domenica 28 ottobre 2012

l’Unità 28.10.12
L’appello
Intellettuali Psi: con Bersani sinistra di riforme e diritti

Alcuni intellettuali “vicini” al Psi di Riccardo Nencini, hanno sottoscritto un appello comune a sostegno della candidatura di Pier Luigi Bersani alla guida del Paese: «L'Italia viene sottolineato tra l’altro ha bisogno di un governo competente, autorevole e legittimato dal consenso popolare... Con Bersani intendiamo candidare la sinistra delle riforme e dei diritti alla guida dell'Italia, nel solco dell'umanesimo e del saper fare che hanno reso il nostro Paese e l'Europa più civili, più liberi, più giusti». Tra i firmatari Fabio Bertini, Alessandro Cecchi Paone, Marco Gervasoni, Gianvito Mastroleo, Pierpaolo Nenni, Carmine Gambardella, Lucio Francario, Maria Luisa Chirico.

l’Unità 28.10.12
Un populismo impotente
di Claudio Sardo


SILVIO BERLUSCONI HA OFFERTO IERI L’IMMAGINE DI UN POPULISMO PERICOLOSO E IMPOTENTE. La sua era un’ira incontenibile che minacciava ogni cosa dal governo Monti fin qui sorretto dai voti del medesimo Berlusconi alla Costituzione italiana, dalle alleanze europee alla stessa moneta unica ma che in realtà non aveva la forza di spostare neppure uno stuzzicadenti.
La parabola del Grande seduttore (e corruttore) contiene un voluminoso manuale di politica.
Dopo aver esercitato un potere politico così grande come non ebbe neppure De Gasperi, dopo aver fallito miseramente e trascinato l’intero Paese sull’orlo del baratro, dopo aver subito una dura condanna penale per una reiterata evasione fiscale (delitto tra i più gravi ai danni dei cittadini-contribuenti), il Cavaliere ha tentato di dire agli italiani che lui può ancora fare la guerra. Che Monti, i magistrati, l’establishment, gli avversari, i cittadini devono temere la sua ira, il suo spettro politico. Ma Berlusconi in realtà non è neppure in grado di togliere la fiducia al governo. È così il populismo: minaccia quando viene sconfitto, gioca al tanto peggio tanto meglio, esibisce il potere residuo come potenziale di autodistruzione. Del resto, anche il populismo al potere si cura più del consenso che della decisione, dell’autorità più che delle regole, e anzi forza le regole per preservare l’autorità.
Il populismo però è pericoloso anche quando perde. Perché inietta veleni. Perché altera il circuito democratico, che si fonda su una legittimazione delle istituzioni. Berlusconi invece ieri ha minacciato proprio questo: di sfasciare la casa comune. A cominciare dalla Costituzione, suo antico bersaglio. E non ha risparmiato l’Europa, accusando la Germania di una strategia deliberatamente anti-italiana e il governo Monti di subalternità al «nemico». In fondo, ieri, non facevano tanto impressione le parole della propaganda: ha detto che il governo avrebbe dovuto respingere il Fiscal compact dimenticando che, prima di Monti, Berlusconi firmò un accordo-capestro per l’Italia (unico Paese condannato al pareggio di bilancio nel 2013); ha detto che l’Imu va cancellata dimenticando che è stato proprio il suo governo ad introdurla e il fallimento della sua politica a renderlo così pesante per le famiglie; ha detto che l’Iva non va aumentata dimenticando che Tremonti l’aveva già fatto per salvaguardare i redditi alti, gli evasori e gli scudati. Del Cavaliere non colpivano neppure i violenti insulti contro i giudici che lo hanno reso cittadino al pari degli altri. Ciò che faceva impressione ieri era la rincorsa ad altri populismi, interni ed esterni, che segnano oggi la nostra crisi democratica e la drammatica posta in gioco. Il pericolo del populismo sta nel fatto che ha rotto gli argini della sfiducia e della paura. Sta nella debolezza della politica democratica, che non riesce a produrre decisioni in grado di generare politiche di equità, di uguaglianza, di sviluppo. E anche per questo non riesce a far circolare il sangue della partecipazione, del rinnovamento politico e generazionale. Stiamo rischiando la deriva, se non il baratro. Se non saremo capaci di uscire dalla seconda Repubblica al più presto, resteremo intrappollati nelle macerie. Se al Cavaliere nero seguirà ora un Cavaliere bianco, armato di un populismo diverso, cosa cambierà per le famiglie che pagano il prezzo della crisi, per i giovani esclusi dal lavoro, per i contribuenti tartassati perché tanti continuano a non pagare?
Berlusconi ha marcato ieri un isolamento rispetto a chi Montezemolo, Casini, Riccardi sta cercando di organizzare una nuova offerta politica nell’area moderata. Al di là dei suoi auspici di ricomposizione del centrodestra, la distanza è apparsa siderale. Ma purtroppo non è isolato il populismo di Berlusconi. Anzi, si sta diffondendo trasversalmente. E la competizione fra populisti sollecita il ribellismo anziché il cambiamento, l’invettiva anziché il lavoro di ricostruzione, la scorciatoia demagogica anziché le parole di verità sulle riforme necessarie.
Il Cavaliere non si candida a premier per il semplice fatto che quella carica è fuori dalla sua portata. Ma certo non si ritira, come l’Unità, con scettica prudenza, aveva sospettato nel giorno in cui molti cantavano le lodi. La sfida delle prossime elezioni resta intatta nella sua enorme portata: si deciderà se l’Italia è ancora uno dei grandi Paesi dell’Europa e se un’alleanza di progressisti e di moderati può mettere in agenda un cambiamento delle politiche economiche e sociali, in nome dei valori della Costituzione. I cittadini italiani potranno scegliere tra alternative politiche o saranno condannati all’emergenza gestita da tecnocrazie e oligarchie? Non è una domanda oziosa, e riguarda non solo le primarie del Pd e la sua proposta di governo, ma lo stesso lavoro di ricostruzione al centro.
La tentazione populista, bisogna dirlo con onestà e chiarezza, non risparmia nessuno. Chi vuole imboccare scorciatoie demagogiche nel confronto interno al centrosinistra e chi, nella competizione tra i moderati, non disdegna di imitare il Cavaliere inneggiando a slogan nuovisti o proponendo soluzioni carismatiche. Abbiamo già dato. L’Italia ha pagato un prezzo altissimo con Berlusconi. La soluzione non sta in un grillismo in doppiopetto che si vuole far sposare col montismo.
Oggi in Sicilia si vota. Sono elezioni importanti. Per i siciliani, innanzitutto, che vedono gli effetti della crisi moltiplicati da inefficienze e illegalità. Ma anche per il futuro del Paese. Nella ribellione Grillo si è guadagnato consensi: bisognerà farci i conti e non sarà facile. Tuttavia la partita cruciale è tra Crocetta (Pd) e Musumeci (Pdl): Berlusconi spera di avere una spinta per rilanciarsi.

Repubblica 27.10.12
Una storia esemplare
di Ezio Mauro


Come nell’epoca del potere smisurato, Silvio Berlusconi ieri è tornato sui siti giornalistici di tutto il mondo: ma questa volta per una condanna a quattro anni per frode fiscale, con cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Si chiude così, con la sanzione giudiziaria netta, durissima e soprattutto infamante un’avventura titanica nata nella televisione e finita in tribunale: ma che era già morta nella politica, il territorio prima del dominio supremo, poi della caduta e oggi del definitivo declino.
La destra sgomenta per la fine dell’invulnerabilità parla di “ferita alla democrazia”, “caccia all’uomo”, “tentativo di omicidio politico”. In realtà a Milano è arrivato a compimento un processo infinito, con 10 anni di indagini, 6 anni di cammino accidentato in aula per i “mostri disseminati nei codici e nelle procedure” (come diceva Giuseppe D’Avanzo), con il Lodo Alfano, le ricusazioni, i ricorsi, i “legittimi” impedimenti, le prescrizioni brevi e i processi lunghi.
Il cittadino Berlusconi ha dunque potuto far valere le ragioni della sua difesa: il premier Berlusconi gli ha dato una mano robusta e generosa, potenziando quella difesa in aula con congegni di ogni tipo architettati nei palazzi del governo e del parlamento. Ma caduto il governo, cambiati la maggioranza e il clima, incredibilmente il processo è arrivato a sentenza. Accertando una truffa fiscale a cascata con società offshore per l’acquisto di film americani, con il prezzo che saliva fraudolentemente di passaggio in passaggio in modo da creare un tesoro di fondi neri pagati da Mediaset ma stornati su conti riconducibili a Berlusconi, a danno dell’azienda, dei piccoli azionisti e del fisco.
In questa storia esemplare, più della condanna conta che si sia resa giustizia, e cioè che il processo sia potuto arrivare fino in fondo, rendendo la legge uguale per tutti. E certificando la fine dei due falsi miti dell’uomo di Stato che “ama il suo Paese” e dell’imprenditore che si è fatto da sé: oggi vediamo con quali metodi anti-mercato.
La follia populista potrebbe consigliare al Cavaliere un ritorno spettacolare in campo per una battaglia vecchio stile contro i giudici, incendiando il sistema. Ma anche il fuoco è finito, è il tempo della cenere. Meglio l’abdicazione, e la fuga a Brindisi, cercando qualche Badoglio.

il Fatto 28.10.12
Pd fedele alla linea: “Noi il governo non lo facciamo cadere”
Fassina: “Non è in grado di portare a termine le sue minacce: Per noi, tutto da guadagnare”
di Wanda Marra


Mentre Berlusconi torna a minacciare lo sfascio, il Partito democratico resta fermo sulle sue posizioni. E le sue convinzioni. Pier Luigi Bersani non commenta. Forse dirà qualcosa oggi. L’intervento, nei vertici, è affidato alla capogruppo in Senato, Anna Finocchiaro che definisce “un disco rotto” il redivivo Caimano. Una battuta. Ma nella sostanza, gli uomini più vicini al segretario dicono sostanzialmente due cose: che questo Berlusconi non è in grado neanche di compattare i suoi e che su un’eventuale sfiducia al Professore rimarrà da solo; e che comunque il Partito democratico non ha nessuna intenzione di far cadere il governo. “È lo sfogo di un uno che ha perso l’equilibrio e viene lasciato solo anche dalle sue prime file. Non è in grado di fare quello che minaccia”, commenta il responsabile economico, Stefano Fassina. Poi spiega: “Certo, in termini puramente elettorali a noi converrebbe che lui si ponesse come l’irresponsabile che sfascia tutto. Ma sarebbe un massacro per il paese”. E dunque, nonostante le critiche ripetute del segretario negli ultimi giorni alla legge di stabilità, nonostante il chiarimento che di Monti bis non se ne parla, i Democratici restano fedeli alla linea della responsabilità. Finché l’esecutivo c’è. La legge di stabilità la voteranno? “La cambieremo - dice ancora Fassina, che è da sempre il più antimontiano nel suo partito - ma il governo non lo farà cadere il Pd. Non c’è ragione, non seguiamo Berlusconi nel suo delirio”, Insomma, lo schema è quello che va avanti dall’inizio dell’esperienza Monti: i Democratici criticano, minacciano, correggono, ma alla fine “responsabilmente” continuano a sostenere il governo. Almeno per ora, i Democratici non credono di potersi trovare ancora una volta con il cerino in mano di dover far ingoiare agli italiani gli ennesimi provvedimenti odiosi, mentre Berlusconi fa il populista. Poi, si vedrà.
ANZI, IL PD è convinto di aver tutto da guadagnare. “Io penso che Berlusconi abbia fatto questa uscita perchè in Sicilia i sondaggi registrano un pari tecnico - spiega Stefano Ceccanti, ultramontiano e renziano - ma per noi se tiene questo registro c’è tutto da guadagnare. Facciamo una bella campagna elettorale democristiana”. Non solo: “Se lasciano Monti al centrosinistra, per noi è un gol”. Certamente, per i moderati del partito. Ma in realtà anche Nico Stumpo, responsabile Organizzazione e fedelissimo di Bersani, non è affatto preoccupato. E in generale, non lo sono i bersaniani. Preoccupatissima invece è la Bindi “Con il suo intervento ha voluto delegittimare tutto il lavoro di questo governo con una sorta di contro narrazione della crisi e dei rapporti con l’Europa e la Germania”. Perché esiste uno scenario diverso: quello che Berlusconi riesca davvero a ricompattare i suoi, a ricostruire l’asse con la Lega e a rovesciare il tavolo. Sfasciando tutto e rimandando lo spread alle stelle. Nelle ipotesi più estreme c’è pure un’accelerazione tale da mettere a rischio le primarie.
A proposito di primarie, non parla neanche Matteo Renzi, che però va dicendo da giorni che il berlusconismo è morto, e che Berlusconi si può illudere quanto vuole, ma non lo rianimerà. Un’analisi di come potrebbe incidere sui renziani la fa Roberto Reggi, numero due dello staff del sindaco: “Berlusconi torna in campo? Lui aiuta la conservazione non il rinnovamento e a noi, che siamo per il rinnovamento, il suo ritorno forse potrebbe danneggiare. Ma noi siamo fiduciosi, sappiamo che i cittadini sono più avanti”. Poi commenta: “Un ritorno che rinforza soprattutto quelli che sono sempre stati antiberlusconiani”. Applicato alle primarie Pd, questo schema dovrebbe favorire gli antiberlusconiani doc, ovvero la vecchia guarda democratica, piuttosto che i rottamatori. Altro linguaggio, altra cultura.

l’Unità 28.10.12
Dove ha fallito la destra
di Guglielmo Epifani


Con la destra al governo è cambiata in peggio la condizione della nostra economia e della nostra occupazione.
IN QUESTI GIORNI, MENTRE IN PARLAMENTO SI STA DISCUTENDO COME CAMBIARE LA LEGGE DI STABILITÀ PER RENDERLA SOCIALMENTE più equa ed economicamente più sostenibile, molti istituti di ricerca e molte banche centrali sono al lavoro per cogliere da alcuni primi indicatori di tendenza italiani e tedeschi un possibile cambio di scenario del futuro economico che ci attende. Gli ultimi dati esaminati della congiuntura tedesca volgevano ad una previsione negativa, soprattutto per il calo della domanda europea. I nuovi, sui quali si sta ancora lavorando, si presentano più complessi da interpretare e questo forse può essere alla base di recenti dichiarazioni di speranza.
Il professor Monti ha parlato di luce in fondo al tunnel, e lo stesso Mario Draghi si è espresso nello stesso modo. Naturalmente abbiamo bisogno tutti di vedere un po' di luce dopo una crisi pesante, che è cambiata più volte, e che è destinata a produrre effetti ancora per lungo tempo, soprattutto nelle conseguenze sulla occupazione. Ma certo è che nella migliore delle ipotesi il rallentamento della discesa non vuole dire automaticamente invertire l'andamento profondo del ciclo né considerare superata la crisi. Ed anche che la tregua sui mercati dei debiti sovrani contiene in sé la possibilità di considerare superata la fase acuta dell'allarme ma anche la strada opposta, in relazione all'efficacia degli strumenti individuati in sede europea, alle ricorrenti divisioni tra la Germania e gli altri Paesi, e alla evoluzione della crisi della Grecia e della Spagna.
Proprio per questo, è necessario riprendere il tema del bilancio economico e sociale dell'azione della destra nell'ultimo periodo della storia italiana e della seconda Repubblica. Fino ad ora ogni riflessione fatta ha  riguardato il tema politico istituzionale, con un bilancio finale fondatamente critico. Ma la stessa cosa si può e si deve dire, anche e soprattutto, per come è cambiata in peggio la condizione della nostra economia, della nostra occupazione, della qualità della infrastrutturazione materiale e immateriale, e della condizione della nostra società.
Il nostro declino morale e culturale è insieme causa ed effetto del declino materiale e produttivo del Paese, e tutto questo ha reso la nostra società più divisa, più ineguale e meno coesa. Due sono le responsabilità principali: l'assenza di qualsiasi progetto di politica industriale e degli interessi produttivi del Paese, sostituito da logiche lobbistiche e affaristiche; l'assenza di qualsiasi disegno di riforma ed efficienza del nostro sistema di welfare, sostituito da logiche corporative, da interessi mercantili di privatizzazione, e da una delegittimazione di fatto della funzione e responsabilità dei servizi pubblici, dalla scuola alla sanità.
La crisi internazionale ha poi fornito l'alibi mancante, ed il travaso di responsabilità verso altri, giustificando l'inerzia di fronte al tracollo da parte dell'ultimo governo Berlusconi, e la situazione di sfacelo verso cui il Paese stava andando. Proprio la rimozione della crisi e delle sue conseguenze sul Paese segna l'atto più grave ed insieme più simbolico del fallimento del berlusconismo: la resa, il senso di impotenza, l'assenza di una qualsivoglia idea di fuoriuscita. E dà ragione all'urgenza di in progetto di una ricostruzione insieme economica, sociale e morale. Per chi si è battuto in questi anni contro questa deriva, denunciando per tempo i rischi del declino progressivo del Paese, e ha visto un attacco a diritti e condizioni del mondo del lavoro come mai nel passato, è tempo di cambiare senza gattopardismi e senza che si provi a continuare senza dirlo nella vecchia politica.
Come non restare colpiti dal fatto che molti tra quelli che oggi plaudono alla fine di questa storia sono in realtà gli stessi che l'hanno sostenuta e difesa anche quando erano chiari gli errori e le conseguenze a cui si andava incontro? A questi il governo Monti ha offerto una via di uscita da imbarazzi e silenzi. Ma una classe dirigente si misura non con il metro della furbizia ma con la trasparente ammissione di un fallimento e di un errore fatto. Se si vuole, beninteso, cambiare e rinnovare sul serio.

Corriere 28.10.12
E spunta l’ipotesi di votare a febbraio con il Porcellum
Nel messaggio una «offerta» al Pd: urne a febbraio
di Francesco Verderami


ROMA — Non è stato solo uno sfogo. «Ma quale sfogo», ha detto ieri il centrista Carra a un collega di partito. Carra ne ha viste tante, fin dai tempi della Dc, perché gli potesse sfuggire il senso del messaggio lanciato dal Cavaliere: «Prepariamoci a votare a febbraio». Ecco, il messaggio è stato recepito nel Palazzo, che ha interpretato la mossa di Berlusconi come una chiara offerta al Pd: chiusura anticipata della legislatura, voto a febbraio con il Porcellum e accorpamento delle elezioni regionali nel Lazio e in Lombardia.
Uno scenario drammatico per il Pdl in fase di ricostruzione e non preventivato dalla galassia centrista in via di formazione. Ma che è allettante per Bersani, a cui viene proposto un patto che il segretario democrat non deve nemmeno sottoscrivere, anzi può respingere con toni formalmente sprezzanti e ostili. «Il patto non c'è e non ci sarà», dice infatti il pd Latorre: «Certo, quanto ha detto Berlusconi è un macigno sulla strada della prosecuzione della legislatura». Tutto come da copione. Anche perché, rientrando in scena a affondando il colpo contro il premier, il Cavaliere azzoppato fornisce due assist allo schieramento avverso: sgombra il campo dall'ipotesi del Monti bis dopo il voto, che fino ad oggi era il vero ostacolo per Bersani sulla via di palazzo Chigi, e garantisce al Pd un «nemico» contro cui impostare la campagna elettorale.
Essendo un interesse reciproco, anche Berlusconi ne avrebbe un tornaconto, siccome il mantenimento del Porcellum tornerebbe utile per bipolarizzare il voto e per indirizzarlo: non è stato casuale l'attacco ai partitini e quell'endorsement per le forze maggiori. Di più. L'idea di anticipare le urne sarebbe interesse comune del Cavaliere e di Bersani, perché non darebbe il tempo di organizzarsi a quell'area di centro ancora in fase embrionale e che sta muovendo i primi passi. D'altronde, l'idea di assistere inermi, fino ad aprile, al gioco di chi la mattina fa il ministro tecnico con il sostegno di Pdl e Pd e di pomeriggio va a raccogliere voti per il proprio movimento, non garba nè all'ex premier nè a chi vorrebbe diventarlo. «Fossi Bersani — chiosa Carra — dentro di me ringrazierei Berlusconi».
Maroni lo fa pubblicamente, e il segretario della Lega ha molte ragioni per farlo. Più il Cavaliere prende le distanze da Monti più si riavvicina al Carroccio. E non c'è dubbio che Berlusconi — subìto il rifiuto di Casini — sia tornato a stringere un legame con l'ex alleato. Maroni non ne ha fatto mistero con i dirigenti del suo partito: «A parte il fatto che l'Udc è in caduta libera nei sondaggi, e che il resto di quella compagnia è composto da un'elite senza voti, con chi dovrebbe stare il Pdl? Quelli porterebbero i salotti, noi porteremmo i nostri asset. E se il Pdl non vuol ridursi a partitino del Sud...».
Sarà stato solo uno sfogo, quello del Cavaliere, e non c'è dubbio che la sua mossa ha il segno della disperazione, ma può ancora produrre effetti sugli assetti politici futuri. E poco importa a Berlusconi se sulla traiettoria di fuoco si ritrova il suo gruppo dirigente, se le primarie (con questo scenario) finirebbero per saltare, se il partito potrebbe spaccarsi con l'ipotesi nemmeno tanto remota di altre liste in campo. L'operazione barricadera è chiara, come il segnale al Pd.
Restano una variabile e un'incognita. La variabile è il passaggio parlamentare per aprire la crisi di governo. Nel Pd ritengono che Berlusconi non la aprirebbe sull'anticorruzione, sarebbe impopolare: è la legge di Stabilità semmai che ha messo nel mirino, è sull'ennesima stretta fiscale che potrebbe forzare la mano anche per cercare di riconquistare i suoi elettori delusi e che nei sondaggi «per l'85% sono contrari a Monti». Il democratico Latorre avvisa che la legge di Stabilità va approvata perché è «l'ultimo passaggio su cui l'Italia si gioca la credibilità internazionale». E proprio su quell'«ultimo passaggio» il Cavaliere potrebbe chiudere la partita, votando il provvedimento «per senso di responsabilità» ma chiedendo in cambio che il governo, un minuto dopo, rassegni il mandato. C'è poi l'incognita: quale sarebbe la reazione del Colle davanti all'ipotesi che si torni a votare con il Porcellum? La preoccupazione corre sul filo del telefono tra Napolitano e Monti.
Francesco Verderami

Corriere 28.10.12
D'Alema: le cancellerie europee hanno fiducia in Monti
«Bersani lo vede al Colle? Sono del tutto d'accordo Da Renzi una violenza distruttiva mai vista prima»
intervista di Dario Di Vico


«Risponderò a tutte le sue domande ma la prego iniziamo dall'Europa e non da Berlusconi». Quando può raccontare del dibattito politico che si svolge a Parigi e Berlino Massimo D'Alema si sente sollevato. Lì si discute del futuro dell'Europa mentre «in Italia il discorso pubblico è distruttivo e ripiegato su noi stessi, perdendo così di vista scenario e problemi reali». Dal suo recente tour, comunque, D'Alema è tornato ancor più convinto del valore di Mario Monti. «Viene visto come una personalità che ha portato l'Italia fuori dal pantano e il destino dell'Italia alle cancellerie europee interessa perché temono un effetto contagio».
Siamo al paradosso che all'estero c'è maggiore benevolenza verso gli italiani di quella che noi stessi ci concediamo?
«In Germania ci giudicano un Paese industriale più competitivo della Francia, conoscono la forza del risparmio delle famiglie e considerano il nostro Nord largamente integrato con il loro sistema produttivo. E tutto ciò vale oro perché la crisi ha rivelato che non c'è prospettiva senza una base industriale forte e competitiva. Il capitalismo renano si è rivelato assai più robusto del modello finanziario londinese».
Ma la vittoria del socialista Hollande è servita a spostare gli equilibri oppure no?
«Gli sforzi congiunti di Hollande e Monti sono stati importanti ma la resistenza di Angela Merkel rende tutto estremamente lento. Paradossalmente la scelta politica più coraggiosa l'ha fatta la Bce, mentre i progressi politici verso l'unione bancaria e verso una strategia per la crescita sono troppo lenti. L'attesa per le elezioni tedesche, poi, può avere anche un effetto paralizzante».
Visto che Monti è il numero di telefono dell'Italia, le cancellerie europee auspicano un Monti bis?
«Tutti capiscono che l'Italia deve uscire dall'emergenza e che la vera garanzia di stabilità è un governo regolarmente eletto e con una solida maggioranza parlamentare, come avviene in tutti i Paesi europei».
Come si fa a incassare il dividendo legato all'azione di Monti senza un Monti bis?
«Chiedendo agli elettori di scegliere un governo di legislatura che abbia come programma la riorganizzazione del Paese».
Implicitamente lei sta dicendo, come Bersani, che Monti è più facile che varchi il Quirinale piuttosto che torni all'università Bocconi?
«Sono del tutto d'accordo con Bersani».
Come giudica lo stop and go di Berlusconi che nei giorni scorsi aveva ventilato di ricorrere al Monti bis e ieri invece ha minacciato di ritirare la fiducia al governo?
«Siamo tornati al Berlusconi populista e antieuropeo, quello che abbiamo conosciuto fino a pochi mesi fa. È la conferma di un irriducibile fondo estremista che rende, con ogni evidenza, impossibile l'idea di continuare la collaborazione con questa destra nel corso della prossima legislatura. Osservo però che vi sono in Italia poteri e interessi talmente ostili alla sinistra da aver tentato, ancora pochi giorni fa, di rivalutare il Cavaliere presentandolo come un illustre statista».
Ma è stato lei a considerare per primo Berlusconi uno statista da coinvolgere nel ridisegno delle istituzioni.
«Sì, ho cercato un accordo sulle regole per costruire un sistema democratico non lacerato da pregiudiziali, un bipolarismo civile. Era nell'interesse del Paese. Ma sono passati 14 anni e abbiamo dovuto constatare che con Berlusconi non è possibile».
Ieri però l'ex premier ha rigettato sul centrosinistra l'accusa della mancata regolamentazione del conflitto di interesse.
«È un'operazione ridicola e vergognosa. Quando cercammo di scrivere una legge seria e rigorosa, e fui io come presidente del Consiglio a fare questo tentativo, ci trovammo di fronte a un violentissimo ostruzionismo parlamentare. Per cui se Berlusconi oggi è chiamato a rispondere in tribunale come la persona che ha detenuto l'effettivo controllo di Mediaset, deve sapere che è lui stesso ad averlo voluto. Non si lamenti delle conseguenze. Invece, fa impressione che in un Paese con la pressione fiscale così alta su tanti cittadini, chi ha governato per anni sia condannato per frode fiscale».
Il Cavaliere ha annunciato che guiderà in prima persona la campagna elettorale del suo schieramento. Cosa cambia per il Pd?
«Niente. Berlusconi resta il leader del centrodestra, l'annuncio di ieri non mi stupisce».
Le primarie del centrodestra con il Cavaliere che dà le carte restano credibili?
«Spero che si facciano e abbiano il carattere di una vera consultazione. Sarebbe un'occasione di confronto tra modi diversi di concepire la partecipazione democratica e allontanerebbero, per loro, la tentazione di invadere le nostre...».
Le doppie primarie stanno mettendo in difficoltà Pier Ferdinando Casini, una personalità politica a cui lei ha guardato sempre con interesse.
«Il centro democratico ha lavorato per porre fine alla stagione di Berlusconi e ciò va riconosciuto. Ma oggi l'Udc appare come un partito indeciso, che non ha chiaro quale sia la sua mission. Penso che la strada giusta sia l'alleanza tra progressisti e moderati, un patto di legislatura per le riforme e la ricostruzione del Paese».
Al centro si stanno affacciando nuove figure. È stato presentato un manifesto firmato da Riccardi e Montezemolo e si parla di una discesa in campo del ministro Passera.
«La politica non è un club chiuso e il Paese ha bisogno dell'impegno di personalità nuove, occorre però non disperdere le forze e dunque spero che ci si concentri attorno a un progetto politico condiviso».
Veniamo alle primarie del Pd. Lei si è caricato addosso il peso della battaglia contro Renzi. Alcuni giudicano che sia stato coraggioso, altri masochista.
«Veramente è Renzi che ha fatto di me il suo bersaglio. Difendo una storia e una tradizione che lui vorrebbe rottamare, ma soprattutto sono convinto che per il Paese l'unica prospettiva credibile sia data dalla vittoria di Bersani».
Beppe Vacca, un intellettuale a lei molto vicino, ha detto che se vincesse Renzi il partito lo espellerebbe in breve. Anche lei ha fatto presagire un rincrudimento della lotta politica dentro il Pd. Pensa che sarebbe possibile una scissione da sinistra?
«Dovrebbe essere Renzi il vero destinatario della sua domanda. È lui che vuole rottamare idee e persone. La sua è una violenza distruttiva che non si è vista mai, in nessun partito. Un partito è una comunità di persone che si rispettano e coltivano lo stesso sentimento verso la propria storia».
Vendola però sta rendendo più difficile la vita a Bersani. Un giorno presenta un referendum contro la riforma Fornero e l'altro promette di rottamare Monti.
«Non sono d'accordo con queste posizioni di Nichi e lo dico apertamente. Sono convinto però che Bersani saprà farsi garante dell'equilibrio della coalizione. Anche perché è stato scelto, e voi giornalisti lo avete sottovalutato, un metodo di risoluzione dei contrasti, una sorta di governance della coalizione. Le forze politiche che hanno aderito alle primarie hanno concordato che le decisioni nell'alleanza verranno prese a maggioranza dall'assemblea dei parlamentari eletti».
So che il termine rottamazione le procura fastidio intellettuale, ma fuori dalla politica suona come ricambio e oggi i giovani chiedono spazio e rinnovamento nella società e nelle professioni. Non può non tenerne conto.
«Ne tengo tanto conto che sono favorevole al ricambio, il Paese ne ha bisogno. È singolare però che la rottamazione dei politici sia pilotata da chi poi ostacola il ricambio nella società. L'establishment vuole che il rito distruttivo si celebri e si esaurisca nel perimetro politico, anzi nel perimetro del centrosinistra. In modo che le classi dirigenti, responsabili dello sfascio non meno dei politici, possano continuare a fare quello che hanno fatto fino a oggi. Ricorda Tomasi di Lampedusa? Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi...».

il Fatto 28.10.12
Renzi, dottor morte del Pd
di Paolo Flores d’Arcais


II programma di Matteo Renzi è pessimo, il suo stile insopportabile. Il 25 novembre alle primarie voterò Matteo Renzi, firmando anche il “giuramento” per il centrosinistra alle elezioni di primavera. Nelle quali invece, hic stantibus rebus, voterò Grillo. Non mi sentirò in contraddizione e meno che mai disonesto. Infatti. Il programma di Renzi è pessimo: i diritti dei lavoratori, per i quali si batte ormai solo la Fiom, non esistono. Eppure se si vogliono le primarie, si dovrebbe volere pure il voto dei lavoratori per eleggere i delegati e approvare o respingere gli accordi sindacali. Ma Renzi è un fan di Marchionne stile curva-sud. Anzi era: ora che ha insultato Firenze fa l’offeso, finché calpesta gli operai va benissimo.
RENZI CIANCIA di tolleranza zero contro la corruzione, e anzi propone perfino il reato di traffico di influenze (lo fa anche la Severino) e il ripristino del falso in bilancio, ma lascia le pene nel vago, e resta il bonus di tre anni della famigerata legge bipartisan. Non una parola sull’abrogazione di tutte le leggi ad personam, sulla prescrizione dopo il rinvio a giudizio, su pene effettivamente deterrenti (cioè anni di galera effettivamente scontati) per l’autoriciclaggio, l’evasione fiscale e soprattutto l’intralcio alla giustizia, e sull’eccetera tante volte analiticamente esposto su questo giornale: la lotta alla corruzione resta grida manzoniana. Eppure le cifre di un solo anno di corruzione, evasione e mafie corrispondono alle manovre “lacrime e sangue” di un’intera legislatura. Ci sarebbero soldi sia per ridurre il debito pubblico, sia per aumentare il welfare (anziché ucciderlo), sia per ridurre le tasse.
Quanto allo stile, la democrazia avrebbe bisogno di vedere al suo centro il primato dell’argomentazione razionale, una sorta di illuminismo di massa, che faccia da antidoto ai veleni della politica spettacolo con cui la democrazia è stata inquinata fino allo sfinimento e alla degenerazione. Mentre lo stile di Renzi è media-set puro, un “format” di spettacolo replicato in ogni teatro con scenografie, spezzoni di filmati e un caravanserraglio di effetti speciali e battute ad effetto. Esattamente come lo spot con cui vendere un’auto o un profumo. Ma il voto non è una merce, la democrazia non è “consumo” ma cittadinanza attiva.
Perché allora votare questo Berlusconi formato pupo, che per soprammercato vuole turlupinarci parlando (di tanto in tanto) di “sinistra”? Perché la sua vittoria distruggerebbe il Pd, lo manderebbe letteralmente in pezzi, lo disperderebbe come un sacchetto di coriandoli. E in questo modo i milioni di elettori animati da volontà di “giustizia e libertà” e dall’intenzione di realizzare la Costituzione (tranne l’articolo 7, da abrogare), elettori che credo siano una decisa maggioranza nel paese, non sarebbero più imbrigliati, congelati, manipolati, usati dalla nomenklatura partitocratica (il Pd, ma anche Idv, Sel e residui rifondazionisti). Una situazione del genere sarebbe rischiosa, ovviamente. Ne potrebbe scaturire un peggio. Ma a forza di “male minore” abbiamo un governo Napolitano-Monti che realizza una legge pro-concussori chiamandola “anticorruzione” e una legge-bavaglio che non era riuscita a Berlusconi.
Al ricatto del “rischio peggio” bisogna sottrarsi, perciò. Solo sulla tabula rasa del fu centro-sinistra potrebbe infatti nascere una forza “giustizia e libertà”, un “partito d’azione” di massa anziché d’élite, propiziato dalla Fiom, dalle testate non allineate, dai movimenti di opinione della società civile in lotta (e da tanti quadri locali del Pd, anch’essi “liberati”).
QUANTO ALLA “immoralità” di sottoscrivere il documento del centrosinistra già programmando lo “spergiuro” di un voto per altra lista (M5S), credo sia venuto il momento di praticare in forma sistematica il cinismo costituzionale. L’articolo 49 stabilisce che i partiti sono un nostro strumento, quello tramite cui (strumento) i cittadini (soggetto) “concorrono con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. I partiti hanno rovesciato di fatto questo dettame costituzionale, sono diventati i padroni della politica, e noi i loro strumenti. Vanno di nuovo strumentalizzati. Usandoli come taxi (lo teorizzava Enrico Mattei, ma da posizioni di potere, non di cittadinanza) e salendo secondo le nostre esigenze, visto che per la Costituzione i sovrani siamo noi.

Corriere 28.10.12
Listone Sel-Pd, spuntano nome e simbolo
Ma l'ex leader del Prc Giordano frena: è fantapolitica

La formazione potrebbe chiamarsi «Italia, bene comune»
di Maria Teresa Meli


ROMA — Sono giorni di nervosismo, questi, per Sel. E la ragione di tanta inquietudine non riguarda solo l'attesa della sentenza nei confronti di Nichi Vendola, prevista per mercoledì. Anzi ieri, a questo riguardo, nel quartier generale del presidente della Regione Puglia si respirava un'aria di cauto ottimismo. C'è un altro motivo che fa fibrillare Sel in questo periodo: le indiscrezioni che sono filtrate in questi giorni sulla possibilità che si dia vita a un grande listone di centrosinistra hanno provocato un terremoto nel movimento di Vendola.
L'ex segretario di Rifondazione comunista Franco Giordano, uno dei dirigenti di Sel più vicino al ‘‘governatore'' pugliese, ha smentito categoricamente questa ipotesi. «È fantapolitica», ha sostenuto l'ex leader del Prc, che poi ha aggiunto: «Nessuno, tanto meno io, ha mai auspicato questa prospettiva».
Eppure circola già da qualche giorno il possibile nome della lista che potrebbe raggruppare insieme Partito democratico, socialisti di Nencini e Sel: «Italia, bene comune», scritto in rosso e verde su uno sfondo bianco, per riprendere i colori della bandiera del nostro Paese. È lo stesso nome con cui è stata battezzata la coalizione che organizza le primarie del centrosinistra, nonché il titolo dell'appello rivolto agli elettori dall'alleanza Pd, Sel e socialisti. Ed è uno slogan caro al segretario del Partito democratico Pier Luigi Bersani, che lo ha già utilizzato per altre iniziative.
Nel logo del listone rimarrebbero però anche i nomi e i simboli dei tre partiti, onde evitare innovazioni troppo brusche, che possono generare confusione nell'elettorato di centrosinistra.
Mettere insieme Sel e socialisti consentirebbe al Pd una più facile gestione della dialettica interna alle tre forze politiche. E questa è una preoccupazione che Bersani ha, perché, come ha detto tante volte, non vuole fare «un bis dell'Unione». «Da quel punto di vista abbiamo già dato», è una delle frasi che il leader del Partito democratico ama ripetere spesso.
Sempre per lo stesso motivo, cioè per rassicurare gli elettori circa le intenzioni del centrosinistra, Bersani in questi giorni sta ripetendo che Mario Monti non scomparirà dallo scenario politico italiano, tornando alla Bocconi. Già, perché il Pd vedrebbe bene l'attuale premier al Quirinale, nella prossima legislatura. Il suo nome sarebbe una garanzia e spegnerebbe le preoccupazioni di quanti, in Italia e all'estero, vedono con una certa apprensione la prospettiva di un governo sbilanciato a sinistra.
È chiaro, comunque, che l'ipotesi del listone unico dipende anche dalla legge elettorale. Se rimarrà il Porcellum, Pd e Sel (non i socialisti che non raggiungerebbero mai il quorum e che a quel punto verrebbero assorbiti dal Partito democratico) potrebbero anche andare con due liste, anziché con una sola, e «Italia, bene comune» diventerebbe a quel punto il nome dell'alleanza elettorale. Sel, infatti dovrebbe riuscire a superare la soglia prevista dall'attuale legge. L'ipotesi delle due liste, ovviamente, si realizzerebbe solo nel caso in cui le resistenze che provengono dal movimento del ‘‘governatore'' pugliese diventassero troppo forti.
Ma se alla fine la legge elettorale dovesse cambiare, allora il listone diventerebbe inevitabile perché la soglia di sbarramento prevista dalle bozze di riforma che sono allo studio del Senato è più alta di quella del Porcellum e non è affatto detto che Sel riesca a superarla.
Comunque, quale che sia la legge elettorale con cui si andrà alle elezioni, una cosa è certa: listone o non listone, il Pd punta a formare un unico gruppo in Parlamento con socialisti e Sel.

il Fatto 28.10.12
In piazza contro i tecnici: “Smontiamo il premier”
In migliaia a Roma per dire no alla politica del rigore
Sfilano anche i medici: Basta tagli alla sanità
di Sandra Amurri


La promessa fatta da Mario Monti al convegno della Famiglia a Riva del Garda (“per il 2013 stanzieremo 50 milioni aggiuntivi per le politiche familiari e 25 milioni per le politiche giovanili, servizi per l’infanzia e l’assistenza sono le priorità del governo”, ha detto il premier ricordando che “in passato ci sono state troppe promesse non mantenute”) non è arrivata a piazza San Giovanni, gremita da quella parte del Paese che si ribella alle politiche liberiste del governo dei professori.
“GLI UNICI professori da tagliare sono quelli al governo” scrivono i precari della scuola. Lavoratori dell’Ilva, insegnanti, precari di ogni “razza”, studenti, pensionati, terremotati del-l’Emilia, in corteo per dire no a un Monti bis. Le bandiere, solo quelle di Rifondazione, le voci, le più disparate, ma concordano su una cosa: “È una vergogna che Sel, Idv e Pd abbiamo ritirato la loro adesione alla manifestazione tre giorni prima”. In piazza ci sono donne e uomini alla ricerca di una sinistra smarrita, quelli che un tempo si sarebbero chiamati “cani sciolti”. “I partiti sono morti e continuano a parlare di alleanze in vista di poltrone. I cittadini, invece, discutono, si interrogano, non ne possono più di questa barbarie culturale e politica”, spiega Marina, docente romana, giunta al No Monti day per “liberare la rabbia”. Rabbia che poco più in là, in via Cavour, esplode contro Banca Unipol che viene imbrattata con lancio di uova e vernice colorata. Rabbia che a Riva del Garda, dove c’era Monti, era già esplosa con i petardi lanciati dai manifestanti davanti al Palacongresso e la carica della polizia. “Basta non esagerare, ma uno ha anche un po’ le palle girate” è il commento di chi si è alzato all’alba per arrivare a Roma e si è fatto sei ore di auto, stretto come una sardina ad altri quattro compagni, per dividere le spese. Ad aprire il corteo la celere, circa un migliaio gli agenti in divisa, chissà quanti altri in borghese. Da piazza della Repubblica, dove si è snodata la manifestazione, a piazza San Giovanni tutta la zona era isolata dai blindati. L’allarme era altissimo per la presenza annunciata di black bloc. Mentre il solo episodio registrato è stato quello del “corteo selvaggio” sfilatosi per raggiungere l’uscita della tangenziale Est di San Giovanni dove alcuni ragazzi hanno lanciato petardi e bombe carta contro la polizia che li ha caricati e dispersi. “Il 14 novembre con i fratelli greci, spagnoli, francesi, portoghesi, saremo davanti ai rispettivi palazzi del governo per dire no allo sfruttamento del lavoro, sì a un’Europa dello Stato sociale contro quella delle banche” dice dal palco Giorgio Cremaschi che ha sfilato con Paolo Ferrero, Vittorio Agnoletto e Gianfranco Mascia. “Questo è solo l’inizio. Per ridare dignità ai lavoratori dobbiamo mandare via Monti e lavorare per una coalizione unita a sinistra”, è l’apertura dell’intervento di Paolo Ferrero della Federazione della sinistra che il 3 novembre si riunirà per discutere la proposta del segretario dei Comunisti Italiani Oliviero Diliberto sull’apertura al Pd. Tocca le corde più profonde la foto del bimbo intubato sullo striscione “Acciaio per voi tumori per noi” sorretto da tre ragazze con le maschere anti-gas del quartiere Tamburi di Taranto. Accanto un filo con tanti bimbi di cartone che sventolano leggeri come fossero anime appese al destino di una fabbrica che, indisturbata, continua a inquinare altro che “Autorizzazione Integrata Ambientale (Aia), quella garantisce solo l’azienda”, spiegano.
TANTI I CORI anti Fornero: “Siamo tutti schizzinosi”. Contro Passera: “Via le banche dal governo”. E ovviamente anti-premier: “Smontiamo Monti come ha smontato noi”. “L’Emilia è ancora scossa, diamoci una mossa” e ancora “Emilia, smontiamo le tende al governo”, gli slogan del Comitato “Sisma12”. Tanta preoccupazione nei volti. Ma anche musica e balli: “La gente come noi non molla mai”, il ritornello cantato da un gruppo di giovani muniti di tamburi e percussioni, mentre dal tir attrezzato arrivavano le note della tipica danza popolare greca, il Sirtaki, in segno di vicinanza a un popolo affamato dalla crisi.
È stata una giornata di protesta collettiva fin dalla mattinata quando hanno sfilato migliaia di medici in camice contro i tagli e i ticket in sanità. Tra loro anche il senatore del Pd Ignazio Marino. In testa al corteo la bara del Servizio Sanitario Nazionale portata a spalle con la banda che intonava la marcia funebre. E quello che si intuisce che accadrà nei prossimi mesi non è molto più allegro.

La Stampa 28.10.12
La piazza anti-Monti: no all’eurodittatura
Dalla sinistra radicale un messaggio a Pd e Cgil: dovete rompere con l’esecutivo
di Roberto Giovannini


Alla fine della manifestazione del «No Monti Day», mentre calano le ombre della sera, gli studenti universitari giocano un tiro mancino alle forze dell’ordine: dicono che vanno in corteo alla Sapienza, ma poi salgono in corteo sulla Tangenziale Est. Raggiungono lo svincolo dell’autostrada per l’Aquila, e dopo un po’ rientrano al punto di partenza sfilando sulla sopraelevata. Risultato: impazzito il traffico in tutto quel quadrante della Capitale. Si chiude così la giornata di protesta in cui decine di migliaia di persone (150.000 venute da tutta Italia, dicono gli organizzatori) hanno occupato pacificamente il centro di Roma per protestare contro il governo Monti e le sue politiche di austerità. Politiche che (lo disse il Pd Stefano Fassina, ieri lo ha confermato Berlusconi) accentuano la recessione che ci impoverisce.
Come quasi sempre capita, l’allarmismo e il timore di scontri del tipo del 15 ottobre 2011 sono stati smentiti. Le autorità erano ben consapevoli che stavolta la musica sarebbe stata diversa. Il dispositivo di sicurezza così è stato molto «discreto», mentre molto visibili erano nerboruti militanti delle organizzazioni promotrici pronti a intervenire. Unici episodi, un cassonetto bruciato lontano dal corteo e qualche scritta sulle vetrine delle banche lungo il percorso.
Soddisfattissimi gli organizzatori del «No Monti Day»: una galassia in cui si trovano sindacati di base come Usb e Cobas e i militanti Cgil della «Rete 28 aprile», partiti come Rifondazione comunista, Comunisti Italiani, Sinistra Critica, Pcl, Carc. Ma forse più protagonisti sono i rappresentanti dei movimenti: dai No Tav ai No Debito, da quelli dell’Ilva agli insegnanti precari, dalle maestre d’asilo (che hanno ripetuto la loro «haka» contro i tagli alla scuola) ai vigili del fuoco, dai centri sociali agli immigrati ai movimenti per la casa. C’era anche uno striscione di siriani pro-Assad.
Tanti gli slogan, quasi tutti contro il governo Monti «servo delle banche» e l’«eurodittatura», ma anche di solidarietà con Grecia e Spagna, dove più forti sono le proteste contro l’austerità imposta da Ue e Bce. Poi in piazza San Giovanni gli interventi (inascoltabili causa pessima amplificazione), da Paolo Ferrero (Prc) a Piero Bernocchi (Cobas).
La piazza del «No Monti day» parlava ovviamente a Mario Monti («Vattene»). Ma c’è un messaggio anche per la sinistra politica e sindacale più moderata. Come fa il Pd a sostenere in Parlamento l’esecutivo dei tecnici? Perché la Cgil ancora non ha dichiarato lo sciopero generale, ed esita a mobilitarsi in vista della manifestazione della Ces anti-austerity del 14 novembre? Come fa Nichi Vendola, e Sel, a fare accordi con Bersani, che non vuole rompere con le politiche del governo dei «tecnici»?
Infine, il «No Monti Day» interroga anche questo pezzo di sinistra radicale sceso ieri in piazza: si può tentare in Italia, alle prossime elezioni, l’operazione compiuta con successo in Grecia da Syriza? Ovvero: c’è spazio politico per una protesta antisistema, ma di sinistra e lontana dal Grillismo?

l’Unità 28.10.12
«All’asilo niente segno della croce». Ed è polemica


È polemica in Trentino dopo il divieto rivolto ai bambini di una scuola dell’infanzia di fare il segno della croce e recitare la preghiera prima del pranzo. La vicenda ha origine dalla decisione presa dalla coordinatrice pedagogica della scuola dell'infanzia della minoranza linguistica (che serve i comuni di Frassilongo, dove ha sede la scuola, Roveda, Fierozzo e Palù del Fersina), arrivata da poco in valle, che ha optato per la versione «laica»: nessun segno della croce come nessun tipo di altra manifestazione religiosa in una scuola pubblica.
Ma i genitori dei bambini sono di diverso avviso: vogliono il segno della croce e le preghiere prima dei pasti. Per questo si sono rivolti ai sindaci dei Comuni e al parroco di valle don Daniele Laghi. Il diktat però non è piaciuto ai genitori che si sono rivolti ai sindaci della zona e al parroco della valle. «Non credo che si faccia alcun male se i piccoli si fanno un segno di croce», afferma il sindaco di Fierozzo, Luca Moltrer. «Sono dispiaciuto per questo tipo di incomprensioni aggiunge fra l’altro non è capitato mai, finora, che in quell'asilo ci fossero bimbi di altre religioni. Quindi penso che sia importante per loro, oltre al gioco e alle attività che fa crescere le loro conoscenze, ricevere un insegnamento relativo alla fede cristiana, alla base della cultura mochena». Il sindaco è deciso a cercare una mediazione con il personale della scuola materna.
Un’azione che vuole anche tentare il sindaco di Frassilongo, paese dove ha sede la scuola materna, Bruno Groff. Ad arrivare ad una mediazione si dice pronto anche il parroco di valle don Daniele Laghi: «Tutti sono concordi nel ritenere che non era il caso di togliere questo riferimento cristiano, ben radicato nella gente della valle». La vicenda intanto è approdata anche ai massimi livelli del governo provinciale. Il presidente Lorenzo Dellai parla di «notizia che ha dell'incredibile. Voglio sperare che si tratti di uno scherzo di carnevale fuori tempo», dice. «Per quanto riguarda la Provincia è del tutto naturale che i bambini delle nostre scuole materne adottino comportamenti coerenti con la fede religiosa delle proprie famiglie e con l'identità religiosa che costituisce parte fondamentale della nostra costituzione materiale», aggiunge il presidente della Provincia autonoma di Trento, reduce dal Festival della famiglia di Riva del Garda.

il Fatto 28.10.12
Trattativa atto primo 20 anni dopo lo Stato processa se stesso
Domani a Palermo sei uomini delle istituzioni nell’aula bunker di fianco ai padrini di Cosa Nostra
“Così nacque il patto con il boss”
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza


Palermo Fisicamente, la distanza sarà netta e visibile: le facce dei boss mafiosi Totò Riina, Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella e del “postino” della trattativa, il medico Antonino Cinà, saranno visibili nei monitor appesi in alto ai lati dell’aula bunker del carcere di Pagliarelli. Quelle dell’ex ministro Nicola Mancino, dei senatori Calogero Mannino e Marcello Dell’Utri e degli ufficiali dei carabinieri Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, sono attese invece dentro l’edificio blindato che sorge lungo la tangenziale palermitana, alla periferia della città. Ma entrambi, uomini dello Stato e uomini di Cosa Nostra, domattina dalle nove a Palermo, siederanno simbolicamente sullo stesso banco degli imputati. E con loro ci sarà anche Massimo Ciancimino, il testimone del dialogo sotterraneo tra i boss e lo Stato, il grande accusatore dei carabinieri, che è imputato per concorso in associazione mafiosa e probabilmente sceglierà di tenersi a distanza dagli uomini in divisa.
PADRINI di Cosa Nostra e uomini delle istituzioni, fianco a fianco, nella stessa aula giudiziaria per rispondere dell’accusa di aver dialogato sotterraneamente, nel tentativo di pacificare lo scontro che tra il ’92 e il ’94, tra una bomba e un depistaggio, ha dilaniato il Paese. Perché da domani, per la prima volta, lo Stato processa (o tenta di processare) se stesso. Quella che si apre nel-l’aula bunker di Pagliarelli è infatti la verifica del giudice terzo sull’inchiesta “che varca le colonne d’Ercole del diritto”, come l’ha definita il pm Antonio Ingroia, visto che dietro le divise dei carabinieri e le grisaglie dei politici (rappresentanti di quello Stato che, all’indomani delle stragi Falcone e Borsellino, scelse, secondo l’accusa, un’antimafia “morbida” che placasse la furia dei corleonesi) per la prima volta in un’aula sarà processata la ragion di Stato. Tra i politici, uno solo, Mancino, è accusato di falsa testimonianza: avrebbe mentito, secondo l’accusa, sulle ragioni che nel giugno del ’92 indussero il suo predecessore al Viminale, Vincenzo Scotti, a lasciare l’incarico ministeriale per la Farnesina. Gli altri, mafiosi, senatori ed ex ufficiali del Ros, sono tutti accusati di violenza e minaccia a corpo politico dello Stato: negoziando sottotraccia la concessione di benefici a Cosa Nostra, si sarebbero resi complici di un grande ricatto alle istituzioni, letteralmente franate dopo Capaci e via D’Amelio nella scelta di una interlocuzione con i boss, poi concretizzata – secondo la ricostruzione dell’accusa – in un vero e proprio patto di convivenza con i poteri occulti del Paese. Così, presidiata dal sit-in dei volontari delle Agende Rosse e di Cittadinanza per la magistratura, l’aula bunker di Pagliarelli diventa domani il luogo-simbolo della nuova frontiera giudiziaria antimafia, come lo fu l’aula bunker dell’Ucciardone che segnò con il maxi-processo l’avvio di una stagione vittoriosa sulla mafia militare. Per il gup Piergiorgio Morosini, che ha lasciato la segreteria nazionale di MD per dedicarsi al processo, e ha trascorso l’estate a leggere oltre 300 mila pagine, racchiuse in 65 faldoni, la strada si presenta subito in salita: su di lui pende la richiesta di ricusazione di uno degli imputati, il colonnello De Donno, ma il giudice ha già fatto sapere che rimarrà al proprio posto, non condividendola. A imporgli uno stop temporaneo, a questo punto, potrebbe essere solo la Corte d’appello con un’ordinanza provvisoria in attesa della decisione definitiva. L’udienza, dunque, si svolgerà regolarmente e saranno due le questioni preliminari da affrontare: le condizioni di salute di Bernardo Provenzano, ricoverato recentemente nell’ospedale Civile di Parma (e adesso tornato in carcere) per gravi problemi neurologici, che non è detto possa presenziare alla prima udienza e la verifica delle costituzioni di parte civile, ultima in ordine di tempo quella del governo, annunciata da Mario Monti in extremis, nonostante il 23 maggio scorso, a Palermo, il premier avesse proclamato solenne che “l’unica ragion di Stato è la verità”. Del boss Provenzano, il gup dovrà valutare la capacità di stare consapevolmente in giudizio, condizione indispensabile per la sua permanenza tra gli imputati dell’udienza preliminare.
PER QUANTO riguarda le parti civili, invece, Morosini dovrà valutare l’annunciata costituzione di Salvatore Borsellino (e del movimento delle Agende Rosse) che potrebbe indurre qualche difensore a cogliere la palla al balzo per chiedere il trasferimento del processo a Caltanissetta, se il fratello del giudice assassinato in via D’Amelio motiverà la sua richiesta sul rapporto di causa-effetto tra la trattativa e la strage. Dopo avere affrontato entrambe le questioni, il gup si ritirerà in Camera di consiglio per concedere, probabilmente, i termini a difesa: gli avvocati infatti hanno già preannunciato che chiederanno tempo per leggere gli ultimi verbali di interrogatorio prodotti nei giorni scorsi dai pm Ingroia e Nino Di Matteo. L’ultima questione riguarderà la pubblicità del processo, essendo l’udienza preliminare vietata ai giornalisti cui in genere è consentito l’ingresso solo se le parti processuali sono d’accordo. Ma “in ragione dell’eccezionalità dell’evento”, l’Unci, l’Unione nazionale cronisti, ha rivolto un appello al gup, ai pm e agli imputati affinché sia consentito ai giornalisti l’ingresso in aula: “Solo così – si legge nel-l’appello – potrà essere esercitato il controllo democratico per conto del cittadino-lettore”.

il Fatto 28.10.12
Ingroia: “Ma il conflitto del Colle danneggia la ricerca della verità”
di Beatrice Borromeo


Un parafulmini: così il pm Antonio Ingroia, alla vigilia dello storico processo che vede padrini e uomini dello Stato insieme sul banco degli imputati, spiega il suo ruolo. “Il mio compito a Palermo è esaurito, rimane un solo aspetto: devo proteggere l’immagine del processo e il lavoro dei colleghi dalle campagne di disinformazione. Ed espormi proprio per far scudo a loro. Lo farò anche, e ancora di più, dal Guatemala”.
Dottor Ingroia, domattina ci sarà la prima udienza a 20 anni dalle stragi. Come si sente?
Sereno e sicuro perché abbiamo davvero fatto tutto il possibile nella fase delle indagini. E, certamente, anche emozionato, perché questo è un passaggio fondamentale nella storia del Paese.
Sabato prossimo si imbarcherà per il Guatemala. Le sembra il momento giusto per andarsene?
Chi lavora con me ha capito la mia scelta, anche se non la condivide. Il pool che si è formato a Palermo è molto attrezzato. Colleghi con grande esperienza e ragazzi freschi di studi giuridici: sono pronti.
Uno di loro, Massimo Tartaglia, è appena stato minacciato.
Già. È giovanissimo e affronta il suo primo processo di mafia. La preoccupazione c’è sempre.
Sicuro che esporsi abbia protetto la Procura invece che danneggiarla?
Sono disposto a subire le conseguenze perché pretendo di esercitare i miei diritti costituzionali. Anzi, in quanto magistrato ho adempiuto a un dovere: quello di difendere la Costituzione e di smascherare le ipocrisie.
Quindi nessun pentimento?
Assolutamente. Non si può rinunciare a valori fondamentali in nome di tatticismi o per la paura che qualcuno strumentalizzi certe frasi. Il problema semmai è che pochissimi altri magistrati – penso a Gian Carlo Caselli – hanno fatto come me: sono certi colleghi a camminare all’indietro, non io a essere sovraesposto. Vuole la controprova?
Prego.
A un convegno del Movimento Sociale, chiesero a Paolo Borsellino se la debolezza dell’azione contro la mafia dovesse leggersi come una resa dello Stato. Lui rispose di no, perché per arrendersi lo Stato avrebbe dovuto prima iniziare a combattere. S’immagina cosa succederebbe se oggi io dicessi la stessa cosa?
Lei è stato attaccato anche per aver indirettamente intercettato il presidente della
Repubblica. Come giudica la scelta di Napolitano di sollevare il conflitto di attribuzioni?
Anche i più critici sono d’accordo: la scelta del Presidente è legittima. Una questione diversa, come ha sottolineato Zagrebelsky, è se sia opportuna. È vero: era nelle prerogative del capo dello Stato muoversi così, ma la campagna che si è scatenata contro la Procura di Palermo ha sicuramente aumentato il conflitto tra le istituzioni. La scelta del Colle danneggia anche il processo che parte domani.
Si aspettava che stampa e politici facessero quadrato attorno a Napolitano?
Non mi ha sorpreso, soprattutto perché non tutto il ceto politico gradisce il principio secondo cui tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge. Ammetto però che la virulenza di alcuni attacchi apparsi sui quotidiani, come certi editoriali di Eugenio Scalfari e le accuse a noi di aver agito illecitamente, di non aver concluso nulla contro la mafia per 20 anni, sono state un po’ eccessive. Per usare un eufemismo.
Tra le critiche più feroci c’è stata quella di Magistratura democratica, cui lei appartiene.
Ed è quella che mi ha amareggiato di più. Anche perché la difesa del diritto di parola dei magistrati, anche fuori dalle sedi giudiziarie, è – o almeno dovrebbe essere – nel Dna di Md.
Una domanda che si pongono in tanti, dopo che la camorra ha assassinato per errore un ragazzino: cosa deve fare lo Stato per proteggere i suoi cittadini?
Al di là del caso specifico, che ha una componente anche accidentale, il problema è che la guerra alla mafia rimane episodica. La politica contiene la mafia, ci convive, non la annienta. Finché non interverrà davvero sul sistema di potere criminale, combattendo l’economia mafiosa e le connivenze con la politica, la criminalità organizzata non potrà essere estirpata.
Quindi lei non considera la legge anticorruzione come un serio tentativo di fare un passo nella direzione giusta?
Viste le condizioni attuali, con lo stesso Parlamento che ha varato tante leggi ad personam, mi sembra comunque un ddl da non sottovalutare. Detto questo, non facciamoci abbagliare dall’etichetta: le lacune e addirittura gli aspetti peggiorativi sono evidenti. Solo quando includeranno autoriciclaggio e falso in bilancio e adegueranno la prescrizione ai tempi medi della giustizia potremo parlare di una vera legge anticorruzione.
Ingroia, un anno passa in fretta. Cosa farà dopo?
Ah saperlo! Dipende da tante cose: chissà se il mio posto sarà ancora vacante al mio ritorno.
Esclude la politica?
Diciamo che per ora non la considero.
Quando saluterà il suo pool?
Starò con loro fino all’ultimo secondo, fino a quando salirò sulla scaletta dell’aereo. E poi, anche da lontano, non li lascerò soli. Mai.

l’Unità 28.10.12
L’inchiesta
L’inganno sugli Opg più piccoli ma uguali
Nel marzo del 2013 chiuderanno gli attuali ospedali psichiatrici
ma riapriranno strutture del tutto simili sparse nelle Regioni


Una certezza in un mare di dubbi. La certezza è una data fissata per legge: il 31 marzo 2013, giorno in cui dovranno chiudere gli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari. I dubbi invece sono quelli del mondo del volontariato, dei medici e delle associazioni sul dopo. Un dubbio che diventa anche timore per chi tutti i giorni dedica il suo tempo per cercare di trovare soluzioni al problema delle quasi 1500 persone che vivono nei sei ospedali psichiatrici d’Italia. «Non vorremmo che dagli Opg si passasse ai manicomietti dice Stefano Cecconi, del coordinamento nazionale Stop Opg e dirigente nazionale Cgil perché a oggi non si sa ancora bene cosa possa accadere. Ma soprattutto sembra abbastanza difficile poter attuare la norma del febbraio 2012». Quella legge varata dopo l’inchiesta portata avanti dalla commissione parlamentare guidata da Ignazio Marino sui sei ospedali psichiastrici d’Italia.
Un’indagine che aveva messo a nudo un mondo ai più sconosciuto, ma drammatico. Quello dei cosiddetti «ergastoli bianchi scontati da persone con invalidità o altri problemi che», usando le parole di Alessio Scandurra, dirigente dell’associazione “Antigone” e componente dell’Osservatorio nazionale, «sarebbero dovute stare altrove». «Negli Opg abbiamo trovato persone ricoverate da quasi trent’anni spiega Cecconi e succede perché dopo due anni di permanenza in Opg c’è la cosiddetta revisione. Se però non c’è una struttura esterna che si fa carico della persona che finisce dentro, allora si proroga; e di proroga in proroga passano gli anni». Oggi, a sentire il sindacalista, qualche piccolo movimento sembra esserci stato. «In questo periodo ci sono state alcune dimissioni e qualcosa si è mosso in qualche centro aggiunge ma è sempre poco, troppo poco». Quanto al futuro: «C’è anche la paura che un’eventuale accelerazione possa portare a un’altra cosa argomenta Cecconi -: la messa a disposizione nelle regioni di piccoli manicomietti destinati a 30, 40 persone, senza pensare invece a soluzioni alternative».
Un problema che Roberto Loddo, portavoce del «Comitato Stop Opg» della Sardegna, ha messo anche nero su bianco in una lettera aperta inviata il 29 settembre alla Regione e agli altri rappresentanti delle Istituzioni. «Gli attuali Opg dovrebbero chiudere entro marzo 2013, ma l’attenzione sembra solo concentrata sull’apertura delle strutture residenziali sanitarie «speciali», molto simili agli ospedali psichiatrici (mini Opg) scrive : rischiamo di ritrovarci con numerosi piccoli manicomi disseminati nelle diverse regioni, compresa la Sardegna». Proprio per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni, il «Comitato Stop Opg» Sardegna ha deciso di promuovere dal 10 novembre al 10 dicembre un’iniziativa al giorno. «Ci sarà un appuntamento quotidiano con testimonianze di persone provenienti da tutta l’Italia spiega proprio per far sì che tutti possano conoscere questo mondo, e questi problemi». Per Luigi Manconi, dell’associazione «A Buon Diritto», «la norma era indispensabile e indifferibile anche perché lo stato degli Opg era, se possibile, peggiore di quello delle carceri». Ricordando le difficoltà che si incontrano quando si interviene per visitare strutture come gli Opg, Manconi spiega anche che «come si temeva non è stato fatto quanto necessario perché il trasferimento degli internati in strutture degne potesse avvenire in tempi previsti». Quindi l’affondo: «Alcune riforme sono costose.
Sembra però che quelle che riguardano i gruppi sociali più deboli producano un atteggiamento di avarizia persino più gretto di altre». Quanto sia faticoso lavorare in questo settore lo sa bene don Giuseppe Inzana, sacerdote e presidente dell’associazione «Casa di solidarietà e accoglienza» a Messina. Nella sua Comunità ospita giovani che sono passati anche all’Opg. Ogni giorno fa la spola dalla Comunità all’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, dove da quasi trent’anni fa il cappellano. Don Inzana è uno di quelli che hanno aperto le porte ai pazienti degli Opg e spianato la strada per una vita alternativa alle mura di un ospedale psichiatrico giudiziario.
«Tempo fa abbiamo seguito il caso di un uomo della Lombardia racconta lo presero perché venne trovato senza carta di identità. È arrivato dentro l’ospedale giudiziario ed è rimasto per un po’ di tempo». Poi? «C’è stata un nostro interessamento con il dipartimento di salute mentale del suo distretto e alla fine siamo riusciti a inserirlo in un progetto individualizzato». C’è una cosa che non piace a don Inzana, che fa parte del comitato Stop Opg. «Contestiamo la legge che vuole fare le strutture nel bosco. Chiediamo che siano in centro, dove si vive. Pensate che quando accompagnavamo un ragazzo a lavorare alle 4 del mattino avevamo una vicina che ogni giorno si affacciava per salutarlo». Non è ottimista Patrizio Gonnella, presidente di «Antigone». «Cosa succederà al 31 marzo? Secondo me in questo momento non lo sa nessuno spiega -, tutto è proceduto con estrema lentezza. Quella era una legge che aveva una minima copertura finanziaria». E oggi? «Mancano decreti attuattivi. Ci potrebbero poi essere due possibilità: che a gennaio venga prorogato il termine di chiusura oppure, che venga utilizzato per gli Opg il sistema del project financing , per la realizzazione e funzionamento di strutture private».
Emilio Lupo, psichiatra napoletano e responsabile nazionale di «Psichiatria democratica» non usa giri di parole. «Ho grandi preoccupazioni dice -, sono convinto che si arriverà alla fine dell’anno e nel milleproroghe si mette pure questo, ossia si farà ritardare la chiusura degli Opg».
Per l’esponente di «Psichiatria democratica» il problema va affrontato in tempi rapidi e in maniera pragmatica. «Sino a oggi si sono fatti tavoli e tavolini di discussione; ora è necessario agire. Ho fatto anche una proposta che prevede la costituzione di un ufficio di dismissione a tempo e a costo zero con funzionari del ministero della Salute e della Giustizia in cui si coordinano gruppi di lavoro regionalizzati». Per Emilio Lupo è necessario «pensare alle persone» perché «molto spesso negli Opg ci stanno uomini e donne che dovrebbero stare altrove. Uno che è finito dentro per oltraggi o resistenze dovrebbe andare da un’altra parte. Perché chi entra nell’Opg, spesso, finisce per scontare il cosiddetto ergastolo bianco».

l’Unità 28.10.12
Perugia si mobilita contro i nostalgici di Mussolini


 PERUGIA Il sindaco di Perugia, Wladimiro Boccali, lo aveva definito «politicamente disgustoso», la presidente della Regione, Catiuscia Marini, aveva sottolineato che l’iniziativa è «in totale contrasto con la storia e la coscienza civile dell’Umbria e di tutto il Paese», il deputato umbro del Pd Walter Verini lo aveva segnalato al ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri: dopo le aspre polemiche che lo avevano preceduto, è cominciato ieri pomeriggio nel capoluogo umbro, dove proseguirà anche oggi, il convegno di studi dal titolo «Marciare su Roma».
«Devo annunciare ha messo le mani avanti il responsabile culturale dell’iniziativa, Pietro Cappellari, aprendo i lavori che questo non è un colpo di Stato e che non si vuole qui ricostituire nessun partito. Inoltre non si fa apologia di nulla perché noi rispettiamo le leggi sello Stato».
L’iniziativa è stata organizzata dal Comitato Pro 90/o anniversario della Marcia su Roma, avvenuta il 28 ottobre del 1922, e si svolge all’Hotel Brufani, da dove la Marcia su Roma era partita, 90 anni fa. All’esterno dell’albergo, nel centro storico della città, Eurochocolate con le sue decine di migliaia di visitatori e, ieri, poco lontano, un volantinaggio di Anpi, Cgil e organizzazioni studentesche «contro le celebrazioni della Marcia su Roma», con uno striscione con la scritta «Perugia antifascista». Una mobilitazione che dura da giorni e che vede impegnata tutta la Perugia democratica e antifascista. Solidarietà all’Anpi è stata manifestata con la presenza sotto la Fontana Maggiore dal capogruppo del Pd, Renato Locchi, l’assessore regionale Stefano Vinti, i segretari regionali e provinciali del Prc, Della Vecchia e Flamini, l’onorevole Valter Verini, il capogruppo comunale del Pd, Mearini, e il segretario della Cgil Mario Bravi. «Siamo feriti e costernati si legge sull’appello distribuito che per le strade di Perugia sino stati affissi dei manifesti per ricordare la Marcia su Roma, un evento simbolo della dittatura. Riproporla significa ricordare positivamente uno dei fatti sciagurati della storia nazionale».
Ma per il promotore dell’iniziativa Cappellari «sono polemiche politiche alle quali bisognerebbe dare una risposta politica, ma questo è un convegno culturale». «Mi dispiace che si parli tanto di questo convegno come attualità e non come riflessione storica. Io al massimo ha scherzato Cappellari, ricordando l’etimologia della parola “nostalgico” potrei essere nostalgico della mia maestra delle elementari, ma nulla di più».
Ieri la prima giornata è passata senza eccessive tensioni, decisamente surclassata come presenze dall’appuntamento dedicato al cioccolato. Più cioccolato che politica. A ricordare le gesta di Mussolini si sono ritrovate circa 60 persone, tra cui due consiglieri regionali del Pdl (Andrea Lignani Marchesani e Rocco Valentino). In platea qualche spilla pro Ventennio sui baveri dei più anziani. Prima dell’inizio del convegno Davide Fabbri, il pronipote di Benito Mussolini, si è presentato con uno striscione su cui aveva scritto: «Sanno solo tassare! La soluzione: su Roma marciare». Ma dal convegno è rimasto fuori.
Dal Pdl non sono mancate parole a difesa del convegno. «Se fatte con spirito di ricerca e approfondimento della storia, queste iniziative ampliano il fronte del dibattito e della ricerca», ha detto il deputato del Pdl Rocco Girlanda.

l’Unità 28.10.12
Con il fascismo non si scherza
Una domanda per l’ammiraglio Mantelli
di Moni Ovadia


IL FASCISMO, LA PESTE NERA CHE PROVOCÒ SPAVENTOSI LUTTI ALL'ITALIA E CHE NE INFANGÒil nome macchiandosi di genocidi e crimini di guerra, fu sconfitto nel 1945 dagli alleati e dai partigiani della resistenza antifascista. Nel 1948, la sua memoria, la sua pratica e la sua ideologia furono rubricate nella Costituzione Italiana, repubblicana e democratica, come crimine.
In un Paese serio e civile tutto ciò avrebbe messo la parola fine a quel movimento criminale non solo sconfitto ma anche patologicamente in contrasto con l'evoluzione politica e sociale dell'Europa uscita dalla seconda guerra mondiale, perlomeno nelle democrazie più avanzate fra le quali la legge costituzionale collocava anche la nostra. Ma le ragioni dello schieramento italiano nel nuovo contesto della guerra fredda, insieme a molte altre cause fra le quali il furioso anticomunismo viscerale delle forze più conservatrici, anche non fasciste, del mondo cattolico e non solo, legittimò il ricollocamento di moltissimi ex fascisti mai redenti nei gangli più delicati degli apparati statali, negli organi della sicurezza interna e nei servizi segreti.
La pur necessaria amnistia voluta dall' allora guardasigilli Togliatti, non si curò di porre dei limiti al reingresso dei fascisti nella politica istituzionale e i fascisti ne approfittarono per riorganizzarsi in un partito, l'Msi, che ufficialmente accettava la democrazia parlamentare ma nel proprio «cuore nero» coltivava aspirazioni revansciste e continuava a celebrare i lugubri riti della mistica fascista educando le future generazioni.
Se così non fosse non si spiegherebbe la stagione dello «stragismo di Stato», del terrorismo nero, di tutti i depistaggi che hanno segnato la «notte della democrazia» in questa Italia incompiuta e instabile. Non si darebbe il permanere della sottocultura fascista fino ad oggi. Questa permanenza ha avuto in occasione del G8 di Genova nel luglio del 2001 un gravissimo brutale rigurgito che ha fatto precipitare l'Italia, per tre interminabili giorni, nel terrificante clima di sospensione della democrazia. Malgrado l'universale esecrazione della stampa libera del mondo intero e delle più prestigiose associazioni per la difesa dei diritti civili come Amnesty International, la vergognosa tolleranza nei confronti degli ininterrotti rigurgiti del fascistume nazionale continua con incomprensibile indifferenza, come recentemente ha segnalato l’Unità con diversi articoli sulle continue aggressioni di stampo fascista nelle scuole della Capitale e sul progetto di costruire un sacrario in memoria del criminale di guerra e genocida Rodolfo Graziani con finanziamenti provenienti dalla Regione Lazio governata da Renata Polverini. Su cui è tornato anche Aldo Cazzullo sul magazine Sette del Corriere.
Ma il nostro giornale, pressoché unico, ha segnalato anche un ulteriore fatto gravissimo che ha avuto luogo negli ultimi giorni: il Capo di stato maggiore della Marina, l’Ammiraglio di squadra Luigi Binelli Mantelli, è stato fotografato mentre riceveva il «crest» (una targa con logo), dalle mani di due aderenti della «Decima Mas», così com’era nota quando s’impegnava anima e corpo negli interessi della Repubblica sociale di Salò, ovvero compiendo crimini di guerra al sevizio dei nazisti e del loro maggiordomo italiano, il Duce.
Le responsabilità di questo schifo sono di molti, spesso per connivenza diretta. Ci sono ancora politici di destra che si dichiarano apertamente fascisti e fanno o si fanno fare il saluto romano in ogni occasione e altri, che pur non cedendo apertamente alla tentazione, hanno fatto di tutto per riabilitare il fascismo e criminalizzare i partigiani in alcune sconce trasmissioni di indecenti salotti televisivi, magari strumentalizzando il doloroso episodio delle Foibe senza mai fare riferimento alle precedenti stragi nazifasciste nelle terre slave. Ma pesa anche il silenzio dei progressisti che non reagiscono come dovrebbero e quello del governo dei tecnici, soprattutto sullo scandaloso caso dell’ammiraglio Mantelli.
A loro ricorderò il fanatico razzista Breivik, ma anche l'assassino fascista di casa nostra che ha ucciso a Firenze due ambulanti senegalesi.

il Fatto 28.10.12
Europa, gli spettri bussano alla porta
di Furio Colombo


Sono giunti insieme due messaggi. Uno è Mettersi in gioco, un piccolo libro di Carlo De Benedetti (Einaudi). “Mai l'Occidente aveva vissuto una distruzione di ricchezza paragonabile a quella di oggi, per immaginare un futuro dobbiamo ampliare le prospettive. L'orgoglio delle nostre capacità non va disgiunto dalla visione del cambiamento”, c'è scritto in copertina. L'altro è un lungo articolo di Claudio Magris (Il Corriere della Sera, 23 ottobre) dal titolo “Basta sfiducia, dobbiamo rialzarci”. E il sottotitolo: “La solidarietà può garantire sicurezza e stabilità”. Strano, due messaggi, nobili e motivati, da due voci diversamente ma fortemente autorevoli. Entrambe consegnano due parti di messaggio che si contrappongono fin dal titolo: da una parte la denuncia di una crisi gravissima, le prove di un disastro. Dall'altra una esortazione al coraggio fondata sul desiderio di suscitare (stavo per dire “resuscitare”) forza di volontà e decisione di battersi. Scrive Magris: “C'è nell'aria la sensazione di un crepuscolo dell'Europa. Quelle dimostrazioni (si riferisce a ciò che ha visto in Spagna, ndr) non mi apparivano l'espressione di una ribellione politica, ma piuttosto reparti che marciano verso l'ammainabandiera”.
LEGGO A PAG. 13 di quello che potrei chiamare il “manifesto” di un imprenditore che non vuole darla per vinta alla grande crisi: “Non è detto che ce la faremo ancora una volta. Oggi siamo lì, sulla strada, con il nostro carrello malandato. Sappiamo di doverlo spingere, per quel figlio che abbiamo al nostro fianco e che dobbiamo portare verso il mare (l'autore si riferisce al libro di Joseph McCarthy La strada, ndr). Ma, come quel padre, non conosciamo la strada, né i contorni di quel mare. Nessuno di noi sa davvero quale sarà il nostro destino, nessuno ha la ricetta per il futuro, nessuno ha modelli da proporre, pronti per l'uso”. Conclude, da maestro inflessibile Claudio Magris: “Disagio o no, si continua a lavorare come si può per ciò che si ritiene giusto o il meno peggio, nella testarda convinzione che ‘non prevarranno’. Certo, come diceva Karl Valentin, geniale cabarettista e ispiratore di Brecht (ai tempi delle dittature, ndr) ‘il futuro era migliore’”.
Esorta appassionatamente De Benedetti, da imprenditore che non si arrende: “Quello che so per certo è che non è tempo per il pessimismo rinunciatario dei declinisti né per l'inerzia degli illusionisti. Siamo su un sentiero sempre più accidentato. E tocca spingere”.
Dice Claus Offe, sociologo tedesco considerato erede della Scuola di Francoforte, che ha appena pubblicato un saggio dedicato al male europeo su Il Mulino (novembre 2012): “L'Europa ha bisogno di una autorità super partes. L'abbiamo ottenuta, è la Bce, l'istituzione meno democratica di tutte le istituzioni depoliticizzate, la più politicamente inaccessibile dell'intero assetto istituzionale dell'Unione europea. Il fatto è che la democrazia e il regime parlamentare sono incompatibili con ciò che si deve fare adesso per affrontare questa situazione” (cito dall'intervista di Alessandro Cavalli, Corriere della Sera, 22 ottobre). La situazione è la grande crisi. E resta la domanda: che cosa è la grande crisi, un evento vasto, grave e misterioso che impone di abbandonare solidarietà e riformismo, proprio su ordine perentorio dei suoi supposti predicatori e paladini? Provo a descriverla. Due forze attraversano con furore la storia dei nostri giorni. Puntano in direzioni opposte, ma non si scontrano perché entrambe sono o sembrano immateriali. Una è la finanza del mondo. Tutto ciò che viene strappato e disossato dallo stremato settore manifatturiero diventa vapore di immensa ricchezza che si muove in cieli senza frontiere dove non incontra alcun possibile controllo, dove non può essere regolato da alcuna legge salvo frange di corruzione e tracce sparse e minime di esistenza fisica (qualche residuo accumulo di ricchezza trovato qua e là da bravi investigatori) abbandonate nelle retrovie della grande fuga da ogni possibile accertamento. L'altra forza che invade l'universo virtuale è l’informazione, un’immensa massa mondiale di notizie che ha dimostrato una strana, inaspettata tendenza, inversa a quella della finanza. La rete abbraccia il mondo, ma è fanaticamente locale. Il mondo in rete è quasi solo il volto di avversari vicinissimi che abitano accanto.
RESTANO FUORI, perché per loro fortuna estranei alla cultura della rete, i giovani fascisti che aggrediscono, picchiano invadono, dettano legge violenta con i loro corpi (non i loro tweet) nei licei romani e vincono, con “il blocco” (la formazione fascista) le elezioni universitarie in molti atenei italiani. L'Alba dorata di Atene sembra essere una delle promesse fisiche per i senza futuro. L'altra è quella di eliminare dalla scena chiunque stia facendo, bene o male, in modo criminale o corretto, qualunque cosa. La colpa è di esserci da prima. È un comportamento folle, ma non ha diritto di giudicarlo o di contestarlo chi ti costringe a vivere senza futuro. Chi ha cancellato il futuro per ragioni che, ti dice, sono ragionevoli, pragmatiche, ma anche obbligate (“non siate choosy”) sembra non avere pensato a quanto profonda e vasta sarebbe stata la risposta fisica, in piazza. Una folla giovane destinata a ingrossarsi è in corsa verso il Palazzo, senza progetti, senza ideali, ma con un pesante carico di rancore. Qualcuno li raggiungerà in tempo con i messaggi ragionevoli di De Benedetti e di Magris?

l’Unità 28.10.12
Parla Rodotà
«Diffamazione, meglio nulla che questa legge»
Per tutelare chi è diffamato servono processi veloci, non multe salatissime
Questa è censura di mercato, una minaccia che disincentiva le inchieste
Contro i giornalisti sono state proposte norme pericolose


Come sempre le leggi ad personam portano a un pessimo risultato. Per “salvare il soldato Sallusti” dal carcere si istituisce un clima di intimidazione che limita il diritto all’informazione e la libertà d’espressione. Meglio fermarsi e non fare nulla, allora, perché si è imboccata una strada sbagliata».
Secondo il professor Stefano Rodotà, ex Garante della Privacy, la legge sulla diffamazione all’esame del Parlamento è profondamente sbagliata, anche nei tentativi di compromesso. Professore, lei cosa pensa del testo di legge che si sta discutendo al Senato? «È stata imboccata una strada assolutamente sbagliata, è inevitabile quando si fanno le leggi ad personam. Ora, io sono d’accordo che in casi come questo il carcere vada eliminato, però vorrei fare una disgressione: non possiamo affiancare una giustizia di classe a una legislazione di classe».
In che senso?
«Se rischia di andare in galera Sallusti si mobilita il Parlamento, ma se ogni giorno c’è una legislazione pessima che manda in galera il piccolo spacciatore e l’immigrato, nessuno se ne preoccupa o pone all’ordine del giorno un intervento. Invece nessuno muove un dito. Da decenni ci trasciniamo la revisione del Codice Rocco, ma anche dell’uso sconsiderato del carcere, anche in una legislazione più recente, per quanto riguarda droga e immigrazione».
Sono state bocciate le modifiche al testo sulle quali era stata trovata un’intesa. Con il voto segreto si rischia quindi di approvare una legge censoria? «Sinceramente anche il compromesso notturno non mi era piaciuto per niente. Io ho detto subito che era una legge “vendetta”, più che una legge bavaglio. Stanno usando lo strumento di questa legge per regolare i loro conti contro i giornalisti. Una ritorsione che discredita le istituzioni. Nella “legge bavaglio” sulle intercettazioni, della cui definizione mi prendo la paternità, il bavaglio era esplicito, si diceva: queste cose non potete pubblicarle. Questa è peggio, è la minaccia della rovina economica. La censura di mercato non è una novità: tu sei libero, ma corri un tale rischio economico che ti asterrai dal tenere una serie di comportamenti».
C’è chi ha propostao di eliminare solo la parte che prevede il carcere.
«Al Senato il punto è: se noi leviamo il carcere dobbiamo mettere in piedi un meccanismo di riequilibri a favore delle vittime. Ma senza toccare il diritto all’informazione. Per me la diffamazione non è un reato di opinione, è discreditare le persone, come nel caso specifico, con la pubblicazione di una notizia falsa. Nessuna indulgenza, se elimini il carcere devi mantenere sanzioni adeguate alla gravità del comporamento avvenuto. Ma tutto ciò si sta convertendo, anche nel compromesso notturno, in una limitazione grave alla libertà del pensiero.
Quali sono i punti peggiori?
«Imporre multe così alte, unite alla sospensione della professione, all’incidere sul finanziamento pubblico alla stampa, ecco, tutto ciò non è solo rivolto a impedire che si tengano comportamenti diffamatori, ma crea un enorme rischio del disincentivo all’inchiesta».
Un’autocensura?
«Sì, un’autocensura nata non dalla compiacenza verso il potente, ma dalla paura che le conseguenze di un’attività giornalistica diventino insostenibili economicamente. Perché le sanzioni devono esserci, ma proporzionate. Il diritto alla libertà del pensiero non è solo del singolo giornalista, ma è il diritto d’informazione dei cittadini, reprimere questo porta a un’informazione meno completa. E c’è un abuso della querela come intimidazione: querelo per qualunque cosa e chiedo risarcimenti milionari, senza dover pagare nulla nel caso perda la causa».
Cosa pensa di come verrebbe regolato l’obbligo di rettifica?
«È sbagliato. È formulato in modo che questa rettifica deve essere pubblicata
con una certa evidenza e non accompagnata da un commento del giornale, anche nel caso di un fatto vero, non si può dire nulla. Cosa succede? Che si dà diritto all’autorappresentazione di chi si ritiene diffamato: io sono quello che dico di essere, non quello che risulta dai miei comportamenti, in conflitto con la realtà dei fatti. Eppure sono state suggerite delle altre strade».
Quali?
«Quella di accelerare al massimo i processi, perché di fronte alla gravità indubbia della diffamazione per la vita di una persona si ha diritto sì a una rettifica, ma con un filtro, l’accertamento da parte del giudice. Così sì che è una riparazione, perché è vero quel che accade: la notizia data in pagina uno e la rettifica nascosta a pagina 40.
Anche per il web sanzioni censorie, si richiede ai siti la rettifica immediata. «Sul web c’è un’ignoranza, una non conoscenza di come funziona la Rete. Su Wikipedia hanno pubblicato un banner in cui avvertono che se passasse questa norma Wikipidia in Italia sparirebbe, perché ognuno potrebbe cancellare non ciò che è falso, ma ciò che non è a lui gradito. Insomma, è un approccio dilettantistico, non si è guardato neanche il “diritto all’oblio” sostenuto da Viviane Reding».
Quali soluzioni propone?
«Be’, io capisco i giornalisti che dicono: se l’eliminazione del carcere dalla legge fa diventare la nostra professione impossibile, allora meglio lasciare tutto come sta. La strada giusta sarebbe eliminare il carcere, accelerare i processi per ripristinare l’onorabilità del diffamato, avere pagati i danni stabiliti ma anche una rettifica adeguata, la situazione potrebbe migliorare. Tutte le altre strade scelte creano limiti alla libertà d’espressione».
Il Pd sta puntando a uno stop, al rinvio del testo in commissione.
«Sarebbe meglio, perché quando si mettono le mani sui diritti in maniera inappropriata, allora è meglio non toccare nulla».

l’Unità 28.10.12
Cina. Gli imperatori della Città Proibita
L’8 novembre si apre il XVIII congresso del Pcc
Una mappa per cercare di capire che cosa si muove e chi decide il futuro della Cina
di Gianni Sofri


In oltre due millenni il centro del potere a Pechino è stato nei palazzi imperiali ...
Oggi i vertici cinesi si chiamano presidente o Partito. Ma la grande politica è sempre quella
Al comando un gruppo di 7-9 uomini
Una curiosità: sono quasi tutti ingegneri ...
L’assise comunista affronterà soprattutto un tema: come mantenere la presa sulla società

Non fidatevi troppo dei molti articoli che vi capiterà di leggere in questi giorni sulla vigilia del XVIII Congresso del Partito comunista cinese: neanche di questo che avete appena cominciato. Osservatori ed esperti di cose cinesi, più o meno in buona fede, più o meno informati, si affanneranno a interpretare per voi le poche notizie che ci arrivano, la mimica facciale dei leader e il posto in cui si siedono, il numero di loro parole riportate dalla stampa, il significato di teorie dai nomi poetici come «le tre rappresentanze», lo «sviluppo scientifico» o «la società armoniosa».
Queste cose succedono anche negli Stati Uniti o in Francia o da noi. Ma intanto si accompagnano a discorsi più o meno franchi, che esprimono, spesso polemicamente, idee diverse. In Cina è diverso. Mettendo insieme le diverse dinastie, e accogliendo la cronologia tradizionale, l’impero unificato nacque nel 221 a.C. e finì di esistere nel 1911, poco più di un secolo fa. In tutto questo periodo di più di due millenni, il centro del potere politico sono stati i palazzi imperiali. La classe dirigente cinese, quella dei burocrati-mandarini piacque ai gesuiti, e dietro di loro agli illuministi perché nasceva da una carriera fondata su lunghi studi, e non sull’ereditare un feudo o altre ricchezze. Finché si scoprì che studiare e fare esami su esami costava tanto che solo (o quasi solo) i figli dei mandarini potevano permetterselo. In questo secolo, la Cina è stata attraversata da una rivoluzione che le è costata decine di milioni di morti e che ha portato a indubbie trasformazioni. Ma la grande politica è sempre quella, anche se l’imperatore si chiama presidente (o meglio ancora Partito) e i mandarini sono segretari di partito, ministri o dirigenti di grandi aziende. Sono loro, esattamente come i mandarini di un tempo, a poter mandare i loro figli a studiare nelle migliori università, per lo più a Harvard o a Cambridge. E sono loro, in un numero sempre più piccolo di mano in mano che la piramide gerarchica si assottiglia verso l’alto, a prendere le grandi decisioni che interessano tutta la Cina, nel mistero e nei segreti. Poi, le decisioni prese vengono comunicate dal Partito al governo e all’Assemblea popolare nazionale che si riunisce una volta all’anno, finzioni di un vero governo e di un vero parlamento. Vengono comunicate anche dal vertice del Partito al Congresso, che le ratifica.
Un esempio? Il XVIII Congresso, che si aprirà l’8 novembre, eleggerà il nuovo Segretario, che sarà poi anche il nuovo Presidente della Repubblica popolare cinese al posto di Hu Jintao. Ebbene, si sa già da qualche anno che questo nuovo Segretario-Presidente (nonché futuro Presidente della potente Commissione militare centrale) sarà Xi Jinping. Così come si sa che a succedere nella carica di primo ministro a Wen Jiabao sarà Li Keqiang. Con essi si attuerà il passaggio ufficiale dalla quarta alla quinta generazione della leadership politica cinese. Ma si sa già che il passaggio alla generazione successiva, la sesta, avverrà al XX Congresso, nel 2022, con l’elezione di leader nati fra il 1960 e il ’67: circola già qualche nome!
Questo accento sulle generazioni fa capire qualcosa dell’idea (confuciana) della «società armoniosa»: si suppone che i membri di una generazione siano tra loro solidali. In realtà, a ben guardare, lo sono come una catena di persone che si muovano in una sorta di girotondo. Ognuno è legato a tutti gli altri: non per solidarietà, però, ma per ricatto reciproco. Nessuno ha le mani libere, e tutti sono controllati dagli altri. È il criterio con cui avviene non solo il passaggio di generazioni, ma anche il compromesso tra idee e interessi diversi ai vertici del Partito. Il vecchio Jiang Zemin, per esempio, non fa parte del Comitato permanente dell’attuale Ufficio politico, ma esercita ancora dal di fuori una grande influenza.
DESTRA E SINISTRA
In una situazione come questa, parlare di destra e sinistra è del tutto fuori luogo. Da sempre, in Cina nessuno vuol essere di destra, e rovescia l’accusa sugli altri. Così, uno può essere rivoluzionario perché difende i diritti dei contadini espropriati e costretti ad andare a lavorare in fabbrica, o perché si batte per la difesa dell’ambiente, e conservatore perché in nome dei diritti dei contadini sacrificati e dell’ambiente si oppone a una crescita economica eccessivamente rapida e squilibrata. Oppure può essere rivoluzionario perché combatte la corruzione e il nepotismo (quanto mai diffusi), conservatore perché affida tale lotta solo a strumenti polizieschi. E così via. Il caso Bo Xilai (corrotto anti-corruzione, populista, giustizialista per usare un termine tipicamente italiano strumentalmente dedito a far rivivere pratiche, canzoni, slogan del maoismo) è stato una specie di antologia di queste contraddizioni.
Il XVIII Congresso si occuperà di crescita economica (meglio, del suo rallentamento, che preoccupa molto), di ambiente, forse di dissenso e di diritti umani (il premio Nobel per la pace Liu Xiaobo è in galera da quasi quattro anni, e molti altri dissidenti come lui), di rapporto tra agricoltura e industria, di progetti energetici, di controllo navale dei mari e di altre questioni militari. In realtà, dietro tutti questi problemi il Congresso ne avrà in mente uno e uno solo: come conservare il potere, in un momento da tutti giudicato difficile, nel quale le proteste operaie, sociali in genere, ambientali ecc. si moltiplicano, invano occultate dalla censura o da una politica estera nazionalista e aggressiva.
Negli ultimi mesi si è avuta l’impressione di uno scontro dietro le mura ben protette di Zhongnanhai, l’erede moderno e comunista della Città proibita, tra fautori di una continuazione e accelerazione delle riforme economiche e nostalgici dello statalismo. Più altri conflitti. Ci sono state, per esempio, ampie discussioni sulla composizione della Commissione militare centrale, con una tendenza a quanto sembra abbastanza forte a riportare le forze armate sotto il controllo del Partito. Ci sono stati segnali di una maggiore decisione di una parte del gruppo dirigente nel provare a liberarsi di quell’autentico cadavere nell’armadio che è la figura di Mao. Lo hanno testimoniato sia la vicenda di Bo Xilai, sia l’assenza del nome di Mao da un importante documento del Politburo pubblicato negli ultimi giorni in previsione di un emendamento della Costituzione da parte del Congresso: scomparirebbero pare dall’elenco dei fondamenti del pensiero ufficiale, il marxismo-leninismo e il pensiero di Mao. Ha destato ancora più sensazione la notizia apparsa su una rivista di Hong Kong generalmente ben informata, secondo cui il corpo imbalsamato di Mao lascerebbe la Tienanmen per essere trasferito a Jinggangshan, una località tra le più gloriose nella storia dell’Armata rossa. Il Mausoleo di Mao diventerebbe invece un Memoriale degli eroi del Popolo. Questo nuovo capitolo della storia della demaoizzazione promette comunque non poche scintille, perché il fantasma di Mao è, sì, un cadavere nell’armadio, ma anche una polizza di assicurazione in un paese che non ha fatto del tutto i conti con il passato.
I Congressi del Partito comunista cinese, a partire da quello di fondazione del 1921, sono stati finora 17. Al prossimo parteciperanno 2.270 delegati. Il Congresso elegge un Comitato centrale che è costituito all’incirca da 350 membri tra effettivi e supplenti. Il Comitato centrale elegge l’Ufficio politico, costituito mediamente da 20-25 membri. A sua volta l’Ufficio politico elegge un Comitato permanente, i cui membri a partire dal 1956 hanno conosciuto variazioni nel numero, fra 5 e 9. L’Ufficio politico, noto anche come Politburo, si riunisce una volta al mese, mentre il suo Comitato permanente si riunisce mediamente una volta alla settimana. Si può dire che il Comitato permanente rappresenti il cuore del potere cinese. Attualmente fanno parte del Comitato permanente 9 membri, ma da mesi si parla nei corridoi della possibilità che vengano ridotti a 7. Una curiosità abbastanza interessante è che quasi tutti i 9 membri attuali sono laureati in ingegneria, chi mineraria, chi elettronica, chi dei trasporti e così via. Questo tipo di decisioni dovrebbe accendere qualche luce sia pur timida sulle prospettive degli anni futuri e su chi ha vinto e chi ha perso.
Uno degli esercizi cui i pechinologi si dedicano più volentieri è quello di cercare di indovinare quali dei membri del Comitato permanente scadranno e da chi verranno sostituiti. I pechinologi si affannano a cercare nelle biografie dei vari leader (o in quanto ci è noto di esse, che non è molto) ogni più piccolo indizio che possa aiutare a capirne la collocazione politica e quindi anche il significato di una loro eventuale promozione. Per esempio, se è più amico di Jiang Zemin oppure di Hu Jintao, se è stato Segretario del Partito in una provincia o in una città molto importante, se ha occupato nel partito ruoli di grande rilievo come quelli di responsabile dell’organizzazione, della sicurezza, della propaganda, o della commissione di disciplina. O anche se ha rapporti importanti negli alti gradi dell’esercito. Ci sono poi dei raggruppamenti molto personali. Per esempio, l’attuale Presidente-Segretario Hu Jintao capeggia un gruppo assai potente che deriva politicamente dalla Gioventù comunista (e che con essa ha conservato intensi rapporti). Un altro gruppo decisamente forte è quello dei «principi rossi», cioè dei figli o comunque discendenti di grandi figure della storia del Partito, come il futuro Presidente Xi Jinping, figlio di un vice premier, o come Bo Xilai, al quale però non è servito l’essere figlio di Bo Yibo, veterano della Lunga marcia e uno degli «Otto immortali» del Partito.
Nel Comitato centrale, pur prevalendo di gran lunga gli uomini, ci sono anche alcune donne; nell’Ufficio politico ce n’è una sola, la donna più alta in grado del Pcc, la consigliera di Stato Liu Yandong, responsabile del Partito per la sanità e lo sport. Liu è molto legata all’attuale Presidente Hu Jintao e anche al suo successore designato; e persino in predicato (sarebbe una grande première) per entrare nel Comitato permanente. Nel quale sono in molti a ritenerlo sia che resti di 9 membri, sia che venga portato a 7, dovrebbero conservare il posto solo due degli attuali, e cioè il futuro Presidente-Segretario Xi Jinping e il futuro Premier Li Keqiang. Difficile che resti nel Comitato il Presidente attuale, Hu Jintao, anche se il suo predecessore Jiang Zemin partecipò a tre Comitati permanenti consecutivi, e anche se si prevede che Hu conservi un certo potere per qualche tempo (per esempio continuando a presiedere la Commissione militare).
Tra i favoriti per esordire nel Comitato permanente c’è innanzitutto Wang Yang, l’attuale Segretario del Partito nel Guangdong, la ricca provincia meridionale in cui si trovano Guangzhou (Canton) e Shenzhen. Wang, 57 anni, prima di entrare in questo ruolo nel 2007, era stato per due anni Segretario a Chongqing. È considerato un convinto sostenitore di una crescita economica fondata sull’economia di mercato e l’apertura alle nuove tecnologie. Potrebbe tutto al più nuocergli il suo essere fra coloro che più si sono sbilanciati in favore di questa linea.
Un altro personaggio di rilievo, con buone chances, è l’attuale Segretario del Partito a Chongqing, dove ha sostituito proprio quest’anno Bo Xilai caduto in disgrazia. Zhang Dejiang (questo è il suo nome) ha attualmente 66 anni. È stato Segretario del partito nel Guangdong subito prima di Wang Yang; prima ancora lo era stato nel Zhejiang. È anche vice premier, incaricato dell’energia, delle telecomunicazioni, dei trasporti. È legato a Jiang Zemin, ma con una certa autonomia (in altri termini, non fa parte di quella che gli avversari chiamano «banda di Shanghai»).
HUEWEN
Aspira ad entrare nel Comitato permanente anche l’ingegnere elettronico Yu Zhengsheng, 67 anni, Segretario del Partito a Shanghai, dove nel 2007 ha sostituito Xi Jinping. Ma vi sono molti altri candidati di prestigio: per esempio, Li Yuanchao e Liu Yunshan, responsabili rispettivamente del Dipartimento dell’organizzazione e di quello della propaganda.
Buona parte delle difficoltà degli osservatori di cose cinesi nasce dal poco che si sa della biografia, ma soprattutto delle idee dei leader, i quali tutti tendono a esporle in luoghi chiusi e fortemente protetti. Sappiamo qualcosa di più di Hu Jintao e di Wen Jiabao, perché hanno governato il paese, restando sulla scena, per gli ultimi dieci anni. Ma proprio su Wen Jiabao è apparsa una dettagliata inchiesta del New York Times, che mostra come lui e la sua famiglia si siano spropositatamente arricchiti nel periodo in cui Wen era primo ministro. Ci si chiede quanto queste rivelazioni, forse manovrate, possano influire sul suo futuro politico. Molto popolare (più del Presidente Hu), Wen si era conquistato la fama di sostenitore, sia pure prudente, di qualche forma di accelerazione del cammino verso le riforme politiche, ed è più che probabile che questo abbia accresciuto il numero dei suoi nemici. Quanto a Hu, è possibile che nei prossimi anni eserciti un ruolo di controllo e di consiglio, simile a quello svolto finora dall’86enne Jiang Zemin, grazie soprattutto al suo prestigio e al suo capeggiare la potente fazione che si rifà alla Gioventù comunista.
Ma veniamo ai due leader supremi in attesa della loro proclamazione ufficiale. Di Xi Jinping sappiamo già che è uno dei «principi rossi», che è nato nel 1953, ha servito nelle provincie del Fujian e dello Zhejiang, quindi a Shangai. Divenuto vice presidente, ha curato la preparazione dei giochi olimpici del 2008 e si è poi occupato dell’educazione dei quadri dirigendo la Scuola centrale del Partito. Ha compiuto numerosi viaggi all’estero. Quanto al futuro Premier Li Keqiang, nato nel 1955, proviene dai ranghi della Gioventù comunista e ha lavorato a lungo al fianco del Presidente attuale.
Ora siete pronti ad assistere alla partita con in mano un programma. Se Wang Yang sarà stato eletto nel Comitato permanente vorrà dire (forse...) che è probabile un’accelerazione delle riforme economiche in direzione liberista; se non sarà stato eletto, è probabile che abbiano prevalso la prudenza e la preoccupazione di tenere a freno la sua irruenza. Ma, attenzione. Non dimenticate quanto si diceva all’inizio. E cioè, non fidatevi: la Cina è spesso imprevedibile.
All’inizio del 1971 il maresciallo Lin Biao era il delfino di Mao, suo erede designato, eroe della guerra di liberazione ossequiato e amato. Pochi mesi dopo, l’aereo che portava lui e la sua famiglia, probabilmente, in Unione Sovietica, si schiantò al suolo in una località della Mongolia, in circostanze tuttora misteriose. Lin Biao fu accusato di aver complottato contro Mao. Un anno fa, il potente segretario del Partito di Chungqing, Bo Xilao, era fortemente in predicato per entrare nel prossimo Comitato permanente dell’Ufficio politico. Ora è stato espulso dal Partito ed è scomparso dalla scena politica. Prudenza, insomma.

La Stampa 28.10.12
Verso il cambio al vertice
La Cina al bivio del futuro
di Enzo Bettiza


Fra poco più di una settimana si vota in America, dove verrà democraticamente eletto il nuovo presidente degli Stati Uniti che resterà in carica per quattro anni. Due giorni dopo, 8 novembre, si aprirà a Pechino il diciottesimo Congresso del partito comunista che imporrà e legittimerà dall’alto il nuovo presidente Xi Jinping - successore e vice dell’attuale Hu Jintao - prescelto fin dal 2002 a governare la seconda potenza del pianeta per i prossimi dieci anni. Due eventi destinati a incidere in profondità sulle relazioni fra Stati Uniti e Cina, e quindi sugli assetti mondiali, che nel decennio che verrà vedranno le spinte della globalizzazione spostarsi sempre più dall’Atlantico al Pacifico.
L’Europa da un pezzo non è più una priorità per Washington. Non è stata quasi nominata nel dibattito elettorale, che sta per chiudersi, tra il Presidente democratico e lo sfidante repubblicano: sia l’uno che l’altro hanno lasciato intendere, con il loro silenzio sprezzante, di considerare quantité négligeable l’Unione Europea, inaffidabile alleata in declino, irrilevante per gli interessi strategici di una superpotenza globale. Se il presidente Obama verrà rieletto, l’Asia in generale e la Cina in particolare, che ne ha criticato con asprezza l’incontro col Dalai Lama e la fornitura di missili a Taiwan, resteranno più di prima il suo principale quanto irto punto di riferimento diplomatico. Se invece vincerà Romney, il dialogo con i nuovi interlocutori cinesi, che in queste ore delicatissime tifano per lui, si svolgerà ancora più diretto e più scorrevole. Non a caso un noto americanista di Shanghai, l’accademico Dingli Shen, ha osservato recentemente: «Purtroppo il democratico Obama non ha capito che Pechino per Washington può essere un’opportunità più che un ostacolo o un concorrente. Del resto, dall’epoca di Nixon e Kissinger, la Cina si è trovata sempre meglio con i repubblicani alla Casa Bianca. Anch’essi, come noi oggi, sono da sempre a favore del libero commercio, di poche regolamentazioni negli scambi e della libertà d’impresa». Tutti princìpi che si ritrovano nella «filosofia dello sviluppo», filosofia che la Cina comunista ha attuato con strepitosi successi pratici e paradossi ideologici, sospesi da almeno un ventennio tra la libertà economica e la non libertà politica.
L’Economist ha voluto ricordare in proposito certi saggi spregiudicati e capricciosi di Milton Friedman. Il patrono della scuola dei Nobel liberisti di Chicago, compiuto un primo viaggio in Cina nel 1980, al ritorno scrisse un articolo in cui osservava che la cosa che più l’aveva colpito era l’assenza o ignoranza del «diritto alla mancia» negli alberghi e nei ristoranti. Per lui il «tip», il «diritto di mancia», era la percentuale politica che per esempio in America, patria del liberismo anche spicciolo, s’aggiungeva agli scambi e ai prezzi correnti dell’economia quotidiana. Dal che dedusse una legge generale, che sembrava attagliarsi benissimo già ai prodromi del socialcapitalismo alla cinese: sentenziò che non sempre e non dovunque la libertà economica debba forzatamente apparentarsi al tip della sua «cugina politica».
La sentenza doveva restare valida non solo per la Cina, ma per tutte le consimili economie di mercato «confuciane», da Singapore alla Taiwan del Kuomintang, dove capitalismo e autoritarismo seguitano a convivere da più di mezzo secolo in relativa e talora spinosa «armonia». Per accorgersi delle «disarmonie» non era necessario aspettare l’entrata in scena nel 2002 e l’uscita nel 2012 degli epigoni inguaiati del liberismo denghista. Ci basta spulciare la lista ogni giorno più lunga e più drammatica di coloro che, saliti ai vertici del partito e dello Stato, hanno o avrebbero profittato del prolungato miracolo economico per lucro personale e di clan. L’uscente capo di Stato Hu Jintao appare come congelato al centro di uno scenario da crepuscolo degli dèi, mentre il suo popolare primo ministro Wen Jiabao viene schiacciato dalla denuncia internazionale di uno scandalo di smisurata corruzione familistica, nello stesso momento in cui il leader della sinistra neomaoista Bo Xilai, defenestrato dal politburo, perduta l’immunità parlamentare, la moglie condannata all’ergastolo per assassinio dell’amante, rischia addirittura una condanna alla pena capitale.
La storia millenaria delle transizioni cinesi da una dinastia all’altra è stata quasi sempre costellata di crolli apocalittici, corruzioni capillari, omicidi enigmatici; i mutamenti epocali sono stati spesso accompagnati o assimilati, nelle narrazioni dei cronisti, a immani catastrofi naturali. Anche le vicende dell’impero comunista, da Mao fino a Deng e dopo Deng, si sono sviluppate a balzi e severi strappi dinastici. Ricordo il XXIV congresso comunista di vent’anni fa, il congresso dell’ottobre 1992, dedicato alla transizione e alla celebrazione del primo artefice del miracolo economico, dell’apertura della Cina al mondo, il «piccolo timoniere» Deng Xiaoping ormai quasi nonagenario. Anche allora, come in altra forma oggi, si chiudeva solennemente e duramente un’epoca e se ne spalancava una nuova: si chiudeva biologicamente la carriera degli ultimi veterani della Lunga Marcia che, dopo il massacro di Tienanmen, avevano invano sperato di bloccare la riforma economica da essi ritenuta in gran parte responsabile dei moti e tumulti studenteschi del 1989. Una «commissione dei consiglieri», nido dell’ostruzionismo gerontocratico, era stata disciolta. Fra i grandi vecchi costretti alle dimissioni v’era il capo dello Stato, Yang Shangun, 84 anni, il più insidioso degli antagonisti conservatori ostili al vecchissimo Deng.
Spesso si dimentica che il «miracolo» aveva messo radici già profonde nella Cina del tempo, dove diversi dirigenti odierni, che si accingono a darsi il cambio, erano giovani e ambiziosi e forse smarriti funzionari di seconda fila. Quel congresso sanciva e legittimava una situazione di svolta storica. La vittoria di Deng s’incarnava già, al di là del comunismo, nelle cose reali: nel benessere diffuso, nei consumi crescenti, negli investimenti che affluivano in massa a Canton, a Shanghai, nella zona di sperimentazione capitalista di Shenzhen. Oggi si tende a dimenticare che l’economia era più che raddoppiata rispetto a quella del 1978, anno di rottura con la povertà e le carestie maoiste e d’avvio della rivoluzione liberista. Si dimentica che l’aumento del prodotto lordo aveva già raggiunto il tasso del 14 per cento, che Pechino aveva già un suo posto d’onore fra le maggiori entità commerciali del mondo, che la Cina in metamorfosi già si presentava sui mercati internazionali come un continente immenso finanziariamente sano e solvibile.
Ora assistiamo alla fine di questa prima e lunga fase del miracolo. Mentre dilaga la corruzione da ricchezza dei capi comunisti, divenuti manager miliardari, dilagano anche sulle reti iperinformate del web lo scontento popolare, lo smascheramento degli abusi di potere, la denuncia dei clan di partito e di parentela che hanno mandato in malora gli ultimi e falsi miti dell’ideologia comunista. Non si tributa più nei comunicati ufficiali la citazione d’obbligo al pensiero di Mao. Al tempo stesso l’autoritarismo comunista, sposato alla libertà spesso selvaggia della sola economia, non regge più; il cosiddetto «capitalismo confuciano», unito al burocratismo di regime, rischia di perdere i pezzi per strada. Verso quali riforme o controriforme ignote andrà la Cina, quasi destabilizzata da una ricchezza abnorme ma politicamente squilibrata, che si prepara ad essere governata per dieci anni da un alto quanto grigio funzionario del partito? Cosa farà, cosa dirà, quali vie di risanamento o di ritirata sceglierà il paffuto Xi Jinping, così somigliante a Mao, di cui sappiamo solo di non sapere nulla?
Una certa maggioranza avida, ruvida, formata da fasce di una nuova e cinica classe media, dice di preferire l’odore del danaro alla libertà d’opinione. Insomma meglio ricchi che liberi. Intanto i conservatori arricchiti del partito sostengono di voler privilegiare la stabilità del regime, rispondendo con parole vaghe e sfuggenti alla domanda di riforme che giungono sempre più urgenti e insistenti, via internet, alle stanze di un potere in parte ancora forte e in parte già traballante.
L’unica cosa per ora certa è che una Cina forte, risanata, politicamente aperta agli innesti democratici, costituirà una garanzia per il mondo. Sarebbe invece assai più pericolosa per tutti una Cina debole, priva di contrappesi politici, dilaniata dalle lotte intestine per il potere e il possesso tribale delle abnormi piramidi economiche ereditate dal grande miracolo denghista.

La Stampa 28.10.12
Donne in fuga dalla Cina per aggirare la politica del figlio unico
Degli 88mila bambini nati nel 2011, la metà è figlia di non residenti
Hong Kong, in galera le clandestine del parto
Già 420 arresti, vogliono registrare i figli nell’ex colonia
di Ilaria Maria Sala


Giro di vite. Il capo dell’esecutivo di Hong Kong ha annunciato una nuova politica di tolleranza zero per le donne «non residenti» che vengono nell'ex colonia a partorire promettendo pene detentive per chi le aiuta ad entrare illegalmente
Dopo anni di tensione fra donne di Hong Kong incapaci di trovare un letto d’ospedale per partorire, e cinesi incinte che attraversano la frontiera che separa la Regione amministrativa speciale dal resto della Cina per sfuggire alla politica del figlio unico e dare alla luce un bambino con la cittadinanza di Hong Kong, si è arrivati a questo: 420 donne cinesi incinte arrestate in un anno e incarcerate per due mesi subito dopo il parto. Molti neonati hanno passato i primi due mesi di vita dietro le sbarre con loro per potere essere allattati, e nello stesso arco di tempo altre 3500 cinesi incinte sono state invece respinte alla frontiera.
Si tratta di uno dei problemi più spinosi emersi negli ultimi quindici anni, segnati dalla difficile transizione di Hong Kong, tornata sotto sovranità cinese nel 1997 dopo un secolo e mezzo come colonia britannica.
La fine del colonialismo non ha coinciso con l’autonomia, e una città prospera, di sette milioni di abitanti, con libertà di stampa e un sistema semi-democratico si è ritrovata sotto un colosso a partito unico abitato da 1,3 miliardi di persone. Certi giorni, si ha l’impressione che ognuno di loro voglia venire ad Hong Kong: i turisti cinesi lo scorso anno ammontavano a 28 milioni, dimostrandosi un peso difficile da sostenere per le infrastrutture locali.
Mentre il governo di Pechino mantiene strette misure anti-speculative sul mercato immobiliare nazionale, ecco che quello di Hong Kong, finora privo di restrizioni, è divenuto il più caro al mondo, con il 46% dei nuovi immobili acquistato da cinesi «del continente».
Il flusso di persone interessate a spostarsi qui, approfittando delle maggiori libertà e dell’alto tenore di vita, è imponente e la reazione è ormai aspra, portando alla recente nascita di gruppi «indipendentisti», infuriati dall’«invasione» cinese che produce scarsità di alloggi, di letti d’ospedale e perfino di latte in polvere (contrabbandato oltre frontiera per ovviare al problema del latte contraffatto in Cina). Ma il premio più ambito resta quello della cittadinanza per i figli, divenuta una delle ossessioni di migliaia di coppie cinesi in attesa di diventare genitori, e di migliaia di altri che, pur avendo già un figlio, ne desiderano altri, malgrado i limiti imposti dal governo di Pechino.
Degli 88 mila bambini nati a Hong Kong lo scorso anno la metà è figlia di donne cinesi non residenti, spesso arrivate alla frontiera agli ultimi mesi di gravidanza, sulle quali i reparti maternità degli ospedali non hanno alcun dato medico.
Così, la crescente tensione fra gli abitanti di Hong Kong e i loro cugini «continentali» ha portato il Capo dell’esecutivo, Leung Chun-ying, ad annunciare una nuova politica di «tolleranza zero» per le donne non residenti o non sposate con un residente che vogliono venire a partorire a Hong Kong, promettendo pene detentive più severe tanto per loro che per chi le aiuta ad arrivare illegalmente oltre frontiera. Ad accompagnarle qui infatti, è una rete di associazioni che appronta pacchetti tutto-compreso, con documenti falsi, se servono, e prenotazioni ospedaliere, e miniappartamenti dove nascondere il pancione in caso di ronde poliziesche.
Per affrontare anche quest’ultima possibilità, dalla settimana scorsa l’immigrazione di Hong Kong incoraggia anche la delazione di donne incinte presenti sul territorio che si sospetta non abbiano il permesso di residenza: una dimostrazione stridente di come il concetto di «un Paese due sistemi» inventato per governare Hong Kong presenti difficoltà che nessuno aveva previsto, con conclusioni aberranti come le 420 puerpere incarcerate.

Corriere La Lettura 28.10.12
La Cina vince
La sua crisi è di crescita (come nell'adolescenza)
di Marco Del Corona


Quando, nel dicembre 1978, Deng Xiaoping illustrò alla Cina la via «delle riforme e dell'apertura», parlò da vicepremier. Non era segretario del Partito comunista né primo ministro: soltanto vicepremier. Numero uno era Hua Guofeng, oggi svanito dalla memoria ufficiale e collettiva. Deng, da vicepremier, invece fu in grado di lanciare una rivoluzione che ha fatto della Cina la seconda potenza mondiale. Altri tempi, altre visioni. Ma a Pechino la struttura del potere, al suo vertice, ha mantenuto le stesse caratteristiche di fondo, analoghe opacità e rigidità che, osservano i detrattori, concorreranno al suo declino. E invece — se si vuole scommettere sulla capacità della Cina di rinnovarsi — proprio la capacità di un potere collettivo di affidarsi a una figura gerarchicamente di secondo piano per una prodigiosa metamorfosi starebbe a dimostrare una flessibilità e una vitalità preziose per il prossimo decennio. Sotto la cappa grigiastra del Partito, covano talvolta soluzioni creative. Per dire: la stessa struttura statuale del Paese, con regioni, municipalità, regioni autonome e regioni speciali, è variegata. Federalismo (una specie di) senza dirlo, pragmaticamente.
Il ricambio della propria leadership nel congresso comunista dell'8 novembre appare dunque, a seconda del lato da cui si guarda la Cina, la perpetuazione di schemi obsoleti oppure un passaggio che darà frutti. Il rallentamento della crescita economica e i problemi strutturali non scoraggiano gli ottimisti che ritengono il modello cinese, così complesso e così radicalmente «altro» rispetto all'Occidente, pronto a evolvere ancora. E la cooptazione della classe dirigente, in opposizione ai riti della democrazia liberale, è uno degli argomenti cari agli entusiasti della Cina. Martin Jacques (il suo When China Rules the World è una sorta di classico del genere) non teme neppure i segnali lanciati dagli indicatori economici: «La Cina — spiega al "Corriere" da Londra — è cresciuta per trent'anni del 10% e più. Adesso va avanti del 7%: e allora? È l'Occidente a stagnare. La Cina ha immense riserve di crescita, il processo di urbanizzazione è solo a metà. Ci ripetono da decenni che il modello cinese è insostenibile, che il tracollo è imminente. Invece sta capitando a noi. Ci sono tanti problemi, ma la Cina è sempre stata diversa, e c'è tutta l'arroganza dell'Occidente nel pensare che chi è diverso non possa funzionare».
Semplificando, la tesi è che per tempi e modalità la crescita cinese non abbia precedenti e dunque gli strumenti di valutazione usuali non siano adeguati, e che un caso straordinario possa avere un decorso che contraddice dinamiche prevedibili: le profezie dei catastrofisti sono perciò figlie della «Schadenfreude», del godimento nel contemplare i guai altrui. Anche senza condividere tanta fiducia nelle «magnifiche sorti e progressive» della Repubblica Popolare, anche tralasciando il groviglio disfunzionale e incestuoso di controllati che controllano i controllori (il Partito più di tutti…), anche preferendo almeno una prudente sospensione del giudizio di fronte al rebus-Cina, si può convenire che a Pechino la capacità di diagnosi dei problemi sia molto più articolata di quanto spesso si sia disposti ad ammettere.
Il premier Wen Jiabao ha appena pronunciato uno dei più accorati appelli a riforme economiche e politiche, idem uno dei giornali teorici del Partito. Dal Piano quinquennale che insiste sui consumi interni all'ampliamento del welfare, molte mosse confermano una presa sensibile sul Paese, anche se è lecito dubitare della capacità di tradurre nobili intenzioni in fatti. Ma, appunto, una buona diagnosi è più che un inizio.
L'apertura di credito verso Pechino va distinta dai furenti entusiasmi di coloro che in Cina si compiacciono di un Occidente annaspante e di una patria sempre più forte. «Se dobbiamo spendere, spendiamo. Siamo diversi dagli Usa o dall'Europa: loro sono indebitati mentre la cosiddetta decadenza cinese deriva dal non sapere che fare dei nostri tanti soldi. Voi i soldi non li avete proprio»: Wang Xiaodong, intellettuale non comunista, è stato coautore tre anni fa di un fortunato bestseller, La Cina non è contenta. Un nazionalista. Che col «Corriere» s'infervora: «Possediamo una buona capacità produttiva ma non sappiamo come usarla».
Ci sono poi potenzialità che figure come Wang non contemplano. Già la nuova generazione conta leader che hanno avuto esperienze all'estero: in Occidente, non nell'Urss dei predecessori. Persino la figlia del futuro numero uno, Xi Jinping, studia ad Harvard sotto falso nome: il rientro in patria di giovani formati in Occidente favorirà l'ibridazione del modello cinese, stemperando gli aspetti centralistici, dirigistici e autoritari. Democratizzazione, allora? Ecco l'ennesimo auspicio mal riposto, ribatte Jacques, la Cina è solida com'è: «In Occidente pensiamo che la Cina sia debole perché non democratica. Ma uno dei suoi punti di forza è lo Stato. Sì, non è democratico, ma funziona. La fonte di legittimazione del potere in Cina viene non dalle elezioni ma dalla capacità di incorporare la responsabilità verso la civiltà cinese. Per i cinesi lo Stato deve dare stabilità, assicurare efficacia».
La crisi finanziaria e gli affanni delle democrazie europee preoccupano la Cina così come la allarmò la disgregazione dell'Urss. Errori studiati per non ripeterli. Come spiega al «Corriere» Pankaj Mishra, in Cina per presentare il nuovo libro From the Ruins of Empire (in Italia uscirà da Guanda), se «nei Paesi in via di sviluppo le élite al potere assumono legittimazione promettendo scenari occidentali alla popolazione», in Cina questo non avviene. Nessuno qui fa dell'Occidente un obiettivo: Pechino si tiene stretto il suo sistema.
La continuità tra il potere confuciano basato sul mandarinato e il mandarinato rosso instaurato da Mao garantisce alla Cina un riferimento ancestrale rodato e affidabile. Più problematico il fronte della diplomazia, sia quella propriamente detta sia la versione morbida e, negli intenti, seduttiva del «soft power». Quest'ultimo fa fatica a ingranare, non sarà certo il Nobel allo scrittore Mo Yan a rovesciare le percezioni ostili diffuse nel mondo. Ma — se si dà credito ai sostenitori — Pechino non potrà che migliorare, così come la situazione dei diritti umani oscillante tra il deficitario e il grave è comunque in termini relativi progredita rispetto anche a una decina d'anni fa. Le tensioni territoriali con i Paesi vicini, le goffaggini diplomatiche, le incomprensioni con gli Usa e con l'Europa, il disagio nei contesti multilaterali, tutti possono essere visti come una crisi di crescita dopo la quale la Cina troverà una più pacata gestione del suo ingombrante ruolo nel mondo. Magari davvero ha ragione chi ci crede e pensa che il declino non arriverà, magari davvero la Cina attraversa soltanto una fioritura d'acne giovanile. Che, in effetti, non è una malattia mortale.
leviedellasia.corriere.it

Corriere La Lettura 28.10.12
La Cina perde
Paese soffocato dalle élite con cervelli e soldi in fuga
di Federico Fubini


E' la seconda superpotenza della Terra, in trent'anni il suo reddito nazionale è cresciuto come non si era mai visto nella storia dell'umanità, l'afflusso di popolazione dalle campagne alle fabbriche ha sprigionato una potenza industriale che impressiona. È un regime dominato da un solo partito, ma i grandi economisti di lingua inglese fanno a gara a prevedere quando esattamente supererà gli Stati Uniti in base al prodotto interno lordo. Sul suo celebre manuale di macroeconomia, Paul Samuelson scrive nel 1961 che sarebbe successo fra il 1984 e il 1997; nell'edizione dell'80 corregge e rinvia la data a quest'anno.
Ci siamo ma nel frattempo l'Urss, di cui parlava Samuelson, è scomparsa. Fra il '28 e il '60 le politiche di urbanizzazione forzata di Stalin fecero crescere l'economia del 6% l'anno, grande depressione e Seconda guerra mondiale incluse. Il 10,1% medio della Cina negli ultimi trent'anni non vale molto di più, eppure oggi è su questa base che raffinati esperti occidentali tornano a esercitarsi nel datare un altro sorpasso prossimo venturo di un Paese «comunista» sull'America. Secondo l'«Economist» sarà fra il 2018 e il 2021, almeno in materia di Pil. Per cellulari venduti è già successo nel 2001, per litri di birra bevuti nel 2002, in consumo di acciaio addirittura nel 1999 per poi sestuplicare le distanze da allora, benché il debito di questo settore industriale in Cina oggi sia uguale al Pil del Sudafrica (400 miliardi di dollari).
Come l'urbanizzazione compulsiva di Stalin, anche gli anni di prestiti forzati dal partito cinese attraverso le banche pubbliche nelle acciaierie presentano un conto, prima o poi: alimentano numeri funambolici di crescita mentre tutto quell'acciaio viene fuso e poi le sbarre vengono montate dentro i ponti e nei grattacieli; ma molto meno in seguito, quando i grattacieli restano vuoti e si scopre che a nessuno interessa attraversare quei ponti.
La Cina oggi è a questo punto, il giorno dopo la fine della costruzione. Non è chiaro dove andrà, né se una nuova classe media entrerà mai con le sue aspirazioni in quegli appartamenti vuoti. Malgrado le promesse dei gerarchi comunisti — degne dei politici italiani — dal 2005 la quota di consumi sul fatturato della nazione è persino scesa ulteriormente dal 40% al 35%, livelli da economia di guerra. Tutto in Cina è export (anzi lo era, quando tirava), o investimento dettato dal partito tramite le banche pubbliche che poi seppelliscono nella propria pancia il debito inesigibile: un ingranaggio più raffinato che da noi, dove il debito è bene in vista e soprattutto subito catalogato come pubblico.
Nel frattempo molti di quei magnati cinesi dell'edilizia, o dell'acciaio, o del vetro, siedono fra i membri del Congresso nazionale del popolo che a marzo timbrerà il passaggio dal vecchio presidente Hu Jintao a quello nuovo Xi Jinping. Anche qui c'è un sorpasso, netto: l'agenzia Bloomberg calcola che, solo l'anno scorso, i 70 membri più ricchi di questa sorta di parlamento della Repubblica popolare hanno accresciuto i loro patrimoni di una cifra superiore a tutta la ricchezza cumulata dai 535 membri del Congresso Usa, più il presidente e il suo governo e i nove membri della Corte suprema. In 70 hanno un patrimonio di 90 miliardi dollari. C'era da aspettarselo. Mentre alimentava con diktat politici investimenti (anche) in cattedrali nel deserto e viveva di export all'Occidente quando ancora cresceva, la Cina ha vissuto una metamorfosi. È diventata un sistema altamente estrattivo. Solo gli amici del partito hanno accesso ai prestiti per sviluppare i loro progetti, solo loro possono sperare — a volte, invano — di non venire espropriati o carcerati. E solo le élite ben introdotte riescono a catturare il grosso dei benefici della celebre crescita macroscopica. Victor Shih, un economista di Hong Kong oggi alla Northwestern University, stima che l'1,5% della popolazione controlli il 67% delle attività finanziarie private.
È normale in fondo. Roma nel primo secolo, l'Inghilterra della rivoluzione industriale o l'America dei robber barons dell'800 non sono diventate le prime economie al mondo ridistribuendo prima di accumulare. Il punto è dove andrà la Cina da qui in poi, di cosa crescerà ora che la grande urbanizzazione rallenta e l'Occidente perde il suo appetito per un eccesso di prodotti asiatici comprati sempre più a debito. È finito il modello di un Paese tutto volto a fare strade e fabbriche a basso costo per poi vendere altrove i suoi prodotti. I cortili delle fabbriche, i magazzini, le rimesse dei porti sono sempre più ingombri di rubinetti, lavandini, biciclette, motorini, vetro o giocattoli per i quali non si trova domanda in nessun angolo del mondo. Il governo sta varando un piano da quasi dieci miliardi di dollari per salvare l'intero settore dei pannelli solari, ormai in grottesca sovraccapacità produttiva. Gli impianti della Repubblica popolare possono sfornare 42 milioni di auto l'anno quando se ne vendono non più di 18, i concessionari non sanno più dove parcheggiarle e litigano con i produttori che vogliono continuare a rifornirli. Persino le perdite del ministero delle Ferrovie fanno apparire virtuose, al confronto, quelle dei tempi bui delle Fs. L'economia rallenta, eppure il governo questa volta esita a spingere le banche a prestare altre centinaia di miliardi per sempre nuovi investimenti a vuoto.
Qualcosa, da qualche parte, deve cambiare. Scrivono Daron Acemoglu del Mit e James Robinson di Harvard nel loro Why Nations Fail che le istituzioni devono diventare meno «estrattive», cioè meno distorte a favore delle élite del partito, del credito e dell'industria legata ai politici, e più «inclusive» verso gli umili e gli esterni al sistema. In caso contrario la Cina perderà la strada della crescita, come mezzo secolo fa successe all'Urss. Nota Alberto Forchielli, partner fondatore del fondo Mandarin Capital, che non si tratta più di misure per l'economia ma di scelte politiche: «Bisognerebbe limitare l'arbitrio delle lobby ai vertici delle migliaia di imprese e banche di Stato e dare più denaro, e di conseguenza più potere, in mano alle maggioranze». Solo così possono crescere i consumi, riequilibrando l'economia. Ma aumentare i consumi interni significa far crescere il settore dei servizi, aggiunge Forchielli, e non è facile riuscirci mantenendo il controllo della politica sulla finanza e della censura sui media.
La Cina si sta avvicinando così a una fase critica. Un segnale è nella fuga silenziosa dei ricchi, ma perdenti, e dei cervelli che hanno qualche ragione di temere il potere o il futuro. La fuoriuscita loro — e dei loro soldi — è in aumento. L'anno scorso il 75% delle richieste di visto di migranti-investitori negli Usa (devono spendere almeno un milione e creare 10 posti) è venuta dalla Repubblica popolare, un record; e quando quest'anno il Canada ha aperto una quota annuale simile per 700 persone, è stata riempita in una settimana e 697 erano cinesi. Prime crepe in un muro o spie di una «primavera» in arrivo come nel mondo arabo? Più probabile che un Paese così stia semplicemente perdendo il suo dinamismo, o l'ottimismo. Il che, per certi aspetti, è anche peggio.

l’Unità 28.10.12
La memoria ritrovata
A Berlino un monumento per l’Olocausto di Rom e Sinti
Dopo vent’anni di polemiche e tensioni la Germania celebra lo sterminio negato e chiede ufficialmente scusa al popolo zingaro
di Gherardo Ugolini


BERLINO A CIASCUNO IL SUO MEMORIALE. IN QUEL SUGGESTIVO “PAESAGGIO DELLA MEMORIA” CHE CARATTERIZZA IL CENTRO STORICO DELL’ODIERNA BERLINO, precisamente nell’area nevralgica dove si levano la sede del Reichstag e la Porta di Brandeburgo, gli altari del ricordo collettivo si susseguono uno dopo l’altro. C’è quello dell’Armata Rossa con i carri armati sovietici che per primi violarono la capitale del Reich nella primavera del 1945. Ci sono qua e là frammenti del Muro che per tre decenni è stato l’emblema indiscusso della guerra fredda. C’è l’immenso cimitero di steli grigie, disposto da Peter Eiseman per onorare il ricordo dei milioni di ebrei vittime della Shoah. Più nascosto tra i cespugli e gli alberi del Tiergarten, il grande parco cittadino un tempo riserva di caccia della casa reale, si trova il monumento in onore degli omosessuali perseguitati dal nazismo. Dallo scorso mercoledì la mappa berlinese del ricordo storico si è arricchita ulteriormente. Ci sono voluti oltre vent’anni di discussioni, polemiche a tratti roventi, promesse non mantenute e rinvii inspiegabili, ma finalmente anche gli zingari hanno in Germania un loro monumento che ricorda le deportazioni e i massacri patiti durante gli anni del Terzo Reich.
«Lo dobbiamo ai morti e lo dobbiamo ai vivi» ha dichiarato la cancelliera Angela Merkel nel discorso ufficiale durante l’inaugurazione. Una volta tanto i discorsi non sono stati né rituali né vacuamente retorici. «Lo sterminio di quel popolo ha lasciato tracce profonde e ferite ancora più profonde» ha affermato la cancelliera invitando a considerare il nuovo memoriale come un monito contro ogni forma di discriminazione etnica e razziale. E rivolgendosi ai rappresentanti delle comunità di sinti e rom presenti all’inaugurazione, Merkel non ha nascosto i pregiudizi e i problemi di convivenza che tuttora si riscontrano nella società tedesca, evidenziando come sia «compito tedesco ed europeo sostenervi nell’esercizio dei vostri diritti». Un discorso tutto sommato coraggioso, anche se qualcuno ha fatto osservare come sia stato proprio il governo di Frau Merkel non più tardi di due anni orsono ad espellere – nonostante le blande proteste del Consiglio d’Europa e nella più assoluta indifferenza dell’opinione pubblica – oltre diecimila rom kosovari, rifugiatisi alla fine degli anni Novanta nel territorio della Bundesrepublik.
Quello dei rom e dei sinti è stato un destino davvero disgraziato. La loro persecuzione da parte dei nazisti iniziò fin da subito e fu portata avanti con una sistematicità e una violenza del tutto analoghe a quelle impiegate contro gli ebrei. Considerati una «razza inferiore», degenerazione di quella ariana, geneticamente predisposta al nomadismo, all’asocialità e alla delinquenza, gli zingari furono deportati in massa nei campi di concentramento badando anche a tenerli isolati dagli altri prigionieri: per questo ad Auschwitz fu istituito un apposito Zigeunerlager, ovvero un «campo per gli zingari». Per risolvere la «questione zingara» il nazismo dapprima approvò una serie di leggi e provvedimenti fortemente persecutori, quindi avviò la pratica della sterilizzazione coatta (una sorta di sterminio dilazionato nel tempo), per passare, infine, nel 1942 alla «soluzione finale», ovvero il trasferimento obbligatorio di tutti gli zingari ad Auschwitz in vista del definitivo annientamento. Ne morirono almeno 500mila, ma gli storici calcolano che probabilmente furono molti di più: data la loro natura nomade è difficile stabilire con precisione quanti zingari risiedessero nel territorio della Germania e delle zone occupate dai nazisti.
Anche dopo la fine della guerra i patimenti non sono cessati. Per decenni nel Dopoguerra il loro sterminio è stato negato o minimizzato. Nei processi contro i criminali nazisti – a partire da quello di Norimberga – mai nessuno decise di sentire testimonianze di rom e sinti. E nonostante la Convenzione di Bonn – imposta dagli Alleati alla Germania nel 1945 – prescrivesse il pagamento di indennizzi a quanti erano stati perseguitati per motivi razziali, nel caso dei rom e dei sinti tutte le istanze di risarcimento furono eluse dalla magistratura tedesca. La ferita del «genocidio negato» ha bruciato toppo a lungo, come ha denunciato pochi giorni fa Romani Rose, presidente del Consiglio centrale dei popoli sinti e rom in Germania. Si dovette attendere fino al 1982 perché un’autorità politica tedesca, il cancelliere socialdemocratico Helmut Schmidt riconoscesse le loro ragioni e chiedesse ufficialmente scusa a nome del popolo tedesco. E quindici anni dopo fu il presidente federale Roman Herzog a sottolineare l’analogia tra ebrei e nomadi per quanto riguarda le pratiche di sterminio del Terzo Reich.
Il memoriale che ricorda la loro tragedia sorge ora nel cuore di Berlino e mette una pezza su una parabola fatta di tormenti e dimenticanze. Le comunità degli zingari residenti in Germania lo hanno fortemente voluto come segnale di pacificazione, ma sono stati necessari due decenni perché si superassero incomprensioni e impedimenti e il progetto diventasse realtà. L’artista israeliano Dani Karavan lo ha realizzato dandogli la forma di una vasca circolare dal fondale nero, con un triangolo vuoto nel centro da cui ogni giorno emerge una stele con un fiore sulla sommità. A chi lo guarda trasmette la sensazione di sprofondamento nell’abisso, quella sensazione che si provava all’ingresso dei lager, come rievocato dai versi del poeta italiano di etnia Rom Santino Spinelli incisi sul bordo della vasca.

l’Unità 28.10.12
Quell’esercito di bimbi ebrei in fuga salvato dall’Ose
Rimane una ferita per la Francia la retata del luglio del ’42. Ma in soccorso dei piccoli si creò un’organizzazione
di Michele Emmer


PARIGI IL VELODROMO D’INVERNO (IN FRANCESE ABBREVIATO VEL’D’HIV) SI TROVA A PARIGI NEL XV ARRONDISSEMENT, NON LONTANO DALLA TOUR EIFFEL. È DIVENTATO TRISTEMENTE FAMOSO PER LA «RETATA DEL 16 E 17 LUGLIO 1942». Si è trattato di una operazione congiunta tra le forze di occupazione tedesche e quelle della polizia francese. L’operazione fu chiamataVento di primavera. Furono radunati nel velodromo 13.152 persone di cui 4.051 bambini. Sulla parete esterna della scuola che frequentano a Parigi le mie due nipoti Bianca e Gilda vi è una lapide che ricorda che solo nel XI arrondissement, vicino alla Bastiglia, finirono nei campi di sterminio 1200 bambini di quella e di altre scuole del quartiere. Una delle sale più strazianti da visitare nel campo di Auschwitz è quella in cui sono contenute, e sono migliaia di migliaia a riempire la stanza, scarpe, pantofole, ciabatte di bambini. In totale vennero deportati 42.000 ebrei in Francia di cui solo 811 sono ritornati alla fine della guerra. Di bambini praticamente nessuno, in totale erano stati deportati in 11.400.
Quando i Nazisti occuparono la Francia, non avrebbero potuto effettuare retate di ebrei semplicemente perché nel paese non era stato effettuato alcun censimento religioso a partire dal 1874. Un’ordinanza tedesca del 21 settembre 1940 impone agli ebrei della zona occupata di registrarsi. Gli elenchi sono noti come il Fichier Tulard dal nome del suo creatore André Tulard, capo della Questione Ebraica alla prefettura di Parigi.
Il 5 Dicembre 1997, Jacques Chirac, Presidente della Francia, ha trasferito tutta la documentazione presso il Mémorial de la Shoah a Parigi.
I bambini. Una delle prime occasioni ufficiali del nuovo presidente francese François Hollande è stato di commemorare il 22 luglio 2012, nei luoghi stessi in cui si svolse la retata, al velodromo, quella tragedia francese, sottolineando il ruolo attivo svolto dallo stato Francese nel partecipare alla deportazione. In quella occasione il presidente ha ricordato l’azione dell’Ose, Oeuvre de Secous aux Enfants (Opera di soccorso ai bambini), una organizzazione ebraica fondata a Berlino nel 1923 alla cui presidenza onoraria venne designato Albert Einstein.
L’attività dell’Ose inizia con il diffondersi del Nazismo, per salvare bambini orfani o deportati in Germania ed Austria. Durante l’occupazione Nazista in Francia ed il governo di Vichy l’Ose si prese in carico il salvataggio dei bambini che erano riusciti a scampare alle retate, che erano rimasti soli, che avevano bisogno di tutto. A questa storia è stata dedicata una piccola mostra agli Archives Nationales a Parigi, curata da Katy Hazan.
L’Ose riuscì a salvare più di 2000 bambini. In Francia, l’Ose, dopo l’occupazione agisce in clandestinità, creando nella parte sud della Francia, in cui il potere è formalmente in mano al cosiddetto governo di Vichy, una serie di case di alloggio e di istruzione in cui sono raccolti i bambini.
La situazione precipita quando anche la parte sud viene occupata dai Nazisti. Le case devono essere chiuse, i bambini nascosti, portati in Svizzera, in Spagna, negli Uuaa. Una sola delle case viene scoperta dalla Gestapo nell’aprile 1944, nella zona che era occupata dalle truppe italiane sino all’arrivo dei tedeschi. Si tratta di Izieu, nella regione del Rodano-Alpi. Il famigerato Klauss Barbie, comandante della Gestapo di Lyon, il 4 aprile cattura i 44 bambini presenti che avevano tra 5 e 16 anni.
A Parigi una lapide riporta tutti i loro nomi a Place des 44 Enfants d'Izieu, XIII arrondissement. Ad Izieu è stato realizzato un museo in memoria dei bambini uccisi. In un libro intitolato Le sauvetage des enfants juifs pendant l’Occupation dans les maison de l’OSE 1938-1945 di Katy Hazan (Somofy editions d’art, Paris, 2008) sono raccolte le storie di tutte le case e i centri di accoglienza dell’Ose durante la guerra, con tutti i nomi dei ragazzi presenti e le loro storie. Alla mostra agli Archives Nationales dieci di quei ragazzi hanno raccontano le loro storie, in prima persona. Sono Norbert Bikales, Charles Fogielman, Marcel Goldberg, Vera Goldfischer, Sali Malmed, Paul Niederman, Denise Paluch. Jacques Stul, Irene Tokayer, Suzanne Winitzer. In occasione della mostra è stato pubblicato un altro volume C'étaient des enfants: Déportation et sauvetage des enfants juifs à Paris di Sarah Gesburger (Skira, 2012).
Ha ricordato uno dei bambini sopravvissuti, Irene Tokayer: «Alla scuola primaria il nostro maestro spiegava ai bambini che la mia scrittura era cattiva dato il mio sangue ebreo». Irene Tokayer è nata a Mannheim in Germania nel 1928, è rimasta in una delle case dell’Ose dal 1939 sino alla fine del 1942, quindi con il padre ritorna a Parigi, la sua famiglia è arrestata, resta sola. Ritorna in Germania. Denis Paluch racconta di essere nata a Bruxelles nel 1937, di essere stata salvata dall’Ose dal campo di concentramento di Vénissieux nell’ottobre 1942, a cinque anni, di aver passato la guerra in una famiglia. Marcel Golberg, nato a Trouville nel 1934, nascosto dall’Ose con la sorella nel 1943, passa dalla zona nord della Francia in quella sud, ritrova la madre alla fine della guerra.

l’Unità 28.10.12
Arte. La rivoluzione della bellezza
Dai dipinti di Vermeer un consiglio per la politica
È a portata di mano, non appartiene solo a pochi privilegiati, ci suggerisce il pittore olandese
Riuscire a vederla è già un passo per il cambiamento della propria vita
di Giuseppe Montesano


NON C’È SCAMPO: GUARDI I DIPINTI DI VERMEER UNA VOLTA, E QUALCOSA TI STUPISCE; LI GUARDI ANCORA, LI STUDI, CERCHI DI ENTRARCI DENTRO, DI ENTRARE NELLE STANZE DAI VETRI SAGOMATI E DI TOCCARE LE TOVAGLIE CHE SEMBRANO A PORTATA DI MANO, E QUALCOSA TI STUPISCE E TI AFFASCINA; vai in Olanda a vederli, scopri che sono piccoli, piccolissimi, ma che risplendono a grande distanza, li guardi, da vicino, da lontano, fino a farti girare la testa, e qualcosa ti seduce e ti sfugge: il loro segreto sembra rimanere celato in quella luminosità evasiva e irreale.
Poi un giorno prendi tra le mani il catalogo di una mostra straordinaria che si tiene alle scuderie del Quirinale fino al 20 gennaio del 2013, il catalogo si intitola Vermeer. Il secolo d’oro dell’arte olandese, e pensi di andarla vedere perché ci sono tutti i Vermeer più belli e molte opere di De Hooch, De Witte e altri grandi, e intanto sfogli lentamente le pagine, ti perdi nella contemplazione di ingrandimenti che rendono ancora più onirica e sfumata la luce di Vermeer, ti dimentichi di te nella fantasticheria: e allora accade qualcosa di inquietante. Ma cosa c’è in Vermeer? Perché la rozza e grossolana serva che versa il latte ha lo stesso potere di seduzione del cartografo bello e elegante che studia col compasso le mappe? Perché la stoffa su un tavolo non si distingue dalle guance della ragazza dall’orecchino di perla, e la luce grigia e perlacea che cade sulle pareti scrostate di una cucina è uguale alla luce che fa risuonare di metamorfosi e quiete la città di Delft? Che cosa accade davvero in questi interni olandesi così lontani, persi nel tempo sempre perduto?
E la risposta arriva come in sogno: Vermeer non rappresenta né interni borghesi né ragazze con orecchini; Vermeer non ci mostra la società, l’Olanda o la famiglia; Vermeer non racconta nessuna storia, non fa alcun ritratto che somigli a qualcuno, non tramanda memorie; Vermeer non studia la superficie della realtà, ma non vuole nemmeno rivelare chissà quale arcano nascosto sotto la mirabile apparenza del mondo che lui sogna attraverso la pittura; da Vermeer ci arriva solo una musica che sussurra: «Là, tutto è ordine e bellezza, lusso, calma e voluttà».
Non c’è nient’altro che la Bellezza, nell’opera di Vermeer. E i verdi ardenti dei panneggi, e i rossi sublimi, e gli arabeschi eccelsi, e gli occhi umidi e le ombre traslucide, i gioielli e le vetrate, tutto questo non è ciò che rappresenta: tutto questo evoca solo la Bellezza. I personaggi di Vermeer non filano e non tessono, come i gigli nei campi e gli uccelli nei cieli dei Vangeli, eppure il regno della terra gli appartiene: essi sono inutili, e la loro inutilità raggia e splende come solo l’inutile bellezza può fare. E hanno torto, e sono bugiardi i reazionari di ogni genere che dicono che ordine e bellezza, lusso, calma e voluttà appartengono a loro, sono parole d’ordine del loro regno dello sfruttamento dei molti per il profitto dei pochi: illusi.
La bellezza è rivoluzionaria, e chiede il capovolgimento delle parvenze del mondo e della società: essa non ha alcun senso, in un mondo ingiusto. La bellezza nega l’Economico che ci macella, e nega il Mediatico che fa da servo ai macellai travestiti da tecnici, e nega l’eterno autoritarismo fascista che sempre spunta nei privilegiati come una tara biopolitica. Il regno a cui la bellezza chiama non è quel regno che fa abbattere la sciagura sugli uomini attraverso il lavoro coatto e sottopagato o la mancanza coatta del lavoro: in un senso molto preciso, e materiale, la bellezza non è di questo mondo. Non qui e non ora si può davvero perdersi nelle estasi quiete di Vermeer, qui e ora si può solo sussultare dentro ricordandosi attraverso Vermeer che esistono a portata di mano la bellezza e la calma, il lusso, l’ordine e la voluttà. Ma dove sono lusso, calma, ordine, voluttà e bellezza nell’inferno quotidiano di chi è spezzato da psicofarmaci e sventure, da pixel e vuoto, di chi deve lavorare incarcerato anche nel tempo libero per rendere liberi e felici quegli stessi pochi che lo condannano all’inferno dicendo che è il solo paradiso che spetta agli infelici molti? Ma è qui, la bellezza è qui, proprio dietro la porta, dietro il velo dell’inganno, dentro l’inutile luce di Tiziano, di Baudelaire, di Saffo o di chiunque abbia sognato una vita diversa dall’inferno che ci è dato nel regno storto dell’Economico.
Dietro la porta spalancata solo dalla rivolta c’è Vermeer, e finalmente parla: con la sua lingua muta, che non può spiegare perché spiegare sarebbe tradire il corpo; con la sua glorificazione delle apparenze terrene e con il suo silenzioso e dissennato invito a trasformare la vita perché infine a tutti parli la bellezza, la cosa che non serve a niente ma senza la quale niente di ciò che serve è necessario. Guardiamola davvero, la ragazza con l’orecchino di perla, nella luce e nel sogno della sua verità: per farla diventare reale non è forse necessario cambiare questo mondo che la nega, la cancella, la seppellisce?

il Fatto 28.10.12
Noi esseri moderni, tutti figli di Caino zappaterra
Dario Fo rilegge la storia dell’uomo per scoprire che chi ama e rispetta la M
di Dario Fo


Avevo poco più di tredici anni, perciò un ragazzino, quando sfogliando un libro di commenti scientifici alla Bibbia ho scoperto che la Genesi come me la raccontavano a scuola e a dottrina era falsa o, se vogliamo essere più precisi, molto limitata ed errata nell’informazione. Subito lo scienziato-autore prendeva in considerazione l’origine dell’uomo che, secondo il sacro libro di Dio, sarebbe nato solo un discreto numero di secoli fa, qualche centinaia di migliaia d’anni prima dell’avvento del cristianesimo; e invece gli antropologi oggi indicano questa origine come avvenuta due milioni di anni prima dell’epoca cosiddetta moderna e soprattutto ci avvertono che il primo uomo e la prima donna sono venuti al mondo in Etiopia, quasi un milione di anni fa e quindi erano di colore scuro, dall’ambrato all’ebano. Hanno pure scoperto che le prime pitture che descrivono la Genesi furono dipinte proprio in Abissinia nel I secolo dopo Cristo, e mostrano non solo Adamo ed Eva di carnagione scura, ma anche Dio molto abbronzato.
“DIO NERO?! ”. “Eh sì! E coi capelli crespi e grandi labbra! ”. Io, allora ragazzino, a questa notizia sono rimasto letteralmente sconvolto. Di colpo nella mia idea della civiltà dell’uomo, tutta la storia della razza eletta, cioè bianca, andava a quel paese. Le immagini di Adamo ed Eva, così come le avevo conosciute sfogliando la Bibbia illustrata da Gustave Doré, erano false. Inaccettabile era anche l’atteggiamento che Dio aveva tenuto verso i due primi figli di Adamo ed Eva. Sappiamo che Abele era un pastore, quindi allevava pecore e capre, mentre Caino era contadino, piantava sementi di grano, orzo, segale. Caino e Abele erano fratelli e si volevano bene ma Dio fece un grave errore: pubblicamente mostrava di preferire il pastore al contadino. Per Abele aveva un’adorazione, al contrario, un po’ meno, amava e stimava Caino e soprattutto il suo mestiere di zappatore coi piedi sempre zozzi di fango e la faccia arsa dal sole.
“MA COSA stai combinando Padre Nostro? Crei la rissa? A cominciare proprio dall’inizio della stirpe! ”. Abele porta a te, Signore, un agnello perché lo si faccia arrosto. Tu vai in visibilio. Ma, quando arriva Caino, con un mazzo dorato di grano, non ti degni neanche di guardarlo. E allora vuoi proprio l’odio fraterno, che la storia finisca in tragedia! Perciò ti chiedo Signore, chi ha armato di quel bastone la mano di Caino? Santo Padre, guardiamoci negli occhi: tu sei il responsabile del fratricidio! Tanto è vero che a un certo punto te ne rendi conto e gridi: “Guai a chi tocca Caino! Chi lo minaccia o tenta di ucciderlo avrà a che fare con me! ”. E allora pensateci bene, entrambi i fratelli al momento della tragedia non avevano ancora generato figli propri, quindi la sola stirpe che è venuta al mondo e che ha generato tutta l’umanità discende da un unico esemplare: Caino! Quindi, siamo tutti figli di Caino! Tiè! Siete rimasti male? Bene, sbagliate! Dovreste esserne fieri. Caino e la sua genìa di contadini hanno creato, inventato, scoperto le cose più importanti della nostra vita, per la nostra crescita: chi ha intuito la possibilità di riprodurre i cereali con cui sfamarci? Chi ha ideato l’innesto, cioè la possibilità di inserire attraverso un ramo diverso, un diverso frutto più succulento e profumato? Un villano. Chi ha intuito il valore dell’acqua? I contadini, mica le multinazionali! O se preferite fu Noè, anche lui di razza contadina, che appena salvata l’umanità dal diluvio piantò il primo seme per la vite e quindi fu il primo a ubriacarsi fradicio. E la ruota? Chi l’ha creata? Un ragioniere del Comasco? No, sempre lo zappaterra, che oltretutto ha costruito i primi ponti e ha scoperto l’irrigazione, la rotazione delle semine. Ha allagato deserti per renderli fertili. Ha inciso la terra per creare canali con argini, dighe e chiuse.
VA BENE, va bene, sento già l’erudito contestatore che mi fa notare: “Sì, il contadino è stato utile all’evolversi dell’uomo, ma chi ha tolto dalla condizione animale, rozza e bruta l’essere umano? Forse l’inventore della pagnotta di pane? O del prosciutto di Parma? ”. No, e nemmeno il mastro fornaio, sempre della razza dei villani, che ci ha insegnato a cuocere col lievito le ciambelle e le succose lasagne, ma che hanno fatto fremere dell’uomo soltanto le sue trippe. Chi ha elevato l’intelligenza e la poesia dell’essere umano è stato solo l’autore del canto, il compositore della musica, il maestro di danza e il lirico inventore del ritmo e dell’armonia. “E chi è costui? ”. Nient’altro che il sublime poeta di corte che non sapeva certo zappare, né incidere la corteccia degli alberi.
Caro erudito furbastro, qui stai mettendo in campo il solito furto con raggiro e truffalderia: chi fu il primo essere umano che s’inventò una ninna nanna per indurre al sonno il suo figliolo? “Ma di certo una mamma contadina”. E nelle lagune i contadini hanno imparato a muoversi in equilibrio su lunghe barche spingendo canne o puntali che conficcano nel basso fondale. Remavano, e per meglio andare a tempo cantavano in coro. Quindi, per favore, rispettate l’intelligenza del villano, la sua straordinaria creatività e chiamatelo per favore Maestro giacché tutto ci ha insegnato, perfino a riunirci fra di noi in momenti di disastro e tragica carestia creati da voi, signori, e impiantare milioni di piccoli orti che avranno di certo il potere di salvarci, se seguiremo il loro esempio, dalla pressante miseria e dalla fame.

«Io ero fascista», scrive apertamente
Corriere 28.10.12
Scalfari e Mieli, sguardo al passato senza reticenze e omissioni
di Antonio Carioti


Non era la prima volta che Paolo Mieli ed Eugenio Scalfari si confrontavano a tutto campo, ma il loro dibattito di venerdì a Lecce, nel corso del quale hanno presentato il Meridiano Mondadori La passione dell'etica, che contiene un'ampia antologia degli scritti del fondatore di «Repubblica», ha assunto un particolare interesse per gli squarci che ha aperto su alcuni momenti importanti della vita italiana del XX secolo, in particolar modo il passaggio dal fascismo alla democrazia.
Divisi, come spesso è accaduto, nel giudizio sull'attualità politica e sui suoi protagonisti, Scalfari e Mieli si sono invece trovati in sintonia nella ricostruzione del passato, sulla base del Racconto autobiografico che l'autore ha collocato come premessa ai suoi scritti raccolti nel Meridiano, subito dopo il saggio introduttivo di Alberto Asor Rosa.
Scalfari infatti si è raccontato anche nei particolari più delicati della sua esperienza di vita, in particolare il suo rapporto con i genitori, ma soprattutto ha ripercorso senza autoindulgenza l'itinerario che fu suo e di gran parte degli italiani di quella generazione. Il fondatore di Repubblica non ha nascosto la sua adesione giovanile al regime littorio («Io ero fascista», scrive apertamente) né la sua partecipazione alle attività dei Guf, non ha in alcun modo enfatizzato la parte che, molto giovane, ebbe nella fase finale della Resistenza a Roma, subito prima che la capitale venisse liberata dagli angloamericani il 4 giugno 1944. Ha riferito di aver votato per la monarchia al referendum istituzionale del 2 giugno 1946, in sintonia con l'insegnamento di Benedetto Croce.
Non stupisce che questo atteggiamento abbia incontrato la piena approvazione di Mieli, che ha sempre insistito sul problema della reticenza con cui gli intellettuali italiani, specialmente quelli approdati a sinistra, hanno affrontato il nodo del trapasso dal ventennio mussoliniano al nuovo assetto definito dall'opera della Costituente. In una fase di transizione dell'Italia verso un domani quanto mai incerto, guardare al passato con lealtà e senza omissioni significa partire, almeno da questo punto di vista, con il piede giusto.

Corriere La Lettura 28.10.12
Lo sballo legale
Venduti come analgesici, vengono usati come droga
La deriva degli oppioidi: 15 mila vittime all'anno negli Usa
di Francesca Ronchin


Ad anticipare il fenomeno, ci ha pensato il Dr. House, il protagonista della fiction tv, costretto a ingoiare manciate di pillole di idrocodone per convivere con un cronico dolore alla gamba. Una sorta di outing involontario che ha fatto del medico di Princeton una curiosa miscela di cinismo e umanità e soprattutto il caso più famoso di dipendenza da antidolorifici.
Parliamo di oppioidi, farmaci potentissimi, per lo più a base di ossicodone e idrocodone e che per cancellare il dolore vanno a colpire direttamente il sistema nervoso centrale rilasciando una sensazione di benessere ed euforia che nulla ha da invidiare a un derivato dell'oppio. Appartenenti al gruppo terapeutico della morfina, molti malati iniziano a prenderli per dolori cronici, da quelli associati a stati tumorali fino a quei mal di schiena che non danno tregua, ma poiché il potere di dipendenza è alto, il rischio è di non riuscire più a farne a meno. «Ti senti in cima al mondo senza però perdere il controllo di quanto ti accade — spiega Phil Wright della American Pain Society per la cura del dolore — ci si illude di poterci convivere, ma come con ogni droga, non è così».
Negli Stati Uniti c'è chi la definisce una nuova epidemia. Dal 1991 al 2010, il numero delle ricette di analgesici oppioidi sarebbe passato da 75 a 209 milioni, tanto da soddisfare, potenzialmente, l'80% degli americani, praticamente una confezione per abitazione. Non solo, secondo i dati del Center for Disease Control, una persona ogni 20, dai 12 anni in su, li utilizzerebbe per motivi non medici, in pratica per procurarsi quello che è a tutti gli effetti uno sballo legale e dall'appeal trasversale. A rendere queste pillole particolarmente gettonate, la promessa di un «trip» pulito e permesso dalla legge, lontano anni luce dalla fenomenologia della tossicodipendenza.
L'antidolorifico lo si tiene in tasca o nella borsetta come una normale pillola per il mal di testa. Lo usano la casalinga, il manager e soprattutto i più giovani perché i pusher, involontari, se li ritrovano direttamente in casa. Secondo la Substance Abuse and Mental Health Services Administration, nel 70% dei casi, gli under 20 reperirebbero gli antidolorifici grazie a mamma e papà. Se poi l'incursione nell'armadietto del bagno di casa non soddisfa, ci sono sempre Internet e il mercato nero di strada dove questi oppioidi stanno rimpiazzando perfino l'eroina, più difficile da reperire dopo il blocco della produzione di oppio in Afghanistan. Ma è soprattutto una questione di sicurezza perché «se la polizia ti trova i farmaci in tasca, non si finisce certo in prigione», spiega Jurgen Rehm, direttore del dipartimento di ricerca sociale ed epidemiologica presso il Center for Addiction and Mental Health di Toronto.
E così, oltre che tra professionisti e studenti, i farmaci oppioidi hanno iniziato a diffondersi capillarmente tra gli eroinomani di strada tanto da meritarsi il nome di «hillbilly heroin», droga dei poveri.
Nel 1995 è uscito sul mercato l'Oxycontin, il farmaco a base di ossicodone che da lì a poco è diventato un vero blockbuster. Prodotto dalla Purdue Pharma, in cinque anni è arrivato a vendite per oltre un miliardo di dollari. Nel mezzo ci sono stati una quarantina di congressi, una rete di oltre 5.000 medici e strategie per intercettare le fasce di popolazione più colpite da dolore cronico e quindi le utenze più inclini all'utilizzo di analgesici così potenti. Non solo, a decretare il successo di questa pillola, e a ricaduta dei vari cloni, sarebbe stata in particolare una campagna pubblicitaria. Il caso ha dato vita a una class action che ha visto la Purdue ammettere la propria colpevolezza e quindi sborsare 646 milioni di dollari per risarcire i danni ai consumatori. Al centro della querelle, l'aver dichiarato un rischio di dipendenza minore dell'1% quando invece si sapeva che poteva raggiungere il 50 per cento.
L'abuso di antidolorifici è un fenomeno che provoca quindicimila morti da overdose all'anno, molti di più rispetto a quelli causati da eroina e cocaina messe insieme. Del resto i referti medici di celebrità morte di recente parlano chiaro: da Heath Ledger a Brittany Murphy, da Anne Nicole Smith a Michael Jackson, tutti avevano in corpo tracce di idrocodone e ossicodone tanto che il consumo di «painkillers», antidolorifici, tra i giovani sarebbe ormai la prima causa di morte. Una strage progressiva che ha portato le autorità competenti come Fda ed Health Canada a correre ai ripari adottando politiche più restrittive per contenere la diffusione di questi narcotici. Tra le misure adottate una maggiore tracciabilità delle ricette mediche, il divieto di surplus produttivi in grado di alimentare il mercato nero e lo sviluppo di formulazioni di nuova generazione che renderebbero le pillole più difficili da inalare o iniettare così come piace ai tossici in cerca di uno sballo più rapido. «È un fenomeno più grande di noi perché è esploso da poco, di pari passo con il progredire della scienza medica — spiega Allan Gordon, direttore del Wasserman Pain Center del Mount Sinai Hospital di Toronto —. Mentre malattie come il cancro o la sclerosi multipla hanno una lunga tradizione e associazioni storiche, fino a 30 anni fa il dolore non era nemmeno una branca della medicina. Ha dovuto essere, per così dire, fabbricato».
Man mano che i pazienti parlavano di dolore, ci si rese conto che tra neuropatie diabetiche, stati tumorali e mal di schiena, c'era un quadro comune a circa il 25% della popolazione. «Inizialmente questi oppioidi venivano somministrati solo ai pazienti gravi — continua Gordon — ma quando se ne è compresa l'efficacia, le case produttrici hanno iniziato a spingere per un più ampio utilizzo, dai casi di epilessia e depressione fino al classico mal di denti. È vero che molti si rivolgono a questi farmaci per sballare — spiega Gordon — ma a chi soffre davvero, hanno cambiato la vita».
Mentre in Nord America si diffondono le pratiche di accertamento del rischio, per intercettare quel 10% della popolazione che sarebbe ad alto rischio di dipendenza, dopo anni di vincoli burocratici il riconoscimento del dolore cronico sta iniziando a farsi strada anche in Italia. A due anni dall'approvazione della legge 38 sulle terapie del dolore, le prescrizioni di analgesici oppioidi hanno registrato una crescita del 30% passando da 3,6 milioni di confezioni vendute a 4,7 milioni. «Senz'altro un passo importante — spiega Riccardo Gatti, direttore del Dipartimento delle dipendenze della Asl di Milano — ma bisogna monitorare per impedire che anche da noi si verifichi quello che sta succedendo negli Stati Uniti».
In Italia i più gettonati sono ancora antidepressivi e ansiolitici ma gli antidolorifici sono in crescita. «I farmaci si stanno sostituendo alle droghe tradizionali — sottolinea Giovanni Serpelloni, direttore del Dipartimento politiche antidroga — sono legali e fanno molta presa sui giovani. Nel 56% dei casi sono gli stessi genitori a offrirli ai figli, in particolare le benzodiazepine per sopportare stress da esame o incontri amorosi».
Quello che più spaventa, conclude Serpelloni, è la tendenza all'automedicazione, al fai da te, tanto che si finisce per non capire più cosa stiamo medicando. Anne Rochon Ford, direttrice del Women and Health Protection Network, segue da anni lo sviluppo del fenomeno a partire da Stati Uniti e Canada: «Quello che mi colpisce è come antidolorifici nati per curare il dolore fisico siano ormai utilizzati per rispondere al dolore psichico, al male di vivere, che è quello che alla fine tutte le droghe, illegali o meno, cercano di fare».

Corriere La Lettura 28.10.12
Quei farmaci nati contro il dolore che danno euforia
Dall'America l'allarme per un'epidemia
di Giuseppe Remuzzi


David ha 13 anni, sta male e fatica a respirare, ha passato la serata e parte della notte in casa di amici e pare abbia bevuto. Lo portano al pronto soccorso di un ospedale dello Utah, poi finisce in rianimazione con una macchina che respira per lui. È overdose da ossicodone, un antidolorifico, lo prescrivevano alla nonna di un amico e lui si faceva dare le ricette. David alla fine ce la farà. Ma altri come lui no. Nel 1990 di antidolorifici, quelli che contengono derivati dell'oppio, morivano negli Stati Uniti quattro persone su centomila; nel 2008 erano dodici e oggi sono ancora di più. Soltanto nel 2009 sono arrivate al pronto soccorso 480 mila persone con sintomi da intossicazione da analgesici; e quest'anno sono già più di un milione solo negli Stati Uniti. Ci sono almeno 12 milioni di americani che prendono regolarmente questi farmaci non perché ne abbiano bisogno ma per il senso di benessere che danno. In Italia, secondo il rapporto dell'Aifa, quello che si spendeva per il consumo di oppiacei nel 2005 era lo 0,6 per cento del totale della spesa sanitaria. Molto meno che in Inghilterra, in Germania, in Francia e anche meno che in Spagna. Meglio prepararsi però, di solito quello che succede di là dall'oceano prima o poi arriva da noi. Ma come fanno a procurarsi questi farmaci le persone che ne abusano? Chi li prescrive? Di solito, la gente se li procura con le ricette di qualcun altro, altri li rubano in farmacia (ma questo non succede spesso), piuttosto c'è chi riesce a procurarsi ricette da medici diversi e così si fa una bella scorta di pillole: lo chiamano «doctor shopping». Gli oppiacei non li prescrivono quasi mai gli specialisti, di solito sono medici di famiglia e dentisti, e qualcuno prescrive più di altri, tanto che l'80 per cento degli antidolorifici che si consumano viene dal 20 per cento dei medici. Questi medici sanno benissimo che c'è chi abusa delle loro prescrizioni e sanno anche che tanti pazienti passano le ricette agli amici. Ma li prescrivono lo stesso. Perché? Secondo Anna Lembke — che ha pubblicato un articolo sul «New England Journal of Medicine» solo pochi giorni fa — un po' dipende dall'atteggiamento culturale dell'America di oggi, quello per cui non si deve mai avere dolore, per nessuna ragione. E poi c'è la mania della soddisfazione del paziente. Gli ammalati compilano questionari su questionari per dire come si sta negli ospedali americani e quanto sono — o non sono — bravi i dottori che li curano. E i medici, dentro e fuori l'ospedale, sanno benissimo che più si prescrive più si è bravi. Intendiamoci: queste cose le dico a malincuore perché fra tutte le cose importanti che sono successe in medicina negli ultimi vent'anni, forse la più importante è stata quella di dare agli ammalati la possibilità di liberarsi dal dolore. Ma ogni scoperta si presta a essere usata male e farmaci che dovrebbero aiutare a stare meglio possono fare danni, anche gravi. Ma davvero si può morire per delle pillole che chiunque può trovare in farmacia? Sì, certo, e per uno che muore ce ne sono almeno cinquanta intossicati, centoquaranta che non riescono a smettere e un milione che comunque abusa di antidolorifici (sono i dati più recenti resi pubblici dall'Fda, l'ente di sorveglianza sui farmaci). I derivati dell'oppio si legano ai recettori del cervello, dove riescono a infilarsi con la precisione di una chiave che entra nella sua serratura e soltanto in quella. È in questo modo che tolgono il dolore a chi soffre di artrite o per le metastasi di un tumore. Quello che interessa ai ragazzi e a chi ne abusa è che sulle prime questi farmaci danno euforia. A un prezzo però. Se si continua e se si prendono ogni giorno per esempio — o anche più volte al giorno — subentra uno stato di sedazione, gli atti del respiro rallentano al punto che nei casi più gravi si rischia l'arresto respiratorio. Se poi uno beve è anche peggio, perché l'alcol potenzia l'effetto sedativo dei derivati dell'oppio, così capita che la pressione scenda, si perda la capacità di controllare la temperatura del corpo e si arrivi al coma. Ragazzi e giovani adulti muoiono così di overdose da antidolorifici. Per niente.

Corriere La Lettura 28.10.12
«Facebook discrimina È un asilo per adulti»
Katherine Losse, ghostwriter di Mark Zuckerberg, racconta una realtà chiusa
di Serena Danna


«Le rivoluzioni e il potere di condividere; l'apertura come forza della nostra generazione; il passaggio dallo Stato alle imprese; il fatto che tutti possono diventare sviluppatori e il nostro modo di sostenere questo cambiamento; la nuova generazione di compagnie web; i giovani che diventano imprenditori». Ecco i principi-base di Facebook. A elencarli alla sua ghostwriter Katherine, detta Kate, è il fondatore del social network in persona, il ventottenne milionario Mark Zuckerberg. È la fine del 2009, Facebook è già la «big thing» del decennio. L'assistente originaria dell'Arizona chiede al giovane imprenditore cosa intenda esattamente per «aziende e Stati». «Voglio dire che se oggi sei davvero intenzionato a cambiare il mondo — risponde Zuckerberg —, la cosa migliore che puoi fare è fondare una compagnia». L'episodio è contenuto nel libro Dentro Facebook, in uscita in Italia per Fazi, scritto proprio da Katherine Losse (traduzione di Nicola Vincenzoni, pagine 288, 14,50), ex ghostwriter di Zuckerberg, che — poche settimane dopo il dialogo con il capo — decide di licenziarsi dall'azienda. Se cercate morbosità e rivelazioni piccanti su Mark Zuckerberg, Losse vi deluderà. Il libro è una finestra critica sull'anima e sull'organizzazione di una delle aziende più importanti del mondo, nonché la descrizione del disagio di una letterata catapultata in una realtà dominata dai tecnici. Raggiungiamo Losse, 36 anni, via Skype a Marfa, in Texas, una cittadina dove «la connessione costante di Internet e cellulari non serve un granché». Lì vive oggi la prima donna entrata in Facebook — un anno dopo la nascita del social network — con un dottorato in letteratura inglese.
Quando è stata assunta in Facebook non ha firmato alcun documento che la impegnasse a non rivelare informazioni sensibili sull'azienda?
«L'unico obbligo di non divulgazione riguarda i codici e i software usati da Facebook: i segreti tecnici della piattaforma. Il fatto che qualcuno possa divulgare la cultura aziendale, criticità comprese, non preoccupa minimamente i dirigenti».
Nel suo libro il social network emerge come un regno dove vige la dittatura degli informatici: le uniche competenze tenute in considerazione da Zuckerberg sarebbero quelle tecnologiche.
«Il piano dove lavorano i programmatori è considerato quello nobile dell'azienda. Mark utilizzava la parola "persone" solo quando si riferiva a loro. Gli impiegati non esistevano. Nella primavera del 2007 ripeteva continuamente: "Facebook è una compagnia tecnica". All'inizio non capivo la ragione: perché un'azienda che si occupa di relazioni e persone non si definisce "sociale"»?
Ha trovato una risposta?
«La tecnologia è il nuovo oro della California. Per Mark è l'essenza stessa dell'innovazione, in grado di giustificare tutto: mentre io passavo il tempo a farmi domande sulla privacy o sulla natura delle relazioni su Facebook, lui progettava insieme agli hacker nuovi tool e codici per potenziare il sito. Velocità e potenza erano le uniche cose che gli interessavano».
Crede che con la quotazione in Borsa siano cambiati i valori aziendali?
«Immagino che la quotazione li abbia costretti a una maggiore etica e responsabilità. Tuttavia Mark era ossessionato dall'idea di non perdere lo spirito originario del progetto, e credo sia ancora così».
Come definirebbe lo spirito originario di Facebook?
«Una compagnia di nerd che giocavano alla rivoluzione con il computer. Facebook è l'asilo a misura di adulti dell'era digitale».
Scrive che il mondo della Silicon Valley è ossessionato dalla giovinezza, dove «gli investitori entravano in competizione con gli stessi adolescenti che volevano assumere». È il lato oscuro dell'innovazione?
«In Facebook "lavoro" è considerata una parolaccia, roba da loser, perdente. La gente di successo gioca, e nella Valle vincente è sinonimo di giovane informatico. Io e i miei colleghi eravamo offuscati dalla ricchezza e dal potere che vedevamo lievitare davanti ai nostri occhi».
Sostiene che l'azienda che ha incontrato nel 2005 era molto simile al mondo di «Mad Men», la popolare serie tv ambientata nell'America degli anni Sessanta.
«Quando sono arrivata l'organizzazione della compagnia si rifaceva al modello reazionario di un ufficio anni Cinquanta, Sessanta. Il giorno del compleanno di Mark, nel 2006, ci arrivò una mail che chiedeva alle donne di indossare una t-shirt con il volto di Zuckerberg e ai ragazzi le ciabatte Adidas con cui il capo veniva regolarmente in ufficio».
Essere donna in un contesto del genere non deve essere stato facile...
«Il punto è che all'inizio eravamo davvero poche. La discriminazione, come ho detto, c'era per i non-tecnici e visto che la maggior parte di essi erano donne, subivamo più di altri l'indifferenza dei colleghi. L'unico momento in cui venivamo prese in considerazione era durante i party in piscina, per le foto da pubblicare il giorno dopo sulle bacheche».
Eppure lei è diventata la ghostwriter del Ceo, conquistando una scrivania al «piano nobile» dei programmatori informatici. C'entra qualcosa l'arrivo nel 2008 di Sheryl Sandberg, attuale direttore operativo di Facebook, considerata una delle persone più influenti al mondo?
«Appena arrivata Sheryl convocò tutte le donne che lavoravano in Facebook nel suo studio per un'indagine sulla condizione femminile in azienda. Provò a intervenire su alcuni comportamenti sgradevoli di colleghi. Poi, con il passare del tempo, diventò semplicemente una di "loro". Lo stesso è accaduto a me».
È il paradosso della tecnologia: un settore chiuso ed esclusivo che lavora per aumentare la partecipazione e la democrazia nel mondo. Crede che le cose stiano cambiando?
«Penso che la tecnologia stia diventando sempre di più una questione culturale. Accade anche grazie alla diffusione di massa di brand che veicolano valori oltreché prodotti e servizi. L'interazione con colleghi e utenti diventerà prioritaria nel futuro delle aziende hi-tech. Addirittura gli hacker saranno costretti a farsi delle domande sul loro lavoro».

Corriere La Lettura 28.10.12
A me gli occhi, anzi l'amigdala
Nel centro cerebrale delle emozioni, un esperimento sui macachi rivela l'esistenza di neuroni deputati allo sguardo-nello sguardo
di Massimo Piattelli Palmarini


Al congresso annuale della Società per le Neuroscienze, il più importante del settore, tenutosi nei giorni scorsi a New Orleans, la neuropsicologa Katalin Gothard, dell'Università dell'Arizona, ha annunciato una curiosa e interessante scoperta. Nel cervello del macaco esistono alcuni neuroni che si attivano specificamente quando la scimmia guarda fissamente negli occhi un'altra scimmia. Non a caso, la regione cerebrale nella quale risiedono questi neuroni, specificamente attivati dallo sguardo-nello-sguardo, è l'amigdala, cioè una formazione vagamente assomigliante ad una mandorla, già ben nota come centro nervoso principale delle emozioni.
Il delicato esperimento eseguito dalla Gothard e dai suoi collaboratori Clayton Mosher e Prisca Zimmerman, in sintesi, consiste nell'inserire minuscoli elettrodi (ben più sottili di un capello) in un certo numero di neuroni e registrare l'attività di tali neuroni, quando il macaco osserva varie situazioni. In particolare, veniva presentato su uno schermo un filmato di un altro macaco che a tratti guardava fisso, da molto vicino, la telecamera. Il soggetto sperimentale aveva ogni motivo di ritenersi personalmente fissato, appunto, sguardo-nello-sguardo.
Si è osservato che esistono, nell'amigdala, dei neuroni definiti «neuroni occhio» (eye neurons), sensibili alla direzione dello sguardo e ai movimenti oculari di un «conspecifico», inclusa la momentanea dilatazione delle pupille. Dato che, ovviamente, gli occhi sono il veicolo principale per comunicare intenzioni e atteggiamenti verso gli altri, non era inatteso che circa il 15 per cento di tutti i neuroni sondati dalla Gothard nell'amigdala (circa 150 in tutto) siano specializzati nel registrare le informazioni contenute nello sguardo.
Atteggiamenti aggressivi, neutrali o amichevoli vengono registrati da questi neuroni. Taluni sono attivati da questi diversi tipi di informazione, mentre l'attività di altri neuroni viene soppressa. Ebbene, quattro di questi neuroni occhio sono unicamente sensibili allo sguardo-nello-sguardo. Mandano impulsi solo quando la scimmia fissa lo sguardo della scimmia che fissa la telecamera. Un'immagine statica del volto non eccita questi neuroni. È molto plausibile che tali neuroni esistano anche negli esseri umani, data la similitudine tra noi e le altre specie di primati.
Chiedo a Gothard quanti neuroni sguardo-nello-sguardo pensa siano presenti nel macaco. Mi risponde che le ricerche sono ancora in pieno svolgimento e che è plausibile esistano alcune centinaia di tali neuroni. Aggiunge una considerazione interessante: «Il numero di neuroni spesso non corrisponde all'importanza della loro funzione. Appena 600 neuroni nel ratto pilotano il ritmo della respirazione, una funzione di importanza capitale, mentre milioni di altri neuroni presiedono a funzioni molto meno vitali».
Le chiedo di parlarci un po' dell'amigdala in generale: «È un centro cerebrale che svolge molte funzioni. Valuta il significato emotivo di tutti gli stimoli che l'organismo riceve e modula le funzioni di tutti gli organi interni che rispondono a stimoli altamente significativi. Segnalare il contatto attraverso lo sguardo è solo una di queste funzioni». I suoi studi sull'amigdala, in oltre dodici anni, hanno messo in luce le diverse specializzazioni dei diversi gruppi di neuroni. Già ben noti, in una diversa area del cervello, chiamata area fusiforme, e ben presenti in noi, sono dei neuroni specializzati nel riconoscimento dei volti. Un danno cerebrale a quest'area produce un deficit chiamato prosopoagnosia, i soggetti ci vedono benissimo, ma non possono riconoscere le persone dal loro volto, nemmeno i più stretti familiari.
Un'area vicina, ma distinta, presiede al riconoscimento delle emozioni espresse dal volto. La neuropsicologa olandese Beatrice De Gelder, alcuni anni orsono, ha rivelato un dato sorprendente. Quando l'area fusiforme deputata al riconoscimento di volti è colpita, ma l'area delle espressioni resta intatta, questi soggetti mostrano, senza rendersene conto, di saper ben individuare le espressioni in quei volti che, si noti bene, non riconoscono come volti. Il loro cervello individua paura, disgusto, gioia o ira in quello che a loro appare solo come una macchia ovale indistinta. Chiedo come si rapportino a questi neuroni del volto i neuroni da lei scoperti. «Sono tipi di neuroni assai simili tra di loro, sintonizzati dall'evoluzione delle specie per servire i comportamenti sociali. Ci riconosciamo l'un l'altro e stabiliamo delle relazioni. Tanto le cellule del volto (face cells) che quelle dello sguardo mostrano una selettività molto raffinata per il significato dello stimolo, per le emozioni manifestate dal volto e dallo sguardo».
Le chiedo se si possono prevedere applicazioni pratiche, in special modo cliniche e diagnostiche, di questa scoperta. «Occorrono ancora ulteriori ricerche, prima di trovare tali applicazioni, ma questi neuroni possono diventare il bersaglio privilegiato per terapie volte a migliorare dei deficit nella socialità, disturbi dello sviluppo che accompagnano sindromi psichiatriche, come l'autismo, la schizofrenia e l'ansia nella socializzazione». Sottolinea che tutti gli animali sociali hanno nel loro cervello dei neuroni sensibili ai volti, perfino le pecore e le api. Forse, aggiungo io, il ben noto fenomeno dello sguardo che ci segue, in certe foto e in certi dipinti, attiva nella nostra amigdala proprio i neuroni scoperti dalla Gothard. Non vogliamo farci, però, installare quegli elettrodi, seppur più sottili di un capello, per averne una conferma definitiva.

Corriere La Lettura 28.10.12
A Boston si vota sul suicidio assistito
di Chiara Lalli


Il prossimo 6 novembre i cittadini del Massachusetts voteranno sul suicidio assistito. Se la maggior parte sceglierà per la legalizzazione, sarà il terzo Stato degli Usa, dopo l'Oregon e Washington, a permettere ai medici di prescrivere un farmaco letale. Il Massachusetts Death With Dignity Act consentirebbe ai residenti di scegliere di morire in caso di malattia terminale — o meglio di scegliere come morire nel caso in cui l'aspettativa di sopravvivenza sia inferiore ai sei mesi, le condizioni di vita siano insopportabili o il dolore intrattabile. Il dibattito, come sempre quando si discute delle decisioni di fine vita, è infuocato. A opporsi sono i gruppi religiosi, le associazioni di disabili — principalmente per ragioni di principio — e quelle mediche, che mettono in guardia dai possibili abusi e dalla inevitabile vaghezza di alcune condizioni stabilite. Di diverso avviso molte associazioni di pazienti e di malati di Aids. Per molti c'è il ricordo di un proprio caro alle prese con una grave malattia, per tutti il pensiero di che cosa farebbero se accadesse loro. La controversia va ben oltre la legalizzazione, ma investe l'autonomia individuale e il rapporto tra medico e paziente. Una paura diffusa riguarda il messaggio che deriverebbe dalla legalizzazione, il rischio di suggerire o peggio imporre la rassegnazione ai malati e di vedere aumentare le richieste. Per evitare questo la proposta prevede un'attenta valutazione della capacità di intendere e di volere e delle modalità della richiesta, oltre a stabilire come condizione necessaria la consapevolezza delle alternative. Inoltre può essere utile sapere che cosa è successo nel 2011 in Oregon e Washington (rispettivamente con 3 e 2,5 milioni di abitanti): in entrambi gli Stati poco più di 100 pazienti hanno chiesto la prescrizione, e circa 70 ne hanno fatto uso. È abbastanza frequente ascoltare dai malati che il solo sapere di potervi fare ricorso è rassicurante. Vi sono poi casi come quello del reverendo Tim Kutzmark, della Unitarian Universalist Church of Reading. Fortemente contrario quando studiava all'Harvard Divinity School, oggi è convinto che proibire il suicidio assistito sia una violazione della sacralità della vita. A fargli cambiare idea, secondo l'Associated Press, è stata la conoscenza del «mondo reale», soprattutto quello di un suo amico malato di Parkinson. Qualunque sia il nostro parere, il Death With Dignity Act ha il merito di offrire una sezione di definizioni dei termini necessari per la discussione, a partire da «medico» fino a concetti complessi come «capace» (di prendere decisioni in ambito sanitario) e «decisione informata», e di invitarci a riflettere su una questione profondamente mutata dall'avanzamento della medicina: la nostra morte.

Corriere La Lettura 28.10.12
Il Gulag, lo Sputnik e lo scarafaggio
Potenza e miseria del regime sovietico
di Antonio Carioti


La memoria dei campi siberiani, la piatta mediocrità della vita quotidiana Due facce diverse ma coerenti di un sistema che mortificava l'individuo
P er chi ha avuto l'occasione di visitare il mausoleo di Lenin, sulla Piazza Rossa di Mosca, le immagini più impressionanti del libro di Gian Piero Piretto La vita privata degli oggetti sovietici (Sironi) sono le foto che ritraggono il cadavere imbalsamato del leader bolscevico, nudo e senza più la maschera di cera che ne copre il volto e riproduce i lineamenti, immerso nella formaldeide per uno dei periodici lavaggi. Una sorta di manichino sventrato e verdastro, quasi la macabra icona della cruda realtà che si celava dietro l'immagine epica e oleografica che il regime dell'Urss cercava di trasmettere all'esterno.
Per la verità il lavoro di Piretto, dotato di uno straordinario apparato iconografico, riflette soprattutto i caratteri che la vita quotidiana del cittadino sovietico aveva assunto nella fase di assestamento e stagnazione seguita alla denuncia dei crimini di Stalin, quando il terrore di massa s'interruppe e l'universo concentrazionario del Gulag fu quasi completamente smantellato. Nelle sue pagine, ricche di annotazioni argute e curiose, alla retorica trionfalistica del potere non si contrappone l'atmosfera plumbea della repressione cruenta, ma la piatta mediocrità di una situazione materiale nella quale trovare beni di consumo era un terno al lotto (quindi bisognava tenere sempre con sé una borsa a rete per la spesa, nel caso si presentasse l'occasione propizia), la carta igienica era una preziosa rarità e anche i pantaloni a zampa di elefante o le cravatte troppo sgargianti apparivano un pericoloso segnale di atteggiamento decadente e filocapitalista.
Più rappresentativi del volto sinistro che il comunismo sovietico aveva assunto nella fase di presa del potere e di «costruzione del socialismo» sono altri due volumi. In primo luogo 1917. La Russia verso l'abisso di Ettore Cinnella (Della Porta), che depura gli eventi rivoluzionari da ogni alone romantico per mostrarne la sostanza di una immensa catastrofe sociale, dalla quale il partito di Lenin uscì vittorioso spingendo il Paese «verso l'imbarbarimento economico e politico». E poi l'interessantissimo Diario di un sorvegliante del Gulag di Ivan Cistjakov (Bruno Mondadori), testimonianza pressoché unica di un uomo che vestiva l'uniforme dei carnefici, ma in sostanza era vittima egli stesso di un contesto intollerabile per qualsiasi persona in grado di provare compassione.
Corredato da un saggio di Marcello Flores e dalla postfazione di Irina Scerbakova, il Diario raccoglie gli appunti quotidiani vergati tra il 1935 e il 1936 dal capo di un distaccamento armato che sorvegliava i forzati del Bamlag, l'enorme cantiere siberiano per il raddoppio della ferrovia Bajkal-Amur, ai confini con la Cina. Cistjakov venne poi arrestato a sua volta nel 1937 (non c'è da stupirsene, data l'insofferenza per il Gulag che tracima da ogni pagina) e morì al fronte nel 1941, combattendo i tedeschi. Il manoscritto è stato reperito dall'associazione russa Memorial, che si occupa di tener vivo il ricordo delle repressioni sovietiche, tra le carte di una sua lontana parente.
Percorso da un disagio crescente per il compito ingrato che l'autore deve svolgere in un contesto di sopraffazione generalizzata e in condizioni ambientali proibitive, con il termometro che arriva a -26 gradi già a metà novembre, il Diario registra i costi umani altissimi inflitti alla popolazione da un regime che si poneva ambiziosi obiettivi geopolitici di potenza, ma pretendeva di raggiungerli non valorizzando, bensì soffocando sistematicamente la creatività personale e lo spirito d'iniziativa dei suoi cittadini più attivi. Quando scrive che «in un sistema statalizzato, l'uomo non vale niente in quanto individuo», Cistjakov si mostra consapevole dell'effetto distruttivo di un simile programma.
Significativamente lo stesso meccanismo perverso si avverte all'opera, sia pure in termini di gran lunga meno tragici, nelle vivaci pagine di Piretto, dove all'orgoglio per le conquiste spaziali dello Sputnik o per la vittoria militare sul Terzo Reich (con il relativo carico di ridondanti decorazioni sul petto dei veterani) corrispondono la qualità scadente dell'industria conserviera o l'onnipresenza degli scarafaggi negli edifici sovietici, in un quadro contrassegnato dall'arte di arrangiarsi, spesso ingegnosa, come regola di vita.
Irina Scerbakova sottolinea giustamente una frase di Varlaam Shalamov: «Il lager è il calco della nostra vita». Il grande scrittore, ex prigioniero del Gulag, aveva intuito quanto la logica coercitiva fosse insita nel sistema dell'economia di comando, anche al di fuori dei lager. L'Urss non è stata solo sangue e terrore. Ma colpisce che il progressivo attenuarsi della repressione abbia coinciso con la decadenza del regime. E che il sincero riformismo di Mikhail Gorbaciov abbia accelerato, se non provocato, il suo sfacelo.

Corriere La Lettura 28.10.12
L'eloquenza del silenzio
Dilata i confini della nostra comprensione proiettandoci nell'ascolto più profondo
di Aldo Grasso


L'unica forma di silenzio che ci resta è infilarci le cuffie dell'iPod. Ma non è silenzio, è isolamento, una sottile forma di autismo sociale. Prima o poi, però, bisogna fare i conti con il silenzio; finora ci ha rubato troppo tempo il rumore. Ricordo che una decina di anni fa il «New York Times» aveva sigillato in un disco di nichel i suoni più rappresentativi del ventesimo secolo in modo tale che, nel 3000, i nostri discendenti potessero riascoltare la colonna sonora del chiassoso Novecento.
La «capsula del tempo», però, riservava una sorpresa: al posto di Elvis Presley, dei Beatles, dei Rolling Stones, di Bob Dylan, di Bruce Springsteen c'erano solo i rumori di un tosaerba, di un elicottero, di un motore a scoppio, di un ascensore che si ferma al piano, di un aereo che decolla, di uno sciacquone, di un clacson e altri simili. Rumori della quotidianità, rumori spesso fastidiosi, esasperanti, intollerabili. Come mai? Le case discografiche non avevano voluto concedere il copyright delle canzoni che avevano segnato la cultura musicale del secolo. Così l'astuzia della storia si era presa una rivincita decretando l'esecrato rumore come vero timbro sonoro dei nostri anni: il suono del lavoro, della vita che pulsa, della tecnica ma anche dell'insensibilità, della sparizione del silenzio.
Quando assisto a certi talk show mi viene da invocare il ripristino dei «silentiares». Nelle corti imperiali bizantine del IV secolo erano guardie che tutelavano il silenzio nella sala colloqui: la parola era sottoposta a rigido controllo, guai a sgarrare! Già, il silenzio riusciamo a definirlo solo attraverso il suo opposto.
Ne Il silenzio del corpo, Guido Ceronetti scrive che «chi tollera i rumori è già un cadavere». Per questo sono rimasto colpito da una notizia: nel Sussex un parroco ha registrato il silenzio della chiesa e ne ha prodotto «la sua pace» su cd. Trenta minuti di silenzio, registrato all'interno di una chiesa anglicana della campagna inglese, da riascoltare a casa per rivivere l'atmosfera sacra e accogliente di un edificio di 900 anni fa. Il cd si intitola The sound of silence (Il rumore del silenzio) come la vecchia canzone di Simon & Garfunkel (ma, prima, ci si doveva accontentare de La voce del silenzio cantata da Mina: «Ci sono cose in un silenzio che non m'aspettavo mai, vorrei una voce ed improvvisamente ti accorgi che il silenzio ha il volto delle cose che hai perduto…»).
Non avendo orecchio musicale, ho letto senza troppo costrutto le teorie sul silenzio di John Cage; una cosa però mi è rimasta: il silenzio non è un'assenza, non è un vuoto, il silenzio ha una sua grammatica, una sua pienezza. Il rapporto fra rumore e silenzio ricorda molto quello fra memoria e oblio. Che è uno dei nessi più inestricabili e complessi che la storia della cultura occidentale abbia tramandato; nei racconti, nelle manifestazioni, nelle polverose teche tutto sembra parlare a favore della memoria, la quale, a differenza dell'oblio, gode di una trattatistica esuberante. Una sorta di mitologia cupa avvolge invece le pianure dell'oblio e da sempre assistiamo alla lotta sorda che l'oblio combatte per riscattare la sua fama compromessa. E infatti Baltasar Gracián diffida della memoria nemica del silenzio, delle tenebre, del segreto.
Non avendo neppure particolare attitudine filosofica, non oso affrontare i «sovrumani silenzi» e la «profondissima quïete» di cui parla Leopardi, raccogliendo piuttosto il sacrosanto invito di Wittgenstein: «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Il silenzio è anche una forma di rispetto nei confronti della conoscenza cui invano aspiriamo, è accettazione della propria limitatezza.
Mi basterebbe capire perché non siamo più capaci, quando capita, di osservare un minuto di silenzio negli stadi o perché nel corso di un funerale ci abbandoniamo all'applauso. Il silenzio non ci appartiene più, non lo riconosciamo. Per esprimere quella cupa, muta e sorda ebetudine che tramortisce quando le grandi disgrazie premono, ci abbandoniamo a una sinistra euforia: sfogarci, applaudire.
Nel libro Per una storia del silenzio (edito da Mursia) Sergio Cingolani avverte che «più della metà della popolazione mondiale vive in ambienti con un livello medio di rumorosità superiore a 60 decibel, quindi assai lontana dalla possibilità di poter godere degli effetti del silenzio». Non conosciamo più cosa sia il silenzio, nemmeno nella quiete della campagna o della montagna: c'è sempre qualche fanatico del motocross che ci vuol far sapere che esiste.
Il capitolo più interessante del libro mi è parso quello dedicato al silenzio nelle regole monastiche. In quelle di Benedetto (480-547) sta scritto: «Facciamo quello che dice il Profeta: “Ho detto: custodirò le mie vie per non peccare con la mia lingua; ho posto una custodia alla mia bocca, ho tenuto il silenzio, mi sono umiliato e ho taciuto…». Dalla sua cella il monaco non può né vedere né sentire il suo vicino, l'architettura monastica è fatta per proteggere il silenzio, la meditazione, la taciturnitas. Il silenzio è una grande cerimonia, una liturgia. Dio giunge nell'anima che fa regnare il silenzio dentro di sé, ma rende muto chi si perde in chiacchiere.
La cultura laica pare poco interessata al silenzio. Per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali (maggio 2012) Benedetto XVI ha invece inviato un messaggio dedicato proprio al silenzio: «Il silenzio è parte integrante della comunicazione e senza di esso non esistono parole dense di contenuto. Nel silenzio ascoltiamo e conosciamo meglio noi stessi, nasce e si approfondisce il pensiero». Il Papa non ha proposto il silenzio come alternativa all'impegno nella comunicazione, non ha chiesto di spegnere la «musica passiva» (la musica non richiesta che ci assilla nei negozi, nei locali pubblici, negli ascensori, nelle spiagge…), non ha improvvisato una di quelle lezioni per dummies o per manager in cui ci viene spiegato, da una pubblicistica improvvisata, che «in una società in cui tutti parlano, tutti tentano di esprimersi sovrapponendo la propria voce a quella degli altri e in cui gli stimoli dei soggetti emittenti si moltiplicano spesso senza raggiungere i destinatari del messaggio il rischio dell'incomunicabilità cresce a dismisura». No, ha voluto ricordare che il silenzio parla, anche nelle moderne forme di comunicazione. Il silenzio è una scelta e a volte può essere l'espressione più eloquente della nostra vicinanza, della nostra solidarietà, della nostra attenzione verso un'altra persona.
Sul mistero del silenzio Gianfranco Ravasi ha scritto: «Il silenzio per sua natura è una realtà radicalmente ambigua. Da una parte esiste il cosiddetto "silenzio nero", che è l'assenza dei suoni, delle voci. Nella Bibbia si legge: "Quando Dio maledice un popolo, fa cessare il canto dello sposo e della sposa". Cassiodoro, nel VI secolo, scrisse nelle Istituzioni una frase folgorante e straordinaria: "Se voi continuerete a commettere ingiustizia, Dio vi lascerà senza la musica". Dall'altra parte invece esiste il cosiddetto "silenzio bianco". Nelle religioni è fondamentale il nome di Dio: da dire, da invocare. Israele, nell'Antico Testamento, introduce l'idea che vada taciuto. Il profeta Elia va sul monte Sinai per ritrovare le radici della sua vocazione e vuole scoprire Dio con l'imperio, abituale, della teofania: i tuoni, il terremoto che sommuove la terra, le folgori che scorticano gli alberi... Invece lo scopre nelle frase: "E alla fine ci fu il mormorio di un vento leggero". In ebraico abbiamo soltanto tre parole: "voce, silenzio, sottile". Dio è una voce di silenzio sottile. Da lì in avanti comincia la grande via del "silenzio bianco", che non è assolutamente il terrore di star soli. L'uomo di oggi non è più capace di star solo perché ha sempre davanti il vuoto».
Sarebbe interessante affrontare un'estetica del silenzio. In Forme del parlare, il sociologo Erving Goffman capovolge il senso comune e sostiene che «il silenzio è la norma e parlare è qualcosa che esige una giustificazione». Come molti della mia generazione, sono cresciuto frequentando i cineforum, guardando i film di Ingmar Bergman, in particolare la cosiddetta «Trilogia del silenzio di Dio» (Come in uno specchio, 1961, Luci d'inverno, 1961, e Il silenzio, 1963), dominata dal tema dell'incomunicabilità. Il silenzio di Dio si riflette nel silenzio degli uomini e delle donne, lascia spazio alla violenza fisica e verbale. Ne Il silenzio Anna ed Ester sono due sorelle che stanno tornando dalle vacanze assieme a Johan, il figlio adolescente di Anna. La loro meta è la Svezia ma devono attraversare un Paese sconosciuto sull'orlo della guerra. Il rapporto conflittuale tra le due donne esplode e dopo l'ennesimo litigio Ester, gravemente ammalata di tubercolosi, viene abbandonata dalla sorella al suo destino. Ma la vera tragedia è che Dio tace perché è l'uomo ad aver stabilito le regole di questo dialogo, ad aver fissato la misura delle sue richieste. Parliamo, cerchiamo affannosamente il rumore perché copra il silenzio che più ci spaventa.
Il silenzio ci appare oggi come un vuoto angoscioso, così angoscioso da preferirgli il rumore, il chiacchiericcio, persino l'acufene, la vera colonna sonora della modernità. Eppure, la nostra epigrafe sarà solo quella dettata da Ceronetti: «La vita rimescola dati e dadi; l'ultima parola, su tutto, la dirà il silenzio».