martedì 30 ottobre 2012

l’Unità 30.10.12
Vince Crocetta sulle macerie
Boom di Grillo al 18%. Astensione al 52%. Il vincitore: in Sicilia cambierà tutto
O si cambia o si muore
di Claudio Sardo


È UNA VITTORIA STORICA PER LA SINISTRA SICILIANA. Un successo mai neppure sfiorato dal Pd o dall’Ulivo negli anni di Berlusconi. Eppure non c’è da esultare. Più della metà degli elettori ha disertato le urne. Quello di Grillo è diventato il primo partito. L’esplosione del centrodestra non ha portato consensi al centrosinistra. La crisi politica unita a quella sociale spinge al ribellismo anziché alla ricostruzione. Lo scenario è pieno di macerie. E Rosario Crocetta, segno di rottura e di legalità, non dispone di una maggioranza precostituita che gli assicuri una navigazione sicura. Sarà un’impresa difficile. L’allarme è già suonato. La sfiducia verso i partiti rischia di diventare sfiducia nella democrazia. È suonato l’allarme anche per il Pd, il solo «partito» rimasto in campo. Non c’è più tempo. Il cambiamento va messo in campo ora. Non ci sono tatticismi che tengano. Vale per Crocetta, che deve costruire il suo governo con coraggio, sfidando l’Assemblea regionale. Vale per Bersani, che deve prendere il testimone di Monti dimostrando che i tecnici non sono stati una parentesi, ma neppure sono una condanna.
In Sicilia ha vinto un’alleanza di progressisti e moderati. È l’orizzonte di una riscossa civica, costituzionale, sociale. Ma serve ancora apertura, umiltà, rinnovamento. Guai a chiudere le porte. Bisogna includere per dare speranza, per progettare sviluppo. Chi a sinistra pensava di trarre una rendita di posizione dalla protesta è stato sconfitto. Il ribellismo è carburante solo per Grillo. Chi non si mette in gioco e non è disposto a rischiare, ha già perso.

il Fatto 30.10.12
Il personaggio. L’ex sindaco di Gela
Comunista, gay e ora governatore
di Antonello Caporale


Ride e piange e mastica parole con l'avidità di chi addenta l'enorme arancino al ragù, orgoglio della Sicilia d'oriente: “Sono l'uomo dalle sette Stelle, l'unico vero innovatore. Ho cambiato la Storia!”. L'isola si consegna a Rosario Crocetta e gli regala la sua disperazione e i suoi sogni. E anche la propria dabbenaggine, i voltafaccia, gli inghippi di legge e le preghiere per la famiglia. La Sicilia sa di essere sempre assolta da Rosario, il suo nuovo tribuno.
È LA PRIMA VOLTA che un comunista giunge a palazzo d'Orleans con la vidimazione del voto popolare. “Cose da pazzi”, ha detto Pier Luigi Bersani. E ha ragione da vendere. È davvero un dato storico, un evento, quasi una rivoluzione. È anche l'annuncio di quel che potrà essere il nuovo Parlamento. Crocetta è simpatico, alla mano, disponibile, ciarliero. Crocetta è l'antimafia, viaggia sotto scorta, ha paura di morire “ma so che c'è questa possibilità”. Crocetta è il secondo politico gay italiano a conquistare una poltrona di peso, e dopo Nichi Vendola è il secondo meridionale a imporre la sessualità come elemento centrale della propria personalità. “Quando si hanno ruoli pubblici si deve essere molto casti e io annuncio che se vincerò le elezioni non farò più sesso”. Che sia vera o falsa, come speriamo, la sua intenzione, già la forza eccentrica di questo impegno, il primo tra tutti gli altri preso in campagna elettorale, costituisce per l'antico mondo democristiano siciliano un atto di rottura enorme, un cambiamento epocale. Da gay ha accusato “le criptochecche” degli altri partiti di mascherarsi appunto e trasformarsi in impeccabili etero. Il Gattopardo dopo tutto è nato non lontano dalla sua Gela, città che ha governato spesso con ottimo tempismo mediatico. Sicuramente onesto, sicuramente coraggioso, sicuramente narciso. Si piace Rosario , e non lo nasconde. La foto da grande pensatore, la sciarpa, la capacità di stare sul palco come fosse una grande quinta teatrale, e i suoi abbracci, le sue lacrime, la commozione che accompagna il lungo e faticoso vocabolario di guerra. Guerra alla mafia anzitutto, “e tu Lucia Borsellino, figlia di Paolo le cui membra sono state disseminate in ogni luogo, sarai la mia assessora alla Salute!”. E giù lacrime e ricordo dei poliziotti uccisi, della sventura e della paura. Crocetta è anche politico di lungo corso, comunista navigato, attento ai dosaggi opportuni.
HA IN LISTA i volti di sempre, le facce di pietra che hanno sgovernato la Sicilia. Eppure nega: “L'Udc sta con me perchè Totò Cuffaro e Saverio Romano ne sono usciti”. Ha su di sé il peso del sospetto di essere spalleggiato da Raffaele Lombardo, eppure dichiara: “Sono stato l'unico a combatterlo veramente”. Ha deciso che licenzierà già oggi il primo delle migliaia di consulenti di questa Italia eternamente scandalosa. Lo farà davvero? Adesso importa che lo dica. E l'ha detto a suo modo, senza tweet di mezzo, con un bel megafono da anni '70.

La Stampa 30.10.12
Il poker di Crocetta ex sindaco antimafia
Gay, cattolico e comunista, ha battuto anche Sel e Idv
di Amedeo La Mattina


Per conquistare Palazzo d’Orleans che brucia (di debiti) come l’Etna, Rosario Crocetta ha dovuto vincere quattro sfide. La prima personale: convincere i siciliani a votare un gay dichiarato. La seconda: imporre una candidatura di sinistra in una terra che ha sempre eletto presidenti democristiani o di quella matrice. La terza: far digerire a una parte del Pd e della sinistra l’alleanza con l’Udc. La quarta: vincere in una Regione dove la mafia è rimasta a guardare, mentre nelle viscere dell’isola si apriva la faglia grillina destinata ad attraversare lo Stretto di Messina.
Più della metà dei siciliani non sono andati a votare, avviliti dalla crisi economica e dalla mancanza di lavoro, per rottamare una politica lontana e traditrice. Gli stessi siciliani che solo quattro anni fa elessero Raffaele Lombardo con un 1,8 milioni di voti. Ora Rosario, l’eurodeputato ex sindaco di Gela che è stato eletto con solo 650 mila voti, ha davanti a sé la sfida più terribile, governare senza una maggioranza e recuperare la credibilità perduta, colpire la casta, le clientele, fa ripartire l’economia, evitare il default di una Regione con 6 miliardi di debiti. «Io sono un rivoluzionario, cattolico e pacifista, e ce la farò. Nessuno mi fermerà anche se mi rendo conto che corro il rischio della vita», dice Crocetta davanti al Teatro Politeama prima di avviarsi a piedi verso il suo comitato elettorale.
Dedica la sua vittoria alle mamme come la sua, una modesta sartina che viveva con il marito precario e quattro figli maschi in una piccola casa popolare alla periferia di Gela. Una madre che gli ha insegnato che è «meglio essere poveri ma onesti». Quindi basta, non vuole più sentire «domande demenziali» del tipo con chi ti allei? con chi inciuci? Basta, lui inciuci non ne farà mai. «La mia è una storia di onestà, sono un condannato a morte dalla mafia. Se non avrò una maggioranza, cercherò i voti in aula, provvedimento per provvedimento, parlerò pure con i grillini, e se non mi faranno governare mi rivolgerò ai cittadini e questa volta prenderò il 60%. Io sono veramente rivoluzionario – ripete - ve ne accorgerete, non come Grillo che blatera».
Circondato da un putiferio di giornalisti, telecamere e microfoni, il signore di provincia, l’ex ragazzino povero di 62 anni percorre a piedi l’elegante controviale di via della Libertà fino al comitato elettorale che qualche mese fa ospitava il quartier generale dell’arci-nemico Leoluca Orlando. «Il sindaco di Palermo che fa il grillino senza Grillo…», cala la sciabola Rosario che ha fatto di tutto per avere accanto l’Idv di Orlando e Sel di Fava. Loro gli hanno sempre rinfacciato di essersi alleato con quella Udc che avrebbe ancora il marchio di infamia di Totò Cuffaro finito in carcere per mafia. E di avere stretto un patto scellerato con Lombardo: io ti porto i voti per vincere e poi ci dividiamo le poltrone. Ora Crocetta si è vendicato: Sel e Idv non hanno superato lo sbarramento del 5% e non entrano all’Assemblea siciliana.
Piove, fa freddo a Palermo. Le commesse dei negozi della Palermo bene si affacciano, intirizzite e incredule, per vedere il governatore venuto dalla provincia di Caltanissetta, ma che parla quattro lingue tra cui l’arabo imparato quando era perito chimico dell’Eni e girava nei paesi petroliferi. Si affacciano affranti anche i volontari del comitato di Musumeci, lo sconfitto che se la prende con la Sicilia degli «eterni gattopardi». Mentre il vincitore ora afferra un megafono e rivendica di avere rotto «il muro di gomma» perché per la prima volta è stato eletto un candidato che ha scelto come valore fondante la lotta alla mafia. Promette che verranno sbloccati i finanziamenti europei e le autorizzazioni tenute ferme dai burocrati della Regione che impediscono ai privati di lavorare. Già i burocratici, verranno rimossi i direttori generali e allontanati tutti consulenti pagati profumatamente. Anche i precari andranno a casa? «Ma voi siete fissati con questi precari – risponde ai giornalisti nella bolgia - perché dovrei mandarli a casa? ». Suo padre era uno di questi.

Corriere 30.10.12
L'ascesa dell'ex Pci che cita il Vangelo
Crocetta, sindaco antimafia e omosessuale dichiarato: «Sono la rivoluzione»
di Dino Martirano

qui

il Fatto 30.10.12
“Il rottamatore siciliano: il nuovo che avanza”
Parla Pietro Barcellona: è un elettore attivo, colto, di ceto medio alto e ha deciso di fare fuori il sistema che ha governato l’isola e il Paese
di Antonello Caporale


Il nuovo astenuto è un signore colto, impegnato, attivo, di classe sociale medio alta. Una persona che non ha stima sufficiente per Beppe Grillo, non crede ancora oppure non crede affatto nelle sue acrobazie linguistiche, nel-l’artifizio della sua prosa da teatrante e non giudica possibile sostenere il Partito democratico nella versione edulcorata e un po’ falsificata di Rosario Crocetta. Che è un bravo figlio ma si è montato la testa”. Giurista comunista, di scuola ingraiana, grande vecchio della sinistra siciliana, Pietro Barcellona ha questi numeri in testa. “Il venti per cento in più degli astenuti è sicuramente sommabile al diciotto che ha votato Grillo. È un voto attivo e consapevole che protesta e seppellisce la vecchia classe dirigente e conduce il Pdl nelle catacombe. Il dato vero e nuovo è che Grillo si mostra come il vero, unico rottamatore italiano. Rottama linguaggi, persone, strutture, modi di comunicare. E – a mio modesto avviso – finisce per rottamare anche Renzi, il quale poveretto si ritrova con lo slogan già usurato e da domani avrà la testa piena di nuove preoccupazioni”.
Lei si è astenuto?
Io per tradizione voto a sinistra, sono disciplinato e mi sono imposto di segnare la mia croce su Crocetta. Senza esultare, conoscendo l’intento cosmetico della sua operazione.
Povero Crocetta.
Non è colpa sua, ma non ha meriti e talento sufficienti per affrontare la grande vera questione siciliana: la rendita parassitaria dell’impiego pubblico, della funzione pubblica, della consulenza pubblica. Il fiorire di antichi mostri democristiani dietro il paravento del suo corpo lo condurrà all’immobilismo, se non al fallimento. Se mi sbagliassi ne sarei felice.
Se il voto siciliano è sempre stato clientelare, perchè non è possibile ritenere che gli astenuti
siano anche i figli legittimi dell'assenza di offerta di spreco, del favore, del pacco di pasta.
Ma dai, ma quale pacco di pasta! E quanti pacchi di pasta ha consegnato Orlando a Palermo, quando si è ripreso la città con il settanta per cento? La verità è una sola: c’è un nuovo rifiuto, un atto di insubordinazione totale a questo ceto imbelle, ignorante e sprecone.
Ma i voti di Musumeci sommati a quelli di Miccichè conducono il centrodestra al quaranta per cento.
Lei somma capre e cavoli. Il centro-destra è finito perchè i suoi dirigenti si disistimano, non si parlano, guerreggiano. La posizione di Berlusconi, nel suo ultimo rombo di tuono, sancisce soltanto la sua funzione minoritaria. Gli dò il dodici per cento alle prossime elezioni nazionali, e mi sembra anche una percentuale alta. Il resto del centrodestra è disperso, confuso, ammaccato. Perde Alfano, straperde Schifani.
Fandonie. Perde anche Casini, malgrado la sua effigie sia issata sul carro del vincitore. Il suo centro è pura finzione. Dove sono i moderati? Non esistono in natura, non esiste più la forza riequilibratrice della Democrazia cristiana. Lui pensa di pesare, ma non può fare altro che impegnarsi in una funzione comprimaria, succedanea. La verità è che Berlusconi ha fatto un gran favore a Bersani col suo discorso da Caimano ritrovato: sancisce l’intangibilità di questa legge elettorale e con il Porcellum anche Bersani può davvero divenire premier.
Ed è un bene?
Temo che non abbia il taglio del grande riformatore, né la possibilità di gestire questa enorme crisi civile ed economica. Il voto siciliano ha spazzato via il Monti bis ma consegna al Parlamento l’ingovernabilità.
Grillo avanzerà?
Hai voglia tu! Ha fatto una campagna perfetta. In un mese si è fatto conoscere in un’isola piena di sospetti. Se ha il diciotto qui, in Lombardia avrà il venti, venticinque, chiaro.
E pure in Lombardia lei prevedeb l’aumento dell'astensionismo?
Sicuramente. E la medesima oggettiva saldatura col voto grillino. Nessuna delle due è una opzione qualunquistica o semplicemente antipolitica. I nuovi astenuti hanno la testa sulle spalle e la determinazione a sfasciare un sistema corrotto. I grillini aggiungono nuove velleità, la visione di una società capovolta nei suoi ritmi e nelle sue priorità.
I numeri si sommano ma non producono seggi in più.
In effetti il futuro prossimo è denso di brutte sorprese. Avremo ancora da ballare sull'orlo del baratro.

l’Unità 30.10.12
L’ultima possibilità
di Giuseppe Provenzano


Crocetta ha vinto. Nel marasma generale ha offerto la proposta migliore di cambiamento e responsabilità. Non deve, non può sfuggire a nessuno la portata storica della vittoria del centrosinistra in Sicilia.
Non può, non deve passare in secondo piano la sconfitta di quello che fino a quattro anni fa si presentava come il «centrodestra più forte d’Europa». La sconfitta storica di un blocco sociale della conservazione che si sgretola, il precipitato di oltre sessant’anni di classi dirigenti che si disperde in mille rivoli, con il tracollo del Pdl di Alfano. È stata la crisi che ha determinato, con la controversa stagione di Lombardo, fratture insanabili in quel campo di interessi e poteri forti. La perdita generalizzata di credibilità ha fatto restare a casa gli elettori. Non sfugge a nessuno la rilevanza nazionale di queste elezioni: per le prospettive di governo del Pd, per il destino di un centrodestra in cerca d’autore, per ciò che Grillo può rappresentare. Di quest’ultimo, ora s’avanzano proiezioni nazionali fuori misura: esagerano, non fanno i conti con lo specifico siciliano di protesta che il M5S ha saputo intercettare nella contingenza, anche grazie all’onda mediatica e alla campagna di Grillo.
Tuttavia, questo voto siciliano restituisce soprattutto un’isola in frantumi. È questa l’immagine di sintesi di ciò che non è sintetizzabile. È difficile mettere a fuoco l’intreccio di speranze e volontà, di interessi e ricatti, di dissenso, rivolta e altre pulsioni che fuoriescono dalle urne, e su cui si dovrà riflettere ancora a lungo e a fondo se la politica italiana davvero vorrà fare i conti con la realtà, e con se stessa. I principali partiti al netto di astensione, schede bianche e nulle rappresentano in Sicilia molto meno di un elettore su dieci. I riferimenti sociali si polverizzano, la variabilità territoriale del voto, tra aree interne e città, non si ricompone a nessun livello e si aggrega solo intorno ad alcune personalità.
È la deriva greca, una disgregazione sociale che si riflette nella disgregazione politica, e c’è da sperare che non si debba ricorrere a nuove elezioni. È la deriva greca, ma quasi con rassegnazione. Se nel voto di Atene era in gioco carne e sangue della nazione, qui è prevalsa la convinzione che non si giochi a Palermo, e forse nemmeno a Roma, la partita politica che possa davvero incidere nella vita quotidiana di bisogni insoddisfatti degli inoccupati, benessere minacciato dei lavoratori, libertà condizionata dell’impresa. E allora, nel popolo, oltre le minoranze di cambiamento, vince soprattutto il disincanto. È la democrazia mutilata dalla sfiducia nel presente e nella prospettiva, dalla estraneità di vasti settori sociali alla scena pubblica. Così, oltre la metà dei siciliani disertano le urne. Hanno votato 800 mila elettori in meno dell’ultima volta. È clamoroso, ma non sorprende, e non solo perché era stato annunciato alla vigilia del voto. È il frutto di un lento processo di separazione, già evidente alle elezioni europee e alle regionali del 2006 (quando aveva votato solo il 59%, mentre nel 2008 il 66% si spiega soprattutto con i due giorni di voto e l’accostamento alla campagna elettorale, assai infuocata, per le politiche). È la diffusione dell’idea mortale di una politica che ha perso gli strumenti, persino prima della credibilità, per uscire fuori dalla crisi economica e sociale; che ha perso la possibilità finanche di rispondere a interessi privati e particolari perché «alla Regione i soldi sono finiti» e così il «posto pubblico», perché «è finito il lavoro» ed è più difficile manipolarne l’accesso. È la lenta fine del voto di scambio, senza un’alternativa riconosciuta di sviluppo e nuove opportunità, urgente come urgente è la fame o il bisogno di liberazione di una generazione intera costretta nell’alternativa tra «fuga» o «spreco». È tutta qui la debolezza e l’estraneità di una politica che «non serve», avvertita solo come un insopportabile costo. La fine della politica che poteva tutto, testimoniata da una campagna elettorale in sordina e quasi clandestina, tutta volta nei partiti tradizionali all’affannata raccolta delle preferenze.
In questo contesto, sarebbe potuto accadere di tutto. È prevalsa la responsabilità, la saggezza, in buona parte dei siciliani: quel poco che si può fare a Palermo è bene che lo faccia il centrosinistra e Crocetta, con quel misto di «rottura», «capacità di governo» e «legalità» che rappresenta. Però per tutti i partiti per come sono oggi è suonata la campana. Suonava da mesi, in verità, almeno dalle elezioni di Palermo dove l’attuale sindaco è pronto a brindare alla «fine dei partiti» (a partire dal suo, visto il risultato). Crocetta avrà la difficile missione di volgere quest’autunno della politica in primavera, di ricostruire una Regione in crisi finanziaria, economica, sociale e politica. Ma c’è bisogno di ricostruire soprattutto partiti e organizzazioni sociali, tessere i legami del vasto mondo escluso da rendita e privilegi, legati a una macchina pubblica insostenibile.
È una sfida per un Pd, che è minoranza e perde consensi, che ha bisogno di una stagione di rigenerazione e cambiamento, di idee, uomini e comportamenti consolidati. Questo tempo amaro gli ha affidato il compito di rimanere in piedi tra le macerie, dove non può ricostruire chi fin qui ha distrutto.

l’Unità 30.10.12
La crisi è profonda: basterà una maggioranza relativa?
di Emanuele Macaluso


Il voto rispecchia la crisi politica e sociale in Sicilia. Ma è un segnale per il Sud e il Paese. L’astensionismo è il dato inquietante: cittadini che non volevano più votare per i partiti tradizionali, né dare un voto protestatario a Grillo.
Il quale, però, ha raccolto una gran parte degli indignatos siciliani. Il fatto che in questo marasma, la coalizione Pd-Udc abbia parzialmente e significativamente retto, è un altro segnale per la sinistra e per il centro. In questo dopoguerra la Sicilia ha conosciuto momenti in cui i movimenti contestavano e si contrapponevano ai grandi partiti nazionali impegnati a dare al Paese la Repubblica e la Costituzione. Dopo lo sbarco alleato del luglio del 1943 in Sicilia si manifestò un forte movimento separatista, soprattutto nelle grandi città Palermo, Catania e Messina che coinvolse il ceto medio urbano tanti giovani di destra e di sinistra.
La costruzione dei partiti nazionali e dei sindacati fu faticosa, soprattutto per quelli di sinistra; la Dc aveva radici nel Partito popolare di Sturzo e godette dell’impegno di gran parte del clero. Dopo il separatismo arrivò l’ondata monarchica insieme al movimento dell’Uomo Qualunque che ottennero un grande successo nel referendum istituzionale, nelle elezioni per la Costituente del 1946, nelle amministrative: governarono le città di Palermo e Catania e altri copoluoghi. Fu il grande movimento contadino, proprio nel 1946-47 e il grande impegno politico e organizzativo del Pci e del Psi, uniti nel Blocco del Popolo, ad affermare la forte presenza della sinistra, nelle prime elezioni regionali del 1947. La risposta della destra agraria e della mafia fu la strage di Portella delle Ginestre.
Con le elezioni del 1948, le forze conservatrici si radunarono nella Dc e i movimenti separatisti, monarchici e qualunquisti verranno assorbiti dal partito di De Gasperi. La Sicilia per 7 anni (48-55) fu governata dai governi di centrodestra presieduti da Franco Restivo, uomo colto e abile della conservazione siciliana. Ma la sinistra resse e resse bene, organizzando un blocco sociale e politico alternativo alla Dc. E quando a Roma entra in crisi il centrismo degasperiano, a Palermo entra in crisi il centradestra restiviano (1955) e si apre una fase di lotte politiche che provocheranno una scissione nel blocco sociale conservatore e nella Dc, con un movimento popolare guidato da un democristiano sturziano, Silvio Milazzo. Il movimento milazziano, nel quale confluisce la piccola e media impresa siciliana, grazie all’iniziativa del Pci, mosse verso sinistra. E anche se non resse all’urto dei grandi poteri nazionali e siciliani, facilitò l'avvento anticipato del centrosinistra (1961). Il quale dopo un inizio positivo, si consumò in una gestione clientelare della Regione, con una espansione della burocrazia e della spesa pubblica improduttiva che ha alimentato un sistema di potere inquinato dalla mafia.
Un sistema che alla fine degli anni Settanta entra in crisi anche perché nella Dc e nella società c’è un sommovimento che trova un riferimento nella svolta impressa da Moro sul piano nazionale. Sono gli anni di Piersanti Mattarella, dei suoi tentativi di intesa con il Pci, del mutamento di clima che si respira anche nel Palazzo di Giustizia dove operano magistrati che si chiamano Costa, Chinnici, Terranova e poi i giovani Falcone, Borsellino e altri. Sono gli anni in cui imperversa il terrorismo mafioso che massacrerà quei magistrati, Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa e tanti altri servitori dello Stato. E in questo clima rovente nasce il movimento della «Primavera» di Palermo che mette in crisi la Dc e in giuoco il Pci. Un movimento che ha come leader Leoluca Orlando, il quale, però, tende a personalizzarlo e a dargli un carattere giustizialista, a cui si associò il Pci entrando così nel cono d’ombra dell’orlandismo.
E ancora una volta si manifesta un movimento che appare travolgente negli anni del collasso di Dc e Psi. Il movimento dei sindaci in Sicilia mieteva successi impensabili: la sinistra in quell’onda vinse a Palermo, Catania, Messina e in tutti gli altri capoluoghi, mentre i partiti decadevano. Orlando a Palermo ottenne nel 1993 più del 70%. Ma, un anno dopo, nel 1994 il movimento berlusconiano di Miccichè, Dell’Utri e soci ottenne 61 seggi e zero la sinistra. E, ancora una volta, pochi mesi fa Orlando ottenne a Palermo più del 70%, ma ora il suo partito personale è sparito. Mentre scrivo sembra certa che la coalizione Pd-Udc guidato da Crocetta avrà la maggioranza relativa. Ma come sarà governata, se sarà governata, la Sicilia, dove i problemi aperti appaiono insolvibili? Chi avrà la forza di riformare radicalmente una Regione dove il bilancio non copre le spese dei dipendenti, dei consulenti e dei clienti?
Il partito più forte in Sicilia non è un partito, è un movimento di sola protesta e tale resterà. La destra consuma una crisi irreversibile, i partiti «locali» di Lombardo e Miccichè appaiono residuati di un tempo che non c'è più. La sinistra è debole e di incerta costituzione. Il centro dell’Udc è un insieme di ex Dc senza una chiara identità. Il mio non è un pessimismo cieco. Guardo la realtà, sperando che si radunino attorno al centrosinistra forze sociali e culturali che guardino con preoccupazione questa realtà e mettano mano a una ricostruzione che dia dignità alla politica e senso ai partiti. Se non ci sarà questa consapevolezza, la crisi siciliana, intrecciata con quella del Paese, può assumere caratteri imprevedibili. Riflettiamo tutti, anche a Roma.

il Fatto 30.10.12
Un grido di rabbia ma non basta
di Antonio Padellaro


Le elezioni siciliane hanno confermato ciò che tutti sanno ma che molti non vogliono capire. Primo: ormai è certificato che la popolarità dei partiti e dei loro leader è ai minimi storici. Come hanno fatto domenica più della metà dei siciliani è possibile che più della metà degli italiani, o giù di lì, il giorno del voto nazionale (ad aprile o forse prima) preferisca restare a casa. Secondo: questo rifiuto, che contraddice mezzo secolo di convinta partecipazione elettorale di massa, non nasce dal vento qualunquista dell’antipolitica, come ci ripetono ogni giorno i gran visir di palazzo, che appunto stando nel palazzo si ostinano a recitare litanie ammuffite a cui neppure loro credono più. Se costoro ogni tanto osassero salire su un bus o andare al mercato, si renderebbero conto che la stragrande maggioranza degli italiani ne ha piene le tasche di dover versare i propri sudati soldi a un sistema fiscale tra i più esosi e iniqui per poi apprendere di aver finanziato la casta ladra dei Fiorito e gli apparati famelici della politica intesa come strumento di tornaconto personale. In Sicilia un grido di protesta così forte e rabbioso non si era mai sentito prima. Ma attenzione: da solo rischia di perdersi nel deserto. Una volta assorbito il colpo, infatti, il sistema dei partiti con il 40 per cento (o fosse anche il dieci) potrà tranquillamente spartirsi l’istituzione regionale con annessa torta pubblica. Gli assenti, insomma, hanno sempre torto e la partita della democrazia è troppo importante per essere liquidata con un rifiuto o un’invettiva. Lo ha dimostrato il Movimento 5 Stelle del tanto vituperato Grillo, che ha mostrato molto più rispetto delle regole democratiche di tanti capi e capetti partitici, candidando facce veramente nuove, affrontando le piazze, mettendosi in gioco. L’altra buona notizia è l’elezione del pd Rosario Crocetta a Palazzo dei Normanni. Vedremo come saprà governare un’isola depredata dai predecessori. Ma con lui – nonostante certi alleati – vince un sincero, collaudato uomo della lotta alla mafia. E non è poco.

il Fatto 30.10.12
Politiche: “A rischio 8 milioni di voti”
Per i sondaggisti l’astensione è destinata a crescere, così come Grillo
di Davide Vecchi


Non andare a votare è stata considerata l’unica alternativa a Beppe Grillo. Oggi in Sicilia domani nel resto d’Italia, il partito dell’astensionismo che ha conquistato l’isola si sposterà nel resto della Penisola avanzando con sempre maggior impeto. Un uragano, alimentato dall’incapacità di rinnovarsi dei partiti tradizionali e dallo “spread”, ormai inaccettabile, tra la realtà in cui sono costretti i cittadini e quella (di privilegi) dei politici. La lettura mette d’accordo la maggior parte dei sondaggisti. Da Nicola Piepoli a Roberto Weber di Swg.
“Non c’è stato il rinnovamento politico che i cittadini auspicavano e quindi hanno risposto con gli strumenti a loro disposizione”, commenta Renato Mannheimer. “Il segnale è molto importante, c’è stato un forte incremento anche rispetto alle precedenti elezioni siciliane e si sono raggiunti limiti prima mai neanche immaginati”, conclude il presidente dell'Ispo (Istituto per gli Studi sulla Pubblica Opinione). La conseguenza “preoccupante - spiega invece Weber - è che da domani chi governerà la Sicilia lo farà rappresentando solo una parte minima dei governati e accadrà così anche nel Lazio e in Lombardia nei prossimi mesi, fino alle politiche”. Perché “è chiaro che Grillo a Roma porterà 130 parlamentari almeno”, aggiunge. E l’unico sfidante del Movimento 5 Stelle sarà l’astensionismo.
IN ALCUNI PAESI della Sicilia ha votato il 20% degli aventi diritto. Ad Acquaviva Platani, in provincia di Caltanissetta, hanno scelto il loro candidato solo 600 persone su 3100. A Riesi quattro mila su 14mila. Complessivamente ha votato il 47,43% dei siciliani contro il 66,68% di affluenza del 2008. “Alle politiche su dato nazionale si perderanno dagli otto ai sei milioni di voti”, analizza Weber. “Ci potrà essere un soprassalto se i partiti cosiddetti tradizionali sapranno leggere con obiettività e realismo il dato siciliano, ma se nel 2006 hanno votato 38 milioni di italiani, 36 due anni dopo, alle prossime politiche andranno alle urne in 30 milioni”. Anche perché, prosegue Weber, il Movimento di Grillo ha conquistato voti da tutte le parti: “Sia dal centrosinistra sia dal centrodestra; il malessere è alto, altissimo”. Analisi ancora più pessimista, se possibile, è quella che tratteggia Nicola Piepoli. “Siamo all’anarchismo. Il fenomeno è molto superiore alle aspettative. Io prevedevo Grillo a livello nazionale al 15% ma con il risultato siciliano possiamo dire che andrà oltre il 22% previsto”.
Il voto di domenica conferma i sondaggi ottimistici delle ultime settimane per il M5S e anzi supera le previsioni. “Grillo e astensione, astensione e Grillo: le due cose andranno insieme”, aggiunge Weber che prevede un risultato pesantissimo “nel Lazio in particolare, dove il malcostume e la politica hanno profondamente deluso: tra la vita dei politici e quella degli elettori c’è una sorta di spread, che in questi mesi ha superato ogni limite accettabile” . Lo spread tra eletti ed elettori non è fra l’altro limitata a un solo partito, spiegano i sondaggisti interpellati, ma tutti indistintamente “sono considerati responsabili della situazione”. Quindi il Pdl, con Silvio Berlusconi e Ruby, Scajola e la casa vista Colosseo a sua insaputa, fino a Re-nata Polverini e Batman Fiorito. Il Pd, con Filippo Penati e le ville di Luigi Lusi. Fli, con la casa di Montecarlo e la Lega con i soldi in Tanzania di Francesco Belsito. “Non capisco come facciano i partiti a non capirlo”, conclude Weber. Inoltre “tutti cercano di riunire i moderati, ma i moderati non ci sono più, non crescono, non si spostano e soprattutto non si riconoscono più in nessun partito”. E comunque, scherza Piepoli, “vince sempre chi non si astiene quindi vince e vincerà Grillo”.

La Stampa 30.10.12
I sondaggisti: “Riflessi nazionali? L’astensione farà volare Grillo”
La Ghisleri: con la protesta ingovernabile potrebbe diventare primo partito
di Flavia Amabile


Che si può dire di Grillo e di questo risultato esplosivo che lo porta ad essere il primo partito della Sicilia senza minimamente pensare a governare l’isola? Sondaggisti, politologi, analisti e osservatori sottolineano i rischi di un movimento in crescita ovunque, capace di rappresentare un’attrazione fatale per chiunque sia stufo dei partiti e di un sistema che sembra sempre più utile soltanto per rubare i soldi ai suoi elettori.
«La Sicilia è una regione particolare, non me la sentirei di dire che può esserci una proiezione del risultato a livello nazionale ma sono convinto che si tratti di un indicatore molto importante, che ci fornisce elementi utili», commenta Roberto D’Alimonte, politologo e docente alla Luiss di «Sistema politico italiano». «È stato eliminato il divario finora esistente, nella presenza di Grillo e del suo Movimento, fra Nord e Sud. Attenzione, però: il 15% in Sicilia non vuol dire il 30% in Lombardia, vuol dire che ci troviamo di fronte ad un partito che conferma senza più alcun dubbio di essere in ascesa ovunque, sarà di sicuro in grado di ottenere un risultato a due cifre alle prossime politiche. Potrebbe essere il terzo partito dell’Italia».
Grillo, il grande vincitore, dunque. Ma non solo: per Nicola Piepoli, che guida l’istituto di ricerca che porta il suo nome, a questo punto il comico che sta conquistando l’Italia «ora non deve fare altro che aspettare lungo il fiume che i voti arrivino a lui. Ha tutto per vincere: è vitale, ed ha un messaggio preciso e imbattibile in questa situazione: “tutti al rogo”». Non è un messaggio costruttivo ma Grillo non ha nulla da costruire, secondo Piepoli. «Rappresenta l’anarchia, che non governa, può solo distruggere. È impossibile che governi, anche se prenderà tanti voti alle politiche, si creerà una coalizione contro di lui. Per sconfiggere una forza come la sua che rappresenta il disfare non resta che fare: il governo investa in ospedali e scuole e Grillo scomparirà».
Alessandra Ghisleri, responsabile di EuroMedia Research, sottolinea che a vincere è stato solo il popolo degli astensionisti. «E’ solo ricordando che il 53% dei siciliani non è andato a votare che si può capire che cosa è davvero successo. In realtà solo il 15% dei siciliani ha scelto il presidente (650 mila voti circa) e il 7% dei votanti ha reso Grillo il primo partito. Questa è la difficoltà e il pericolo a questo punto perché l’onda di protesta può arrivare anche a livello nazionale anche se non in queste dimensioni. Finché esisterà questa protesta ingovernabile Grillo può fare tutto alle politiche, anche diventare il primo partito. Risponde ad un desiderio che in questo momento è molto forte negli italiani: non l’anti-politica ma una politica completamente diversa».
Pietro Vento, direttore dell’Istituto Demopolis, sottolinea il pericolo della frammentazione. «Solo 4 partiti hanno superato oggi il 10%. Nessuna lista è andata nell’Isola oltre il 16%. La maggioranza assoluta degli elettori del Movimento 5 Stelle, che è il primo partito nell’Isola, attribuisce la propria scelta all’esigenza di contribuire ad un radicale cambiamento della classe politica in Sicilia». Pericoloso anche il calo di fiducia. «Gli scandali delle ultime settimane hanno ulteriormente eroso la residua fiducia dei cittadini siciliani nei partiti, portandola ai minimi storici, con un crollo al 3% oggi: rappresenta il valore più basso mai registrato negli ultimi anni di analisi dell’opinione pubblica. Oltretutto gli elettori sono sempre meno fedeli ai voti dati in precedenza».

Corriere 30.10.12
Il non voto che peserà in primavera
Offre anche un panorama dei problemi con i quali l'intero Paese potrebbe fare i conti entro qualche mese
di Massimo Franco


La tentazione di vedere nel risultato siciliano un'anticipazione di quello delle prossime elezioni politiche è talmente gonfia di implicazioni che va tenuta un po' a freno. E non tanto perché il partito più votato dell'Isola è il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. La perplessità nasce da quel 52,56 per cento di persone che sono rimaste a casa. Forse è possibile azzardare un'ipotesi: il risultato estremizza quella che potrebbe rivelarsi una tendenza nazionale. È la voragine lasciata dalla triste decadenza di Silvio Berlusconi e del suo sistema di potere, che si traduce per ora in astensionismo, frammentazione e derive populiste. E riconsegna un'Italia senza vere maggioranze. È una prospettiva da non augurarsi, ma neppure da rimuovere: se non altro per non rimanere spiazzati. Chiunque vinca, a meno che non sia legittimato da numeri plebiscitari, ormai deve cominciare a pensare non solo alla propria maggioranza, ma alle sue dimensioni e alla sua qualità. E dunque porsi il problema di rappresentare e dare voce ai «non elettori» almeno quanto agli elettori. La Sicilia non si limita a radere al suolo un sistema dei partiti passato in poco più di un decennio dai 61 consiglieri a zero ottenuti dal centrodestra nel 2001, ad una realtà in cui nessuno si avvicina al 20 per cento.
Una legge elettorale che non produce stabilità. Coalizioni vittoriose solo sulla carta. Corpose opposizioni dai connotati antieuropei. Classi dirigenti un po' gattopardesche, un po' nuove, comunque disomogenee, chiamate a governare situazioni di debito e una crisi economica inquietanti. Verrebbe da dire che il microcosmo della Sicilia fornisce la controprova più traumatica della prospettiva di un'Italia condannata all'ingovernabilità; e dunque costretta a riflettere sulla possibilità che Mario Monti rimanga a Palazzo Chigi, seppure a capo di un governo politico, per dare copertura e legittimità internazionale a un Parlamento sfrangiato. Che l'Italia rimanga in una situazione precaria, è indubbio.
A Madrid è stato chiesto al premier se la salita di ieri dello spread (lo scarto fra interessi sui titoli di Stato italiani e tedeschi) sia attribuibile alle minacce scomposte che sabato scorso Silvio Berlusconi ha lanciato contro il governo. Con un misto di ironia e understatement, Monti ha risposto: «Non ci avevo pensato». E quando gli hanno domandato che accadrebbe se il Pdl gli togliesse la fiducia, la replica è stata: «Chiedete alle forze politiche e ai mercati finanziari». Ma la sensazione è che quanto sta succedendo vada al di là del ruolo di Monti, e ridimensioni perfino il successo del Movimento 5 Stelle: nel senso che Grillo copre certamente un vuoto di offerta politica, ma solo in parte.
C'è piuttosto da chiedersi quale sia il percorso misterioso grazie al quale i partiti riusciranno a portare alle urne milioni di elettori sfiduciati, ormai oltre la soglia dell'indignazione e della protesta fine a se stessa. L'analisi-scorciatoia, adottata soprattutto dai settori più berlusconiani di un Pdl in brandelli e con la guerra in casa, è quella che scarica la responsabilità dell'astensionismo record su una crisi sociale aggravata dal governo Monti. Non stranamente, l'analisi tende a coincidere con quella della Lega; di un'Idv senza voti e con un Antonio Di Pietro vacillante; e dell'estrema sinistra che non ha intercettato né il non voto, né i consensi di Grillo. La realtà sembra più semplice.
Costringe tutti i partiti a una rassegna non di comodo dei limiti e dei ritardi mostrati negli ultimi anni; e magari a cercare un rimedio approvando qualche simulacro di riforma, a cominciare da quella del sistema elettorale. Altrimenti, al massimo possono diventare un argine all'ingovernabilità, come è accaduto in Sicilia con l'alleanza vincente fra Pd e Udc; ma con una legittimazione indebolita dalla maggioranza assoluta degli astenuti. Senza basi solide, e senza una visione lucida delle sfide del futuro, qualunque argine resiste poco. E rischia di essere spazzato via da un distacco dalla democrazia, del quale la Seconda Repubblica fu un antidoto nel 1994; e di cui oggi, invece, è diventata la causa principale.

Repubblica 30.10.12
La maggioranza dei non elettori
di Ilvo Diamanti


FA UNA certa impressione vedere la partecipazione elettorale scendere sotto il 50%. Anche in una Regione, come la Sicilia, dove l’affluenza non è mai stata molto elevata, neppure in passato: 5-10 punti percentuali in meno rispetto alla media nazionale (e a volte anche oltre), a seconda del tipo di consultazione.
Però neppure in Sicilia, in passato, l’astensione era stata così alta. Da ciò la tentazione di decretare, in modo sommario, la crisi della democrazia e il distacco dei cittadini dalla politica. Valutazioni, peraltro, non del tutto ingiustificate. A condizione di chiarire il significato di questo comportamento. Perché l’astensione può avere ragioni diverse e perfino opposte. Alle elezioni presidenziali americane, ad esempio, l’affluenza alle urne, da oltre quarant’anni, non raggiunge il 60%. Ma è, anzi, più vicina al 50%. Senza che nessuno si sogni di parlare di democrazia in crisi e di crisi della democrazia. Al contrario. Un basso livello di partecipazione (non solo elettorale), secondo alcuni studiosi influenti (per tutti: Samuel Huntington), può venire letto come un atto di “fiducia” verso il sistema. Disponibilità ad “affidarsi” a chi è scelto dai cittadini. Mentre una partecipazione “troppo” elevata e accesa potrebbe complicare la “governabilità”. Non è lo stesso in Italia, ovviamente. Tanto meno in Sicilia e in molte aree del Mezzogiorno (ma non solo). Dove il voto viene, di frequente, espresso in base a logiche clientelari e particolaristiche. E il non-voto riflette indifferenza politica. Tuttavia, mai come in questa occasione, a mio avviso, l’astensione ha assunto un significato “politico”. Esplicito e preciso. Perché raccoglie, certamente, una componente “patologica” di disaffezione. Ma questa volta si associa alla – e sottolinea la – delegittimazione dei principali partiti, a livello regionale e nazionale. Per capirci: Pd, Pdl e Udc, insieme, superano di poco il 36% dei voti. Validi. Cioè: “rappresentano” meno di un elettore su cinque. (Pur tenendo conto del voto e di liste “personali” ai candidati presidenti). Quel 52% di elettori che non si sono recati alle urne assume, per questo, un significato politico. Non va considerato, cioè, un non-voto. Ma un “voto”. È “il voto di chi non vota” (per citare il titolo di un volume del 1983, pubblicato dalle Ed. Comunità, a cura di Mario Caciagli e Pasquale Scaramozzino). Segnala la frattura nei confronti del sistema partitico della Seconda Repubblica. Questo voto (in) espresso, in particolare, sottolinea il big bang del centrodestra e, in particolare, del Pdl. Di cui la Sicilia ha, da sempre, costituito una roccaforte. Fin dal 1994, quando Berlusconi scese in campo, ottenendo larghissimi consensi nella regione. Dove, non a caso, nel 2001, la Casa delle libertà fece cappotto, conquistando tutti e 61 i collegi. Oggi quel 13% (dei voti validi) raccolto dal Pdl – seguita alla débâcle subita alle recenti amministrative siciliane – appare, a maggior ragione, una condanna per Alfano. Leader di un partito abbandonato dal fondatore – Berlusconi – e dagli elettori. Ma il voto di quel 52% di elettori che non hanno votato rimbalza anche sui vincitori. Il centrosinistra, il Pd e il loro candidato: Rosario Crocetta. Eletto governatore con poco più del 30% dei consensi espressi. Cioè: meno del 15% degli elettori siciliani. Una base sicuramente ridotta. Rischia di produrre un grado di legittimazione altrettanto ridotto. L’ampiezza dell’astensione, peraltro, si associa e si aggiunge al risultato ottenuto dal M5s ispirato da Beppe Grillo. Primo partito in Sicilia, con circa il 15% dei voti di chi ha votato. Il cui candidato, Giancarlo Cancelleri, ha raggiunto il 18% (dei voti validi). Dunque meno del 9% fra gli elettori. A conferma della frammentazione del sistema partitico, vecchio e nuovo. Un risultato comunque rilevante, tanto più perché dimostra la capacità del M5s di superare i confini del Centro-Nord, dove aveva ottenuto i maggiori successi fino a qualche tempo fa. (Lo segnala anche un saggio di Bordignon e Ceccarini nell’ultimo numero del Mulino). Peraltro, soprattutto in questa occasione, sarebbe improprio considerarlo fenomeno meramente “anti-politico”. Il peso dell’astensione, infatti, carica il voto al M5s di significato “politico”. Perché si tratta, comunque, di un’alternativa al non-voto. Un voto “per”, oltre che “contro”. Attribuito a una lista e a candidati che saranno chiamati a rappresentare le domande degli elettori e della società locale. Fornendo risposte e rispondendone, in seguito, ai cittadini. Per questo il livello raggiunto dall’astensione in queste elezioni regionali non va considerato, necessariamente, una fuga dalla democrazia. Ma, semmai, un messaggio. Un indice che misura – e al tempo stesso denuncia – la riduzione del consenso di cui dispongono gli attori politici della Seconda Repubblica. Soprattutto, ma non solo, quelli che l’hanno “generata”. Per iniziativa e su ispirazione di Silvio Berlusconi. Il voto di chi non vota, per questo, va preso sul serio. Potrebbe superare i confini della Sicilia. In fondo, attualmente oltre 4 elettori su 10, a livello nazionale, non sanno per chi votare. Gli attori politici – i partiti e i loro leader – debbono offrire loro delle buone ragioni. Anzitutto: per votare.

Corriere 30.10.12
L’antipolitica alla prova del Palazzo
E ora il Palazzo della Cuccagna aspetta l'ondata delle «zitelle acide» La sfida dei grillini. Ma il governatore spera nel miracolo: dialogheranno
di Gian Antonio Stella


«I pazzi! Stanno arrivando i pazzi!». L'incubo dei cerimoniosi custodi dell'Assemblea Regionale Siciliana si è avverato: un manipolo di «grillini» fa irruzione in quello che è il Palazzo più palazzo dei palazzi. E insieme con l'apprensione per le iniziative che potrebbero prendere i giovanotti del Movimento 5 Stelle, potenzialmente devastanti per il clima di spagnolesche cortesie reciproche che si respira da decenni, cresce una curiosità maliziosa: «Possibile che resistano davvero alle lusinghe, ai privilegi, alle mollezze del potere?». Se già si addolcirono i normanni... Certo, i sondaggi avevano segnalato l'arrivo di una ondata di ira popolare destinata a travolgere i vecchi partiti che da tanto tempo dominavano la politica isolana. E solo la scaramanzia aveva spinto molti, in testa a tutti il candidato della Destra e del Pdl Nello Musumeci, a ripetere davanti alle affollatissime adunate del comico genovese e alla crescente mobilitazione il ritornello «piazze piene, urne vuote». Sotto sotto speravano in tanti che finisse come alle Comunali di qualche mese fa, quando il M5S ce l'aveva fatta appena appena a passare il 4 per cento e non era riuscito a conquistare manco un seggio in Consiglio. Non è andata così.
Al contrario, il movimento grillino è da ieri, a dispetto di quanto speravano Gianfranco Micciché e Raffaele Lombardo, teorici e fondatori del partito del Sud che dovrebbe diventare il contraltare meridionalista della Lega Nord, la forza politica più votata dai siciliani. Chiamata ora a mantenere la prima delle promesse: scassare giorno dopo giorno le impalcature dorate di quello che il giornalista e scrittore Saverio Lodato battezzò un dì come «il Palazzo della Cuccagna». La proliferazione delle commissioni parlamentari la cui presidenza può portare a uno stipendio complessivo di 17.476 euro netti… I voti trasversali per salvare dalla decadenza perfino certi deputati ineleggibili o addirittura condannati… Le lunghe vacanze invernali che qualche anno fa andarono dal 21 dicembre al 12 febbraio per un totale di 53 giorni… Gli stipendi stratosferici dei funzionari…
Per non dire di certi ossequi. Beppe Grillo ha già avvertito: «Chi entrerà in Parlamento si toglierà questo nomignolo ormai deleterio di onorevole: macché onorevole! Niente onorevole!». E se vale per Montecitorio o per Palazzo Madama, figurarsi per l'assemblea palermitana che pure se la tira proclamandosi «il più antico Parlamento d'Europa».
Gianfranco Micciché, che in gioventù ribolliva di indignazione nelle file di Lotta Continua e sa cosa vuol dire passare da incendiari a pompieri, ghigna: «Voglio vederli, i grillini, il giorno in cui si trovano in mano la busta paga con 15 mila euro netti al mese… Voglio vederli…». E c'è già chi ironizza sul seriosissimo comunicato diffuso ieri dalla «Lista civica del Movimento 5 Stelle Milano». La quale, nella scia di Silvio Berlusconi (cui non garbava che i giornali, costretti alla sintesi, chiamassero i suoi «forzisti») intima ai cronisti «alla luce dell'enorme cambiamento proposto» a smetterla di chiamare «grillini» i grillini: la parola «è scorretta e anche un po' offensiva, in quanto riduttiva e verticistica». Insomma: «è indispensabile che tutti voi giornalisti, redattori, caporedattori e direttori poniate la massima attenzione ad evitare parole che non appartengono alla realtà del movimento». Quindi? Meglio «attivisti del Movimento 5 stelle». Sono 32 caratteri tipografici invece di 8 e sarebbe impossibile far i titoli? Amen.
Conosciuti i numeri della vittoria del centro sinistra e avuta conferma della difficoltà da parte del nuovo presidente di avere la maggioranza all'Ars indispensabile per governare, hanno chiesto a Giancarlo Cancelleri, il geometra pizzuto di Caltanissetta che guidava la lista movimentista: «Cosa farete?». E lui: «Noi siamo zitelle acide. Non andiamo con nessuno. Ora dobbiamo cominciare a lavorare». Al che il nuovo presidente è sbottato: «Prima o poi dovranno dialogare. Non potranno restare zitelle acide per sempre».
C'è chi dice che gli servirebbe un miracolo mariano? Lui, il nuovo governatore, potrebbe sperarci sul serio. Uomo di molte curiosità, fedi e passioni, comunista, omosessuale, cattolico, acerrimo nemico della mafia, quando era sindaco a Gela aveva nella sua stanza, contò Francesco Bonazzi de L'Espresso addirittura «sette Madonne sette e una fotografia di Madre Teresa di Calcutta».
Spiegò allora all'inviato del settimanale: «Se sono vivo è anche perché i killer avevano scelto la festa di Maria per farmi fuori». E tale è il trasporto con cui parla di questa sua fede nella Beata Vergine che un blogger, ironizzando su un suo fioretto elettorale («Dirò addio al sesso e mi considererò sposato con la Sicilia, le siciliane e i siciliani. Guidare la cosa pubblica è come entrare in un convento e non ho neanche più l'età per certe scorribande») lo ha raffigurato con un montaggio fotografico come una suora dorotea.
Che possa andare al Santuario della Madonna delle Lacrime di Siracusa per dedicare la Sicilia alla «Bedda Matri» è escluso: lo faceva Totò Cuffaro. E certo l'atto di devozione, che «Vasa-Vasa» accompagnò dalla recita d'una commossa poesia, non gli ha portato bene. Ma Rosario (non a caso) Crocetta, si era affidato sul serio in campagna elettorale alla Vergine Maria.
Il miracolo che gli ha permesso di vincere, spiega Pietro Vento, il direttore dell'istituto Demopolis molto attento ai movimenti elettorali isolani, gliel'ha regalata la fortissima astensione di quasi 2 milioni e mezzo di cittadini per il 45% convinti a restare a casa dalla «scarsa fiducia e insofferenza verso la classe politica», per il 27% dalla «delusione per il partito votato in passato» e per il 28% dall'idea che tanto «il voto non serve, non cambia le cose in Sicilia».
Stando ai numeri, hanno votato in tutto poco più di 2 milioni di persone su 4 milioni e 650 mila aventi diritto. E quel 31% circa preso dal candidato del centro-sinistra corrisponde più o meno a 650 mila voti. Circa 200 mila in meno di quelli (866.000) presi nel 2008 da Anna Finocchiaro che pure uscì tritata dallo scontro con l'allora trionfante Raffaele Lombardo, sostenuto anche da quell'Udc che ieri stava con Crocetta. E addirittura oltre 400 mila meno di Rita Borsellino che con le sue 1.078.000 preferenze venne largamente battuta da Cuffaro nelle «regionali» del 2006 vincendo in una sola provincia su nove, e cioè a Enna, grazie ai voti portati in dote da Mirello Crisafulli, il più chiacchierato dei leader della sinistra.
Fatti i conti, ha sibilato la senatrice berlusconiana Simona Vicari, commissario del Pdl a Palermo dopo la catastrofe delle «comunali», solo un siciliano su tre di quella metà scarsa che ha votato, ha scelto il nuovo governatore. E se è vero che il Pd ha incassato il 13,5% di quel 47% dei votanti, come sottolineavano ieri pomeriggio i sostenitori affranti di Musumeci insistendo sul patto sotterraneo «Croc-ché» tra Crocetta e Micciché, ciò significa che il partito di Pier Luigi Bersani, al di là dei toni trionfalistici, «ha preso solo il 6% scarso dei voti degli aventi diritto. Bel trionfo!».
Tutto vero. Ancora più impressionanti sono però i numeri che dimostrano come la destra abbia buttato via in questi anni, governando la regione e le città come peggio non si poteva e accumulando debiti da capogiro negli enti e nelle municipalizzate fino a schiantarsi sotto la guida di Angelino Alfano alle recenti amministrative, un patrimonio politico ed elettorale enorme. Basti dire che, secondo i primi calcoli di «Demopolis» fatti quando ancora lo spoglio delle schede andava a rilento, dalle politiche del 2008 in cui stravinse incassando per la Camera 1.316.896 voti, il partito di Silvio Berlusconi ha perduto oltre un milione di consensi precipitando ieri a circa 280 mila. Un disastro paragonabile solo al tracollo della Dc al tramonto della I° Repubblica. O se volete a un altro traumatico smottamento avvenuto ieri a Palermo. Quello del partito di Antonio Di Pietro. Solo pochi mesi fa, spazzando via i risultati delle primarie a sinistra e imponendo la propria candidatura, il «dipietrista» (per quanto anomalo) Leoluca Orlando aveva conquistato al primo turno il 47,42% stracciando al ballottaggio Fabrizio Ferrandelli con il 72,43% delle preferenze. Un bottino durato pochi mesi: l'Italia dei Valori è malinconicamente precipitata intorno al 5%. Una batosta che dovrebbe fare riflettere anche i «web-boy-scout» del Movimento 5 Stelle: la Sicilia è una terra di subitanei mutamenti del clima e di improvvise eruzioni di collera … Può essere fin troppo generosa, nei suoi innamoramenti. Ma quando si sente tradita…

La Stampa 30.10.12
L’immagine di un sistema al collasso
di Federico Geremicca


E adesso converrebbe che nessuno ricominciasse a parlare di «laboratorio siciliano». Oppure ritirasse fuori la metafora - solita e consolatoria - del «campanello d’allarme»: il verdetto emesso ieri dalle urne in Sicilia, infatti, è già oltre quel che si sarebbe potuto definire «l’ultimo allarme». L’ ultimo allarme, per chi ha memoria, era suonato - invano - un anno e mezzo fa, prima col sorprendente esito di elezioni importanti come quelle di Napoli o Milano, e poi con l’avvento di Monti e dei suoi tecnici. E dunque, piuttosto che a un ultimo allarme, il voto siciliano di ieri somiglia assai più alla prima vera fotografia di un Paese dal sistema politico definitivamente collassato.
Basta mettere in fila quel che è uscito dalle urne: non c’è un dato, dicasi uno, definibile - tradizionalmente - normale. Vediamo. Intanto l’astensione: il muro del cinquanta per cento è stato alla fine infranto, e sono più i cittadini rimasti a casa che quelli andati alle urne. Poi lo stato di salute dei partiti: non ce ne è uno, tra quelli più o meno «storici», che arrivi al 15%, tratteggiando una situazione di grande debolezza e assoluta frammentazione. Ancora, il boom di Grillo: alcuni lo attendevano, altri lo temevano, ma nessuno avrebbe mai immaginato che l’M5S diventasse il primo partito certamente a Palermo e probabilmente nell’intera Sicilia.
Gli effetti di quel che ora appare come un inevitabile maremoto, sono naturalmente multipli. Per restare alla Sicilia, va annotato come il successo del neopresidente Rosario Crocetta (sostenuto da Pd e Udc) sia stato così flebile e di dimensioni tanto contenute da non assicurargli neppure (stando agli ultimissimi dati) la maggioranza nella nuova Assemblea regionale. Se ci si sposta a Roma - e si mette da un canto il commovente ottimismo di Angelino Alfano, che ha definito «straordinariamente positivo» il risultato ottenuto dal Pdl - si avverte invece una preoccupazione, a volte addirittura un panico, ormai sempre più palpabile.
L’interrogativo al quale dovrebbero infatti rispondere i partiti dopo il voto siciliano, resta identico a quello che i fatti proposero un anno e mezzo fa: come arginare l’ondata dell’antipolitica (in tutte le sue forme) e recuperare credibilità e fiducia dagli occhi dei cittadini? All’epoca le risposte sembravano pronte: l’impegno era a ridurre drasticamente i costi della politica e a varare riforme costituzionali ed elettorali che - mentre Monti fronteggiava la crisi - rendessero il Paese più moderno ed efficiente. Sul primo fronte le risposte sono state tardive, insufficienti e spesso contraddittorie; sul secondo, nulla si è fatto: ma sarà proprio forse a questo nulla che ora ci si potrebbe aggrappare per tentare di salvare il salvabile e tenere in vita un sistema fiaccato e screditato.
La grande paura è legata, naturalmente, a quel che potrebbe accadere nelle elezioni politiche di primavera: partiti ancora in calo, astensione alle stelle, Grillo che continua a moltiplicare i suoi consensi... Con i pochi mesi a disposizione, non sono ormai più pensabili risposte politiche complessive e capaci di iniettare un po’ di fiducia nei cittadini. Si può però tentare, attraverso lo strumento della legge elettorale, di arginare fenomeni in altro modo non contrastabili. E a proposito di legge elettorale, il messaggio che arriva dal risultato siciliano pare quanto mai chiaro: con una legge elettorale che fosse decisamente proporzionale, l’ingovernabilità sarebbe assicurata...
E’ per questo - oltre che per il poco tempo ormai a disposizione - che è difficilmente immaginabile che il cosiddetto Porcellum finisca in cantina (come pure è stato assicurato per mesi). Si potrà forse procedere a qualche modifica marginale (una preferenza qui e lì, un ritocco alle soglie di sbarramento...) per però poi blindare l’impianto della legge e difendere sistema e partiti così come sono. Si dirà: ma il Porcellum non era da cambiare? Fa niente. E non si rischia di nuovo un Senato ingovernabile? Pazienza. Si fa un altro giro sulla stessa giostra, e poi si vedrà: magari annunciando in campagna elettorale che la prossima sarà una «legislatura costituente»... Non sembra una gran ricetta, è vero. Ma di migliori in campo davvero non ce n’è.

l’Unità 30.10.12
Bersani: voto storico «Fermi sulle alleanze»
Il leader Pd a Firenze nel giro delle fabbriche: «Abbiamo vinto anche in Sicilia, cose da pazzi»
Il distacco dalla politica: «Lo dico da un anno, è il primo problema»
di Vladimiro Frulletti


«Abbiamo vinto in Sicilia. Cose da pazzi. È un risultato storico». Bersani usa un aggettivo impegnativo in piazza a Arezzo di fronte a migliaia di persone per commentare quello che è successo nell’isola. Ma è un dato «storico» perché lì «dal dopoguerra a oggi fa notare non è mai capitato che un partito della sinistra riformista fosse in competizione per vincere». E invece questa volta il Pd, alleato con i centristi dell’Udc, non solo s’è giocato la partita, ma è andato in gol. «Tocca a Crocetta, a chi lo ha sostenuto, in particolare al Pd, interpretare adesso con forza l’esigenza di cambiamento dell’elettorato siciliano» dice Bersani confermando di fatto che l’esperimento siciliano non finirà in un cassetto. Certo in Sicilia è mancata («purtroppo» sottolinea) l’intesa con Sel, ma il progetto di ricomporre il campo delle forze progressiste e poi di cercare un intesa col centro resta in campo. Perché lo confermano i buoni numeri siciliani. Anche quelli del Pd il cui dato, suggerisce Bersani, va visto in relazione alla presenza anche della lista personale di Crocetta che ovviamente un po’ di voti democratici li ha dragati. Il che però non lo spinge a lanciare in aria tappi di spumante. Certo non sarebbe nel suo stile. Ma al di là del carattere c’è soprattutto una ragione politica che Bersani esplicita nella sua tappa toscana. Un giro fra le fabbriche di Firenze (Elsag e Nuovo Pignone) e Prato (la manifattura Bardazzi e la tessitura Castagnoli) una conclusione in serata con un comizio in piazza ad Arezzo.
Ed è davanti ai lavoratori riuniti nella saletta della Rsu del Pignone che, al di là della soddisfazione per il successo di Crocetta e del Pd, Bersani mette in guardia dalle nebbie che salgono dal voto siciliano. La prima e più preoccupante è la crescente disaffezione dei cittadini dal voto. L’enorme fronte astensionista che sale e che dall’isola è destinato a sbarcare anche nel continente. «È un anno che lo dico, il primo problema è questo: il distacco fra cittadini e politica» ragione a alta voce Bersani. Che vede qui il principale fronte per il Pd «Non è neanche più una battaglia fra destra e sinistra spiega -. È una battaglia fra un’idea di una sinistra riformista e uno stato di disagio e disarticolazione che è notevole. Impressionante. La destra si sta sfarinando e non è che quando si sfarina, come ci fanno leggere spesso i giornali va verso i moderati. No, si sfarina e i suoi elettori o stanno a casa o vanno da Grillo». Un fenomeno quello dei 5 Stelle che al di là delle discussioni su percentuali attese e poi ottenute Bersani invita a prendere in considerazione. «C’è risponde a chi gli domanda di un Grillo che non sfondaè c’è in modo serio». Che poi Grillo, come il non voto siano sintomi di una malattia e non il possibile rimedio, Bersani ne è straconvinto. Tanto da indicare in questa la vera sfida che attende il Pd. «C’è distacco, protesta, gente che non va a votare e poi ci siamo noi che siamo sostanzialmente l’unico argine, l’unica possibilità». Il Pd può stare su questo fronte proprio perché ha scelto di aprirsi con le primarie («guai se non le avessimo fatte») e non di chiudersi in un «fortino».
Così agli operai spiega che «se tocca a me parto da lì», dal ricomporre la frattura «larga» che in questi anni s’è scavata fra Paese, «anche fra gli stessi lavoratori», e le istituzioni e la politica. E partire da lì per Bersani significa rimettere al centro dell’azione politica alcuni principi basilari: onestà, pulizia, sobrietà. E poi lasciare da parte le «favole» e ri-immergersi nel mondo reale, «nella vita vera delle persone». Che poi è il motivo per cui il “format” della campagna delle primarie di Bersani sia così distante da quello di Renzi. «Se mi capita un palazzetto lo riempio anch’io» risponde con un sorriso il segretario Pd a chi gli fa notare che mentre lui gira le fabbriche il sindaco di Firenze riempie teatri e Palasport. «Ma ho scelto questo taglio perché credo che le primarie servano a mettere un orecchio a terra per ascoltare i problemi del Paese. Per fare un po’ di formazione professionale». E per far accendere i riflettori su chi la vita se la guadagna ogni giorno col proprio lavoro. Come quelli della Selex Elsag, gruppo Finmeccanica, con cui pranza alla mensa (alla cassa, dopo aver fatto la fila col suo vassoio e il suo piatto di trippa, tira fuori il portafoglio, ma gli operai non lo fanno pagare) che rischiano il posto perché sono stati bloccati i fondi al progetto per una rete di comunicazione unica fra tutte e 5 le forze di polizia. O come Claudio Giardi, rsu Nuovo Pignone, che ha 59 anni ma «grazie alla Fornero» dovrà starsene in fabbrica ancora qualche anno, e che dando il benvenuto a Bersani (anche a nome di altre rsu, compresa quella del Maggio musicale fiorentino) fa una dichiarazione di voto esplicita: «Te lo dico col cuore, cerca di vincere altrimenti poi per noi sarebbe un problema andare a votare».
Pericolo che Bersani punta ovviamente a scongiurare. Così spiega di non vedere altra strada per la sinistra riformista che non sia quella di ancorarsi alle forze reali del Paese e della sua economia: il lavoro e le imprese che investono per creare lavoro. Il che significa dal punto di vista politico rimettere al centro queste figure di imprenditori, operai e insegnanti e non staccarsi dalle proprie radici. Senza cui le foglie nuove che propone qualcuno non sono altro che foglie prese da altri alberi, e non di sinistra. Radici che Bersani vede profonde nelle lotte per l’emancipazione di fine 800, dei più deboli che si riunivano per alzare la testa e rivendicare i propri diritti. Come racconta la grande foto color seppia di operai che sta alle sue spalle. È del 1920. «Noi assicura Bersani ripartiremo da chi la vita se la deve sudare».

l’Unità 30.10.12
La lista arcobaleno resta fuori Vendola: «Un gesto d’amore»
Per il leader di Sel la Sicilia non è il laboratorio dell’Italia futura
Tramonta l’esperimento di un fronte gauchista con l’esponente Fiom
Svanita la foto del Palazzaccio
di A. C.


ROMA «Abbiamo la coscienza a posto, in Sicilia non potevamo fare altrimenti», va dicendo Nichi Vendola ai suoi collaboratori, dopo la debacle siciliana: il 3% con una lista che inglobava anche Rifondazione, il Pdci e i Verdi. E zero seggi nella nuova Assemblea regionale. Anche nel comunicato ufficiale il leader di Sel ricorda che «per chi ha scelto la strada della testimonianza e della non compromissione forse il destino era segnato, ma talvolta bisogna avere davvero il coraggio di andare contro la corrente quando la corrente è torbida e melmosa».
Vendola ringrazia Claudio Fava (che si è assunto subito la responsabilità della sconfitta) e la candidata Giovanna Marano (esponente della Fiom) per il loro «gesto d’amore per la Sicilia». E avverte il Pd: «Con un governatore eletto da poco più del 10% certi trionfalismi sono imbarazzanti. Che abbia vinto un’alleanza incentrata sull’Udc non credo rappresenti una storica discontinuità nella Sicilia dei Cuffaro e Lombardo. Ed è risibile immaginare che la vicenda siciliana possa diventare il laboratorio dell’Italia futura».
Fissati questi paletti obbligati, il leader di Sel non si nasconde la pesantezza della sconfitta. E, conversando con i suoi, trova conferma delle scelte fatta negli ultimi mesi su scala nazionale: l’alleanza col Pd, le primarie, la prospettiva ferma di un governo di centrosinistra, che pure ha un po’ pagato nei sondaggi. E anche all’interno del partito, dove non sono mancate le accuse (seppur di una piccola minoranza) di «subalternità al Pd».
In questo senso, la sconfitta siciliana è anche un balsamo per Vendola. Spiega Arturo Scotto, uno dei giovani dirigenti di Sel: «È la conferma di quello che pensiamo da tempo: tra i grillini e il centrosinistra non c’è uno spazio politico alternativo. Operazioni come la vecchia sinistra arcobaleno sono destinate al fallimento».
In effetti, dopo le politiche del 2008, questo era il primo test di rilievo nazionale in cui Sel si presentava senza l’alleanza coi democratici. Finora li ha sempre sfidati sui contenuti e sugli uomini, anche imponendosi come è successo a Milano, Cagliari e Genova. Stavolta in campo c’era la “foto del Palazzaccio”, l’eterogenea comitiva che ha recentemente promosso i referendum sull’articolo 18, quello scatto in cui il leader di Sel era stato immortalato a fianco di Di Pietro, Diliberto e Ferrero. E il flop è stato evidente. Nonostante la genesi caotica della candidatura della dirigente Fiom Angela Marano (subentrata in extremis al posto di Claudio Fava, che aveva presentato in ritardo la domanda di residenza in Sicilia), l’operazione siciliana era stata anche interpretata come un esperimento di un eventuale fronte gauchista guidato da uno dei leader delle tute blu. E anche su questo fronte le risposte degli elettori sono chiare.
«La Sicilia è una storia a sé, non potevamo allearci con un Pd che aveva governato con Lombardo, non c’erano alternative», ribadiscono gli uomini di Sel. Ma è chiaro che da ieri pomeriggio chi cercava, esplicitamente o dietro le quinte, di sganciare Vendola dall’abbraccio con Bersani ha meno argomenti. E che, viceversa, il governatore pugliese ne ha qualcuno in più per difendere una strategia che pure si muove su un crinale stretto, tra l’esigenza di un’alternativa radicale e il rapporto con un alleato che comunque deve fare i conti con l’agenda Monti. La Sicilia porta poi un’altra grana per Vendola: il successo, seppur faticoso e parziale, dell’asse Pd-Udc. E il rischio che questo possa dare nuova linfa a un progetto di intesa a livello nazionale. Per questo i vendoliani già preparano i sacchi si sabbia da mettere alle finestre: «Che sia chiaro, se c’è l’Udc non ci siamo noi...». Anche Casini sembra dello stesso avviso. E il rebus resta apertissimo.

il Fatto 30.10.12
La Sicilia vuole Pd e Udc sposi
di Wanda Marra


“Risultato storico”. E poi, più tardi: “Abbiamo vinto, cose da pazzi”. Così Pier Luigi Bersani rivendica la vittoria in Sicilia. E contesta anche il fatto che il Movimento 5 Stelle sia saldamente un punto sopra i democratici: “Perchè quando contiamo il Pd dobbiamo calcolare anche la lista Crocetta. Noi eravamo presenti in due liste”. Per dirla con Stefano Fassina, il responsabile Economia, tra il boom di Grillo e quello dell’astensione, “i Democratici sono l’unico partito che resiste”.
TANT’È VERO che Pier Ferdinando Casini (Udc) ieri ha dichiarato: “La Sicilia ha sempre anticipato le scelte della politica nazionale e anche in questo caso ci ha detto che l'unica risposta all'antipolitica è il rapporto tra progressisti e moderati che mette al bando populismi ed estremismi”. E tanto per chiarire chiude la porta in faccia a Berlusconi: “Se i toni sono quelli di Berlusconi è ridicola ogni ipotesi di rapporto con il Popolo della libertà”. Dunque, Pd e Udc oggi sono più vicini, forti del fatto che il loro comune candidato sarà presidente della Regione Sicilia? Anche se insistono i Follini (“Alleanza vincente, meditate gente”) e i Fioroni (“Coraggio Bersani. Serve alleanza riformisti moderati. Invita Monti a scendere in campo guidando i moderati. Serve questo per salvare l’Italia”), Bersani continua a dire quel che va dicendo da mesi, ovvero che il Pd sta organizzando il campo dei progressisti e a Casini tocca organizzare a quello dei moderati, dopodiché si può procedere a “un patto di legislatura”. Ieri il responsabile Organizzazione, Nico Stumpo, fedelissimo del segretario interpretava il soggetto parlando della possibilità di un’alleanza anche elettorale. E lasciando la palla ai centristi: l’offerta dei Democratici è chiara, sta a loro decidere. Il punto è che l’Udc - e lo ribadisce ancora ieri Roberto Rao, braccio destro di Casini - non ne vuole sapere di Sel. Nè Sel ne vuole sapere dell’Udc. “Bersani deve riflettere, deve decidere se è quello che appoggia Monti o quello che sta con Vendola”, chiarisce Rao. Certo Sel, dopo il voto siciliano che l’ha vista alleata con l’Idv non raggiungere neanche il quorum, sembra aver poche condizioni da dettare. Vendola è durissimo lo stesso: “Trovo imbarazzante un certo tono trionfalistico di chi commenta il voto siciliano omettendo alcuni piccoli particolari. Quando l'astensionismo supera la metà dell'elettorato vuol dire che la politica nel suo complesso è finita in un buco nero”. Se domani il governatore della Puglia sarà condannato ha dichiarato che lascerà la politica. Ma il suo veto rimane. Per quanto tra gli scenari che si fanno c’è quello che vede Sel sciogliersi e confluire in un listone col Pd. Cosa che cambierebbe le carte in tavola.
PER ADESSO, comunque, i Democratici possono permettersi il lusso di rimanere fermi ad aspettare. Nonostante la variabile legge elettorale: “Noi arriviamo a fine legislatura”, chiarisce Matteo Orfini, responsabile Cultura e Informazione. Votare subito, magari col Porcellum e il premio di maggioranza correlato, ai Democratici converrebbe. Però, al di là dei proclami di responsabilità (“Saremmo potuti andare alle elezioni l’anno scorso, noi mettiamo prima l’Italia e poi il nostro interesse”, ripete a ogni piè sospinto Bersani), nel Pd sono ormai convinti che una nuova legge elettorale non si farà mai. Perchè, spiegano, il Pdl non sapeva cosa voleva fare prima, figuriamoci ora. E dunque, anche sull’ipotesi fatta intravedere da Berlusconi di andare alle urne a gennaio, il Pd può stare fermo a guardare se gli altri per caso fanno saltare il banco. L’altra variabile, quella che si chiama Matteo Renzi, si limita a fotografare lo stato dei fatti: l'astensionismo e il risultato ottenuto dal M5S segnalano che “c'è bisogno di rinnovamento nella politica".

La Stampa 30.10.12
Santa alleanza per fermarli
di Fabio Martini


Si è fatta sera, la scossa grillina oramai si è assestata e sul camper che lo porta dal lago di Como verso Milano, dal suo cellulare Matteo Renzi chiosa i risultati siciliani, «abbracciando» Beppe Grillo. «Straordinario il risultato del Cinque Stelle in Sicilia - dice Renzi -, guai a sottovalutarlo: è un nuovo segnale del bisogno di rinnovamento della politica, un segnale che deve far riflettere, perché o capiamo i messaggi che ci manda l’elettorato, oppure diventa un problema per tutti». Nel giorno del trionfo grillino, tra i big emersi ed emergenti della politica nazionale, Matteo Renzi è l’unico a «complimentarsi» con Beppe Grillo. Per un motivo che i sondaggisti conoscono da mesi: per la sua carica «anti», il sindaco di Firenze è uno dei pochissimi potenzialmente in grado di intercettare i voti che si stanno riversando sul Cinque Stelle. E se Renzi prova a cavalcarlo, il ciclone Grillo finisce per interpellare tutti i partiti, nessuno escluso: è suonata l’ultima campanella per provare a rinnovarsi? C’è ancora tempo? Qualche partito, o almeno qualche leader è capace di sgonfiare e assorbire quella carica antipartitica?
Un vecchio professionista della politica come Pier Ferdinando Casini lo ammette chiaro e tondo: «Il risultato ottenuto dal Movimento Cinque Stelle in Sicilia fa pensare che Beppe Grillo possa ottenere un 25% a livello nazionale» e cioè un risultato davvero corposo. Davanti al ciclone le reazioni istintive dei partiti tradizionali sono molto diverse: il Pd per ora ironizza; i centristi invocano la Santa Alleanza anti-Grillo; l’Idv accusa il colpo e sembra alla vigilia di una clamorosa esplosione interna; Pdl e Lega intuiscono di essere svuotate, ma per ora latitano le medicine per fermare l’emorragia.
Il Pd, con Pier Luigi Bersani, si limita a punzecchiare: «Invece di stare in un tabernacolo dove non lo vede nessuno o a fare delle nuotate anche Grillo provasse a fare le primarie». Per ora Bersani sembra non avere ancora elaborato una politica capace di assorbire la novità. I centristi, con Pier Ferdinando Casini, pensano che l’unica soluzione sia coalizzarsi contro il «mostro»: «Si devono ipotizzare alleanze che siano in grado di tenere il Paese». E l’Idv, il partito politicamente più vicino al Cinque Stelle sembra invece sull’orlo di una crisi di nervi.
Il movimento di Di Pietro (e del sindaco di Palermo Leoluca Orlando) ha subito in Sicilia una batosta, anche se il detonatore che sta portando il partito sulla soglia dell’esplosione è stato un servizio molto accurato di «Report» su Raitre, che ha raccontato le originalissime modalità con le quali Di Pietro ha gestito il finanziamento pubblico, proponendo immagini desolanti, come la moglie dell’ex pm «in fuga», inseguita dalle telecamere. Dice il presidente dei deputati Massimo Donadi: «Spero che nelle prossime ore Di Pietro precisi e cancelli quell’immagine imbarazzante, balbettante e incerta che si è vista durante l’intervista a “Report”». Dice il presidente dei senatori Felice Belisario, da sempre un «lealista»: «Ho un lavoro affermato, uno studio da avvocato a cui tornerei volentieri: senza un rinnovamento vero non voglio confondermi con perdigiorno e leccapiedi».
E a destra? La Lega stavolta può permettersi di restare in silenzio (si è votato in Sicilia) e quanto al presidente dei deputati Pdl Fabrizio Cicchitto si limita a denunciare il problema: «Il vento dell’antipolitica è fortissimo: riflettiamo su questo, altrimenti ci esercitiamo sul nulla». Dice Giorgio Stracquadanio, oramai un battitore libero del centrodestra: «Al momento prevale un effetto-panico: a destra si vede la crescita impetuosa ma nessuno è in grado di interpretarne le istanze. Neanche quando Berlusconi fa il Grillo contro l’Europa, dice che fa cadere il governo, ma poi non lo fa. E oramai nessuno può credere che Berlusconi sia un estraneo: l’anno prossimo voterà chi è nato l’anno in cui lui è entrato in politica». Sostiene Arturo Parisi, un altro battitore libero: «L’unica risposta a Grillo sarebbe farla funzionare davvero la democrazia: sarebbero una grande occasione le Primarie davvero aperte, nelle regole ma anche nella proposizione di alternative politiche grandi e vere. E invece stiamo morendo di inedia o nella riproposizione della più vecchia delle alternative: chi è per il partito e chi è contro».

Repubblica 30.10.12
Casini: “Alleanza con il Pd ormai ineludibile”
“Al bando gli estremismi”. Bersani: risultato storico. Scompaiono Sel e Idv
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Bersani galvanizzato per una vittoria che considera «storica». Casini convinto che l’Udc sia sempre più il perno di un’alleanza vincente. Vendola che si lecca le ferite parlando di «buco nero della politica ». Di Pietro non pervenuto, mentre il capogruppo Idv alla Camera, Massimo Donadi, invoca il congresso.
Le elezioni siciliane rilanciano il centrosinistra e al tempo stesso costringono il Pd a levare gli occhi dalle primarie, a rifare il punto sulle alleanze e a guardare i fatti. Che parlano sì di un Partito democratico che tiene e vince grazie alla scommessa Crocetta, e all’asse con l’Udc, ma anche di un astensionismo record, di un Movimento 5 Stelle al 18 per cento, di Sel e Idv cancellati dal parlamento regionale per via di un’alleanza frettolosa e di un nome scelto all’ultimo momento.
«Vi do una bella notizia per scaldarvi un po’: abbiamo vinto in Sicilia, cose da pazzi ». Ad Arezzo, davanti a un migliaio di persone, Pier Luigi Bersani non vuole vedere ombre davanti a una vittoria che considera «storica». «Per la prima volta dal dopoguerra si apre la possibilità di un cambiamento, di una svolta vera». Perché, ragiona il segretario pd, «in Sicilia il primo partito non è quello dei grillini, quando contiamo il Pd bisogna calcolare anche la lista Crocetta ». E sì certo, c’è il Movimento 5 stelle, c’è l’astensione, «ma in mezzo a questo tsunami c’è un punto di tenuta, di cambiamento, di riforma, che viene riconosciuto al nostro candidato e al Pd». Da Montecitorio, Pier Ferdinando Casini lo invita a tirare le somme: «L’unico antidoto all’antipolitica e alle derive populiste è il rapporto tra progressisti e moderati, tenendo fuori gli estremi, cioè l’Idv e Sel che non hanno neanche raggiunto il quorum». Sprona Bersani a rompere gli indugi e mollare Vendola, il leader centrista. Gli danno man forte il senatore pd Follini («L’alleanza tra Pd e Udc è vincente. Meditate, gente, meditate ») e Beppe Fioroni, secondo cui Bersani dovrebbe chiedere a Monti di scendere in campo alla guida dei moderati. Poco dopo, a Che tempo che fa, il leader di Sel ricambia: «Se vinco le primarie l’Udc non sarà dei nostri. Serve il cambiamento, non il camaleontismo». Sul voto, invece, Vendola commenta: «Quando l’astensionismo supera la metà dell'elettorato vuol dire che la politica nel suo complesso è finita in un buco nero. Quando il presidente eletto, a cui faccio gli auguri, è stato votato da poco più del 10% degli elettori siciliani vuol dire che la legittimazione democratica è assai fragile ». Infine c’è l’Idv, il cui leader Antonio Di Pietro non parla per l’intera giornata. Lo fa a sera, minaccia di querelare Report che lo ha attaccato per la gestione dei fondi del partito. Nelle ore precedenti, il sito era stato bersagliato da militanti delusi. E su Twitter, il capogruppo Massimo Donadi aveva sentenziato: «È ora di un congresso straordinario e di un profondo rinnovamento».

Repubblica 30.10.12
Pierluigi non molla Vendola “Ma basta attacchi a Monti e contro Grillo serve l’Udc”
I centristi ora non escludono la coalizione
di Goffredo De Marchis


ROMA — «Avevamo visto giusto anche a prendere di punta Grillo...». Al telefono da Arezzo Pier Luigi Bersani ha il tono della vittoria e si lascia andare. «La forza dell’asse progressisti moderati non è una novità. Per me semmai è una conferma, da tre anni siamo a caccia di questo obiettivo». Ma se qualcuno, e Casini lo fa subito spalleggiato da alcuni dirigenti del Pd, gli chiede di abbandonare Nichi Vendola al suo destino, il segretario del Pd risponde picche: «Noi organizziamo i progressisti, Casini i moderati. La Sicilia dimostra che vinciamo alleati col centro, altre realtà dicono che si può governare e bene con Sinistra e libertà». Alla fine la conclusione è sempre la stessa: per arrivare a Palazzo Chigi il Partito democratico vuole tenere insieme i due capi del filo. Dopo le voci della domenica su un boom del Movimento 5 stelle non sorprende l’affondo contro il comico genovese. È come un sospiro di sollievo. Ma quando parla di un vasto schieramento da offrire agli elettori la prossima primavera, Bersani sa che sarà utile anche a creare un «argine» al fenomeno del grillismo. L’importante è che il Pd sia la forza federatrice di un patto di governo largo, seppure difficile da gestire. Perché questo gli darà la forza di esprimere il candidato premier. Le primarie stanno facendo il resto, dando fiato ai democratici e legittimando con un voto popolare la scelta dell’eventuale presidente del Consiglio. Serve, la sfida interna, a rispondere soprattutto a un fenomeno che spaventa anche più di Grillo: l’astensione record. Nei sondaggi di Largo del Nazareno si legge che tutto il Sud, non solo la Sicilia, viaggia intorno a percentuali di non voto vicine al 50 per cento. Solo un’offerta chiara credibile è in grado di fermare la valanga.
Dunque, la richiesta avanzata dall’Udc viene subito respinta. Non ci sarà un Pd senza Sel. Ma il voto siciliano può essere utile per far abbassare i toni di Vendola nei confronti di Mario Monti, di Casini e dell’affidabilità di un’alleanza con i moderati. Andare da soli ha portato la sinistra fuori dall’Assemblea regionale siciliana, lo strappo non ha pagato. Questo è il messaggio che ieri Bersani ha consegnato a Vendola. «Non regaliamo Monti e la sua credibilità ad altri. Visto il Berlusconi di Villa Gernetto? Quella linea è antitetica al governo dei tecnici. È il momento di non fare errori», è il ragionamento del segretario del Pd.
Vendola non verrà mollato, ma non deve più sfidare il mondo dei moderati. Tanto più che i segnali in arrivo dall’Udc, dopo la vittoria in Sicilia, sono chiarissimi. Se rimarrà il Porcellum, com’è probabile, Casini «non esclude» di coalizzarsi con il Partito democratico, ossia di formare una vera alleanza di governo da presentare agli elettori. Portando i propri voti alla candidatura di Bersani per Palazzo Chigi. Ecco perché Monti va salvaguardato dagli attacchi e da giorni il leader Pd ripete a Stefano Fassina che sulla legge di stabilità bisogna evitare gli attacchi frontali al premier. La svolta dell’Udc risente delle esternazioni di Berlusconi rendendo impossibile guardare a un centrodestra rinnovato. E la “grande paura” di non riuscire a tenere l’elettorato centristra in un patto con la sinistra guidato da un candidato di quella parte è svanita ieri davanti agli ottimi risultati siciliani dell’Udc.
Di questo passaggio discutono da giorni Bersani e Casini dando per quasi impossibile la modifica della legge elettorale. A questo tipo di asse si riferisce il leader dell’Udc quando chiede al Pd di rompere con Vendola per attirare la Lista per l’Italia, il Movimento Terza Repubblica, Italia Futura e tutte quelle personalità che ruotano intorno all’agenda Monti. C’è il Professore, magari non fisicamente, nel patto tra progressisti e moderati. Su questo concordano Bersani e Casini. Come fa allora a esserci Vendola? Il segretario del Pd però è convinto che la forza polemica di Sel contro i tecnici sia legato alla campagna delle primarie. Una volta finita quella partita il quadro sarà più chiaro e la propaganda si farà da parte. «In questa fase io capisco Nichi», ripete Bersani. Come se sapesse che sono slogan a termine. E avesse già incassato dal governatore pugliese una non belligeranza per il futuro.

La Stampa 30.10.12
Vendola: “L’alleanza tra Pd e Udc non è un laboratorio per il futuro”
Il leader di Sel in videochat a La Stampa: non potremmo mai fare un accordo con Grillo
La distanza da Bertinotti: «Abbiamo idee molto diverse Io credo che il centrosinistra debba combattere unito»
di Marco Bresolin


L’alleanza Pd-Udc che ha vinto le elezioni siciliane «non può diventare il laboratorio dell’Italia futura». E poi «non si può rottamare D’Alema e riciclare Casini». Fino a ieri Nichi Vendola e Pierluigi Bersani avanzavano a braccetto, ma la vittoria di Crocetta ha disturbato questa armonia. E soprattutto è servita da spunto al leader di Sel - il cui partito resterà fuori dal Consiglio regionale per ricordare al leader del Pd che il baricentro della coalizione deve essere spostato a sinistra, non al centro. Le dichiarazioni a caldo del segretario democratico («Abbiamo vinto, cose da pazzi», «risultato storico») non sono infatti piaciute al governatore pugliese, che definisce «imbarazzante» il «tono trionfalistico» dell’alleato. E questo perché «quando l’astensionismo supera la metà dell’elettorato, vuol dire che la politica nel suo complesso è finita in un buco nero». Già ieri mattina, durante la videochat nella sede de «La Stampa», il leader di Sel si era soffermato sulla scarsa partecipazione alle urne in Sicilia. Che, insieme col successo del Movimento 5 Stelle, rappresenta uno dei due dati più significativi del voto.
Lei cercherebbe un accordo con Grillo?
«Grillo riempie un vuoto, ma bisogna dare risposte, non urla scomposte. Con chi ha queste posizioni difficilmente posso immaginare un elemento di congiunzione».
Grillo fa leva su sentimenti anti-europeisti. Lei fino a che punto crede che i Paesi debbano cedere la loro sovranità?
«Io sogno gli Stati Uniti d’Europa, ma non sono per il modello Merkel, che prevede la cessione di sovranità ai mercati finanziari. Sono contro le politiche di austerity a senso unico perché voglio difendere l’Europa e perché penso che un’Europa senza Welfare è un’Europa che si sta suicidando».
Crede che con Monti l’Italia abbia acquisito credibilità?
«Questo è scontato. Ciò che è successo in Italia negli ultimi 15 anni è un qualcosa di indecente. Però va detta una cosa: il Pd ha rinunciato alle elezioni anticipate facendo nascere il governo Monti, immaginando di poterlo condizionare in senso sociale, ma ciò non è accaduto. Questo esperimento è fallito perché Monti ha proseguito in continuità con le politiche del governo Berlusconi».
Qual è la prima cosa che farete una volta al governo?
«Un esecutivo fatto al 50 per cento da donne. Qualche nome? Di certo non ci metto la Fornero. E poi cancellerei l’acquisto degli F35 e userei quelle risorse per mettere in sicurezza le scuole».
Lei è contro la Tav Torino-Lione, ma a favore di quella Napoli-Bari: come si conciliano queste posizioni?
«Io non sono ideologicamente contrario all’alta velocità. Sono contrario al fatto che non si siano considerate le alternative e all’idea che il popolo sia una specie di bambino che vada pedagogizzato. Per la Napoli-Bari abbiamo ascoltato le popolazioni e abbiamo obbligato più volte Trenitalia a cambiare il percorso. Il mio è un “no” ragionato, non un “no” a prescindere».
A proposito di «no», Fausto Bertinotti ha scritto che la Carta d’intenti del centrosinistra è tutta da rifare.
«Ha un’idea completamente diversa dalla mia. Pensa che l’Europa liberista sia un recinto che non si può rompere, pensa che sia necessario un esodo dalla lotta politica e ripartire dai movimenti. Noi abbiamo il dovere di non dividerci di fronte al rischio di populismo. Bisogna costruire l’unità del centrosinistra per rompere la soggezione culturale al liberismo che lo stesso centrosinistra ha».
Sarà così anche se a vincere le primarie sarà Renzi?
«Renzi è simpatico, ma chi pensa che l’Europa abbia sofferto di poco liberismo, pensa il contrario di me. Chi individua in un mondo ricco e segreto il proprio principale interlocutore, per me non è un rappresentante del cambiamento. Una parte della borghesia che ha coccolato Berlusconi, ora cerca di entrare a gamba tesa nelle primarie per stravolgere la classe dirigente. Renzi è un Robespierre che va nel palazzo del potere dove Maria Antonietta gli va incontro e lo abbraccia. È uno strano tipo di rivoluzionario, uno che piace al potere... ».
Domani è in arrivo una sentenza che la riguarda: se arrivasse la condanna per concorso in abuso d’ufficio lascerà la politica?
«Io sono assolutamente convinto della mia totale estraneità. La garanzia della mia innocenza ce l’ho dentro il cuore. Ma se un giudice mi dovesse condannare, lascerei la vita pubblica e andrei da privato cittadino a difendermi nei successivi gradi di giudizio per evitare di implicare la politica e le istituzioni, al contrario di quello che fa qualcun altro... ».

l’Unità 30.10.12
I grillini: «Abbiamo vinto la rivoluzione siamo noi»
Cancelleri: «Non ci alleiamo con nessuno, siamo zitelle incallite, valuteremo ogni provvedimento»
di Claudia Fusani


La rivoluzione è arrivata dalla terra che non ha più nulla da perdere. «Ca è finita moneta», dicevano i siciliani alla vigilia del voto. Dove per «moneta» s’intende il sistema clientelare che ha sostenuto, fino a farla fallire, la Sicilia. Per il Movimento 5 Stelle la rivoluzione sono loro.
Il 10 ottobre Beppe Grillo ha attraversato a nuoto lo stretto, «a 64 anni e impiegando venti minuti meno del traghetto», ha gigioneggiato durante le quaranta tappe nelle piazze dell’isola. Una cavalcata seguita dai media ma ancor più dalle persone. «Piazze piene e urne vuote», cercavano di rassicurare i vecchi della politica. E intanto silenziosa, dal basso, da Modica a Carini, dall’Etna ai pescatori delle tonnare, da Termini Imerese a Catania saliva l’onda che ha portato il M5S ad un risultato record.
Tra i tanti modi di presentarsi Giancarlo Cancelleri, 37 anni, geometra di Caltanissetta, ha scelto gli è capitato quello migliore: grande risultato personale (18% e 70 mila voti in più della lista) e di lista perché M5S è il primo partito dell’isola con 14,8%. Non avrà però la responsabilità di governare, né avrebbe voluto averla. Cancelleri resta tutto il giorno nella sede del “suo” Meet up di Caltanissetta, rinviato a oggi l’arrivo a Palermo, e anche questo ha un significato: «La politica si fa sul territorio e si resta nel territorio». Il contatto con Grillo un sms a metà mattinata: «La Sicilia ha fatto il salto nel buio», ha digitato Cancelleri. È stato in quaranta piazze l’invito di Grillo ai siciliani: «Non dipende da me, io vi posso dare la scossa, ma il salto nel buio dovete farlo voi».
Certo, la scorsa notte gli exit poll hanno tolto il sonno a molti di questi trentenni che non vogliono più fare i ragazzi e pretendono di contare. Dicevano, gli exit pool, 27 per cento solo su Palermo dove cinque mesi fa, alle comunali, si erano fermati al 4,13. Lo spoglio ha poi ridimensionato questi sogni. Ma non troppo. Non abbastanza per parlare di delusione. Anzi. «Noi siamo zitelle incallite e non ci alleiamo con nessuno», replica Cancelleri appena è chiaro che la coalizione del presidente Crocetta non ha la maggioranza e per governare gli toccherà cercare di volta in volta con chi approvare leggi e delibere. «Noi chiarisce saremo in consiglio con i nostri rappresentati e valuteremo ogni provvedimento in nome e nell’interesse dei cittadini. Siamo i loro portavoce». Allegre zitelle. Chissà se e quando diventeranno disponibili.
Solo giovani al quartier generale del M5S a Caltanissetta. E molte donne, per chi avesse avuto la sensazione di un movimento declinato al maschile. Valentina Botta, occhi verdi, sicuramente deputata, è ricercatissima da tutte le tv. «Portiamo valori nuovi, diversi e rispetto alla vecchia politica. Siamo tante donne in M5S e lavoriamo per una politica che tenga conto delle nostre esigenze».
Note a margine: in Sicilia, per ora, non sembra esserci traccia di quel metodo del terrore e anti-democratico denunciato con i casi Favia-Grillo-Casaleggio, con i divieti di apparire in tv e di parlare in prima persona. Certo le facce contano. In via Respighi, a Palermo, 400 metà dall’albero di Falcone, Francesco Lupo, ultimo esame prima di diventare medico, è il portavoce del Meet Up di Palermo, quaranta metri quadrati più un bagno affacciati sulla strada. Segni particolari: luogo tecnologicamente altamente connesso. «Quattordici di noi entra- no all’Ars. Abbiamo fatto la rivoluzio- ne, questa campagna elettorale, con 30 mila euro. Dunque è possibile». Francesco si gode il personale succes- so palermitano, la città dove M5S ha raggiunto quasi il 24 per cento. «So- no orgoglioso che Palermo abbia rot- to con il sistema. Abbiamo pescato vo- ti ovunque, soprattutto tra i partiti per cui il sistema clientelare è stato l’unico collante. La città ha raccolto il messaggio di Grillo. Loro sono venuti qua, in questo posto, ci hanno incon- trato, li abbiamo stupiti perché abbia- mo dimostrato che siamo anche, so- prattutto competenti. Con noi i citta- dini hanno acquisito consapevolezza delle ruberie e delle clientele e delle possibili soluzioni». È questo che ha fatto la differenza rispetto alle comu- nali di maggio: «Siamo andati oltre la Rete, abbiamo utilizzato di più i mez- zi tradizionali di comunicazione». Re- sta il neo dell’astensionismo, uno su due ha scelto di non votare.
Oggi si poserà la gioia e comincerà il lavoro più duro. Anche se stare all’opposizione è sempre meglio che governare davvero: «Secondo i nostri conti nelle casse della Regione ci so- no forse 20 milioni di euro. Come si pagano gli stipendi ai 140 mila dipen- denti pubblici?», dice Francesco. Hanno proposte anche questo.
Grillo intanto guarda avanti. Alle politiche sempre più vicine. Lancia dal web la campagna I want you, tipo quella dello zio Sam d’America per reclutare i nuovi soldati del Parla- mento. «Ma niente Toto u curtu - avvi- sa - sennò chi se lo leva più». Detta un nuovo vocabolario ai giornalisti: «Ba- sta termini come partito, leader, gril- lino, onorevole. M5S è una forza poli- tica, ha un portavoce e molti attivisti 5 stelle». E fissa il codice etico: «No a condannati, 5 mila netti di stipendio per chi entra in Parlamento». 

il Fatto 30.10.12
“Sono il capo politico” Grillo scende in campo
A risultati ancora caldi il comico genovese lancia sul web le regole per le candidature: “dobbiamo fare attenzione”
di Emiliano Liuzzi


Da globetrotter a garante. Da testimone (e testimonial) a protagonista. Da uomo immagine a capo politico. È lo stesso Beppe Grillo che, arrivato in Sicilia a nuoto, può permettersi di definire cosa sarà da grande. Se la sua forza fino a oggi è quella di non essere classificabile, di non essere un leader né un blogger, non più un comico, ma neppure un politico, è lui stesso che risponde all'interrogativo: sono io che guido il Movimento 5 stelle, io che garantisco gli elettori e gli eletti, io che prendo le decisioni.
Una comunicazione, quella fatta attraverso il blog a poche ore dai risultati parziali del voto, che non è più interpretabile: Grillo non si candida direttamente, ma si pone sul gradino più alto di quello che, oltre a essere il partito più votato in Sicilia rischia di essere anche quello più votato in Italia, almeno il 25 per cento, secondo Pier Ferdinando Casini. In un’ipotetica consultazione del capo dello Stato sarebbe lui chiamato a confrontarsi. L’epilogo naturale del V Day del settembre 2007 a Bologna, e la successiva nascita del Movimento 5 stelle nel 2009. Grillo non sceglie più l’ombra dietro alla quale nascondersi per spiazzare gli avversari, non gli è più funzionale. Firma il post e le regole per le candidature: “Io devo essere il capo politico di un movimento, e voglio solo dirvi che il mio ruolo è quello di garante, di essere a garanzia di controllare, vedere chi entra. Dobbiamo avere soglie di attenzione molto alte. Sarà un cambiamento epocale, duro, sbaglieremo, sbaglierò. Ma dovremo affrontare insieme una grande cosa che stiamo facendo, ce ne renderemo conto tra qualche anno”.
Le soglie di attenzione sono alte, le regole, valutate in questi ultimi mesi assieme a Gianroberto Casaleggio, l’altra metà del Movimento 5 stelle, non saranno poche: consultazioni via web e scelta tra coloro che si sono già battuti per la causa e non saliti in sella all’ultimo minuto. Per quello che riguarda la comunicazione c’è “divieto assoluto per i candidati e gli eletti di andare nei talk show televisivi”. Previsto poi “l’obbligo di dimissioni per i condannati”. Spese poche e solo quelle indispensabili: “Rendicontazione on line di tutte le spese legate all’attività parlamentare, indennità parlamentare di 5 mila euro e il resto da restituire allo Stato, rifiuto dell’appellativo onorevole, nessuna alleanza con altri partiti o coalizioni o gruppi se non per votazioni su punti condivisi”. Tutto scritto nel codice etico da condividere, firmare e controfirmare. Compresa la rotazione per i capigruppo: nessuna carica che vada oltre i tre mesi. E comunque, anche i capigruppo, senza distinzioni tra Camera e Senato, è a lui che dovranno riferire.
Un regolamento che non trova ostacoli neppure all’interno del Movimento. Chi si aspettava una levata di scudi almeno da parte di Giovanni Favia, consigliere regionale dell'Emilia Romagna e oppositore molto solitario della linea ufficiale, è rimasto deluso: “La preoccupazione di Grillo – scrive Favia su Facebook – è stata quella di tenere lontano chi tenterà di salire sul carro dei vincitori, senza mai aver mosso un dito in questi anni. Come dargli torto? Temevo regole funeste per tutti noi, vedendo avanzare infiltrati e truppe cammellate, invece le misure di sicurezza per evitare questo sono dettate da pochi, ma geniali obblighi”.
E se per un giorno Grillo non se la prende con la stampa, ci pensa un gruppo del Movimento milanese a bacchettare i giornalisti, con una sorta di “nuovo glossario adatto alla portata del cambiamento che il M5s propone”. Un vademecum per la stampa che talvolta non coincide con quello che Grillo ha scritto un'ora dopo: “Basta quindi con termini incompatibili e fuorvianti come partito e leader. Assolutamente da evitare “grillini” che è “parola scorretta e anche un po' offensiva, in quanto riduttiva e verticistica. Grillo è il megafono al nostro servizio e non il nostro leader”.


l’Unità 30.10.12
La Cgil: sciopero generale per il 14 novembre
Dopo il «no» di Cisl e Uil, Corso Italia trasforma la manifestazione europea in quattro ore di protesta
di Massimo Franchi


ROMA La mobilitazione dei sindacati europei di mercoledì 14 novembre in Italia si trasforma in quattro ore di sciopero generale decisi dalla sola Cgil. La segreteria di Corso Italia ieri sera ha deciso così, demandando ai territori la gestione delle manifestazioni e delle ore di sciopero. Le trattative, i contatti portati avanti con Cisl e Uil per organizzare una grossa manifestazione unitaria, non hanno avuto esito positivo. Davanti al “no” a un impegno forte ribadito da Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, la Cgil ha deciso di andare in piazza da sola. Come detto, lo sciopero rientra nell’ambito della giornata di mobilitazione europea indetta dalla Ces, la confederazione dei sindacati europei. Già dal palco
della manifestazione di piazza San Giovanni del 20 ottobre Susanna Camusso aveva dato appuntamento al 14 novembre, sottolineando che la mobilitazione andava avanti. E nei giorni scorsi da Firenze il segretario generale della Cgil aveva ribadito la richiesta di un impegno comune forte a Bonanni e Angeletti. La nota della segreteria riassume la situazione: «La segreteria nazionale della Cgil ha inutilmente ricercato con Cisl e Uil di tradurre la decisione della Ces di una mobilitazione europea il 14 novembre». La Cgil poi considera la mobilitazione coerente con la protesta contro la legge di stabilità: «Lo sciopero è “per il lavoro e la solidarietà contro l’austerità”, è evidente che al centro di questa giornata di sciopero l’obiettivo di cambiare la legge di stabilità come il complesso delle politiche del governo rientrano pienamente nella piattaforma della Ces».
Nella piattaforma dei sindacati europei si dice «no all’austerità» imposta dal governo di Bruxelles. «I tagli a salari e protezione sociale sono attacchi al modello sociale europeo e aggravano disuguaglianze e ingiustizia sociale». Secondo la Ces «gli errori di valutazione del Fondo monetario internazionale (Fmi) hanno avuto un impatto incalcolabile sulla vita quotidiana dei lavoratori e cittadini europei». «Il Fondo monetario si deve scusare. La troika deve rivedere le sue richieste. L'Europa ha un debito sociale, non esclusivamente monetario. È stata promessa una ripresa che non è mai avvenuta: 25 milioni di europei non hanno lavoro. In alcuni Paesi il tasso di disoccupazione giovanile oltrepassa il 50%. Il senso di ingiustizia è diffuso e lo scontento sociale sta crescendo».
Dal punto di vista interno alla Cgil, lo sciopero anticipa di soli due giorni quello di 8 ore deciso dai metalmeccanici della Fiom. La mossa della segreteria è anche un tentativo di accontentare le tante federazioni che appoggiavano la richiesta di Landini di uno sciopero generale e, allo stesso tempo, di spiazzare e depotenziare la mobilitazione dei soli metalmeccanici.
Le reazioni delle altre confederazioni
sono negative. «Con la proclamazione dello sciopero, la Cgil ha deciso di buttare a mare un percorso che era stato avviato unitariamente in sede europea dichiara il segretario confederale della Uil, Anna Rea -. Per guardare ai propri problemi interni, ancora una volta, la Cgil si è sganciata dal percorso unitario che si stava costruendo».
GARANTE: TRASPORTO PRECETTATO
Venerdì 16 novembre è previsto anche lo sciopero generale unitario dei trasporti. Per questo l’Autorità di garanzia sugli scioperi anticipa che «è probabile che alcuni settori, a partire da quello del trasporto pubblico locale dichiara Roberto Alesse, presidente dell’Autorità -, dovranno essere esclusi dalla proclamazione, ai fini della sua legittimità».

il Fatto 30.10.12
Il Bavaglio si stringe
Il Senato passa il testo alla Camera. Restano le norme dure
di Sara Nicoli


Stiamo approvando un testo mostruoso, anche con dei refusi; mi vergogno profondamente, stiamo facendo un provvedimento incredibile in cui si dice tutto e il contrario di tutto. Ma per quale motivo, per evitare la carcerazione di una persona che non vuole essere nemmeno perdonato, un Parlamento deve avere tanta fretta? ”. Queste parole sono state pronunciate ieri dall’ex pm Gerardo D'Ambrosio, senatore del Pd, quando ormai era chiaro che nulla poteva più fermare il ddl diffamazione da una sua rapida approvazione a Palazzo Madama.
Oggi, nel pomeriggio, i giochi saranno fatti. Il testo passerà alla Camera dove altri parlamentari tenteranno di fermarlo per evitare che venga varata una legge che peggiora la situazione esistente. Costringendo i giornalisti italiani a lavorare come se avessero una pistola puntata alla tempia. A meno che non intervenga il governo, con un decreto ad hoc, per eliminare solo la parte del carcere per i giornalisti contenuta nella vecchia legge sulla diffamazione del 1948, quella che è stata applicata per portare il direttore del Giornale Alessandro Sallusti a un passo dalle porte di San Vittore. Pressioni su Monti sono state fatte, lungo tutta la giornata di ieri, da alcuni senatori del Pd, in vista soprattutto del Consiglio dei ministri di questa mattina.
CON IL DECRETO, Sallusti sarebbe salvo e non ci sarebbe più bisogno di andare avanti con questa legge, che si è trasformata in una vendetta della casta nei confronti dei giornalisti e dei giornali. Ma il premier preferisce non esporsi su una questione che riguarda un’iniziativa parlamentare. Anche perché un fatto del genere costringerebbe senza dubbio l'esecutivo a un'ennesima fiducia nel momento della conversione in legge. Un terreno senz'altro scivoloso, anche perché si tratterebbe di un decreto “ad personam”, su cui i moderati del Pdl (che detestano Sallusti e il “falco” Daniela Santanchè, sua compagna di vita) potrebbero fare un passo indietro. Il ddl, dunque, proseguirà il suo iter. Anche se ieri a Palazzo Madama i senatori del Pd e dell'Idv hanno tentato di tutto perché il testo fosse rimandato in commissione e lì definitivamente sepolto. La richiesta del Pd è stata affossata da un ritrovato (o mai defunto?) asse Lega-Pdl, i più decisi ad avere vendetta contro la stampa. Nella giornata di ieri sono state approvate alcune modifiche al testo uscito dalla commissione Giustizia, alcune leggermente migliorative. É stato dato il via libera alla riduzione delle multe per i giornalisti da 100 mila a 50 mila euro, è stato cancellato il raddoppio della multa in caso di recidiva ed è stato eliminato il nuovo reato di “dossieraggio” detto anche “emendamento anti-macchina del fango”. Via libera, però, anche all'interdizione dalla professione in caso di recidiva e all'obbligo di rettifica per i siti Internet. Le speranze sono ora riposte nel voto finale all'articolo 1, “cuore” della legge. Se venisse bocciato, il ddl verrebbe affossato, ma l'asse Pdl-Lega rema contro. Solo per vendetta.

il Fatto 30.10.12
Mancino, lo Stato alla sbarra
Trattativa, processo rinviato al 15 novembre. I boss partecipano in videoconferenza
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza


Palermo È accigliato, scuro in viso. Scende velocemente dalla sua blindata e si dirige verso l’aula bunker, ignorando gli striscioni delle Agende Rosse e schivando un microfono: “Non ho dichiarazioni da fare”. Sul banco degli imputati, all’apertura dell’udienza preliminare del processo sulla trattativa, ieri a Palermo, l’unico volto dello Stato è quello dell’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza. Contro di lui il governo non si è costituito parte civile. Alla fine dell’udienza gli chiedono: rifarebbe quelle telefonate con Napolitano?
MANCINO si volta e ignora la domanda. Lo Stato è dunque in imbarazzo a processare se stesso? “Non devo rispondere io – replica stavolta Mancino – io in questo processo sono parte lesa”. Non c’erano i senatori Calogero Mannino e Marcello Dell’Utri, i cosiddetti “uomini-cerniera” del negoziato tra i boss e le istituzioni. Con loro hanno disertato l’aula bunker di Pagliarelli anche gli ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, quest’ultimo autore della richiesta di ricusazione nei confronti del gup Piergiorgio Morosini, che sarà esaminata dalla Corte d’appello il prossimo 9 novembre .
Tutti presenti, invece, in videoconferenza gli uomini di Cosa Nostra: Totò Riina, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e Antonino Cinà. Tranne uno: il boss Bernardo Provenza-no, che ha rinunciato ad assistere alla prima udienza. Per loro, così come per gli uomini in divisa e per i due senatori, l’accusa è la stessa: violenza o minaccia a corpo politico dello Stato. Trattando sotterranea-mente, durante la stagione delle bombe, avrebbero contribuito a realizzare il grande ricatto di Cosa Nostra alle istituzioni, con il risultato di provocare il cedimento dei ministeri alle richieste dei boss stragisti. Circondato dai fotografi, è comparso in aula anche Massimo Ciancimino, il testimone della trattativa, che deve rispondere dell’accusa di calunnia e concorso in associazione mafiosa.
Lo Stato dunque processa se stesso. E lo fa in un’aula semideserta, nell’indifferenza della città assorbita dai risultati delle elezioni regionali, dove l’unica presenza massiccia è quella dei cronisti. É forse l’ultima udienza per il procuratore aggiunto Antonio Ingroia, prima della partenza per il Guatemala: “Provo una grande emozione’’, ha detto entrando in aula, “ma anche da lontano darò il mio contributo affinché cresca un movimento per la ricerca della giustizia e della verità”.
Al suo fianco, nel bunker di Pagliarelli, i pm Nino Di Matteo e Lia Sava, tre dei cinque sostituti (gli altri due sono Francesco del Bene e Roberto Tartaglia) del pool che in questi mesi – tra mille polemiche – ha indagato sul patto sotterraneo tra mafia e Stato.
FUORI DALL’AULA, invece, fin dalle prime ore della mattina, qualche bandiera di Rifondazione comunista e il presidio delle Agende Rosse, un centinaio di persone, con un enorme striscione: “I magistrati di Palermo non sono soli”.
L’udienza si è aperta con la costituzione delle parti processuali e quindi con le richieste di parte civile, prima fra tutte quella dell’avvocato dello Stato Beppe Dell’Aira per conto della Presidenza del Consiglio. A ruota, la richiesta di costituzione di parte civile del Comune di Palermo, rappresentato da Leoluca Orlando, l’unico politico in aula, oltre all’imputato Mancino. “Io so, ma non ho le prove – ha detto Orlando, citando Pier Paolo Pasolini, al suo ingresso nel bunker – che c’è stata una trattativa tra Stato e mafia, e che Paolo Borsellino è stato ucciso perché si sarebbe opposto a quell’ignobile patto. Ma sono i magistrati che devono trovare le prove ed è per questo che chiedo ai magistrati di accertare la verità”. E la ricerca della verità su quanto è accaduto tra il ’92 e il ’94, è la ragione che ha spinto anche Salvatore Borsellino a chiedere di potersi costituire parte civile, sia per conto del movimento Agende Rosse, sia come fratello del giudice ucciso.
A SEGUIRE, hanno fatto istanza il Prc, il Centro Pio La Torre, il sindacato di polizia Coisp, i familiari dell’eurodeputato Salvo Lima e l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, vittima della calunnia contestata a Massimo Ciancimino, che lo aveva indicato come il “signor Franco”. Su tutte le istanze, il gup Morosini si è riservato di decidere. Uscendo dall’aula, tra i fischi delle Agende Rosse, Mancino (che nei giorni scorsi ha chiesto di essere processato dal Tribunale dei ministri) ha ribadito la sua speranza: “Questo è un processo – ha detto – che può essere frazionato in più parti”. Si torna in aula il 15 novembre.

il Fatto 30.10.12
25 mila profughi fantasma sotto l’albero di Natale
Il 31 dicembre finiscono fondi e alloggi per i fuggiti dalla Libia
di Roberta Zunini


Che gli italiani impoveriti dalla crisi si rallegrino: lo Stato, almeno per le feste di fine anno, non li lascerà senza regalo. Se non verranno prese decisioni lampo dal ministero degli Interni, quando il 31 dicembre scadrà l'emergenza Nord Africa, si troveranno sotto l'albero i 25mila profughi del conflitto libico, arrivati un anno e mezzo fa. Queste persone, sradicate già due volte (la maggior parte era fuggita in Libia da altri paesi africani) stanno per finire in strada perché il giorno dopo la scadenza dell'emergenza, le strutture in cui son state finora ospitate verranno sollevate dall'incarico. Ma c'è di più: siccome la maggior parte di loro si è vista rifiutare lo status di rifugiato (perché non nata in Libia), dopo che il ministero aveva consigliato di farne richiesta, ecco pronta una nuova infornata di clandestini.
CHE NON SI TRATTI di un cadeau è evidente. Meno evidente è che per accogliere e ospitare chi sta per essere costretto a finire nelle maglie del lavoro nero o della criminalità organizzata, gli italiani hanno dovuto spendere la cifra monstre di 1 miliardo e 300 milioni di euro: 46 euro al giorno per ogni profugo. “Con il risultato di aver creato persone frustrate da un'accoglienza sbagliata, illuse dalla chimera dell'asilo politico, arrabbiate e impaurite dalla mancanza di prospettive e da una imminente clandestinità mentre tanti albergatori e società senza credenziali si sono arricchiti alle loro e alle nostre nostre spalle”, spiega Paolo Bernabucci responsabile del Gruppo umana solidarietà, ong marchigiana che da 12 anni lavora in ambito umanitario. La regione Marche l'ha incaricata di occuparsi dell'ospitalità e integrazione di 300 profughi. Per questo ha affittato alcuni appartamenti confortevoli e ha provveduto a realizzare dei corsi di italiano e di sostegno psicologico. Molti profughi finiti altrove invece si sono trovati di fronte a un'accoglienza ben diversa: camerate in alberghi fatiscenti e in zone degradate, pasti da fame e nessun programma di sostegno. “Non si può affidare l'accoglienza agli albergatori e a gente senza esperienza - continua Bernabucci - come ha fatto la protezione civile”.
La decisione dell'allora ministro degli interni, Roberto Maroni, di invocare l'emergenza aveva automaticamente passato la gestione degli smistamenti alla protezione civile. “In realtà Maroni ha compiuto una scelta tutta politica e ha mollato la patata bollente nelle mani di Bertolaso e poi di Gabrielli – sottolinea Christopher Hein del Cir, Consiglio italiano rifugiati - per usare un eufemismo diciamo che se ne è voluto lavare le mani”.
E la protezione civile a sua volta ha passato la palla alle regioni. Né le une né le altre nel frattempo hanno controllato se i soldi dei contribuenti, rastrellati attraverso le accise sulla benzina, fossero stati usati in modo congruo e regolare. Lo hanno fatto le forze dell'ordine e la magistratura che, a Latina, ha addirittura fatto arrestare i gestori di una cooperativa. Il “gruppo di monitoraggio e assistenza”, istituito nell'agosto 2011 per visitare le strutture e sorvegliare sull'uso appropriato dei soldi pubblici è stato subito accantonato. Laura Boldrini, portavoce dell'Unhcr, ha più volte denunciato: “Noi facevamo parte del progetto ma da ottobre 2011 non siamo più stati convocati”. Secondo la Corte dei Conti della Calabria le convenzioni stipulate dalla regione con gli enti attuatori sono illegittime perché non sottoposte al suo controllo preventivo, sempre obbligatorio.
LA SITUAZIONE diventa ogni giorno più preoccupante anche perché molti giovani profughi sono sul piede di guerra. “Noi del Cir abbiamo proposto al ministero di farci carico logistica-mente del loro rientro nei paesi d'origine, se non si vuole trovare un sistema per bloccare legalmente le richieste d'asilo e trasformarle in richieste di permesso di soggiorno per motivi umanitari, sollevando peraltro le commissioni e i tribunali, ingolfati da migliaia di domande già bocciate in partenza. Non abbiamo però ricevuto risposta”, conclude Hein. Molti operatori del settore la pensano come lui.
La settimana scorsa, il capo della Protezione Civile, Gabrielli, ha ufficialmente sollecitato una decisione “finalizzata a favorire il subentro dell'amministrazione pubblica competente in via ordinaria”. L'Anci, l'associazione dei Comuni, però ha già fatto sapere di non aver soldi. “Il sistema ordinario è inesistente – spiega Salvatore Ippolito, ex funzionario Unhcr e presidente dell'associazione Xenagos - ma non per caso. Vorrei chiedere all'Anci di mostrare come ha gestito i fondi europei per i rifugiati e quelli per le politiche di asilo, durante 10 anni di delega sotto convenzione”. Oggi a Roma ci sarà una manifestazione per spingere il ministero degli Interni a trovare una soluzione prima del botto di Capodanno.

La Stampa 30.10.12
Lazio, l’ultimo scandalo
Abuso d’ufficio per la Rauti
Indagati la moglie di Alemanno e i consiglieri della presidenza per il contratto al segretario
di Grazia Longo


Regione Lazio Ancora uno scandalo. L’ufficio di presidenza è indagato per aver prorogato il contratto del segretario generale
Ci risiamo. Un nuovo scandalo giudiziario scuote il già sconquassato consiglio regionale del Lazio. Stavolta - dopo l’ex capogruppo Pdl Franco Fiorito e l’omologo Idv Vincenzo Maruccio, indagati per peculato in merito alla gestione dei fondi per le spese elettorali (il primo è tutt’ora in carcere) - nel mirino della procura finisce l’intero Ufficio di presidenza.
Tutti accusati di concorso in abuso d’ufficio per aver prorogato, lo scorso 28 marzo, il contratto al segretario generale Nazzareno Cecinelli che, invece, sarebbe dovuto andare in pensione. Dal presidente Pdl Mario Abbruzzese alla moglie del sindaco di Roma Gianni Alemanno, Isabella Rauti, anche lei eletta in quota Pdl, passando per Gianfranco Gatti (Lista Polverini), Claudio Bucci (Idv), Raffaele D’Ambrosio (Udc) e Bruno Astorre (Pd).
Si tratta di un filone d’inchiesta separato da quello dei finanziamenti regionali destinati alle spese elettorali e se ne è occupata, prima ancora del pm Alberto Pioletti, la Corte dei Conti che ha incaricato il Gruppo tributario della Guardia di Finanza di verificare l’eventualità di un danno erariale. Secondo inquirenti e investigatori, Cecinelli non avrebbe dovuto riscuotere i 105 mila e 473 euro lordi di stipendio per i sei mesi - da aprile a settembre scorsi compresi perché, avendo 67 anni, era praticamente già in pensione.
«Si è trattato di una proroga solo per non bloccare la macchina amministrativa spiega lo stesso Cecinelli mentre nel frattempo era già stato avviato un bando pubblico per reclutare un nuovo dirigente che è stato poi assunto il 27 settembre». Lo ribadisce anche, in un comunicato, l’Ufficio di presidenza: «Inizialmente il decreto “Salva Italia” prevedeva il mantenimento in servizio fino a 70 anni, poi però è intervenuta una circolare ministeriale più restrittiva. Abbiamo quindi predisposto un bando, ma per non paralizzare l’attività amministrativa abbiamo mantenuto in servizio temporaneo Cecinelli».
Sia l’alto dirigente, sia tutti i membri dell’Ufficio di presidenza, sono stati tuttavia tirati in ballo da Fiorito anche durante l’interrogatorio di ieri a Regina Coeli. Assistito dai suoi avvocati Taormina e Pavia, er Batman di Anagni ha ricostruito le modalità con cui «si svolgeva la spartizione dei soldi per le spese elettorali: si stornava il denaro da altri voci generiche come ad esempio quelle relative alle voci giardinaggio, comunicazione, telefonia e manutenzione». Racconta la verità?

l’Unità 30.10.12
Regione Lazio, indagati Isabella Rauti e Abbruzzese
di Nicola Luci


ROMA Una nuova bufera giudiziaria si abbatte sulla Regione Lazio. Dopo il caso della malagestione dei fondi destinati ai gruppi con il coinvolgimento di Franco Fiorito (Pdl) e Vincenzo Maruccio (Idv), la procura di Roma si trova ora a fare i conti con un nuovo fronte di indagine: le procedure che, il 28 marzo scorso, hanno portato alla proroga dell'incarico di segretario generale del consiglio regionale a Nazzareno Cecinelli. Per questo sono finiti nel registro degli indagati tutti i membri dell'ufficio di presidenza del consiglio regionale, compreso il presidente dell'aula Mario Abbruzzese e la moglie del sindaco Gianni Alemanno, la consigliera del Pdl Isabella Rauti. Con loro devono rispondere di concorso in abuso d'ufficio anche Bruno Astorre (Pd), Gianfranco Gatti (Lista Polverini), Claudio Bucci (Idv) e Raffaele D'Ambrosio (Udc).
Per l'accusa le procedure per la proroga della nomina di Cecinelli sono state adottate in violazione delle disposizioni legislative sull'affidamento di incarichi dirigenziali a tempo determinato. E nel mirino del pubblico ministero Alberto Pioletti sono finite le delibere tramite le quali fu prorogato l'incarico: l'ipotesi di lavoro degli inquirenti è che Cecinelli, prossimo alla pensione, non avesse più i requisiti per esercitare l'incarico. Gli accertamenti costituiscono un capitolo a parte della più ampia inchiesta sulla gestione del fondi regionali alla Pisana.
La vicenda, tra l'altro, è oggetto di attenzione anche da parte della Corte dei Conti. La procura, all'indomani dell' avvio dell'azione penale, segnalò il caso alla magistratura contabile per verificare eventuali conseguenze sotto il profilo del danno erariale. L'Ufficio di presidenza del Consiglio prende le distanze dall'ipotesi di reato presa in esame dalla procura. In un comunicato si rivendicano la bontà ed il rispetto delle procedure seguite. «Le funzioni del segretario Generale Nazzareno Cecinelli è detto nella nota sarebbero dovute cessare alla fine del mese di marzo 2012, con il compimento del limite di età (67 anni)». Ma «il decreto cosiddetto 'salva Italià, all'art. 24, prevedeva il mantenimento in servizio fino al 70/o anno di età, per cui l'ufficio valutava se prolungare ulteriormente l'incarico». Successivamente però è intervenuta una circolare del ministro della Funzione pubblica precisa la stessa nota «che, invece, ha interpretato la norma in senso restrittivo, ritenendola non applicabile ai dipendenti pubblici e rendendo quindi impraticabile l'affidamento dell'incarico fino al compimento del 70/o anno di età». Per questo è stato predisposto un bando, ma «per non paralizzare l'attività amministrativa si ritenne opportuno per il periodo strettamente necessario (180 giorni) alla conclusione del relativo iter procedurale, della collaborazione del Segretario uscente».

l’Unità 30.10.12
Migranti in piazza «Dateci un futuro»
Dopo gli incidenti di Napoli i richiedenti asilo hanno manifestato anche a Bologna
di Nicola Luci


BOLOGNA Dai Prati di Caprara, vicino all’ospedale Maggiore di Bologna, hanno manifestato fino in centro, salendo in Comune per rivendicare «il diritto al futuro». Protagonisti alcune decine di migranti, insieme ai militanti del centro sociale Tpo, in rappresentanza dei 130 nigeriani che, spiegano, «sono parcheggiati nell’area dismessa dei prati di Caprara». Un’accoglienza che, nonostante le premesse, si è trasformata in una totale assenza di servizi e che il 31 dicembre, con lo stop del Piano di accoglienza «Emergenza Nord Africa», «si farà ancora più critica, perché dovranno occuparsene gli enti locali che già lamentano la mancanza di fondi».
La protesta, per una volta rumorosa ma anche colorata, ha però scatenato la reazione dei rappresentanti del centrodestra, impegnati in consiglio comunale. «I pseudo-profughi dopo un anno che li abbiamo accolti e mantenuti, vengono in comune a protestare. Rimpatriamoli tutti, così risolviamo i problemi nostri e loro», attacca il capogruppo leghista Manes Bernardini al quale fa eco Marco Lisei, Pdl: «Ci mancava solo che il Tpo venisse a manifestare in Comune assieme ai profughi che si lamentano perché le procedure per i permessi di soggiorno sono troppe lunghe. Manifestassero per i tanti italiani che aspettano da anni una casa del Comune». Tra le richieste dei migranti, infatti, anche le risposte negative alle domande di asilo d’ufficio che stanno arrivando in questi giorni. Dopo aver ballato e improvvisato una conferenza pubblica nel cortile del Palazzo D'Accursio, dove, al piano superiore era in corso il Consiglio comunale, la manifestazione si è spostata per un breve presidio davanti all'ingresso della vicina Prefettura. Poi il corteo, sempre preceduto dallo striscione «Permesso di soggiorno. Diritti, dignità. Stop accoglienza miserabile», ha fatto ritorno verso la struttura dei Prati di Caprara. «Abbiamo preso contatti con la segreteria di gabinetto del sindaco Virginio Merola», hanno spiegato i manifestanti, riferendo che già oggi dovrebbe esserci un incontro con il primo cittadino.
La situazione di Bologna, però, è simile a quella di migliaia di altri richiedenti asilo in tutta Italia che, in attesa da mesi di una risposta alla domanda per la concessione dello status da parte delle commissioni territoriali, adesso temono di vedersi abbandonati a se stessi quando alla fine dell’anno saranno finiti i fondi destinati alla loro accoglienza. Una situazione particolarmente esplosiva a Napoli dove la scorsa settimana ci sono stati scontri in Questura fra alcune decine di richiedenti asilo provenienti dal Mali e gli agenti in servizio all’ufficio immigrazione. Tafferugli, venti i poliziotti feriti dopo gli incidenti, nati al termine di una manifestazione organizzata dai migranti per sollecitare una soluzione alla loro condizione di «sospesi» fra un’accoglienza (precaria) giunta quasi al termine e l’iter legale della loro domanda ancora senza risposta.

Corriere Tv 30.10.12
La videochat alle 16: Le person e la dignità
Diritti delle donne in Medio Oriente
Invia la domanda
Maryam Al-Khawaja, una protagonista della rivolta in Bahrein risponde in diretta

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Corriere 30.10.12
Stati Uniti Ha sparato mentre l'uomo dormiva. Ora è sotto processo
Il bimbo uccide il papà nazista
Può essere giudicato un killer?
Cresciuto nel culto della violenza. Il genitore lo portava ai raduni di destra in cui si professava la difesa della razza
di Guido Olimpio

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Corriere 30.10.12
Due sinistre tra equità e libertà Viaggiano su strade divergenti
di Giuseppe Bedeschi


La grave crisi che ha investito gli Stati Uniti e l'Europa ha sollecitato gli economisti a riflettere sui meccanismi dello sviluppo economico quale si è realizzato negli ultimi decenni, a rivedere convincimenti che sembravano ormai assodati, a rimettere in discussione teoremi che apparivano acquisiti una volta per tutte. Questo ripensamento ha luogo sia nello schieramento di centrosinistra che in quello di centrodestra. Ma direi che a sinistra la ricerca e il dibattito mostrano un impegno e una intensità maggiori. Una interessantissima testimonianza di ciò è il saggio di due economisti, Pietro Reichlin e Aldo Rustichini, Pensare la sinistra. Tra equità e libertà (ed. Laterza), che essi hanno sottoposto a un buon numero di personalità (economisti, sociologi, giuristi, politologi). Secondo un pensiero molto diffuso a sinistra, essi dicono, la crisi che l'Italia e altri Paesi attraversano è il risultato della speculazione, della globalizzazione finanziaria e di un mercato libero da ogni vincolo. Essendo queste le cause, i rimedi sarebbero la crescita della spesa pubblica e una maggiore presenza dello Stato nell'economia. Ma, dicono gli autori, nel caso dell'Italia gridare contro la speculazione e la finanza globale significa schivare questioni reali e parlare d'altro. «I nostri problemi non nascono con la crisi del 2008, ma sono stati prodotti in un arco di tempo molto più ampio. Un trentennio in cui le scelte pubbliche hanno sacrificato la crescita economica e l'equità intergenerazionale, provocato una lievitazione incontrastata della pressione fiscale e prodotto una crisi del patto sociale». Ci piacerebbe, incalzano gli autori, che la sinistra riconoscesse queste premesse e tornasse a discutere come migliorare le politiche e le istituzioni pubbliche, in nome della giustizia sociale sì, ma anche dell'efficienza. Ma per fare ciò la sinistra dovrebbe assumere «un volto moderno che, noi crediamo, non è ancora riuscita ad avere»; dovrebbe «trovare il modo di parlare alle nuove generazioni e all'insieme della società presentandosi come agente di cambiamento e non di conservazione». In particolare, la sinistra dovrebbe affrontare di petto alcuni nodi di grande rilevanza. C'è in primo luogo l'enorme problema del lavoro. Qui bisogna cercare di eliminare il dualismo del nostro mercato del lavoro e fare in modo che i giovani (oltre che le donne e gli immigrati) abbiano un trattamento migliore, cioè salari più elevati e più contratti a tempo indeterminato. Ma questo risultato può essere ottenuto solo riducendo i costi di licenziamento e allineando i salari alla produttività. La recente riforma del mercato del lavoro in tema di licenziamenti, varata dal governo Monti, è solo un primo tentativo in questa direzione. Ma è evidente, dicono gli autori, che bisogna fare di più (e rinviano al disegno di legge del senatore Ichino).
Un altro fronte sul quale la sinistra dovrebbe realizzare un ripensamento radicale è quello del nostro Mezzogiorno. «Ha senso, ad esempio, che le organizzazioni sindacali nazionali si sforzino di imporre condizioni contrattuali uniformi su tutto il territorio nazionale, indipendentemente dalle condizioni economiche regionali, come la produttività, le infrastrutture e il costo della vita?» No, non ha senso. Del resto la contrattazione collettiva nazionale ha perso terreno rispetto alla contrattazione a livello aziendale quasi ovunque, anche nei Paesi a tradizione socialdemocratica, come la Germania e la Svezia.
Un altro grande problema da ripensare è quello dell'istruzione. Si sente spesso affermare che l'istruzione deve essere gratuita per consentire anche ai figli dei poveri di andare a scuola o all'Università. Ma l'obiettivo dell'equità può essere raggiunto in tanti modi diversi, e, probabilmente, lo strumento della scuola gratuita per tutti non è quello più efficace. Nel caso della nostra istruzione universitaria, con tasse uguali per tutti facciamo un grande regalo alle famiglie benestanti, e mettiamo in difficoltà le famiglie povere (fino a escluderle completamente dall'educazione terziaria). Sarebbe molto più equo aumentare il costo d'iscrizione all'Università e, nello stesso tempo, creare un ampio sistema di borse di studio, di «prestiti d'onore» ecc. per gli studenti economicamente svantaggiati.
Queste alcune delle argomentazioni di Reichlin e Rustichini. Come hanno reagito i loro interlocutori? Alcuni con vivo interesse (Michele Salvati, Claudia Mancina ecc.), altri assai negativamente. Così Salvatore Biasco dichiara che la discussione avviata dai due economisti, è «del tutto estranea alla sinistra»; Stefano Fassina rifiuta con forza l'idea che l'unica ideologia possibile per una sinistra dinamica e innovativa sia quella liberista; Piero Bevilacqua afferma che la critica di Reichlin e Rustichini alla sinistra «è un distillato ideologico del neoliberismo», e come tale da respingere fermamente. Anche in questo confronto appare evidente che nella cultura della sinistra ci sono (nettamente distinte, anzi contrapposte) due anime.

Corriere 30.10.12
La culla dell'Europa sotto le mura di Troia
Un'identità che nasce con i poemi di Omero
di Paolo Mieli


Nel 417 Claudio Rutilio Namaziano, prefetto di Roma, si imbarca al porto di Ostia per tornare in Provenza, sua terra natale. Sette anni prima (nel 410), Roma è stata presa e saccheggiata dai Goti di Alarico, che da quel momento spadroneggeranno sulle strade consolari. Rutilio Namaziano ha scelto così la via del mare per raggiungere la Gallia, dove va a sincerarsi se i Vandali, che sono transitati di lì per andare a conquistare l'Africa del Nord, hanno devastato e depredato anche le sue proprietà. Case e terreni nei quali Rutilio Namaziano ha in progetto di trasferirsi definitivamente. A quel viaggio, contrassegnato da numerose e lunghe soste, l'ex prefetto dedica un magnifico poema, De Redito Suo (Il ritorno, pubblicato da Einaudi a cura di Alessandro Fo), in cui rimpiange la Roma che fu, elogia con punte di commozione i riti pagani a dispetto di quelli cristiani, esprime ammirazione nei confronti del generale Costanzo, che ha da poco sconfitto i Goti in Iberia. Dalla malinconia dei versi si intuisce che Rutilio Namaziano si fa poche illusioni circa la portata della vittoria di Costanzo, è consapevole che un mondo va scomparendo, e avverte la sensazione di essere alla fine della storia sua e forse anche della civiltà. Ma qui il poeta sbaglia.
Scrivono Simon Price e Peter Thonemann in un libro, assai originale, che sta per essere pubblicato da Laterza, In principio fu Troia. L'Europa nel mondo antico: «Rutilio pensa che sta lasciando il centro (Roma) per tornare a casa nella periferia (la Gallia), ovvero crede ancora di vivere nel mondo antico… In realtà egli si trova sulla soglia di un mondo nuovo, dove le periferie sarebbero diventate centri a pieno diritto e in cui la Gallia, alla fine del V secolo d.C., sarebbe stata molto più florida di Roma». È partito dalla Roma del passato ed è giunto nell'Europa del futuro. Già, ma quando è nata quell'Europa? Qual è la sua storia antica?
L'Europa in qualche modo aveva cominciato a profilarsi come tale nel I secolo d.C., quando, in tutte le province occidentali dalla Spagna alla Britannia, si notò una grande diffusione delle ceramiche aretine, recipienti di terracotta usati per cuocere, conservare e consumare cibi e bevande. Ceramiche che in forma ben più rudimentale e in misura infinitamente minore avevano cominciato a circolare già cinque o sei secoli prima. Nell'Europa nordoccidentale preromana la fonte principale di carboidrati, scrivono Price e Thonemann, era stata fino a quel momento una pappa di cereali inzuppata in una scodella di birra: la comparsa delle ceramiche aretine di cui si è detto segnò il passaggio, almeno per le élite, alla cottura del pane. Quelle stesse élite celtiche iniziarono poi ad assaporare vino importato — anche qui si era iniziato centinaia di anni prima — da Massalia (Marsiglia); mentre le classi più povere ancora bevevano birra di frumento mescolata con il miele o birra d'orzo senza aggiunte. Nel corso di quel primo secolo dell'era cristiana il consumo della birra andò declinando a vantaggio di quello del vino, prodotto per oltre la metà nella regione di Besançon in vigneti gallici.
Il mercato delle ceramiche di tipo romano raggiunse proporzioni tali che nella Gallia meridionale cominciarono a fiorire officine che ne producevano ottime imitazioni a beneficio del mercato locale. La più nota si trovava a La Graufesenque, nei pressi di Millau, regione francese Midi Pirenei: i piatti di La Graufesenque si diffusero non solo nelle province galliche, ma anche in Britannia e persino nell'Africa del Nord. Particolare molto importante è che su ogni singolo prodotto di quel vasellame era apposto un sigillo con il nome del produttore o del destinatario, tradotto dal celtico in latino. I vasai di La Graufesenque volevano apparire romani in tutto e per tutto e a tal fine quegli stessi vasai adottarono, per la loro pregiata opera, la lingua di Roma. A poco a poco gli idiomi locali cedevano il posto al latino (a Occidente) e al greco (a Oriente).
È in questo momento che molte delle varie lingue dell'Asia minore (il licio, il lidio, il galatico, il cario) spariscono dalle iscrizioni su pietra, dai papiri, dalle tavolette scrittorie e dagli stampi di ceramica. Solo nella campagna più sperduta può accadere che, nel III secolo d.C., il frigio resista su qualche pietra tombale, peraltro bilingue; stesso discorso vale per il pisidio. Per il resto niente o quasi niente. Così fa una certa impressione leggere all'interno del Nuovo Testamento, negli Atti degli Apostoli, che a metà del I secolo, quando Paolo e Barnaba arrivarono nella piccola colonia romana di Listra, la popolazione locale li salutò «in licaonico». «Non ci resta neanche una parola della lingua licaonica», osservano Price e Thonemann, «evidentemente sia a La Graufesenque sia a Listra c'era una netta divisione tra le lingue dell'amministrazione e degli affari pubblici (rispettivamente latino e greco) e le lingue che la gente parlava effettivamente nella vita quotidiana (celtico e licaonico)».
Ma torniamo alla storia e alla storia antica (che si confonde con quella mitica). Colpisce il fatto che nella mitologia greca il nostro continente abbia le sue origini fuori dall'attuale Europa, sull'altra sponda del Mediterraneo. Nelle Metamorfosi di Ovidio, Europa è la figlia di Agenore, re di Tiro (Sidone) in Fenicia, una ragazza che, mentre gioca con le sue amiche sulla riva del mare, viene conquistata da Zeus con le sembianze di un toro alato, ne è rapita e lo segue sulla sua groppa a Creta. Qui Zeus riprende il suo aspetto e si congiunge a lei generando Minosse, fondatore della civiltà che da lui prende il nome. Ma a ribadire la circostanza delle origini africane c'è che Agenore di Tiro mandò un altro suo figlio, Cadmo, a cercare la sorella Europa: fu nel corso di questo viaggio alla ricerca della sorella che il fenicio Cadmo si fermò in Beozia e fondò Tebe, dando origine a una dinastia che avrebbe regnato fin dopo la guerra di Troia. Va notato che «Europa, Cadmo e Agenore furono figure puramente greche, senza alcun ruolo nella mitologia fenicia indigena». Solo in un secondo tempo, nel II secolo a.C., quei personaggi entrarono a far parte della mitologia nordafricana.
In ogni caso Martin Bernal già qualche anno fa, nel libro Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica (il Saggiatore), approfondì la questione e giunse a due conclusioni: che, incontestabilmente, le origini della civiltà greca andassero cercate in Africa, a suo avviso specificamente in Egitto; e che questa realtà era stata «occultata in maniera sistematica e deliberata» dagli studiosi occidentali sin dal XVIII secolo, «per eurocentrismo o per aperto razzismo». Mary Lefkowitz, studiosa del Massachusetts, in un altro libro, Black Athena Revisited, ha confutato punto per punto le tesi di Bernal. Ma Simon Price e Peter Thonemann, dopo averle riesaminate, sostengono che esse reggono alla missione di «contrastare lo sminuimento culturale di popolazioni di origine africana, operato da teorie implicite o affermazioni esplicite secondo le quali non sarebbe mai esistita una grande cultura africana che ha contribuito complessivamente alla civiltà mondiale e secondo le quali i neri siano sempre stati schiavi». Ciò che, proseguono, «ci sembra ragionevole, equilibrato e ben argomentato». Anche se si sentono in dovere di aggiungere: «Se sia il modo corretto di fare storia oppure no, lo lasciamo decidere al lettore».
In ogni caso i primi contatti dei Fenici con il Mediterraneo occidentale sembrano risalire al X e IX secolo a.C.; ma solo a partire dall'inizio dell'VIII i mercanti nordafricani diedero vita a insediamenti stabili. La diaspora fenicia «fu sbalorditiva per la sua rapidità». A cavallo di due secoli, i Fenici avevano fondato insediamenti in Tunisia e in Sicilia occidentale, tra cui Palermo, a Malta, in Sardegna, a Ibiza, sulla costa andalusa della Spagna. Un secolo dopo, attorno al 600 a.C., i Greci fondarono Massalia, l'odierna Marsiglia.
Comunque all'inizio fu definito Europa tutto ciò che si trovava a ovest dell'Asia, dell'Ellesponto, delle terre dominate dai Persiani. E all'origine fu la guerra di Troia. Per i Greci e per i Romani Troia è la città a cui risale la memoria, in cui il mito ha iniziato a farsi storia: essa è sì alle frontiere dell'Asia, ma «storicamente» è in Europa (vale ricordare che la Daimler Benz per aver sponsorizzato i nuovi scavi nel sito di Troia iniziati nel 1988, è stata premiata dall'Unesco per l'opera a favore del «patrimonio culturale europeo»). Per i Greci, i Romani e anche altri popoli «la guerra di Troia e gli eventi immediatamente successivi costituirono il limite più antico della loro consapevolezza del passato e divennero le fondamenta dell'identità europea».
All'inizio del primo millennio a.C. la distinzione più chiara non è quella tra Est e Ovest, ma fra paesi a nord e a sud delle Alpi. E a nord cosa c'era? Sono state trovate le tracce di qualcosa di importante anche a nord, come l'insediamento, piccolo ma fortificato, di Sobiejuchy, nella Polonia centrosettentrionale, probabilmente abitato tra l'Età del Bronzo a quella del Ferro, un sito che può servire da modello per altri insediamenti centroeuropei di quello stesso periodo. Sobiejuchy, grande circa sei ettari (la coeva Micene occupava quattro ettari), sorgeva su un'isola in un lago ed era difesa da una palizzata di legno. Era fondata su un'economia rurale di sussistenza, con una coltivazione intensiva di una gran varietà di raccolti: miglio, grano, spelta, farro, fagioli, lenticchie e piselli; si allevavano maiali, pecore, cavalli, si pescava e si catturavano animali selvaggi.
Nell'Età del Ferro la regione a nord delle Alpi, a est della Borgogna e a ovest della Repubblica Ceca vide nascere un gruppo culturale stabile e relativamente omogeneo chiamato «cultura di Hallstatt», dal nome di un paese dell'Austria famoso per le miniere di salgemma. Questa cultura nel VI secolo a.C. man mano che, come si è detto, i beni di lusso di manifattura mediterranea cominciarono a viaggiare verso nord lungo il corridoio del Reno, subì una grande trasformazione: «Emerse una nuova classe dirigente che risiedeva in città collinari fortificate in stile greco e che si distinguevano da quelle contemporanee per l'utilizzo di beni di lusso greci». I nobili di Hallstatt furono «consumatori di vino massaliota» e compratori di grandi quantità di vasellame greco da degustazione.
Ma se questo è il poco che si era sviluppato in quello che è oggi il centro del nostro continente, l'Europa di quei tempi giocava la sua partita sull'Ellesponto. Nel v secolo gli asiatici furono all'attacco e gli Ateniesi li respinsero a Maratona (490 a.C.), a Salamina (480 a.C.) e a Platea (479 a.C.). Nell'anno di Platea ci fu la crocefissione di Artaitte, l'episodio dal grande valore simbolico che ci collega all'antica storia europea. Due anni prima, il re persiano Serse aveva condotto il suo immenso esercito al di là dello stretto, con lo scopo di annettere l'intera penisola greca all'impero persiano. Per trasportare l'armata al di là dell'Ellesponto, il gran re aveva unito le due coste con un ponte di barche e si addentrava nell'Europa. In quei giorni Artaitte, governatore per conto di Serse della città di Sesto, aveva «dato ai Greci del luogo una lezione memorabile sul potere persiano» saccheggiando la tomba di Protesilao, sepolcro sacro della guerra di Troia. Protesilao era stato, secondo Omero, il primo greco a essere ucciso appena balzato a terra sulla costa della Troade; la crocefissione di Artaitte fu dunque, ai tempi della sconfitta definitiva di Serse, la vendetta simbolica nei confronti di chi aveva osato violare la memoria della vittoria dell'Occidente sull'Oriente, dell'Europa sull'Asia. Di chi, in altre parole, aveva avuto l'ardimento di mettere in dubbio la supremazia europea, destinata da quel momento ad essere definitiva.
All'inizio del V secolo, il Giro della terra di Ecateo di Mileto, il primo tentativo di descrivere una geografia universale, fu diviso in due libri, il primo si chiamava «Europa», il secondo «Asia». Ecateo descrisse il mondo abitato come un «disco circolare abbracciato dall'Oceano». Tale disco era diviso in due metà uguali, l'Europa e l'Asia appunto, separate da una sola striscia d'acqua, il Mediterraneo e il Mar Nero legati tra loro dall'Ellesponto. Nel 449 a.C., quando gli Ateniesi inflissero un'altra sconfitta alla flotta e all'esercito dei Persiani, il monumento celebrativo ateniese affermava che non c'era stata una vittoria più grande «da quando l'Oceano divise l'Europa dall'Asia». Ma non c'era nessun disprezzo per gli asiatici. Erodoto di Alicarnasso, greco nato sulla costa dell'Asia Minore, nelle Storie seppe descrivere anche i popoli «non europei», le «razze barbare» con «acutezza e simpatia». Tebe ai tempi di Platea si era schierata dalla parte dei Persiani, ma non fu mai considerata una città non greca.
Questo dimostra che, anche se era molto importante sapere chi, in battaglie cruciali, era stato dalla parte dei vincitori e chi da quella dei perdenti, l'Europa non confuse mai il proprio diritto ad esistere con un senso di alterità e superiorità nei confronti degli «altri». Del resto, all'inizio della Guerra del Peloponneso, Tucidide osserva che il termine «barbaro» non è mai usato in Omero, «per il fatto che gli Elleni, a mio parere, non erano ancora riuniti sotto un nome distinto che si opponesse a quello dei barbari». Si tratta, scrivono Price e Thonemann, di «un'osservazione molto acuta». L'Iliade mostra «scarso interesse per le differenze etniche o culturali tra gli Achei e i Troiani»: Tucidide «ha colto il punto cruciale per cui il concetto di barbaro è inestricabilmente legato all'idea di grecità: solo quando i Greci cominciarono a considerarsi un unico popolo con caratteristiche comuni (templi, lingua, antenati), impararono a guardare ai non greci come ad un unico gruppo». Omero non ha alcuna idea di divisione del mondo in due continenti separati. Almeno fino all'Inno omerico ad Apollo, che è del VI secolo a.C., Europa è solo «un termine comodo per la Grecia continentale a nord dell'Istmo, senza alcuna delle connotazioni geografiche e politiche più ampie che avrebbe sviluppato due secoli dopo».
Si calcola che nel 400 a.C. il mondo greco ospitasse almeno 862 città-Stato indipendenti, la stragrande maggioranza delle quali erano situate nel bacino egeo. La loro fu la prima cultura veramente urbana a emergere in Europa: la popolazione totale della Beozia classica può essere stimata tra i 165 e i 200 mila abitanti, di cui circa 100 mila (il 50 per cento o più) vivevano in centri urbani. Si tratta di una percentuale «eccezionalmente alta», fanno notare i due storici; 2.400 anni dopo, nel Settecento, la popolazione urbana dell'Europa nel suo complesso sarebbe stata all'incirca solo il 12 per cento di quella totale: «Nei Paesi Bassi, una delle regioni più urbanizzate dell'Europa continentale, la popolazione arrivava forse al 40 per cento». Va anche detto che quella ateniese era una singolare eccezione. La poco lontana Tracia, equivalente all'odierna Bulgaria, per come ce l'ha raccontata Senofonte, aveva villaggi che consistevano in «una manciata di capanne di legno, ognuna circondata da un'area recintata per il bestiame». Niente di più.
L'impero ateniese del V secolo era diverso da qualsiasi altro Stato mai esistito e da quelli ancora esistenti in Europa fino ad allora. C'erano 700 funzionari ateniesi in servizio permanente all'estero, più del quadruplo di quanti Roma ne avrebbe mandati secoli dopo ad amministrare le province di tutto il proprio impero. Atene imponeva ad ogni città sottomessa l'adozione di pesi, misure e monete uniformi. E in quel periodo gli Ateniesi cominciarono a registrare su pietra inventari dei templi, contabilità edilizia, vendite di proprietà ed elenchi di vittime. Un'«abitudine documentaria» che fa di quest'esperienza un unicum nella storia d'Europa nel mondo antico.
Fu quella ateniese una civiltà superiore? Non in tutto. Price e Thonemann sono colpiti per il fatto che in questa storia antica d'Europa le donne ateniesi avessero una condizione peggiore che nel resto del mondo greco. Per esempio, un codice giuridico del V secolo di Gortina, a Creta, mostra che «le donne del luogo potevano possedere ed ereditare beni, sposarsi e divorziare con relativa libertà e persino generare figli liberi da uno schiavo maschio». Allo stesso modo le donne spartane godevano di diritti legali e di un grado di libertà sociale che inorridiva gli osservatori ateniesi e si diceva che «alla fine del IV secolo due quinti della terra spartana fossero posseduti da donne». Resta dunque «il paradosso che lo Stato più egualitario del mondo greco fosse anche uno dei più repressivi nel trattamento delle donne».
L'Europa fece un importante passo avanti nell'affermazione della propria identità con la comparsa sulla scena di Filippo il macedone e poi di suo figlio Alessandro. Già l'oratore ateniese Isocrate definì Filippo «il più grande dei re dell'Europa», un modo per «identificare gli interessi di quel re con quelli dei Greci», senza dover sostenere che era greco lui stesso. E non è certo un caso che a sua figlia, nata poco dopo la vittoria di Cheronea, Filippo diede il nome Europa. Con l'ascesa della Macedonia come potenza dominante nel mondo greco, «essere europeo finì necessariamente per significare qualcosa di più che essere greco». Filippo e Alessandro «nel loro tentativo di unire la sfera culturale greca e quella macedone, potrebbero essere indicati plausibilmente come i primi europei consapevoli». E quando nel 334 a.C. Alessandro si apprestò a varcare l'Ellesponto, volle prima rendere omaggio alla tomba del Protesilao di cui si è detto e, appena la sua nave approdò sulla costa della Troade, imitò quello stesso Protesilao e volle essere il primo a metter piede sul suolo asiatico.
Dopodiché, se così si può dire, l'Europa travolse l'Asia. Tra il 334 e il 330 a.C. Alessandro conquistò la penisola dell'Asia Minore, la Siria, l'Egitto, il cuore dell'impero persiano cioè la Mesopotamia e l'Iran occidentale fino a spingersi, all'inseguimento di Dario III, in Afghanistan, Uzbekistan e Tagikistan (in quella zona del mondo è stata ritrovata la colonia greca di Ai-Khanoum), in India. Ed è curioso notare che un anno prima di questa colossale impresa, che avrebbe spostato sia pure provvisoriamente in Asia il baricentro dell'impero, nel 335, Alessandro incontrò una delegazione dei Celti. I Celti all'epoca erano scesi dalle foreste del Nord per spadroneggiare nell'odierna Europa, si erano spinti fino a Roma (386) e il grande re macedone fu — forse — sul punto di stringere con loro un'alleanza che ad ogni evidenza, se si fosse realizzata, avrebbe cambiato il corso della storia.
Ma quell'incontro non si concretizzò, così come non ebbe un seguito concreto e duraturo la magnifica avventura di Alessandro in Asia. Toccò a Roma respingere le bande razziatrici venute dal Nord e qualche tempo dopo domare sia i Greci (in soli 53 anni a partire dalla fine della dinastia macedone nel 220 a.C.) che i Fenici. La distruzione di Cartagine e quella di Corinto (entrambe nel 146 a.C.) «segnano un punto di svolta nella storia del Mediterraneo». Da quel momento «anche la conoscenza dell'Europa subì un cambiamento» (i Greci avevano avuto scarso interesse per le aree interne del continente). Le aree dell'Europa centrale si mostrano permeabili alla penetrazione romana. La storia delle società indigene prima della conquista — diversamente da quel che accadeva in Asia — «fu ampiamente dimenticata e rimpiazzata da un passato nuovo e più accettabilmente romano… Le lingue locali entrarono in un rapidissimo declino; persino le pratiche relative al mangiare e al bere furono cancellate dalla diffusione della ceramica e delle colture romane, prima fra tutte la vite».
Fu così che vennero in primo piano popoli un tempo periferici rispetto al mondo greco e che adesso cercavano di assicurarsi un posto in quel mondo, riconnettendo il proprio passato a quello greco più remoto. «Il viaggio di Enea da Troia in fiamme attraverso Cartagine verso l'Italia divenne un punto di riferimento ricorrente per i popoli del mondo romano… La storia che parte da Enea e Romolo, quella dell'ascesa di Roma, che per Agostino d'Ippona (tra il IV e il V secolo d.C.) era la principale città terrena, entrò a far parte del nuovo bagaglio ideologico trasmesso all'Europa cristiana». Il greco divenne l'idioma dominante nel Mediterraneo («il che spiega perché i primi testi cristiani, incluso il Nuovo Testamento, furono scritti in greco e non in aramaico, che pure era la lingua di Gesù»), ma fu il latino che — dopo una lunga stagione in cui l'aristocrazia aveva l'obbligo di essere bilingue — divenne la lingua dominante dell'Occidente. La storia stava procedendo lungo l'itinerario di Rutilio Namaziano, che aveva creduto di andare da un centro ancora vitale (Roma) in una regione priva di prospettiva (l'Europa) e non si era accorto (probabilmente non poteva accorgersi) che stava facendo il percorso inverso.

La Stampa 30.10.12
Di che cosa parliamo quando parliamo di croce
Torna lo studio del filosofo esoterista René Guénon che analizza il simbolo attraverso le varie religioni
di Alessandra Iadicicco


Tanti simboli continuano a parlarci, solo che non li comprendiamo più. Anche incompresi, o inascoltati, anche privati della loro aura sacrale e trasformati in mero segno ornamentale, non smettono di esercitare un’irresistibile forza di attrazione, di suscitare rispetto o timore, di scatenare irrazionali superstizioni o indurre una reverente soggezione. Uno dei simboli più antichi e diffusi, ancestrali e universali, è la croce, che «in forme diverse si trova quasi ovunque sin dalle epoche più remote»: è quanto scrive René Guénon (1886-1951) in un testo che rappresenta una pietra miliare per la grammatica e la logica dei simboli e offre la lettura più intrigante ed esauriente dell’emblema su cui è fondata la civiltà occidentale cristiana.
Il simbolismo della croce però - che il filosofo esoterista franco-egiziano scrisse al Cairo nel 1931 e che dopo varie traduzioni italiane pubblicate da Luni, Rusconi, su riviste di studi della Tradizione, esce finalmente nella limpida versione di Pietro Nutrizio per Adelphi (in libreria mercoledì) – non è un testo cristiano, né si attiene alla cultura e ai culti occidentali. Il suo autore, adepto della «scienza sacra», studioso delle religioni considerate nella loro forma tradizionale, esperto di taoismo, induismo, islam, ebraismo e cristianesimo, cercava in ciascuna di queste dottrine e nella loro reciproca corrispondenza il riflesso di una sola divinità, di un unico principio metafisico dal quale discenderebbe l’intero ordine universale.
Di tale discesa, e della successiva, salvifica risalita la croce costituisce il sistema assiale, l’intersecarsi delle coordinate di riferimento, il vettore, il segnale della direzione da tenere per un’autentica realizzazione spirituale. I suoi bracci, scrive Guénon, si estendono in direzioni opposte, ma formano «l’unione dei complementari». In essa si stringe il legame tra il maschio e la femmina, tra l’uomo e la donna uniti nel vincolo nuziale, e si rinsalda l’insieme dell’edenico «Adamo-Eva» che nell’islam esoterico «ha il numero di Allah, e rappresenta l’Identità Suprema, l’Uomo Universale». In suo nome si combatte una guerra santa: la jihad islamica o la campagna dei crociati intesa a un superiore ristabilimento della pace. Nel suo centro e fulcro il saggio cinese attinge il tao, il perfetto equilibrio, preservato da passioni e turbamenti. E il fedele indù riconosce nei suoi tre elementi – base, vertice, piano orizzontale – i tre stati dell’essere, «i tre guna »: il buio, la luce e la tensione umana a farli comunicare. In quest’ottica, nelle credenze estremo orientali, la croce è specchio della Grande Triade, del macrocosmo formato dal cielo, dalla terra e dall’uomo che tra terra e cielo deve mediare. Fusto, colonna trave portante di questa architettura cosmica è, naturalmente, l’asse verticale della croce, corrispondente all’ordito immutabile attorno a cui si intreccia la trama di ogni umana storia, al filo teso e immobile che regge la mutevolezza di ogni tessitura. In tal senso in ogni testo sacro, o in ogni sutra (in sanscrito: «filo») contenente il canone della dottrina induista, sarebbe inscritto il simbolismo della croce. Rampa ascendente, axis mundi, scala per le sfere celesti, tronco dell’albero vitale, il legno della croce rivela tuttavia appieno il suo spessore di simbolo solo scendendo a penetrare le tenebre, l’oscurità, l’ombra del male.
Con la potenza di un’immagine irriducibile esibisce il misterioso innesto tra la vita e la morte, l’albero e il serpente, tra lo strumento della caduta - il legnum vitae, che fu proibito e precluso a Adamo ed Eva dopo la cacciata - e lo strumento della passione e resurrezione. Anche il devoto fedele ad altri credo che ignori la storia della salvezza e il significato della crocifissione di Cristo, evoca un analogo cammino di elevazione attraverso simboli che corrispondono a quello della croce: che siano la menorah o l’albero sefirotico della Qabbalah ebraica, l’alternanza di ying eyang nel simbolismo cinese, la corda tesa sull’arco a rappresentare lo slancio dei tre guna, o i tre stadi del divenire dell’uomo concepito secondo il Vêdânta. Siamo sicuri di avere bene in mente tutto questo quando e se, da bravi cristiani, facciamo frettolosamente il segno della croce?

l’Unità 30.10.12
Davide Lajolo
Il coraggio di Ulisse sulla nave de l’Unità
Pubblichiamo ampi stralci della relazione di Aldo Tortorella al convegno
su Davide Lajolo organizzato dalla Fondazione Gramsci
in occasione del centenario della nascita che si è svolto alla Camera dei deputati
di Aldo Tortorella


Certamente, è difficile, anzi praticamente impossibile, distinguere la figura di Davide Lajolo politico dall’opera di Ulisse il corsivista, il giornalista, il direttore de l’Unità per dieci anni e per altrettanti del settimanale Vie Nuove, o dall’opera sua di saggista e scrittore di narrazioni autobiografiche che furono di educazione e di pensiero politico in forma di opera letteraria. Solo lui e Ingrao hanno diretto l’Unità così a lungo, e il settimanale Giorni-Vie Nuove ebbe vita vera finché egli ne guidò le sorti. Ma proprio per la politicità del suo impegno di giornalista e di scrittore si deve parlare di una sua peculiare funzione dirigente e non solo per il fatto che Lajolo fu deputato per quindici anni e fu per un quarto di secolo membro del Comitato centrale del Pci (quando quell’organismo era di decine e non centinaia di persone come accadde più avanti nel tempo). Dirigente non è chi ne reca i galloni, ma chi esercita con il pensiero o con l’azione o con entrambi un compito di creazione di realtà sociali e politiche: e a questo modello di dirigente appartenne Lajolo.
LA POLITICA
Si è scritto spesso di lui che egli sia stato un «comunista scomodo» o un «eretico», intendendo dire che egli fu un non conformista, un uomo con un pensiero proprio. Questo è vero, ma non dice tutto, non gli restituisce quello che gli si deve, non dice l’essenziale del posto che gli spetta nella vicenda di quella parte della sinistra italiana. Le definizioni di «scomodità» e di «eresia» presuppongono la tradizionale immagine del partito cui Ulisse appartenne per 50 anni come quella di una compagine di credenti dominata da una ortodossia, come fu da un certo momento in poi nel partito sovietico. Non fu così. Quel partito per tutta la sua vita fu squassato da lotte talora asperrime, non mai chiuse una volta per tutte anche per la esistenza di centri diversi di iniziativa sparsi per l’Europa e il mondo nel tempo della clandestinità in patria. E quando, nel secondo dopoguerra del secolo scorso, il Pci mostrò un suo volto unitario, e incominciò la sua ascesa, viveva egualmente un travaglio interno che fu, all’inizio, drammatico. La politica di Togliatti tutta centrata sulla fedeltà alla democrazia e alla nazione nell’interesse medesimo dei lavoratori, che appariva e ancora viene presentata come indiscussa, si dovette affermare tra duri contrasti e conobbe per anni avanzamenti e arretramenti.
Per la formazione del partito definito come «nuovo» rispetto alle idee, ai concetti e ai linguaggi del passato e di altri partiti detti ‘fratelli’ l’Unità fu uno strumento determinante e quella di Milano diretta da Lajolo dal ‘48 al ‘58 spiccò tra le altre (ci furono fino al 1957 quattro diverse edizioni e redazioni) proprio per le qualità di Ulisse polemista vigoroso e uomo libero, pur in una disciplina che veniva spontanea dinnanzi ai vecchi dirigenti usciti da prove durissime sia nella lotta antifascista sia sotto il regime staliniano. La stessa figura di Lajolo, venuto tra i comunisti durante la Resistenza provenendo da una prima giovinezza di fascista impegnato, era emblematica di una forza politica dove gli antichi e riconosciuti meriti non facevano per se stessi grado e non abilitavano a tracciare la linea politica. Lajolo diventò, così, quasi naturalmente, uno dei sostenitori più efficaci del partito nuovo, in stretto legame politico con Giancarlo Pajetta: anche se la comune indole ribelle aveva generato nel passaggio tra l’adolescenza e la giovinezza percorsi politici opposti, l’uno nelle galere fasciste per 12 anni, l’altro volontario fascista in Spagna convinto che da quella parte fosse la vera rivoluzione.
Quello che Lajolo rappresenta e contribuisce a formare è un partito che vuole cambiare, aprirsi culturalmente e rinnovarsi, che rifiuta la tentazione, pur molto presente, a chiudersi in una trincea settaria dopo la sconfitta del ‘48. Se Togliatti aveva chiamato nel Comitato centrale grandi intellettuali di tendenze culturali assai diverse, da Antonio Banfi a Concetto Marchesi, Lajolo appena può ritornare la terza pagina perché i giornali hanno un po’ più di carta spalanca le porte, senza esclusivismi ideologici, ai migliori del tempo: da Pavese a Calvino, dalla Ginzburg alla Masino, a tanti altri. Contemporaneamente, nella lotta politica di quegli anni, che era allo stesso tempo di opposizione ai duri governi centristi e di sottintesa polemica interna di partito, Lajolo portava allora e portò poi un timbro e una sensibilità propria. Era, la sua, una concezione, spontaneamente vissuta, della politica come passione, quella che il fascismo aveva tradito, e quella passione avvertibile e sincera ne faceva un dirigente popolare e amato e un costruttore di quella comunità umana che veniva diventando il Pci.
IL GIORNALISMO
Conobbi Ulisse nel ‘46, essendo io tornato a Milano da Genova dove avevo fatto l’ultima parte della Resistenza e partecipato a fondare la edizione genovese: egli, poco più che trentenne, era allora stato chiamato da Torino come redattore capo e a me, appena ventenne, era stato affidato, certo con eccesso di fiducia, il servizio interni con dei redattori letteratissimi, come Fidia Gambetti, delicato poeta, con una storia simile a quella di Ulisse, e altri più esperti di lotta partigiana che di parole, come lo straordinario comandante Mezzadra dell’Oltrepò pavese. Non fu un incontro facile tra un ragazzo, se non ricordo male, un pò saccente, che masticava di filosofia e credeva di avere già chissà quale lungo passato alle spalle e un uomo fatto, che sembrava e voleva sembrare l’immagine di una rude semplicità contadina e di una immediatezza comunicativa. Ma, credo, imparai presto a vedere quanti turbamenti e, anche, quanto dolore ci fossero dietro l’apparenza brusca e sicura di quell’uomo profondamente buono. Da Ulisse appresi la importanza politica non solo degli editoriali o delle cronache del potere (la nota politica, si chiamava) e di quelle sindacali, ma della cronaca bianca e nera, per cui a quei tempi non c’erano sezioni speciali. Ma si apprendeva da lui, soprattutto, ad essere vicini alla sensibilità e alle passioni popolari.
I suoi corsivi non erano, come saranno poi quelli di Fortebraccio, modelli di ironia e di satira, ma volevano parlare, e parlavano, direttamente al sentimento e al buon senso di ciascun lettore e di tutti, e venivano costruendo una mentalità nuova. «Caro Papa» fu una volta l’inizio e il titolo di un suo memorabile corsivo. Quel rivolgersi familiarmente, per una qualche critica che non ricordo, ad una istituzione religiosa volutamente avvolta allora ancora più di oggi in un’aura d’intangibilità sacrale e in tempi di scomunica imperante, diventava per ciò stesso lezione di una laicità serena che evita la grossolanità e non teme il rispetto per l’altro da te. È un esempio soltanto di una funzione educativa fuori dagli schemi del tempo sicuramente incompresa dalla parte più conservatrice dei quadri d’allora, formati alla scuola dolorosa e severa e necessariamente musona della clandestinità.
Ma vi erano altri, tra quelli che ci apparivano i vecchi, che invece comprendevano e aiutavano lo sforzo di fare dell’Unità un giornale popolare aperto a una pluralità di interessi e di culture: in primo luogo il segretario del partito. Si narrava allora che Togliatti all’assai influente dirigente, di abbondanti fattezze, che protestava con lui perché l’Unità aveva messo in prima pagina il caso di una balena spiaggiata anziché un suo importante discorso avesse risposto: «Quando ti spiaggerai tu, ti metteremo in prima pagina». Non so se fosse un aneddoto vero, ma credibile lo era certamente. Lajolo non avrebbe potuto reggere tutto quel tempo, così come Ingrao a Roma, se non ci fosse stato un fortissimo argine alle pressioni personali e politiche di tanti. Lajolo fu apprezzato, in primo luogo, da Togliatti e da Longo. Fu Amendola che lo mandò all’Unità e Pajetta lo volle come suo successore.
I CRIMINI DI STALIN
La prova più lacerante venne con la rivelazione dei crimini di Stalin e con la insurrezione popolare in Ungheria. Comune fu allora per molti, che trassero poi conseguenze diverse, la consapevolezza che una storia era finita e un’altra doveva cominciare, alcuni concludendo che col Pci non c’era più niente da fare, altri di noi convincendosi e sperando che fosse possibile cambiare dall’interno, su un cammino che era già stato diverso e in qualche caso, opposto rispetto a quello dei partiti comunisti al potere. Tra chi scelse di restare fu Ulisse: con un travaglio, che vidi da vicino, più doloroso e più sofferto che per altri perché per la seconda volta sentiva la ferita del disinganno e anche perché, forse, più passionale era stata la sua adesione. Ma questa scelta lo indurrà a farsi un forte sostenitore del rinnovamento di mentalità e di quadri di cui furono tra i primi protagonisti Giorgio Amendola, andato all’organizzazione dopo Secchia, e Pajetta, alla propaganda. Così, quando arriverà, nel 68, il dramma della Cecoslovacchia, Ulisse sarà con Longo in prima fila nella difesa del socialismo dal volto umano e nella condanna dell’intervento e cercherà, poi, contatti con gli uomini della resistenza. Pelikan , che fu tra i protagonisti della primavera di Praga, lo ricorda assieme a Rossana Rossanda e a Lucio Lombardo Radice tra coloro che lo accolsero affettuosamente in Italia, contrariamente alla ufficialità del partito (...).
Verso la fine del periodo parlamentare, durato tre legislature, Longo affida a Ulisse il settimanale Vie Nuove, ormai esangue. Ed egli intende e svolge questo compito con la sua abilità giornalistica, ma con una intenzionalità politica assai precisa ed evidente: quella di aiutare il suo partito sulla strada della propria piena autonomia. Il lungo periodo di attività parlamentare, però, fu anche l’occasione di una più intensa attività di Ulisse come scrittore di cui conta qui rammentare l’opera di maggiore impegno civile, quel «Il voltagabbana» che poneva a confronto le vite di due che avevano combattuto su opposti fronti nella guerra civile spagnola: lui stesso e Francesco Scotti, di cui era diventato amico nella resistenza, che sarà poi tra i costituenti, parlamentare, dirigente comunista, uomo di straordinaria finezza e generosità. Ne viene un ritratto d’epoca che aiutò molti giovani capire cosa era stata la storia e i drammi di una generazione e del proprio paese (...).
C’è uno stereotipo, con molti esempi letterarii, della figura di quelli che furono i dirigenti comunisti, caricaturale anche quando non è malevolo e, anzi, vuole essere elogiativo. Uomini tutti d’un pezzo, certo integri, ma chiusi in una trappola di idee antiquate, quasi discepoli di una fede in nome della quale pronti ad ogni doppiezza. Ci fu anche questo, soprattutto nella clandestinità. Quando tutto è perduto, come spiega Gramsci, la fede in una fatalità progressista sembra aiutare. Ma è lui a chiarire nella stessa pagina che incoraggiare questa tendenza è insensato perché spegne la ricerca critica, che è l’unica strada da percorrere. A questa scuola che insegna il dubbio crebbero, con maggiore o minore diligenza, i dirigenti di quel partito. E Lajolo ha mostrato la sua forza e il suo ruolo dirigente proprio perché più visibilmente di altri ha rotto quel cliché, perché ha voluto adempiere al suo ruolo come uomo di politica e di cultura senza dimenticare la propria e l’altrui umanità.

Repubblica 30.10.12
Negli ultimi anni, la grande firma di Repubblica aveva cominciato a scrivere la sua storia Non è riuscita a terminarla ma ora esce un libro dove il suo racconto arriva fino al 1956
Una vita
Infanzia e politica l’autobiografia di Miriam Mafai
di Franco Marcoaldi

Per molti anni Miriam Mafai aveva tenacemente resistito ai ripetuti inviti di grandi editori di scrivere la propria autobiografia: troppo grande il timore di erigere un piccolo “monumento” a se stessa, l’ultima cosa al mondo che avrebbe voluto.
Nell’ultima stagione di vita, però, cambiò idea: ora che non c’era più tempo, giusto nel mezzo della malattia che l’avrebbe portata alla morte, si era messa a lavorare con tenacia, alacremente. Per offrire al lettore la testimonianza di chi aveva attraversato ottant’anni e passa di storia italiana da un’angolazione davvero speciale: due genitori artisti di livello assoluto (Mario Mafai e Antonietta Raphaël), l’origine ebraica e il prezzo pagato per le persecuzioni razziali, la militanza nella Resistenza, i lunghi anni di lavoro nel Pci, le lotte al fianco dei contadini del Fucino, il giornalismo, i libri, la vita a fianco di Giancarlo Pajetta… Verrebbe da dire che Miriam, al pari di un gatto, ha vissuto nove vite, anche se il titolo (bellissimo) del libro che esce ora da Rizzoli, con una prefazione secca e commovente della figlia Sara Scalia, si accontenta di Una vita, quasi due.
È un libro monco, purtroppo. Perché la morte ha impedito a Miriam di concluderlo, come avrebbe voluto, con la fine della stagione craxiana e del Pci. Si ferma
al ’56, quando la Mafai lascia il lavoro nel Partito e torna a Parigi, il luogo più caro ai suoi genitori, quasi un mito: «Nella nostra memoria infantile Parigi si sedimentò come una favola nella quale tutto si intreccia: la miseria e la bellezza, la sporcizia e la gloria, i
clochards e i pittori, la disperazione e la felicità, la luce del Nord e lo scorrere della Senna».
Libro monco, si diceva. Eppure c’è tutta Miriam in queste pagine, e al suo meglio. A cominciare dall’attacco folgorante, quando ci fa balenare la possibilità che
nella sua precoce adesione al Pci abbia giocato un qualche ruolo l’inconscio desiderio di ordine, per contrastare quel caotico e fervido disordine in cui era cresciuta. Perché disordinati e anticonformisti quanti altri mai erano il padre e la madre: da ogni punto di vista.
Prendete la religione e l’esilarante pagina che ne dà conto. La mamma, Antonietta Raphaël, era figlia di un rabbino, e anche se in casa Mafai la fede ebraica non aveva messo radici, la cerimonia dello Shabbat veniva comunque celebrata per tenere viva la memoria di quel passato familiare. Ma mancando un’adeguata conoscenza della tradizione religiosa, era «totalmente inventata». Come dimostra l’immagine di Miriam, rivestita di tutto punto, che accende le candele della Menorah e, ignara delle preghiere, ripiega sulla recita di una poesia di Montale, o Cardarelli.
Via via che gli anni passano, le piccole sorelle Mafai (Miriam, Simona, Giulia) crescono diverse in tutto e per tutto dalle loro coetanee. Non vanno a messa, indossano strani cappotti a quadri e «orribili stivali in gomma», portano i capelli corti, non gioiscono per l’entrata in guerra con l’Etiopia e patiscono la promulgazione delle leggi razziali del ’38.
È il momento di lasciare Roma, verso Genova, dove Miriam incontrerà il mare vero, che sa di sale e di scoglio. Ma anche la guerra: i bombardamenti, la fame… E assieme la letteratura, il cinema, la poesia, la politica. Soprattutto la politica. E dunque il comunismo, a cui si accosta per l’enorme ammirazione suscitata dalla resistenza e dalla vittoria di Stalingrado.
Quella con il Pci, dice Miriam, è «una storia d’amore» incominciata a diciassette anni, che vive prima attraverso la partecipazione alla resistenza romana e poi, dopo la Liberazione, in qualità di funzionario del Partito in Abruzzo. L’educazione spartana ricevuta dai genitori torna buona in quei lunghi anni di vita dura, grama, di cui Miriam non si lamenta mai. Perché si sente “vocata” a una passione politica travolgente, assoluta.
Le pagine dedicate ad Avezzano, dove viene spedita per intraprendere la battaglia a fianco dei contadini in lotta contro il principe Torlonia, sono in questo senso esemplari. Miriam ricorda che quando, cinquant’anni dopo, Vittorio Foa le chiederà se avesse mai creduto nella rivoluzione, lei risponderà rammentando proprio l’esperienza del Fucino: «La terra quei contadini l’hanno ottenuta e molti di loro sono diventati democristiani. Pazienza, ma quei bambini che non potevano andare a scuola perché non avevano le scarpe e che non conoscevano il sapore della carne, quei bambini le scarpe le hanno avute, hanno cominciato ad andare a scuola e a mangiare la carne. A me questo sembrava già un pezzo di rivoluzione».
Miriam rimarrà di questa stessa opinione fino alla fine dei suoi giorni. E così, al suo modo brusco e diretto, proprio lei – l’ironica, la scettica, la disincantata per antonomasia – ci rammenta che oggi come allora essere di sinistra significa, in primo luogo, scegliere la parte più indifesa, quella priva di diritti.

Repubblica 30.10.12
Mio padre aveva un atlante
di Miriam Mafai


Ma uno dei libri che più ci piaceva e stimolava la nostra fantasia era l’atlante di mio padre, che risaliva, probabilmente, agli anni della sua prima giovinezza. Anni lontanissimi, dunque, quando esisteva ancora l’Impero austro-ungarico e a Mosca regnava lo Zar. Ma a noi questo non interessava. Ci sembravano affascinanti, invece, quelle pagine colorate dove apparivano, in fila, tutte le bandiere dei vari Paesi del mondo che ci divertivamo a riconoscere. L’atlante veniva lasciato sul pianoforte, tra i libri di musica di mia madre. E noi potevamo prenderlo quando volevamo e sfogliarlo. Me lo misi in cartella, quando entrai in prima ginnasio, per farlo vedere all’insegnante. Lei lo aprì con diffidenza, ne osservò alcune pagine e me lo restituì, dicendo che avrei dovuto comperarne, presto, uno nuovo. «I confini non sono più quelli del tuo atlante» mi spiegò con indulgenza. E si raccomandò: «Dillo a tuo padre». Ma lui ignorò la richiesta e strizzandomi l’occhio con aria furba e complice avvertì: «Non serve un atlante nuovo. I confini cambieranno ancora». Aveva ragione. I confini stavano già cambiando e ancor più sarebbero cambiati in seguito (ma io purtroppo nel corso degli anni ho perso il mio amato, vecchio atlante…).
Con quell’atlante mio padre tentava di insegnare a me e alle mie sorelle un po’ di geografia. A suo modo, naturalmente. Ci insegnava a riconoscere, prima di tutto, l’Italia e ci sfidava a indicare col dito le capitali d’Europa. Ecco Parigi, la città che aveva amato, che aveva raggiunto qualche anno prima, ma che lo aveva respinto e che, sconfitto, aveva dovuto abbandonare; ecco Londra, la città in cui mia madre con la sua famiglia si era rifugiata dopo i pogrom che all’inizio del secolo avevano devastato la sua terra d’origine; ecco Kowno, la città tra la Polonia e la Russia dove mia madre era nata, ecco Madrid, la città contesa tra i «rossi» e i generali. (Avrebbero vinto i «rossi», diceva sicuro mio padre. E invece vinsero gli altri.) L’atlante era un gioco, l’occasione di una precoce educazione politica. E apriva le porte della fantasia ai nostri sogni. Ci aspettavano, e noi li sognavamo, altre città, lunghi viaggi, nuovi Paesi da scoprire.
Roma era allora per noi un villaggio che potevamo attraversare a piedi, dai prati brulli di Castro Pretorio, dove non era raro veder brucare le pecore e si andava costruendo la nuova università, fino a via Montebello dov’era la nostra scuola elementare intitolata a Enrico Pestalozzi e, lì all’angolo, una cartoleria ricca di colori Giotto e di quaderni a righe e a quadretti.