mercoledì 31 ottobre 2012

l’Unità 31.10.12
C’è bisogno di coraggio quando in gioco è il Paese
di Pietro Spataro


DALLA SICILIA ARRIVA UN BASTIMENTO CARICO DI MESSAGGI. BISOGNA LEGGERLI con attenzione per trarne le indicazioni giuste e per cogliere, oltre alle incognite, anche le possibilità che si aprono per evitare che l’Italia diventi un «clone greco». La vittoria (anche se di misura) di Rosario Crocetta è un fatto straordinario e ci dice due cose. La prima: scegliendo le persone giuste e le alleanze adeguate si possono combattere anche battaglie che sembrano impossibili.
Se una regione, dove la mafia è ancora un osso duro, ha il coraggio di affidarsi a un uomo che ha fatto della guerra contro i boss il centro della sua storia politica, vuol dire che ci sono, anche nelle zone più a rischio, gli anticorpi per resistere al declino. La seconda: il centrodestra perde pezzi consistenti del suo blocco sociale che aveva, proprio nell’isola, la sua cassaforte principale e non riesce più a contenere uno smottamento ormai catastrofico. Queste tendenze che, diciamo la verità, erano abbastanza imprevedibili nella loro effettiva dimensione possono favorire nuovi scenari. C’è una possibilità, da coltivare con coraggiosa ostinazione, che l’Italia riprenda il cammino, scansi gli scogli della frammentazione e dell’assuefazione e ricostruisca una normalità politica e sociale che le manca da almeno un ventennio. In Sicilia un’alleanza tra progressisti e moderati ha avuto già il suo effetto: Crocetta è governatore grazie al patto tra il Pd di Bersani e l’Udc di Casini. Tutti e due hanno avuto il coraggio di rompere vecchi schemi, di superare antiche divisioni e di uscire dal groviglio di questioni locali che spesso legano le mani e rendono complicate anche le soluzioni più semplici. Si era scritto, prima che chiudessero le urne, che il voto siciliano avrebbe avuto un rilievo nazionale e che su quel risultato si sarebbe messa alla prova anche la consistenza del rapporto tra il Pd e le forze di centro. Il segnale che arriva è positivo. C’è però un anello mancante: la scelta di Sel di chiudersi nel recinto di un patto minoritario con l’Idv, andando in controtendenza rispetto alle scelte compiute a Roma, ha privato l’alleanza per Crocetta di un pezzo importante e non gli ha consentito, con tutta probabilità, di avere una maggioranza autosufficiente. È il segno che il settarismo un po’ movimentista non crea consenso, ma lascia a Grillo più spazio di quanto già non ne abbia.
La questione che ora si apre è questa: è possibile costruire un ponte che colleghi politicamente il Pd e Sel con l’Udc? Che consenta di costruire un’alleanza di governo forte e affidabile? Non possiamo nasconderci i problemi che rendono non facile questa impresa: sia da parte di Casini che di Vendola, anche se oggi con toni meno ultimativi di una settimana fa, restano dissidi non di poco conto. E il giudizio su Monti è uno dei temi di divisione: per l’uno un’esperienza da valorizzare, per l’altro da dimenticare. Ma non c’è dubbio che il voto siciliano, con le speranze che accende, può aiutare a superare queste divaricazioni perché illumina la scena dell’Italia. Il pericolo che dal voto del 2013 esca un Paese ancor più frammentato, con un astensionismo preoccupante e Grillo in avanzata, è forte. La possibilità che si piombi in una situazione di ingovernabilità è alta, con il rischio che l’eccezione dei tecnici diventi una drammatica normalità. È come se fossimo davanti a un bivio: lasciare che le cose vadano inesorabilmente nella direzione sbagliata o mettersi in gioco per dare agli italiani la possibilità di voltare pagina.
Per scrivere una nuova storia, in certi momenti, c’è bisogno dell’ottimismo della volontà. Ma anche di una carica di innovazione politica e programmatica che sappia riattivare quella connessione sentimentale con il popolo che rende autorevole un partito o una coalizione di governo e che sia in grado di ricostruire quello spirito di comunità che negli anni del berlusconismo è stato frantumato. Le basi per discutere ci sono: la carta di intenti, che tutti i candidati alle primarie del centrosinistra hanno firmato, è già una traccia significativa sulla quale non è difficile immaginare un confronto proficuo con le forze di centro. Ora però, come ha fatto il Pd aprendosi alle primarie, anche i moderati devono accettare la sfida dell’innovazione presentando agli italiani una nuova offerta politica utile alla ricostruzione del Paese. Questo è un tempo difficile. Ed è un tempo che ha bisogno di uomini che costruiscano ponti piuttosto che recinti, che curino l’interesse generale piuttosto che l’orgoglio di partito. D’altra parte, un leader si vede dal coraggio.

Corriere 31.10.12
Partiti in ginocchio, il Pdl perde tre quarti dei voti
di Renato Mannheimer


Le prime analisi del voto siciliano si sono basate sul confronto delle percentuali ottenute da ciascun partito. Ma queste, data la numerosità delle astensioni, sono calcolate sulla sola metà degli aventi diritto al voto. Proprio questa circostanza suggerisce di analizzare il risultato anche esaminando la numerosità in valore assoluto dei consensi ottenuti dalle forze in campo.
Questo approccio ci permette di renderci conto ancora più da vicino di quanto abbiano perso quasi tutte le forze politiche. È stata ad esempio già notata la diminuzione in percentuale del partito di Berlusconi. Ma confrontando i valori assoluti, è ancor più impressionante rilevare come il Pdl abbia perso ben 650 mila voti, tre quarti del suo elettorato precedente. Anche comprendendo i consensi ottenuti dalle liste «Lombardo presidente» e «Musumeci presidente», la perdita resta enorme. Si tratta di elettori che hanno preso la via dell'astensione o, spesso, quella del supporto a Grillo. Un tracollo che ricorda quanto emerge dai sondaggi effettuati in questi giorni a livello nazionale riguardo alla diminuzione drastica delle intenzioni di voto espresse dagli italiani per il Pdl. Ciò non potrà non avere effetti sui già tormentati equilibri interni del partito.
Al tempo stesso, come ha subito osservato Stefano Ceccanti in un'analisi pubblicata sul web, anche l'altra componente del centrodestra, legata a Miccichè, ha subito una erosione, sia pure di misura inferiore. Dall'altra parte dello schieramento politico, tuttavia, anche l'alleanza Pd-Udc, pur risultata vincitrice (o, se si vuole, meno perdente), soffre di una consistente diminuzione di voti. Il Pd, anche sommando i voti delle liste per il candidato (Crocetta-Finocchiaro) perde, in valore assoluto, quasi 250 mila voti: una porzione notevolissima dell'elettorato delle scorse regionali. Analogo discorso si può fare per l'Udc che ha perso circa 130 mila voti: quasi il 40%. Insomma, pur avendo eletto il nuovo presidente di Regione, l'alleanza di centrosinistra ottiene un risultato insoddisfacente, non essendo riuscita, come osserva anche Roberto D'Alimonte sul Sole 24 Ore, a intercettare nuovi consensi, in un momento di grande fluidità elettorale. In altre parole, il partito di Bersani pare, a livello siciliano, incapace di convincere e mobilitare i delusi e gli scontenti. Che, anzi, se ne sono in parte allontanati. Al riguardo, alcuni osservatori avevano suggerito che il Pd potesse cedere voti all'estrema sinistra, data l'alleanza stipulata nell'isola con l'Udc. Ciò non si è verificato. Anche la sinistra radicale ha subito un forte calo di consensi, passando da 131 mila voti del 2008 a 59 mila di domenica scorsa e vedendo quindi più che dimezzare il proprio seguito.
Dunque, la gran parte delle forze politiche esprime un saldo di consensi negativo. L'unica a sottrarsi è stata l'Idv con un piccolo incremento di poco meno di 18 mila voti. Come ha sottolineato l'Istituto Cattaneo, si tratta di un risultato deludente dopo le aspettative che aveva stimolato il successo di Leoluca Orlando alle comunali.
Come si sa, hanno tratto frutto da questo andamento elettorale complessivo il Movimento 5 Stelle e il folto «partito degli astenuti». Grillo ha guadagnato quasi 240 mila voti, quintuplicando di fatto il suo elettorato. Ma la diserzione dalle urne esce dalle elezioni con un bottino assai maggiore, pari a quasi 800 mila siciliani che, questa volta, hanno ritenuto di non recarsi ai seggi.
Entrambi i fenomeni, il supporto per il Movimento 5 Stelle e l'incremento dell'astensione, sono stati per lo più interpretati come espressione di protesta e di disaffezione. Un fenomeno che, stando a quanto ci suggeriscono le ricerche sulle intenzioni di voto, riguarda non solo la Sicilia, ma tutta l'Italia.

Repubblica 31.10.12
Il Pd cede un voto su quattro boom tra gli ex delle civiche ecco dove ha pescato Grillo
Il Cattaneo: decisivi i delusi, non gli astenuti
di Michele Smargiassi


BOLOGNA — Grillo seduce i delusi nei partiti, ma non i disgustati dai partiti. L’analisi dei flussi elettorali nel voto siciliano, elaborata con la consueta tempestività dall’Istituto Cattaneo di Bologna, smentisce il punto d’orgoglio del MoVimento 5Stelle, rivendicato anche ieri dal suo eroe-portavoce Giancarlo Cancelleri: «Abbiamo portato alle urne gente che non aveva intenzione di votare». Non è così, e non solo per l’evidenza schiacciante dell’aumento generale dell’astensionismo.
TRAVASI FRA ELETTORATI
Andando a confrontare seggio per seggio l’andirivieni dei voti tra le comunali di primavera e le regionali di domenica (operazione possibile solo su ambiti territoriali limitati: qui, la città di Palermo), il Cattaneo dimostra che il partito anti-partiti ha costruito il suo strepitoso successo solo portando via elettori, appunto, dal carniere degli altri partiti, e non chiamando a votare gli astenuti storici e recidivi. Ma questo, paradossalmente, lascia ai grillini arrembanti un ulteriore minaccioso margine di crescita.
VOTI VERI E PERCENTUALI In uno scrutinio in cui il pietoso velo delle percentuali sui votanti copre a fatica tracolli colossali nei numeri assoluti (il Pd ad esempio “vince” con quasi 250 mila voti in meno di quelli con cui perse alle regionali del 2008), i 5Stelle quintuplicano i voti reali rispetto alla modesta prestazione precedente: da 46 mila a 285 mila. Da dove viene questa valanga?
PIÙ DA SINISTRA CHE DA DESTRA
Non dall’astensionismo, dicono i calcoli del Cattaneo, dal cui serbatoio, curiosamente, solo Micciché tra tutti è riuscito a spillare qualche rivolo. Ma poco anche, contrariamente a quel che si è detto a botta calda, dal tracollo del Pdl: che pur perdendo i tre quarti dei suoi consensi (da 900 mila voti a 247 mila) cede a Cancelleri meno del 7% dei suoi elettori di maggio. I 5Stelle mettono assieme il loro gruzzolo soprattutto a sinistra, scippando poco meno di un elettore dell’ultrasinistra su tre, un elettore Pd su quattro, e poi un centrista su cinque, un dipietrista su sei, ma soprattutto facendo il pieno tra chi, alle comunali, si era disperso tra le effimere listerelle civiche, o aveva barrato solo il nome di un sindaco e non un simbolo di partito.
LE STERZATE DEI PARTITI
La protesta grillina insomma riscuote la delusione di chi era già dentro il gioco della rappresentanza, ed ha scelto di rimanerci: si è trattato più di un rimescolamento di preferenze che di un assalto dell’“antipolitica” alla politica. Il nuotatore Grillo raccoglie insomma i naufraghi caduti nel mare delle urne da barche andate a picco, o che hanno strambato paurosamente, cambiando radicalmente collocazione geopolitica e alleanze nel giro di pochi mesi. L’area di centro (Udc, Fli, Api), ad esempio, cede a Grillo il 21,8% del suo gruzzolo, e butta via nel pozzo dell’astensione il 33,3%. «L’elettorato in Sicilia è da sempre mobilissimo», commenta il direttore di ricerca del Cattaneo Piergiorgio Corbetta, «ma alcuni partiti sono riusciti a sbandare ancora più dei loro elettori, disorientandoli, e hanno pagato un prezzo alto».
E ALLE POLITICHE?
Impossibile chiedere a Corbetta una proiezione di questo voto sugli scenari nazionali: «Troppe variabili, dal sistema elettorale agli attori in campo: che farà Monti? E Berlusconi? ». Ma la singolare contemporaneità del successo grillino e dell’aumento dell’astensionismo apre scenari nuovi e tutt’altro che rassicuranti per i partiti tradizionali. Il Mo-Vimento 5Stelle è stato in grado di diventare forza politica di primo piano anche senza sfruttare il grande serbatoio del non-voto di protesta. Che però incombe gonfio come una diga minacciosamente fragile. Cosa accadrebbe se Grillo riuscisse a incrinarla?
LA DIGA FRAGILE DELLE ASTENSIONI
C’è un punto critico, che la scienza delle catastrofi conosce bene, dopo il quale le cose precipitano improvvisamente. A Parma in primavera è accaduto: tra il primo turno e il ballottaggio, migliaia di astenuti si sono convinti che “si poteva fare”, che era più efficace, per far male all’odiata politica, votare il candidato grillino che stare a casa, e Pizzarotti ha triplicato i voti in quindici giorni. Le dimensioni critiche raggiunte dal MoVimento in Sicilia potrebbero convincere gli astenuti incalliti che alle prossime politiche basterà una spintarella alla scheda per ribaltare il tavolo anche a Roma? «Questa volta non è accaduto », non si sbilancia Corbetta, «ed è un effetto più plausibile nei sistemi elettorali a doppio turno. Ma non è impossibile che accada ».

La Stampa 31.10.12
Fiducia nei partiti mai così bassa
di Paolo Festuccia


La chiave del ragionamento è racchiusa nei sondaggi. E i numeri, prima ancora che il governo, inchiodano i partiti ai livelli minimi del loro consenso. Al punto che il premier Monti afferma che «la percezione di quel che fa questo governo maledetto, non è rosea ma ha un livello di gradimento molto più elevato rispetto a quello dei partiti».
Ed infatti, dai dati dell’Eurobarometro elaborati dalla Fondazione David Hume per La Stampa, emerge che se il gradimento dell’esecutivo è all’11 per cento, quello dei partiti è ridotto al 4 per cento. Sette punti in meno, che da più parti si è fatto notare sono forse la causa principale anche del partito del «non voto» che ha caratterizzato i risultati delle elezioni siciliane di domenica scorsa. Tant’è che se nel novembre dello scorso anno i partiti si attestavano (per consenso) al 9 per cento, e in dieci mesi hanno perduto ben 5 punti mentre il governo solamente un punto percentuale (dal 12% è sceso all’11%). Un crollo netto, dunque, che non si registra nelle ricerche per quel che attiene l’esecutivo tecnico, che pure in questi mesi - come ha ribadito ieri Monti - «ha fatto cose molto sgradevoli».
I numeri, insomma, non sorridono alle forze politiche, né a quelle che compongono la cosiddetta «strana maggioranza» che sostiene il governo dei prof, né a quelle all’opposizione. Nella classifica della premiership (secondo il sondaggio diffuso da La7), inoltre, Mario Monti sarebbe votato dal 18% degli italiani, seguito dal sindaco di Firenze Matteo Renzi al 14% e dal leader del Pd Pier Luigi Bersani al 12%. Seguono, poi Angelino Alfano (7%), Silvio Berlusconi al 6% al pari di Beppe Grillo e Luca Cordero di Montezemolo. Ancora più giù Vendola, Di Pietro, Fini e Casini. Il 5% degli intervistati, invece, non sa indicare alcun nome.

Corriere 31.10.12
I partiti e l’onda astensionista
Il senso perduto dell’emergenza
di Pierluigi Battista


Forse i partiti non hanno ascoltato bene il messaggio siciliano. Certo, ammettono che c'è qualche problema se oltre la metà dell'elettorato non si reca alle urne. Si dicono sensibili al disagio che si esprime nel massiccio voto a Grillo. Promettono di cambiare. Assicurano che saranno «concreti». Si mostrano pensierosi sui «problemi della gente». Ma è tutto qui. Non hanno capito che un astensionismo rivendicato così esteso è un segnale di rivolta. Che siamo prossimi al ripudio globale. E che manca pochissimo per raggiungere il livello più basso della credibilità dei partiti. Non di un partito, ma dell'intero sistema dei partiti.
Forse non hanno capito che qualche partito è leggermente messo meglio di un altro ma non è che se il Pdl è alla dissoluzione, gli altri non esibiscano una debolezza che fa spavento quando c'è da affrontare, senza l'ausilio di un governo tecnico, una crisi che moltiplica tensioni e rabbia. Dovrebbero tenere aperto a oltranza il Parlamento per prendere nei tre mesi che restano provvedimenti drastici. Ridurre al minimo i finanziamenti scandalosamente elevati e senza rendiconti ai partiti vivi e ai partiti defunti ancora gratificati delle risorse pubbliche. Non mettere ostacoli al ridimensionamento delle Province. Calmierare le spese delle Regioni. Fare una legge elettorale decente. E invece, dopo aver ritualmente mostrato di comprendere l'inquietudine dell'elettorato, si sentono finalmente liberi dai vincoli del governo Monti. Si sentono in libera uscita. Sospirano fiduciosi al prossimo «ritorno della politica». Pensano che l'emergenza sia conclusa. Che si possa tornare come prima. Costringono il governo a fare retromarcia sulla riduzione dei costi della politica. Fanno ostruzionismo sulla spending review. Si gingillano con le più astratte soluzioni per riformare sul serio la legge elettorale.
I partiti stanno diventando la fabbrica del qualunquismo nazionale: si comportano in modo tale da acuire il senso di estraneità che il loro linguaggio suscita nella stragrande maggioranza dei cittadini. La loro totale incapacità di reagire impedisce di capire che i numeri hanno un loro valore incancellabile, e che oramai i principali partiti tradizionali godono di percentuali sempre più irrisorie. Vincerà chi perderà di meno: non è normale. I vincitori diranno che hanno «tenuto», come a evocare un naufragio, ma non fanno nulla per evitarlo. Manca loro il senso di un'emergenza. Di un allarme vero. Cosa devono aspettare ancora per capire che un astensionismo così rabbioso ed esteso è il sintomo di un rapporto spezzato e che il compito di una politica responsabile è di ricucire un filo, un legame, il superamento di un disprezzo tanto corale? In Sicilia si è rotto un tabù. Finora l'astensionismo è stato visto come disaffezione contenuta. Ma in Sicilia la disaffezione ha voluto parlare. E ha parlato in una lingua che non lascia spazio a interpretazioni indulgenti. Ora i partiti hanno davanti a sé meno di cento giorni. Possono far finta di niente. O addirittura illudersi di trarre reciprocamente vantaggio dalle difficoltà di tutti. O possono affrontare l'emergenza. L'ultima chiamata. Ecco il messaggio siciliano.

il Fatto 31.10.12
L’eterno ritorno del nuovo che avanza
Il Palazzo scricchiola davanti ai nuovi barbari  ma c’è chi profetizza una parabola modello Lega
di Malcom Pagani


Tintarella di luna/tintarella color latte/che fa bianca la tua pelle/ti fa bella tra le belle”. Con le mani finalmente in pasta, il sudore sulla fronte, 5 amazzoni a dimenarsi tra le luci stroboscopiche del Gilda e la selvaggia Roma ai suoi piedi, il deputato padano Leoni Orsenigo capì che fuori dal Parlamento e dentro i confini del Raccordo Anulare, non esisteva cappio così stretto da non poter essere sciolto. Ora che il nodo del disincanto è gordiano, si corre rapidi verso Weimar e Grillo viene raccontato alternativamente come il Cristo redentore della Dolce Vita trascinato dall’elicottero di Mastroianni e osservato dalle ninfe felliniane: “Ma è Gesù, dove lo portate? ”, l’incarnazione terrena della profezia Maya o l’unno che lascerà solo macerie dopo aver abusato delle istituzioni, qualcuno, tra i custodi della liturgia, inizia a dubitare. Più quello urla o minaccia tagli alle guarentigie, più spande panico. Si agitano destra e sinistra. Il fu Pdl con Giorgia Meloni: “Oggi muore il partito di plastica”. La gauche radicale, cancellata da Enrico Letta: “O diventa sinistra di governo o scompare”, i preoccupati cantori “del prestigio internazionale”. I commentatori turbati, chini a declinare pericoli: “Sindrome greca” scrive Verderami sul Corriere o a suggerire soluzioni come Geremicca su La Stampa: “…Non sono più pensabili riposte politiche complessive in grado di iniettare un po’ di fiducia nei cittadini”. In mancanza del doping, la soluzione è un altro trucco: “Si può però tentare attraverso lo strumento della legge elettorale, di arginare fenomeni in altro modo non contrastabili”.
Se evaporeranno anche le alchimie sul Porcellum “per difendere sistema e partiti” rimane sempre la soluzione Beppe Tritoni. I colonnelli. L’ordine. La disciplina immaginata da Monicelli che i 100 “attivisti” pronti a occupare Montecitorio per battere pulsantiera e ritmo del caos venturo non li aveva visti, ma sul Paese tra forca e marce su Roma aveva le idee chiare. Qualcosa accadrà. Se i realisti allevati a pane e Dc minimizzano: “Verrà il fronte nazionale, non passeranno” e i nichilisti ballano l’ultimo valzer, della salvezza della specie si occupano i fatalisti già disegnati ieri da Gian Antonio Stella.
I FIGLI DI GRILLO faranno la fine dei leghisti. “Si corromperanno”. Se ai barbari profili di ieri in declamante discesa dal Nord per dare una lezione ai ladroni, capitò di sfumare docili nelle albe etiliche, nella cornice delle discoteche dismesse dal Psi e nelle torte divise al Jackie’O tra camerati e adoratori dell’ampolla padana, cosa accadrà ai tanti Cancelleri del M5S, Il partito-pardon movimento-virale, ma padronale, spontaneo, ma verticistico, liberatorio, ma incatenato ai distinguo burocratico-semiologici da collettivo anni ’70? Il primo risultato è la corsa all’ammucchiata. Alla tautologia: “Grillo dovrà attenersi alle regole”. Alla descrizione irridenti a cui il genovese, con il suo barocco carico iconografico (lo zio Sam, il nuoto, il vaffanculo, afrori di Berkeley e di ventennio) più o meno inconsapevolmente si presta. “Basso di statura, con un largo torace e una testa grande; i suoi occhi erano piccoli, la sua barba sottile e brizzolata”. Dell’ Attila originale, aveva già parlato con toni meno apocalittici dei contemporanei, Prisco di Panion nel 448.
Del barbaro di oggi, senza femminismi di ritorno: “Tremate, tremate, le streghe son tornate”, nei pigri vicoli della più radicata romanità, si comincia ad avvertire la presenza. C’è chi è contento e non vede l’ora. Giuliano Ferrara è tra loro. Ride, sostiene, perché non se ne può fare a meno: “La trimurti Grillo, Casaleggio, Cancelleri a livello fisiognomico e non solo è una cosa pazzesca”. Imita in fedele dialetto Cancelleri, schernisce “I guru boccoluti che assicurano l’apocalisse del web”, si mette in platea per assistere a un teatro: “impressionante, di fronte al quale anche l’atroce spettacolo del Pdl attuale impallidisce”. Non è escluso che il contraccolpo sia definitivo: “Ma è un eroismo a metà, il palazzo è crepato in ogni interstizio”, mentre è certissimo, giura il direttore del Foglio che non ci sarà bisogno di blandizie locali o canti delle sirene per deviare dal sentiero i probi: “Sono già un gruppo di ultracorrotti. Non in senso tribunalizio o penale, in senso assoluto. Si muovono come veterani della politica, Grillo è un vecchio attore incanutito e i suoi figuranti, come dimostra il simpatico Pizzarotti a Par-ma, non restituiscono alla patria biografie trionfali”. Pausa: “Vuole sapere davvero che barbari mi ricordano i grillini? Quelli del Paeplum anni 60, dove Maciste combatteva tutti. Ora c’è Grillo, forse il cinema di genere ci ha guadagnato”.

La Stampa 31.10.12
Compagni di Beppe
di Massimo Gramellini


La stragrande maggioranza degli elettori di Grillo proviene dai partiti di centrosinistra. L’analisi dell’Istituto Cattaneo sui flussi del voto siciliano smonta un luogo comune. Ad accendere le Cinque Stelle non è il popolo deluso da Berlusconi, che in Sicilia si è astenuto in massa. Sono il lettore del «Fatto», lo spettatore di Santoro, il progressista stremato dai ghirigori della nomenclatura rossa e rosé, in particolare da quella del Pd, che in cinque anni è passato da 505 mila a 257 mila voti: un trionfo davvero storico. Chiunque si sia preso la briga di togliere l’audio all’ugola di Grillo per leggerne i programmi, si sarà imbattuto in parole come «ambiente», «moralità della politica», «scuola pubblica», «bene comune». Il vocabolario del perfetto democratico. Gli stessi attivisti del movimento, che detestano essere chiamati «grillini», detestano forse ancora di più passare per conservatori, liberali o populisti, le tre tribù (le prime due largamente minoritarie) accampate da vent’anni intorno al totem berlusconiano.
Il voto siciliano racconta un’Italia nauseata che vorrebbe sfasciare i vecchi partiti, ma non è altrettanto d’accordo nella scelta del rottamatore. Il nauseato di sinistra preferisce Grillo. Il nauseato di destra, temo, la Santanché. Mentre l’avvocato, il dentista, il piccolo artigiano che hanno votato Berlusconi o Bossi turandosi il naso, adesso se lo sturerebbero volentieri per votare Renzi. Se solo si candidasse alle primarie giuste.

il Fatto 31.10.12
Pd. Il voto siciliano irrompe nelle primarie
Leader più forte, il sindaco fa il “Grillo buono”
di Wanda Marra


Chi oggi gridasse al trionfo e stappasse bottiglie di champagne commetterebbe un errore”. Matteo Renzi, il giorno dopo le elezioni in Sicilia, sceglie di fare un’analisi praticamente opposta a quella di Pier Luigi Bersani, che le aveva definite una vittoria storica. “Il Pd ha preso in termini assoluti meno voti della volta scorsa. Questo è un campanello d’allarme. Il numero di voti che abbiamo preso è decisamente bassino. Ci sono due dati su cui il centrosinistra deve riflettere: il partito dell’astensionismo ha la maggioranza assoluta e poi il Movimento 5 stelle ha ottenuto un risultato decisamente superiore alle attese”. Nella battaglia quotidiana delle primarie, le elezioni in Sicilia segnano un punto a favore del segretario, che comunque può giocare il ruolo del vincitore. E che in questo momento è al centro di una serie di manovre. Anche ieri Pier Ferdinando Casini l’ha corteggiato, cercando di convincerlo a lasciar perdere Sel e ad allearsi con i centristi. Lui, per ora, non ci pensa. La sua strategia è quella di convincere il leader centrista a piegarsi a una coalizione con Sel. Per dirla con D’Alema: “Io continuo a pensare che l'alleanza con i moderati e il coinvolgimento di Vendola e di Sel nel governo del Paese non sono affatto incompatibili”. Certo incombe la variabile della sentenza di Vendola attesa per oggi, che se condannato lascerà la vita politica. E comunque su Sel si fanno una serie di scenari, non ultimo quello che lo vede confluire in un listone col Pd. In questi giochi Renzi (definito dal governatore della Puglia “idrolintina nell’acqua morta della politica”) sta fuori. Anche se continua a fare il pienone, come lunedì sera al Del Verme di Milano. Non è un caso che l’unico commento di complimenti a Grillo sia arrivato da lui. Spiega il numero due dello staff Roberto Reggi: “Grillo è stato bravissimo, dobbiamo dargli atto di aver raggiunto con pochissimi soldi e pochissimi mezzi un risultato straordinario. Questo è indubbio, anche se non condivido nessuna delle cose che dice”. Ecco, la strategia: riconoscere a Grillo la carica di rinnovamento che porta e nello stesso tempo porsi come il Grillo politico, il rinnovamento altrettanto radicale, ma meno eversivo. E intanto, Renzi sabato, domenica e lunedì va in Sicilia.
E mentre da giorni i sondaggi fanno registrare un netto vantaggio di Bersani, ieri Pie-poli fotografava un’altra situazione, dando Renzi al 31% contro il 29. Ieri intanto c’è stato il sorteggio per il posto sulla scheda: Bersani è finito in alto a sinistra, posto storicamente occupato dal Pci, Renzi in fondo a destra, storica posizione della Dc.

il Fatto 31.10.12
Il sindaco e le primarie
Aziende, amici e famiglia Renzi e i conflitti d’interesse
Il cognato è alla Dot Media, che incassa soldi dal Comune e cura la campagna “anti-Bersani”
di Marco Lillo


Matteo Renzi ha un cognato. Si chiama Andrea Conticini, agente di commercio per i clienti (non istituzionali, tiene a precisare lui) della Dot Media, società che da un lato prende appalti dal Comune e dalle sue municipalizzate e dall’altro cura la campagna per le primarie del sindaco. Il cognato è agente anche della società della famiglia Renzi, la Eventi6 Srl, che ha fatturato quasi 4 milioni di euro nel 2011 curando anche la distribuzione e lo strillonaggio dei quotidiani a Firenze. Eventi6 è la società erede della storica Chil Srl, fondata da papà Tiziano Renzi, della quale Matteo Renzi è stato a lungo dirigente e socio fino al 2003. Eventi6 ha rilevato l’azienda della Chil nel 2010 e ha sede a Rignano sull’Arno, dove risiede la famiglia di origine di Matteo Renzi e anche Andrea Conticini, 31 anni, bolognese laureato in teologia, che non è solo il marito di Matilde Renzi, socia e consigliere delegato della Eventi6, ma anche il fratello di Alessandro Conticini, socio sia della Dot Media sia della Eventi 6 con una quota del 20 per cento.
Il Fatto si è già occupato del fratello maggiore, 36anni, “l’unico socio di Eventi6 a non essere parente del sindaco”, avevamo scritto l’8 ottobre scorso. E invece l’ex direttore dell’Unicef di Addis Abeba, tuttora residente in Africa dove dirige un istituto che lavora nello stesso settore, è il fratello del cognato del sindaco. Ecco spiegata la sua presenza con una quota del 20% nella Eventi 6 accanto alla mamma di Renzi, Laura Bovoli, che possiede una quota dell’8% e alle due sorelle del sindaco, Matilde e Benedetta, con il 36% ciascuna.
Matteo Renzi replica: L’azienda della mia famiglia non ha più ricevuto un centesimo dal pubblico dal momento in cui ho iniziato a far politica. Se il fratello del marito di una delle mie sorelle acquista il 20% di una società che lavora con il pubblico non vedo come possa essere un problema per me. Assicuro sulla correttezza delle procedure del Comune.
IMBARAZZI BEN NASCOSTI
Più imbarazzante per Renzi è la partecipazione del 20 per cento di Conticini in Dot Media, fornitore del Comune di Firenze, pagato con due fatture del 2012. Matteo Renzi, nel pieno della sua corsa verso la leadership del centrosinistra, si ritrova così a dover fare i conti (o meglio, i Conticini) con questa storia di conflitti di interessi tra aziende private, soldi pubblici, parenti, amici e affini. Al centro di tutto c’è la Dot Media, una società nata nel maggio 2008 e che – nel suo primo anno di vita, quando Renzi era presidente della Provincia fatturava solo 9 mila euro all’anno. Nel 2009 lavora alla campagna per l’elezione di Renzi a sindaco, forgiando uno spot che sembra un mix tra quello del Cavaliere del 1994 e quello dell’8 per mille della Chiesa cattolica: panoramica dal cielo sull’Arno con la voce impostata dello speaker che “immagina una città in cui nessuno si senta escluso”.
A quell’elezione ha contribuito anche la Eventi6 della famiglia Renzi: sul sito si vede il furgoncino retrò Iveco-Pavesi, intestato alla società, con sopra verniciato volto e slogan del futuro sindaco: “Firenze prima di tutto”. Nel 2009 Renzi vince e Dot Media fattura 137 mila euro, che diventano 214mila nel 2010, fino al boom dei 401 mila euro nel 2011. Il 10 febbraio del 2011 il fratello del cognato di Renzi, entra in Dot Media comprando il 20% del capitale (ma accetta di concorrere all’utile solo per l’uno per cento) da Patrizio Donnini, padrone e amministratore della società Web&Press, divenuta famosa nel maggio scorso quando si è scoperto che aveva ricevuto 36 mila e 800 euro da Luigi Lusi, in qualità di tesoriere della Margherita, nel 2009. Il socio forte di Dot Media è Lilian Mammoliti che è socio e amministratore della Quality Press, una terza società, dove è entrato, da poco più di un mese, il solito Alessandro Conticini, come socio al 30 per cento. Dot Media, dopo l’ingresso di Conticini, ha incassato 16 mila e 800 euro nel 2012 dal Comune di Firenze. La circostanza è emersa quando i consiglieri di opposizione Tommaso Grassi di Sel e Or-nella De Zordo hanno presentato un’interrogazione sulle commesse elargite a Dot Media. Si è scoperto così che la società nella quale è socio Alessandro Conticini ha ottenuto 13 mila e 226 euro il 20 aprile del 2012, per la comunicazione di due progetti: “Coltiviamo la riduzione dei rifiuti” e “Fontanelli: un buon bicchiere d’acqua senza plastica durante l’iniziativa Natale in San Lorenzo”. La seconda fattura è stata pagata due mesi fa ed è pari a 3mila e 630 euro per “progettazione mappe d’Oltrarno”.
LE MUNICIPALIZZATE
Le municipalizzate hanno garantito a Dot Media 215 mila euro dal 2010 al 2012, che aggiunti a quelli pagati dal Comune, fanno 232 mila euro. Publiacqua ha pagato 82.325 euro dal 2010 al 2012. Mukki, la centrale del latte di Firenze, ha pagato a Dot Media 99 mila e 500 euro nel 2011, dei quali 69 mila e 300 euro per la campagna pubblicitaria “Latte Toscano”. Mentre l’azienda dei trasporti, l’Ataf, ha pagato 15.800 euro dei quali poco meno della metà per il servizio rassegna stampa web.
Firenze Parcheggi guidata da Marco Carrai, collaboratore storico del sindaco Renzi, che guida il suo comitato elettorale, ha pagato 21 mila e 100 euro nel 2011 per campagne pubblicitarie come “C’è un posto per te”, “Motorini”, “Parcheggi Point”. Quasi sempre le municipalizzate hanno affidato gli incarichi a Dot Media senza una vera gara. Solo per la campagna “Latte toscano”, ha riferito in Consiglio comunale l’assessore Rosa Maria Di Giorgi, c’è stato “un confronto con le offerte di altre due società”. Tra i criteri adottati era fondamentale però la creatività, “sulla quale è determinante il giudizio del nostro ufficio marketing”.
Come se non bastasse il ruolo dei fratelli Conticini, Dot Media vanta un secondo socio scomodo per Renzi: Matteo Spanò. Scout e residente a Pontassieve come l’amico fraterno Matteo; di più, presidente nazionale dell’Agesci (l’associazione degli scout cattolici), e recentemente nominato presidente della Banca di credito cooperativo di Pontassieve, Spanò è stato direttore eventi di Florence Multimedia, società di comunicazione creata dall’allora presidente della Provincia nel 2005, per promuovere anche la sua immagine, ora finita nel mirino della Corte dei Conti. Arteventi di Matteo Spanò, ha fatturato a Florence Multimedia 58 mila e 400 euro nel biennio 2006-2007, altri 66 mila nel 2008 e ancora 62 mila e 900 euro nel 2009. “Tuttora lavoro per Florence Multimedia e la mia impresa individuale fattura alla società della Provincia circa 35 mila euro all’anno perché – spiega Matteo Spanò – non ho mai avuto un contratto di dirigente e quindi quelle fatture rappresentano i miei compensi”.
Matteo Renzi replica: Spanò è una delle persone più competenti nel settore della comunicazione. Sotto la sua gestione del Museo dei ragazzi, che ha accettato di presiedere gratuitamente, la presenza dei bimbi in Palazzo Vecchio è aumentata, così come gli accessi complessivi (da 380mila a 510), con un rilevante guadagno per le casse comunali.
Spanò non è l’unico amico di Renzi coinvolto nell’avventura di Florence Multimedia. Anche Luigi De Siervo – figlio dell’ ex presidente della Consulta, Ugo, e fratello del capo di gabinetto del sindaco, Lucia, nonché cognato di Filippo Vannoni, sindaco supplente di Florence Multimedia, e manager di Rai Trade – propose all’amico presidente della Provincia un progetto per sviluppare un canale tv. Subito approvato. Florence tv tramonta presto ma lascia traccia sul bilancio di Florence Multimedia nel 2007: 192 mila euro di soldi pubblici che grazie a De Siervo – almeno vanno alla Rai.
Matteo Renzi replica: Il progetto Florence Tv nasce da un’idea della Rai per valorizzare Firenze. Le trasmissioni tv sull’attività istituzionale erano iniziativa della giunta provinciale precedente.
E ADESSO LE PRIMARIE
Se Luigi De Siervo è un supporter morale di Renzi alle primarie, Dot Media ha messo a disposizione il suo “social media team” composto da 4 persone. Alberto Bianchi, tesoriere della campagna di Renzi, ha dichiarato a Repubblica: “Dot Media riceverà 10mila euro dal Comitato di Matteo Renzi e avrà una cifra tra i 50 e i 60mila euro dalla Fondazione Big Bang per operazioni comunque non attinenti alle primarie”. E il consigliere comunale Tommaso Grassi nota: “Il prezzo di 10 mi-la euro per la campagna alle primarie mi sembra poco, se penso che Dot Media si fa pagare da Publiacqua ben 6mila euro, lo scorso aprile, solo per fare ‘sopralluoghi e rilevazioni assistenza montatori fontanelli’”.
(Ha collaborato Sara Frangini)

La Stampa 31.10.12
Renzi: “Solo io tra Monti e Grillo”
Il candidato alle primarie: Bersani ha un’idea del Pd come nuovo Pci, un pericolo mortale
«La tradizione cattolico-democratica per noi è vitale»
«I Cinquestelle non hanno recuperato voti dall’astensione»
intervista di Federico Geremicca


In Sicilia sta per andarci anche lui, magari non attraversando lo Stretto a nuoto - alla maniera di Grillo - ma in tour col camper, come da un mese e mezzo a questa parte. Tappa obbligata Pozzallo, dove nacque Giorgio La Pira, sindaco della città di cui adesso è sindaco lui: poi la Valle dei Templi, Gela e un paio di appuntamenti a sorpresa. Matteo Renzi dirà anche lì, come in questa intervista, che il voto siciliano non gli è piaciuto granché: fatta salva la soddisfazione per la vittoria di Rosario Crocetta («E’ stato un bravo sindaco, farà benissimo anche in Regione») e qualche riflessione controcorrente proprio su Beppe Grillo. Già, Renzi e Grillo: secondo molti, due tipi assai simili...
Il paragone la offende?
«Semplicemente non lo capisco. Casini va ripetendo che sarei un Grillo in doppiopetto... A parte la battuta, che senso ha? ».
Beh, entrambi volete il noto «tutti a casa», e interpretate la politica in maniera, diciamo, un po’ aggressiva.
«Ma nemmeno per idea, guardi. L’unica cosa che abbiamo in comunque, forse, è l’aspirazione ad un radicale rinnovamento. Ma per il resto... ».
Per il resto?
«Per il resto, credo non ci siano due persone più distanti».
Addirittura.
«Guardi, ci sono molti modi attraverso i quali tentare di rinnovare la politica. Uno è il metodo-Monti, diciamo così: politici a casa grazie ai tecnici; un altro è il sistema Grillo: tutto a base di demagogia, insulti e parolacce; poi ci sono io, che non c’entro niente né col primo né col secondo».
Dove sarebbe la differenza?
«Nel tentativo di rinnovare la politica attraverso la politica. Politica buona, fatta da gente nuova: e saldamente ancorata a valori, storie e tradizioni. Le pare il modo di fare di Grillo? ».
Insomma, lei dice: c’è una questione di stile. Intanto, però, lui in Sicilia ha stravinto, no?
«Mah... Credo sia in parte addirittura deluso. Mi dicono che a un certo punto si fosse convinto di vincere davvero, non di arrivare terzo. Perché, non dimentichiamolo, in fondo Grillo è arrivato terzo».
E’ poco?
«E’ certo molto di più di quanto si aspettassero tanti leader nazionali, è vero. Ma è anche vero che si è impegnato in Sicilia per settimane anima e corpo. A parte la nuotata, idea interessante sul piano della comunicazione, mi pare abbia completamente fallito l’obiettivo principale: recuperare voti dall’astensione. Che infatti è cresciuta fino a infrangere la barriera del 50%. Preoccupante e spaventoso».
Come si ferma l’ascesa di Grillo? Glielo chiedo perché in molti pensano che solo lei potrebbe tenergli testa.
«Mi pare una fesseria. Non credo sia poi così difficile arrestarne l’ascesa. Il Pd può fermarlo - forse bisognerebbe dire: avrebbe potuto fermarlo - presentando alle Camere un vero e severo piano anticasta. E’ su questo terreno che Grillo è cresciuto ed è su questo terreno che bisogna batterlo».
E’ stato fatto, in qualche modo.
«Ecco, appunto: in qualche modo. E il modo è che - dopo gli scandali nel Lazio e in Lombardia - si presenta un provvedimento per ridurre drasticamente costi, consiglieri e spese delle Regioni e poi lo si affonda inuna qualunque commissione parlament are. Che deve pensare la gente, esasperata come è? ».
Che allora è meglio votare Grillo.
«Ed è un errore. A parte le parolacce, che dice Grillo? Lo ha mai sentito parlare dell’euro? Oppure della mafia, che non avrebbe ucciso nessuno? Uno lo ascolta e chiama il 118, no? L’unico suo argomento vero è la guerra alla casta: togliamogli quello e non resta più niente».
A parte Grillo, è sorpreso dal voto siciliano?
«Potrei dire che nulla di quel che accade in Sicilia mi sorprende più... Invece mi ha sorpreso l’esplosione del non voto, questo sì: è il vero dato su cui riflettere. E mi ha sorpreso - in parte - il calo del Pd, che quasi dimezza i suoi voti rispetto alle ultime regionali».
Però ha vinto.
«E’ vero. E faccio i complimenti e gli auguri a Rosario Crocetta. Il giorno dopo il voto, chi vince ha sempre ragione. Magari con qualche avvertenza... ».
Del tipo?
«Ho letto che Bersani dice: è la prima volta che vinciamo in Sicilia. Ma in Sicilia hanno governato figure, come quella di Piersanti Mattarella, che hanno pagato quell’impegno con la vita e sono - devono essere - un riferimento per il Pd. Ecco, Bersani a volte fa trasparire un’idea di Pd che non mi convince: come se questo partito fosse un’evoluzione della sua militanza e della sua storia personale. Una sorta di nuovo Pci. Non è così, e non può essere così: la tradizione cattolico-democratica è linfa vitale per il Pd. Negarlo o dimenticarlo è sbagliato. Ed è un pericolo mortale per il Pd così come l’avevamo immaginato... ».

Repubblica 31.10.12
“Pd basso in Sicilia”. Renzi provoca Bersani
Il segretario: la sua unica strategia è criticare
di Goffredo De Marchis


ROMA — Non è stupore e nemmeno irritazione. «Ma sono un po’ preoccupato», dice Pier Luigi Bersani leggendo le parole di Matteo Renzi e Giorgio Gori dopo il voto siciliano. L’avversario delle primarie svaluta la vittoria di Crocetta sottolineando il calo di consensi al Partito democratico. Ed “esalta” il successo di Beppe Grillo. «Per me Grillo resta la malattia e non la medicina. Pur nelle difficoltà — spiega il segretario nelle sue conversazioni — in Sicilia si conferma la bontà della scelta di un patto dei progressisti e dei moderati. È questa la vera vittoria». Quindi ieri nessun sms di simpatia tra Bersani e il sindaco di Firenze. «Anche perché non ho capito ancora quale sia la strategia di Renzi e Gori oltre a quella di criticare ».
Ma Bersani non vuole far entrare nelle primarie un contenzioso sulla Sicilia. L’esito gli sembra chiaro, la vittoria di Crocetta un punto a favore del partito e le polemiche strumentali. Semmai sono in tanti nel Pd, non il segretario, a chiedersi da giorni quale sia l’obiettivo finale di Renzi, se, dopo le primarie, il sindaco di Firenze pensi di avere ancora spazio nel Pd e nel centrosinistra. Ammesso che perda, ovvio. Quei tanti ieri hanno avuto la conferma dei loro timori: dove vuole andare Matteo?
Bersani invece ha in testa il rafforzamento dell’asse con Casini. Ieri i leader del Pd e dell’Udc si sono visti a lungo in una saletta di Montecitorio. Hanno messo a punto emendamenti comuni per la legge di stabilità, ma hanno anche dovuto stringere le maglie di un’alleanza che appare ormai scontata. Il segretario democratico è stato netto su un punto: «Non lascio Vendola, il centrosinistra che stiamo organizzando
non è un’armata Brancaleone come pensi tu». Se è questo l’ostacolo, non sarà rimosso dal Pd. «Con le primarie e con la carta d’intenti noi stiamo facendo il lavoro che avevamo programmato: organizzare il campo del centrosinistra in modo nuovo e serio», ha spiegato ancora una volta Bersani. Ributtando la palla dall’altra parte: e voi? I democratici osservano le molte difficoltà nel campo moderato. Tante iniziative, numerose sigle in pista, appelli firmati da alcuni e non firmati da altri.
Italia futura da una parte, Oscar Giannino dall’altra. E Casini che appare restio a prendere in mano la situazione guidando l’unità dei centristi. Insomma, non si può rimproverare a Bersani l’asse con Vendola se i moderati non riescono a formare un fronte più ampio dell’Udc.
Il segretario del Pd è convinto che Vendola e Casini possano stare insieme. Gli scontri di oggi fanno parte della «propaganda », come dice anche Massimo D’Alema. Ma esaurita la fase delle primarie e in prossimità delle elezioni sono destinati ad attenuarsi fino a scomparire. Bersani si sente ormai il garante del patto progressisti-moderati, ruolo riconosciuto dall’Udc. Che non a caso sulla legge di stabilità, tra il relatore del Pd e quello del Pdl, ha scelto di confrontarsi con il democratico per emendamenti comuni e una linea di condotta unica. Ma che con Vendola tutto sia tranquillo non è vero. Il governatore pugliese ha molti motivi di nervosismo. Oggi è attesa la sentenza di Bari sull’accusa di abuso d’ufficio. In caso di condanna Vendola ha annunciato il ritiro dalla vita pubblica. Un esito che metterebbe in difficoltà il Pd. Ma se sarà assolto, il leader di Sel, parlandone con Bersani, ha fatto capire che continuerà ad attaccare Mario Monti, il governo e i centristi. Perché il risultato molto negativo di Sel in Sicilia (rimasta fuori dall’assemblea regionale come fa notare perfidamente Beppe Fioroni) ha acceso un allarme nel movimento della sinistra radicale. Non intercettare nuovi voti nelle aree più disagiate durante la crisi è un pessimo segnale. E sull’intero stato maggiore di Sel pesa il ricordo della clamorosa sconfitta del 2008. Bersani però respinge la narrazione vendoliana, è convinto che un irrigidimento estremista possa portargli altri guai. «Stando fuori da un’alleanza come quella siciliana — spiega — Vendola non attira il voto di protesta che va quasi interamente a Grillo». Osservazione suffragata dall’analisi dei flussi fatta dall’Istituto Cattaneo e che riguarda anche il Pd. «Io voglio Nichi dentro la coalizione — ripete Bersani —. Ma qualcosa il voto della Sicilia deve dire anche a lui: ad esempio che il voto utile esiste e premia non gli strappi ma i candidati più credibili in alternativa alla destra».

il Fatto 31.10.12
Regione Lazio, voto a gennaio insieme a Lombardia


HABEMUS ELEZIONI La presidente dimissiona-ria della Regione Lazio, Renata Polverini, a quanto si apprende, sarebbe orientata ad andare al voto entro il mese di gennaio, in un’unica giornata con la regione Lombardia. “È difficile commentare indiscrezioni. Noi continuiamo a pensare che sarebbe stato giusto votare il 16 dicembre ma se presto si arrivasse alla certezza di una data a gennaio sarebbe una prima buona notizia”. Così il presidente della Provincia di Roma e candidato del centrosinistra a governatore del Lazio, Nicola Zingaretti. “Finché non ci saranno certezze – ha aggiunto – noi continueremo a chiedere chiarezza perchè è giusto dare risposte ai cittadini e alle forze produttive e sociali. Mi auguro che dalle indiscrezioni si passi alle certezze”.

La Stampa 31.10.12
Patto Casini-Bersani su Lazio e Lombardia resta il nodo Vendola
Colloquio alla Camera. L’Udc: fuori Sel
di Carlo Bertini


Se, come pare, il 20 gennaio si voterà in contemporanea in altre due regioni cruciali come Lazio e Lombardia, portarle a casa diventa obiettivo di prima grandezza, visto l’effetto trainante che un «bingo» del genere potrebbe avere sul voto nazionale: per questo il giorno dopo la vittoria in Sicilia, Bersani e Casini si sono posti il problema in un colloquio a quattr’occhi ieri alla Camera dove hanno provato a sincronizzare i due diversi schemi di gioco. Quel che è certo è che i due stanno pensando a come costruire le migliori condizioni per replicare il format nelle due regioni, così come si è fatto a suo tempo in Liguria e nelle Marche, ma Casini vorrebbe tenere Vendola fuori dalla partita e Bersani non la pensa così. Parafrasando la ormai celebre battuta della Fornero, il leader Pd ha fatto capire a Pier che «se non lo possono essere i giovani, a maggior ragione non possiamo essere noi schizzinosi, quindi non essere “choosy” rispetto a Vendola, perché il rischio concreto è che dopo ci ritroviamo Grillo».
Malgrado ciò, a sentire il circuito di Bersani, su scala nazionale l’accordo con Casini sarà uno sbocco obbligato: della serie, noi del Pd insieme a Sel pensiamo a vincere le elezioni di primavera e dopo ci alleiamo con loro, non ci sono subordinate e finirà così, quale che sia la legge elettorale. Piuttosto, «loro» devono occuparsi di organizzare bene il campo dei moderati per fare il pieno dei voti con tutte le personalità che saranno in campo, da Passera a Riccardi e con la lista che potrebbe prender corpo insieme a Italia Futura.
Ma dalle parti di Casini la pregiudiziale su Vendola è netta e non la fanno così facile: per ora nessun patto per il «dopo» che resta sub judice, ad urne chiuse si vedrà cosa fare e noi con chi rema contro il governo Monti non andremo mai a braccetto. Ecco, nel day after della tornata siciliana, i due leader di Pd e Udc per la prima volta aprono anche i dossier di Lazio e Lombardia, ma per le politiche l’intesa ancora è da venire. Anche se Bersani prova a convincere il leader Udc che lo schema di gioco progressisti-moderati è analogo a quello di due poli che si mettono insieme per governare un paese da ricostruire: Casini non sarà costretto a stare nella stessa coalizione con Vendola. Anzi quando sarà il momento, se uscisse vincitore, Bersani ha intenzione di andare a Palazzo Chigi con un governo tutto formato da tecnici e figure competenti, senza usare il Cencelli e senza immaginare che i leader dei partiti diventino ministri. Quindi a sentire i ragionamenti che si fanno ai piani alti del Pd, Casini non dovrà sedersi al tavolo con Vendola per trattare su ogni riforma: ci sarà una maggioranza politica che rema nella stessa direzione e Bersani terrà un atteggiamento analogo a quello che ha Monti, costretto a fare i vertici bilaterali separati.
E anche se il pressing per escludere Vendola si fa più forte dentro il Pd (ieri si sono fatti sentire Follini e Fioroni), Bersani non ci sente da quell’orecchio, perché il rischio di un’emorragia di voti a sinistra è più alto di quel 5% che vale oggi una forza come Sel. Che vive in queste ore col fiato sospeso per la sentenza che riguarda Vendola, che se negativa potrebbe scompaginare tutti i giochi del centrosinistra, primarie e coalizione compresa. Comunque vada, i nodi delle prossime regionali sono di difficile soluzione, perché nel Lazio per appoggiare Zingaretti l’Udc sarebbe costretta ad un’inversione secca, dopo aver sostenuto la Polverini con il Pdl; mentre in Lombardia i contatti tra l’ex sindaco di Milano Albertini e i moderati di Casini sono già in fase avanzata.
Ma di fronte al leader Pd che insiste per costruire alleanze il più ampie possibile per arginare il rischio Grillo, c’è Casini che continua a dire che «ciò che è successo in Sicilia dovrebbe far riflettere soprattutto Bersani... ».

l’Unità 31.10.12
Stop alla legge sulla diffamazione
Ostruzionismo Pd
di Natalia Lombardo


ROMA Non solo un «bavaglio», il testo di legge sulla diffamazione sta diventando una vera museruola per la stampa, per di più rappezzata in mille modi. Un «pasticcio», a detta di molti senatori, una «legge mostro» per il Pd D’Ambrosio. Il ddl comunque ieri è stato rinviato in commissione Giustizia dopo che la discussione nell’aula del Senato si era impantanata sulla durata e le modalità dell’interdizione dalla professione, chiesta in modo più restrittivo dai pidiellini Balboni e Mugnai (uno degli avvocati berlusconiani). In un clima delirante, hanno riformulato la proposta ben sette volte, con sofismi tra «lo stesso reato» o il «reato della stessa indole» sul quale avrebbe dovuto decidere un giudice.
Il rinvio è «un passo avanti», per il Pd, dopo che la stessa richiesta di un ripensamento sul ddl era stata bocciata per un voto lunedì. Ieri pomeriggio in commissione Giustizia i democratici hanno messo in atto una forma di ostruzionismo, prolungando i tempi della discussione, perché l’intero testo sia rivisto e non solo l’articolo 1. In realtà Domenico Nania, che presiedeva l’aula, sostiene di aver rinviato tutto il ddl (confermato da Casson del Pd e Li Gotti dell’Idv), ma il Pdl ha insistito sul contrario. La questione non è solo formale, l’ostruzionismo ieri è andato avanti, martedì è stato calendarizzato dalla capigruppo il ritorno in aula del ddl, ma le commissioni ieri sono state fermate per la fiducia sul decreto sanità.
SALVARE SALLUSTI ALLA CAMERA
Lunedì Dario Franceschini, Pd, nella riunione dei capigruppo ha proposto di stralciare la punizione col carcere per i giornalisti, inserirla in un provvedimento già in commissione Giustizia, votarla subito e lasciare poi che al Senato si discuta in modo più approfondito una legge sulla diffamazione, senza essere condizionati dall’urgenza di evitare il carcere al direttore del Giornale. Franceschini ha avuto la disponibilità degli altri gruppi, ma tutto dipende da cosa accadrà in Senato.
A Palazzo Madama sul ddl il caos è totale, con un clima avvelenato da una logica autoritaria anti-stampa, espressa da centrodestra e Lega. Ma se nella settimana scorsa era meno netto il confine tra gli schieramenti, con una certa trasversalità fra chi voleva misure rigidissime, ora i «fronti» sono più netti: il Pd ha ritrovato l’unità nel contrastare il giro di vite sull’informazione approfittando del «caso Sallusti», insieme all’Idv, all’Udc e anche dall’Api.
Nel Pdl contraddizioni e posizioni divergenti sono tante, nonostante sembra che ci sia un pressing di Berlusconi perché si chiuda risolva presto la questione Sallusti (al quale, dicono nel Pdl, «non può voltare le spalle»). Ma nel partito il caos è totale: se i capigruppo Gasparri e Quagliariello avrebbero volentieri fatto a meno di toccare l’argomento, a parte il «salvare il soldato Sallusti», altri nel Pdl consumano vendette o vogliono dare prove di forza e di controllo sull’informazione, intimidendo il giornalismo investigativo. La Lega, anche questa in confusione, ha ritentato un asse col Pdl poi ieri ha protestato a 360 gradi annunciando di volersi tirare fuori. In tutto ciò il direttore del Giornale «cinguetta» sprezzante: «Senato di incapaci. Ma meglio in piedi a San Vittore che in ginocchio a palazzo Madama», è il tweet di Sallusti.
Ieri è comunque passata la riduzione da 100 a 50 mila euro delle multe e la soppressione del raddoppio della pena in caso di recidiva, proposti da due emendamenti del capogruppoUdc D’Alia, che ha tentato anche una modifica sull’interdizione. Ma su questo tema è scoppiata la bagarre. Esce una dichiarazione congiunta dei senatori Pd Vannino Chiti e Vincenzo Vita, che denunciano come i «presupposti originari» della legge (che ha scritto Chiti con Gasparri) siano stati «via via travolti e rovesciati persino in soluzioni opposte»: dalle multe cresciute a dismisura al «supplemento di esborso economico per le testate comprese nel Fondo per l’editoria», dalla «costosissima rettifica per l’eventuale reato commesso nella scrittura di un libro», alle pene accessorie sulla interdizione dalla professione «sottraendo la scelta all'Ordine». Un mostro autoritario, quindi. Bene dunque il rinvio in commissione. «Una decisione saggia, si è evitata almeno per ora una nuova clamorosa retrocessione in Europa», ha commentato Beppe Giulietti, che con Articolo21 continuerà a raccogliere firme contro la «legge bavaglio».

l’Unità 31.10.12
Una vendetta, così si soffoca la libertà di stampa
di Giuseppe F. Mennella


FORSE È IL CASO DI CHIUDERLA QUI: COGLIERE L'OCCASIONE DEL PROVVIDENZIALE RINVIO IN COMMISSIONE GIUSTIZIA DEL DISEGNO DI LEGGE SULLA DIFFAMAZIONE A MEZZO STAMPA per non farne più niente. Si eviterà così di partorire un mostricciattolo di norme liberticide, aggravate da topiche di tipo teorico, logico, giudiziario e politico. Ha detto la senatrice Silvia Della Monica: «Sarebbe il caso di fermare l’iter legislativo di questo testo». È la relatrice del provvedimento e professionalmente, è un magistrato. Diciamo: un parere autorevole e informato.
Le norme del ddl, singolarmente e nel loro complesso, hanno il sapore amaro della vendetta: settori della politica hanno colto al volo l’occasione-Sallusti per regolare i conti con giornalisti e giornali ficcanaso e cani da guardia. Che la libertà di stampa non sia un privilegio dei giornalisti, ma un diritto dei cittadini, non conta.
Al Senato è in scena uno scontro senza precedenti tra due poteri: quello politico-legislativo e il Quarto Potere, che avrebbe la funzione di controllare gli altri tre. Sostituire gli articoli del Codice penale e della legge sulla stampa del 1948, che prevedono la pena del carcere per i giornalisti convertibile in multa, con norme bavaglio e capestro è puro sadismo, perché imporre rettifiche non motivate, interdire dalla professione, condannare al risarcimento del diffamato e restituire finanziamenti pubblici, non prevedere la sanzione per lite temeraria significa voler soffocare la libertà di stampa, ridurre i cronisti a velinari e i cittadini a popolo disinformato.
E questo senza cambiare nulla dell’attuale ordinamento: oggi un presunto diffamato può querelare l’autore dell’articolo e il direttore del giornale, attendere la sentenza e poi citarli davanti al giudice civile per chiedere il risarcimento del danno. Ma può anche esperire le due strade insieme: querela i giornalisti, costituendosi parte civile, e chiede i danni in sede civile all’editore della testata. O ancora: querela giornalisti ed editore, senza costituirsi parte civile, e nello stesso tempo li cita tutti in sede civile. Se perde, il presunto diffamato pagherà il suo avvocato e partita chiusa. Se il Senato non interrompesse l’iter del ddl potremmo avere un effetto perverso perfino dalla buona norma che fissa a 50mila euro il tetto di risarcimento per la diffamazione aggravata dal mezzo stampa e dall’attribuzione del fatto. Ragiona il presunto offeso: c’è il tetto, non c’è più il carcere, avanti tutta con le cause civili e le richieste milionarie di risarcimento danni. Quando -tra gli anni 80 e 90 - ho avuto l’onore di fare il direttore responsabile de l’Unità non ho mai temuto le sentenze del Tribunale penale, ma solo le decisioni del giudice civile e i rischi di risarcimenti insopportabili per me e per il giornale. Come quella mattina che alla porta di casa bussò l’Ufficiale giudiziario...

Repubblica 31.10.12
Il pasticcio sulla legalità
di Gianluigi Pellegrino


LA CHIAMANO anticorruzione. In realtà è un gran pasticcio di strafalcioni, colpi di spugna e tante bugie. Non a caso il partito di Berlusconi ne rivendica paternità e contenuti. Mentre i democratici si affidano a un saggio silenzio. Il governo ha deciso di mettere la fiducia e blindare il voto. Sinora la fiducia è stato il modo per evitare l’assalto dei partiti su provvedimenti zoppicanti ma necessari, predisposti dall’esecutivo di “salvezza nazionale”.
Ma qui c’è un cambio di cifra: una fiducia al ribasso, chiaramente volta a evitare, incredibile a dirsi, proprio la dovuta correzione di previsioni nefaste per la lotta alla dilagante corruttela.
Il governo dei tecnici non si fa più portatore virtuoso di equilibri avanzati sui quali condurre partiti riottosi, bensì fonte diretta e garante di una maldestra operazione di facciata e di misure deleterie per l’ordinamento, come nella più buia stagione delle leggi
ad personam.
Cos’altro se non questo si può pensare di una norma che come primo effetto avrà quello di regalare la prescrizione in un numero indefinito di processi per concussione che è il più odioso dei reati di pubblica corruttela? E cos’altro pensare di una norma che proprio per questi reati fa venir meno l’interdizione automatica dai pubblici uffici? Si promettono improbabili liste pulite ma per l’intanto si garantiscono “poltrone sporche”, come ha giustamente rilevato Massimo Giannini all’indomani del voto al Senato. Con l’aggravante che le responsabilità del pasticcio, caparbiamente voluto, sono di tutti e di nessuno, perché il cerino se lo passano nel più allegro degli scaricabarile. Monti dice che bisogna accontentarsi perché non sappiamo quanto sia stata dura la trattativa con i partiti; ma le due forze principali hanno entrambe pronunciato proclami di bocciatura su quelle norme inguardabili. Alfano ha solennemente detto che il suo partito non le avrebbe mai votate; il Pd ha presentato emendamenti per evitare il colpo di spugna. E pure quella previsione è rimasta lì e il governo ci ha pure messo la fiducia. Il ministro Severino parla di mediazione e di piramide delle pene. Ma mediazione tra chi, onorevole ministro, visto che tutti si dicono contrari? Così il governo dei tecnici da limbo di purificazione, rischia di diventare la palude buia dove tutti sono uguali e nessuno è responsabile degli scempi che si approvano.
E a quale piramide si riferisce il ministro, se per il più odioso dei reati si toglie l’interdizione automatica dai pubblici uffici? Peraltro se è di una geometria delle pene per il futuro che vogliamo parlare allora si doveva verificare se fosse possibile evitare che si traducesse in un colpo di spugna sui processi in corso secondo le coordinate dettate dalla Corte costituzionale. Altrimenti è proprio il salvacondotto ciò che si vuole. Ancor prima non si vede cosa ci faccia una norma più generosa con i concussori in un provvedimento che vorrebbe essere di risposta ad una conclamata emergenza corruttiva. L’alternativa al colpo di spugna sarà una nuova forzatura delle incriminazioni per farle rientrare nella concussione per costrizione che è la sola rimasta senza sconti. Ne deriveranno nuovi scontri tra giustizia e politica e nuove tensioni nei processi. Buone notizie solo per imputati e loro avvocati.
Si lasci stare poi l’Europa che si è solo limitata a dire che nei casi di “induzione” anche chi paga debba essere in qualche modo punito; ma non ha mai osato chiedere sconti per il protervo concussore che sfinisce l’utente per fare mercimonio della sua pubblica funzione.
Le ferite all’ordinamento non finiscono qui. Il cosiddetto “traffico di influenze” viene punito ancor meno del millantato credito con il paradossale effetto che diviene più grave bleffare le conoscenze giuste, piuttosto che averle davvero e sfruttarle per indebiti favori (!).
Ce ne sarebbe abbastanza per lasciar perdere. «Meglio niente che una legge dannosa», hanno detto ad una voce a Lecce Eugenio Scalfari e Paolo Mieli. Peraltro con il Csm e la magistratura associata che hanno potuto sollevare l’allarme (“rischio amnistia”) solo a tempo scaduto, azzittiti com’erano dalla minaccia della responsabilità civile e dalle norme sul fuori ruolo che infine presentano anche uno strafalcione che le rende inapplicabili. È previsto infatti che persino per gli incarichi futuri il termine massimo di durata decennale decorre non dal loro conferimento ma da quello di entrata in vigore della legge. Se arriva dopo l'incarico dovrà forse andare a … ritroso. Basterebbe già questo per imporre una rilettura dell’intero, pasticciato provvedimento che anche il capo dello Stato potrebbe sollecitare. L’occasione per tener conto sul serio dell’appello corale, raccolto anche da Repubblicacon oltre trecentomila firme, per una vera norma anticorruzione. Salvo che non sia proprio questo ciò che non si vuole.

il Fatto 31.10.12
Camilleri: “Se i magistrati vanno via è la fine”
Lo scrittore incontra Ingroia a Roma prima della partenza per il Guatemala: “In Sicilia un passo avanti”


Speravo di non trovarmi più costretto a stare al fianco di un magistrato: dopo la grande pioggia berlusconiana credevo arrivasse un po’ di primavera. Invece a 87 anni mi sento richiamato in servizio. Ecco perché sono qui: perché sta diluviando”. Andrea Camilleri arriva al teatro Ambra della Garbatella, a Roma, e siede assieme al pm Antonio Ingroia, venuto a salutare il suo pubblico prima della partenza, sabato prossimo, per il Guatemala. Ci arriva con la fatica dei suoi anni che pero’ sparisce appena prende la parola: “Se oltre ai cervelli vanno via anche i magistrati restiamo con le pezze al culo – dice lo scrittore – si vuole una magistratura addomesticata, il porto delle nebbie romano dove si insabbiava tutto”.
Anche se – spiega Ingroia – la partenza “non è una fuga: se fossi rimasto sarei stato accusato di esibizionismo, andandomene dicono che l’indagine è debole. Ma la partenza mi renderà piu libero di parlare”. Tanto che aprirà un blog su Micromega – si chiamerà “Dall’esilio”, dice sorridendo – per affrontare tutti i temi su cui da pm non avrebbe potuto esprimersi. Nella serata organizzata da Paolo Flores d’Arcais si parla del conflitto d’attribuzioni sollevato dal Colle (per Camilleri, un presidente come Pertini avrebbe semplicemente detto “io non ci sto” alla richiesta di ingerenze), una scelta che, come ribadisce Ingroia, “danneggia le istituzioni e crea tifoserie”.
UNA DECISIONE che “ferisce per via del doppiopesismo – dice il pm – dato che il capo dello Stato non ha sollevato alcuna questione di principio quando si è saputo delle sue telefonate con Bertolaso, nelle quali faceva un’ottima figura”. E il senso d’isolamento che respira il pool di Palermo emerge anche dai molti esempi che cita Ingroia: “Hanno fatto la stessa cosa con i miei maestri, Falcone e Borsellino. Li denigravano, accusavano Paolo di scappare quando andò a lavorare a Marsala, e Giovanni di cercare il consenso della gente. Chi denigra usa sempre le stesse accuse, e continuano a funzionare vent’anni dopo”. Ma a due giorni dal voto in Sicilia si parla anche di quella che, se non è stata una rivoluzione, sicuramente e’ un cambiamento positivo. “Ha fatto bene sia chi non ha votato, cioe’ il 52%, sia chi ha votato il Movimento 5 stelle. Il governatorato in Sicilia negli ultimi anni è stato un’infamia, con uno schifoso clientelismo: c’erano piu’ forestali da noi che in tutta la foresta nera di Germania”, dice Camilleri. E aggiunge: “Sia l’astensionismo che Grillo gridano un grande ‘no’ a certa politica. Poi, altro fatto positivo: quel 31 % di elettori che ha scelto Crocetta, vera barriera dell’antimafia. Se gli lasciano fare il 50 % di quello che ha in mente i vecchi politici se ne pentiranno”.
Sulla stessa linea Ingroia, secondo cui “astensionismo e 5 stelle sono segnali di contestazione contro vecchia politica”.

Corriere 31.10.12
La solitudine degli adolescenti nella scuola incapace ad accogliere
di Silvia Vegetti Finzi


Dinanzi al suicidio di un ragazzino si prova uno sgomento che rende inopportuna ogni parola, come se la vita mostrasse d'improvviso il suo lato più segreto, una insondabile zona d'ombra e di mistero. Due giorni fa, a Roma, Filippo, 10 anni, si è impiccato nel bagno dei nonni senza lasciare motivazione alcuna, solo una domanda aperta che difficilmente troverà risposta ma che, non per questo, deve essere affidata all'oblio. Sappiamo che, in questi casi, l'adolescente non vuole morire ma semplicemente non esserci più, fuggire da una vita che sembra non dargli scampo. Gli mancano, probabilmente, immagini e parole per dar forma all'angoscia, per rendere le emozioni negative pensabili e condivisibili.
Poiché purtroppo Filippo non è solo e dopo di lui ci saranno altri bambini parimenti disperati, non possiamo eludere il compito di riflettere su possibili forme di prevenzione. Tanto più che i conflitti dell'adolescenza emergono sempre più precocemente, quando la mente infantile non è ancora preparata ad affrontarli e risolverli. E una società in crisi non è in grado di proporre a chi cresce mete desiderabili e positive figure di riferimento. Se le generazioni precedenti entravano in crisi intorno ai sedici anni, ora dobbiamo riconoscere che il passaggio dalla scuola elementare alla media costituisce già una prova impegnativa. Sebbene il superamento della maestra unica abbia diminuito il divario tra le due istituzioni, il transito non è indolore: si inasprisce la selezione (gli istituti migliori sono a numero chiuso), si acuisce la competizione. Mentre i genitori lo considerano uno snodo decisivo per il futuro dei figli e se ne preoccupano, molti professori continuano a considerarsi insegnanti (della loro materia) più che educatori complessivi.
Accade così che la scuola accolga gli alunni e ignori gli adolescenti, che solleciti e sostenga i processi cognitivi lasciando inesplorati quelli emotivi. Certo la competenza degli insegnanti è importante ma la fragilità delle ultime generazioni richiede, da parte di tutti, una più avvertita sensibilità, un sentimento di genitorialità compartecipata che renda l'educare, nel senso più completo del termine, un processo diffuso e condiviso.

Corriere 31.10.12
Destra e sinistra, il peccato culturale
di Danilo Eccher


Caro direttore, l'episodio della nomine dell'onorevole Melandri alla Presidenza del Maxxi merita alcune riflessioni generali, non tanto sulle polemiche di questi giorni quanto sui criteri e sulle anomalie emerse di conseguenza. Ora, non ci si può scandalizzare che un politico presieda un'importante istituzione culturale, ciò avviene in molti Paesi occidentali senza alcun clamore o scandalo, neppure ci si deve stupire che un parlamentare possa vantare competenze specifiche, interessi culturali e anche preparazione tecnica. Dunque, cosa dovrebbe stupire più di ogni altra cosa? Innanzitutto il clamore e l'attenzione sull'arte contemporanea, e sui musei ad essa dedicati, da parte di una classe politica vergognosamente assente in tutti questi anni. Personaggi che raramente hanno solcato le porte di un qualsiasi museo si sono improvvisamente svegliati dal torpore e sentiti in dovere di esprimere la loro opinione sul Maxxi, una struttura che probabilmente non hanno mai visto né sanno dove sia ubicata.
Certamente si dirà che le valutazioni politiche possono e debbono prescindere dalla specificità dell'oggetto, che il piano procedurale e legale non richiede una conoscenza diretta del campo d'intervento, e così, chiunque è legittimato a esprimere ogni sciocchezza. Leggere le opinioni di Cicchitto, Gasparri, Fassina, Vendola su questioni di carattere museale è probabilmente oltre ogni immaginazione, è il segno di un'incontinenza verbale che ha travalicato gli argini della vergogna. Ma qui s'innesta anche una riflessione sul ruolo di una destra e una sinistra nell'ambito culturale in Italia. Definitivamente tramontata e scomparsa una destra «futurista», sepolti gli eroi del pensiero eccellente, da Julius Evola a Filippo Tommaso Marinetti, da Ezra Pound a Ernst Junger, è rimasta una destra «chierichetta», codina, moralista, conservatrice nel senso più deteriore. Una destra genuflessa, maggiordomo di un capitalismo gaudente e vizioso, una destra culturalmente malata, incapace di leggere una contemporaneità complessa e frammentata, solo nostalgica di un passato formale, insulso e caramelloso.
Non sta certo meglio la sinistra che, gettando in fretta e furia la propria ideologia, non si è accorta di gettare anche quello spirito di ricerca, di antagonismo, di situazionistica «fantasia al potere», attraverso il quale si era formato il suo sapere e definita la sua anima. Ha confuso lo spirito etico di una cultura alta con una ridicola spocchia di un perbenismo salottiero, ha ridotto in cenere un supposto primato dell'intelletto confondendolo con un più cinico snobismo manierista, ha perfino perso l'elementare ruolo di difesa dei propri alleati. «Utopia» è diventata una parolaccia, una volgarità da ragazzi, l'idea che la cultura indichi una strada che la politica deve poi costruire è un processo totalmente ignoto alla sinistra. Solo ora ci si accorge che il Pd ha addirittura un responsabile per la cultura, Matteo Orfini, faccia simpatica ma totalmente sconosciuta al mondo dell'arte.
In queste condizioni, e a pochi mesi dalle elezioni politiche nazionali, chiedere o semplicemente sperare che destra e sinistra possano illustrare un programma di politica culturale è poco più che una battuta umoristica. Eppure, vorremmo sfidare i partiti a dichiarare quali impegni per la cultura intendono sottoscrivere; vorremmo chiedere quali strumenti intendono attivare per sostenere e promuovere la cultura in Italia; vorremmo capire quali e quante risorse saranno destinate al nostro patrimonio culturale e alla nostra creatività.
Una seconda questione riguarda il ministro dei Beni e attività culturali, un ministero quasi sempre giudicato di «risulta» che ha visto dal dopoguerra, tranne rarissimi casi di qualità, una processione di figure improbabili, inaffidabili, incompetenti, in alcuni casi addirittura caricaturali. Non è il caso del ministro Ornaghi, certamente un fine intellettuale, forse troppo «fine», al limite della trasparenza. Non ci si può dunque stupire se poi, lungo la fragile catena di comando istituzionale, ci troviamo sul territorio nazionale assessori alla Cultura imbarazzanti, spesso privi della pur minima competenza o sensibilità culturale, incapaci di dialogare con le istituzioni che rappresentano, colpevolmente presuntuosi. Il problema allora non è quello di una nomina più o meno controversa, quanto piuttosto l'urgenza di restituire al mondo culturale, a quello delle università, della ricerca, dei musei, dei teatri, del cinema, della letteratura, dell'architettura, della musica, del paesaggio, della creatività quella centralità e quella dignità che in questi anni è stata saccheggiata ma che comunque rimane il dna di ogni società e di ogni nazione.
Direttore della Galleria d'arte moderna (Gam) di Torino

Corriere 31.10.12
Solidarietà al Preside tunisino simbolo della resistenza agli islamisti
di Marco Ventura


Si batte da più di un anno Habib Kazdaghli, preside della facoltà di Lettere della Manouba, a trenta chilometri da Tunisi. Dopo la cacciata di Ben Ali, il popoloso campus della Manouba, luogo simbolo della cultura critica araba, è stato scelto dagli islamisti come terreno di scontro. Invano il preside Kazdaghli ha invitato anche i gruppi islamisti più accesi a integrarsi nel pluralismo universitario; inutilmente ha accettato che le ragazze portassero il velo integrale, il niqab, ovunque nel campus salvo durante le lezioni e gli esami.
Il divieto, per quanto limitato, ha fornito ai salafisti il pretesto che cercavano per occupare la facoltà, intimidire le professoresse «prostitute» perché a capo scoperto, cacciare il preside. Lui, Habib Kazdaghli, servitore dello Stato, custode della gloriosa storia intellettuale della Manouba, ha trasformato la sua utilitaria in presidenza. Si è messo a firmare carte sul cofano. Poi l'occupazione è sembrata allentarsi, Kazdaghli è tornato al suo ufficio. Fino allo scorso marzo, quando alcune ragazze in niqab hanno fatto irruzione in presidenza e hanno saccheggiato l'ufficio di Kazdaghli.
Mentre il preside si recava dalla guardia nazionale per denunciare l'accaduto, una delle ragazze, Imen Berrouha, ha a sua volta denunciato il preside per averla schiaffeggiata. Da marzo in qua, l'ombra di una condanna a 15 giorni di carcere del preside illuminato, studioso dell'ebraismo e profeta di una Tunisia libera e plurale, ha eccitato gli estremisti e assillato gli intellettuali. Infine, la scorsa settimana, il tribunale della Manouba ha rinviato a giudizio Habib Kazdaghli riformulando il capo d'imputazione. Non più semplice aggressione, ma violenza nell'esercizio delle funzioni di pubblico ufficiale. Quando tra qualche settimana il preside andrà davanti al giudice rischierà non più 15 giorni, ma cinque anni di carcere. Molti professori in Europa si sono mobilitati. La solidarietà con il preside Kazdaghli continuerà a crescere. Travalica ogni confine la semplice tenacia di questo testimone della libertà; è vitale per tutti la sua resistenza.

il Fatto 31.10.12
Qui Berlino Il tramonto del vascello Pirata
Gli elettori tedeschi sono sempre più delusi dal partito che avrebbe dovuto diffondere la “democrazia partecipata”


La vaghezza dei programmi del Partito Pirata in vista delle elezioni dell’anno prossimo sta alienando al movimento le simpatie degli elettori. Ma è anche una questione di comportamenti: qualche giorno fa uno dei massimi esponenti del partito, Johannes Ponader, è finito sulle prime pagine di tutti i giornali per essersi comportato in maniera discutibile durante un talk-show televisivo. Cosa ha fatto? Si è fatto massaggiare i piedi, ha abbracciato ripetutamente la conduttrice del programma e ha parlato diffusamente della sua vita amorosa turbolenta e per molti aspetti scandalosa.
La scorsa primavera il partito era dato al 13%, ma l’elettorato ha cominciato a sospettare che quello dei Pirati sia solo spettacolo e così, secondo il sondaggio più recente, il partito è precipitato al 5% col rischio di non superare la soglia di sbarramento e di rimanere fuori del Bundestag. “Non offriamo un programma, ma un sistema operativo”, dichiarava un anno fa Marina Weisband, allora leader del partito. In realtà qualche semplice aggiornamento del sistema operativo non basta a conquistare elettori né a governare il Paese. Per farlo ci vogliono i programmi. Insomma oltre all’hardware ci vuole un ottimo software.
A TUTT’OGGI non si sa ancora chi sarà il leader alle prossime elezioni politiche. Molti esponenti di primo piano, tra cui la stessa Weisband, hanno fatto un passo indietro. Nel partito regna la più totale confusione. Ad esempio Schlomer, eletto sei mesi fa segretario del partito, non ha ancora preso possesso della carica. Altri leader, tra cui Sebastian Nerz, vice di Schlomer, hanno annunciato la loro intenzione di non candidarsi alle prossime elezioni. “Il nostro principale problema, scandali personali a parte, è che non sembriamo in grado di comunicare alcunché di concreto agli elettori”, ha dichiarato Nerz. Le polemiche non mancano. L’editore di Julia Schramm, figura di primo piano del partito a Berlino, ha sporto una denuncia contro ignoti dopo essersi accorto che molti scaricavano da Internet copie piratate del libro scritto dalla Schramm, iniziativa questa in contraddizione con la posizione del partito che si batte per l’abolizione del copyright. La cosa grave è che Julia non ha preso posizione contro il suo editore.
Nei quattro Land nei quali il Partito Pirata ha eletto dei rappresentanti, i primi passi di questi novellini della politica hanno suscitato la meraviglia e il dileggio degli altri partiti. Il fatto è che molti sono impreparati. Jasmim Maurer, 23 anni, dice: “È come andare all’università. Ogni giorno imparo qualcosa di nuovo”. Sei mesi fa Jasmin aveva abbandonato gli studi presso la facoltà di giurisprudenza senza conseguire la laurea e ora è uno dei quattro rappresentanti del Partito Pirata nel parlamentino del Saarland, è membro della Commissione istruzione e da lei ci si aspetta una competenza che chiaramente non può avere. Il partito aveva basato la sua campagna elettorale sulla trasparenza, ma non è riuscito a mantenere le promesse. “Abbiamo le mani legate”, si lamenta Michael Neyses. “La legge ci vieta persino di mettere sul nostro sito i documenti del nostro gruppo parlamentare”.
ALL’INIZIO le parole d’ordine dei Pirati hanno fatto presa sull’opinione pubblica, ma piano piano ci si è accorti che al partito mancano solide fondamenta politiche in grado di unificare le varie posizioni. Spesso gli elettori non riescono a capire come la pensa il partito su determinate questioni.
In sostanza al momento sembra vacillare persino lo zoccolo duro del partito. Quando la leadership ha chiesto ai simpatizzanti di avanzare on line proposte politiche e suggerimenti, le risposte sono state pochissime. Brutto segno per un movimento che puntava a diffondere la “democrazia partecipativa” grazie alla rete.
© 2012 Der Spiegel – Distribuito da The New York Times Syndicate Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

La Stampa 31.10.12
Ecco tre ragioni valide per far declassare le grandi banche cinesi
di John Foley


Le banche cinesi godono di valutazioni che la maggior parte delle concorrenti occidentali farebbe di tutto per ottenere. Tuttavia, in confronto ai guadagni, i prezzi delle loro azioni sembrano miseri. Secondo Reuters Eikon, le sette maggiori banche del Paese sono valutate in media a 1,2 volte il loro valore contabile più recentemente calcolato, nonostante il Roe aggregato sia superiore al 20%. Cinque anni fa, una redditività minore ha permesso loro di disporre di multipli 4,5 volte superiori al valore contabile. Sebbene il declassamento sia una manovra severa, è però giustificata.
Vi sono tre buone ragioni per essere cauti. Innanzitutto, i dati positivi riportati nel terzo trimestre non mostrano un deterioramento delle condizioni del credito. Gli istituti di credito cinesi, presi nel complesso, possono infatti vantare pochissimi crediti deteriorati, ossia meno dell’1% dei loro portafogli prestiti. Dato che il settore bancario cinese ha raddoppiato i suoi prestiti nel corso degli ultimi tre anni, questi bassi crediti inesigibili non sono sostenibili. Il secondo problema risulta essere la liquidità. Complessivamente le banche hanno prestato l’equivalente del 68% dei loro depositi e, nel caso di AgBank, solamente il 58%, a fronte di un limite stabilito al 75%. Tuttavia, il mercato interbancario mostra segni di tensione. I tassi impennano quando le banche richiedono più depositi mentre i tassi interbancari salgono alle stelle durante i periodi di scarsa liquidità. La differenza tra i saldi medi delle banche e i loro saldi alla fine di ogni trimestre suggerisce inoltre che il bilancio di facciata è una pratica molto comune. Infine, vi è il capitale. Sino a poco tempo fa, gli istituti di credito cinesi sono stati quelli maggiormente capitalizzati, tuttavia ora la situazione è diversa. Il coefficiente di fondi propri di base della AgBank pari al 9,8% è di poco superiore alla soglia minima del 9,5% richiesta dalle autorità di regolamentazione. La Bank of China sta andando meglio, con un coefficiente del 10,4%, tuttavia l’anno prossimo ulteriori aumenti di capitale potrebbero essere esclusi. Con così tante incognite, le basse valutazioni non sembrano dopo tutto un gran mistero.

Il Mattino 31.10.12
Il mondo? E’ già finito cinque volte
L’Apocalisse come timore permanente. Telmo Pievani filosofo della scienza spiega perché
di Francesco Mannoni


La fine del mondo? Rinviata a data da destinarsi. Non è la prima volta che i sapientoni fanno cilecca. «In passato il mondo è finito varie volte per cause prodotte tutte da eventi biofisici su scala globale. In parte asteroidi, eruzioni vulcaniche catastrofiche, deriva dei continenti e oscillazioni climatiche che hanno prodotto eventi paragonabili alla fine del mondo. Ma non sono previste catastrofi naturali per il 21 dicembre 2012». Telmo Pievani, docente di Filosofia della scienza nell’Università di Milano Bicocca e autore del saggio Fino alla fine del mondo (Il Mulino pagg. 120, euro 15) spiega i contenuti del suo ultimo libro il cui sottotitolo Guida per apocalittici perplessi, la dice lunga sul suo atteggiamento verso la fine del mondo che, secondo il calendario Maya, è prevista per il prossimo 21 dicembre. Per il popolo Maya, quello che stiamo vivendo è il quarto ciclo della creazione. I tre precedenti sono stati distrutti dagli dei, e per il quarto si profila lo stesso destino. Il ciclo misura 144.000mila giorni, e dovrebbe scadere appunto il 21 dicembre. E poi arriverebbe la fine di tutto. Ne parliamo con il professor Pievani. Professore, che credito si può dare al calendario Maya? «Legare la fine del mondo alla data del calendario Maya è pura fantasia. Nonostante i Maya avessero delle conoscenze astronomiche formidabili che hanno applicato anche per prevedere i fenomeni del futuro, le eclissi e quelli che chiamavano gli allineamenti dei pianeti, che per loro non hanno alcun significato astronomico, ma religioso, non hanno mai ipotizzato la fine del mondo». Perché l’uomo è ossessionato dalla fine del mondo? «Quest’ossessione è un motivo ricorrente in tantissime culture e in tante credenze religiose che attraversano visioni del tempo molto diverse. La risposta che si sono dati i filosofi è che in fondo, la fine del mondo, è un modo per dare significato alla Storia. Se il tempo finirà, vuol dire che tutto quello che stiamo vivendo adesso avrà una sua evoluzione naturale, e alla fine raggiungerà il suo compimento. Questa idea si associa poi ad altri significati. La religione cristiana, ad esempio, in tutte le sue declinazioni, è associata all’idea di una rivelazione. L’Apocalisse vuol dire rivelarsi del senso della storia, e poi si accomuna al giudizio che vuol dire la separazione dei giusti dagli empi. Per gli scienziati, la fine del mondo c’è già stata tante volte – cinque le catastrofi più dirompenti – e ha riguardato molte altre forme viventi, tanti animali e piante del passato che non ci sono più. In realtà, siamo ossessionati perché siamo i figli della fine del mondo degli altri e senza quelle catastrofi del passato, non ci saremmo». Di queste cinque catastrofi, quale la più devastante? «L’ultima, quella che conoscono tutti, che ha portato all’estinzione dei dinosauri, anche se una piccola famiglia è sopravvissuta e ha dato vita agli uccelli. Quella catastrofe avvenuta sessantacinque milioni di anni fa, rapida, improvvisa, drastica, è stata innescata dall’impatto di un asteroide sulla terra. Le altre quattro precedenti hanno distrutto una percentuale enorme di specie viventi, e la più grave di tutti è avvenuta 250 milioni di anni fa: ha portato all’estinzione di più del 90% di tutti gli esseri viventi di allora». Il motore dell’evoluzione ha rischiato di fermarsi? «Sì, c’è stato questo pericolo, poi però il motore dell’evoluzione è ripartito, e noi veniamo fuori dai pochi sopravvissuti di quell’ecatombe. Se facciamo due conti banali, e conteggiamo quante specie biologiche abbiamo estinto noi esseri umani da quando abbiamo inventato l’agricoltura in poi (dodici millenni circa) vengono fuori delle stime paragonabili a quelle delle grandi catastrofi del passato». Fino a che punto l’uomo può continuare a essere la fine del mondo delle altre forme viventi? «Il libro gioca tutto intorno a questo, usando uno schema narrativo molto semplice, e le cinque parole chiave della fine del mondo: la catastrofe, il disastro, l’apocalisse, l’estinzione e la nemesi. Tutte parole classiche della storia del pensiero». È più probabile che la fine del mondo avvenga a causa dei nostri comportamenti sbagliati nei confronti della natura e degli altri esseri viventi? «L’uomo contemporaneo sta predisponendo gli elementi per una tempesta perfetta. È una situazione molto rara, in cui si creano delle condizioni per una bufera mai vista prima. Gli scienziati hanno fatto notare che certe cose stanno succedendo proprio adesso. Il clima sta cambiando rapidamente; l’atmosfera ha una composizione che sta modificando in ragione dell’aumento dell’ossido di carbonio nell’aria, e c’è un agente ecologico molto impattante: noi, che graviamo in modo drastico sugli ecosistemi».

La lezione di Nietzsche, quanto egoismo c’è nell’amore
di Corrado Ocone


È un piccolo, prezioso libro questo Elogio dell’egoismo di Armando Torno che Bompiani manda in libreria in questi giorni (pagg. 132, euro 10). Lo si gusta perché è scritto in modo chiaro e vivace, pur non essendo mai banale. È un libro colto che non fa pesare la dottrina che vi è infusa: è la dimostrazione di come si possa divulgare la saggezza filosofica senza scegliere la via ad effetto di certa pop filosofia. Il libro va ascritto al genere, tanto in voga nei secoli scorsi, del «moralismo», cioè di una riflessione pacata e non retorica sui mores, i comportamenti e i costumi umani. Può allora capitare che quello che è generalmente considerato un vizio, appunto l’egoismo, in un processo finale di agnizione, si scopra svolgere un ruolo essenziale e in positivo nell’economia generale dell’umanità. A Torno però non interessa mettere in evidenza le conseguenze inintenzionali del nostro agire, come a certi fanatici hayekiani odierni. Egli indaga l’unicità della radice da cui sgorgano sia il bene sia il male: la stessa forza vitale che, trasbordando, porta a far danno al prossimo, ed è quindi un male, temperata e trasvalutata, può presentarsi come un positivo «amor proprio», come quel volersi bene che è la prima condizione per fare il bene al prossimo. Certo, c’è molto Nietzsche in questo Torno, che smaschera i sentimenti più nobili mostrando come siano impastati dell’elemento semplice dell’egoismo. A cominciare dall’amore, che non ci fa tanto amare i nostri partner quanto la loro capacità di amare noi. C’è poi molto Hegel: solo un pensiero dialettico riesce a vedere come un elemento si trasforma nel suo contrario. E come una visione del tutto ci porta a «redimere il mondo dal male». E c’è anche Croce, l’unico filosofo, a quanto mi consta, ad aver elevato l’Utile a categoria spirituale degna quanto le altre.
La Stampa 31.10.12
Sorpresa, tornano di moda gli Anni 30
Come oggi economia e politica dovettero ripensarsi. Ecco perché si guarda a quel decennio
Viviamo le stesse inquietudini che ritroviamo nelle opere di artisti e architetti dell’epoca
di Giovanni De Luna


“Anni tra le due guerre” è una definizione che per gli Anni 30 è una specie di condanna. Una fortunata serie di documentari americani si intitolava Between, tanto per non lasciare dubbi: quel decennio era solo un intermezzo tra le due guerre mondiali, schiacciato dalla loro dimensione eccessiva e dalla loro violenza. Per gli italiani, poi, erano gli anni del fascismo; anni di trionfi imperiali, leggi razziali, coscienze addormentate. Con il tempo, anche quel periodo ha ritrovato un suo spessore esponendosi semmai al rischio opposto della glorificazione. Nel 1984, una Mostra al Colosseo dedicata all’economia italiana «tra le due guerre mondiali» (era questo ovviamente il titolo) rese espliciti, ad esempio, i primi segnali di un revisionismo che, all’ombra del «socialismo tricolore» e dell’apertura di Craxi verso il Msi, si proponeva una strisciante riabilitazione del regime mussoliniano.
In campo artistico, invece, la considerazione per gli Anni 30 ha seguito un suo percorso autonomo. La grande Mostra fiorentina del 1967 ( Arte moderna in Italia, 1915-1935), fortemente voluta da Carlo Ludovico Raggianti che era stato uno dei fondatori del Partito d’Azione, propose migliaia di opere senza prestarsi a nessuna riabilitazione postuma. Ci si interrogava allora su se fosse davvero esistita un’arte fascista, un organico progetto culturale del regime a cui gli artisti si erano uniformati. La risposta fu che, se non era possibile parlare di un’arte fascista, furono certamente fascisti molti pittori del tempo; come scrive Emilio Gentile, «artisti e architetti parteciparono con la loro opera alla costruzione e alla rappresentazione della “nuova civiltà” dell’Italia fascista, convinti di contribuire all’affermazione di un nuovo primato italiano, come soluzione alla crisi della modernità». Ora la Mostra di Palazzo Strozzi («Anni 30. Arti in Italia oltre il fascismo»), lo ribadisce. Certamente, in queste operazioni culturali è sempre il presente a imporre la sue priorità al passato. Se si decide oggi di ricordare gli Anni 30 è perché nello spirito del nostro tempo qualcosa ci spinge a riconsiderare quegli anni, qualcosa che nasce direttamente dalle nostre inquietudini.
Non a caso anche in Spagna, nel 75° anniversario del Guernica di Picasso, il Museo Reina ospita una mostra dedicata ai più importanti artisti del XX secolo proponendo una lettura di quel decennio segnata da una contraddittorio rapporto tra l’arte e il potere; da un lato l’ossequio anche servile alle direttive degli Stati e della politica, dall’altro la sperimentazione di nuovi linguaggi, il tentativo di resistere alla violenza dilagante aprendosi alle forme narrative della contemporaneità (il cinema, la radio, la fotografia, la pubblicità che accompagnava i primi vagiti del consumismo). La Mostra celebra Guernica e non nasconde nessuna nostalgia revisionista. E anche la Mostra fiorentina, a differenza di quella del 1984, non c’entra niente con il revisionismo. Il disagio espresso dagli artisti di quel decennio era quello del mondo segnato dalla grande crisi del 1929. Il fascismo, l’ascesa al potere di Hitler, la guerra civile spagnola c’entravano, ma c’era anche qualcos’altro. Ci fu un momento in cui si ebbe la sensazione che ad andare in pezzi non fosse solo un sistema economico. Una foto di Dorothea Lange, la Madre profuga, il ritratto della famiglia dolente, con le tre figlie strette intorno alla mamma in un desolante quadro di povertà e di tristezza, è ancora oggi un’immagine carica di sapore evocativo delle condizioni in cui versava l’America dopo il giovedì nero (il 24 ottobre) del crollo di Wall Street. Il crac durò 22 giorni e le sue conseguenze furono devastanti. I dati relativi alla produzione industriale, agli investimenti e alla disoccupazione stanno chiaramente a indicare come non vi fu paese industrializzato che non fosse prima o poi investito dalla tempesta. Nel 1933, i disoccupati nei Paesi industrializzati erano circa 30 milioni, con percentuali altissime in Inghilterra, in Belgio (22-23%) e in Germania (44%). La disoccupazione colpiva soprattutto i più deboli: gli immigrati, le donne più degli uomini, negli USA più i neri che i bianchi. Solo la Seconda Guerra mondiale riportò il pieno impiego. Anziché trenta milioni di disoccupati, ci furono cinquanta milioni di morti.
Il mondo del capitalismo fu costretto a cambiare pelle. Si capì, allora, che per limitare i danni non ci si poteva affidare ai meccanismi spontanei del mercato; per consentire all’economia di risollevarsi sarebbe stato decisivo l’intervento dello Stato nel duplice ruolo di sostegno alla domanda dei prodotti industriali e di ammortizzatore del disagio sociale. Piuttosto che soccorrere i disoccupati all’infinito, si poteva provocare una ripresa dell’economia finanziando grandi opere pubbliche e aumentando il numero dei posti di lavoro: fu questa, allora, una scelta che fecero tutti gli Stati, le democrazie come le dittature (il nazismo in Germania, il fascismo in Italia, lo stalinismo in Urss, la politica del New Deal negli Usa, il Fronte Popolare in Francia).
Nelle convulsioni seguite alla «grande crisi» sparì per sempre il modello di Stato liberale così come si era definito nella sua versione ottocentesca. Era lo Stato «guardiano notturno», che si limitava, cioè, a stabilire poche regole essenziali per l’economia e la società civile. Non fu più così; il «lungo Ottocento» finì allora e gli Anni 30 furono lo scenario in cui si dileguarono tutte le vecchie certezze. Ci fu un nuovo inizio. E gli artisti lo interpretarono ciascuno con la propria sensibilità, ma tutti ugualmente coinvolti in quell’ansia di ricerca. È la stessa sensazione che stiamo vivendo oggi, nella consapevolezza che ci siamo lasciati alle spalle il Novecento, ma senza avere una rotta da seguire.

Corriere 31.10.12
I magnifici sei ispirati da Amore
Un'antologia dei poeti stilnovisti contemporanei di Dante
di Cesare Segre


Della scuola poetica toscana fiorita nella seconda metà del Duecento, era ovvio che Dante diventasse il capofila. Si sa che questi poeti seguivano le orme dei rimatori siciliani dell'età di Federico, soprattutto nella predilezione per la tematica amorosa. Stando anche alle testimonianze manoscritte, andrebbero divisi in due gruppi: quello dei poeti siculo-toscani, meno originali, e quello degli stilnovisti, cui si devono grandi innovazioni di lingua e di tematica. Il nostro istinto classificatorio ci induce a considerare questi due gruppi l'uno successivo all'altro. Invece le date, quando ci sono, attenuano il rigore di questa distinzione: Onesto da Bologna e Bonagiunta, della vecchia scuola, scambiano sonetti e critiche con Guinizzelli e con Cino da Pistoia, Guittone discute con Guinizzelli, e Guido Orlandi con Guido Cavalcanti. Queste tenzoni poetiche ci introducono nel pieno della polemica sulla poesia, dandoci un'idea dei temi affrontati, e anche delle novità in gioco. Sono polemiche anche interne alle scuole, come quella, importantissima, tra Cavalcanti e Dante, che continua anche nella Commedia. Degna di nota la varietà dei toni, dal rispettoso all'ironico, dal severo all'autorevole. E la gara mette subito in vista le qualità di ogni contendente: a differenza dai nostri blog, non si poteva sgarrare.
Si noti poi che Dante, mentre polemizzava con i rimatori contemporanei, stava elaborando un suo mito personale, cui rapportava le proprie idee di poetica e linguistica, in attesa di giudicare il mondo intero, come farà con la Commedia. La Vita nuova è già una storia della sua poesia sino alla maturità. Insomma, non si può parlare di Stilnovo senza mettere al centro Dante. Solo per opportunità di spazio, di solito si separa Dante dai poeti della sua scuola, e così fa Donato Pirovano, nel bel volumetto della collana «I diamanti» sui Poeti del Dolce Stil novo (Salerno Editrice, Roma, pp. XLVIII-798, € 22).
Non molte, stranamente, le raccolte di questo genere, come quelle di L. Di Benedetto 1939; M. Marti 1969; M. Berisso 2006; ancora meno quelle ancora in commercio. Uno degli ostacoli è la mancanza di un'edizione attendibile di Cino da Pistoia, il più prolifico della scuola; ma si può lavorare lo stesso. E Pirovano ci offre una raccolta praticamente completa e commentata, aiutando il lettore a orientarsi fra le composizioni dei sei poeti raccolti (Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Gianni Alfani, Dino Frescobaldi, Cino da Pistoia).
Ma è esistito lo Stilnovo? Non si tratta di un'ingegnosa ipotesi dei filologi? Certo, non esiste un atto ufficiale di fondazione. Ma Dante era ben consapevole dell'unità del gruppo, e si direbbe che il suo itinerario oltremondano sia concepito in modo da fargli incontrare i colleghi poeti (sempre in Purgatorio, mai in Paradiso!). Si veda in particolare la lunga conversazione, in Purgatorio XXIV, con il siculo-toscano Bonagiunta, che sconta i suoi peccati di ingordigia (goloso anche lui di «anguille di Bolsena e di vernaccia» come il suo compagno di pena Martino IV?). Dante gli illustra la propria poetica, che consisterebbe, essenzialmente, nel comporre solo sotto l'ispirazione (la «dettatura») d'Amore. E Bonagiunta dichiara che ora finalmente ha capito che cosa è mancato a Guittone e a lui per essere all'altezza del «dolce stil novo ch'io odo». Del sintagma «dolce stil novo» i filologi hanno fatto un manifesto; certo l'espressione è così felice che sembra inventata apposta, da Dante, per diventare un blasone. Si noti che, al tempo della Commedia, quella scuola era finita. Ma appunto per questo, Dante ne ricostruisce, in vari incontri, le caratteristiche. Per esempio, tra i lussuriosi del Purgatorio (XXVI), Dante ritrova Guinizelli, e lo definisce padre di quanti hanno saputo creare «rime d'amor dolci e leggiadre», cioè degli stilnovisti. E già il miniatore Oderisi da Gubbio, nell'XI del Purgatorio, aveva confrontato la crescita della fama di Giotto rispetto al prima famoso Cimabue, col superamento di Guido Guinizelli da parte del Cavalcanti. E «forse», dice Oderisi, «è nato / chi l'uno e l'altro caccerà del nido»: cioè Dante.
Dunque non solo si parla di poeti o di gruppi di poeti, ma dell'affermarsi e del decadere dei canoni: come fa Guinizelli parlando anche di Arnaldo Daniello e di Guittone e del segmento di civiltà letteraria che li aveva uniti. La forte coscienza di sé non cancellava certo nella mente di Dante la consapevolezza che la poesia ha una storia, di cui lui stesso si era fatto guida e garante.

Repubblica 31.10.12
La fine dell’umanesimo

Addio cultura umanista per i ragazzi non ha senso
Noi insegnanti parliamo di autori e temi che ai giovani sembrano polverosi e malinconici
Quell’altrove culturale dove vivono gli studenti
di Marco Lodoli


«Io non esisto più, sono diventata invisibile», mi dice una professoressa con la voce spezzata e gli occhi umidi. «Entro in classe, comincio a spiegare e subito mi accorgo che nessuno mi ascolta. Nessuno, capisci? E così per giorni, mesi, forse per tutto l’anno. La mia voce non gli arriva, parlo e vedo le parole che si dissolvono nell’aria, e dopo un poco mi sembra che anch’io mi dissolvo, resta solo un senso di impotenza, di fallimento». Quante volte negli ultimi anni ho raccolto dai miei colleghi sfoghi di questo genere: professori di lettere, storia, filosofia, arte che si sono ben preparati per la loro lezione e che finiscono a parlare nel vuoto, come radioline lasciate accese in un angolo, e a poco a poco si scaricano, si spengono malinconicamente. Perché accade questo, perché sembrano saltati i ponti e le rive si allontanano sempre di più? A riguardo mi sono fatto un’idea.
Finita, esaurita, muta, forse non proprio morta e sepolta ma di sicuro messa in cantina tra le cose che non servono più: la cultura umanista sembra aver concluso il suo ciclo, ai ragazzi non arriva più niente di tutto quel mondo che ha ospitato e educato generazioni e generazioni, che ha prodotto una visione del mondo complessa eppure sempre animata dalla speranza di poter spiegare tutto nel modo più chiaro, adeguato alla mente dell’uomo, alle sue domande, ai suoi timori. Finito, possiamo mettere una pietra sopra alla filosofia greca, alla potenza e all’atto, alla maieutica e all’iperuranio, alla letteratura latina, alla poesia italiana da Petrarca a Luzi, al pensiero cristiano e a quello rinascimentale, con le loro differenze e le loro vicinanze, ai poemi cavallereschi e agli angeli barocchi, all’idealismo tedesco e al simbolismo francese, a Chaplin e Bergman, Visconti e Fellini: è tutto precipitato giù per le scale buie della cantina, tutto scaraventato alla rinfusa nel deposito degli oggetti perduti. È chiaro che da qualche parte, in un eccellente liceo classico, esiste e resiste un ragazzo che legge Platone, scrive sonetti, suona il violino e studia la pittura di Raffaello, la vita per fortuna si diversifica per avanzare. Ma per la stragrande maggioranza dei ragazzi di oggi tutto il patrimonio culturale del nostro paese non significa più niente. È un universo in bianco e nero, malinconico, pensante e dunque pesante, polveroso come una parrucca. E non serve che gli adulti lo lucidino per farlo apparire più vivo: se brilla lo fa come una bara.
È così, c’è poco da fare, l’oceano del passato non arriva più a lambire la spiaggia del presente. Anche Huckleberry Finn rifiuta la storia di Mosè e della manna nel deserto quando scopre che Mosè è morto da secoli, della gente morta un ragazzo non sa che farsene, dice Huck e forse ha ragione. Ma per la mia generazione, e quella di mio padre, e quella di mio nonno – e più indietro non vado – il passato non era un tempo che svaniva insieme ai foglietti del calendario. Certi morti non erano mai morti. Fossero gli eroi greci o quelli del Risorgimento o Che Guevara, fosse Mozart o John Coltrane o Luigi Tenco, i grandi continuavano a vivere nell’immaginazione e nella riconoscenza dei ragazzi. Una catena d’acciaio o una ghirlanda di fiori univa il meglio al meglio, la bellezza alla speranza, la forza alla fiducia. Leggevo Dostoevskij e Tolstoj come se fossero dei fratelli maggiori, non li collocavo nel regno cupo dei morti, le loro parole erano vive, non sussurrate da un tempo lontanissimo fino a perdersi nell’incomprensibilità. E i quadri di Bellini e quelli di Morandi entravano a far parte dello stesso museo interiore, ogni giorno una nuova opera si sistemava su una parete vuota: e le pareti erano infinite, come le meraviglie del passato.
Oggi i ragazzi non si voltano più indietro, gli prende subito la tristezza perché alle spalle avvertono solo un cimitero degli elefanti. La vita è adesso, qui e ora, e poi di nuovo qui e ora, e quello che è stato è stato, e tutte le chiacchiere dei vecchi sono fumo nel vento. Il presente si nutre di se stesso, digerisce se stesso e va avanti. L’arte, il pensiero, la letteratura dei secoli andati è lenta, è puro impedimento vitale, ruminamento in epoca di fast food. Naturalmente anche la politica esce con le ossa rotte dalla fabbrica delle nuove produzioni mentali e sentimentali: anche la politica è fumo nel vento. Questa è la stagione del desiderio, dell’onnipotenza tecnologica, dei corpi che vanno più veloci del pensiero, è la stagione del disprezzo verso ogni forma di misura, di armonia, di compostezza classica, di ragionamento lento e articolato. Sillogismi, rime, consonanze, prospettive, equilibri, riflessioni sulla miseria e la grandezza dell’uomo: via, giù tra le macchine da cucire e il cinema muto, tra i libri dei poeti e i fiori secchi. La cesura è netta, un taglio secco, del passato non si recupera quasi nulla, la cultura umanista finirà tutta quanta in una bella mostra a Roma o a Firenze, e ci sarà la fila per ammirare il cadavere mummificato: ma i ragazzi stanno tutti altrove, davanti a qualche schermo acceso, su qualche aereo che vola sul mondo, in un futuro che allegramente, superbamente, se ne frega di ciò che è stato e che non sarà mai più.
Non è detto che questo dichiarato disinteresse per la tradizione sia una pura sciagura. Il mondo cambia di continuo, a volte lentamente, per passaggi quasi impercettibili, a volte in modo brusco, in una sola stagione, in un minuto. I nostri ragazzi leggono altri libri, ascoltano altra musica, amano e odiano in un altro modo, ragionano seguendo strade invisibili, e noi adulti non dobbiamo solo rimproverarli perché non conoscono Cechov o Debussy, Pasolini o Bob Dylan. Dobbiamo invece assolutamente capire dove stanno andando, perché ci salutano senza nemmeno voltarsi, perché non si fidano più della nostra cultura. Oggi loro sentono che la vita è altrove e la memoria non basta a reggere l’urto con le onde fragorose del mondo che sarà, che è già qui: serve energia, e quella non la trovi più nei cataloghi e nei musei.

Repubblica 31.10.12
“Caro Luchino nessuno mi ha amato” firmato Elsa Morante
Gli amici di Elsa
Esce un libro che raccoglie la corrispondenza della scrittrice con molti grandi autori e artisti Tra confessioni private e scambi letterari
Le lettere della Morante da Moravia a Visconti “La mia mente così disordinata”
di Elena Stancanelli



Ci sono Parise e Lalla Romano, la Ortese e Calvino, ma anche un ragazzo aristocratico inglese che le scriveva parole sensuali e molto sfacciate

Scrive Goffredo Parise a Elsa Morante: «Tu hai il dono della riflessione fuori di sé, della contemplazione, in altre parole della fantasia creatrice... ma sei infelice, della infelicità del tutto, della tragicità della carne e dell’apparenza breve, brevissima delle cose ». Quello che sentiamo per la scrittrice Morante è tutto in queste parole. Maestra, mai sorella. Ha lettori devoti, il rispetto di tutti, ma incute soggezione. In questa sua lotta tra genio e dolore, non vediamo leggerezza. Per questo motivo L’amata (che esce ora per Einaudi) è un libro preziosissimo, oltre che incantevole. E ricchissimo di legami, da Henze a Rodari, dalla Ortese a Gassman, da Garboli a Bellezza fino a Sofri.
L’epistolario di uno scrittore non è la sua biografia, piuttosto un romanzo ulteriore. Ma ogni tanto le lettere scartano, si sfilano dal flusso di una narrazione sempre tenuta per rivelare un gesto, una debolezza magnifica, della persona scrittore. Leggendo
L’amata, scopriamo che lei, temuta e adorata, a sua volta adorava e temeva. Landolfi, per esempio, scrittore al quale si rivolge come una timida ammiratrice. Pasolini, ovviamente. Lalla Romano, Calvino e Ginzburg, sia pure con alcune eccezioni. E ogni volta che Elsa eccepisce, lo scrive, con la sua irredimibile sincerità. Scopriamo quanto è stata amata, di un amore sensuale e sfacciato, dal bel ragazzo inglese (si firma RTM, questo è ciò che sappiamo di lui, e che è ricco e aristocratico, forse) che le scrive lettere in un italiano zoppo ed esilarante, volgare e molto erotico.
Una relazione passionale durata ben oltre la sua fine reale. Storie d’amore parallele e intrecciate, tessute nel matrimonio che lui, Moravia, non avrebbe mai voluto rescindere. Nel momento della crisi finale, dopo la morte di Bill Morrow, la supplica quasi, di non lasciarlo, di non abbandonare casa e piccole abitudini. Non ho che te, scrive Moravia, te e le scrittura e adesso entrambe mi lasciate. Scopriamo la tenerezza disarmante di Elsa innamorata pazza di Luchino Visconti, verso il quale si sporge dichiarandosi e offrendosi. Salvo poi ritrattare, nelle lettere successive, firmandosi col nome dei suoi gatti. «Riconoscermi adulta e sterile, e desiderio stravagante di essere un ragazzo», scrive a Landolfi parlando de L’isola di Arturo.
Quel ragazzo, quel ragazzino che avrebbe dovuto salvare il mondo e che Elsa Morante non sarà mai. Ma la cui vivacità, il cui guizzare sotto la superficie, in queste lettere intuiamo. E che ci seduce.

AD ALBERTO MORAVIA , 1950 (?)
Caro Alberto, non riesco a dormire, e scrivo a te per dirti quello che già da molti mesi avrei dovuto dirti, e cioè che ti prego di perdonarmi il mio comportamento di questi ultimi tempi, e, soprattutto, di non credere mai che esso significhi la fine del mio grande affetto per te. Se tu sapessi il disordine della mia mente, che malgrado tutto riesco a nascondere, e l’incertezza che ho in ogni momento, l’impressione di sterilità, e aggiunta a questa la passione veramente strana e quasi inaudita per molti versi che mi è capitata, avresti pena di me più ancora di quella che hai.
Non credere che io non ti sia grata per il modo che usi verso di me e di cui mi ricorderò sempre. Sto molto male, non so se riuscirò a ritrovare un equilibrio in qualche cosa. Vorrei poter lavorare davvero, o amare davvero, e sarei felice di dare a qualcuno o a qualche cosa tutto quello che posso, purché la mia vita fosse compiuta finalmente e trovassi il riposo del cuore.
A te voglio tanto bene, un giorno capirò che sei sempre la persona a cui voglio più bene al mondo. Ma adesso perdonami la mia malattia. Buona notte – ti bacio
[scritto trasversalmente su margine]
Per 4 anni ho lavorato tanto, tanto che mi pare impossibile, e a che è servito?

A LUCHINO VISCONTI, 12 OTTOBRE [1952] NOTTE
Mio diletto Luca, perché le persone amate sono sempre così intangibili, e ambigue e straniere? Perché il dolore non si stacca dalla loro figura adorata, che non si osa toccare per paura di smarrirla – e perché a loro non si può dire tutto, [parola illeggibile] spiegarsi fino in fondo? Condanna che non si sconta mai – fino al giorno che non si ama più, e ci si accorge che spiegarsi era così facile, ma non serve più a niente ormai.
Luca Luca mio caro adorato la timidezza e la paura mi legano quando sono con te e tutta la sofferenza che tu m’hai dato fa un muro fra me e te quando ti sono davanti – aiutami anima mia vienimi incontro – se mi vuoi bene, aiutami – Caro anima mia

A LUCHINO VISCONTI, GENNAIO 1953
Caro Luchino, non so se tu pensi davvero quello che m’hai scritto: cioè che io evidentemente seguo un trattamento. Io non saprei seguire nessun trattamento, nemmeno per le malattie. Per quello che tu dici, poi, mi pare impossibile anche di pensarlo. Non voglio che tu lo creda, e, nel dubbio, pure se tu l’hai scritto solo per gioco, ti rispondo con serietà.
Sarebbe impossibile spiegarti adesso in questa lettera tante cose che non ho mai saputo spiegarti nemmeno con la voce.
Credevo sempre che te le avrei dette e ho rinunciato a dirtele quando ho capito che non t’importava di saperle. Ma mi dispiace perché tu, non sapendole, certo hai potuto considerarmi peggiore di quella che ero.
Ma adesso è inutile parlare di questo. Mi basta solo dirti: la verità è che al principio di questa estate, mi pare sia stato nel mese di Giugno, io m’ero offesa con te, a un punto tale, che credevo di essere offesa definitivamente. Ma io non posso rimanere molto tempo offesa con te; quando partii, in luglio, non lo ero già più. E il mio desiderio di rivederti era tornato lo stesso di prima; ma purtroppo m’ero convinta oramai che a te non importava nulla di vedermi.
Ti prego di capire adesso che io qui non parlo davvero di amore. Prima di tutto, devo dirti con molta semplicità che, nemmeno quando ero più bella, io non sono stata mai amata da nessuno, e quindi non ho mai pensato seriamente che tu potessi amarmi. Certo, siccome io ti amavo molto, c’è stato un tempo in cui desideravo, se tu lo avessi voluto, essere la persona più vicina a te nella vita. Questo non te l’ho mai nascosto, finché era vero. Ma è finito da molto tempo, e cioè, per farti capire da quando, fin dal tempo del mio ritorno dalla Grecia e della Mostra dei Gatti, nel 1951. Anche fuori della tua volontà, ci furono allora delle altre cause per cui io dovetti levarmi dalla mente certe speranze e pensieri. Da principio mi era difficile riuscirci, e forse, per questo, in quel periodo il mio carattere ti sarà sembrato anche peggiore del solito. Ma alla fine, oramai da più di un anno fa, riuscii a non pensarci più. Se tu mi avessi frequentato di più, in questo periodo, avresti potuto capirlo. Io, a ogni modo, ho cercato di fartelo capire. E anzi, dopo averne sofferto, ero contenta che fra noi non ci fossero più motivi di confusione, e che tu non dovessi più sospettare di me come di una persona che desiderava di entrare nella tua vita e di limitare la tua libertà in nessun modo. [interrotta]

A PIER PAOLO PASOLINI, GENNAIO 1965
Caro Pier Paolo, avevo appena finito di scrivere, in risposta alla tua lettera, un’altra mia lettera, dove discutevo le tue ragioni con le mie ragioni. Ma adesso, alla fine, sono presa da un impeto d’affetto, che d’un tratto mi fa capire la mia presunzione di ragionare con te su cose che tu sai già e che, in fondo, non hanno valore a paragone della ragione più forte, e anche più giusta, che è la vita. Tu vuoi salvare il tuo film da tutti questi mostri che te lo minacciano, in qualche modo: cioè dai Farisei, dai poveri, dagli interventi intempestivi di Laura Betti, dai «comportamenti furenti» di G. Morante, magari anche da Carlo Marx e da Gesù in persona, se s’intromettono con le loro giustizie e sapienze. Loro avranno magari le loro ragioni, ma la tua ragione è la vitalità, che vuole diventare questo film. È una ragione simpatica, secondo me, e che pure con gli intervalli di miei «comportamenti furenti» commuove più di tutto e mette allegria....
Avrò altri intervalli di «comportamenti furenti» ma infine, dal fondo della mia vecchiezza che allora sarà addirittura decrepitezza, ti farò un sorriso per dirti che tu sei sempre una delle pochissime carissime migliori persone del mondo. E adesso per carità, non ritornare sulla tua «patologia di diverso e di reietto». C’è un famoso verso del Sandro Penna che dice: Beato chi è diverso, essendo egli diverso.... Mentre quelli che tu chiami i grandi e i normali, lo sai benissimo che in qualche caso sono degli stronzi – Dio li assista. Ti abbraccio – Sperando di rivedere presto un bellissimo film.

DA TOMMASO LANDOLFI A ELSA MORANTE, 6 DICEMBRE 1957
Cara Elsa, la notte che ebbi la Sua, Le scrissi una lettera selvaggia. Sarà giusto non averla spedita? Se c’è colpa me ne confesso (mi intenda, non nell’averla scritta: nel non averla spedita); ma in realtà è soltanto di me stesso che non mi son troppo fidato. Devo invece ringraziarLa in primo luogo della Sua lettera medesima, e poi delle tante buone parole. A Sua volta Lei non può sapere che cosa significa l’attenzione di un’amica intelligente e sensibile per chi (mio Dio, riprendiamo pure le Sue parole) «abbia scelto di vivere isolato». – E spero che ciò sia per incoraggiarLa. Non sia amara: non è in fondo pericoloso interrogare nasi e proboscidi in remoti villaggi cinesi. Più pericoloso è... cara Elsa, mi par proprio d’essere allo stremo delle forze: non per un’arte nella quale non ho saputo fornire che prove mediocri e marginali, ma per una vita anche oscura, anche indegna, com’è la mia. La tentazione si fa sempre più forte. Io passerò l’inverno qui (da buon valetudinario), se mai Le venisse in testa di scrivermi ancora. Le faccio tanti auguri per tutto e Le invio grati ed affettuosi saluti.

La Stampa TuttoScienze 31.10.12
Ecco le stelle alla deriva negli aloni di materia oscura
Dal telescopio “Spitzer” una spiegazione sull’enigma della luce che pervade il cosmo
di Gabriele Beccaria


La materia oscura è uno dei grandi misteri della scienza: è - con l’energia oscura - la causa più accreditata per spiegare l’aumento della velocità di espansione dell’Universo. Un altro mistero, invece, nasce dalla scoperta che ci sia più luce nel cosmo di quanta ce ne dovrebbe essere, se si somma quella emessa da tutte le sorgenti conosciute. Luce e oscurità, insomma, tormentano astrofisici e cosmologi.
Ora un articolo su «Nature» propone una soluzione al secondo enigma, tirando dentro nella soluzione anche il primo, e così legando l’uno e l’altro in un abbraccio svelato dall’occhio a infrarossi del telescopio spaziale «Spitzer», lo strumento della Nasa in orbita intorno al Sole.
Il punto di partenza sono gli «aloni» di materia oscura, vale a dire gli enormi bozzoli di massa che avvolgono le galassie e che rappresentano la maggior parte della materia presente nel cosmo. Invisibili - si ripete - anche se non è del tutto vero: un team di scienziati statunitensi - guidati da Edward Wright della University of California at Los Angeles - sostiene che quelle «sacche» siano tutt’altro che vuote e contengano in realtà gruppi di stelle orfane, in un disordine che finora ha confuso le idee ai ricercatori.
Strappati alle galassie d’origine - ipotizza il team californiano - questi corpi sono costretti a una seconda esistenza, in tono minore, prigionieri della morsa della materia oscura. Ma la loro umbratile presenza si fa comunque sentire attraverso le cosiddette «fluttuazioni». Invece di generare sorgenti luminose identificabili, creano un «effetto sabbia»: è qualcosa che assomiglia alla perdita di segnale delle tv. Ed ecco perché l’Universo ha «più luce» del previsto.
Le spiegazioni che finora andavano per la maggiore non hanno convinto Wright. Che, anzi, le ha demolite. La prima sosteneva che le colpevoli fossero galassie lontanissime, troppo remote per farsi identificare con certezza. La seconda ipotizzava che non fossero così lontane - «solo» 4 o 5 miliardi di anni luce da noi - ma che fossero troppo deboli per manifestarsi come corpi di serie A. Secondo Wright e Asantha Cooray, astronomo all’università di Irvine, i dati raccolti dalle osservazioni di «Spitzer» evocano un altro scenario. Invece della contrapposizione tra punti luminosi e sfondi bui, una luminescenza all’infrarosso diffusa, che trasforma un’altra volta la concezione che abbiamo dell’Universo. Ecco perché si annunciano subito nuove ed emozionanti ricerche.

Edward Wright Astrofisico" È PROFESSORE DI COSMOLOGIA ALLA UNIVERSITY OF CALIFORNIA AT LOS ANGELES"
IL SITO : HTTP://WWW.ASTRO.UCLA.EDU/~WR IGHT/INTRO.HTML

La Stampa TuttoScienze 31.10.12
Alla scoperta delle altre Terre
Esopianeti: se ne scoprono sempre di nuovi
di Antonio Lo Campo


Quelli già catalogati sono 850. Sono gli eso­ pianeti (o «pianeti extrasolari») e la cifra aumenta di continuo, perché ne vengono scoperti di nuovi quasi ogni giorno. Il merito è soprattutto dei satel­ liti, come quello della Nasa «Kepler». Ma ora anche gli scienziati italiani si mobilitano per andare a cac­ cia di corpi celesti che orbitano attorno ad altre stelle: lo faranno con una nuova missione dell’Esa, appena varata, e battezzata «Cheops» (CHaracte­ rizing ExOPlanets Satellite). Avrà il compito di ef­fettuare osservazioni super­precise di stelle attor­no alle quali è già nota la presenza di pianeti o di cui ci sono forti indizi. Grazie al contributo dell’Asi, l’Agenzia spaziale italiana, e dei centri di ricerca dell’Inaf, l’Istituto nazionale di astrofisica, sarà possibile studiare la struttura e la densità di piane­ ti extrasolari con raggi che vanno da una a sei volte quelli della Terra e con masse fino a 20 volte quella del nostro pianeta. Se «Cheops» è una missione che nei programmi dell’Esa rientra nella categoria «small» ­ cioè piccola ­ in realtà è estremamente ambiziosa. «Tra i vantaggi – spiega Barbara Negri, responsabile dell’Unità esplorazione e osservazio­ne dell’Universo dell’Asi e consulente del “Science programme board” dell’Esa ­ c’è quella dei tempi: il lancio è infatti in programma già per il 2017. E la missione è stata selezionata tra le 26 proposte al­ l’Esa dalla comunità scientifica europea per il suo interesse. La ricerca degli esopianeti è tra le nuove e grandi frontiere della ricerca astronomica». Alle ricerche parteciperà un nutrito numero di astro­ nomi dell’Inaf, appartenenti agli osservatori di To­rino, Padova, Catania, Palermo e della Fondazione Galileo Galilei. «Sia questi centri di ricerca che le aziende del nostro Paese – aggiunge Negri – realiz­zeranno molte componenti del telescopio ottico principale, dai sistemi di puntamento allo scher­mo di protezione dalla radiazione solare». E il ruo­lo del «made in Italy» non si ferma qui: il lancio av­verrà con il razzo vettore Vega, mentre i dati rac­ colti saranno processati nell’«Asi Science Data Center» all’Esrin di Frascati.

La Stampa TuttoScienze 31.10.12
Lucy era bipede ma saliva sugli alberi


Una nuova analisi delle ossa dell’Australopi­thecus afarensis suggerisce che questo antenato, sebbene bipede, era anche un arrampicatore molto attivo. Salire sugli alberi, quindi, continuò a essere un’attività fondamentale per il gruppo di ominidi a cui apparteneva anche la famosa Lucy: lo sostiene una nuova ricerca di David Green e Ze­resanay Alemseged della Midwestern University. Le cavità articolari delle spalle ­ sostengono i due antropologi americani ­ erano puntate verso l’al­ to, come nelle moderne scimmie, mentre negli esseri umani sono diverse e sporgono verso i lati.

La Stampa TuttoScienze 31.10.12
La macchina che svela i meccanismi della mente
In Italia la prima super­risonanza magnetica nucleare: “Studi a sette tesla”
di Marco Pivato


A Pisa La nuova macchina per la risonanza magnetica nucleare sta per essere accesa all’Istituto della Fondazione Stella Maris È la più potente installata in Italia Contemplare il corpo umano come un unicum, superando la dicotomia mente-corpo. È il sogno di medici e psicologi, ma anche, da sempre, dei filosofi. Oggi è diventato possibile grazie a una potente macchina per la risonanza magnetica nucleare, capace di generare un campo di 7 tesla (che è l’unità di misura del campo magnetico). La macchina pesa 33 tonnellate, è stata costruita dalla General Electrics ed era arrivata in Italia l’anno scorso, all’Istituto della Fondazione Stella Maris di Pisa. Dopo l’installazione e il collaudo, in un bunker di 480 tonnellate di ferro, entro l’anno, sarà finalmente «accesa». Di queste macchine ne esistono solo 32 nel mondo, di cui 17 in Europa, ma quella che sta per entrare in funzione è la prima e unica nel nostro Paese. Questo potente tomografo – le apparecchiature tradizionali lavorano a 1,5 tesla – è lo strumento in dote alla ricerca italiana che permetterà un balzo nelle neuroscienze e non solo. Genererà immagini del cervello ad altissima risoluzione, «permettendo – commenta Pietro Pietrini, dell’Azienda ospedaliera universitaria di Pisa – di cogliere il dialogo tra cellula e cellula e di studiare la complessa coerenza delle migliaia di funzioni e reazioni che avvengono tra le aree cerebrali». Le applicazioni cliniche saranno preziose: «Scorgeremo i sintomi delle demenze con anni d’anticipo, seguiremo il decorso di un tumore, individueremo micro-lesioni e infarti, studieremo l’effetto dei principi attivi». Ma le aspettative sono ancora più ambiziose: «Per esempio – continua – riusciremo a valutare l’efficacia di una psicoanalisi, rilevando se e quali cambiamenti sono avvenuti nel cervello, a distanza di anni dall’inizio della cura, così come capiremo meglio il “correlato biologico” in una depressione o constateremo i progressi di una terapia cognitivo-comportamentale negli ossessivo-compulsivi». La nuova macchina è una lente, con cui spiare la formazione di nuove sinapsi, le modificazioni cellulari, l’azione degli ormoni. Ma questo è solo l’aspetto meccanicista del nostro «computer». Il supercampo magnetico andrà oltre, rivelando i sibillini significati dei messaggeri biochimici, ovvero il linguaggio tra neurotrasmettitori, cellule, proteine e geni: fotograferà - è la metafora più potente - come la mente emerge dal cervello. «Sarà – dice Pietrini – come vedere da un satellite Manhattan. Ma non solo la sua geografia. Anche com’è organizzato il traffico, cosa fanno gli abitanti, a che orario si entra e si esce dagli uffici e le dinamiche che sottendono questi eventi». Il professore allude a una «visione d’insieme» del metabolismo cerebrale. Gli appassionati di Cartesio sono avvisati. Rex cogitans e Rex extensa – realtà psichica e realtà fisica – saranno una mera dicotomia didattica. Palesandosi il proverbiale anello tra mente e cervello, la realtà psichica può apparire come la «proprietà emergente» di un substrato organico, il cervello, a sua volta «proprietà emergente» di atomi, molecole, geni, proteine, neurotrasmettitori e cellule. La mente si rivela dunque come un prodotto del cervello, e non una «cosa» distinta. «L’obiettivo di questi studi – osserva il professore – è validare una sorta di medicina della mente, superando la frattura tra psichiatria e psicoterapia». Già negli Anni 90 Pietrini e il suo team, al tempo in forze ai «National Institutes of health», negli Usa, con la tomografia a emissione di positroni avevano rivelato un comune denominatore nei pazienti ossessivo-compulsivi: «Avevano una corteccia prefrontale sovreccitata, o meglio ipermetabolica». E fecero una scoperta: «Quando trattammo due gruppi, l’uno con antidepressivi e l’altro con psicoterapia cognitivo-comportamentale, la Pet rivelava, in entrambi i gruppi, che il metabolismo si era normalizzato, e in effetti i pazienti erano migliorati anche dal punto di vista clinico». Da allora gli studi per cercare i nessi tra disturbi mentali e danni organici aumentarono. Oggi la tecnologia permette un’analisi più fine. L’esame con la nuova «Rmn» a 7 tesla durerà 50 minuti, senza pericoli per il paziente, e «proprio perché la risonanza – spiega il professore – avviene in vivo, vedremo il metabolismo in azione e aree finora accessibili solo postmortem». Ad aver riportato l’Italia tra i luoghi d’eccellenza delle neuroscienze è stato il consorzio «Imago7», costituito dall’Università e dall’Azienda ospedaliera universitaria di Pisa, insieme con la Fondazione Stella Maris e l’Istituto Medea di Lecco. Un obiettivo che recupera il primato del nostro Paese, «culla - conclude il professore - dello studio del cervello, cominciato con Camillo Golgi, Premio Nobel nel 1906 per le ricerche sull’istologia del sistema nervoso».

Pietro Pietrini Psichiatra RUOLO : È PROFESSORE DI BIOCHIMICA CLINICA E BIOLOGIA MOLECOLARE CLINICA
ALL’UNIVERSITÀ DI PISA IL SITO : HTTP://WWW.AO­PISA. TOSCANA.IT/

La Stampa TuttoScienze 31.10.12
Che cosa ci fa felici
Ricerca a Berkeley: “La prima regola è il rispetto degli altri”
di Stefano Massarelli


Che cosa ci rende felici nella vita? Generazioni di filosofi - si sa - hanno provato a rispondere a questa domanda, tracciando percorsi più o meno utili per tentare di raggiungere l’apice della gratificazione personale. In tempi di crisi, comunque, la risposta sembrerebbe alquanto immediata: se i soldi non fanno la felicità, è pur vero che questa è ben «assistita» da un abbondante conto in banca, da un lavoro prestigioso o, in alternativa, da una vita lussuosa ai Caraibi in buona compagnia. Risposta sbagliata.
Secondo una ricerca pubblicata su «Psychological Science» - la rivista ufficiale dell’«Association for Psychological Science» - a fare la felicità, però, non sono affatto i beni materiali, ma una qualità soggettiva: il rispetto e l’ammirazione degli altri, la considerazione da parte degli amici e delle persone che vivono attorno a noi, il ruolo nell’ambiente di lavoro. Più che lo status patrimoniale, quindi, conta lo «status sociometrico», inteso come l’insieme della propria posizione all’interno della sfera sociale e del successo nelle relazioni interpersonali.
«Ci siamo interessati a questa idea, perché ci sono molte evidenze relative al fatto che un alto status socioeconomico - reddito elevato, ricchezza e buona educazione - non favoriscono il benessere soggettivo e la felicità. Allo stesso tempo, diverse teorie suggeriscono che la posizione sociale può invece accrescerla», spiega l’autore dello studio, Cameron Anderson, ricercatore all’Università di Berkeley in California. Nel corso di una lunga serie di studi ha voluto testare questa ipotesi, prendendo in esame un campione di studenti della celebre università californiana, tutti ben inseriti nella vita sociale del campus: ha analizzato lo «status sociometrico» attraverso una valutazione fornita da loro stessi e dai compagni, studiando, quindi, le diverse posizioni di leadership nella vita universitaria e l’accettazione da parte degli altri. Dai risultati è emerso che la vera chiave della felicità di questi giovani non risiedeva nella loro ricchezza economica oppure nel conto in banca della famiglia, quanto, piuttosto, nel loro ruolo sociale all’interno dell’ambiente accademico.
E, non a caso, anche dopo la laurea e il conseguente abbandono del campus la chiave della gratificazione rimaneva sempre la stessa: una professione remunerativa non bastava a rendere i giovani felici. A fare la differenza era, di nuovo, il ruolo sociale che si erano creati nel nuovo ambiente, sia nel lavoro sia tra i nuovi amici.
Saper conquistare il rispetto e l’ammirazione degli altri, quindi, è - secondo Anderson - l’ingrediente migliore per ottenere il giusto equilibrio con se stessi. E i risultati sono visibili in brevissimo tempo: è sufficiente modificare il proprio atteggiamento verso il prossimo e l’umore sale.
Ma, allora, per quale motivo uno «status sociometrico» si rivela più utile di un buon conto in banca? «Una delle possibili ragioni per cui i soldi non servono a comprare la felicità è che le persone si adattano velocemente al nuovo livello di reddito e di ricchezza - avverte il ricercatore. - Chi vince alla lotteria, per esempio, è inizialmente felice, ma tende a “scivolare” al proprio livello di felicità iniziale molto velocemente». Alla stima e al rispetto degli altri, invece, non ci si abitua mai. E forse è proprio questo il segreto per costruirsi una vita gratificante: i buoni rapporti umani sono una fonte continua di stimoli, di opportunità e di soddisfazioni.

Cameron Anderson Psicologo RUOLO : È PROFESSORE DI «LEADERSHIP & COMMUNICATION» ALLA UNIVERSITY OF CALIFORNIA AT BERKELEY (USA)

La Stampa TuttoScienze 31.10.12
Con le lezioni di musica il cervello si sviluppa meglio
di Daniele Banfi


Vi è mai successo di cenare in un ristorante rumoroso tanto da fare fatica ad ascoltare le parole di chi vi sta di fronte? Se così è, è probabile che da bambini non abbiate mai preso lezioni di musica. E’ questa la curiosa conclusione di uno studio pubbli­ cato dalla rivista «Journal of Neuroscience» ad opera dei ri­ cercatori della Northwestern University di Evaston (Usa). Dai dati raccolti, infatti, emerge chiaramente che gli adulti che nell’infanzia hanno seguito corsi per imparare a suonare uno strumento possiedono un cervello in grado di rispondere me­ glio ai suoni complessi e capace di riconoscere con maggiore abilità frequenze diverse. Ecco perché l’apprendimento precoce della musica a scuola può essere per i bambini una grande opportunità per sfruttare al meglio le loro doti cerebrali. Spiega Nina Kraus, responsabi­ le dell’analisi: «Partendo da ciò che già sapevamo sui modi in cui la mu­ sica aiuta a modellare il cervello, abbiamo visto che le lezioni di musica a breve termine sviluppano sia l’ascolto sia l’apprendimento nel lungo periodo». La ricerca è stata effettuata con una serie di microelettrodi, che hanno misurato l’attività dell’encefalo. Il test, che consisteva nel monitoraggio delle onde cerebrali in risposta a differenti stimoli sonori complessi, ha coinvolto un gruppo di 45 adulti, raggruppati in base al numero di lezioni musicali frequentate da bambini. Si è così osservato che la capacità di riconoscere e decodificare le frequenze più basse dei suoni ­ caratteristica fondamentale per ascoltare musica e discorsi in ambienti «ricchi» di decibel ­ è proporzionale alle ore di lezione fre­ quentate. Una prova evidente di come le attività ricreative svolte nel­ l’infanzia giochino un ruolo importante nello sviluppo cerebrale.

La Stampa TuttoScienze 31.10.12
Da Harvard al Paradiso e ritorno
L’esperienza di “vita oltre la morte” di un neurochirurgo
di Luigi Grassia


Nel primo libro di Paolo Villaggio, un Fantozzi in vena di filosofare si domanda «perché mai la Madonna, in passato, si sia limitata a comparire a pastorelli semianalfabeti», mentre lui, Fantozzi, per farsi convincere vorrebbe leggere sui giornali notizie così: «Ieri alle 16,30 la Santa Vergine è comparsa improvvisamente dietro la lavagna di un’aula gremita di studenti della scuola di ingegneria di Pisa, durante la lezione di meccanica. Il docente professor Mannaroni-Turri, noto ateo, è svenuto di fronte a 200 studenti».
Rullino i tamburi: può darsi che a un professore di Harvard sia successo qualcosa di simile, non esattamente lo stesso ma forse un’esperienza che vi si può accostare: cioè la comparsa del sovrannaturale in condizioni di verificabilità scientifica, o molto prossime. Il professore in questione, Eben Alexander, ci ha scritto sopra un libro che si intitola «La prova del Paradiso», a cui ha dato risonanza mondiale un ampio (e controverso) servizio della rivista «Newsweek», ripreso (con cautela) da migliaia di media nel resto del globo; ora è la volta de «La Stampa» (ma sempre con cautela).
Qual è la prova del Paradiso trovata da Alexander? Il professore è stato in coma per sette giorni e in quel periodo ha sperimentato una celestiale esperienza di quasi-morte, o di vita oltre la vita, provando pace, amore infinito ed euforia, a contatto con creature angeliche in un luogo sublime che sembrava proprio il Paradiso. E fin qui niente di strano, perché le persone che vanno in coma, o subiscono arresti cardiaci, e poi tornano indietro dal confine estremo, riferiscono spesso esperienze simili; ma quello che rende speciale il caso di Eben Alexander è che lui pratica e insegna la neurochirurgia a Harvard, insomma è in una condizione simile a quella del professore auspicato da Fantozzi come testimone attendibile di fatti sovrannaturali. Anzi, Eben Alexander è persino meglio, perché da esperto di neurologia ha la specifica competenza professionale per distinguere il grano dal loglio, discernere la verità e le apparenze nei fatti della mente umana. Il neurochirurgo per una settimana ha subìto continue Tac cerebrali e i suoi colleghi professori hanno certificato una totale inattività della neocorteccia (la parte pensante del cervello). Eppure la sua mente lavorava e come questo sia stato possibile è già un mistero di per sé, anche a voler credere che il viaggio in Paradiso sia avvenuto solo nella testa di Alexander e non fuori.
Adesso il neurochirurgo di Harvard dice e scrive: «Mi rendo conto di quanto il mio racconto suoni straordinario, e francamente incredibile. Se qualcuno, anche un medico, avesse raccontato questa storia al vecchio me stesso, sarei stato sicuro che fosse preda di illusioni. Ma quanto mi è capitato è reale». La parola definitiva non è stata detta, ma il caso merita di essere approfondito.