i socialisti belgi e i laburisti olandesi.
Negli otto mesi passati da allora sono accadute molte cose. La più importante è che Hollande è diventato presidente, facendo scendere le proprie idee dal cielo della politica al terreno concreto del potere istituzionale e dei rapporti di forza internazionali. Ciò gli ha permesso di cucire, anche con l’Italia del governo Monti, una rete di alleanze nella battaglia per il cambiamento delle strategie anticrisi che ha dato qualche prova della propria forza: è dubbio che le misure antispread e la stessa linea Draghi di intervento della Bce sul mercato secondario dei titoli avrebbero mai sfondato nei Consigli europei senza una sponda forte come l’Eliseo e la sinergia con Roma (e Madrid). Anche i socialdemocratici tedeschi hanno dato battaglia alla linea Merkel e, superate divisioni interne e timidezze di natura elettoralistica, propongono per il voto dell’anno prossimo un programma che prevede forti riforme sul capitolo delle regole da imporre ai mercati finanziari e il principio della condivisione del debito, ancora indigesto alla maggioranza dei tedeschi (ma le battaglie politiche proprio a questo servono: far cambiare opinione alle persone). Recentemente, l’istanza della regolamentazione dei mercati è stata ripresa con forza dal leader laburista britannico Miliband proprio nel paese più «difficile» per chi vuole quelle riforme. Esiste, insomma, uno schieramento politico che, pur con molte contraddizioni interne e con tante timidezze, definisce il terreno di un’alternativa all’Europa dei sacrifici sull’altare del Dio Pareggio di Bilancio e della liquidazione del welfare. L’incontro di Parigi ne è stato eloquente testimonianza riproponendo, come già il manifesto, la centralità delle politiche per il lavoro e per gli investimenti. Sarebbe sbagliato, però, lasciarsi prendere dall’ottimismo. Contro la costruzione di una reale alternativa all’austerity restano tre ostacoli possenti. Il primo, che va riconosciuto onestamente dalla sinistra anche se viene usato troppo spesso come alibi dalla destra, è la stessa gravità della crisi nei paesi a debito forte. Misure tutte “finanziarie” come gli acquisti dei titoli da parte della Bce sono probabilmente inevitabili in questo momento, anche se si muovono sul terreno «del nemico» e sono, soprattutto, molto discutibili sul piano dei controlli parlamentari e democratici. Il secondo ostacolo sono i rapporti di forza tra i paesi e tra le loro politiche economiche in Europa. Nonostante Hollande, le suggestioni monetariste e neoliberiste che hanno preso il sopravvento negli anni ’80 sono ancora molto forti. Non tanto, forse, nell’opinione pubblica dei diversi paesi, ma molto, moltissimo, tra le classi dirigenti. La battaglia è tutta da combattere, e non bastano certo i manifesti e gli incontri tra i leader, per quanto importanti e significativi possano essere.
Il terzo ostacolo è tutto interno allo schieramento progressista. Troppo a lungo anche la sinistra, in larghe sue parti, si è sottomessa alla cultura dominante di un pensiero unico economico che escludeva ogni alternativa alla pura e semplice tenuta dei conti di bilancio. Da questa propensione alla rinuncia ad esercitare un’egemonia propria non è stata esente neppure la sinistra italiana. Può darsi che le cose, sotto questo aspetto, stiano cambiando, anche sull’onda del sempre più evidente fallimento delle ricette di austerity, ma non c’è dubbio che la questione si ponga anche nel confronto di questi tempi di primarie. In questo senso, la consonanza di accenti sulla necessità di cambiare strategia tra il presidente socialista francese e il leader della più importante forza riformista d’Italia è un segnale che pesa anche sul dibattito nel nostro paese.

l’Unità 26.10.12
Pd, la leadership non è solo carisma
di Giorgio Caravale


DA QUANDO BERSANI È STATO NOMINATO SEGRETARIO DEL PD i suoi detrattori non si sono mai stancati di gridare ai quattro venti che non aveva il carisma necessario per guidare un grande partito, non era un trascinatore di folle né un grande comunicatore e che la sua attitudine a occuparsi di problemi concreti piuttosto che di grandi ideali, la sua incapacità di far sognare gli italiani ne faceva già in partenza un leader zoppo. La politica spettacolo fatta di annunci, promesse e slogan, con la quale il ventennio berlusconiano sembrava aver segnato il destino dello scenario italiano per i decenni a seguire, non accettava cambiamenti di rotta. Bersani è stato capace di trasformare quell’apparente elemento di debolezza nella sua più grande risorsa. Il segretario del Pd si è proposto ai suoi elettori e all’opinione pubblica come il vero antidoto alla politica tutta chiacchiere e champagne con cui siamo stati governati negli ultimi quindici anni, condotti per mano fin sull’orlo dell’abisso greco. Quella politica ha fallito non solo perché il Cavaliere è annegato nel suo edonistico egocentrismo ma soprattutto perché una forza politica piegata sui capricci del proprio leader, un partito incapace di discutere democraticamente al proprio interno non ha alcun futuro. Le desolanti cronache degli ultimi mesi raccontano di un partito in dissoluzione, privo di radicamento territoriale e di direzione politica: in altre parole del più grande fallimento della storia repub-
blicana.
Osservando l’ultima nostrana esplosione di demagogia plebiscitaria il M5S di Beppe Grillo è forte la sensazione del déjà-vu. Sappiamo già tutto di leader mediaticamente vincenti, di slogan antipolitici che stuzzicano gli appetiti dell’elettorato italiano, di uomini ombra che tirano le fila del movimento selezionando i più fedeli esecutori del verbo principesco. Persino Matteo Renzi, pur con stile e formazione politica diversa, sembra a volte cadere nei tranelli di un modello politico al quale per lungo tempo siamo stati colpevolmente assuefatti. L’idea di puntare tutto sull’immagine di un leader giovane, carismatico e vincente affonda le sue radici in un’analisi storica che vede la scena politica irrimediabilmente e geneticamente trasformata dagli «splendori» dell’ultimo ventennio berlusconiano. Ma non è solo una questione di immagine. La proposta che Renzi ripete ormai come un mantra, quella di assicurare 100 euro in più al mese nelle tasche degli italiani, suona, indipendentemente dalla sua sostenibilità finanziaria, come un’inquietante riproposizione di certe demagogiche proposte che hanno scandito gli anni di governo berlusconiano, una scimmiottante riproposizione di promesse mai mantenute formulate nei «salotti buoni» della televisione di Stato italiana: è la forza dello slogan che conta, la proposta semplice e allettante che parla direttamente alla pancia dell’elettore.

La Stampa 26.10.12
La sua portavoce Alessandra Moretti
«Pier Luigi sembra Cary Grant»


Alessandra Moretti, portavoce della campagna di Pier Luigi Bersani, non ha dubbi su chi sia più bello tra il segretario del Pd e Matteo Renzi. «Bersani tutta la vita», ha assicurato in un’intervista a La Zanzara, su Radio24. «Ma avete visto le foto di Bersani da giovane quando aveva i capelli fluenti? Assomiglia a Cary Grant, un possibile attore, e poi è alto e con le spalle larghe. Non c’è paragone con Renzi, che ha pure quel modo di parlare così strano...», ha spiegato. Secondo la Moretti, poi, Renzi ha molto in comune con Silvio Berlusconi. «Dire che assomiglia a Berlusconi non è un’offesa, perché Berlusconi è stato un grande politico e un grande comunicatore. E Renzi un po’ gli assomiglia, fa la primadonna, è egocentrico ed è anche maschilista. Quando l’ho visto gliel’ho detto in faccia. E in più intorno ha una corte di donne, ama essere al centro dell’attenzione».
Bersani ha scelto di essere altro. Non si propone come un uomo solo al comando ma come un leader al servizio di un progetto, il coordinatore di un gruppo di donne e di uomini che lavorano insieme alla realizzazione di un programma politico solido e concreto. Non sceglie di circondarsi di uomini a lui fedeli, bensì di valorizzare le forze che il partito ha a disposizione sul territorio. Non ama la figura dell’intellettuale organico ma è perfettamente consapevole del contributo che il mondo della cultura può dare al partito. Soprattutto, ha disinnescato con abilità la miccia che Renzi aveva acceso sotto il suo tavolo. Lavorando per un graduale ma radicale rinnovamento del partito, favorendo l’ascesa di giovani talenti a posti di responsabilità politica ha depotenziato, fino quasi a privarla di significato, la parola d’ordine su cui il suo antagonista ha costruito la propria forza politica. Aveva cominciato con la segreteria nazionale, composta in prevalenza da trenta-quarantenni, ha proseguito con la scelta di affidare il suo comitato per le primarie a tre giovani esponenti di partito e sta continuando con la costruzione di un legame solido e duraturo con le forze migliori della società civile.
È questa la vera rivoluzione silenziosa della scena politica italiana, una rivoluzione che non dovrà fermarsi neppure di fronte al rebus della riforma elettorale. Se questa non dovesse cambiare sarà necessario individuare autonomamente meccanismi di selezione partecipativa che possano continuare a riannodare il filo spezzato tra politica e cittadini, migliorando la qualità e il livello della classe politica italiana. Anche se nessuna normativa glielo imporrà, anche se nessuna forza politica lo seguirà, il segretario del Pd sa che le rivoluzioni silenziose vanno portate fino in fondo, se necessario anche in solitudine. E Bersani ha già dimostrato di saper tirare dritto per la sua strada, senza prestare ascolto al gruppo dirigente del partito né alle sirene ammalianti dei sondaggi demoscopici.

il Fatto 26.10.12
Monti, schiaffo della casta: niente taglio alle Regioni
di Marco Palombi


Con un secco “parere contrario” la commissione bicamerale impallina il decreto del governo per arginare i casi Fiorito e le ruberie negli enti locali. I parlamentari non gradiscono i controlli della Corte dei Conti, ma il segnale è chiaro: sui soldi non si passa. Cosa farà il professore?
Non tiene più. Il fragile equilibrio tra il governo tecnico e la sua scombinata maggioranza politica è solo un ricordo: il vento della campagna elettorale, dei sondaggi e del si salvi chi può spira fortissimo sul futuro della legislatura. Non siamo ancora arrivati ai voti contrari veri e propri, che probabilmente porrebbero fine all’esperienza di Mario Monti a palazzo Chigi, ma ogni occasione parlamentare è buona per smarcarsi dal controllo del governo: pareri contrari sui tagli alla Sanità, gli esodati, la retroattività dei tagli a deduzioni e detrazioni fiscali.
IL CASO più sanguinoso però, e anche il riflesso più autolesionista per i partiti, è quello occorso ieri al decreto con cui il governo ha reagito ai vari casi Fiorito mettendo le mani nella spesa di regioni ed enti locali: un testo che prevede un taglio ai costi della politica (stipendi, vitalizi, fondi ai gruppi consiliari) e controlli stringenti, addirittura preventivi, della Corte dei conti sulle leggi di spesa, il tutto condito con l’obbligo ai consigli regionali di adeguarsi alle disposizioni – col Titolo V vigente il governo non può imporsi sulle regioni in questa materia – entro il 30 ottobre, pena sanzioni.
Ebbene, ieri la oscura commissione bicamerale per gli Affari regionali, presieduta dal leghista Davide Caparini, ha dato un secco “parere contrario” al decreto: dal punto di vista tecnico non è successo niente, il decreto deve essere ancora votato dalle commissioni competenti (Affari costituzionali e Bilancio) e la sua approvazione non è certo pregiudicata dal no della bicamerale, però resta il segnale che in particolare su quel testo tira una brutta aria.
Questo parere contrario, infatti, segue di un giorno una lettera di lamentele inviata a palazzo Chigi dai presidenti delle commissioni di merito, il leghista Giancarlo Giorgetti e Donato Bruno del Pdl: non si può imporre alle regioni il termine della fine del mese, scrivono, quando il decreto non sarà stato ancora approvato dal Parlamento. E poi c’è la furbata serale del presidente della Conferenza delle regioni, l’emiliano Vasco Errani, che ieri ha fatto finta che il decreto sia già stato bocciato: “Noi avevamo chiesto una convocazione straordinaria per il 30 ottobre per discutere del decreto sui costi della politica, ma siamo di fronte ad una bocciatura del testo. Il governo ora ci deve dire cosa fare”.
MA COSA non piace ai partiti di questo decreto? Non il taglio ai costi della politica, che anzi tutti si affannano a supportare, compresa la bicamerale di cui sopra. A presidenti di regione e parlamentari d’ogni colore non è piaciuto, dicono, il tono perentorio del decreto (entro il 30 ottobre) e disquisiscono con preoccupazione intorno alla “violata autonomia organizzativa” degli enti locali e al possibile blocco della macchina amministrativa: col controllo preventivo della Corte dei Conti si bloccherà tutto, le procedure saranno troppo complesse.
Vola alto Luciano Pizzetti del Pd, membro della commissione bicamerale: “Questo testo è l’atto di morte del federalismo e rinnega la storia repubblicana fondata sul concetto di autonomie”.
Dove si gioca seriamente, nelle commissioni di merito, volano più bassi, ma la sostanza è la stessa: “E’ emersa l’unanime volontà di riscrivere il decreto in punti decisivi”, butta lì il relatore, Pierangelo Ferrari, Pd pure lui.
Insomma, magari non avranno coraggio di toccare il taglio agli stipendi e via dicendo, ma la Corte dei Conti in casa non la vogliono proprio. E’ un peccato che, sempre ieri, la magistratura contabile abbia fatto sapere, con una nota, che i responsabili regionali hanno quasi finito di attrezzarsi per i nuovi compiti loro assegnati proprio dal decreto: evidentemente la cosa non è così difficile come sembra guardandola da dentro una commissione, bi o monocamerale che sia.

Corriere 26.10.12
Assalto alla diligenza dello Stato. Così i partiti vanificano i tagli
di Sergio Rizzo


L' odore delle urne è forte e penetrante. Tanto forte da far resuscitare in Parlamento lo spirito del Far West. Quello dell'assalto alla diligenza delle vecchie leggi finanziarie, che l'ex superministro dell'Economia Giulio Tremonti all'inizio di questa legislatura aveva tentato di scongiurare per sempre con l'anticipo estivo della manovra annuale. Non c'è stato nulla da fare: non è servito nemmeno ribattezzarla «legge di Stabilità». Ancora prima che varcasse la soglia della Camera i partiti hanno cominciato a smontarla. Pezzo per pezzo. Dal taglio di 600 milioni alla spesa sanitaria, all'aumento dell'Iva con contestuale riduzione dell'Irpef, alla retroattività del giro di vite alle detrazioni, all'aumento dell'orario di lavoro per gli insegnanti…
Molte delle misure proposte dal governo possono essere considerate discutibili, ma sarebbero sottoposte a un simile martellamento se il Paese non fosse già in campagna elettorale? Sembra di assistere alle stesse scene che tenevano le Camere impegnate da ottobre a dicembre sotto un diluvio di migliaia di emendamenti, con le lobby scatenate per piegare a loro vantaggio ogni singolo comma della finanziaria. Diluvi tanto più violenti quanto più le elezioni erano vicine. E sotto quello scatenatosi ora non regge niente. Perché il ciclo elettorale nel quale siamo piombati non è uno dei tanti. Fra qualche mese si vota per il rinnovo del Parlamento. Con tanto di primarie al curaro. Ma si vota anche per le due Regioni politicamente più importanti: la Lombardia e il Lazio, i cui consigli regionali sono stati prematuramente azzerati dalla cronaca nera. Questione di giorni e pure i cittadini siciliani dovranno scegliere il loro nuovo governatore, nell'incertezza più assoluta. L'unica cosa sicura è che niente sarà più come nei vent'anni appena trascorsi. Lo sanno tutti. Ne sono coscienti i moltissimi parlamentari che temono di dover dare l'addio definitivo al seggio come pure i politici locali travolti dagli scandali in periferia. E nessuno è rimasto con le mani in mano in attesa della ghigliottina. Lo dimostra il fatto che mercoledì la Commissione parlamentare per le Questioni regionali presieduta dal leghista Davide Caparini ha bocciato il decreto legge del governo di Mario Monti che dovrebbe sottoporre gli atti delle Regioni alla verifica della Corte dei conti affidando alla magistratura contabile anche il controllo dei bilanci dei gruppi politici e delle assemblee degli eletti. Un provvedimento preso d'urgenza, dopo lo choc provocato nell'opinione pubblica tanto dalle sconcertanti vicende del Consiglio regionale del Lazio, con i fondi pubblici usati per comprare auto di lusso o pagare viaggi di piacere e cene pantagrueliche, quanto dalle inchieste sulla sanità lombarda e dagli illeciti perpetrati in molte altre realtà, dal Nord al Sud. Poco importa che il decreto avesse avuto il benestare degli stessi vertici delle Regioni, a partire dal presidente della Conferenza Vasco Errani, governatore democratico dell'Emilia-Romagna. Il relatore Luciano Pizzetti, democratico e bersaniano come lui, è arrivato a sostenere che i presidenti delle Regioni «non appaiono in grado di salvaguardare le proprie prerogative costituzionalmente riconosciute»: testuale. E se si considerano «apprezzabili le misure tese a determinare una riduzione dei costi della politica nelle Regioni», i controlli della Corte dei conti, quelli non sono proprio accettabili. Per quale motivo? Semplicissimo: «comprimono eccessivamente la sfera di competenza propria delle autonomie regionali». Tutti d'accordo con questo principio, enunciato dal leghista Gianvittore Vaccari. Perciò il decreto legge va rispedito al mittente. Non conta che proprio la mancanza di controlli sia responsabile non soltanto di enormi sprechi di denaro pubblico, gigantesche inefficienze e inaccettabili clientelismi, ma anche degli scandali che stanno trascinando la politica nella melma del discredito alimentando la sfiducia dei cittadini? Nossignori. L'autonomia… Un principio nobile e sacrosanto. Purtroppo ridotto, in molte circostanze, a far da scudo ai rimborsi chilometrici per l'auto incassati pure se si viaggia in treno, ai contributi senza obbligo di rendicontazione, alle assunzioni di amici e parenti nelle società controllate, alle nomine nelle aziende sanitarie non per merito ma per tessera. Che cosa c'entra tutto questo con l'autonomia, ce lo dovrebbero spiegare… Si narra che la bocciatura parlamentare sia maturata dopo un'interminabile processione di questuanti: chi ha il mutuo da pagare, chi non può «assolutamente» rinunciare al vitalizio, chi deve mantenere due famiglie. Se la carne è debole, questa politica lo è ancor di più. Chi aveva creduto per una volta tanto in un sussulto d'orgoglio di una classe dirigente tristemente avviata al crepuscolo, atto doveroso nei confronti di un Paese stremato dalla sua inettitudine, si deve ricredere. Non cambiano. Durante il dibattito in Commissione il relatore Pizzetti ha detto di considerare «un grave errore assecondare, nelle sedi istituzionali, le istanze di un'opinione pubblica esacerbata e indignata dai recenti scandali promuovendo misure che stravolgono l'impianto complessivo della Costituzione». Giudicate voi.

il Fatto 26.10.12
Quando Monti prese il volo blu per fare gli auguri
19 settembre, aereo di Stato per Milano, il premier va al compleanno del Maestro Guatri
La replica: c’era pure un incontro in Prefettura. Ma non risulta
di Stefano Feltri


Tra i successi di Mario Monti nel contenere la spesa pubblica c'è l'aver ridotto del 92 per cento, secondo i numeri di Palazzo Chigi, la spesa per i voli di Stato, completamente fuori controllo nella fase finale del potere berlusconiano. Un risparmio di 23,5 milioni di euro nei primi 100 giorni dell'esecutivo. Per questo stupisce che proprio il professore abbia derogato a questa morigeratezza aerea, concedendosi un volo di Stato per un impegno molto privato, difficile da ricondurre a quel “supporto all'espletamento delle funzioni istituzionali” che secondo la direttiva di Palazzo Chigi giustifica i trasporti speciali (è comunque prevista un’apposita deroga per i membri del governo).
IL 19 SETTEMBRE 2012, a Milano, Luigi Guatri festeggia gli 85 anni all'hotel Principe di Savoia, ci sono 200 invitati, tutta la Bocconi (e la finanza) che conta. Guatri è molte cose, il più importante esperto di economia aziendale in Italia, per decenni presente in tutti i consigli di amministrazione decisivi, ma per Monti è soprattutto un maestro: nel 1994 lo ha accompagnato alla presidenza della Bocconi e nel 2011 è diventato reggente quando si è insediato il governo dei tecnici. Perfino uno impassibile come Monti, a febbraio, si è quasi commosso quando è tornato in Bocconi e ha incontrato Guatri che oggi è il presidente pro-tempore dell'ateneo milanese. Gli 85 anni del maestro, quindi, erano un evento importante. Come riportato dalla rivista romana Parioli Pocket e rilanciato da Dagospia, il 19 settembre Monti va a Milano per la festa di compleanno con il volo di Stato del 31esimo stormo dell'Aeronautica militare, dallo scalo di Ciampino a quello di Li-nate. Torna a Roma la mattina dopo, ha un importante Consiglio dei ministri. Giusto una scappata per la festa al principe di Savoia. Tutto normale? Dalla Presidenza del Consiglio rispondono che “non c'è nulla di segreto, era tutto sul sito del governo e sono uscite agenzie di stampa”. A essere pignoli, cercando la parola “Guatri” nel sito ufficiale non esce alcun risultato. Ma è vero che la serata non è certo stata clandestina: il quotidiano Italia Oggi, per esempio, riporta che in quell'occasione Monti ha detto che prima di accettare il governo “ero in dubbio, perché mi dicevo: come posso lasciare la Bocconi? Luigi [Guatri], ancora una volta mi ha rassicurato: avrebbe fatto lui il lavoro che spettava a me. Se Luigi non fosse stato disponibile probabilmente avrei detto di no e quindi chissà quante tasse in meno avrebbero gli italiani”. Il punto però non è la segretezza, anche se sul sito del governo sono riportati i voli di Stato di tutti i ministri tranne che del premier (per analoghe ragioni di sicurezza sono secretati anche quelli del capo dello Stato, del presidente della Corte costituzionale e di quelli delle Camere). Negli anni scorsi, diversi membri dei passati governi sono stati criticati per aver usato i voli di Stato con troppa disinvoltura. Da Silvio Berlusconi che si portava appresso Mariano Apicella in Sardegna a Francesco Rutelli e Clemente Mastella sorpresi dall'Espresso mentre andavano al Gran Premio di Monza. Ignazio La Russa, da ministro della Difesa, è stato redarguito dalla Corte dei conti dopo un volo Roma-Milano destinazione stadio di San Siro per una partita dell'Inter (lui si è giustificato dicendo che erano i servizi di sicurezza a imporgli di usare quel tipo di mezzo). Per quanto di tipo differente, anche l'incontro di Monti era abbastanza privato. “Il presidente aveva ovviamente anche altri impegni a Milano”, aggiungono dallo staff del premier. A domanda precisano che quella sera il professore era atteso in prefettura per “un impegno riservato”. Dall'ufficio stampa della prefettura di Milano rispondono al Fatto Quotidiano che per quella sera, il 19 settembre, “non risulta in agenda alcun incontro con il presidente Monti” (ma forse era così riservato che non è stato annotato dalla segreteria del prefetto Gian Valerio Lombardi). La deputata radicale Elisabetta Zamparutti, che già in passato si è occupata dei costi dei voli di Stato costringendo il governo Berlusconi a rivelare i numeri, presenterà un’interrogazione parlamentare “per chiarire i dettagli della vicenda”.

La Stampa 26.10.12
Montezemolo e i cattolici “verso la Terza Repubblica”
Appello per un “contenitore” della società civile Con lui il ministro Riccardi, Bonanni, Olivero e Dellai
di Marco Castelnuovo


A sinistra e a destra, le primarie hanno impresso un forte dinamismo. Ma anche al centro si accelera. Associazioni cattoliche, fondazioni, membri della società civile, del volontariato, della cultura e dell’impresa hanno presentato un appello a partecipare, il 17 novembre prossimo, alla nascita di un nuovo soggetto politico «democratico, popolare e liberale» verso «la terza Repubblica». Un contenitore che tenga insieme «la società civile e il rinnovamento della politica» come recita il titolo del documento. Cinque i promotori, rappresentanti di fette di quella società civile restata forse per troppo tempo alla finestra: il presidente di Italia Futura Luca Cordero di Montezemolo insieme con il ministro per la Cooperazione internazionale Andrea Riccardi (fondatore della Comunità di Sant’Egidio), il segretario generale della Cisl Raffaele Bonanni, il presidente delle Acli Andrea Olivero, il presidente della provincia autonoma di Trento Lorenzo Dellai.
«È urgente - è l’incipit di questa “chiamata alla partecipazione” - aprire una stagione di riforme in continuità con quanto di meglio ha realizzato il governo guidato da Mario Monti che ha avuto il merito di rasserenare il clima di intollerabile antagonismo della politica italiana e di restituire prestigio e credibilità all’Italia». Una serie di riforme che «non possono arrivare dai partiti politici così come li conosciamo, ma da una presa di responsabilità corale di forze sociali, culture civiche e realtà associative».
Quello del 17 novembre vuole essere «un incontro aperto a tutti gli italiani che, provenendo da culture e tradizioni diverse, condividano convinzioni e fiducia nel futuro del nostro Paese ponendo argine ai populismi di destra e di sinistra», si legge. Tra i firmatari, oltre ai promotori ci sono anche esponenti del mondo dell’impresa e della cultura come Ernesto Auci, l’ex Presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali Andrea Carandini, il generale Vincenzo Camporini, il critico Francesco Bonami, il magistrato Stefano Dambruoso, lo scrittore Edoardo Nesi, il produttore cinematografico Riccardo Tozzi, Nicola Rossi, Irene Tinagli.
Il manifesto chiede, tra l’altro, di un «urgente e radicale cambiamento della politica e una sua estesa apertura alla società civile, premessa per ogni tentativo di ricostruzione morale, politica ed economica del Paese». Si può intravedere già la base di un programma politico: per restituire «dignità al lavoro sia come servizio pubblico che come intrapresa privata», «rafforzare i processi democratici» e la loro trasparenza, promuovere la «sussidarietà», e tornare alla crescita dell’economia italiana attraverso la «riduzione della pressione fiscale». Una giornata di «ricostruzione civile», dunque, rivolta anche agli «amministratori locali, nella convinzione che il rinnovamento della politica non passi attraverso la furia distruttiva dell’antipolitica».
Tra i firmatari non c’è Oscar Giannino, giornalista e animatore di «Fermare il declino», che in teoria, avrebbe dovuto essere tra gli organizzatori dell’evento di novembre. «Non abbiamo firmato il manifesto perché, seppur a sommi capi, avevamo chiesto una tabella di marcia sulle cose da fare - spiega Giannino -. Non si parla di privatizzazioni, dismissioni, introduzione del merito nella pubblica amministrazione. Pensiamo che si debba scartare rispetto all’agenda Monti».

Corriere 26.10.12
Tutte le carte da rimescolare
di Massimo Franco


Il vuoto lasciato dalla tortuosa uscita di scena di Silvio Berlusconi induce a chiedersi dove andrà il suo elettorato. È una domanda strategica, perché l'alleanza modellata dal e sul Cavaliere ha rappresentato il baricentro del sistema politico italiano dopo la fine della Guerra fredda. A livello governativo, si può dire che lo spazio è stato occupato da Mario Monti, icona di un'«altra Italia» più credibile sul piano internazionale rispetto a quella degli ultimi esecutivi. Ma nelle urne il presidente del Consiglio sarà presente solo come punto di riferimento simbolico: un «non candidato» al quale ci si può richiamare, ma che non si può votare.
La sua comparsa ha accelerato la scomposizione dei vecchi schieramenti. E il tentativo di aggregazione fra quanti si definiscono «montiani» e vogliono offrire una scelta alternativa a quelle tradizionali, segna una novità e un passo avanti: se non altro perché mette da parte ambizioni e velleità personali. Il documento che pubblichiamo oggi supera la nebulosa del convegno di cattolici dello scorso anno a Todi. E, nel suo trasversalismo, punta a ridurre la frammentazione e a rilanciare un'agenda europea che altrimenti apparirebbe annacquata, se non disdetta. È un fronte che prima mostrava generali e colonnelli inclini al protagonismo. Ora, invece, cerca di diventare l'interlocutore di un elettorato in fuga dal centrodestra e, in parte, dalla sinistra.
Di quest'area sarebbe perno naturale Pier Ferdinando Casini, il più «montiano» fra quelli che appoggiano il premier. Ma un Pdl schierato con Palazzo Chigi, seppure per necessità, insidia e insieme incrocia l'Udc: anche per il plauso col quale il Vaticano si è affrettato a salutare il passo indietro di Berlusconi. E il Pd di Pier Luigi Bersani, slittando verso un'alleanza con le sinistre, di fatto sta archiviando Monti, a costo di regalarlo agli avversari. La stessa idea di ereditare una fetta del consenso del centrodestra per forza di inerzia è tutta da verificare. È rivelatore lo smottamento di Pdl e Lega alle ultime Amministrative: un calo che non ha portato voti al cosiddetto «Terzo polo», se non in misura trascurabile.
Significa che i due elettorati non sono vasi comunicanti. Una parte consistente dei frutti raccolti in passato dal Cavaliere e dal Carroccio di Umberto Bossi è rotolata nella nebulosa del Movimento 5 Stelle del comico populista Beppe Grillo: un «parcheggio» che espande i suoi confini, insieme al disorientamento e alla delusione di elettori che optano per la protesta perché non vedono un'alternativa di governo all'orizzonte. È possibile che per arginare questa deriva i partiti alla fine decidano di tenersi la brutta legge elettorale di adesso. Ma il risultato sarebbe quello di perpetuare con una forzatura alleanze ormai finite, prolungando e complicando una fase di transizione.
Non ricandidandosi, Berlusconi ha voluto togliere l'ultimo alibi agli avversari, e presentarsi come un benemerito disinteressato al potere. In realtà, ha soltanto preso atto che la sua stagione è finita. Comunque sia, la mossa offre a tutti l'obbligo di ridefinirsi. Da questo momento, velare le proprie responsabilità dietro quelle altrui sarà più difficile. Un elettorato stanco e diffidente è meno disposto ad accettare mediocri scaricabarile di fine legislatura.

Corriere 26.10.12
Appello di cattolici e moderati: serve un centro per cambiare
Da Todi 2 a Montezemolo: l'appello dei cento
Cattolici e società civile nel progetto di nuovo centro per la Terza Repubblica

di M.Antonietta Calabrò

Cattolici e società civile. Dal ministro Riccardi a Montezemolo, ecco l'appello dei cento per un nuovo centro politico. Un progetto che, nelle intenzioni, vuole superare i «populismi di destra e di sinistra» e approfondire gli impegni della cosiddetta «agenda Monti».

ROMA — È stato già definito «l'appello dei cento», la lettera-appello «Verso la Terza Repubblica: la società civile e il rinnovamento della politica». Sono circa cento infatti le personalità che hanno firmato il documento che vede come promotori Luca di Montezemolo, Andrea Riccardi, Andrea Olivero, Lorenzo Dellai, Raffaele Bonanni e molti altri esponenti di un mondo civico riformista, cattolico e liberale che vogliono creare un contenitore di cultura civica, una ripresa di iniziativa della società e dell'economia, una base di concordia costituente per il rinnovamento del Paese.
Questo manifesto insomma costituisce il momento fondativo di quel nuovo contenitore al centro che, nell'intenzione di chi l'ha ideato, dovrà permettere il superamento delle contrapposizione dei populismi di destra e di sinistra, costituendo inoltre la garanzia per un approfondimento, dopo le prossime elezioni, della cosiddetta «agenda Monti» e dello stesso impegno personale dell'attuale premier.
Il prossimo 17 novembre a Roma è già previsto un evento nazionale «nel corso del quale dare voce ai molti italiani e alle molte italiane che condividono questo stesso obiettivo».
L'appello è un documento che ha le sue radici in mondi compositi, a tutti gli effetti trasversale, che non nasce né solo dal recente convegno delle associazioni cattoliche raccolte a Todi, nella cosiddetta «Todi 2», né dalla sola associazione fondata da Luca Cordero di Montezemolo, Italia Futura. Si tratta piuttosto di un momento sinergico di forze di diversa ispirazione della società civile. L'appello circolerà da oggi tra gli aderenti di tante altre associazioni e da ieri sera ha anche un proprio sito web che si chiama appunto «Verso la Terza Repubblica». Tra i primi firmatari: Ernesto Auci, Carlo Calenda, Vincenzo Camporini, Andrea Carandini, Carlo Costalli, Stefano Dambruoso, Agostino Giovagnoli, Andrea Moltrasio, Nicola Rossi, Irene Tinagli e il coraggioso editore calabrese Florindo Rubbettino, gli imprenditori Alberto Fontana, Floriano Noto, Riccardo Tozzi, Carlo Pontecorvo.
Non è stato invitato a sottoscriverlo alcun rappresentante nazionale di partito, per evitare che la vecchia politica strumentalizzi questa iniziativa per finte operazioni di rinnovamento.
Il testo parte da una premessa: «Per uscire dalla crisi italiana è urgente aprire una stagione di riforme di ispirazione democratica, popolare e liberale, legittimate dal voto di milioni di italiane e di italiani, in continuità con quanto di meglio ha realizzato il governo guidato da Mario Monti che ha avuto il merito di rasserenare il clima di intollerabile antagonismo della politica italiana e di restituire prestigio e credibilità all'Italia».
Il cambiamento — continua l'analisi del documento — non arriverà «dai partiti politici così come li conosciamo, ma da una presa di responsabilità corale di forze sociali, culture civiche e realtà associative capaci di contribuire attivamente alla rigenerazione e al governo della nazione».
Secondo i promotori «la Seconda Repubblica, che si sta dissolvendo, lascia una pesantissima eredità di sfiducia nelle istituzioni e di distacco tra le stesse istituzioni e i cittadini» e anzi «è in pericolo la stessa tenuta del Paese, frammentato e preso dal pessimismo, con rischi di cedimento della coesione sociale e del vivere insieme».
Più volte l'appello cita i concetti di «casa comune» e di «bene comune», come fondamentali per riuscire nella ripresa, con uno Stato che da «pervasivo ma inefficiente», diventi piuttosto concentrato sui «cardini che costituiscono la sua missione».
Ed ecco alcune parole d'ordine. «Dignità del lavoro», «sia come servizio pubblico che come intrapresa privata». Una «profonda riforma del welfare» come generatore di opportunità; la «riduzione della pressione fiscale» collegata alla necessità di fare del lavoro, della produzione e della cultura altrettanti motori di sviluppo della nazione. Davanti alle molteplici sfide della globalizzazione l'Italia — secondo i promotori — deve investire «sull'unità europea, via maestra per affrontare i problemi del XXI secolo». Viene infine sottolineato «il valore della sussidiarietà per ogni progetto di rinascita civile ed economica del Paese, come un'idea forte della persona e del valore della sua iniziativa anche in risposta ai nuovi bisogni».
Ma è soprattutto «lo spirito» dell'appello a differenziarlo dalle altre proposte di singole ricette, pur necessarie. I promotori si auspicano che l'Italia possa «tornare a giocare in attacco, come nei momenti migliori della sua storia», e possa essere «quel Paese migliore» che i cittadini si meritano, «che ispiri fiducia, prenda sul serio ogni legittimo desiderio di benessere, non abbandoni nessuno». Per far questo «è indispensabile recuperare la speranza e attivare risorse e pensiero contro la lettura vittimista del nostro presente e del nostro futuro». Perché «nel nostro Paese da troppo tempo non si riescono a mobilitare le passioni e le idee e istituzioni ingessate hanno perso la loro funzione vitale».
Senza osare un vero e proprio paragone, questo «spirito» permette un accostamento tra l'appello dei cento e quello «ai liberi e ai forti» lanciato da don Luigi Sturzo, quasi cento anni fa, all'inizio del XX secolo.

Corriere 26.10.12
Porcellum, la riforma è a rischio Solo dieci settimane per concludere
di Francesco Verderami


Se il Senato non licenzia il testo a metà novembre potrebbe restare il sistema attuale
ROMA — Serve la volontà politica per varare una nuova legge elettorale, ma serve anche il tempo per approvarla. E il tempo è quasi scaduto. Così chi punta a conservare il Porcellum sa di poter sfruttare questo fattore, e sa che ormai manca poco all'obiettivo. Perché se il Senato non avrà consegnato alla Camera il provvedimento entro metà novembre, vorrà dire che — con ogni probabilità — la prossima sfida nelle urne si disputerà con l'attuale sistema di voto. Ora l'approvazione della riforma è diventata (anche) una questione di date, e il timing si è trasformato nel miglior alleato per chi mira ad ostacolare il progetto, perché questo tipo di sabotaggio sarebbe meno eclatante e all'apparenza garantirebbe un minor impatto politico rispetto a un agguato in Aula con le votazioni a scrutinio segreto.
I partiti al momento ostentano tranquillità e sostengono che il tempo non manchi. Ma il nervosismo del Colle, le ripetute esternazioni del capo dello Stato che esorta a trovare un'intesa e a fare presto, minacciando in caso contrario il messaggio alle Camere, raccontano un'altra storia. Non a caso ieri Calderoli — come a voler scoprire le manovre dilatorie — ha invitato il governo a muoversi «per decreto», così da «sanare» il Porcellum e introdurre una soglia per accedere al premio di maggioranza. L'ex ministro sa che Monti non intende intervenire, perché una simile norma indirizzerebbe il risultato delle Politiche: la provocazione è servita piuttosto a denunciare il fatto che «nessuno vuol cambiare la legge elettorale». E uno dei modi per soffocare la riforma è far spirare il tempo.
Per valutare quanto ne rimane è stato fatto un calcolo partendo dalla data delle elezioni, previste per il 7 aprile. Andando a ritroso, lo scioglimento delle Camere avverrebbe il 17 febbraio. È questa la data decisiva, perché consente di stabilire quante settimane lavorative rimarrebbero a disposizione dei deputati per approvare il provvedimento proveniente dal Senato. Il computo è stato fatto dagli uffici di Montecitorio: non più di dieci. E siccome le prime due settimane servirebbero per l'esame in Commissione, il disegno di legge approderebbe in Aula agli inizi di dicembre.
Tempo ce ne sarebbe, se non fosse che il regolamento della Camera è diverso da quello di Palazzo Madama, e rischia di diventare un ostacolo all'iter della riforma. Le norme che regolano l'attività di Montecitorio non consentono infatti di applicare il contingentamento dei tempi a quei provvedimenti che giungono «in prima iscrizione» all'esame dell'Aula e che possono contemplare votazioni a scrutinio segreto. È il caso della materia elettorale. Pertanto la discussione sul disegno di legge andrebbe prima incardinata, poi sospesa e infine reinserita con apposita decisione della Conferenza dei capigruppo.
Così si arriverebbe a metà dicembre, a ridosso delle festività natalizie e della pausa dei lavori parlamentari. Non a caso gli sherpa dei partiti sostengono che «o c'è la legge a Natale o la legge non ci sarà». Il ruolino di marcia potrebbe ancora essere rispettato, seppur sul filo, ma a Palazzo Madama al momento tutto è fermo per l'assenza di un'intesa tra i partiti, non certo per volontà del presidente del Senato Schifani e del presidente della commissione Affari costituzionali Vizzini, che ieri anzi ha voluto far votare un emendamento: il primo. L'impegno è che il testo arrivi in Aula «entro il 9 novembre».
È possibile che l'Assemblea approvi la legge nel giro di pochi giorni, per consegnarla giusto in tempo alla Camera? Forse solo un accordo blindato lo garantirebbe. Ma sia il nodo politico sul premio di maggioranza (che sta a cuore ai partiti), sia il nodo parlamentare sulle preferenze (che tocca gli interessi di deputati e senatori) restano ancora aggrovigliati. È vero che nuove trattative sono in corso, ma è altrettanto vero che il timer sta per azzerarsi.
E pur immaginando un'accelerazione che consenta di tenere il passo con le scadenze, la riforma sarebbe a rischio. Per diventare legge infatti, calendario alla mano, non dovrebbe subire modifiche alla Camera, non dovrebbe prevedere la riscrittura dei collegi, e — come non bastasse — tra la data di approvazione e la data di scioglimento delle Camere dovrebbe anche garantire a quei partiti che oggi non siedono in Parlamento il tempo necessario per organizzarsi in base alle nuove regole. Un dettaglio non secondario, per chi maneggia istituzionalmente la materia e ha già i sudori freddi: perché fuori dal Palazzo c'è il Movimento 5 Stelle...

Corriere 26.10.12
Il litigioso crepuscolo dell’isola comunista
Lo spettro del «padrone» e l'identità del comunismo
Lite in prima pagina sulla crisi del manifesto
di Pierluigi Battista


Ma che succede al manifesto? Certo, la crisi, l'amministrazione controllata, la liquidazione, il rischio concreto della chiusura: i drammi che si trascinano dietro il momento più delicato della vita di un giornale, la possibile estinzione di una testata prestigiosa che dal 1971 è stata un pilastro del giornalismo politico italiano di sinistra. Ma quali sentimenti e risentimenti scorrono, quando in uno psicodramma collettivo si legge su quel giornale che «ci suona pretestuosamente polemico il riferimento di Valentino Parlato al commento nel quale citavamo l'articolo di Rossana Rossanda»?
Oppure, sempre nell'articolo a firma della direzione del giornale composta da Norma Rangeri e Angelo Mastrandrea, si recrimina perché è stato faticoso «fisicamente e psicologicamente, lavorare senza poter contare sulla solidarietà esplicita di persone che hanno fatto la storia del manifesto»? Siamo all'accusa di diserzione, o poco ci manca. Ma con un ammirevole esercizio di glasnost, le colonne del manifesto sono diventate in questi giorni lo scenario di un conflitto durissimo. Alla vigilia di scelte drammatiche. A poche ore da soluzioni che potrebbero essere traumatiche, la discussione in quel giornale-simbolo ha preso una piega emotivamente terribile. Con tensioni che non risparmiano i pilastri del gruppo storico, da Rossana Rossanda a Valentino Parlato, che del manifesto sono stati l'anima e il motore per oltre quarant'anni. E tutto all'aperto, senza attenuazioni diplomatiche, senza reticenze. «Voler far passare il documento di Rossana Rossanda come la linea del giornale quando si sa che alle assemblee del collettivo il suo documento è stato citato da alcuni ed è stato accolto nell'indifferenza generale, ha provocato la giusta reazione di Rossana. E la mia», scrive Parlato. Che aggiunge, attribuendo la crisi mortale del giornale non a una generica «crisi dei giornali»: «Il giornale ha perso la fisionomia che aveva in tempi migliori». E i tempi peggiori sono in agguato: «A dicembre i liquidatori metteranno in vendita la testata e nessuno di noi ha i soldi per comprarsela. Forse ci sarà un padrone. Questo ancora nostro giornale rischia di scomparire in silenzio o di finire in altre mani».
È un pezzo di storia politica e culturale italiana che rischia la chiusura. Nato da un'eresia nel Pci, il manifesto non ha mai rappresentato una formazione monolitica. Il contrasto tra la sua natura giornalistica (sin dall'inizio difesa come una creatura delicata e vulnerabile da Luigi Pintor) e il suo legame con un partito, un progetto politico organizzato è sempre stato fonte di lacerazioni che dilaniarono il nucleo storico che aveva dato l'avvio alla rivista, che era stato radiato dal Pci e che poi ha fondato il «quotidiano comunista» nell'aprile del 1971. Ci sono state scissioni, abbandoni. Scontri epici tra generazioni diverse. Conflitti tra chi voleva che il giornale non si chiudesse nella fortezza ideologica e che si aprisse ai linguaggi della modernità e chi invece, pur provenendo da un'esperienza eretica o come tale vissuta dentro il grande corpo del Partito comunista, non ha mai inteso rinunciare alla pienezza dell'espressione «comunista», anche nella sua accezione più conservatrice. Un'esperienza politica che nasce come critica a una delle pagine più tragiche del comunismo realizzato, «Praga è sola» dopo l'invasione sovietica nel '68, ma che si ostina a stare orgogliosamente «dalla parte del torto» anche se le bandiere del comunismo mostrarono tutte le macchie nella Cina maoista, nella Cuba castrista oltreché nell'Est europeo liberato dopo la caduta del muro di Berlino e la fine dell'Unione Sovietica.
Eppure ora si nota un'asprezza di toni come non si era mai vista nemmeno nei giorni di più acuta tensione interna. Molte volte il manifesto è stato finanziariamente sull'orlo del tracollo e sempre alla fine è riuscito ad andare avanti (con un Valentino Parlato acuto stratega del fund raising del giornale). Ma adesso che lo spettro della fine effettiva si profila con una concretezza angosciosa mai sperimentata prima, sembra che il tappo della solidarietà elementare tra compagni e colleghi stia saltando. È un momento più che difficile, che merita rispetto. Ma l'acrimonia che traspare tra le righe segna il tramonto di una famiglia politica. Per Rangeri e Mastrandrea non «tenere conto del fatto che i giovani non sanno neppure cosa voglia dire comunismo significa attardarsi in una lotta politica minoritaria». E poi scrivono, come a prevenire eventuali obiezioni sulla durezza delle argomentazioni, sugli attacchi personali che avvelenano i rapporti in un collettivo che sembrava collaudatissimo: «Immaginiamo che la nostra risposta e lo scritto di Valentino Parlato non saranno una piacevole lettura per molti di voi. Avevate pensato che il manifesto, nonostante le difficoltà, fosse unito nella lotta per le magnifiche e progressive sorti della sinistra? Non è così».
«Non è così», seccamente. Vi eravate forse illusi che nel «quotidiano comunista» dove vige il principio egualitario della parità degli stipendi, la prospettiva della fine possa essere vissuta con spirito fraterno? Disilludetevi al più presto. Anche perché non c'è tempo e a giorni si capirà se il manifesto sopravviverà, se avrà un nuovo «padrone». Ha scritto Rossana Rossanda nel corso di questa diatriba feroce e tragica: «La discussione sul manifesto è partita male. La prima domanda non è di chi è, ma che cos'è il manifesto». Una crisi di identità devastante, e non solo una crisi del suo assetto. Una storia che ha trascinato via in questi anni molti dei suoi protagonisti ma che adesso rischia di chiudere i battenti nel peggiore dei modi. Con il coraggio della trasparenza e dei conflitti aperti e non nascosti. Ma con contraccolpi distruttivi. Dalla parte del torto. Ma con molte ragioni.

l’Unità 26.10.12
Vendola, chiesti 20 mesi «Se condannato lascio»
La sentenza attesa per il 31 ottobre
di Giovanni de Mattia


BARI Una richiesta di condanna «esorbitante» e di grande «forza mediatica», sottolinea il governatore della Regione Puglia, Nichi Vendola. Perché «chi mi ha accusato, l’ex dg dell’Asl Bari Lea Cosentino», ieri in udienza «ha negato l’esistenza di un illecito». Tuttavia precisa: «Una condanna per concorso in abuso d’ufficio sarebbe un punto di non ritorno, segnerebbe il mio congedo dalla vita pubblica».
A un mese preciso dalle primarie, il procuratore aggiunto Giorgio Lino Bruno e il sostituto Desirèe Digeronimo, hanno formalizzato le richieste di condanna: un anno e 8 mesi di carcere per un presunto abuso d’ufficio che Vendola avrebbe compiuto sulla “Lady Asl” di Puglia. Abuso che sarebbe consistito nel riaprire i termini ormai scaduti di un concorso per primario di chirurgia toracica all’ospedale San Paolo di Bari, per permettere la partecipazione al professor Paolo Sardelli, ritenuto amico del governatore. Una sospetta pressione che la Cosentino ha denunciato con forza prima in un interrogatorio davanti al pm Digeronimo e che poi avrebbe tentato di aggravare depositando un’indagine difensiva, contenente l’interrogatorio di un altro medico, Luigi Cisternino, escluso da quel concorso (ha chiesto 50mila euro per danni).
INDIETRO TUTTA
Ieri, però, la marcia indietro dell’ex manager e dei suoi difensori, Massimo Chiusolo e Francesca Conte, che hanno «negato l’esistenza di un illecito». E anche alla luce di ciò, la Procura ha comunque mantenuto inalterata la richiesta di condanna, decisamente elevata se si tiene presente che il processo si svolge col rito abbreviato, per cui è previsto uno sgravio della pena. «Credo siano accadute diverse cose in questa fase del procedimento – ha spiegato Vendola – È stata avanzata una richiesta esorbitante, rispetto a un teorema accusatorio che è stato in parte smontato dalla difesa della Cosentino, mia accusatrice. Gli stessi avvocati della donna hanno completamente ridimensionato la portata di quell’interrogatorio da cui origina l’indagine penale». Dunque, «non conosco il professor Sardelli, non è mio amico, né mio parente e sembra appartenere più ad ambienti politici orientati a destra». Di sicuro, però «è un eccellente professionista».
«UNA SELEZIONE DI QUALITÀ»
Inoltre, aggiunge il governatore della Puglia, «negli ultimi anni in Italia sono stati riaperti 181mila concorsi per primari, come dire che non si tratta di una pratica illecita ma di una consuetudine anche a garanzia della qualità della selezione. Detto questo, però, non sono minimamente intervenuto». Del resto, anche leggendo gli interrogatori della Cosentino in altri procedimenti giudiziari sulla sanità, si notano incongruenze con quanto dichiarato sul governatore. In uno, per esempio, specificò che «avevo timore che Vendola sapesse» degli accordi illeciti dietro gli appalti dati a Giampaolo Tarantini. Un dato certo, evidenziato dallo stesso politico, secondo cui «le testimonianze ricavabili dalla stessa attività investigativa e dalle deposizioni della Cosentino in molteplici processi, dicono quale sia stata la mia condotta: sempre estranea a qualunque intromissione, a qualunque connessione di reato».
All’udienza di ieri, comunque, Vendola ha avuto modo di spiegare. «Sono intervenuto per dire qual è stato il mio atteggiamento nei confronti del sistema sanitario. Le continue interferenze che operavo nei confronti dei direttori generali o del management sanitario riguardavano solo lesioni di diritti di ammalati, problemi di disagio o di malasanità». Questo, aggiunge, «è testimoniato e testimoniabile da tutti i direttori generali». Poi ha parlato dei contatti avuti col professor Sardelli, specificando che «ho cominciato ad avere rapporti quando si è trattato di fare del reparto di chirurgia toracica del San Paolo un luogo di eccellenza. E mi sento orgoglioso che lì ci sia il terzo reparto qualitativamente migliore d’Italia, che oggi attrae tanti malati che giungono da altre regioni». Infine stigmatizza le accuse di “Lady Asl”: «Probabilmente vi è stato un risentimento di chi in una certa fase mi ha accusato, anche se oggi i due difensori della Cosentino hanno negato l’esistenza di un illecito, di un reato».
Il processo è stato rinviato al 31 ottobre prossimo, in cui il giudice per l’udienza preliminare Susanna De Felice dovrà stabilire se assolvere il governatore o condannarlo.

Repubblica 26.10.12
Bersani sapeva che i dubbi sulla candidatura erano legati al processo
Tabacci: annuncio onorevole, ma ci indebolirebbe
L’incognita Nichi pesa sulle le primarie “Senza di lui è a rischio il centrosinistra”
di Goffredo De Marchis


ROMA — «Senza Vendola si perde l’idea complessiva del centrosinistra come alternativa di governo». Parola non di un esponente della sinistra radicale, ma del candidato alle primarie Bruno Tabacci, che ieri prima di lanciare la sua corsa ha depositato una sua integrazione alla carta d’intenti: l’agenda Monti. Tabacci e Vendola sono lontani anni luce eppure la prospettiva di un addio del governatore pugliese sarebbe un brutto colpo per la competizione interna. «Per me la presenza di Vendola è un valore. Le pensiamo in maniera diversa, ma l’esperienza di assessore con Pisapia — spiega Tabacci — mi ha insegnato che esiste una sinistra di governo. E se si può fare a Milano, si può fare anche in Italia». C’è adesso, nel centrosinistra, il timore che in caso di condanna venga a mancare il profilo di una primaria aperta trasformando la sfida in un confronto dentro il Pd, nel congresso dei democratici. Fra i favoriti rimarrebbero Bersani e Renzi indebolendo la coalizione e l’immagine stessa del duello. Laura Puppato ha finalmente raccolto le firme e ci sarà. «Mi sembra ovvio. Senza Vendola tutto diventa più debole. Oggi mi limito ad applaudire la sua dichiarazione sull’addio alla politica. È una posizione molto nobile». Nessuno pensa che l’annuncio di Vendola possa configurarsi come un condizionamento verso i magistrati prima della sentenza del 31 ottobre. «La scelta di Nichi è in controtendenza rispetto a quello che abbiamo visto in questi anni. Siamo davanti a una persona molto seria che fa un annuncio molto onorevole — dice Tabacci — Veniamo da un’epoca in cui avere un avviso di garanzia o addirittura una condanna è una medaglia al merito. Non è così. Quando io sono stato coinvolto in un’inchiesta nel ‘94, ho aspettato fino al 2001 per ricandidarmi in Parlamento». Chi non vorrebbe Vendola nell’alleanza, anzi lo considera un ostacolo verso l’intesa dei progressisti con i moderati, non vuole assolutamente maramaldeggiare sulle vicende giudiziarie del leader di Sel. «Primarie meno efficaci senza Vendola? Sì», risponde secco Beppe Fioroni. «La coerenza — è la posizione di Puppato — si paga nell’immediato ma premia dopo. E Vendola è coerente, consapevole del momento storico e del suo ruolo pubblico». La preoccupazione per la scadenza del 31 ottobre e delle conseguenze di un’eventuale condanna attraversano il Pd. Pier Luigi Bersani sa da tempo che l’inchiesta barese è stata alla base della lunga riflessione di Vendola sulla partecipazione alle primarie. Ma adesso che il governatore è in campo, con grande soddisfazione del segretario del Pd per l’immagine di una competizione davvero aperta, una condanna avrebbe effetti sulla coalizione. «Ho molto apprezzato le dichiarazioni di Nichi Vendola ma senza di lui il progetto politico di un nuovo centrosinistra di governo sarebbe più debole», dice Nicola Latorre, vicepresidente del Gruppo Pd al Senato. «Conoscendo l’assoluta integrità morale di Vendola che ha fatto della legalità uno dei valori fondanti del proprio impegno pubblico — spiega Latorre — confido nella sua assoluzione e nel proseguimento della sua attività politica». Sono parole di un dirigente che nel corso degli anni si è avvicinato politicamente al presidente della Regione Puglia. Ma la posizione di Tabacci dice che il danno di un ritiro è sentito da tutti.

l’Unità 26.10.12
Nomina della segretaria di Bersani, indagato Solaroli
L’ex capo di gabinetto della Regione Emilia Romagna accusato
di abuso d’ufficio per il passaggio della Veronesi all’incarico di Roma
di Giulia Gentile


L’ex capo gabinetto della Regione Emilia Romagna, Bruno Solaroli, è indagato per abuso d’ufficio nell’inchiesta della Procura di Bologna che ha portato all’avviso di garanzia per truffa aggravata a Zoia Veronesi, dipendente della Regione e segretaria storica del leader del Pd, Pierluigi Bersani. L’iscrizione dell’ex capo di gabinetto della giunta Errani fu decisa subito dopo l’esposto presentato nel 2010 dal deputato ex An e oggi Fli Enzo Raisi, ma la notizia è trapelata solamente ieri. Secondo Raisi, per circa un anno e mezzo dalla fine 2008 all’inizio 2010 Veronesi avrebbe lavorato per il segretario dei Democratici Bersani, ma a pagarla sarebbe stata la Regione che in quel periodo l’aveva trasferita a Roma con il compito di mantenere i rapporti fra Regione ed enti  centrali. Solaroli, la cui posizione sarebbe rimasta congelata fino a oggi, firmò le carte del «comando» di Veronesi nella sede romana di via Barberini della Regione: la missione affidatale era quella di curare i rapporti con governo, Camera e Senato. Decisione che però, sottolinea lo stesso Solaroli, passò per due volte in giunta. Ma i magistrati non avrebbero trovato traccia dell’attività romana della dirigente. Un lavoro di relazioni che, di contro, per il difensore di Zaia Veronesi, Paolo Trombetti e per lo stesso Solaroli sarà facilmente dimostrato. In particolare ci sarebbero, per Trombetti, diverse persone in grado di testimoniare che la donna lavorò per tutto il periodo nella sede di via Barberini. «Andava tutti i giorni in un ufficio dove c’erano diverse altre persone sottolinea il legale -: gente che chiameremo a testimoniare, dai dipendenti regionali ai questori della Camera». «Lavorava qui. Veniva tutti i giorni e si interfacciava con noi», dichiara a l’Unità una collega di Veronesi, chiedendo di rimanere anonima. «Certo il suo ruolo implicava soprattutto un lavoro di relazioni, difficile da dimostrare. Ma non si può dire che Zoia Veronesi fosse stata mandata qui per continuare a fare la segretaria di Bersani. Cosa poi facesse al di fuori delle ore di lavoro sono fatti suoi».
A Bologna in viale Aldo Moro, sede della Regione, le bocche sono sigillate, ma non è un segreto la logica che presiedeva nel 2008-2010 alla riorganizzazione dell’ufficio di gabinetto del presidente Vasco Errani. Erano anni di scontri tra l’istituzione decentrata e il governo Berlusconi. Argomento del contendere le finanziarie che, taglio dopo taglio, riducevano le risorse del welfare regionale per sanità, scuola, assistenza ai non autosufficienti. Anche in questa logica Solaroli, il 27 maggio 2008 creò il ruolo di «raccordo con le istituzioni centrali e il Parlamento» che poi venne assegnato, tre giorni dopo, a Veronesi. L’incarico fu soppresso da viale Aldo Moro nel settembre 2010, dopo che Veronesi, a marzo, si era dimessa. Ma la donna, spiegano in Regione, era stata nominata referente dei rapporti con il Parlamento già nel 2001, dopo aver maturato un’importante esperienza con una consistente rete di relazioni nel lavoro da segretaria di Bersani dal 1996 al 2001, all’epoca della sua carica di ministro dell’Industria nel primo governo Prodi, e poi dei Trasporti.

il Fatto 26.10.12
Abuso d’ufficio e truffa per il marito della Finocchiaro


RINVIATI A GIUDIZIO per abuso d’ufficio e truffa aggravata Melchiorre Fidelbo, Antonio Scavone, manager dell’azienda sanitaria provinciale di Catania Antonio Scavone, Giuseppe Calaciura, ex direttore amministrativo dell’Asp etnea e il direttore amministrativo di questa Giovanni Puglisi. Fidelbo è il marito della senatrice Anna Finocchiaro, capogruppo del Partito democratico a Palazzo Madama. Il provvedimento è arrivato al termine di un’inchiesta sulla procedura amministrativa che avrebbe portato, a Catania, all’affidamento senza gara dell’appalto per l’informatizzazione del presidio territoriale di assistenza di Giarre. Il lavoro fu assegnato alla Solsamb srl, società guidata da Melchiorre Fidelbo, che secondo gli inquirenti avrebbe avrebbe tratto un ingiusto vantaggio patrimoniale dalla delibera dell’Asp che sarebbe arrivata “senza previo espletamento di una procedura ad evidenza pubblica e comunque in violazione del divieto di affidare incarichi di consulenza esterna”. Fidelbo, per l’accusa, avrebbe agito da “istigatore della condotta di Puglisi e Calaciura”.

il Fatto 26.10.12
Ricatto a Pomigliano “Firmate contro i 145 da assumere”
L’ira del sindacato
di Salvatore Cannavò


L’INCREDIBILE LETTERA DI PETIZIONE DISTRIBUITA DAI CAPI AI LAVORATORI DELLA FIAT PER OPPORSI AL REINTEGRO DEI COLLEGHI FIOM. L’IRA DEL SINDACATO

E’ una lettera pesante e torbida quella che circola nello stabilimento di Pomigliano e che crea un clima di ricatto e di apprensione tra gli operai dello stabilimento. Partito in sordina, senza che i promotori siano pubblici, il documento in poche semplici righe getta un ulteriore fardello sulle spalle di chi lavora nello stabilimento Fiat emblema di Fabbrica Italia: “A seguito della sentenza che obbliga Fiat a riassorbire i 145 lavoratori iscritti alla Fiom”, si legge nella lettera, tra i lavoratori è forte “la preoccupazione del rischio che Fiat debba far uscire dal lavoro persone come noi che l’azienda da poco ha rirpreso al lavoro, scatenando una guerra tra poveri”. Dopo aver definito tutto questo “inaccettabile!!! ” i lavoratori chiedono alle organizzazioni sindacali di intervenire “perché vorremmo evitare che per affermare il diritto di alcuni venga calpestato il nostro diritto al lavoro”. Seguono le firme con accanto i numeri di matricola aziendale. A quanto risulta al Fatto la lettera, dopo un avvio in sordina, ieri è stata firmata da moltissimi operai anche perché sarebbe stata proposta direttamente dai capi squadra e quindi con un intervento diretto della stessa azienda. E’ quanto ha denunciato il segretario della Fiom, Maurizio Landini: “A quanto apprendiamo - scrive in una nota - i capi Fiat nello stabilimento di Pomigliano stanno girando per le linee di montaggio e, attraverso l’ennesimo ricatto, stanno chiedendo ai lavoratori di firmare un testo in cui si schierano contro il rientro dei 145 lavoratori della Fiom”. “Si tratta di un atto gravissimo - continua Landini - che conferma un comportamento inaccettabile e autoritario della Fiat che, anziché puntare sul recupero di quote di mercato attraverso investimenti e nuovi modelli, punta a contrapporre i lavoratori”.
L’accusa è dunque rivolta alla Fiat che, con i suoi dirigenti, sarebbe l’ispiratrice dell’iniziativa.
L’ALLARME ieri si è diffuso immediatamente con telefonate, sms, appelli sui social network. La Fiom ha tenuto una lunga riunione del suo direttivo provinciale napoletano con la presenza dello stesso Landini. Il timore è duplice: da un lato, il rischio della contrapposizione tra operai, dall’altro, spiegano in Fiom, la sensazione che il rientro dei 145 dipendenti, così come previsto dalla sentenza di appello della scorsa settimana, non potrà avvenire perché la Fiat metterà in atto dei dispositivi di tutela, ad esempio il ricorso alle nuove norme sull’articolo 18 che hanno modificato la procedura dei licenziamenti collettivi. Da qui l’appello agli altri sindacati perché “prendano le distanze” dall’iniziativa. Ma da Fim e Uilm, finora, non sono arrivate dichiarazioni in merito alla vicenda.
La Fiat, dal canto suo, sosterrà, e già sostiene, di non essere in grado di riassorbire questa forza lavoro e infatti, proprio ieri ha dato avvio a un nuovo periodo di cassaintegrazione per i 2.150 operai dello stabilimento. La Cig scatterà dal 26 novembre al 9 dicembre e segue le due settimane già programmate da tempo con inizio lunedì prossimo 29 ottobre e rientro in fabbrica il 12 novembre. A questa situazione la Fiom contrappone, invece, la proposta che tutti i dipendenti di Pomigliano “tornino al lavoro” utilizzando, come già succede negli altri stabilimenti, gli ammortizzatori sociali, a partire dai contratti di solidarietà”. Si tratta di una soluzione impegnativa per Fiat per almeno due ragioni: da una parte significa riassorbire, come l’azienda si era impegnata al momento di firmare l’accordo, i 4.300 operai in organico alla vecchia Fiat Auto. Dall’altro, significherebbe accettare il rientro della Fiom in fabbrica e, sulla base di una sentenza apposita del Tribunale di Torino del 2011, riconoscergli tutta l’agibilità sindacale che gli spetta.

Repubblica 26.10.12
“All’Aquila possibili scosse fortissime” ecco l’allarme censurato da Bertolaso
E nelle telefonate, tutte le bugie e i diktat del capo della Protezione civile
di Giuseppe Caporale e Elena Dusi


“LE ZONE adiacenti all’area epicentrale hanno una probabilità non trascurabile di essere interessate da attività sismica. In particolare la zona sud-orientale potrebbe essere sede di futuri terremoti di magnitudo moderata o forte”. Quelli del sismologo Enzo Boschi (presidente dell’Ingv) e Franco Barberi (presidente vicario della commissione) furono però tentativi inutili di far conoscere all’opinione pubblica gli ulteriori rischi che correva l’Abruzzo. Bertolaso bloccò infatti la conferenza stampa e il comunicato.
“NESSUN VERBALE”
Ma questa è solo l’ultima delle azioni tese a anestetizzare la paura per lo sciame sismico.
Perché era «la verità che non si deve dire», di cui Bertolaso il 9 aprile parlava nella telefonata con Boschi, intercettata dai Ros di Firenze che indagavano sulla cricca del G8 e che finirà agli atti del secondo filone d’inchiesta sulla commissione Grandi Rischi.
I sette membri dellacommissione sono stati condannati lunedì scorso a sei anni di reclusione e all’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici per omicidio colposo, proprio a causa della riunione del 31 marzo 2009, quando Bertolaso li “mandò” all’Aquila per smentire l’allarme lanciato da Giampaolo Giuliani, il tecnico di laboratorio che attraverso il sistema di rilevazione del gas radon annunciava da giorni l’arrivo di una tremenda scossa a Sulmona.
E per eseguire l’ordine del capo del dipartimento — che pretese quel giorno dagli scienziati una conferenza stampa — gli stessi sismologi finirono con il tranquillizzare la popolazione. Ma non fu vera riunione: convocata da Bertolaso, che non aveva titolo per farlo, si tenne (prima e unica volta) fuori dalla sede ufficiale del dipartimento, quella di via Ulpiano a Roma. E durò appena 45 minuti. Al termine non fu redatto nemmeno il verbale: verrà confezionato in gran fretta dagli uomini del dipartimento e firmato dagli scienziati il 6 aprile 2009 (ma datato 31 marzo). Quando la città era già in macerie. Perché doveva essere solo «un’operazione mediatica », come ammette lo stesso Bertolaso al telefono con Daniela Stati, allora assessore regionale alla Protezione Civile dell’Abruzzo.
“QUELLO SCEMO DI GIULIANI”
12 marzo 2009, ore 21,46. Fabrizio Curcio, collaboratore di Bertolaso, chiama il suo capo. Curcio: «Volevo avvertirla che in Abruzzo, all’Aquila in particolare... C’è di nuovo quello scemo che ha iniziato a dire che stanotte ci sarà il terremoto devastante». Bertolaso: «Eh». Curcio: «Noi stiamo cercando con Mauro (Dolce, capo ufficio rischio sismico della Protezione Civile, ndr) di far fare un comunicato all’Ingv... In modo che siano loro a definire questa cosa, perché all’Aquila si è sviluppata un’ansia bestiale. C’è insomma parecchio movimento, telegiornali e quant’altro».
Bertolaso: «Ma chi è questo?». Curcio: «È un tal Giuliani che ogni tanto se ne esce con queste dichiarazioni... «. Bertolaso: «Fai fare un comunicato dove annunciamo che verrà denunciato per procurato allarme e saranno denunciati con lui quegli organi di stampa che riportano notizie che sono notoriamente false. Okay?». Curcio: «Okay, grazie».
Nei giorni seguenti Bertolaso denuncerà Giuliani, ma il tribunale di Sulmona, dopo il sisma, archivierà il fascicolo.
“ SITUAZIONE NORMALE”
30 marzo 2009, ore 15.38. All’Aquila c’è l’ennesima scossa, questa volta di magnitudo più intensa (4.1). La città è nel caos. Migliaia di persone escono dalle case e dagli uffici e corrono in strada. Persino i ragazzi della Casa dello Studente — che poi crollerà — evacuano l’edificio e chiedono un’ispezione al responsabile della struttura. Ma gli studenti vengono rassicurati e fatti rientrare. Intorno alle 19 il capo della Protezione Civile chiama Daniela Stati, assessore regionale. «Sono Guido Bertolaso». Stati: «Che onore». Bertolaso: «Ti chiamerà De Bernardinis il mio vice, gli ho detto di fare una riunione all’Aquila domani, su questa vicenda di questo sciame sismico che continua, in modo da zittire subito qualsiasi imbecille, placare illazioni, preoccupazioni... Io non vengo, ma vengono Zamberletti (l’unico che poi non parteciperà, ndr), Barberi, Boschi, i luminari del terremoto in Italia. Li faccio venire all’Aquila, da te o in prefettura. In modo che è più un’operazione mediatica, hai capito? Così loro, che sono i massimi esperti di terremoti, diranno: è una situazione normale. Sono fenomeni che si verificano... Meglio che ci siano cento scosse di quattro scala Richter piuttosto che il silenzio, perché cento scosse servono a liberare energia e non ci sarà mai la scossa quella che fa male... Hai capito? (...) Tu parla con De Bernardinis e decidete dove fare questa riunione domani, poi fatelo sapere (alla stampa, ndr) che ci sarà questa riunione. E che non è perché siamo spaventati e preoccupati, ma è perché vogliamo tranquillizzare la gente. E invece di parlare io e te, facciamo parlare i massimi scienziati nel campo della sismologia». Stati: «Va benissimo».
“NASCONDERE LA VERITÀ”
9 aprile 2009, ultimo giorno di intercettazioni sulle utenze di Bertolaso, che fa due telefonate importanti: a Boschi, per impartire l’ordine di nascondere la verità sulle nuove scosse, e all’allora sottosegretario Gianni Letta, al quale chiede di «zittire i giornali» sulle polemiche intorno alla Grandi Rischi.

Repubblica 26.10.12
“Noi eravamo preoccupati ma comandava e decideva lui alla fine ci impose il silenzio”
di E. D.


ROMA — «Bertolaso era preoccupato, non voleva causare allarme. Così la nostra relazione sui rischi di nuove forti scosse all’Aquila non fu discussa. La Commissione Grandi Rischi non si è mai riunita. Né è mai stato emanato il famoso comunicato stampa che Bertolaso aveva chiesto di visionare prima della pubblicazione». Il sismologo Enzo Boschi all’epoca del terremoto dirigeva l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv). Oggi non ci sta a passare come lo scienziato asservito ai diktat di un capo della Protezione Civile interessato più che altro a minimizzare l’allarme. Cita come prova il rapporto tutt’altro che rassicurante che l’Ingv redasse due giorni dopo la scossa del 6 aprile 2009.
Come andò esattamente?
«L’8 aprile all’Ingv mettemmo insieme tutti i dati sismologici. La situazione era preoccupante. Lo sciame minacciava di durare a lungo e di generare altre scosse forti come quella del 6 aprile. Scrivemmo un rapporto e lo inviammo a Franco Barberi alla Commissione Grandi Rischi. Anche lui si preoccupò e decise di convocare per il giorno successivo una riunione congiunta. Si scontrò però contro la decisione negativa di Bertolaso. Lui non voleva assolutamente che si creasse ulteriore allarmismo.
La riunione fu cancellata e si decise di pubblicare solo un comunicato stampa, che Bertolaso chiese di controllare prima della pubblicazione. Intervenne a quel punto Mauro Dolce, sempre della Protezione Civile. Lui era dell’idea di non diffondere neanche quel comunicato. Così alla fine non se ne fece niente».
Non è stato scorretto nascondere il documento?
«In quei giorni eravamo molto tesi e divisi. Una parte di noi riteneva che fosse giusto diffondere ogni notizia. Altri si preoccupavano dell’allarme che ne sarebbe seguito. In fondo le persone erano già fuori delle case, in sicurezza. Che senso aveva annunciare il rischio di nuove forti scosse? Bertolaso era dell’idea di calmare prima di tutto la gente».
Voi siete stati molto cooperativi con lui.
«Io non sono cooperativo. Tutta la Grandi Rischi è stata cooperativa. Durante le emergenze ci deve essere qualcuno che comanda. È giusto che sia il capo a scegliere le strategie. In passato, al di fuori delle situazioni di crisi, io con Bertolaso ho avuto scontri molto forti. E in quel frangente lui era soprattutto preoccupato che io facessi comunicazioni allarmanti. Di quella telefonata in cui lui parla di “operazione mediatica” poi non sapevo niente, come del resto tutti noi. Lo abbiamo saputo dalla stampa».
Nella riunione all’Ingv si parlò
del rischio di crollo della diga di Campotosto?
«Se ne parlò qualche giorno più tardi. A Gian Michele Calvi, l’ingegnere che dirige Eucentre, fu affidato il compito di fare i calcoli per verificare la tenuta della diga. Ma i
risultati della sua analisi furono rassicuranti».
Una volta lei disse che le vittime di un sisma sono proporzionali alla corruzione di un paese. Pensava all’Aquila?
«No. Sono i risultati di uno studio scientifico che mi è capitato di leggere. Si riferiva alla pessima qualità degli edifici nei paesi corrotti. Ma non ho fatto io quel calcolo».
(e.d.)

l’Unità 26.10.12
«Scegliemmo di restare dopo le rassicurazioni»
Hisham Shain è sopravvissuto nella Casa dello studente: «La Grandi Rischi ci tranquillizzò»
Intercettato l’ordine di Bertolaso al sismologo Boschi: «Dopo la riunione la verità non la si dice»
di Jolanda Bufalini


Hisham Shain è un ragazzo arabo israeliano, studia odontoiatria a L’Aquila, insieme alla sua ragazza di allora, Cinzia Di Bernardo, è fra le parti lese del processo alla Commissione Grandi Rischi che si è conclusa con la condanna a sei anni per i dirigenti della Protezione civile, gli ingegneri, i sismologi che parteciparono alla riunione del 31 marzo 2009 a L’Aquila. Hisham e Cinzia la mattina del 6 aprile erano davanti alle macerie della Casa dello studente, salvi per miracolo. Aspettavano ma già non c’era più speranza di ritrovare vivi i loro compagni, otto ragazze e ragazzi sepolti nel crollo. Li incontrarono lì gli inviati de l’Unità che ne raccolsero la prima testimonianza. La testimonianza che Hisham ha reso durante il processo può aiutare a capire perché, nella requisitoria del Pm Fabio Picuti, si definiscono le affermazioni fatte dagli esperti in quella riunione «generiche» e «fuorvianti», da cui l’accusa di negligenza e di errore, non nella previsione, ma nella analisi del rischio.
Hisham ha raccontato la paura, quando ha percepì la prima scossa: «Dopo le feste di Natale ho avvertito la prima scossa. Mi trovavo nella mia stanza, ho avuto paura, non sapevo cosa fare. Con Cinzia siamo usciti subito dall’edificio». È una paura che dura, mentre le
scosse si intensificano e si fanno più forti, per tre mesi. Gli studenti uscivano in gruppo ma, poi, non sapevano cosa fare, dove andare, come comportarsi. Nessuno aveva dato loro indicazioni. E tornavano all’interno. La paura è passata, racconta Hisham, il 1° aprile: «La mattina siamo andati io e Cinzia a fare colazione al bar Belvedere vicino casa dello studente, c’erano dei giornali, abbiamo trovato un articolo sulla riunione della Grandi Rischi. C’era scritto che De Bernardinis riferiva che tutto era nella norma, che dovevamo imparare a convivere con il terremoto, che c’era un semplice scarico di energia. Essendo straniero chiesi informazioni a Cinzia. Lei mi ha spiegato e io ho fatto un collegamento con la commissione grandi rischi che abbiamo in Israele. Nel 2006, durante la guerra con il Libano, la commissione israeliana dava indicazioni alle persone, spiegava cosa dovevamo fare». «Sono abituato», ha spiegato il ragazzo, «a fidarmi degli esperti» e quella frase «”dobbiamo imparare a convivere col terremoto” mi tranquillizzò». Tranquillizzò anche il suo amico Hussein Hamade, che tutti a l’Aquila chiamavano Michelone. Un ragazzone grande e grosso che voleva diventare medico. Ma per lui non c’è stato nulla da fare. La notte del 5, dopo la scossa delle 23 e 30, andò a dormire e scherzando disse: «Sono sopravvissuto alla guerra, devo morire in Abruzzo?» (l’Unità 7 aprile 2009).
Ieri è uscita su Repubblica.it una nuova intercettazione fra Guido Bertolaso e Enzo Boschi, il capo dipartimento si raccomanda di concordare cosa dire dopo una successiva riunione della Grandi Rischi e a nascondere la verità. Secondo il quotidiano on line, in quel momento, c’era preoccupazione per la diga di Campotosto. Il sindaco de L’Aquila Massimo Cialente dice che si sente tradito da persone che, in quei giorni lavoravano gomito a gomito con lui: «Hanno detto bugie anche a me, venivano i cittadini a chiedermi della tenuta della diga di Campotosto e io chiedevo a loro».
Giuseppe De Natale è dirigente di ricerca all’Osservatorio Vesuviano dell’Ingv. Conosce le «ottime persone» che sono state condannate e che, forse, «ingenuamente si sono fatte portare ad agire con leggerezza». Spera che, nei tre gradi di giudizio, possano dimostrare la loro innocenza o, quanto meno, gradi diversi di responsabilità. Gli chiediamo se sia d’accordo con chi ha attaccato la sentenza e il «processo alla scienza». «È una grande sciocchezza risponde parlare di processo a Galileo», questo «non è un processo alla scienza» perché i magistrati «stanno cercando di capire se alcune persone che avevano un incarico di alta responsabilità abbiano commesso degli errori per negligenza, ignoranza o dolo che hanno amplificato gli effetti di una catastrofe, soprattutto in termini di vite umane». «Mi dispiace dice che l’élite culturale del paese e, soprattutto, chi ha incarichi istituzionali di grande responsabilità, attacchi una sentenza senza conoscerne le motivazioni, come hanno fatto certi politici

il Fatto 26.10.12
Escludere l’improbabile Ecco la loro colpa
di Bruno Tinti


I DANNI causati dal ventennio berlusconiano all’Italia sono incalcolabili. Tra essi uno dei più gravi è la delegittimazione della magistratura. I cittadini si sono convinti, in buona e in malafede, che i giudici sono imbecilli, incompetenti e venduti; e che chiunque, al posto loro, sarebbe in grado di scrivere le sentenze molto meglio. Convinzioni, naturalmente, del tutto indipendenti dalla conoscenza dei fatti. Il caso della sentenza di condanna dei componenti della commissione Grandi Rischi con riferimento al terremoto de L’Aquila è esemplare. Il processo per omicidio colposo a carico di molte persone tra cui i componenti di detta commissione era ignoto a tutti. Fino a ieri nessuno conosceva il cosiddetto capo di imputazione, in parole semplici la condotta delittuosa di cui gli imputati sarebbero stati responsabili. Nessuno conosce la motivazione della sentenza per l’ottimo motivo che ancora non esiste: sarà depositata nei termini di legge, 30 giorni o più.
INSOMMA nessuno sa un accidente di ciò di cui parla. Però tutti parlano lo stesso. E sostengono che i giudici sono stati pazzi e incompetenti perché hanno affermato che “gli scienziati sono colpevoli perché non hanno previsto il terremoto”. E ognuno sa che i terremoti non si possono prevedere. Perché questa solare verità, nota a tutti gli italiani, non dovrebbe essere stata conosciuta dai giudici de L’Aquila nessuno se lo chiede. A prescindere dal fatto che la sentenza sia “giusta” o no (ovviamente ci sono sentenze “sbagliate”, nel senso di non conformi al diritto o, più raramente, al fatto: e, per queste, il sistema prevede i successivi gradi di giudizio in Appello e in Cassazione), sta di fatto che non è vero che “gli scienziati sono stati condannati perché non avevano previsto il terremoto”. Gli scienziati sono stati condannati perché avevano detto che il terremoto non ci sarebbe stato. Così (molto riassunto, la contestazione è assai articolata) dice il capo di imputazione: i componenti la commissione hanno affermato che “i forti terremoti in Abruzzo hanno periodi di ritorno molto lunghi... non c’è nessun motivo per cui si possa dire che una sequenza di scosse di bassa magnitudo possa essere considerata precursore di un forte evento”; ...che lo sciame sismico che interessava L’Aquila da circa tre mesi era un normale fenomeno geologico; che esso si collocava “in una fenomenologia senz’altro normale dal punto di vista dei fenomeni sismici che ci si aspetta in questa tipologia di territori”; che, allo stato attuale, non vi era pericolo. In conseguenza di queste assicurazioni, i cittadini de L’Aquila cessavano di dormire in strada e rientravano nelle loro case dove, la notte immediatamente successiva a queste assicurazioni, erano sorpresi dal terremoto e perivano nei crolli.
Quando la sentenza sarà pubblicata, tutti (e anche io) potremo commentarla a fondo. Al momento una cosa si può dire. Vero come è vero che i terremoti non si possono prevedere; perché diavolo hanno previsto che il terremoto non ci sarebbe stato?

il Fatto 26.10.12
L’Aquila, ma dei morti chi parla più?
La stampa estera non ha capito
di Udo Gümpel*


“Bizzarra” scrive il Süddeutsche Zeitung, sarebbe la sentenza de L’Aquila perché i giudici avrebbero avuto delle aspettative sbagliate, ovvero che la scienza avrebbe potuto prevedere il terremoto, tutto opera di un tribunale fatto di ignoranti, scrive tranchant il maggior liberale di Monaco. Anche il Guardian londinese è convinto che i 7 siano stati condannati perché non erano in grado “di predire un non prevedibile evento del mondo in cui viviamo” mentre l’Huff Post attacca il verdetto come “iniquo, incredibile e ridicolo”, anzi “stupido”. La ciliegina sulla torta la mette il ministro Clini, seguendo pedissequamente il commento dell’“Union of Concernt Scientists”: rivedere la “pericolosa e assurda decisione” arrivata, non a caso, dal Paese che ha già una volta condannato uno scienziato, Galileo Gallilei.
PARE CHE I MIEI illustri colleghi non abbiano mai avuto in mano l’atto di accusa della Procura de L’Aquila e si siano fidati esclusivamente dei servizi di colleghi locali, spesso purtroppo altrettanto disinformati. Per la verità, qualcuno che l’ha letto c’è, ma il coro delle condanne del tribunale ha sovrastato di molto i servizi che informavano correttamente. Certo, finché non sarà stata pubblicata la motivazione della condanna non sapremo se il Tribunale ha voluto seguire la Santa Chiesa Romana, condannando al rogo la bellezza di sette membri della commissione Grandi Rischi. Prendendo per buona l’accusa, troviamo nelle 224 pagine – che fatica leggerle tutte – un atto di accusa non affatto mal argomentato e soprattutto il contrario di tutto ciò che si è detto male della sentenza. A cominciare dall’accusa precisa.
Nessuno ha accusato i membri della commissione di aver causato tutti i 309 morti del terremoto, come scrivono e pensano quasi tutti all’estero. Sarebbe veramente assurdo. Nel caso di 32 persone invece che si erano – è dimostrato dalle testimonianze dei familiari – fidati della non-pericolosità dichiarata da membri della commissione, si è ascritto ai responsabili la colpa di aver con-causato la morte delle sole persone che hanno creduto nelle loro parole rassicuranti, come ha descritto nel bellissimo e tristissimo pezzo il collega Giustino Parisse di Repubblica che perse due figli in quella notte. È dunque vero il contrario di quello che scrive la stampa internazionale all’unisono.
Il problema all’origine è che nel resto del mondo non si è ancora capito che l’Italia non ha solo inventato il ginecologo di destra, sinistra e del centro moderato, ma anche lo scienziato confuso ma sottomesso.
Vallo a raccontare ai tuoi lettori in California che gli illustri scienziati di fama mondiale si sono fatti portare da un certo Guido Bertolaso a L’Aquila al solo scopo di tranquillizzare la popolazione per, in buona sostanza, stirare il concetto di scienza indipendente fino all’inverosimile e chiamare un evento non prevedibile altamente improbabile, quasi da escludere. È qui il vulnus della questione, la superficialità con la quale i sismologi in una seduta di un’oretta scarsa – 18:30-19:30 – hanno liquidato in modo contraddittorio la valutazione dei veri rischi – sarebbe stato questo il compito istituzionale loro. Chi invece l’ha fatta, quella valutazione seria del rischio e dei pericoli, già in anni precedenti avrebbe trovato in quella notte tanti argomenti scientificamente validi per un allarme serio. Sì, quello era da dare. Bastava leggere le pubblicazioni dello stesso Ingv!
GLI STESSI sismologi proponevano di alzare la valutazione di rischio nell’Aquilano al massimo, la Zona 1. Scrivevano che nelle decadi successive c’era da aspettarsi un forte terremoto. Dalla storiografia si sarebbe capito che anche altri terremoti forti erano stati accompagnati e a volte precorsi dagli sciami sismici. Insomma, il quadro generale sarebbe stato sufficiente per considerare la massima prudenza, magari consigliare l’abbandono degli edifici più vulnerabili. Non era da dire o da scrivere che al massimo sarebbero potuti cadere alcuni cornicioni. L’accusa è proprio questa: di non essersi comportati da scienziati coscienziosi e animati dal desiderio di informare dei rischi nel modo più completo possibile, ma di essersi sottomessi alle volontà politiche della Protezione civile. Di fare i sismologi della Protezione civile bartolasiana e non i sismologi e basta.
*corrispondente Rtl Television

il Fatto 26.10.12
Professore ex sindaco. Il filosofo e la scienza
Cacciari: “I tecnici come Galilei? Clini ha detto una colossale scemenza”
di Sandra Amurri


L’opinione che il professor Massimo Cacciari ha di Corrado Clini è che sia “un potente funzionario” che in quanto “potente non farà mai una polemica in vita sua. Non l'ha fatta con l’Eni” e non la fa ora, a maggior ragione che è ministro “con l’Ilva". Ed è proprio il decreto della magistratura di Taranto che ha scritto la parola fine alle emissioni causa di troppe morti ad avere avuto, per Clini, forti analogie con la sentenza de L’Aquila. “Magistrati che si sostituiscono alla politica” lo disse allora lo ha ripetuto ora. Per poi aggiungere una ciliegina sulla torta rivelatasi indigesta: “Hanno ragione quelli che dicono che l'unico precedente a questa sentenza è quello di Galileo”.
Professor Cacciari, a lei il commento...
Spero soltanto che Clini conosca la drammatica situazione di Taranto meglio di quanto conosce la storia della filosofia e della scienza. Cosa vuole che le dica? Ha detto una scemenza. Probabilmente non sa bene chi sia Galileo, cosa c’entra con la sentenza de L’Aquila? Studi Clini prima di parlare. Ecco, su Galilei potrei consigliargli un ottimo libro di Enrico Bellone o anche di Paolo Rossi. Non so bene chi possa avergli detto una simile scemenza.
Una scemenza detta da un ministro dell’Ambiente non da un uomo della strada...
Cosa vuole che le dica, è un ministro dell’Ambiente che non sa bene cosa è avvenuto con Galileo. Pazienza!
Potrebbe essere incorso in questa caduta culturale nel voler prendere due piccioni con una fava per demolire anche l’operato della magistratura tarantina
A Taranto la situazione è complicata. Il ministro, ripeto, da potente non farà mai una polemica contro l’Ilva come non l’ha fatta contro l’Eni. La sua battuta è fuori luogo e la sentenza de L’Aquila non c’entra con Galileo. Ma non condivido quelle condanne.
Pensa anche lei che sia stata condannata la scienza e non piuttosto degli esperti per essersi messi al servizio della politica?
Che razza di sciocchezza è questa? Lo so bene che non è stata condannata la scienza, figuriamoci! Ma credo che sia folle essere condannati. Potrei raccontargliene a decine di questi episodi, in termini naturalmente meno drammatici, di quando ero sindaco di Venezia. C’era il fior fiore di scienziati che, tirando fuori le statistiche, affermavano: può esserci l’acqua alta ma non è detto che ci sarà perché dipende da variabili imprevedibili come le correnti eccetera. Io ogni volta dicevo: diamo l’allarme massimo così nessuno può rompermi le palle.
Nel caso in questione il giudice ha ritenuto fondata la tesi della pubblica accusa fatta anche di conversazioni intercettate tra Bertolaso e l’assessore regionale e alcuni esperti nelle quali definiva la riunione necessaria mediaticamente piu che dal punto scientifico. Il verbale è stato redatto e fatto firmare a terremoto avvenuto.
Sì, sì, capisco, non so neppure chi siano questi signori, io faccio un discorso diverso. I terremoti si prevedono come si può sapere che un domani ci sarà l’acqua alta, ma non puoi conoscere a quali livelli arriverà. Però tu politico cosa farai un domani alla luce di questa sentenza? Evacuazione per ogni puttanata? Questa mi pare una follia.
Clini racconta che da medico del lavoro a Marghera si chiedeva: “Dov’è il filosofo veneziano” mentre “io invito la sanità locale a fare prevenzione e diagnosi precoce dei tumori causati dall'inquinamento ambientale, piuttosto che costruire ospedali? ” mentre oggi da ministro dell’Ambiente, accusa gli ambientalisti, gli ematologi, che giudicano l’Autorizzazione Integrata Ambientale (Aia) una barzelletta contro le emissioni velenose dell’Ilva, di essere superficiali e ideologici. Un Clini double-face?
No, no, Clini ha sempre obbedito a ministri e potenti. Fine. É una persona che ha studiato, non Galileo, ma le cose tecniche di cui si è occupato. Ha sempre fatto il suo mestiere da funzionario. È sempre stato un funzionario. Guardi, io da sindaco ero morbido con i gruppi industriali perché, fino a prova contraria, fin tanto che non è davvero comprovato, come a Taranto, che esiste pericolo per ambiente e salute vengono prima di tutto il lavoro e l’occupazione.
Vuol dire che fare il funzionario è altro dal fare il ministro?
Mah! Una volta quando si studiava scienze politiche ti spiegavano che una cosa era il funzionario e una cosa era il politico ma può darsi che i tempi siano cambiati.
I tempi sono cambiati, professor Cacciari...
Ecco, sono cambiati, se lo dice lei io ci credo.

Corriere 26.10.12
Non esiste solo la responsabilità penale
di Gian Arturo Ferrari


Il principio socratico «Nemo sua sponte peccat» (Nessuno fa il male deliberatamente) asserisce in parole povere che c'è da aver più paura degli stupidi che dei malvagi. Detto con più eleganza, è un principio illuminista secondo cui il male è il buio dell'ignoranza, che appunto i lumi si incaricheranno di schiarire. Un'idea opposta a quella cristiana secondo cui il male, penetrato nell'uomo con il peccato originale, viene dall'uomo, per debolezza o per protervia, deliberatamente perseguito. Da un punto di vista filosofico, la posizione su questo dilemma determina la valutazione che si dà della sentenza sul terremoto dell'Aquila. E in questo caso sembra proprio che il principio illuminista sia il più plausibile.
Mentre infatti suona inverosimile che quell'elevato consesso di accademici e alti funzionari abbia deliberatamente ingannato i cittadini dell'Aquila, risulta di palmare evidenza che si trattava di un'accolita di incompetenti, provvisti però di una robusta dose di arroganza. Accresciuta adesso, l'arroganza, dalla asserzione burbanzosa che i fenomeni naturali sono imprevedibili. (Anche noi ne avevamo avuto qualche sentore, guardando il meteo... E, peraltro, se così stanno le cose, a che pro mantenere altisonanti commissioni e non sostituirle con un lanciatore di moneta che, testa o croce, ci illumini sul futuro?). Altra faccenda è la sanzione penale comminata ai chiarissimi incapaci, la quale sembra più che altro riecheggiare la memorabile invettiva di Giorgio Bracardi «In galera!». Ma che ha la sua radice in un fenomeno solamente nostro, italianissimo, e cioè la riduzione di ogni forma di responsabilità a quella penale. È scomparsa infatti la nozione di responsabilità politica, specie per quanto riguarda la corruzione e i rapporti con la criminalità organizzata. Dovrebbe essere evidente che oltre a quelle individuali vi sono qui responsabilità collettive, cioè politiche, ma queste ultime, non essendo sanzionate da chi le dovrebbe sanzionare, cioè dagli elettori e dal pubblico disprezzo finiscono per dissolversi.
Sorte analoga è capitata alle responsabilità etiche, anche nella versione molto ridotta che attiene ai comportamenti quotidiani, alle nozioni di decoro e di decenza, forse piccolo borghesi, ma proprie delle forme evolute di civile convivenza. Tranne rari casi (le dimissioni del sottosegretario Malinconico ne sono state un lodevole esempio) non sono neppure avvertite come responsabilità o vengono attribuite a una sfera privata, pressoché inesistente nel caso di figure per definizione pubbliche. Vi sono infine responsabilità specificamente professionali, gestionali, tecniche, non essendo a priori da escludere che persone specchiate e incensurabili risultino poi alla prova dei fatti dei perfetti incapaci. L'opacità raggiunge qui il massimo, in parte per difesa corporativa, in parte per sudditanza dell'informazione. Sta di fatto che non si sa mai chi siano i responsabili delle inefficienze, delle trascuratezze, degli sprechi e di tutti i disastri tutti i giorni sotto gli occhi di tutti. Questa atrofia nazionale del senso di responsabilità e delle relative sanzioni ha finito per caricare la responsabilità penale — un caso estremo — di pesi impropri. Le è stato chiesto di vicariare tutte le altre forme di responsabilità, ma con il vincolo delle garanzie necessarie quando è in gioco la libertà dei cittadini. Con il conseguente doppio rischio di forzare le garanzie per affermare una responsabilità forse non penale, ma di sicuro non altrimenti sanzionabile. Ovvero di mantenere le garanzie e negare la responsabilità penale, ma di fatto assolvere da ogni altra forma di responsabilità. Come si vede spesso dalla giocondità degli assolti, che interpretano l'aver schivato la galera come un encomio solenne dei propri comportamenti. Il problema, dunque, non è — o non è solo — la giustizia penale, ma la sensibilità sociale. E le colpe non sono qui dei politici o dei magistrati, ma nostre, di una pubblica opinione poco educata, ancora da dirozzare. In Germania i ministri si dimettono per aver a suo tempo copiato, in tutto o in parte, la propria tesi di laurea. I condannati dell'Aquila avrebbero fatto bene, all'indomani del terremoto, a chiedere pubblicamente scusa per la tragica topica, a dimettersi dalle proprie prestigiose cariche e a togliersi dalla circolazione.
Avrebbero evitato, se non altro moralmente, la condanna.

l’Unità 26.10.12
Diffamazione, blitz anti-stampa
Rinviato a lunedì l’esame al Senato del ddl «salva-Sallusti»
Un voto a sorpresa fa saltare l’intesa che avrebbe migliorato il testo per giornali e web
68 senatori Pdl e 8 Pd l’hanno bocciato. Rutelli ha chiesto il voto segreto
di Natalia Lombardo


ROMA Sempre più accidentato il cammino del disegno di legge sulla diffamazione, che lunedì andrà in aula al Senato con il rischio che passino sanzioni pesantissime e intimidatorie nei confronti della libertà d’informazione, come denuncia la Federazione della Stampa. Soprattutto con il voto segreto sull’articolo 1, per il quale Francesco Rutelli ha raccolto le firme. Il ddl era nato sull’urgenza di eliminare il carcere per chi diffama, salvando così il direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, dai 14 mesi di reclusione, ma soprattutto salvando il principio di libertà di informazione (che non vuol dire impunità). Molti auspicano che lunedì il testo torni in commissione Giustizia e si ridiscuta.
Già ieri infatti nell’aula è saltato l’accordo raggiunto in una lunga riunione mercoledì sera a Palazzo Madama. Al momento del voto l’intesa non ha retto, Rutelli si è scagliato contro quello che ha chiamato «killeraggio mediatico», ridicolizzando il «discount della diffamazione con multe a metà prezzo». L’esame del ddl è stato sospeso e rinviato a lunedì. Ieri non sono passate le riduzioni di multe e sanzioni, né l’esclusione dei siti web. Una mossa trasversale: a fare la parte del leone (censorio) ci sono quasi settanta senatori del Pdl che hanno votato in dissenso rispetto all’indicazione del capogruppo Gasparri (che ha chiesto la sospensione), ma anche alcuni del Pd che vogliono norme più severe.
LA TAGLIOLA ECONOMICA
Gli emendamenti bocciati prevedevano la riduzione da 100mila a 50mila euro il massimo della multa per i giornalisti condannati per diffamazione. Non sono passati neppure gli emendamenti (del Pd e del Pdl) per sopprimere una norma-mannaia: l’obbligo di restituzione dei finanziamenti pubblici all’editoria delle testate condannate. Condannate a morte certa, quindi, le testate più o meno piccole. 68 senatori pidiellini hanno votato contro l’indicazione di Gasparri, quasi un terzo del gruppo. Dissidenti anche 8 senatori Pd (fra questi D’Ambrosio e Magistrelli); hanno votato contro anche la Lega, alcuni del Terzo Polo e di Coesione Nazionale.
Bocciate anche le proposte (Casson, Pd) per sanzionare le cosiddette «richieste temerarie», richieste di risarcimento milionarie a scopo intimidatorio (non paga nulla chi denuncia, anche se perde la causa). Un capitolo a sé la posizione dei radicali, propensi a mantenere il carcere per chi diffama.
C’è poi l’obbligo di rettifica in Rete, che nella mediazione raggiunta si limitava al «quotidiano o periodico» pubblicato anche on line, mentre la dicitura con cui è stato sostituito «prodotto editoriale» (proposta dal Pdl Mugnai, uno degli avvocati di Berlusconi, e altri), si estende pericolosamente ai siti internet e ai motori di ricerca. Resta anche il cosiddetto «ammazza-libri» con obbligo di rettifica o a rischio multe salatissime (un dramma per i piccoli editori).
Durante il dibattito ieri ci sono stati interventi contrari alla riduzione delle sanzioni (Nitto Palma del Pdl, Rutelli dell’Api, Procacci del Pd), accolti con applausi da parte dell’assemblea avvelenata contro la stampa. A quel punto i capigruppo si sono allertati, sentendo aria di blitz in aula.
Allarmato Filippo Berselli, Pdl, presidente della commissione Giustizia e relatore del testo originario: «Se salta l’accordo salta l’intero provvedimento», ha detto ieri. Anna Finocchiaro, capogruppo Pd era decisamente colpita dal clima anti-stampa: «Questo non è più il Senato. È il Colosseo dove si vuol vedere scorrere il sangue», è sbottata ieri, pur sostenendo che il testo sul quale è stata raggiunta l’intesa sia da approvare: «Tutela il diritto all’onore e alla dignità della persona, in bilanciamento col principio sacro della libertà di stampa, sulla base di un sistema di rimedi molto equilibrato». (Rutelli lo definisce una «fritatta»). Finocchiaro poi fa notare che, prima delle sanzioni penali, ci sono «sanzioni accessorie: la rettifica, la pubblicazione della sentenza, la possibile sospensione dall’attività giornalistica, il risarcimento del danno».
Il leghista Calderoli taglia corto: «Se Sallusti vuole andare in carcere, è giusto che vada. Bisogna accontentarlo e non togliergli questa prerogativa». Ma nella riunione che ha permesso l’intesa sul testo più leggero la Lega c’era.

l’Unità 26.10.12
Dalla parte degli insegnanti
di Marco Rossi-Doria
Sottosegretario all’Istruzione


Ho letto con estremo interesse quanto ha pubblicato ieri Mila Spicola su l’Unità: insegnanti palermitani si riuniranno oggi per discutere del tema dell’orario da un punto di vista che sento di condividere. Come maestro elementare prima ancora che per il ruolo istituzionale che ricopro.
È sempre importante, infatti, quando si creano degli spazi per parlare della scuola e di cosa significhi oggi fare il complesso mestiere di insegnante.
Stiamo lavorando in questi giorni in Parlamento per modificare la legge di Stabilità: sono convinto che non sia pensabile intervenire sull’organizzazione del lavoro dei docenti e delle scuole all’interno delle norme sui conti pubblici, provocando ulteriori perdite di posti di lavoro. Serve una grande discussione nazionale, fondata sulla partecipazione di chi va a scuola tutti i giorni, di chi può offrire, come scrivono i docenti palermitani, una «narrazione collettiva» al di fuori di stereotipi e luoghi comuni. Questa discussione deve basarsi sulla necessità di innovare la nostra scuola e di garantire a tutti apprendimenti solidi in un contesto fortemente cambiato nel tempo.
L’innovazione che serve alla scuola deve fondarsi sulla rottura dello standard una didattica uguale per tutti per andare con coraggio verso attività organizzate in modi anche diversi dal gruppo classe, frutto di una programmazione collegiale dei docenti, di una riflessione ed autovalutazione su punti di forza e debolezza delle strategie e azioni messe in campo, come in parte già avviene in molte scuole.
Il tema che la politica e le istituzioni devono affrontare è trovare le risorse, mano a mano che l’economia nazionale darà segni di ripresa. Infatti quei Paesi che hanno investito in sapere sono stati quelli che si sono difesi meglio dalla crisi. Conoscenze diffuse, acquisite in modo rigoroso e nuovo, creeranno maggiore crescita.
È in questa visione che può trovare spazio la importante discussione tra i docenti palermitani. So bene, per la mia esperienza, che il nostro dovere non termina alla fine delle lezioni. Ci sono i compiti da correggere, il materiale didattico da preparare. Un progettare e riflettere educativo per il quale serve il confronto nella comunità docente. Oggi, tranne che per la scuola primaria, questo è un lavoro svolto prevalentemente a casa, che dunque fatica ad emergere, ad essere riconosciuto dalla collettività. E ci sono poi le numerose «attività funzionali»: collegi dei docenti, colloqui con le famiglie, riunioni. Attività oggi quantificate con un monte ore annuale. Infine vi sono le attività in più: i corsi di recupero, i progetti inseriti nel piano dell’offerta formativa, le uscite didattiche. Questi sono considerati degli extra poco e mal pagati ma sono in realtà parte integrante della vita ordinaria delle scuole.
Ritengo allora che il punto di partenza di un vero confronto sul mestiere di insegnare debba puntare a rendere esplicito, riconoscibile e riconosciuto il lavoro svolto nel suo complesso. Un tema non separabile da quello della retribuzione: i nostri insegnanti sono tra i mal pagati in Europa, non è prevista alcuna forma di carriera e si fatica a riconoscere economicamente e professionalmente chi compie sforzi maggiori in termini di programmazione ed attività. Penso sia inevitabile che anche questi aspetti entrino nella discussione. È tempo di ridare slancio e prospettiva a un dibattito culturale e pedagogico sulla scuola che serve al Paese per il 2020.

l’Unità 26.10.12
Mesi in attesa di documenti Scontri tra migranti e polizia
Venti feriti, cinque fermati. L’irruzione in Questura a Napoli dopo l’attesa per lo status di «rifugiati»
Le associazioni «Clima di disperazione fra un mese non ci saranno i soldi per l’ospitalità»
di Pino Stoppon


NAPOLI Venti agenti feriti o contusi, un’auto della polizia danneggiata, e alcuni immigrati medicati in ospedale sono il bilancio dell’irruzione tentata ieri mattina da una trentina di nordafricani, quasi tutti originari del Mali, nei locali dell’Ufficio immigrazione della Questura di Napoli. Una azione improvvisa e inattesa, mossa dalla disperazione di chi da mesi attende invano notizie sul proprio futuro e che, nel timore di essere espulso dall’Italia, preferirebbe addirittura il carcere al rimpatrio nel proprio Paese di origine. Gli extracomunitari protagonisti dell’azione di ieri, infatti, fanno parte di un gruppo di 1.200 persone alloggiato in strutture ricettive di Melito, comune a Nord del capoluogo partenopeo, in attesa di conoscere il destino della propria richiesta per la concessione dello status di rifugiato. Ma la copertura economica prevista per il loro alloggiamento scadrà il 31 dicembre e da quel giorno, se non sarà riconosciuto loro lo status di rifugiati, saranno costretti a trovarsi una soluzione o a tornare in patria.
Cinque, dopo gli incidenti, gli immigrati arrestati dalla polizia con l’accusa di interruzione di pubblico servizio, invasione di edificio aggravata, violenza e resistenza a pubblico ufficiale, lesioni aggravate e danneggiamento aggravato.
«Si è trattato di un atto premeditato, una violenza a freddo che ci lascia sconcertati», commentava ieri il questore di Napoli Luigi Merolla. «Gli agenti in servizio è la sua ricostruzione sono stati assaliti da un gruppo di oltre trenta extracomunitari. Siamo stati aggrediti senza alcun motivo: il piantone che era al cancello d’ingresso è stato travolto. Rivendicavano il permesso immediato di un permesso di soggiorno. Nella colluttazione che è seguita, uno dei miei uomini ha riportato la frattura del setto nasale, altri ferite alle mani. Un altro momento di tensione c’è stato all’uscita dei fermati cui ha fatto seguito un lancio di sampietrini contro le forze dell’ordine. Queste persone nei giorni scorsi ha spiegato il Questore hanno visto rifiutata l’istanza per ottenere lo status di rifugiati. Tuttavia l’azione non può dirsi dettata dalla rabbia del momento, ma ci sembra piuttosto un atto irrazionale e premeditato, il che ci lascia sconcertati anche perché molte di queste persone possono confidare in un esito positivo della loro domanda in virtù dei motivi umanitari che si riconoscono per paesi come il Mali».
«ABBANDONATI A SE STESSI»
Molto diversa, invece è la lettura dei fatti da parte delle associazioni che da mesi si occupano dell’assistenza agli immigrati che hanno presentato domanda per il riconoscimento dello status di rifugiato politico. Una situazione esplosiva già nota, anche in città, su cui più volte è stato puntato il dito per l’opacità della gestione dei fondi e per le condizioni imposte dagli albergatori agli ospiti in attesa delle decisioni della commissione territoriale. «Quanto avvenuto denuncia infatti con una nota il Forum Antirazzista è la punta di un iceberg di disperazione: non è vero che i trenta rifugiati in questione hanno ricevuto un diniego, ma anzi con buona certezza sono destinatari di un provvedimento di protezione umanitaria, malgrado i criteri molto restrittivi del nostro Paese. Eppure non solo queste persone si sentivano ancora in pericolo, ma a quanto pare è stata diffusa anche la voce che era in arrivo un diniego e il conseguente rischio di espulsione. Di certo conclude il comunicato a un mese dalla fine del finanziamento statale, che lascerà del tutto scoperta la situazione di accoglienza di migliaia di rifugiati solo in Campania, insieme alla nostra preoccupazione per la sorte di queste persone, si vede anche l’agitarsi di quegli albergatori che su questa situazione hanno invece pesantemente speculato».

Repubblica 26.10.12
Il potere di Merkiavelli, regina dell’indugio
di Ulrick Beck


Primo. La Germania è il paese più ricco ed economicamente più forte dell’Unione europea. Di fronte alla crisi finanziaria tutti i paesi debitori dipendono dalla disponibilità dei tedeschi a garantire per i crediti necessari. Peraltro, dal punto di vista della teoria del potere, tutto ciò è banale e non esprime il machiavellismo merkeliano. Quest’ultimo consiste semmai nel fatto che la Merkel non prende partito nel conflitto scatenatosi tra gli architetti dell’Europa e gli ortodossi dello Stato nazionale – o meglio: consiste nel fatto che si tiene aperte entrambe le opzioni. Non è solidale con gli europei (all’interno e all’estero) che sollecitano impegni finalmente vincolanti da parte tedesca, ma nemmeno sostiene il fronte degli euroscettici, che vogliono rifiutare qualsiasi aiuto. Invece, la Merkel lega – e qui sta l’elemento machiavellico – la disponibilità della Germania a concedere crediti alla disponibilità dei paesi debitori a realizzare le condizioni della politica di stabilità tedesca. Ecco il primo principio di Merkiavelli: dove sono in questione i prestiti tedeschi agli Stati debitori, la sua posizione non è né un chiaro “sì”, né un chiaro “no”, ma un “nì” come carta da giocare nella partita a poker per il potere.
Secondo. Come può essere superata questa posizione paradossale nella prassi politica? In un caso come questo, per Machiavelli sarebbe stata necessaria la virtù, ossia la sagacia, l’energia politica e il dinamismo. Qui veniamo a un secondo fattore: il potere di Merkiavelli si basa sull’impulso a non fare nulla, sulla sua inclinazione al “non-agire-per-ora”, all’agire dopo, cioè sulla sua esitazione. Questa arte dell’indugiare intenzionale, questo mix di indifferenza, euroscetticismo e impegno europeo è la fonte della posizione di forza tedesca nell’Europa afflitta dalla crisi. L’indugiare come tattica di addomesticamento – ecco il metodo di Merkiavelli.
Ora, ci sono molti motivi per esitare – la situazione mondiale è così complessa che nessuno riesce più a vederci chiaro; spesso rimane soltanto la scelta tra alternative enormemente rischiose. Proprio questi motivi giustificano l’indugio come strategia di potere. Angela Merkel ha ormai perfezionato la forma del dominio involontario, legittimato con l’inno alla parsimonia. Quella che appare come una strategia affatto impolitica, ossia la strategia dell’omissione – non fare qualcosa, non investire, non concedere crediti e non prestare denaro –, questo “no” variamente declinato è la leva più importante del potere economico della Germania nell’Europa del rischio finanziario.
Terzo. In questo modo si riesce a fare ciò che sembra impossibile, cioè unire la eleggibilità nazionale e il ruolo di architetto europeo. Questo però significa anche che tutti i provvedimenti per salvare l’euro e la Ue devono anzitutto sottoporsi al test attitudinale di politica interna – vale a dire, la domanda se favoriscano gli interessi tedeschi e la posizione di forza della Merkel. Quanto più i tedeschi diventano euroscettici e quanto più si vedono circondati da paesi debitori che vogliono aggrapparsi al portafoglio tedesco, tanto più difficile diventa questa spaccata. Merkiavelli ha risposto a questo problema con l’asso nella manica dell’“Europa tedesca”, che vince sia qui che là. In politica interna la cancelliera tranquillizza i tedeschi preoccupati per la loro pensione, la loro casetta e il loro miracolo economico, sostenendo con rigore protestante la
politica del “no” dosato e impancandosi a maestrina d’Europa. Nello stesso tempo, a livello di politica estera assume la “responsabilità europea” legando i paesi dell’euro con una politica del male minore all’insegna dello slogan: “Meglio un euro tedesco che nessun euro”.
Pertanto, la Merkel si dimostra un’allieva molto ricettiva di Machiavelli anche sotto un altro riguardo. È meglio “essere amati o essere temuti?”, si chiede quest’ultimo nel suo classico, Il Principe.
“Rispondesi che si vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma perché elli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua”.
Quarto. La Merkel vuole prescrivere, anzi imporre ai paesi partner quella che in Germania è considerata la formula magica per la politica e l’economia. L’imperativo tedesco è: “Risparmiare!”. Risparmiare al servizio della stabilità. Tuttavia, nella realtà politica la politica di risparmio della famosa-famigerata casalinga sveva si rivela ben presto una drammatica riduzione delle risorse per le pensioni, la formazione, la ricerca,
le infrastrutture ecc. Abbiamo a che fare con un neoliberismo brutale che ora viene introdotto nella costituzione europea nella forma del Fiscal Compact – sotto gli occhi della (debole) opinione pubblica europea.
Queste quattro componenti del merkiavellismo si rafforzano a vicenda e costituiscono il nucleo del potere tedesco in Europa. E anche per la “necessità” di Machiavelli, cioè per lo stato di emergenza a cui il principe deve essere in grado di reagire, si trova un parallelo nella Merkel: la Germania come “potenza egemone amica” auspicata dal direttore di Die Welt, Thomas Schmid, si vede costretta a fare ciò che è imposto dal pericolo anche se è vietato dalla legge. Secondo Merkiavelli, pur di estendere in modo vincolante la politica di risparmio tedesca all’intera Europa le norme democratiche possono essere allentate o aggirate.
Nello stesso tempo, è chiaro che l’ascesa della Germania a potenza- guida nell’“Europa tedesca” non è il risultato di un progetto segreto, elaborato con astuzia e in base a una ben precisa strategia. Essa è invece avvenuta – perlomeno all’inizio – in modo involontario e non progettato, è stata l’esito della crisi finanziaria e dell’anticipazione della catastrofe. Tuttavia, considerando lo sviluppo degli eventi si può presumere che nel corso del suo svolgimento successivo sia iniziato uno stadio di pianificazione consapevole. La cancelliera ha scorto nella crisi un’occasione, il “momento buono da cogliere”. Con una combinazione di fortuna e di virtù merkiavellica non si è fatta sfuggire l’opportunità storica, traendone profitto sia in politica interna che in politica estera. Certo, nel frattempo si sta formando anche il fronte contrapposto di chi è convinto che l’europeizzazione che procede rapidamente non rispetti i diritti del Parlamento tedesco e quindi si scontri con la Costituzione. Ma la Merkel riesce a strumentalizzare astutamente anche questi bastioni dell’opposizione, incorporandoli nella sua politica di addomesticamento tramite indugio. Ancora una volta, la cancelliera vince sotto un duplice profilo: più potere in Europa e più popolarità all’interno, con il favore degli elettori tedeschi.
Tuttavia, il metodo Merkiavelli potrebbe poco a poco imbattersi nei suoi limiti, dal momento che la politica tedesca del risparmio finora non può vantare alcun successo – al contrario: la crisi del debito ora minaccia anche la Spagna, l’Italia e forse ben presto arriverà perfino in Francia. I poveri diventano sempre più poveri, sui ceti medi incombe il declino e non si vede nessuna luce in fondo al tunnel. Anche in questo caso, dunque, il potere potrebbe portare alla formazione di un contropotere; Angela Merkel ha pur sempre perduto in Nicolas Sarkozy un importante alleato. Dopo l’entrata in carica di François Hollande gli equilibri si sono decisamente spostati. I sostenitori dei paesi indebitati potrebbero cooperare con gli architetti dell’Europa a Bruxelles e a Francoforte per sviluppare un’alternativa alla spesso populistica politica di risparmio portata avanti dalla Merkel (e da Philip Rösler) con lo sguardo rivolto alla scena tedesca e sotto la spinta dell’ansia da inflazione, e per ripensare la funzione della Banca centrale europea nella prospettiva di un suo orientamento verso la politica di crescita della Federal Reserve americana.
Tuttavia, è possibile uno scenario del tutto diverso: un duello tra Angela Merkiavelli, l’europea esitante, e il suo sfidante della Spd, l’appassionato scacchista del potere Peer Steinbrück, scopertosi nel ruolo di un Willy Brandt europeo. Se ciò avvenisse, al posto della politica di riunificazione tedesca potrebbe subentrare la politica di ulteriore unificazione di un’Europa lacerata dalla crisi – come del resto prevede la Costituzione tedesca. Se la formula di successo della Ostpolitik di Willy Brandt era “cambiamento attraverso il riavvicinamento”, la formula della politica europea di Peer Steinbrück potrebbe essere: “Più libertà, più sicurezza sociale e più democrazia – attraverso l’Europa.” O il candidato cancelliere della Spd, Steinbrück, riesce a dare scacco matto a Merkiavelli sul piano della politica europea, oppure vince Merkiavelli, perché scopre l’importanza dell’idea europea per le strategie di potere e si converte in fondatrice degli Stati Uniti d’Europa.
L’alternativa è questa: la Germania deve scegliere tra l’essere e il non-essere dell’Europa. È diventata semplicemente troppo potente per potersi permettere il lusso di non decidere.
(Traduzione di Carlo Sandrelli)

il Fatto 26.10.12
Il professore comunista
Il mentore rosso di Obama
di Marco Dolcetta


Nella lunga vigilia elettorale americana stanno emergendo delle radici, se non occulte, quantomeno trascurate della figura del presidente Barack Obama. La prima notizia riguardo la madre di Obama Stanley Ann Dunham che è ebrea, quindi anche il presidente è ebreo, visto che la trasmissione per gli ebrei è in linea materna. Addirittura parente alla lontana di Dick Cheney e cugina di 10° grado di Bush Junior. Poco conosciute anche le radici ideologiche del giovane Obama, nonostante le sue dichiarazioni di riconoscenza nei confronti del suo vecchio professore a Honolulu, Hawaii, amico di famiglia, secondo pettegolezzi molto amico della madre di Barak Obama.
“Ammiro la Russia per aver distrutto un sistema economico che consentiva a una esigua minoranza di ricchi di sfruttare e di estrarre l’oro da milioni di persone semplici… Da persona che crede alla libertà e alla democrazia per tutti, rendo onore alla Nazione rossa”. Frank Marshall Davis, così diceva negli anni ‘50.
Nelle sue memorie, Obama omette di citare il nome completo del suo mentore, limitandosi a chiamarlo “Frank”.
Ora, esce la verità. Non è mai successo prima d’ora che una figura così controversa come Frank Marshall Davis abbia avuto un impatto così profondo sulla formazione di un presidente americano.
DAVIS ERA COMUNISTA e pare, controllato a vista dall’Fbi, che poi da Chicago lo spedisce alle Hawaii. Mentre si sono studiate le altre influenze estremiste su Obama, da Jeremiah Wright a Bill Ayers, il pubblico sa ben poco di Davis, un tesserato del Partito comunista americano; secondo la Associated Press, ha “molto influito” su Obama, che guardava a lui non solo per “consigli sulla vita” ma lo considerava anche come figura paterna.
Frank Marshall Davis era un comunista filo sovietico e filo Cina comunista. Secondo gli archivi della Fbi portava la tessera n. 47544 del Partito comunista americano. Era il prototipo del fedele patriota sovietico, così estremista che venne iscritto all’Elenco per la Sicurezza del governo federale. Davis si dichiarava favorevole alle conquista del potere da parte dei comunisti nell’Europa centro-orientale, e al potere comunista in Corea e in Vietnam. Era un leale sostenitore della causa come editore e scrittore di giornali comunisti a Chicago e a Honolulu, intrattenendo buoni rapporti con sostenitori che erano agenti sovietici. Negli anni 70 Frank Marshall Davis entrò nella vita di Obama.
Grazie all’accesso agli archivi lo scrittore e ricercatore del Fbi, ora resi pubblici, nonché alla lettura degli articoli originali di Davis nei giornali, Paul Kengor svela come Obama era andato a cercare Davis, e come Davis trovò in Obama un giovane impressionabile e suscettibile ai propri concetti sul mondo, imperniati sull’opposizione alla politica americana e ai valori tradizionali, mentre esaltava i regimi comunisti.
Nel suo libro “Il comunista” di recente uscito negli Usa, Kengor espone con precisione impeccabile lo sviluppo delle idee comuniste di Davis, da Chicago alle Hawaii. Spiega come certi elementi del programma dell’amministrazione Obama, rispecchi-no gli articoli di Davis in cui si chiedeva la ridistribuzione della ricchezza, il sostegno governativo ai “progetti di lavori pubblici”, il sostegno del servizio sanitario universale grazie alla fiscalità generale, e la nazionalizzazione della General Motors. Nei suoi articoli, Davis stigmatizzava “i tentacoli della grande capitale”, Wall Street e i milionari “avidi”. Criticava i tagli fiscali dei repubblicani “a favore dei ricchi”, attaccava i “profitti eccessivi” e le società petrolifere, oltre ad additare la Chiesa cattolica come ostacolo alla propria visione dello Stato. Obama ripeteva il mantra, reiterato da Davis, a favore di un “cambiamento” incisivo e fondamentale. Eppure, l’autore del libro non è privo di simpatie nei confronti di Davis, presentandolo come una sorta di vittima, un afroamericano che aveva subito la persecuzione razziale nella peggiore fase razzista americana: di conseguenza, questo giovane, arrabbiato con buona causa, avrebbe seguito un percorso politico sbagliato. Obama si adopera per tradurre in realtà i sogni di Frank Marshall Davis?.

La Stampa 26.10.12
Super lista elettorale
In Israele Netanyahu e Lieberman uniti al voto


GERUSALEMME [E. ST.] In vista delle elezioni anticipate israeliane del 22 gennaio, il premio ministro Benjamin Netanyahu e il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, fonderanno i loro partiti in un’unica formazione politica. Dalla destra storica del Likud, fondato nel 1973 da Menachem Begin, e dall’estrema destra laica, Israel Beiteinu (Israele è la nostra casa), nascerà un nuovo partito che si chiamerà «Likud Beiteinu», (Il Likud è la nostra casa). Si tratta però di un’unione non fra i due partiti ma «fra le due liste» elettorali. L’accordo infatti sarebbe stato trovato in negoziati segreti tra i due leader, senza consultare i partiti, che potrebbero mostrarsi molto reticenti.
Il dissenso interno non preoccupa però Netanyahu, che vuole avere la sicurezza di vincere e restare al governo. «Israele ha bisogno di unire le proprie forze per governare e far fronte alle sfide sulla sicurezza e l’economia», ha detto ieri nella conferenza stampa in cui ha presentato il blocco Likud-Yisrael Beitenou, che potrebbe avere vittoria facile contro il blocco di centro-sinistra, forse guidato dall’ex primo ministro di Kadima Ehud Olmert.

La Stampa 26.10.12
Le imprese statali cinesi non sono autosufficienti
di John Foley


Le Soe, ovvero le imprese statali cinesi, sono notevolmente migliorate negli ultimi trent’anni, ma ancora non sono autosufficienti. I dati provenienti dalla Sasasc - la commissione nazionale per le imprese a partecipazione statale – mostrano che, a partire dal 2003, gli introiti delle Soe hanno avuto un incremento annuo medio del 25%, decisamente più rapido dell’aumento del Pil nominale, che si è fermato al 16%. Segno della vastità dell’industria cinese ma non della sua efficienza: i rendimenti, esclusi quelli derivati da imprese finanziarie, sono infatti fermi al 6,7%.
Vista però l’enormità del settore statale, è alquanto difficile generalizzare; alla fine del 2011 il governo cinese controllava 144.700 imprese non finanziarie e le rendite oscillavano sensibilmente. Prendendo in considerazione i tre colossi petroliferi Cnooc, Sinopec e Petrochina, salta agli occhi come nel 2011 i loro Roe fossero i più alti del settore con picchi fino al 27%, sebbene abbelliti dagli oneri finanziari e dalle aliquote. Dall’altro lato, settori come quello siderurgico porteranno, con tutta probabilità, rendimenti negativi.
È chiaro che il processo di riforme sta vivendo una fase di stallo rispetto alla velocità di qualche tempo fa. Nel 1978, quando Deng Xiaoping iniziò a utilizzare la frusta, lo Stato era responsabile del 77% della produzione industriale. Nel 2007, attraverso una gestione meno pragmatica delle imprese, l’aumento della competitività e una parziale privatizzazione, le imprese statali o a maggioranza statale controllavano soltanto – secondo i dati ufficiali – il 34% della produzione totale. I colossi sono però ulteriormente cresciuti, e negli ultimi otto anni i capitali delle Soe sono più che triplicati: ferrovie, telecomunicazioni ed energia continuano infatti a essere monopoli od oligopoli. Il Fondo Monetario Internazionale evidenzia che i tassi di risparmio sono più alti nelle aziende private che in quelle statali - fino al 60% in più. Per ottenere rendimenti economicamente più vantaggiosi sarebbe necessario dare libertà al settore privato, e costringere le Soe ad arrangiarsi.
Per approfondimenti: http://www.breakingviews.com/

Repubblica 26.10.12
Una storia dispari
Il saggio di Milanovic sulle differenze tra chi ha e chi non ha viste anche attraverso i grandi romanzi
La diseguaglianza economica spiegata da Jean Austen
di Roberto Esposito


Nelle rappresentazioni della crisi cui assistiamo da tempo c’è un posto vuoto, un ospite assente o tenuto sullo sfondo senza mai dargli la parola. Si tratta della disuguaglianza – spesso evocata, certo, ma come un dato di fatto quasi naturale, su cui è impossibile intervenire e di cui è inutile, e dunque noioso, parlare. In questa situazione, in cui la crisi è raccontata solo in rapporto all’andamento dei mercati, il classico sasso nello stagno arriva dal libro di Branko Milanovic, tempestivamente tradotto da il Mulino, Chi ha e chi non ha. Storie di disuguaglianze, con una presentazione di Gianni Toniolo. Nella crisi, che coinvolge tutti, c’è una differenza di fondo tra chi ha e chi non ha, tra chi l’affronta, quasi senza accorgersene, dal gradino più alto della scala sociale e chi la subisce, sulla carne viva, dal gradino più basso, passando per tutti gli stadi intermedi.
Senza tenere conto della disuguaglianza nessuna analisi della crisi, per quanto tecnicamente affidabile, tocca terra, ne restituisce la dinamica reale, dal momento che lascia fuori non solo i suoi effetti devastanti, ma anche le sue radici profonde. Perché – sostiene Milanovic – è vero che la responsabilità della crisi è addebitabile in larga parte alla deregolamentazione finanziaria. Ma questa, a sua volta, nasce da una distribuzione del reddito che ha spinto le classi medie, sempre più tartassate, ad un indebitamento divenuto presto insostenibile. Senza trent’anni di crescita esponenziale della disuguaglianza, con il reddito nazionale immutato, anche negli Stati Uniti le cose sarebbero andate diversamente.
La disuguaglianza non è un destino, e neanche una costante, delle nostre società. Essa ha a che fare con la storia, con la geografia e con la politica. E anche, in senso lato, con la filosofia, vale a dire con la dimensione dell’etica. Perché alle domande su come si generi e come influisca sulla situazione economica, non può non aggiungersi un terzo interrogativo sul suo rapporto con la giustizia. Fin quando è tollerabile un mondo spaccato in due tra bulimia indotta e anoressia forzata?
In un inedito nesso tra numeri e storia Milanovic ripercorre il dibattito che nell’ultimo secolo ha proposto una interpretazione complessiva del fenomeno – alternandolo con una serie di intermezzi tratti dalla cronaca e dalla vita quotidiana, dalla letteratura e dallo sport. Per esempio, sia Orgoglio e Pregiudizio di Jane Austen che Anna Karenina di Tolstoj sono letti e confrontati da un punto di vista economico, mostrando come spesso amore e ricchezza abbiano una relazione inversamente proporzionale di cui tener conto, perché, in realtà, la scrittrice e lo scrittore anche di questo ci parlano. Cioè di come la disuguaglianza (calcolata nel saggio di Milanovic con sterline e rubli parametrandoli alle cifre di oggi) sia la questione principale nel dilemma di Elizabeth con Mr. Darcy e di Anna e Vrònskij.
E ovviamente, nel saggio, ci sono anche gli economisti. Se Vilfredo Pareto vede nell’ineguaglianza una sorta di legge ferrea che prescinde dai rapporti sociali, l’economista russo-americano Simon Kuznets ne fa una funzione del grado di sviluppo della società. Mentre in quelle povere la disuguaglianza è piuttosto bassa, quando l’economia entra in una fase di forte crescita, aumenta rapidamente, per poi rifluire allorché lo Stato comincia ad assumere un ruolo di equilibrio nella distribuzione delle risorse.
Da qui la delineazione di quella curva a U rovesciata, che già Tocqueville aveva diagnosticato, quando scriveva che «l’uguaglianza si incontra soltanto ai due limiti estremi della civiltà». In realtà questa ipotesi, valida per alcuni Paesi, è lontana dal fornire una chiave di interpretazione globale: non solo in larga parte del mondo occidentale la risalita verso l’uguaglianza non si è verificata, ma, soprattutto nell’ultimo trentennio, la disuguaglianza si è estesa sia in termini assoluti che relativi. A partire dall’epoca di Reagan e della Thatcher, quella che doveva essere una discesa della curva differenziale si è trasformata in un nuovo picco, trasformando la U rovesciata in una S adagiata su un fianco. Le scelte neo-liberiste di molti governi occidentali, sottraendo allo Stato il ruolo redistributivo esercitato precedentemente, hanno risollevato l’asticella della disuguaglianza, vanificando il teorema di Kuznets.
Ma per spiegare questo scarto tra aspettative e risultati non basta una motivazione storica, se non le si affianca una geopolitica.
In questo incrocio tra dimensione verticale e dimensione orizzontale la ricerca di Milanovic perviene ai suoi esiti più convincenti. L’aumento della disuguaglianza
globale – appena temperata dalla straordinaria performance di Paesi fino a poco fa poveri come la Cina e l’India – è il prodotto della sovrapposizione tra il dislivello interno ai singoli Stati e quello relativo al loro confronto, anch’esso aumentato, già a partire dalla rivoluzione industriale e poi sempre di più. Al punto che, se nel 1820 la distanza tra i Paesi più ricchi e quelli più poveri era di 3 a 1, oggi è di 100 a 1 o che, per guadagnare quanto un privilegiato guadagna in un anno, un disagiato dovrebbe lavorare due secoli. Ciò significa che i più indigenti degli Americani stanno meglio dei più abbienti dei due terzi della popolazione mondiale. Tutt’altro che restringere questo gap, come ci poteva aspettare, la globalizzazione lo ha ulteriormente allargato, perché gli operatori dei Paesi ricchi tendono ad investire in altri Paesi ricchi e perché la tecnologia avanzata non si distribuisce in maniera omogenea e gratuita.
La domanda che a questo punto si pone è relativa da un lato alla sostenibilità e dall’altro all’accettabilità di tale stato di cose. L’ondata immigratoria dei “dannati di mare”, che si sono aggiunti a quelli della terra, fornisce una risposta inquietante, anche in considerazione del numero spaventoso delle vittime. È possibile che in un mondo in cui circolano liberamente capitali, informazioni, tecnologie, gli esseri umani siano gli unici a non potersi spostare? Se la situazione non è ancora esplosa è perché manca una connessione mondiale tra i vari tipi di povertà. Ma non può reggere a lungo, sdoppiandosi in due possibilità alternative. O attraverso nuove politiche ridistributive si tornerà a far crescere il reddito dei poveri del mondo o una massa sempre più ingente di persone si riverserà in quello dei ricchi. Ma al di là della sostenibilità del sistema, si apre una questione etica, ormai ineludibile, per ciascuno di noi. A partire da quei ceti medi, in procinto di essere trascinati in basso, da cui dipende spesso l’esito delle elezioni politiche nei Paesi democratici.

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