lunedì 29 ottobre 2012

l’Unità 29.10.12
Bersani: «Il populismo fa male all’Italia»
Il leader Pd a «Domenica In» lancia l’allarme per le nuove minacce del Cavaliere
Primarie confermate
di Simone Collini


ROMA È «preoccupato», certo, perché «di populismo ne abbiamo avuto e ne abbiamo già un bel po’, e un centrodestra su queste posizioni non farebbe bene al Paese». Ma al di là di quel che Bersani dice in pubblico, c’è anche altro. Una certa soddisfazione, per esempio. Il ritorno in campo di Berlusconi, con quei toni, con quell’attacco a Monti, è infatti per il leader del Pd un elemento che gioca tutto a favore del centrosinistra. Primo, perché come ha commentato a caldo con i suoi dopo aver ascoltato il discorso di Villa Gernetto, «con quelle parole Berlusconi ha tolto ogni possibilità al Pdl di tornare in gioco». E secondo, perché ora l’ipotesi di un’alleanza tra Alfano e Casini appare definitivamente archiviata, mentre ora ci sono più spazi per quel patto di legislatura tra progressisti e moderati su cui da tempo lavora Bersani. «Ci rivolgiamo con apertura ad un centro che non si lasci incantare dai pifferi del populismo», spiega il leader del Pd parlando a “Domenica In”. E il modo in cui Casini commenta il ritorno in campo dell’ex premier fa ben sperare.
Ad unire il leader democratico e quello dell’Udc in questa fase, oltre al giudizio negativo nei confronti dell’uscita berlusconiana («Berlusconi deve prendere atto che dopo tanti anni i risultati non ci sono stati dice Bersani intervistato da Giletti su Rai 1 e poi potrebbe accontentarsi, ha governato più di De Gasperi, ha il record, ora questo Paese ha bisogno di guardare avanti») è la volontà di arrivare alla scadenza naturale questa legislatura. «Potevo andare alle elezioni otto, dice mesi fa quando eravamo sull’orlo del baratro, noi invece abbiamo messo avanti gli interessi del Paese». Lavorando per l’arrivo di Monti, che per Bersani nel 2013 «è candidabile a tantissime cose, nessuna esclusa» (leggi Quirinale), ma che intanto ora è finito nel mirino di Berlusconi.
Il fatto che l’ex premier non escluda l’intenzione di togliere la fiducia a Monti desta preoccupazione sia in casa Pd che Udc. Bersani confessa di non saper dire cosa possa succedere nelle prossime settimane: «Prevedere Berlusconi è impresa complicata». Però ora si guarda con preoccupazione ai prossimi passaggi parlamentari: la votazione degli emendamenti alla legge di stabilità, ma soprattutto la discussione sul disegno di legge anti-corruzione, che comincia questa settimana alla Camera. Il Pdl ha già fatto sapere (per bocca del deputato D’Alessandro) che se il governo dovesse decidere di mettere la fiducia, i no tra i loro banchi non mancheranno. Ed è su questo passaggio che ora si focalizza l’attenzione di chi teme che dopo la sentenza di Milano, Berlusconi voglia staccare la spina al governo.
LE PRIMARIE SI FANNO IN OGNI CASO
Bersani non intende però modificare la road map che ha pianificato nei mesi scorsi, dopo l’uscita dell’ex premier. Se Berlusconi ha confidato ai suoi che le primarie del Pdl non si faranno, il leader del Pd ha già chiarito nei colloqui che ha avuto in queste ore che qualunque cosa accada nelle prossime settimane la sfida ai gazebo per scegliere il candidato premier del centrosinistra si terranno, il 25 novembre con eventuale secondo turno (nel caso nessun candidato incassi il 50% più uno dei voti) la domenica successiva.
La scelta di organizzare le primarie viene rivendicata da Bersani, che nel corso dell’intervista a “Domenica In” ribadisce di averle volute «per l’Italia»: «Se la politica non mostra di voler rischiare qualcosa non ne veniamo fuori. È un segnale. Non ho voluto che ci chiudessimo. E da quando abbiamo lanciato le primarie il Pd sta crescendo». Anche la discussione che si è innescata all’interno del suo partito viene giudicata positivamente da Bersani, che però fa un paio di appunti a Renzi. Il primo: «Sento argomenti che sembrano arrivare da avversari». Il secondo: «Attenzione a non convincersi di dare per nuove ricette che, sia dal punto di vista dei contenuti che da quello della comunicazione, erano degli anni 80 e 90».
Il leader del Pd sarà oggi a Firenze, ma non si incontrerà col sindaco, che si muoverà in camper tra Sondrio, Como e Milano. Bersani visiterà l’azienda Selex Elsag, all’interno della quale parteciperà al pranzo nella mensa aziendale, prima di incontrare i lavoratori di un’altra azienda (la Nuovo pignone) e poi spostarsi a Prato e Arezzo. Domani il segretario democratico andrà invece in Campania. La prima tappa, prima di passare ad Avellino e Benevento, è a Villa di Briano, in provincia di Caserta, dove c’è la villa confiscata al boss Antonio Iovine. È previsto l’incontro con rappresentanti di diverse associazioni impegnate nella lotta contro la camorra.

l’Unità 29.10.12
Uguaglianza e opportunità le vere sfide della sinistra
di Luca Baccelli


NON È VERO CHE LA CAMPAGNA PER LE PRIMARIE DEL CENTROSINISTRA È SOLO COMPETIZIONE PERSONALE e scontro sulle regole. I media hanno dato più risalto a polemiche e ricorsi, ma in realtà sono emerse questioni chiave in termini di contenuti e di principi. Come il tema dell’eguaglianza e delle opportunità: si tratta di mettere tutti nella stesse condizioni sulla linea di partenza o le istituzioni pubbliche devono intervenire anche durante il percorso, per far sì che all’arrivo non ci siano eccessive diseguaglianze? Norberto Bobbio, in suo libretto di grande successo, sosteneva alcuni anni fa che è l’ideale dell’eguaglianza a connotare la sinistra rispetto alla destra. Sono di sinistra coloro che «pur non ignorando che gli uomini sono tanto eguali che diseguali, danno maggiore importanza, per giudicarli e per attribuire loro diritti e doveri, a ciò che li rende uguali piuttosto che a ciò che li rende diseguali». Eppure in questi anni di eguaglianza si è parlato poco, anche a sinistra. Da un lato si è gettato l’anatema sull’egualitarismo, visto come uno dei frutti più avvelenati del sessantotto, del presunto strapotere sindacale negli anni settanta, dello statalismo, come il nemico mortale della meritocrazia e dell’intraprendenza individuale. E così, dalla «Terza via» di Blair in giù si è guardato con attenzione all’idea dell’eguaglianza delle opportunità (un congresso del Pds è stato dedicato al «Welfare delle opportunità»).
Nel frattempo, in un Paese senza mobilità sociale come il nostro la destra ci ha messo del suo per aumentare la diseguaglianza delle opportunità, dall’attacco alla scuola all’abolizione dell’imposta di successione. D’altro lato a mettere in ombra l’uguaglianza ha contribuito la prepotente affermazione sulla scena politica del tema delle differenze di genere e culturali; perché non sempre si è avuto cura di distinguere fra differenza e diseguaglianza, e ci si è spesso dimenticati che l’eguaglianza economica è una condizione che favorisce l’affermazione – pacifica – delle differenze.
La crisi globale riporta alla ribalta l’eguaglianza. È sempre più difficile oscurare quella colossale redistribuzione negativa di reddito dal lavoro alla rendita, quell’impressionante aumento della forbice sociale che si è consumato in questi anni. Ma il tema ha un profilo teorico molto profondo, che affonda le sue radici alle origini del pensiero occidentale.
Nella tradizione antica e medievale l’idea della naturale diseguaglianza è senso comune. Gli uomini, insegna Aristotele, sono diversi fra loro e per questo complementari, reciprocamente dipendenti. La socievolezza si origina dal bisogno reciproco; ma la differenza si volge immediatamente in diseguaglianza. Il maschio e la femmina hanno bisogno l’uno dell’altra per la riproduzione, ma questo si risolve in una «naturale» subordinazione delle donne; e su questa via si arriva all’idea della schiavitù per natura.
«Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti», recita l’articolo 1 della Dichiarazione universale dei diritti umani. L’idea della naturale eguaglianza è alla base della filosofia politica moderna. Nel Seicento è Thomas Hobbes a definire una visione dell’uomo specularmente opposta a quella tradizionale: gli uomini sono eguali e desiderano le stesse cose. Ma le risorse sono scarse e il modo più «economico» di procurarsele è usare la forza; di qui l’impossibilità della socialità e la conflittualità continua di tutti contro tutti. Da questa situazione si esce solo con l’istituzione del potere statale, attraverso il completo trasferimento al sovrano dei diritti individuali. È solo la spada del Leviatano a rendere possibile l’ordine e imporre l’unica forma di socialità possibile, quella indotta dalla paura della punizione.
Da una parte una visione sociale dell’essere umano che assume le differenze naturali come radice della complementarietà ma le declina, immediatamente, in termini di sovraordinazione e di subordinazione, fino agli estremi della schiavitù naturale e della naturale inferiorità delle donne; dall’altra parte l’eguaglianza naturale rimanda ad un’antropologia dell’isolamento, se non del conflitto onnipervasivo e generalizzato, mentre i diritti naturali appaiono come proprietà del singolo, ad esclusione degli altri. È un dilemma sconfortante. Ma nel pensiero moderno non c’è solo questo.
Nel Settecento Adam Ferguson parla del «senso di eguaglianza che non tollera alcuna violazione dei diritti personali dell’ultimo cittadino, lo spirito che disdegna di chiedere protezione e non accetta come un favore ciò che gli è dovuto come diritto». L’accento si sposta dalla condizione naturale di eguaglianza al sentimento di eguaglianza; in Hobbes l’eguaglianza naturale era alla radice della paura e della conseguente necessità di trasferire i diritti al sovrano; qui il sentimento dell’eguaglianza è all’origine della tutela attiva degli individui dal dominio, e i diritti esprimono l’attivismo dei cittadini in difesa della libertà. La virtù civica mostra un tratto indelebile di attivismo e si esprime nella capacità di mobilitazione: adagiarsi sul godimento dei diritti statuiti è un rischio per la libertà: occorre la costante disposizione ad «opporsi agli oltraggi» e a difendere la libertà. Ferguson propone dunque una visione dell’eguaglianza come valore da perseguire e obiettivo per le istituzioni, risultato di un processo che implica il conflitto sociale.
L’articolo 3 della Costituzione della Repubblica italiana afferma l’eguaglianza e la pari dignità dei cittadini di fronte alla legge. E aggiunge: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Qui l’eguaglianza sociale è vista come un processo, un obiettivo da raggiungere, e implica sia la partecipazione dei cittadini che l’azione delle istituzioni pubbliche.
Lelio Basso – il costituente che ha redatto l’articolo 3 – lo dichiarava esplicitamente: il secondo comma riconosce che l’eguaglianza nella società non c’è e pone all’ordinamento giuridico il compito di realizzarla; «l’ordine giuridico è in contrasto con l’ordine sociale perché l’ordine giuridico (articolo 3) vuole l’uguaglianza ma riconosce che l’uguaglianza non c’è. Quindi riconosce che in Italia c’è un ordine sociale di fatto che è in contrasto con l’ordine giuridico». Ciò significa, fra l’altro, introdurre nell’ordinamento «elementi antagonistici alla logica capitalistica», aprendolo alle istanze dei conflitti sociali. E in effetti, a Bobbio si potrebbe replicare che nella ragione costitutiva della sinistra non c’è solo l’obiettivo dell’eguaglianza sostanziale ma anche l’istanza del cambiamento.

l’Unità 29.10.12
Anche sui cavalli di battaglia della destra la propaganda sembra non pagare più
Più consensi ai temi e ai valori di centrosinistra
di Carlo Buttaroni
Presidente Tecnè


Dopo la condanna nel processo Mediaset, Berlusconi torna in campo. E dà inizio a un’altra partita. Chiarisce che non si candiderà a premier ma, per evitare equivoci, ammonisce anche che valuterà se ritirare l’appoggio al governo Monti.
Se dall’estero guardano increduli alle vicende italiane, non c’è da stupirsi. Nei Paesi a democrazia avanzata chi subisce una condanna soprattutto per un reato grave esce dalla scena politica e non rivendica un ritorno da protagonista. In Italia inspiegabilmente, invece, accade il contrario. E certi fatti ci allontanano dal centro dell’Europa più dello spread e del debito pubblico. A febbraio di quest’anno, per esempio, il ministro inglese Chris Huhne responsabile del dicastero dell' Energia si è dimesso perché accusato di aver mentito su chi era alla guida della sua automobile, multata per eccesso di velocità. Il comportamento di Huhne, suscita, inevitabilmente, un’umana simpatia. E anche un po’ d’invidia per quanto avviene oltremanica. Tutt’altra cosa rispetto a quanto accade in Italia, dove il sentimento prevalente è la rabbia, l’indignazione e la sfiducia. Se anche avesse un fondamento la “magistratocrazia” che Berlusconi denuncia e l’accanimento giudiziario nei suoi confronti, le parole dell’ex premier, nei modi e nei toni, tolgono ogni potenziale valenza politica a quanto afferma e sembrano più una difesa estrema rispetto alle vicende che lo vedono coinvolto. Anche perché, se la giustizia fosse realmente uno strumento di lotta politica, come sostiene Berlusconi, sarebbe una condizione mortale per la democrazia. Ma allo stesso modo non ci sarebbe democrazia se la politica fosse usata contro il potere giudiziario. Significa che ogni confine sarebbe dissolto, che i poteri prevaricherebbero gli uni sugli altri, ben oltre i limiti costituzionali, senza alcun equilibrio e senza alcun controllo. Le parole di Berlusconi fanno riflettere, perché o è vero che c’è stata, in questi anni, la prevaricazione del potere giudiziario su quello politico, oppure è vero il contrario. In entrambi i casi significa che l’Italia non è una democrazia compiuta. E questo è troppo, anche per un Paese che si è progressivamente assuefatto, negli ultimi anni, a comportamenti impropri, insulti, vilipendi, volgarità e inciviltà di ogni tipo.
Il governo Monti annunciava una stagione nuova. Una svolta nello stile prima ancora che nelle scelte politiche. Le parole di Berlusconi spostano indietro le lancette dell’orologio e avvolgono il Paese in una nebbia impalpabile di sospetti e domande che difficilmente potranno trovare risposte. Un’atmosfera che corrode gli argini dove scorre la democrazia, avvelena le falde da cui si alimenta la politica, inquina l’aria della convivenza civile. È in quest’ambiente rarefatto di etica, dove tutto somiglia al suo contrario, che hanno preso forma stili di vita improbabili e comportamenti impensabili in un Paese democratico. Come quelli che hanno visto protagonisti alcuni personaggi politici, accusati non di corruzione o di aver accettato tangenti, ma di aver usato in modo improprio soldi e potere, di aver badato soprattutto ai propri interessi personali, di aver abusato del proprio ruolo e del proprio mandato. Non stupisce se al posto della politica ci sono ostriche e champagne, auto di lusso, feste e vacanze. Se la prima Repubblica si era chiusa con Tangentopoli, la seconda ha il suo tragico epilogo in “arraffopoli”. Un sistema di malcostume irritante, che si è diffuso nell’atmosfera, più che nelle circostanze penalmente rilevanti. Non è un caso che la percezione negativa della politica sia peggiore della realtà. Secondo uno studio effettuato per il Ministro della Pubblica Amministrazione, l’Italia è agli ultimi posti nel mondo in quanto a corruzione percepita, al pari del Ghana e della Macedonia. In Europa è superata soltanto dalla Grecia. È inevitabile che sia così. Se i comportamenti di alcuni politici nulla hanno a che fare con il bene comune, se s’inquina l’atmosfera di ogni genere di sospetto, come possono i cittadini avere la sensazione che la politica si occupa di loro? Con le sue parole Berlusconi traccia una linea che sposta i termini del confronto politico che stava faticosamente maturando nel nostro Paese, riportandolo esclusivamente su di sé. L’Italia ha bisogno di diventare un Paese normale, dove si confrontano posizioni politiche diverse. In questo momento per l’opinione pubblica esiste un solo campo politico definito chiaramente: quello del centrosinistra. Il resto è un cantiere, dove confluiscono una moltitudine di progetti e propositi, senza che sia evidente un percorso o un filo conduttore che risponda ai bisogni del Paese.Che in campo ci sia solo il centrosinistra si capisce chiaramente nel momento in cui le differenze politiche tra i partiti risultano più chiare rispetto al passato e su tutti i temi, che costituiscono l’agenda politica del Paese, il centrosinistra risulta più convincente: da quelli sociali a quelli ambientali, da quelli che riguardano lo sviluppo economico alle politiche per il lavoro. Persino rispetto a tematiche dove il centrodestra era tradizionalmente più forte, come quello delle tasse, della sicurezza e del contrasto all’immigrazione clandestina, il centrosinistra ispira più fiducia, raccoglie più consensi, più attenzioni. Più che dalle intenzioni di voto è da questi indicatori che si può comprendere il punto di ricaduta dell’attuale situazione politica. Il centrosinistra è in vantaggio nei consensi perché lo è soprattutto sugli aspetti che riguardano il futuro del Paese. Anche perché, nel campo opposto, non c’è alcuna proposta, niente da mettere in campo che prefiguri una visione alternativa. L’ipotesi di un Monti-bis o di un nuovo governo tecnico dopo le elezioni politiche, in condizioni normali, sarebbe tramontata prima ancora di prendere corpo se il confronto politico si limitasse alle proposte di governo.
Ma il ritorno di Berlusconi traccia una linea che cambia gli equilibri e i baricentri dei partiti, proprio mentre era in corso un percorso di ricostruzione del centrodestra e di un’area moderata di centro. Il rischio adesso è di un nuovo inasprimento della competizione su piani che non costituiscono proposte politiche, ma che ruotano ancora intorno alla figura di Silvio Berlusconi. Mentre la drammaticità della crisi, il suo inasprimento in termini economici e sociali, richiederebbe un governo forte politicamente, che abbia idee e programmi alternativi da offrire ai cittadini. Perché in gioco c’è il futuro del Paese e la tecnica dei professori da sola non può bastare a vincere le sfide che l’Italia ha davanti. Ci sarebbe bisogno di un centrosinistra e di un centrodestra che si misurano sulle cose da fare, come avviene nel resto d’Europa, mentre ancora una volta l’appuntamento elettorale rischia di non riuscire a liberarsi dai fantasmi del passato e dall’incertezza di un futuro che torna ad avvitarsi su se stesso.

l’Unità 29.10.12
Serra contro Bersani. E lui: dia consigli a Cameron


«Non ho dubbi sulle capacita morali o industriali di Bersani ma in questo momento non credo sia adeguato» a guidare il Paese mentre «Matteo Renzi ha più capacità ed esperienza». È quanto sostiene Davide Serra a “In mezz’ora” di Lucia Annunziata. Il finanziere del fondo Algebris respinge l’accusa di essere uno speculatore o un evasore solo perché una delle sue società ha base alle Cayman, noto paradiso fiscale. Ribadisce che lui le tasse le paga in Inghilterra e fa sapere di essere rimasto sorpreso del «can can mediatico» innescato dalla sua cena di finanziamento per Renzi. Algebris opera «con un veicolo legale» per gli investimenti alle Cayman (isole sulla lista nera dei paradisi fiscali) ma «l'Inghilterra ha deciso, essendo uno dei centri della finanza globale, che tutti i ricavi ovunque al mondo vanno consolidati in Inghilterra e noi ci paghiamo il 53%
di tasse», spiega Serra.
Le parole del finanziere vengono riportate poco dopo a Bersani nel corso dell’intervista a “Domenica In”. «Renzi più esperto di me? È un'idea singolare ma che ha piena cittadinanza», dice con un sorriso. E la polemica su quella cena? «Ho solo detto “basta farci consigliare, farci dare le slide da soggetti della finanza che hanno base altrove. Va bene la finanza ma al comando ci deve essere l’economia reale”». E D'Alema che andò alla City?, chiede Giletti. «Ci andò ma non si fece dare le slide da un hedge fund».
Quanto a Serra, e alla spiegazione che ha dato della sua posizione fiscale, Bersani dice: «Se paga le tasse in Inghilterra, desse i consigli a Cameron prima di darli a me. Poi non ho niente contro nessuno, voglio lavorare con la finanza ma adesso le ricette bisogna che le discutiamo un po’ noi».

l’Unità 29.10.12
L’etica berlusconiana di Flores d’Arcais
Per il filosofo, Renzi è insopportabile ma ha deciso di votarlo per far esplodere il Pd
In questo modo vuole calpestare la libertà costituzionale di milioni di cittadini di sinistra
di Michele Prospero


BERLUSCONI SI È VANTATO DI AVER INTRODOTTO NELLA POLITICA UNA MORALITÀ SUPERIORE. Con la sua testimonianza crede di aver scavalcato la fragile scissione moderna tra pubblico e privato. Ma ieri su Il Fatto Paolo Flores d’Arcais ha costruito le basi filosofiche di una nuova morale e al caimano tocca impallidire come campione di una bella eticità. Con la sua intransigenza della bugia, e con la ricetta del cinismo costituzionale, Flores scavalca l’Italietta dei compromessi meschini e fonda «un illuminismo di massa» che porta a compimento una rivoluzione liberale.
L’occasione storica per la rivincita postuma dell’azionismo per Flores è data dai gazebo.
Con l’arma contundente della bugia e del cinismo, egli propone di partecipare alle primarie del Pd fingendo di aderire al programma, ma solo per aiutare Renzi e poi però votare Grillo alle elezioni. Gobetti sarà di sicuro entusiasta dinanzi alla profondità di una siffatta penna filosofica che con una vocazione al fondamento ultimo disegna una etica nuova basata sulla menzogna.
La politica si sa è piena di mestieranti privi di saldi principi morali. Per fortuna che una nitida etica della convinzione anima invece il direttore di Micromega. Con la sola forza della ragione critica si mostra capace di aggirare anche la stanca regola della non contraddizione aristotelica e di penetrare così nell’inattingibile con sorprendenti balzi sofistici. Renzi è per Flores «insopportabile», è un «Berlusconi formato pupo» che riduce la politica a merce, a spot, a spettacolo. Per chi votare allora alle primarie per distruggere la videopolitica? Ma per Renzi. La vile ragione comune aggrappata ai dati sensibili tentenna dinanzi a questo salto logico, ma la ragione etica di un illuminista di massa come Flores è edificante nel santificare la Verità della bugia e nel riscoprire il Vero nel cinico.
Chi ama la Fiom come il soggetto di un nuovo radicalismo politico cosa deve scegliere ai gazebo? L’oracolo Flores non ha esitazione: bisogna stare tutti con il sindaco di Firenze, anche se «è un fan di Marchionne stile curva sud». La ragione volgare e ancorata ai dati materiali ancora una volta vacilla, ma quella di un illuminista di massa gongola come vicina al fondamento.
Per questo gusto della bugia l’articolo di ieri è una memorabile tappa della filosofia morale. Un capitolo così elevato di etica pubblica bisognerà proporlo nei manuali di educazione civica come energetico per la gioventù in cerca di valori forti. Il Fatto e il suo filosofo hanno fondato valori ultimi che non cadranno mai nell’oblio: lo «spergiuro» a fin di bene, e il «cinismo costituzionale» per distruggere la sinistra che con le primarie.
Con il topo di biblioteca Denis Verdini come antesignano di un luminoso percorso di ragion pratica, Il Fatto vuole andare ai gazebo per far vincere Renzi e ridurre il Pd a un «sacchetto di coriandoli», non prima di aver fatto di tutta la sinistra una «tabula rasa». Con la sua moralità illuminista che intende calpestare la libertà costituzionale di milioni di cittadini di sinistra, Flores, come i suoi scolari di destra, non dovrebbe avere la possibilità di accedere ai gazebo.
Non le odiate nomenclature glielo impediscono, ma la giurisprudenza della Corte Suprema degli Stati Uniti. Dinanzi a una esplicita minaccia orchestrata da chi vuole inquinare il voto, il costituzionalismo americano esalta il sacro diritto, proprio di ogni associazione democratica, di escludere i nemici che tentano devianti scalate (è lecito «richiedere una registrazione con un ragionevole anticipo rispetto alla data delle primarie»). Ha ammesso inoltre anche misure efficaci per impedire che degli avversari politici (come i seguaci di Flores) partecipino alle primarie solo per alterare il gioco.
Per la Corte Suprema, se in vista di una elezione «il candidato del partito viene scelto dai non aderenti al partito, ciò significa distruggere il partito». E cioè calpestare una libertà fondamentale del cittadino. Se proprio ha tanta voglia di gazebo, Flores chieda al suo idolo pagano Grillo di convocarli. Con la sua «argomentazione razionale» provi prima a convincere Casaleggio.

l’Unità 29.10.12
Dove sono i cattolici?
Le domande scomode di Scoppola al Pd
di Beppe Tognon

Presidente della Fondazione trentina Alcide De Gasperi

LA POLITICA ITALIANA È AD UN BIVIO IMPORTANTE: DOVE SONO I CATTOLICI? SOCCOMBERANNO ANCHE LORO SOTTO IL FALLIMENTO DEI PROGETTI POLITICI avviati vent’anni fa o sapranno svilupparne alcuni su basi nuove? La scelta è importante oggi soprattutto per la sinistra: se riprenderà la guida del governo non può far finta di non vedere che ciò avverrà senza un grande progetto e soprattutto con un Pd in crisi di identità.
Lo spettacolo di una classe dirigente italiana che ha sostanzialmente fallito, non soltanto in Parlamento, sarebbe meno preoccupante se almeno il Pd fosse stato messo in sicurezza sui binari di una prospettiva politica solida, con una vita democratica interna sana e con una selezione attenta del gruppo dirigente. Se così fosse stato, le primarie per la guida del governo avrebbero avuto il senso di un congresso preparato dentro il partito e celebrato tra i cittadini e non come invece saranno di un congresso sulla fine del partito, conferma imponente ma impotente della sua inconsistenza. Se vince Bersani il partito sarà il puntello di un governo di coalizione fragile; se vince Renzi invece questo Pd non potrà esistere più e non è tuttavia chiaro che cosa diventerà.
Nel Pd sale la corrente di chi non vuole vedere la crisi del progetto socialdemocratico e «salta» Monti che in questo momento rappresenta la dura realtà del Paese sognando una discontinuità che per i vincoli internazionali e per la situazione economica non potrà esserci. Fuori dal Pd sale la corrente di chi invece vuole, dietro Monti, mandare in soffitta il bipolarismo ma non spiega come si possa governare il Paese senza grandi partiti. Questa corrente, ancora magmatica, dice che i vecchi partiti sono morti, ma non presenta alternative degne di nota. Spera in sostanza di lucrare dalla disgregazione della destra. Una situazione politicamente interessante, ma molto ambigua, perché Monti, che in realtà è l’emblema di una politica obbligata diventa in questi mesi il pretesto per coprire il fallimento di un ventennio di transizione e di tutte le famiglie politiche, anche dei cattolici.
In un Paese normale la fine di un governo di emergenza segnerebbe l’avvento di una nuova stagione, come fu dopo la Liberazione, e come fu tentato dopo Mani pulite, con l’emergere di personalità politiche che a capo di partiti popolari si assumono la responsabilità di aprire una fase nuova. È stato il caso di De Gasperi che solo dopo essersi imposto come capo della Dc si impose come capo dei governi della ricostruzione. La domanda allora è molto semplice: la nuova leadership politica italiana può sorgere dall’attuale governo? Avrà come orizzonte la costruzione di una grande sinistra? O invece aprirà le porte alla ricomposizione di un nuovo soggetto di centro destra? Può Monti o un altro più forte di lui ripetere sulla sinistra l’operazione che fece De Gasperi nel riunire tutti i moderati intorno alla Dc? Può Monti riuscire dove non riuscì Prodi che rinunciò alla fatica di dotarsi di una sua forza politica?
Rispondere a queste domande significa riprendere i ragionamenti di maestri come Pietro Scoppola, scomparso proprio 5 anni fa quando fu battezzato il Pd, per la cui nascita si era speso con generosità, preoccupato già allora per la mancanza di rigore democratico. Scoppola, che sognava il «partito nuovo» liberato da ogni pretesa gramsciana di egemonia e dotato di un’anima quasi rosminiana di serena accettazione della realtà accompagnata da grande intransigenza nel rispetto della coscienza morale dei cittadini fu lo storico che ha saputo spiegare De Gasperi ai suoi successori democristiani, ma anche ai comunisti e ai molti intellettuali che avevano liquidato il decennio del centrismo come una esperienza «obbligata» e politicamente poco interessante o addirittura reazionaria. Anche per merito della rilettura di Pietro Scoppola, noi sappiamo che nelle corde di De Gasperi c’era una fortissima tensione ideale ma non c’era la pretesa di dare al popolo italiano, anziché sicurezza, benessere e pace, come fece, una visione della storia e una collocazione internazionale diversa da quella che la nazione aveva meritato o poteva permettersi. Non c’erano tentazioni presidenzialiste ma nemmeno cedimenti al tatticismo. Non fu sconfitto dalla Storia, ma dal suo partito.
Quali sono oggi le risorse, i volti, che i cattolici italiani possono offrire ad una ricostruzione complessiva del quadro democratico del Paese? Più che dei «resti» cattolici che vogliono riunirsi per il momento intorno a Monti sarebbe bene parlare dei cattolici in tutti i partiti, e in particolare nel Pd che sarà il perno del futuro governo. Che cosa fanno per dare voce alle attese dei credenti? Il papato è saldo, scriveva Scoppola, ma le chiese sono vuote; Cristo parla al cuore degli uomini, ma la Chiesa sembra parlarsi addosso, notava il cardinale Martini. Occorre aiutarla. Con il Concilio i cattolici hanno ridefinito la loro laicità politica e proprio perché non possono più nascondersi semplicemente dietro la fede devono prendersi a cuore le questioni meno amate dai potenti e più difficili da risolvere.
Nell’imminenza di una campagna elettorale importante, invece di riunirsi a discutere in astratto sull’impegno politico, avrebbero l’opportunità di trovare prima delle elezioni una posizione chiara almeno su tre questioni: sulla legge elettorale per riqualificare la Rappresentanza politica (e non invece manovrare per far sì che dalle elezioni non esca un vincitore); sulla politica fiscale per responsabilizzare il Tesoro e l’ Amministrazione (non le banche o le imprese che devono fare profitti) su obiettivi sociali veri; sulla Formazione, per dimostrare che l’istruzione e i beni culturali sono il fondamento delle libertà future e dell’unità del paese. Valga come programma politico di base il rovesciamento della terribile regola dei due terzi: i due terzi della società che insieme hanno meno del terzo dominante siano serviti dal governo e dalle leggi come se valessero tre terzi. Il potere del terzo dominante, determinato dalle logiche sempre più dure del mercato, che non sono da demonizzare, non verrebbe rovesciato ma controbilanciato da quel principio antico della democrazia che dice che le leggi e gli atti di governo sono il volante e non le ruote del corpo sociale.
I politici che si rifanno a De Gasperi o a Moro non possono farsi riconoscere soltanto per essere dei tattici, abili a sfruttare la scia degli eventi e a unirsi o a dividersi sull’onda del momento dietro a questo o quel capo, per sopravvivere o saltare le tappe di una carriera, ma dovrebbero essere i più esigenti e i più trasparenti tra i politici italiani. Più che di una coalizione che vince, e poi si vedrà, c’è bisogno che i cattolici che si assumeranno la responsabilità di governare dicano in che modello di democrazia credono e se ritengono di rimanere fedeli alla Costituzione repubblicana.

Corriere 29.10.12
Lo strappo del Cavaliere aiuta il Pd. E parte un nuovo assalto ai moderati
di Maria Teresa Meli


ROMA — La verità la dice su Facebook il direttore di «Europa» Stefano Menichini: «Bersani brinda. Ora per il Pd la campagna elettorale è più facile». Già, perché il ritorno del Cavaliere furioso permette al Partito democratico di giustificare l'alleanza con Sel e ricompattare il centrosinistra in nome dell'antiberlusconismo. Non solo: dopo l'uscita dell'ex premier sarà difficile per i moderati e per Casini giocare di sponda con il Pdl. Senza contare il fatto che con la sua mossa Berlusconi ha «regalato» Mario Monti al centrosinistra.
E l'offerta di andare alle elezioni anticipate con il Porcellum non interessa al Pd? Bersani scrolla la testa: «Se le avessimo volute le avremmo avute dieci mesi fa... tutte balle. Piuttosto io guardo con preoccupazione alle mosse di Berlusconi, perché mi pare che di populismi in questo Paese ce ne siano già tanti. Comunque, questa è la conferma della bontà del nostro progetto politico: l'unica possibilità è un'alleanza tra progressisti e moderati per ricostruire il Paese».
Sulla questione delle elezioni anticipate anche Enrico Letta è fermo: «Con Berlusconi non abbiamo mai fatto patti quando era a palazzo Chigi e non ne faremo di certo adesso». Per il vice segretario del Pd, in realtà l'uscita dell'ex premier non ha ripercussioni sul Partito democratico, bensì sul Pdl: «Ma io credo che le loro primarie siano irreversibili: Berlusconi non riuscirà a bloccare quello schema».
Dunque il centrosinistra non è interessato all'offerta delle elezioni anticipate: «Noi non staccheremo certo la spina», osserva Francesco Boccia, che aggiunge: «Tra l'altro noi non possiamo certo tenerci il Porcellum perché sarebbe come offrire un assist a Grillo». E da buon lettiano, Boccia sottolinea: «Quello che è successo rafforza l'opzione dell'alleanza del Pd con i moderati, che a questo punto non possono certo andare con Berlusconi, e Vendola dovrà seguire Bersani su questa strada». Una prospettiva su cui si soffermano in molti nel Partito democratico. Ad esempio, Paolo Gentiloni: «Per noi è sempre più chiara l'impossibilità di un bis dell'attuale coalizione che regge il governo e diventa invece impellente la necessità di una grande maggioranza politica tra un Pd non schiacciato a sinistra e un'area centrale rinnovata. Ed è chiaro che una simile maggioranza si deve basare sull'agenda Monti».
Il senatore Stefano Ceccanti appare meno ottimista dei suoi colleghi e affronta la questione da un altro punto di vista: «Secondo me il Pd dovrebbe preoccuparsi perché quella posizione di Berlusconi determina una slavina del Pdl verso il polo di centro che rischia di arrivare primo alle elezioni, visto che ci coglie tutti spostati nel ridotto minoritario della sinistra storica a cui ci ha condotto l'alleanza con Vendola». Per Beppe Fioroni, che con un occhio guarda al Pd, e con l'altro all'aggregazione che vede uniti Andrea Riccardi, Montezemolo e Bonanni, l'uscita di Berlusconi che minaccia di sfiduciare Monti rappresenta «l'estremo tentativo di provare a bloccare l'organizzazione di un'area moderata». «Mi auguro — aggiunge Fioroni — che né il Pd, né nessun altro gli faccia da sponda perché il futuro del Paese dipende dall'alleanza tra i riformisti e quest'area moderata che finalmente si libera di Berlusconi».
Sembrano invece non preoccuparsi dell'ex premier i giovani turchi come Stefano Fassina e Matteo Orfini. Osserva il primo: «Il Cavaliere fa delle minacce che ormai non ha più la forza di mantenere». E Orfini, irridente: «Io sono stato impegnato in questi ultimi due giorni in un convegno sul Mezzogiorno. E su decine di interventi non ce n'è stato uno che riguardava Berlusconi. E già questo la dice lunga...». Insomma, forse l'ex premier ha in mano «solo una pistola scarica», come sospetta Pier Luigi Bersani.

Repubblica 29.10.12
Un uomo rimasto solo
di Ilvo Diamanti

È DIFFICILE uscire di scena. Quando per quasi vent’anni si è stati al centro – non dello spazio politico – ma di ogni dibattito, valutazione, polemica. È difficile.
Quando si è, ancora, alla guida del più grande gruppo televisivo privato. Quando si è abituati a misurare il proprio potere – non solo economico e finanziario – in base al controllo personale dei media. Visto che il sistema politico e il modello di partito imposti da Berlusconi ruotano intorno alla sua persona e alla comunicazione. È difficile farsi da parte. Perché si rischia la devoluzione rapida e devastante della propria posizione politica ed economica “personale”. Ma, soprattutto, si rischia l’isolamento. La solitudine. Sta qui l’origine degli interventi di Silvio Berlusconi, negli ultimi giorni. “Estremisti”, nei toni. L’Uomo-Solo-al-Comando, all’improvviso, si sente solamente Solo. E ha paura del silenzio intorno sé. Reagisce con estrema violenza – verbale. Così grida. E usa, non a caso, linguaggio e stile di comunicazione sperimentati, con successo, da Beppe Grillo. Il quale, a sua volta, ha intercettato una parte degli elettori di Berlusconi, orfani di rappresentanza e di rappresentazione. Il Cavaliere: un uomo solo. Il giorno dopo aver annunciato la rinuncia a candidarsi come premier, a capo del centrodestra, la condanna del Tribunale di Milano, l’ha fatto sentire vulnerabile. Gli ha fatto percepire la debolezza di chi non ha più il potere. Perché è e sarà fuori dalla scena politica. Comunque, non più al centro. E dunque esposto ai nemici di sempre: i magistrati. Il suo stesso
“conflitto di interessi” da fattore di forza minaccia di ritorcersi contro di lui. Visto che la sua debolezza politica rischia di indebolire la posizione di Mediaset. Sul mercato dell’informazione e, in generale, sui “mercati finanziari”. Ma, soprattutto, Berlusconi non si è sentito sostenuto, ma, anzi, quasi abbandonato, dai leader del Pdl. O di quel che ne resta. Poche voci a suo favore, da centrodestra. Nessuna dal Centro. Neppure un sussurro dagli uomini del governo. Che egli aveva “accettato” e poi sostenuto. Al punto di candidare Monti a leader della “sua” parte. Berlusconi. Si è sentito solo e vulnerabile. Come quel 23 ottobre 2011, a Bruxelles, quando la Merkel e Sarkozy, interpellati sulla credibilità dell’allora premier italiano, si guardarono e sorrisero, suscitando l’ilarità di tutta la sala stampa. Berlusconi. La sua esperienza di governo si chiuse in quel momento. Sepolta dal ridicolo. Dall’in-credulità europea. Intollerabile per chi era abituato a recitare la parte dell’Uomo Solo al comando. Così, quando, nei giorni scorsi, ha percepito il proprio isolamento, nella Casa e nel Popolo che egli stesso aveva creato: in quello stesso momento ha reagito. Ha inveito. Con rabbia e risentimento. Non contro i “nemici” di sempre – magistrati e comunisti. Ma contro gli “amici” che lo lasciavano solo. E stavano negoziando, alle sue spalle, con i democristiani di Casini e con il salotto buono degli imprenditori, rappresentato da Montezemolo. Silvio Berlusconi ha minacciato di far saltare il tavolo. Non solo del governo tecnico, ma, anzitutto, del centrodestra. Del Pdl. Degli amici fidati che stavano preparando la sua successione. Senza di lui. Non solo. Ma “contro” di lui. Il Padrone – di ieri. Oggi: un Signore imbarazzante. Un’eredità sgradevole, perché è difficile assumere la guida di una forza politica all’ombra, ingombrante, del Fondatore – e unico leader, fino a ieri – del Partito Personale.
Per questo, più che un “ritorno in campo”, l’iniziativa di Berlusconi, in effetti, appare una minaccia di invasione. Espressa in modo perentorio. Un modo per dire, anzi, gridare, che lui, il Cavaliere, non se n’è mai andato. Che il muro di Arcore esiste ancora. Berlusconi. Ha rivendicato la propria capacità di esercitare il potere media-politico. Da solo contro tutti. Perché tutti l’hanno lasciato solo. A costo di ricostruire un nuovo “partito personale”. Una lista di “uomini nuovi”, da opporre ai “vecchi politici” presenti negli altri partiti. Compreso quello che egli, almeno fino a ieri, guidava.
Tuttavia, il tono e i contenuti dell’intervento di Berlusconi – la sua stessa presenza fisica – confermano l’impressione di una storia conclusa. Difficile raccogliere la denuncia della politica e delle politiche dell’ultima stagione espressa da chi ne è stato non “un”, ma “il” protagonista. Difficile immaginare che vi sia spazio per un altro soggetto anti-montista e anti-europeo, in Italia. Oltre a quelli che già agiscono sul mercato politico. Dalla Sinistra alla Lega al M5S. Difficile anche concepire che la maschera esibita dal Cavaliere nella conferenza stampa – artefatta, affaticata: sempre più vecchia – possa “rappresentare” un “nuovo” soggetto politico, composto di persone giovani – e nuove. Nella parabola di Berlusconi, “i due corpi del leader” (per echeggiare la metafora di Mauro Calise) sono indissolubili. Il declino “fisico” si riflette in quello del “corpo politico”.
Le invettive di Berlusconi risuonano, così, come “grida nel vuoto”. Che, per questo, echeggiano più forti. Perché, davvero, intorno a lui, c’è il “vuoto”. Il centrodestra e il Pdl, che egli ha creato a propria immagine e somiglianza, oggi appaiono in seria difficoltà nel tentativo di ricrearsi. Di costruire una nuova immagine e una nuova identità. Non sarà facile, per chi è vissuto e cresciuto alla sua ombra. Ma l’esternazione di Berlusconi rende evidente anche il “vuoto” prodotto dal crollo del Muro di Arcore, costruito sulle macerie del Muro di Berlino. Oggi quel muro non c’è più e Berlusconi resta sulla scena politica non per guidarla. Né per organizzarla. Al più, per condizionarne le scelte e gli indirizzi. Ma, soprattutto, per difendersi. E per farsi intendere deve gridare forte. In prima persona. Visto che sono in tanti a gridare, in questo cambio d’epoca. La Seconda Repubblica è finita. Ora occorre costruirne una nuova. Senza muri e senza nemici. E, tanto per iniziare, senza inseguire Berlusconi.

Repubblica 29.10.12
Una follia eversiva destabilizza il Paese
di Eugenio Scalfari


NON SO dire se si stia assistendo a un’opera comica o a un’opera tragica; certo vedere e ascoltare un personaggio che è stato protagonista della politica e del costume nell’Italia di questo ventennio completamente fuori di testa è allo stesso tempo grottesco e preoccupante. Qualche giorno fa l’ex premier aveva dichiarato di rinunciare definitivamente alla candidatura alla premiership.
Due giorni dopo sembrò averci ripensato: «Il popolo mi vuole» aveva detto sotto la spinta della Santanchè (!) poi aveva di nuovo battuto in ritirata, la sua candidatura a Montecitorio restava un’opzione ma per Palazzo Chigi avrebbe corso il vincitore di improbabili primarie.
Infine il colpo di scena di sabato dopo la sentenza di Milano che lo condanna a quattro anni (tre condonati) e all’interdizione dai pubblici uffici per frode fiscale. La conferenza stampa durata quasi l’intero pomeriggio ha spaziato dall’attacco alla Germania a quello contro il governo Monti, poi una raffica di contumelie contro i magistrati comunisti e contro la Corte costituzionale di sapore decisamente eversivo, tirando in ballo lo stesso Capo dello Stato che ne ha scelti cinque (ovviamente proni ai suoi voleri). Infine la minaccia di staccare la spina al governo e andare alle elezioni in gennaio per sollevare il popolo dalle miserie in cui il governo dei tecnici l’ha precipitato, e di nuovo sullo sfondo la riconquista di Palazzo Chigi con l’aiuto della Lega e del bravo Maroni, con tanto di faretra piena di frecce da lanciare contro i nemici della patria che il nostro Silvio tanto
ama.
Non c’è molto da commentare su una deriva populista ed eversiva di queste dimensioni. Solo Giuliano Ferrara riesce a intravedere in questa tragica pagliacciata qualcosa che rievochi la saga dei Nibelungi. Ma c’è di che riflettere sulle possibili conseguenze.
I mercati anzitutto. È difficile pensare che assistano a questo sconquasso mantenendo la calma. Magari sarà solo una sfuriata passeggera e la calma tornerà se il Pdl che è ancora maggioritario in Parlamento scaricasse il suo capo.
Ma esiste ancora quel partito? E sopporta senza emettere un fiato o muovere un dito una vicenda di questo genere?
Se i suoi seguaci non lo sconfesseranno i mercati ci martelleranno duramente e a lungo con conseguenze molto serie su un Paese già tormentato e rabbioso.
Qualche segnale politico arriverà oggi dalla Sicilia. Sia pure con tutte le singolarità di quella regione, il test siciliano avrà una portata nazionale sia per quanto riguarda i consensi alla lista di Grillo sia per la tenuta o lo sfascio del Pdl nello scontro tra il suo candidato e quello del Pd-Udc.
Alla fine bisognerà decidere, perché se da quella bocca continueranno ad uscire parole deliranti, se i mercati useranno il randello contro il debito italiano, se la Lega da un lato e Grillo dall’altro urleranno nei loro megafoni lo slogan del “Monti no”, aspettare la fine naturale della legislatura fino al prossimo aprile diventerà impossibile.
Occorrerà naturalmente che il Parlamento approvi la legge di stabilità finanziaria, ma poi si porrà concretamente il tema dello scioglimento anticipato delle Camere per poter votare a febbraio.
In queste condizioni sembra molto difficile che si possa varare una nuova legge elettorale. Resterà l’orribile Porcellum ma i partiti che abbiano un senso di responsabilità potranno almeno introdurre le preferenze al posto delle liste bloccate restituendo agli elettori la facoltà di scegliere i loro candidati.
Se le cose andranno in questo modo, in mezzo a tanti aspetti negativi ce ne sarà almeno uno positivo e tutt’altro che marginale: l’avvio della nuova legislatura e la nomina del nuovo governo che tenga conto della volontà degli elettori, ed anche dell’interesse generale dello Stato, spetteranno a Giorgio Napolitano. Un timoniere lucido, una mano ferma e un’ancora solida sono indispensabili quando il mare è in
tempesta.

Corriere 29.10.12
Perché il voto in Sicilia è lo specchio di un Paese
di Gian Antonio Stella


«E allora, perché non andare in Argentina? Mollare tutto e andare in Argentina...». Potete scommettere che stanotte, in attesa dei risultati siciliani, il segretario del Pdl Angelino Alfano ha risentito nelle orecchie la sua canzone preferita, Argentina, di Francesco Guccini. Dovesse andargli male, addio: lo sbranerebbero. Gli andasse bene, potrebbe invece provare a svoltare. E a ricostruire il partito oltre il suo mito, Silvio Berlusconi.
Le «Regionali» isolane di ieri, tuttavia, sono destinate a pesare a livello nazionale non soltanto sul destino personale di Angelino.
Potrebbero pesare sulle decisioni future di Antonio Di Pietro e Nichi Vendola, che hanno scelto di scartare l'accordo a sinistra e presentare un candidato loro (sulle prime Claudio Fava, poi sostituito in corsa con la sindacalista della Fiom Giovanna Marano dopo un pasticcio sul certificato di residenza) per smarcarsi dall'alleanza col Pd rinfacciando al partito di avere troppo a lungo fatto da spalla a Raffaele Lombardo e rimproverando a Rosario Crocetta di essere una specie di foglia di fico chiamato a coprire l'accordo con Udc. Vale a dire il partito che per anni ha avuto come socio di maggioranza Totò Cuffaro.
Si sparano a pallettoni, a sinistra. Anche sul piano personale. Nella scia dell'altra faida che qualche mese fa aveva visto, alle «comunali» di Palermo, non solo la sfida fratricida tra Leoluca Orlando e Fabrizio Ferrandelli, ma il commento apocalittico dell'entourage di quest'ultimo dopo la vittoria dell'ex-fondatore de La Rete: «È stata sconfitta la democrazia».
E potrebbe pesare a Roma la quantità di voti che spera di raccogliere Gianfranco Micciché, a sua volta accusato di essere la foglia di fico, sia pure assai meno battagliera sul versante della lotta alla mafia, al clientelismo, alla politica delle nomine, di Raffaele Lombardo. Che dopo avere scelto di puntare su Nello Musumeci, un politico di mestiere de La Destra che però ha sempre saputo presentarsi con un piede dentro e un piede fuori dal Palazzo, l'hanno scaricato appena si è aggregato il Pdl proprio perché a loro preme mettere in mostra il proprio patrimonio elettorale in vista delle prossime politiche.
«Il 30% in Sicilia vale il 3% a livello nazionale: potrebbe bastare, con un altro paio di punti raccolti nel resto del Mezzogiorno, per essere l'ago della bilancia della futura maggioranza». Così come spera di mostrare di avere ancora qualche consistenza nelle urne Gianfranco Fini, che se dovesse uscire con le ossa rotte anche dal voto isolano e dall'alleanza con Lombardo, alleanza in contraddizione con tanti discorsi fatti in questi anni, vedrebbe il suo percorso ancora più in salita.
E Beppe Grillo? Con una spettacolare «tournée» che l'ha visto attraversare a nuoto lo Stretto, salire a piedi sull'Etna «sulle orme di Pitagora», annullare solo all'ultimo istante la mungitura d'una vacca (figurarsi i paragoni col Capoccione che andava petto in fuori a mietere il grano) e riempire all'inverosimile le piazze con 38 comizi di invettive contro tutto e tutti, il fondatore del Movimento 5 Stelle si gioca a Canicattì e a Mazara, Alcamo e Caltagirone qualcosa di più di un successo regionale. Vuole smentire l'antico adagio delle «piazze piene ed urne vuote» ma più ancora la tesi che il suo partito (per quanto lui rifiuti la parola) sia in grado di raccogliere consensi solo là dove c'è un tessuto sociale industriale deluso, un popolo massicciamente collegato a Internet, un mondo giovanile che ha trovato nel web lo spazio per condividere il disagio, la collera, la protesta. Dovesse andargli bene, e i sondaggi questo sembravano dire in questi giorni, la strada per le politiche di primavera potrebbe essere spianata. Al punto che c'è chi scommette che sotto sotto il comico-trascinatore genovese, che nel 2008 con la lista «Amici di Beppe Grillo» incassò un modesto 1,7%, spera di fare il bottino più grosso possibile ma restano un pelo sotto la vittoria: se governare è una grana, governare la Sicilia è una grana al cubo.
Ma è Angelino Alfano, come dicevamo, che rischia davvero tutto. Alle «comunali» della primavera scorsa, salvata Trapani (grazie a un candidato estraneo, un generale dei carabinieri) è uscito bastonato dappertutto, perfino nelle roccaforti di Marsala e Paternò, Barcellona Pozzo di Gotto e Pozzallo, nonostante un'alleanza incestuosa col Pd e l'Udc. Per non dire della batosta a Palermo, dove il giovane Massimo Costa, il candidato «civico» soffiato ai concorrenti della destra, non arrivò neppure al ballottaggio in una città da anni al Cavaliere quasi quanto a Santa Rosalia. E ad Agrigento, la «sua» città, dove l'aspirante sindaco «civico» anche in questo caso arruolato all'ultimo istante, venne seppellito dall'uscente Marco Zamputo sotto una slavina di voti: 75% contro 25%.
Sia chiaro: addebitare tutte le responsabilità dello smottamento al segretario del Pdl sarebbe non solo ingeneroso ma scorretto. L'ormai ex «picciotto prodige» (il copyright è di Denise Pardo) sa però che una nuova disfatta non gli sarebbe perdonata. Tanto più in una terra come la Sicilia dove la destra alleata con il Mpa e l'Udc, anche senza più ripetere il trionfale cappotto (61 parlamentari a 0) del 2001, stravinse solo quattro anni fa col 65,3% dei voti contro il 30,4 raccolto da Anna Finocchiaro che pure aveva dalla sua non solo il Pd ma l'Idv e la Sinistra arcobaleno. Tanto più che proprio lui, Angelino, si era assunto la responsabilità (raccogliendo i malumori di una larga parte del partito, a partire dai giovani) di convincere Sua Emittenza a ritirare l'investitura troppo frettolosa, a suo avviso, su Micciché…
Quando chiedevano a Nello Musumeci se avrebbe desiderato che il Cavaliere sbarcasse in Sicilia per appoggiarlo o se piuttosto (come a suo tempo Giorgio Guazzaloca a Bologna) preferisse che il dominatore della destra degli ultimi venti anni se ne restasse lontano e silente, fino a tre giorni fa il candidato destrorso cercava di non stare alla larga dal rispondere. L'irruzione improvvisa, torrenziale e collerica dell'ex premier in tutti i Tg, tutti i quotidiani, tutti i giornali radio, ha dato uno scossone squassante, scusate il pasticcio, alla chiusura della campagna. Seminando tra gli stessi berlusconiani un dubbio: aiuterà o piuttosto farà danno al profilo di «forza tranquilla» e non aggressiva scelto da Musumeci? Poche ore e sapremo. Dovesse andare ancora male: chi farà il processo a chi?

Corriere 29.10.12
Sicilia alle urne, crolla l'affluenza
Dal 66,7% del 2008 al 47,4. Negli exit poll non ufficiali avanti Grillo
di Felice Cavallaro


PALERMO — Un colpo di frusta dalla Sicilia agli apparati dei partiti tradizionali. E con dati allarmanti. Ieri sera, alla chiusura delle urne, l'affluenza nell'isola è stata del 47,43% degli aventi diritto, pari a 2.204.358 elettori. Un vero e proprio crollo, rispetto al 2008 (dove si era votato anche il lunedì), di quasi venti punti percentuali. Quattro anni fa, infatti, ai seggi si era recato il 66,68% dei siciliani.
Quello dell'affluenza è l'unico dato certo, visto che lo spoglio comincia stamane alle 8 e soltanto dopo mezzogiorno si dovrebbe avere una indicazione sul nuovo presidente della Regione che succederà a Raffaele Lombardo.
Ma di un clamoroso risultato, con un primo posto (virtualmente) attribuito al candidato di Beppe Grillo, si parla nella notte che precede lo spoglio. Ottenuto con un inatteso 27,46%, stando all'unico exit poll eseguito dal sito Palermoreport.it su 1.300 intervistati nei seggi di Palermo città. Troppo poco perché il candidato dei «grillini» Giancarlo Cancelleri possa brindare, visto che gli aventi diritto al voto sono quasi 4 milioni e mezzo. Ma sprizzano soddisfazione i sostenitori del Movimento 5 Stelle, comunque certi di un'affermazione che potrebbe rivoluzionare gli assetti di una Regione con 6 miliardi di debito.
I dati certi restano quelli dell'affluenza che nel 2008 superò il 66%. Per il resto, gli esperti di exit poll, sempre pronti a collaborare con le tv nazionali, stavolta si sono tirati indietro per le difficoltà di rilevamento, per l'incognita Grillo e per l'incertezza sugli stretti margini indicati dai sondaggisti soprattutto sui due favoriti, Nello Musumeci per il centrodestra e Rosario Crocetta per il centrosinistra.
Ma la sfida l'ha raccolta Ugo Piazza, il giornalista alla guida di Palermoreport.it, già impegnato alle primarie del Pd e alle ultime amministrative in exit poll che hanno avuto un margine di errore, nel primo caso, dello 0,1% e, nel secondo, dell'1,75%. Quanto basta perché ieri sera, dopo le ore 22, appena pubblicato il rilievo realizzato sui 1.300 elettori scattasse una spasmodica attenzione. Anche per via del (presunto) successo attribuito a Cancelleri addirittura con un 27,46% (più dei voti della sua lista, 26,42%). Un dato che sorprenderebbe Musumeci, fermo a Palermo al 23,35%, secondo in questa classifica, mentre al terzo posto ci sarebbe Crocetta con il 21,40%, al quarto Gianfranco Micciché con il 14,24% e Giovanna Marano al 9,76%.
Quadro inquietante soprattutto per Micciché visto che a coordinare l'exit poll è Piazza, proprio il giornalista che nelle ultime settimane gli ha fatto da portavoce. «Se Micciché non dovesse sfondare a Palermo, per lui sarebbe anche peggio altrove», ammette lo stesso Piazza che regala nella notte risultati deludenti un po' per tutte le liste, fuorché per quella dell'ex ministro Saverio Romano attestata all'11,68% contro il 10% del Pdl. Il Pd si fermerebbe all'11%, Grande Sud di Micciché all'8%, crollerebbe il movimento autonomista di Lombardo e avremmo un sorpasso della lista di Giovanna Marano e Claudio Fava sull'Idv di Di Pietro e Orlando. Tutti numeri destinati a vivere comunque una sola notte.

Repubblica 29.10.12
Sicilia, astensionismo record i partiti temono la valanga grillina
Affluenza al 47,4%. Siti e tv locali: Cancelleri avanti
di Antonio Fraschilla


PALERMO — «La valanga dei grillini rischia di travolgere tutto». Nelle segreterie dei partiti del centrodestra che qui in Sicilia hanno sempre raccolto messe di voti ad occhi chiusi, è questo il timore principale. Alcuni exit poll fatti da emittenti locali danno addirittura in testa il candidato di Beppe Grillo in una corsa per la presidenza della Regione che certamente non vedrà alcun governatore ottenere una maggioranza parlamentare, il Pdl teme una débâcle: una sconfitta di Nello Musumeci che, tra le altre cose, azzopperebbe anche la corsa di Angelino Alfano a futuro leader nazionale. Umori neri anche in casa Pd e Udc, che sperano in un colpo di reni di Rosario Crocetta, ma sanno bene che una sconfitta metterebbe una pietra tombale a qualsiasi ipotesi di alleanze romane. Alla finestra stanno gli autonomisti guidati dal governatore Raffaele Lombardo, che sulla carta sostiene insieme ai finiani l’ex sottosegretario Gianfranco Miccichè, ma soprattutto Grillo, pronto a fare il bis del «boom» di piazza, già inviato metaforicamente da Catania al Quirinale, con il suo candidato semi sconosciuto: il geometra Gian Carlo Cancelleri. Sarebbe, questo, davvero un colpo di scena e un messaggio chiaro spedito dalla Sicilia a tutti i partiti nazionali e in particolare al centrodestra, perché arriva proprio dalla terra che in questi ultimi venti anni ha regalato grandi soddisfazioni a Berlusconi.
L’affluenza è crollata. Le urne si sono chiuse ieri sera e ha votato solo il 47,4 per cento dei siciliani, meno di uno su due, in netto calo rispetto al 59,2 per cento del 2006 e al 63 per cento del 2001, date nelle quali si votò un giorno soltanto. Nel 2008 l’affluenza fu ancora più alta, al 66 per cento, ma le urne si chiudevano il lunedì e si votava anche per le politiche. I partiti tradizionali, quelli del voto organizzato, speravano comunque in un’affluenza maggiore e adesso temono sorprese dell’ultima ora. Non a caso in casa azzurra gli umori non sono dei migliori. Musumeci, che fino a qualche giorno fa «sentiva profumo di vittoria», ieri si è limitato a dire: «Sono sereno perché ho fatto tutto il possibile». Frasi sotto tono, da parte di chi era dato comunque per favorito. E nel Pdl sono già pronti all’ennesima resa dei conti: «Musumeci ha sbagliato a prendere le distanze da Berlusconi, dicendo che non avrebbe spostato un solo voto e che la gente dava la preferenza per il candidato e basta», dicono dalla segreteria regionale. Anche sul fronte Pd-Udc c’è molta preoccupazione e si teme un exploit dei grillini. Nel partito di Casini circolava una rilevazione che dava in testa Cancelleri. Stesso risultato di un exit poll commissionato dalla tv locale Trm, che come base di rilevazione ha preso solo Palermo: nel dettaglio Cancelleri veniva dato al 27 per cento, Musumeci al 23, Crocetta al 21, Miccichè al 14 e Giovanna Marano, la candidata di Sel, Fds e Verdi, al 9. Mentre una rilevazione del Pd nazionale darebbe invece un testa a testa Crocetta-Cancelleri. A sparigliare le carte potrebbe però essere il voto disgiunto, altro leitmotiv della campagna elettorale siciliana. Musumeci ha accusato l’Mpa, il partito del governatore Lombardo, di far votare come presidente Crocetta anziché Miccichè. «Prove d’inciucio », ha detto il candidato del Pdl, del Pid-Cantiere popolare di Saverio Romano e della Destra. Prove che, se confermate, potrebbero far andare la vittoria all’ex sindaco di Gela. In ogni caso una cosa è certa: nessun governatore avrà una maggioranza parlamentare. Il sistema elettorale siciliano garantisce la vittoria al candidato governatore che prende più voti e un premio di maggioranza di soli nove deputati, che in questo quadro di frammentazione non consentirà a nessuno di arrivare a quota 46 seggi su 90 all’Assemblea regionale siciliana.

l’Unità 29.10.12
L’Aquila, le verità che ci hanno nascosto
di Stefania Pezzopane

Assessore al Comune dell’Aquila

«A L’AQUILA LA VERITÀ NON SI DICE». CON QUESTE POCHE PAROLE PRONUNCIATE DA BERTOLASO A BOSCHI È STATO SEGNATO IL DESTINO CRUDELE DI UNA CITTÀ. Oggi più che mai sento tutto il dolore per l’inganno che abbiamo subito. L’ennesima ulteriore dimostrazione che prima del terremoto gli aquilani non sono stati messi in condizione di essere informati su quello che stava accadendo.
Sfido chiunque ora a difendere la commissione Grandi Rischi in nome di una ideologica difesa della scienza. Queste persone erano venute all’Aquila con il proposito predeterminato di rassicurarci. I giudici sono stati non solo coraggiosi ma veri difensori dello Stato. Uno Stato che in quei giorni ci ha scientificamente ignorati. Gli scienziati infatti, invece di fare il loro mestiere, hanno piegato la loro scienza e la loro coscienza ad una logica allucinante. Una pagina vergognosa. Nel mio libro «La politica con il cuore», che ho scritto nel 2009, avevo apertamente denunciato l’inganno e la superficialità dei quali si era resa colpevole la commissione. Nessuno, neanche il Comune dell’Aquila che si è costituito parte civile fin dal 2010, ha mai avuto intenzione di processare la scienza. Piuttosto ci interessa accertare atti e responsabilità di quei componenti della commissione che a L’Aquila è venuta, non purtroppo per indagare il fenomeno che da mesi colpiva il territorio, bensì per obbedire al comando del capo della Protezione civile Bertolaso che in una intercettazione telefonica con l’assessore Stati affidava agli scienziati il solo scopo di fare esclusivamente «un’operazione mediatica» e «tranquillizzare la gente».
La comunità scientifica e quei politici che insorgono contro questa sentenza, nulla sanno degli atti processuali e non aspettano, come sarebbe giusto, di vedere le motivazioni della sentenza, ma più comodamente usano la metafora ideologica e davvero poco razionale del «processo alla scienza». Il ministro Clini con le sue affermazioni di difesa della commissione fa veramente rigirare nella tomba Galileo Galilei. Mi sarei aspettata dalla comunità scientifica una presa di distanza dai comportamenti di quei «cosiddetti scienziati» che, invece di comportarsi da tali, hanno piuttosto assecondato il bisogno politico della rassicurazione, invece del bisogno scientifico dell’informazione. Quando un giudice condanna un medico che per negligenza o imperizia ha prodotto menomazioni o morte ad un paziente, è forse un processo alla medicina? O non è molto più semplicemente il processo a quel medico negligente e incapace? Quando si processa un politico che ruba e lo si condanna giustamente, non è semplicemente il processo a quel politico e alle sue ruberie e non un processo alla politica? I medici competenti e i politici onesti ringraziano i giudici che condannano incapaci e disonesti. Questa coraggiosa sentenza rende un po’ di giustizia agli aquilani truffati prima e dopo il terremoto ed ingannati in maniera vergognosa. Il terremoto dell’Aquila non poteva essere previsto, ma a noi aquilani non è stato detto questo, è stato detto esattamente il contrario, ovvero che non era prevedibile in quel dato momento un terremoto grave e che lo sciame sismico era un fenomeno di scaricamento dell’energia, cioè un elemento positivo e tranquillizzante.
Come può allora una comunità scientifica preferire una difesa ad oltranza di chi è condannato, invece di difendere la scienza dall’oltraggio delle interferenze della brutta politica che in quella circostanza e forse anche in altre ha usato commissioni, comitati per fini che nulla c’entrano con l’informazione scientifica. La commissione in occasione del terremoto dell’Emilia Romagna e del Pollino si è comportata molto diversamente, così come la Protezione Cilvile in più di un’occasione dopo il 6 aprile ha lanciato allarmi meteo, addirittura invitando la popolazione a non uscire di casa. Non mi sembra che quegli allarmi abbiano prodotto se non qualche disagio, gravi ripercussioni. A L’Aquila sarebbe bastato non negare l’evidenza. Mentre nella città ferita, dopo le rassicurazioni, si sono contati 309 morti e migliaia di feriti. Ma l’Aquila pur truffata ed ingannata non si arrende.

Corriere 29.10.12
Un giovane su tre vuole lasciare l'Italia
Giovannini (Istat): 4 milioni desiderano lavorare all'estero. Già 2 milioni lo hanno fatto
di Giuseppe Sarcina


VENEZIA — «Un giovane su tre vorrebbe emigrare». La frase pronunciata ieri dal presidente dell'Istat Enrico Giovannini è forse la conclusione più logica, prima ancora che la più amara, della due giorni di «Seminars» organizzati nell'isola di San Clemente a Venezia da Aspen Italia. Giovannini riferisce i risultati del gruppo di discussione su «mobilità, occupabilità, reticolarità». E quella frazione, un terzo, rappresenta la sintesi di una serie di studi condotti negli ultimi anni dai diversi istituti di ricerca (Eurispes tra gli altri), partendo proprio dai dati Istat.
I giovani dai 18 ai 35 anni sono 12 milioni e 800 mila: stiamo dunque parlando di oltre 4 milioni di italiani che stanno pensando seriamente di lasciare il Paese. Per altro, secondo le ultime cifre disponibili, due milioni lo hanno già fatto nel 2010.
Una fuga di massa trasversale, un'idea che comincia a maturare fin dai primi anni dell'università. Il vicepresidente della Confindustria, Ivanhoe Lo Bello, si è presentato al seminario Aspen con una cartellina piena di numeri. Ha cominciato citando un'indagine di Demopolis (commissionata dall'Istituto addestramento lavoratori della Cisl). Bene: il 61% del campione intervistato (3.500 giovani tra i 18 e i 34 anni) ritiene che, terminati gli studi, occuperà una posizione inferiore a quella dei genitori e il 78% è convinto che per trovare un buon lavoro servano le conoscenze giuste. Evidentemente è in questo retroterra pervaso da scoraggiato pessimismo che nascono i progetti dei neoemigranti.
Lo Bello richiama il confronto sui ricercatori. Secondo l'Istat in Italia lavorano circa 106 mila «addetti alla ricerca» nel settore privato, cui vanno aggiunti 74 mila nel pubblico, di cui 20 mila universitari. «Ma 20 mila ricercatori si sono perfezionati all'estero e lì sono rimasti. Un insieme enorme di persone che contribuisce alla prosperità degli altri Paesi, in particolare degli Stati Uniti. Risorse umane che non torneranno indietro». In compenso l'Italia non attira talenti stranieri. Nelle nostre università solo il 2% di iscritti viene d'oltreconfine «e quasi nessuno di loro dai grandi Paesi», nota ancora Lo Bello. Alla fine della catena c'è, come sempre, il Sud, perché alla corsa verso l'estero si associa la ripresa della classica ondata verso il Centro-Nord. Solo due esempi: il 70% degli studenti universitari della Luiss a Roma è meridionale come pure il 30% del Campus economico di Trento.

l’Unità 29.10.12
Dèsir e il Ps: europeista, rosa e identitario
Parla il neo-segretario del partito socialista francese consacrato a Tolosa: «Vorrei estendere le primarie anche al voto locale»
di Umberto De Giovannangeli

Un partito «solido», che non contrappone, ma integra il radicamento territoriale allo sviluppo della rete. Un partito aperto alla società civile, decisamente europeista, che promette sostegno leale al Governo e al Presidente, ma che non intende esserne megafono. Un «partito delle primarie», fortemente identitario, che proietta nel Terzo millennio quei principi di uguaglianza, giustizia, libertà che sono a fondamento della migliore tradizione socialista. Questo è il Ps di Harlem Dèsir, 53 anni, neo segretario dei socialisti francesi, consacrato al vertice del partito al termine del 76mo congresso conclusosi ieri a Tolosa. È un partito in divenire, quello che Dèsir illustra a l’Unità, che punta decisamente su un rinnovamento generazionale senza che ciò significhi «rinunciare all’esperienza, all’intelligenza di quanti, donne e uomini, hanno fatto la storia della gauche. Senza memoria non c’è futuro». Una storia che oggi si concretizza nella presidenza di Francois Hollande: «In campagna elettorale riflette in proposito il neo segretario del Ps Hollande ha proposto ai francesi un “Patto per la crescita” che teneva insieme rigore e sviluppo. Nessuno nasconde le difficoltà che stiamo incontrando nel realizzare questo “Patto” ma la strada è quella giusta, e la cosa più importante tra quelle fin qui fatte è aver rilanciato gli investimenti nel campo dell’istruzione, della scuola pubblica. Perché oggi il futuro è nel valorizzare i saperi, è puntare sul capitale umano».
DEFICIT DEMOCRATICO
Non è un libro dei sogni quello proposto da Dèsir. Ma è un «work in progress» che avrà due momenti di verifica già in calendario: le elezioni municipali del 2014 e, tre mesi dopo, le elezioni europee. L’Europa come centro dell’azione politica. «Non può essere altrimenti dice in proposito Dèsir -. Cercare soluzioni nazionali per uscire dalla crisi non è solo sbagliato, è qualcosa di anacronistico. Vuol dire non fare i conti con i processi di globalizzazione, le cui dimensioni sono tali da non poter permettere a nessun Paese europeo, da solo, di poter competere. L’Europa è al centro della crisi mondiale perché la destra non è stata capace di attaccare la speculazione, smantellando così lo Stato sociale e aggravando la situazione». Di questa destra, quella francese è parte integrante. E pericolosa. «La destra francese sottolinea Dèsir non ha riflettuto sulle ragioni che hanno portato alla sconfitta di Sarkozy ed oggi si fa portatrice di un “sarkozismo” ancora peggiore dell’originale».
«La risposta a questa crisi insiste deve essere europea, una Europa differente che discuta, concretamente, di crescita e solidarietà, che disponga non solo di una moneta ma di una finanza comune. Una Europa inclusiva: il deficit democratico non è meno importante di quello di bilancio».
Il «partito di Harlem» rifugge dal leaderismo mediatico, e crede fortemente nella partecipazione diffusa. «Dal Pd dice abbiamo imparato l’importanza delle primarie, soprattutto come momento di apertura e partecipazione. Una esperienza che ha avuto uno straordinario sviluppo nella campagna che ha portato all’indicazione di Hollande come nostro candidato all’Eliseo». Una esperienza che il neo segretario vorrebbe estendere anche a livello locale. «L’importante dice è ritrovare l’unità dopo la competizione. Con Hollande ci siamo riusciti».
Quello che Dèsir racconta anche dalla tribuna del Congresso di Tolosa è un partito «rosa». «È tempo dice di rendersi conto che “Repubblica” come “uguaglianza” sono sostantivi femminili. Con il tempo della sinistra, il momento per l’uguaglianza per le donne viene adesso». La lealtà totale verso il Governo guidato da Jean-Marc Ayrault è fuori discussione. Ma questo, chiarisce Désir, non significa «rinunciare a portare avanti le nostre battaglie per difendere e rafforzare i diritti di cittadinanza e quelli sociali». Un esempio concreto: «In materia di diritti e di libertà spiega si tratta di fare in modo che ad esempio domani, nella legge sul diritto al matrimonio e all’adozione per le coppie dello stesso sesso, ci sia anche il diritto alla procreazione medica assistita».

l’Unità 29.10.12
Ecco cosa ha fatto Hollande


Ecco cosa ha fatto Hollande (non parole, fatti), ecco anche il perché, in Italia nessuno parla più della Francia. Hollande (non parole, fatti) in 56 giorni di governo: ha abolito il 100% delle auto blu e le ha messe all ́asta; il ricavato va al fondo welfare da distribuire alle regioni con il più alto numero di centri urbani con periferie dissestate. Ha fatto inviare un documento (dodici righe) a tutti gli enti statali dipendenti dall ́amministrazione centrale in cui comunicava l ́abolizione delle «vetture aziendali» sfidando e insultando provocatoriamente gli alti funzionari, con frasi del tipo «un dirigente che guadagna 650.000 euro all ́anno, se non può permettersi il lusso di acquistare una bella vettura con il proprio guadagno meritato, vuol dire che è troppo avaro, o è stupido, o è disonesto. La nazione non ha bisogno di nessuna di queste tre figure». Via con le Peugeot e le Citroen. 345 milioni di euro risparmiati subito, spostati per creare (apertura il 15 agosto 2012) 175 istituti di ricerca scientifica avanzata ad alta tecnologia assumendo 2.560 giovani scienziati disoccupati «per aumentare la competitività e la produttività della nazione». Ha abolito il concetto di scudo fiscale (definito «socialmente immorale») e ha emanato un urgente decreto presidenziale stabilendo un ́aliquota del 75% di aumento nella tassazione per tutte le famiglie che, al netto, guadagnano più di 5 milioni di euro all ́anno. Con quei soldi (rispettando quindi il fiscal compact) senza intaccare il bilancio di un euro ha assunto 59.870 laureati disoccupati, di cui 6.900 dal 1 luglio del 2012, e poi altri 12.500 dal 1 settembre come insegnanti nella pubblica istruzione. Ha sottratto alla Chiesa sovvenzioni statali per il valore di 2,3 miliardi di euro che finanziavano licei privati esclusivi, e ha varato (con quei soldi) un piano per la costruzione di 4.500 asili nido e 3.700 scuole elementari avviando un piano di rilancio degli investimenti nelle infrastrutture nazionali. Ha varato un provvedimento molto complesso nel quale si offre alle banche una scelta (non imposizione): chi offre crediti agevolati ad aziende che producono merci francesi riceve agevolazioni fiscali, chi offre strumenti finanziari paga una tassa supplementare: prendere o lasciare. Ha decurtato del 25% lo stipendio di tutti i funzionari governativi, del 32% di tutti i parlamentari, e del 40% di tutti gli alti dirigenti statali che guadagnano più di 800 mila euro all ́anno. Con quella cifra (circa 4 miliardi di euro) ha istituito un fondo garanzia welfare che attribuisce a «donne mamme singole» in condizioni finanziarie disagiate uno stipendio garantito mensile per la durata di cinque anni, finché il bambino non va alle scuole elementari, e per tre anni se il bambino è più grande. Il tutto senza toccare il pareggio di bilancio. Risultato: ma guarda un po ́... surprise!! Lo spread con i bund tedeschi è sceso, per magia. È arrivato a 101 (da noi viaggia intorno a 470). L ́inflazione non è salita. La competitività e la produttività nazionale è aumentata nel mese di giugno per la prima volta da tre anni a questa parte.
Giuseppe

l’Unità 29.10.12
Nucleare iraniano. Non c’è solo la via militare
di Pino Arlacchi


LA DISINFORMAZIONE SUL PROGRAMMA NUCLEARE IRANIANO ha raggiunto negli ultimi mesi il limite di guardia. Il partito della guerra contro l’Iran è più attivo che mai sia negli Usa che in Israele e in Europa. Poiché ogni guerra si basa su una menzogna più o meno grande, è importante che l’opinione pubblica conosca i tratti essenziali della bugia che sta venendo confezionata allo scopo di ripetere, dieci anni dopo, il disastro della guerra contro l’Irak.
Molti sono convinti che il governo iraniano abbia imboccato la strada della costruzione della bomba atomica e che l’unico modo per fermarlo sia quello di sanzionarlo a tutto spiano, isolarlo, minacciarlo di un attacco militare, colpirlo con le uccisioni mirate di scienziati e con la guerra informatica. Secondo questo modo di pensare, altri metodi sono destinati a fallire, perché gli ayatollah non hanno intenzione di trattare sul serio e vogliono solo guadagnare tempo per consentire ai loro tecnici di progredire verso la fabbricazione della bomba.
Da tre anni il governo americano, con l’assenso totale della Ue, propaganda questa visione delle cose. Adottata senza fiatare dai media occidentali, essa tace sulla posizione iraniana e minimizza o nasconde le informazioni sulle proposte di soluzione alternative.
Eppure queste proposte sono sul tappeto. Due anni fa, l’Iran dette il suo consenso ad un piano della Turchia e del Brasile secondo cui questi paesi avrebbero ricevuto dall’Iran materiale atomico da arricchire entro i limiti dell’uso civile, e l’avrebbero restituito all’Iran stesso. Ma Obama, dopo avere aderito alla proposta, fece un indecoroso dietro-front dopo che a Washington si era scatenata la lobby israeliana. La Ue non disse neppure una parola e quando ho chiesto conto in pubblico di questo comportamento alla signora Ashton ho ricevuto una risposta vaga.
L’anno scorso la Russia ha avanzato un piano che imponeva restrizioni sull’arricchimento dell’uranio da parte dell’Iran accompagnate da ispezioni più penetranti dell’Agenzia nucleare di Vienna. L’Iran era disposto a discutere il progetto ma non se ne fece nulla perché la priorità dell’amministrazione Obama era l’intensificazione delle pressioni internazionali su Teheran per arrivare a nuove sanzioni. Non si ha notizia della posizione europea sulla proposta. Si sa solo che la Ue ha adottato le sanzioni volute dagli Usa.
Il risultato è che gli oltranzisti iraniani hanno avuto facile gioco nel proseguire lungo la strada dell’arricchimento sospetto dell’uranio, arrivato oggi al 20%. Ogni nuovo accordo diplomatico è perciò da adesso in poi obbligato ad introdurre un monitoraggio ancora più intrusivo, dotato di un sistema di allerta precoce piazzato dentro l’establishment nucleare iraniano. Questo ulteriore requisito è fondamentale, perché introduce un punto di rottura superato il quale l’Iran sa che scatteranno sanzioni più dure e anche attacchi militari. Ma un accordo che introduca questo requisito deve anche contenere una lista di passi ben precisi che l’Iran deve compiere per ottenere la cancellazione delle sanzioni. È ciò che l’Onu fece con l’Irak dopo la prima guerra del Golfo, e l’accordo funzionò finchè gli Usa non decisero che il loro vero obiettivo era il cambiamento di regime.
L’Iran ha più volte offerto in questi anni di ospitare un regime di ispezioni intrusive, più profonde di quelle attuate di norma dall’Agenzia atomica dell’Onu. Mousavian, il capo dei negoziatori fino a poco tempo fa, aveva suggerito un tetto di arricchimento pari al 5% ed aveva accettato di non stoccare sul suolo iraniano l’uranio arricchito in eccesso. In cambio, gli Stati Uniti ed i loro alleati avrebbero dovuto riconoscere il diritto dell’Iran alla tecnologia di arricchimento diritto che è uno dei cardini del Trattato di non proliferazione e smantellare gradualmente le sanzioni.
Qualcuno dei lettori ha mai sentito anche vagamente parlare di questa storia? Non se ne è mai saputo niente perché gli Stati Uniti e la Ue hanno testardamente rifiutato negli ultimi tre anni di cercare una soluzione negoziata con l’Iran. I negoziati falliti della primavera e dell’estate scorsa illustrano come se l’Occidente non ha da offrire alcunché, ma è ostaggio del partito dello scontro armato, dopo le elezioni presidenziali americane il mondo rischia di ritrovarsi di nuovo nella nebbia della guerra.

La Stampa 29.10.12
È la prima volta che un leader cinese risponde ai media stranieri
Wen replica al New York Times “Non ho favorito la mia famiglia”
di Ilaria Maria Sala


Smentisce gli averi della madre: «Ha solo una pensione» E tace sulla moglie
I miliardi Secondo il New York Times, il clan familiare di Wen Jiabao controlla una fortuna di 2,7 miliardi di dollari.Il premier cinese smentisce

Dopo l’inchiesta del «New York Times» sull’impero degli affari della famiglia del premier cinese Wen Jiabao, che rivela come i figli, il fratello, la moglie e la famiglia della moglie, e perfino la madre del primo ministro controllano una fortuna del valore di 2.7 miliardi di dollari Usa, Wen Jiabao ha deciso di passare al contrattacco. L’articolo del «New York Times», pubblicato giovedì, ha fatto sì che i censori cinesi decidessero di bloccarne il sito, che resta inaccessibile in Cina, e naturalmente i media cinesi stessi non hanno dato notizia delle rivelazioni esplosive del quotidiano americano. Perciò la lettera degli avvocati della famiglia Wen è stata pubblicata sul giornale in lingua inglese di Hong Kong «South China Morning Post», nella sua versione domenicale. È la prima volta che un leader cinese ha deciso di rispondere pubblicamente a un’inchiesta giornalistica straniera.
Nella lettera degli avvocati, Bai Tao e Wang Weidong, viene specificato che «Wen Jiabao non ha mai avuto alcun ruolo nelle attività economiche dei membri della sua famiglia» (cosa che del resto il «New York Times» non ha scritto), e nessuna delle attività economiche dei membri della famiglia Wen è illegale (ma di nuovo, il «Times» non ha scritto che lo fossero). E le decisioni politiche prese da Wen Jiabao in materia di politica economica non sono mai state formulate in modo tale da favorire i suoi familiari o le loro aziende, specificano i legali ma anche qui, l’articolo statunitense non faceva accuse specifiche.
L’unica parte dell’inchiesta del Times che viene esplicitamente negata è quella che riguarda la madre del Primo Ministro cinese, Yang Zhiyun, di 90 anni, che, secondo il Times, detiene 120 milioni in azioni della Ping An, la maggior azienda d’assicurazioni della Cina e del mondo, e, dicono gli avvocati, i suoi soli fondi sono costituiti da una pensione di Stato e un salario governativo. «Le cosiddette ricchezze nascoste dei membri della famiglia di Wen Jiabao di cui ha dato notizia il New York Times non esistono», hanno dichiarato Bai e Wang. Infine, i legali aggiungono che «continueranno a fornire chiarificazioni su quanto falsamente riportato dal New York Times, e ci riserviamo il diritto di fare causa».
Non una parola però è stata spesa sulle ricchezze della moglie, una delle più importanti gemmologhe cinesi, che ha un importante business legato ai diamanti e alle pietre preziose.

l’Unità 29.10.12
«Un giornale unico» Così Gramsci definiva l’Avanti!
Il libro di Intini ne ripercorre la storia
Vendeva 400mila copie nel 1919. Una vita epica e molto travagliata tra censure assalti dei fascisti, la chiusura nel ’36 e le pubblicazioni riprese in esilio. Il legame con i socialisti nel bene e nel male
La sua storia, dagli eroici giorni del 1896, arrivò fino alla crisi di Tangentopoli Il quotidiano chiuse nel 1993
di Maria Luisa Righi


AVANTI! Un giornale, un’epoca, di  Ugo Intini
pagine 754 euro 30,00 Ponte Sisto
1896-1993: le sue pagine, i suoi giornalisti e direttori raccontano il secolo dell’Avanti!
Un secolo fotografato dagli articoli del quotidiano e dai suoi protagonisti. Intini, con stile giornalistico, svela aneddoti e testimonianze che portano novità storiche, anche inedite, che non mancheranno di sollevare polemiche.
Un volume che, per mole e approfondimento, può dimostrarsi utile anche a studiosi,

«L’AVANTI! È GIORNALE UNICO, SENZA CONCORRENTI, È IL “PRODOTTO” NECESSARIO CHE SI ACQUISTA PERCHÉ NECESSARIO, PERCHÉ INSOSTITUIBILE, PERCHÉ CORRISPONDE A UN BISOGNO INTIMO IRRESISTIBILE COME IL BISOGNO DEL PANE PER UNO STOMACO SANO». Così Gramsci scriveva alla fine de 1918 sulle colonne del «suo» giornale. Il giornale del partito socialista era ormai maggiorenne e in vent’anni aveva quasi decuplicato le vendite: 400mila copie nel 1919, contro le 40mila copie del primo anno di vita. Il primo numero era uscito nel Natale 1896.
L’Avanti! s’era subito distinto dagli altri giornali, per le sue battaglie a sostegno delle lotte dei lavoratori, contro il colonialismo, per le sue inchieste sulla corruzione, sulla condizione dei poveri, degli immigrati, per l’attenzione a «tutto ciò
che avviene nella società moderna» (aveva suggerito Turati) e al tempo stesso vicino ai bisogni più elementari degli ultimi, spingendosi a propagandare le regole dell’igiene, «come evitare i pidocchi, lavarsi i denti, fare il brodo, alimentare i bambini». Il giornale conquistò ben presto le simpatie di larghi settori dell’intellettualità non solo socialista. Da Edmondo De Amicis a Giuseppe Prezzolini, da Ada Negri a Giovanni Pascoli, da Gabriele Galantara, che disegnò la testata, a Umberto Boccioni. Come scrisse Croce, «intorno ai socialisti si aggrega tutta o quasi tutta la parte eletta della giovane generazione».
Fu il primo giornale d’opposizione, espressione di una forza politica nazionale e non di potentati locali o interessi particolari. Per questo divenne da subito il simbolo della coscienza acquisita dai proletari che, organizzandosi, emancipavano se stessi e il mondo. E al mondo, alle lotte dei cavatori di pietra inglesi, ai portuali di Amburgo, alle vittorie dei socialisti francesi, il giornale dedicava grande spazio (il nome stesso era la traduzione dell’organo della socialdemocrazia tedesca).
I lavoratori sacrificavano i pochi centesimi guadagnati per destinarli alla sottoscrizione; lo si portava con sé nella tomba; qualcuno, specie in Emilia, chiamò «Avanti!» il proprio bambino.
L’Avanti! fu giornale di partito originale e modello per molti, da L’Humanité, fondata nel 1904 da Jean Jaurès, a l’Unità che i comunisti si decisero a fondare solo nel 1924, quando fu chiaro che la riunificazione col Psi (concordata a Mosca tra
Giacinto Menotti Serrati e Gramsci, e che avrebbe dovuto vederli co-direttori dell’Avanti!) era ormai fallita. Ed era fallita per l’opposizione dei dirigenti organizzati proprio intorno alla redazione milanese del giornale, capeggiati da Pietro Nenni, che utilizzando il suo ruolo di redattore capo alla fine del 1922, si oppose agli impegni assunti a Mosca dal suo direttore Serrati.
L’Avanti! era l’orgoglio dei socialisti, e l’ossessione delle forze reazionarie, che contro il giornale scatenarono un’occhiuta vigilanza e ripetute persecuzioni: sequestri, arresti (nel 1898, dopo le cannonate di Bava Beccaris, furono arrestati Turati e il direttore del giornale, Leonida Bissolati), perquisizioni e censura. Durante la prima guerra mondiale intere pagine uscirono completamente bianche oppure riempite ironicamente con brani dei Promessi sposi. Con lo squadrismo nazionalista e poi fascista arriveranno gli assalti armati e le devastazioni (tra il 1919 e il 1922 le sue redazioni sono ripetutamente assaltate, distrutte e incendiate), i ripetuti sequestri (36 nel 1924, 62 nel 1925). Benito Mussolini, che del giornale era stato uno dei direttori più amati negli anni che avevano preceduto la guerra, aveva maturato «invidia e odio profondo». Ma il quotidiano confezionato da Nenni non s’arrendeva e continuava a uscire. Solo le Leggi eccezionali ne decretarono la chiusura il 31 ottobre 1926.
Ma l’Avanti!, come aveva scritto Gramsci nel 1918, non era un «giornale-merce» e continuava a vivere là dove operavano i socialisti. Già il 10 dicembre 1926 riprese le pubblicazioni a Parigi, dove si rifugiarono molti dirigenti socialisti, come Bollettino del Partito socialista. Era soltanto una paginetta settimanale, grande come un volantino, ma era un «impegno d’onore» per «far rivivere in Francia l’organo glorioso». Anche in esilio i socialisti non persero quei tratti che li avevano contraddistinti sin dalle origini: «divisi e litigiosi. Libertari, spiriti critici, insofferenti alla disciplina, generosi e sanguigni». La condizione di esiliati non attenuò, semmai acuì queste caratteristiche e i contrasti tra le posizioni massimaliste di Angelica Balabanoff, che lo dirigeva, e quelle di Nenni (che si batteva per la fusione con i socialisti riformisti). Si acuirono fino a portare alla nascita di un nuovo Avanti!, stampato a Zurigo.
Quelli che vanno dalla crisi del ’29, all’affermarsi del nazismo alla guerra e alla Resistenza, sono anni tumultuosi che costrinsero i partiti antifascisti a misurarsi con un quadro politico continuamente in movimento e le posizioni cambiavano rapidamente. Sicché Nenni, il fiero oppositore della fusione tra Psi e neonato Pcd’I del 1923, divenne negli anni dei fronti popolari il fautore prima e il firmatario poi del Patto d’unità d’azione col partito comunista, siglato nel 1934.
Caduto Mussolini, «neppure si concepisce che il socialismo possa rinascere se non contestualmente all’Avanti!» che esce clandestinamente già il 22 agosto 1943. Alla liberazione di Roma, la sera del 5 giugno 1944, il giornale «Anno 48. Nuova serie, n. 1» è «sventolato come una bandiera vittoriosa» nei cortei che festeggiarono l’ingresso dei soldati americani.
Il quotidiano divenne subito il quotidiano più diffuso e autorevole del Sud, che presto raggiunse le 50mila copie, mentre al Nord un’edizione clandestina arrivò a stamparne 15mila. Dopo la Liberazione raggiunse presto le 360mila copie, grazie a quelle caratteristiche che l’avevano fatto grande alla nascita: l’attenzione a quanto di meglio esprimeva la cultura italiana e mondiale, grazie a collaboratori di vaglia (da Franco Fortini a Fernanda Pivano, ai giovani Paolo Grassi e Giorgio Strehler), ma anche allo sport, alla cronaca nera, alle lotte del lavoro, che la «stampa borghese» ignorava o distorceva, con giornalisti che diventeranno famosi come Ugo Zatterin o Ruggero Orlando (corrispondente da Londra).
La storia dell’Avanti! fu, anche nel dopoguerra, la storia del suo partito, coi suoi successi e le sue sconfitte, pregi e limiti, intuizioni ed errori. Una storia che dagli eroici giorni del 1896 arrivò al «logoramento e al declino» del 1987-1992, sino al «crollo» del 1993. Una storia raccontata con competenza e partecipazione da Ugo Intini che al giornale ha lavorato 27 anni e che lo ha diretto dal 1981 al 1987.
Il ponderoso volume si legge come un romanzo perché la storia d’Italia vista dalla redazione del giornale, si anima delle passioni di quegli uomini e quelle donne, che quella storia non solo l’hanno fatta, dividendo il loro impegno di giornalisti con l’attività di dirigenti di partito, ma l’hanno determinata anche raccontandola giorno per giorno, trovando un senso ai grandi e ai piccoli accadimenti quotidiani. E così facendo hanno orientato masse di cittadini, rendendoli consapevoli dei propri diritti, dando loro il coraggio di organizzarsi per rivendicarli.

Corriere 29.10.12
La vista corta dei primi radicali
Valiani, Pannunzio e quella «terza via laica» senza sbocco
di Ernesto Galli della Loggia


I volumi: Mario Pannunzio e Leo Valiani, «Democrazia laica. Epistolario, documenti, articoli», a cura e con introduzione di Massimo Teodori, editore Nino Aragno, pp. 254 e 256, 30, verranno presentati il 26 novembre alle 17.30 alla Sala Aldo Moro della Camera da Adolfo Battaglia, Massimo Bordin, Stefano Folli, Ernesto Galli della Loggia e il curatore Massimo Teodori

Curando questi testi di Mario Pannunzio e Leo Valiani sotto il titolo Democrazia laica. Epistolario, documenti, articoli (due volumi pubblicati dall'editore Nino Aragno), Massimo Teodori fornisce un contributo importante alla conoscenza delle vicende di un'area ideologico-culturale molto specificamente italiana la quale, come si sa, ha sempre visto al proprio interno un gran numero di personalità di rilievo, ma in complesso non ha mai avuto un peso politico adeguato.
Al centro dei due volumi sono la nascita nel 1956 del Partito radicale — della cui segreteria politica Valiani, che era già da tempo importante collaboratore del «Mondo» di Pannunzio, fece parte nei primi due anni per esplicita volontà di Pannunzio stesso — e la sua difficile vita fino alla crisi del 1962, che ne vide una decisiva trasformazione di natura e di indirizzo, con il passaggio in carico a un gruppo di «giovani» guidati da Marco Pannella. Di quel «primo» Partito radicale, nato, per dirla all'ingrosso, dalla confluenza di liberali di sinistra e azionisti di destra, Valiani, che durante la Resistenza era stato per l'appunto segretario del Partito d'Azione, fu esponente non solo autorevole ma, compatibilmente con il suo ruolo all'ufficio studi della Banca Commerciale, anche impegnato sul campo.
E proprio dai documenti della sua direzione riportati in queste pagine, tanto più se letti alla luce dell'oggi, emergono con chiarezza seppure indirettamente i motivi per i quali l'area di cui sto dicendo ha sempre avuto grande difficoltà a trovare un suo consistente spazio politico. Un conto, infatti, sono le qualità che deve possedere uno studioso o in genere un intellettuale, un conto tutto differente quelle di un dirigente politico. A Valiani, dotato in grandissima misura delle prime, mi sembra che invece mancassero in buona sostanza le seconde; e ho il sospetto che questo fosse il caso di parecchi suoi compagni di partito e d'area: allora, prima d'allora, e dopo. Sono frequenti ad esempio, nei suoi interventi e nelle sue relazioni, la tendenza a passare in maniera meccanica da presunti antecedenti storici alle situazioni attuali (si veda, per dirne una, l'idea, insistita, che l'Italia dell'incipiente centro-sinistra fosse alla vigilia di una fase giolittiana, addirittura che Giolitti — l'uomo del patto Gentiloni e della guerra di Libia ! — avesse «veramente fatto una politica radicale»); la propensione a definire la propria identità e il proprio ruolo politico non tanto in relazioni a esigenze, a richieste o a obiettivi specifici riferiti alla società, e da fare propri, quanto soprattutto come una sorta di virtuoso giudice-arbitro, di «vigile osservatore», scrive Valiani, dei comportamenti dei partiti maggiori, naturalmente buoni o cattivi a seconda che siano più o meno vicini ai desiderata del suddetto osservatore; la tendenza, ancora, a sorvolare sulle ragioni politiche profonde di fenomeni come «il malgoverno», a non ritenerle meritevoli della minima analisi, preferendo invece esaurire tutto nella condanna di tono morale.
Insomma è difficile sottrarsi all'impressione di un modo di far politica che alla fine risulta tutto chiuso ferreamente nella gabbia dei partiti, delle loro strategie come delle loro anche più miserevoli beghe interne; beninteso, con le ovvie simpatie e antipatie che ci si aspetta da posizioni come quelle terzaforziste. Per le prime la palma va naturalmente ai socialisti, sempre cercati e invocati come interlocutori ma, per esempio, senza mai compiere un'analisi di che cosa significasse l'ampio terreno ambiguamente in comune tra i propositi nazionalizzatori-pianificatori alla Lombardi, allora imperanti tra di essi, e quelli in tutto e per tutto analoghi sostenuti dai comunisti.
Sta di fatto, comunque, che dalle pagine di Valiani non sembra giungere alcuna eco dei grandi cambiamenti che proprio in quegli anni stanno scuotendo il Paese e ne stanno cambiando il volto (siamo nel pieno del miracolo economico). Nulla si sente della modernizzazione impetuosa, dei vasti fenomeni di democratizzazione che l'Italia ha iniziato a sperimentare e su cui invece di lì a poco il Pr di Pannella avrebbe abilmente puntato. Di questa vista corta mi sembra un prova significativa il giudizio che viene dato della Democrazia cristiana. Il gigantesco fatto storico — che potrà anche non piacere, ma che non per ciò cessa di essere reale — che la democrazia in Italia in tanto è stata resa possibile in quanto è stata tenuta a battesimo dal partito cattolico, è virtualmente passato sotto silenzio, non affrontato mai in tutta la complessità di questioni che esso dovrebbe porre proprio a dei democratici tanto più se «laici» (memori della circostanza, magari, che nel 1948 non pochi dei loro amici in nome del laicismo stavano per consegnare la suddetta democrazia alle cure del Fronte popolare). La Dc, invece, almeno in questi anni e con una parziale eccezione per De Gasperi, è sistematicamente equiparata ad un partito «conservatore e clericale»: giustappunto al fine, vien quasi da pensare, di non gettare la minima ombra sul senso del proprio autocompiacimento «laico».
Un libro, dunque, questo di Massimo Teodori, che serve a spiegare non poco, per la parte che lo riguarda, l'incapacità di rinnovarsi che ha condotto a un virtuale esaurimento tutte le culture storiche dell'Italia repubblicana. Tutte — anche quella della «democrazia laica», ahimé — cadute sempre più in un'autoreferenzialità incapace di vedere il nuovo e di prenderne le misure.

Corriere 29.10.12
Il tutto non esiste, ci sono solo i fatti
di Markus Gabriel


Emanuele Severino è un realista. Ritornando a Parmenide egli accetta, infatti, che ci sia un essere indipendente dall'ambiente umano. Spero non suoni eccessivo affermare che entrambi apparteniamo alla stessa famiglia, il cui capostipite fu Parmenide in persona.
Ciò che accomuna tutti gli appartenenti a tale famiglia, credo, è la convinzione che ci sia almeno un fatto che noi non abbiamo prodotto, aspetto che ho chiamato nel mio libro Il senso dell'esistenza «l'argomento della fatticità». Parmenide lo chiamava semplicemente «l'essere» e argomentava a favore della possibilità di poterlo conoscere. Come minimo un fatto è conoscibile, io interpreto così la celebre sentenza «l'essere e il pensare sono lo stesso».
Nel suo articolo del 16 settembre, Severino formula tre importanti e acute questioni in merito alla mia posizione: 1) Cosa significa «apparizione»? 2) Accetto il principio di non contraddizione in quanto assoluto? 3) La contingenza di cui parlo è, in fin dei conti, una forma di necessità? Rispondiamo.
1) Per «apparizione» intendo l'appartenenza di un oggetto a un campo di senso. Questa relazione non è in generale matematica per il semplice fatto che non tutti gli oggetti sono matematici. La cittadinanza non è una proprietà degli insiemi. Essere italiano significa appartenere al campo di senso della Costituzione italiana, che non è certo identico all'insieme di tutti gli italiani. Proprio per questo non può esistere qualcosa come «il tutto». Perché quest'ultimo non può appartenere ad alcun campo di senso. Nemmeno a se stesso. Se appartenesse a se stesso, tutto ciò che appare, accadrebbe come minimo due volte. Il tutto esisterebbe come raddoppiato: in quanto tutto e in quanto il tutto nel tutto. Io non distinguo fra l'essere e l'ente, come ha fatto Heidegger, bensì tra il campo di senso e gli oggetti che appaiono in esso.
2) Per il campo di senso della costruzione di teorie filosofiche io accetto il principio di non contraddizione. I filosofi devono sempre ambire alla coerenza, fornendo motivazioni per il loro argomentare. La filosofia è una forma d'Illuminismo ed è democratica, essa non contempla meramente la verità, ma propone o confuta principi e teorie per l'opinione pubblica. Il principio di non contraddizione non regna però sul tutto. In primo luogo perché non c'è qualcosa come il tutto e in secondo luogo perché esistono contraddizioni. L'ingenua teoria degli insiemi è contraddittoria, ma non solo, gli esseri umani si contraddicono di continuo, talvolta senza nemmeno rendersene conto. La realtà è dunque parzialmente contraddittoria, per questo ci sforziamo di eliminare le contraddizioni.
3) La necessità esiste solo come proprietà locale in un campo di senso, così come la contingenza. Nel Senso dell'esistenza spero di non aver affermato che tutto è contingente, proprio perché non c'è un campo di senso come il tutto. Io non credo dunque che tutto sia contingente o necessario, ma soltanto che tutto esista (salvo il Tutto). Io concordo con Severino nell'affermare che sia necessario che esista qualcosa e non, piuttosto, il nulla. Ma a differenza di lui, affermo che esistono infiniti campi di senso e infinite forme dell'apparizione. L'apparizione si dice in molti modi. La filosofia non può valutare tutti i campi di senso. Per questo non esiste una filosofia onnicomprensiva. Alcuni campi di senso sono senza dubbio costruttivistici, per esempio alcuni oggetti sociali, come rileva Ferraris.
Che tutto esista non significa inoltre sostenere che ogni affermazione sia vera. Il relativismo in filosofia è una posizione falsa. Perché in essa non si tratta d'altro che della verità e dello scoprire la verità. Chi rinuncia alla verità, rinuncia alla libertà e si abbandona alle tirannie sofistiche. La famiglia di Parmenide rifiuta tale atteggiamento ed è dunque sempre disposta al dialogo, un dialogo in cui la posta in gioco è sempre la verità stessa.
Professore all'Università di Bonn

Repubblica 29.10.12
Iniziata una rivoluzione degna di Gutenberg
di Mario Pirani


Ha preso il via una rivoluzione epocale nell’ambito della scuola ma, al di fuori degli istituti, quasi nessuno se ne è accorto. Anche se si tratta di una realizzazione degna di essere tramandata alla storia. Una svolta segnata dal passaggio dei due terzi dei libri di testo, dal cartaceo al digitale. Una rivoluzione paragonabile a quella che venne compiuta nel 1455 da Gutenberg, quando stampò il primo libro scritto, la Bibbia. Da allora tutto l’assieme delle conoscenze scritte passò dalla copia a mano e da altre forme di trascrizione al linguaggio stampato. La cultura cambiò forme, contenuti, dimensione e diffusione. Oggi l’occasione è analoga e solo la sordità mediatica di un governo tecnico poteva non accorgersi di quale piatto si stava bollendo nelle sue pentole. Comunque sia lode ai suoi autori.
La normativa è già stata approvata per legge. Non starò a tradurla dal linguaggio legal-burocratese (decreto Sviluppo 2.0, ottobre 2012) e mi limiterò all’essenziale da cui risulta che da ora in avanti i libri di testo per le scuole del primo ciclo d’istruzione e per gli istituti d’istruzione del secondo grado saranno prodotti in tre versioni: a stampa, online scaricabile da Internet oppure derivante dai contenuti digitali integrativi (tablet, programmi specifici, ecc). Il piano è già stato avviato e pubblicato con il suo inserimento nell’Agenda digitale italiana sulla scia dell’analogo documento europeo le cui linee erano state fissate dal summit di Lisbona. Il ministero fisserà le caratteristiche tecniche della parte cartacea dei libri nonché della parte digitale. Rilevante si annuncia una ridefinizione dei tetti di spesa alla luce dell’attesa riduzione di costi della componente cartacea per effetto dell’introduzione del digitale.
Uno dei più competenti formatori del nostro sistema scolastico, il professor Giovanni Biondi, ci ha permesso di dare una scorsa ai primi capitoli di un suo libro in corso di pubblicazione sull’Information and Communications Technologyche affronta i temi dello sconvolgimento avviato nella scuola italiana , “il più grande sistema sociale del paese ed anche la più grande azienda, con quasi 9 milioni di studenti e 700.000 insegnanti… se però analizziamo gli strumenti utilizzati nelle aule ci accorgiamo che il 90% applica contenuti su carta e solo il 16 si avvale di un setting didattico innovativo. Contemporaneamente, però, ben il 93% dei ragazzi tra i 12 e i 18 anni usano Internet quotidianamente; di poco inferiore (92,1%) la percentuale di studenti che usa quotidianamente il computer”. Si giunge così all’assurdo che la Rete è diffusissima fuori della scuola mentre all’interno investe una esigua minoranza. Ne consegue un gap di competenze che pone gli insegnanti sovente in una posizione di inferiorità nei confronti dei propri allievi. Ad aggravare la situazione interviene un dato anagrafico: l’Italia ha il più alto numero di insegnanti che superano i 50 anni, solo il 3% è inferiore ai 30. È facile capire perché la resistenza alle trasformazioni sia la più radicata in questi strati, a cui si uniscono gli editori e qualche gruppo di pedagoghi conservatori. Ma è possibile rassegnarsi ad una disconnessione pressoché totale della scuola nei confronti della società ? Una società che “parla digitale”, che sfrutta nella vita di tutti i giorni le opportunità offerte dalle nuove tecnologie ed una scuola basata invece sulla “carta” ... una scuola che ancora troppo spesso insegna l’inglese come il latino, attraverso una comunicazione distante dai nostri studenti abituati ad apprendere da altri linguaggi multimediali molto più efficaci e soprattutto interattivi, che permettono loro di entrare nell’infinitamente piccolo o esplorare l’infinitamente grande? I cosiddetti “nativi digitali” hanno spesso poche motivazioni a stare in classe. Uno di loro, su un blog, ha scritto recentemente un frase emblematica: “Se la noia fosse un fossile la scuola sarebbe un museo”. Difficile contestarlo.

Repubblica 29.10.12
Super poteri alla Melandri per il Maxxi
di Carlo Alberto Bucci e Francesco Erbani


ROMA Nominata Giovanna Melandri alla presidenza del Maxxi, per il museo arriva anche il nuovo statuto che nelle mani del presidente concentra molti poteri sottraendoli al consiglio d’amministrazione. E che, soprattutto, moltiplica le poltrone: dalle attuali tre direzioni (arte, architettura e segretariato generale) si passa a sette, istituendo altri quattro dipartimenti con relativo direttore (si parla di fotografia, design, moda e pubblicità).
Al momento sono indiscrezioni. Al Collegio Romano si è deciso di accelerare i tempi. La spiegazione formale è che le modifiche servono ad attirare soci nella Fondazione del Maxxi, soci privati, si spera al ministero, in grado di portare soldi in una struttura per ora solo pubblica. Le modifiche statutarie, in realtà, spettano al consiglio d’amministrazione e la procedura è complessa. Invece il nuovo statuto sarebbe uno degli ultimi atti del commissario Antonia Pasqua Recchia, il segretario generale del ministero che ha retto il Maxxi dopo l’estromissione di Pio Baldi e del vecchio cda.
Già oggi lo statuto potrebbe essere pronto. Secondo diverse fonti, i poteri sono accentrati nelle competenze del presidente che possono essere esercitate direttamente o attraverso regolamenti sempre approvati dal presidente. Il ruolo degli altri membri del cda - per tre dei quali si attende la nomina ministeriale, il quarto è espressione della Regione - sarebbe invece molto ridotto. Quando al vertice del Maxxi sedeva Baldi, il presidente assumeva anche le prerogative dell’amministratore delegato, una figura inesistente nell’organigramma. Ma la funzione del cda non era marginale.
Gli incarichi dirigenziali saranno più che raddoppiati. Ma sarebbe previsto che il presidente li possa ancora aumentare. Le nomine dei dirigenti sarebbero tutte decise dal presidente, mentre il resto del personale sarebbe selezionato attraverso bandi pubblici. Infine verrebbe introdotta la figura di un direttore unico del comitato scientifico.
Melandri, la cui nomina ha suscitato molte polemiche, avrebbe quindi un controllo stretto sul Maxxi, a questo punto caratterizzato da una governance inedita nel panorama delle istituzioni culturali. Si dice che anche il premier Mario Monti abbia saputo della scelta di Lorenzo Ornaghi di nominare la parlamentare pd a cose fatte. E che abbia manifestato la propria «irritazione».
Molti malumori si raccolgono fra il personale del Maxxi soprattutto se fosse vero che l’accresciuto potere del presidente comporta scossoni nella struttura interna. Inoltre si apre il capitolo nomine: quanto peserà il profilo non tecnico di Giovanna Melandri nella selezione dei dirigenti?
Intanto la Commissione cultura alla Camera oggi riprende a discutere la legge di Stabilità. Si attende il via libera per domani ma nella Lega e nello stesso Pd non si capisce perché l’unica istituzione che incrementa il budget, di 1,7 milioni, debba essere il Maxxi della Melandri mentre nemmeno un euro per la Biblioteca dei ciechi di Monza o per il Teatro Carlo Felice. «Qui tutti mangiano pane e cipolla, per qualcuno invece arriva la Nutella» ha protestato Emilia De Biasi del Pd.

Corriere 29.10.12
«Scoperti in Bulgaria i resti della più antica città preistorica»


Una spedizione archeologica ha scoperto in Bulgaria una città preistorica che potrebbe essere la più antica d'Europa, fondata intorno a un centro di raccolta e di lavorazione del sale. «Questa è la più antica città preistorica, una città nel V millennio a. C. Il sale era un bene molto prezioso, necessario alla vita di tutti i giorni ma anche prodotto di scambio, una sorta di valuta», ha detto il capo spedizione Vassil Nikolov. Gli scavi, condotti da un team di esperti bulgari sul sito Provadia-Solnitsata, sono iniziati nel 2005, ma solo di recente la missione si è resa conto di avere davanti una città fortificata di circa 350 abitanti organizzati intorno a una struttura religiosa e commerciale che ha consentito di definirla come una vera città preistorica. «Questo è un sito meraviglioso... Qui c'è lavoro per diverse generazioni di archeologi», ha commentato Nikolov.

Repubblica 29.10.12
Come trovare le parole per raccontare una tragedia
di David Grossman


Lo scrittore israeliano racconta “Caduto fuori dal tempo”, il libro che nasce dalla terribile esperienza del figlio ucciso in guerra sei anni fa

UN UOMO si alza improvvisamente dalla tavola dove sta cenando, prende commiato dalla moglie e si avvia “laggiù”, alla ricerca del figlio morto. Così, da questa immagine e da questo movimento, è nato in me Caduto fuori dal tempo.
L’uomo che parte alla ricerca del figlio non sa dove sta andando. Lascia che siano le gambe a condurlo. Per giorni e notti gira intorno alla sua città.
La sua andatura si fa sempre più caparbia, decisa, e il suo movimento crea una specie di campo magnetico che influisce sulla città e sui suoi abitanti. Chi forse attendeva che comparisse un uomo simile, deciso a sfidare il confine tra “qui” e “laggiù” solo in forza di un grande desiderio, è attratto da lui, incapace di resistergli.
Così, notte e giorno, camminano il Duca fuggito dal suo palazzo e la riparatrice di reti da pesca, la levatrice e il ciabattino silenzioso, un uomo che annota freneticamente le cronache cittadine e un anziano insegnante che risolve problemi di matematica sui muri delle case. Da una finestra lontana li segue con lo sguardo un tipo collerico chiamato “Centauro”, bloccato alla sua scrivania e paralizzato dalla propria incapacità di ridar vita a suo figlio attraverso il racconto. I viandanti camminano uniti, cercando di avvicinarsi – per quanto possibile, per quanto sia concesso a un essere vivente – al luogo dove la vita e la morte si intrecciano.
Ora che ho il libro stampato davanti agli occhi, mi sento come se mi fossi svegliato da un lungo sogno, e per la centesima volta penso a quanto sia frustrante il tentativo di utilizzare parole del mondo dei vivi, di “qui”, per descrivere qualcosa che appartiene a “laggiù” e che, pur esulando dai confini della nostra coscienza e conoscenza, è così presente nelle nostre vite.
Durante l’intera stesura del libro ho avuto la sensazione che per parlare di “laggiù” fosse appropriato solo un grido animalesco, antecedente all’umanità, al linguaggio. O il pianto. Oppure un atto puramente fisico e del tutto inspiegabile: per esempio, una corsa senza meta fino all’esaurimento delle forze. O una camminata in cerchio, peregrina, anch’essa senza meta. O magari scavare una buca nel terreno e sdraiarvisi dentro ad aspettare, come hanno fatto i “viandanti” nel mio libro.
Eppure arriva un momento in cui si sente il bisogno di parlare. Perché è questa l’essenza dell’uomo: voler esprimere tutto “questo” e “laggiù” con parole, discorsi, scrittura, poesia.
E dopo aver inevitabilmente parlato e scritto e declamato, dopo tutto ciò, cosa ci resta se non rabbrividire, veramente inorriditi, per ciò che abbiamo fatto? Per aver dato a “questo” parole? Per aver preteso, con una traduzione mediocre e riduttiva, di rendere “laggiù” con i termini di “quaggiù”, di domare il caos, di trasformarlo in un’illusione effimera, in un’apparente consolazione?
* * *
Da quando ho perso mio figlio, ucciso in guerra sei anni fa, ho sentito di dover fare qualcosa. Di tentare un altro passo per arrivare “laggiù”, nel cuore di ciò che è successo. Cercare di capire, intuire. Dopo tutto, ho pensato, qualcosa di me, di mio, è già lì, quindi anche “laggiù” non mi è completamente estraneo...
Ricordo anche di aver pensato che, se il destino mi aveva mandato in quella terra di esilio, per lo meno avrei cercato di tracciarne una mappa, per quanto possibile e nell’unico modo che ho a disposizione: con la scrittura e il racconto. Avevo la flebile, patetica speranza che attraverso la scrittura avrei potuto trovare qualcosa – un cammino, una fessura, un contatto… Ritenevo di poter ammorbidire, rendere flessibile, far fluire un po’ di calore in qualche punto remoto, al limite estremo dell’universo, del nulla assoluto, dell’ermetico.
Oppure, accidentalmente, per puro caso, avrei inventato una frase magica, una sorta di “Apriti Sesamo” che all’improvviso avrebbe incrinato la scorza impenetrabile del nulla e forse allora, per un istante, avrei visto...
Naturalmente non ho visto quella “Terra di laggiù”. Però è successa un’altra cosa: l’esperienza dei vivi che toccano la morte, che sono toccati dalla morte, un’esperienza che un tempo mi sembrava sostanzialmente gelida, paralizzante e inanimata, nel corso della scrittura (e forse a causa di essa) si è rivelata complessa e articolata, dinamica e in costante evoluzione, venata di intimità, di nostalgia, di tristezza, di pienezza di vita e di vuoto di vita.
E dal momento in cui ho iniziato a scrivere, le frasi sono affiorate sotto forma di poesia, con il ritmo e il respiro della poesia. Non è stata una scelta. Non è stata una “decisione”. Un attimo prima non sapevo che sarebbe stato così, ma mentre scrivevo le parole arrivavano quasi sempre sotto forma di poesia. Ogni giorno mi sedevo a scrivere prosa, e scaturiva poesia. Perciò ho capito: la poesia è il linguaggio del mio dolore. Posso solo supporre per quale motivo le cose siano andate così. Forse perché la poesia è più vicina al silenzio. O perché l’impulso di scrivere arrivava quasi sempre insieme a quello di non scrivere e alla sensazione che, se proprio dovevo dire qualcosa, quella cosa doveva essere esile, quasi evanescente: poesia.
Ma queste sono spiegazioni successive, un tentativo di trovare un senso a ciò che probabilmente un vero senso non ha. Quando cerco infatti di capire perché io abbia scritto il libro in questo modo, ricordo soprattutto una sensazione fisica mai provata in precedenza: come se una forza mi piegasse il polso costringendomi a interrompere la frase proprio in quel punto, a metà strofa, a metà di un respiro, e obbligandomi a passare alla riga successiva.
Voglio aggiungere un’altra cosa a proposito della stesura di questo libro: il primo impulso a scriverlo è nato dalla volontà di creare un movimento nella staticità assoluta. Nell’immobilità e nel gelo totale che la morte impone non solo a chi muore ma anche, in un certo senso, a chi soffre per quella morte.
E, ripeto, posso immaginare – soltanto immaginare – di avere cercato non solo delle parole ma anche il modo con cui quelle parole divenissero movimento. Di aver cercato un ritmo che mi desse la sensazione di potermi ancora muovere, di essere libero dinanzi a ciò che minacciava di paralizzarmi e pietrificarmi.
E man mano che la scrittura procedeva capivo ciò che ha capito Centauro nel libro quando dice: Ed è la mia anima, a essere falciata nel gelido biancore fra una parola e l’altra. Sono io, io a fremere come una preda nelle fauci dell’assoluto.
Combatto per me stesso, solo per la mia anima contro ciò che annichilisce offusca e sminuisce.
Tutta la mia vita ora, tutta la mia vita in punta di penna.
Ecco cosa mi ha dato la scrittura: la sensazione di non essere una vittima passiva e impotente di ciò che è accaduto. Ovviamente non potrò cancellare il passato e non potrò riportare in vita il mio caro e neppure far muovere nulla in lui. Ma non sarò paralizzato e immobile contro l’arbitrio che mi ha colpito. E un’altra cosa ho imparato in questi anni: in certe situazioni l’unica libertà che ha un uomo è quella di formulare la propria storia con le proprie parole, non con quelle dettate da altri.
So quanto sia piccolo l’atto creativo dinanzi alla morte. Quanto l’impulso di creare, inventare, immaginare, insistere a cercare la parola giusta, l’unica, sia senza speranza. E, in generale, so quanto sia fragile l’illusione umana che questo sforzo di precisione abbia un qualche significato “obiettivo” in un mondo indifferente, arbitrario e inspiegabile.
Eppure, mentre scrivevo, avevo spesso la sensazione che se avessi trovato la parola giusta avrei in qualche modo compiuto una piccola riparazione; avrei creato un luogo – o addirittura una casa – per me e forse anche per chi leggerà il libro, in un mondo divenuto quasi interamente terra di esilio.
Del risultato finale, del libro terminato come opera che va incontro al suo destino, testimonieranno gli altri. Io posso solo dire che mentre lavoravo a questo libro sentivo – in contrasto con le circostanze in cui è stato scritto – di essere fortunato perché potevo
dare a tutto “questo” parole.
Traduzione di Alessandra Shomroni