giovedì 1 novembre 2012

l’Unità 1.11.12
L’ Anpi al Quirinale chiede giustizia per le stragi naziste

Ieri mattina una delegazione dell’Anpi, guidata dal presidente Carlo Smuraglia, ha incontrato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, al quale è stato esposto il lavoro che l’Associazione ha svolto e sta svolgendo sul tema delle stragi nazifasciste del ‘43-‘45. Il documento, illustrato a Marzabotto, è stato sottoposto all’attenzione del Capo dello Stato per «ottenere finalmente verità e giustizia per le vittime». Napolitano ha mostrato molto interesse e si è riservato di valutare tutte le possibili iniziative volte a tenere viva la questione stragi nel Paese. Stragi compiute dai nazisti spesso con l’aiuto dei fascisti (circa 15mila vittime innocenti), sulle quali non c’è ancora né piena giustizia, né completa verità storica.

l’Unità 1.11.12
La vendetta di Marchionne
Rappresaglia a Pomigliano
Il governo fermi il piromane o esplode la polveriera sociale
di Rinaldo Gianola


DI FRONTE ALLA SENTENZA DI UNA TRIBUNALE ITALIANO che gli intima di porre fine alla discriminazione e di assumere i primi 19 operai iscritti alla Fiom, Sergio Marchionne reagisce buttando fuori dalla fabbrica di Pomigliano altri 19 dipendenti. Come li sceglierà per ora non l’ha detto, ma si inventerà certamente qualcosa di originale, in perfetta sintonia con le innovazioni introdotte nelle sue fabbriche.
La Fiat vuole scatenare una guerra tra poveri, come abbiamo già scritto pochi giorni fa, raccontando le tensioni, le paure, le speranze dei lavoratori di Pomigliano, la cui produzione vale, (valeva?) il 20% del Pil della regione Campania. La scelta della Fiat apre una questione drammatica che non riguarda solo le strategie industriali, le localizzazioni produttive, gli aggiustamenti dei piani annunciati e poi smentiti. La questione che si apre oggi, con la ritorsione decisa da Marchionne, riguarda l’esercizio e la tutela dei diritti costituzionali dei cittadini lavoratori in una grande azienda, primo fra tutti quello di poter scegliere il sindacato che si vuole senza essere discriminati o penalizzati per questo. Marchionne, anche se non vuole più sentire parlare di Fabbrica Italia, si muove oggi come un piromane dentro la sua creatura, che si chiama proprio Fabbrica Italia Pomigliano (Fip), con la quale ha operato per dividere il mondo del lavoro, per far saltare un sistema di relazioni industriali che considerava inadeguato ai tempi e soprattutto alle sue esigenze. La sua azione «i giudici mi danno torto e io licenzio» è la miccia per far esplodere quella polveriera sociale che è Pomigliano. Perché questa partita, questa vendetta di Marchionne, non si ferma ai 19 assunti della Fiom contro altri 19 licenziati oggi attivi nello stabilimento Giambattista Vico. La questione è più ampia, riguarda altri 126 lavoratori già iscritti alla Fiom, e per questo discriminati e non assunti dalla Fip, che dovranno entrare in fabbrica entro sei mesi dalla sentenza della Corte d’Appello dello scorso 19 ottobre. In tutto, infatti, sono 145 gli operai iscritti alla Fiom che devono essere assunti in Fip.
È bene sottolineare, per comprendere la gravità della reazione un po’ berlusconiana di Marchionne, che non siamo davanti al capriccio di un sindacato estremista o di un gruppo di fannulloni che si diverte a mettere a repentaglio il futuro di una importante impresa e dei loro colleghi di fabbrica. Il giudizio di secondo grado vuole sanare una rispettare le sentenze e la Costituzione. Per questo chiediamo alla Cgil di trasformare lo sciopero generale europeo del 14 novembre in una grande manifestazione a Pomigliano per chiedere il rispetto della dignità di tutti i lavoratori. E difatti a Fim e Uilm rinnoviamo la proposta di un contratto di solidarietà che faccia rientrare tutti i 2mila lavoratori che non sono ancora stati riassunti».
Dal punto di vista legale, proprio la questione degli esclusi rimane decisiva. A Pomigliano sono stati riassunti ad oggi 2.146 lavoratori. Per gli oltre 2mila esclusi la cassa integrazione straordinaria scade a luglio. Per loro la prospettiva migliore prevede cassa integrazione in deroga (pagata dalle Regioni e quindi dalla collettività, mentre la Cig viene finanziata dalla contribuzione di lavoratori e azienda), la prospettiva peggiore significa anche per tutti loro la mobilità. Gli accordi che hanno dato il via libera alla nuova Fip prevedevano invece che entro giugno prossimo tutti i 5mila ex dipendenti venissero riassunti. Nel dibattimento per il giudizio di secondo grado però gli avvocati Fiat hanno per la prima volta sostenuto che l’azienda non ha nessun obbligo a riassumere tutti i lavoratori. Una posizione che ha spaventato perfino Fim e Uilm.
«Ma la sentenza contesta questa impostazione spiega il legale della Fiom Pier Luigi Panici ed anzi impone all’azienda di assumere tutti gli ex dipendenti. Proprio per questo motivo le motivazioni addotte per la procedura di mobilità sono illegittime: come fa la Fiat a dire che non può assumere 19 lavoratori se entro luglio ne dovrà assumere altri 2mila?». La possibilità che la Fiat licenzi gli stessi 19 che hanno vinto la causa assieme alla Fiom sarebbe «una reiterazione della discriminazione continua Panici e quindi non credo che i legali del Lingotto consiglino una mossa del genere a Marchione. Si farebbero del male da soli perché qualsiasi giudice ci darebbe ragione di nuovo e imporrebbe una nuova riassunzione».
Per il segretario del Pd Pier Luigi Bersani l’iniziativa della Fiat è «inaccettabile»: «Sono molto colpito dal fatto che si pensi di risolvere così i problemi. Così si aggravano. Bisogna che la Fiat ragioni diversamente, iniziative del genere non sono accettabili». Per il sindaco di Napoli Luigi De Magistris, Marchionne si comporta da «miope padrone».

il Fatto 1.11.12
Cieca e violenta lotta di classe
di Furio Colombo


La lotta di classe torna in tutto il suo furore ed è lotta iniziata a freddo dalla ricchezza contro coloro che in due secoli il mondo civile ha imparato a chiamare, garantire, rispettare e trattare come partner dell’impresa, i lavoratori. Sto parlando dell’annuncio di Marchionne. Metterà “in mobilità” 19 operai come risposta alla sentenza della Corte d’appello di Roma che lo obbliga a riassumere 19 operai licenziati perché discriminati, dunque illegalmente. L’Amministratore delegato della Fiat compie un gesto di violenza senza precedenti: poiché ha il potere, si vendica. Sceglie di farlo nel giorno in cui il numero dei disoccupati italiani ha toccato il suo livello storicamente più alto (10,8 per cento) e i senza lavoro giovani sono il 35 per cento. Ma una vendetta non tiene conto di questi dettagli, anzi, se la guerra è guerra, fai fuoco quando il bersaglio è più esposto. Dunque a questo Marchionne ha ridotto la civiltà industriale italiana: se ti impongono di osservare la legge, tu scateni la rappresaglia. È evidente che Sergio Marchionne ha difficoltà gravi di convivenza con un mondo regolato da norme e da limiti di civiltà, e che il suo “tu non sai chi sono io” sta diventando palesemente patologico. Ma non dimentichiamo che proprio oggi il New York Times ci dà la notizia dello spostamento in Cina della produzione Jeep della Chrysler (un annuncio che rischia di pesare su quelle elezioni) e proprio in questi giorni è uscito il piccolo importante libro di Luciano Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, in cui dichiara e dimostra che, in piena pace sociale, la parte ricca del potere ha aggredito il mondo (la crisi oscura che stiamo vivendo) e sta tentando di ridurre il lavoro al livello più umiliante e più basso con ogni espediente. Tocca ai sindacati reagire insieme e ai partiti che pensano di essere legati al lavoro non restare inerti. Il gesto è ignobile, forse annuncia che Marchionne sta arrecando alla Fiat un danno più grande di quello che arreca alla Repubblica, alla Costituzione, alla legge e ai lavoratori. Forse risulterà impossibile per la Fiat, impresa e azionisti, accettare come normale (giuridicamente, aziendalmente, psichicamente) il potere basato sulla rappresaglia. Ma se i lavoratori subiranno l’umiliazione di lasciarsi dividere, e la politica di tacere, la cieca guerra di classe del potere ricco contro il lavoro segnerebbe la sua prima vittoria importante nel giorno peggiore della vita italiana.

Repubblica 1.11.12
Come ostaggi di guerra
di Gad Lerner


I diciannove lavoratori di Pomigliano posti ieri in mobilità rappresentano un costo annuo insignificante per la multinazionale dell’auto: meno di quel che guadagna Marchionne in una settimana. Ma vengono sacrificati come ostaggi in una guerra che Fiat ha dichiarato non solo contro il sindacato metalmeccanico col maggior numero di iscritti, ma anche contro la magistratura italiana, cioè lo stato di diritto, e quindi contro le regole condivise della nostra collettività.
Possibile che gli azionisti della Fiat, vincolati moralmente da un debito di gratitudine alle istituzioni di questo paese, non avvertano l’esigenza di dissociarsi al più presto da questo diktat che li ricopre di discredito? Ci auguriamo, anche nel loro interesse, che un tale provvedimento senza precedenti, mai concepito neppure ai tempi dei licenziamenti politici per rappresaglia, venga revocato al più presto. E che il ministro Fornero, artefice di una recente modifica dello Statuto dei lavoratori, faccia presente a Marchionne che colpire degli innocenti come ha fatto è inaccettabile da un governo col quale dovrà ridefinire i suoi progetti futuri.
Sembrerebbe purtroppo che mettersi dalla parte del torto rientri in un piano di provocazione consapevole da parte della direzione Fiat; la quale proclama di voler mantenere in attività i suoi stabilimenti italiani ma rifiuta di precisare i termini degli investimenti necessari a tale fine. In altre parole, sembra che la Fiat stia cercando delle scuse per andarsene dall’Italia. Sommare un nuovo torto al reato di discriminazione
sindacale già riconosciuto in due gradi di giudizio non è accettabile neanche da parte di chi abbia già traslocato mentalmente a Detroit.
Dalla rappresaglia contro gli iscritti alla Fiom ora la Fiat passa alla rappresaglia contro i lavoratori in genere. Diffonde la paura negli stabilimenti, trasmettendo l’idea che “per colpa” dei pochi che hanno osato difendere i propri diritti facendo ricorso e ottenendo giustizia, a pagare potrà essere chiunque. È la legge della giungla importata in fabbrica: un imbarbarimento delle relazioni fra impresa e lavoratore che dovrebbe far scattare l’allarme di tutti i sindacati, a prescindere dalle loro divisioni. Sarebbe davvero miope da parte dei dirigenti delle confederazioni che non hanno condiviso la linea intransigente di Landini illudersi di poter trarre vantaggio da un tale ricatto. In queste condizioni è negato qualsivoglia spazio negoziale nelle fabbriche Fiat. Viene meno l’idea stessa di contrattazione collettiva. Ma più ancora, si precipita il conflitto sociale al di fuori di ogni regola, col rischio di favorire l’estre-mismo dei disperati e la sua strumentalizzazione.
Intorno ai trentotto lavoratori di Pomigliano trascinati dalla Fiat a un conflitto fratricida – i 19 iscritti alla Fiom di cui è stato ordinato il reintegro, e gli altri 19 che dovrebbero cedere loro il posto – deve stringersi la solidarietà democratica di chi ha ancora a cuore i diritti dei lavoratori. La storia ci insegna che rinunciare a questi diritti fondamentali non produce né benessere né crescita, bensì arretramento sociale e perdita di civiltà.

l’Unità 1.11.12
Sergio Cofferati
L’ex leader Cgil e parlamentare europeo: «La raccolta di firme in fabbrica è stata propedeutica ai licenziamenti»
Mai visto tanto accanimento contro il sindacato e gli operai
di Giuseppe Vespo


«Non si era mai vista nella Fiat tanta ostilità verso la Fiom». Sergio Cofferati, 64 anni, ex segretario della Cgil, parlamentare europeo del Pd, dice di aver stentato a credere alla notizia dei 19 licenziamenti che il Lingotto si appresta a fare per riassumere i cassintegrati Fiom di Pomigliano d’Arco. Ma lo sbigottimento è durato poco: «In effetti in questi anni la Fiat ci ha abituato ad azioni di questo tipo contro le tute blu della Cgil».
Come dovrebbe rispondere il sindacato?
«Credo che ci siano i presupposti per una nuova azione legale. Anche in questo caso, come per le prime assunzioni di Pomigliano e le decurtazioni in busta paga a Termoli, emerge l’elemento ritorsivo nei confronti del sindacato. Il messaggio che si dà ai 19 licenziati è: “Siete stati fatti fuori per colpa della Fiom”».
Nei giorni scorsi sono state raccolte le firme degli operai dello stabilimento campano contro l’assunzione, imposta alla Fiat dal Tribunale di Roma, dei 145 cassintegrati iscritti alla Fiom. Il sindacato sostiene che a promuovere la petizione sia stata la stessa azienda.
«Non so chi abbia organizzato quell’iniziativa, che giudico grave, ma col senno di poi sembra propedeutica ai licenziamenti appena annunciati». C’è chi sostiene che assumere delle persone solo perché sono iscritte ad un sindacato sia un’ingiustizia nei confronti di chi resta fuori.
«La Fiom chiede che siano assunti tutti i lavoratori di Pomigliano rimasti in cassa integrazione. Detto questo, forse chi resta fuori non è difeso in modo adeguato».
Ricorda nella sua esperienza da sindacalista uno scontro così duro tra un’azienda e un’organizzazione sindacale?
«Non così come sta avvenendo alla Fiat, dove assistiamo a un’escalation di ostilità nei confronti dei metalmeccanici Cgil ma anche degli altri sindacati: non ci sono accordi e impegni seri, solo vaghe rassicurazioni che stanno in piedi per qualche settimana».
È anche colpa della crisi se il confronto si sta inasprendo a questi livelli? «Certamente pesano il fallimento del progetto presentato due anni fa dal Lingotto e il fatto che molti di quelli che un tempo plaudivano al nuovo manager adesso si siano ricreduti». Come giudica i dati dell’ultimo trimestre Fiat?
«Sono l’esatta somma algebrica dei risultati positivi raggiunti in alcuni Paese e di quelli negativi in altri come l’Italia. Quello che più mi preoccupa è il tentativo di spargere ottimismo anche da noi, dove non viene fatto nulla. Il futuro è legato agli investimenti che non ci sono e all’assenza di nuovi prodotti. Mi chiedo cosa avrà da mettere sul mercato la Fiat alla fine della crisi. Eppure sembra che in pochi siano preoccupati».
Si riferisce al governo? Monti ha visto Elkann qualche giorno fa.
«Mi domando come si possano prendere per buone, in silenzio e senza alcuno spirito critico, rassicurazioni sul nulla. Nella vicenda Fiat il governo è intervenuto malvolentieri e in ritardo soltanto perché è stato costretto dall’evolversi degli eventi e dall’opinione pubblica. Ma si sono accontentati di vaghe promesse, e dopo le dichiarazioni pubbliche di Marchionne sono subito tornati nel loro cono d’ombra. Nel frattempo le cose stanno peggiorando: non ci sono progetti per l’Italia, in Europa la crisi si prolunga e accentua i tratti negativi della situazione di Fiat e del nostro Paese». Comunque Marchionne ha promesso di non chiudere le fabbriche.
«Questo vuol dire che gli operai rimarranno in cassa integrazione e gli stabilimenti resteranno fermi per due o tre anni. Per non parlare dell’indotto, che viene spesso dimenticato. Perché mentre i lavoratori Fiat hanno gli strumenti per difendersi i dipendenti delle piccole aziende che lavorano per l’auto soffrono in silenzio. Tutto questo comporta una perdita di valore e un dispendio economico non indifferente. Dovremmo essere rassicurati dal fatto che non si lavora? È la prima volta che mi capita di sentire una cosa del genere».
Ma in altri Paesi chiudono le fabbriche.
«E in altri ancora aziende come la Volkswagen macinano utili veri e buoni risultati. È la dimostrazione che anche nei momenti di difficoltà bisogna investire sull’innovazione e sui prodotti sofisticati. Non ci sono altre vie: viene premiata solo la qualità».
Cosa dovrebbe fare il governo o un partito che aspira a governare il Paese? «Dovrebbe rendersi conto che oggi è fondamentale porsi il tema della politica industriale, che manca. L’Italia sta perdendo pezzi interi della sua industria a causa della mancanza di un progetto complessivo che tuteli i capisaldi del nostro sistema produttivo. Bisogna saper scegliere tra i settori da riconvertire e quelli da rilanciare attraverso investimenti sull’innovazione e sulla conoscenza. Il governo Monti non sta difendendo neanche le nostre eccellenze».

il Fatto 1.11.12
Il sociologo Luciano Gallino
“Il governo non ha idee sulle politiche per il lavoro”
intervista di Sal. Can.


Professor Luciano Gallino, le cifre sulla disoccupazione sono davvero rilevanti.
Si tratta di una situazione che desta davvero una grande preoccupazione. Soprattutto per quel 35% di senza lavoro tra i giovani. Finché non esisteranno politiche per la crescita non ci sarà nuova occupazione. Ma di queste politiche non si vede traccia.
Il governo parla di impegni per la crescita.
Si tratta di qualche soldo speso in più, ma è chiaro a tutti che le cifre dimostrano la totale insufficienza di questo approccio. Anche perché l'idea che la riduzione della spesa possa rilanciare la crescita è davvero bizzarra.
Le politiche di rigore sono applicate dappertutto. Le sembra che la situazione italiana sia peggiore di altri paesi?
In realtà no. In Spagna sono messi molto male e senza citare la Grecia, che è più piccola e che forse ha una situazione un po' specifica, anche i dati che provengono dagli Stati Uniti dicono che i miglioramenti sono solo superficiali. L'aumento degli occupati registrato nell'ultimo periodo, infatti, riguarda principalmente posti di lavoro part-time ed è solo parziale.
Quali sono le misure più urgenti che secondo lei dovrebbero essere prese?
L’unica strada percorribile è quella di un sano e oculato intervento pubblico. Si potrebbero fare alcuni esperi-menti su base locale per creare lavoro da parte del pubblico senza, tra l'altro, utilizzare risorse eccessive ma convertendo gli ammortizzatori sociali.
Utilizzare la cassa integrazione per creare lavoro?
Lo scorso anno si è utilizzato un miliardo di ore di cassa integrazione. Si tratta di mille ore per un milione di persone. Potrebbero essere impiegate in interventi di utilità sociale: ristrutturare scuole, ospedali, migliorare l'assetto idrogeologico. Da qui, si attiverebbe un volano positivo che aiuterebbe a creare nuova occupazione.
Ricorda il New Deal.
Infatti occorre ispirarsi al “New Deal” di Roosevelt che in poco tempo attivò grandi energie e risorse. Con un intervento pubblico diretto gli Usa crearono ponti, costruirono strade e dighe, piantarono alberi. Recentemente il presidente Obama ha proposto una legge, l'American Jobs Act, che contemplava un pacchetto di agevolazioni fiscali per le imprese, ma anche 180 miliardi di dollari per fare quello che Roosevelt fece negli anni 30 come, ad esempio, tenere al lavoro 60 mila insegnanti oppure rimettere mano alle infrastrutture che negli Usa sono particolarmente deteriorate. Bene, la destra repubblicana ha affossato quella legge.
Che pensa del giudizio dato dal ministro Fornero sui giovani “schizzinosi” nel cercare lavoro?
Che si tratta di una dimostrazione di distanza, o di alterigia, rispetto alla realtà. Io vedo tanti giovani, laureati che fanno qualsiasi lavoro: il barista, il call center e altro. Non mi sembra che ci siano in giro tanti schizzinosi. Del resto, dire che se non si trova lavoro è colpa di chi lo cerca è una vecchia battuta.
Da torinese, cosa pensa dei nuovi piani della Fiat?
Quello appena presentato mi sembra sia il quarto o il quinto che ci viene prospettato. Ovviamente ci auguriamo che funzionino. Solo che occorre sapere che di Maserati da 60-100 mila euro se ne vendono circa 5000 l'anno. Per quanto riguarda la scelta di investire sull'Alfa per competere con marchi come Volkswagen o Audi bisogna essere consapevoli che quelle aziende quella scelta l'hanno fatta 30 o 40 anni fa. Provarci ora sembra molto difficile anche se dobbiamo augurare agli operai Fiat che sia una scelta azzeccata.
La Fiat ha appena comunicato il licenziamento di 19 operai a Pomigliano per fare posto ai 19 iscritti Fiom che il Tribunale ha ordinato di assumere. Che può dire?
Che siamo oltre ogni immaginazione.

Repubblica 1.11.12
Airaudo (Fiom): non è un’azione contro i dipendenti, ma contro lo Stato di diritto
“Segnale ai 2000 cassintegrati rischiano di andare tutti a casa”


TORINO — I licenziamenti a Pomigliano? «Una ritorsione usata come diversivo». Giorgio Airaudo, segretario nazionale della Fiom, giudica così la scelta del Lingotto. E aggiunge: «Il problema non sono i 19 di oggi ma i 2.000 cassintegrati della vecchia fabbrica che a luglio rischiano il licenziamento collettivo».
Airaudo, vi aspettavate la mossa della Fiat?
«Ci aspettavamo che la Fiat applicasse le sentenze. In realtà l’annuncio dei 19 licenziamenti non è un gesto contro di noi ma contro i giudici».
La Fiat replica che non c’è posto per i 19 discriminati, che gli organici sono a posto cosi. Come replicate?
«Che questo è il problema più grave. Se gli organici sono tanto saturi da impedire l’assunzione di 19 persone, che cosa capiterà a luglio quando dovranno entrarne
oltre 2.000? La Fiat strumentalizza la vicenda per annunciare duemila esuberi».
Perché parlate di diversivo?
«Perché dopo l’ultimo cambio di strategia di due giorni fa l’ad ci aveva annunciato che in Italia si punta ora sulle auto di lusso. Una scelta impegnativa che presuppone massicci investimenti. Gli azionisti sono disposti a mettere mano al portafoglio? A questa domanda bisogna rispondere. Invece si preferisce il cinico show dei licenziamenti a Pomigliano, fatto sulla pelle dei lavoratori».
Gli altri sindacati accusano voi di cinismo. Dicono che la colpa è vostra per aver portato la questione in tribunale..
«Il Tribunale ha riconosciuto che dei lavoratori sono stati discriminati per il solo fatto di essere iscritti a un sindacato. Quei lavoratori si sono rivolti alla magistratura. Lo hanno fatto come qualsiasi altro cittadino. Perché la legge deve valere anche nelle aziende. Questo almeno accade nel mondo occidentale. Che cosa dovevamo fare? Dire che non si va in tribunale perché i panni sporchi si lavano in famiglia, come se il sindacato fosse una casta?».
Che cosa accadrà ora?
«Secondo noi i licenziamenti sono illegittimi. Non ci sono le condizioni. Sono una trovata mediatica. Noi chiediamo che vengano convocate le assemblee di fabbrica per evitare che la Fiat riesca a dividerci. E chiediamo che gli altri sindacati non firmino l’autorizzazione alla mobilità».
(p.g.)

l’Unità 1.11.12
I partiti «tradizionali» sono finiti da tempo
di Massimo Adinolfi


«I partiti tradizionali godono di percentuali sempre più irrisorie», ha scritto Battista sul Corriere a commento dei risultati siciliani. Non diversamente Grillo sui festeggiamenti del Pd: forse si attendevano un risultato a una cifra, ha detto.
Per dire che c’è poco da festeggiare: vantarsi di un successo elettorale in queste condizioni è fuori luogo. La frammentazione del voto, il successo del Movimento Cinque Stelle, e ancor più l’area dell’estensione, che ha ormai superato quota 50%, disegnano un panorama politico molto complicato per il futuro governo siciliano, e soprattutto rischiano di proiettare sulle ormai prossime elezioni politiche generali una luce funesta. Così l’editoriale del Corriere di ieri era un’unica variazione sul tema: i partiti tradizionali non capiscono anzi: non vogliono capire il segnale perentorio che l’elettorato gli ha mandato. Non basta: quelli che, come il Pd e l’Udc, non debbono soltanto leccarsi le ferite, visto che sono comunque usciti vincitori dalle urne, ne traggono pretesto per riprendere la solita, impresentabile politica. Come se niente fosse, come se niente stesse accadendo, come se fossimo usciti dalla crisi, mentre invece ci siamo dentro fino al collo.
Purtroppo, un ragionamento del genere ha una facile, quanto desolante conclusione: la politica è quell’attività che ci si può permettere solo in tempi di vacche grasse. Quando invece i numeri disegnano cupi scenari di crisi, allora bisogna sospendere l’attività politica e lasciar fare ai tecnici, che non hanno nessuno dei vizi irredimibili degli uomini politici, e sono perciò i soli legittimati a tirarci fuori dai guai.
Ora, può ben darsi che abbia ragione chi così ragiona: che cioè la politica sia davvero un lusso che di questi tempi non ci si può permettere. Che l’Italia non possa trovare energie e risorse sufficienti, sia economiche che morali, se non mettendo in mora i partiti politici. Che personalità autorevoli non possano mai provenire dalle fila di quelle organizzazioni a cui pure la Costituzione ancora vigente affida il compito di determinare la politica nazionale. Può darsi che sia davvero così: che nel voto siciliano non ci sia l’indicazione che altri invece hanno voluto cogliere, di una proposta di governo dopo la disfatta del Pdl, pur in presenza di massici elementi di disaffezione e sfiducia. Ma anche se Battista avesse ragione sia nel giudicare indistintamente pari a zero la credibilità di tutti i partiti, sia nel criticare la spinta che il centrosinistra cerca nel voto per avviare un percorso di ricostruzione nel Paese e per il Paese, su una cosa di sicuro avrebbe torto: precisamente nell’affermazione di cui sopra.
Dove sono infatti i partiti tradizionali con percentuali irrisorie? Sia chiaro: il punto non è che le percentuali conseguite da Pd e Udc siano da leccarsi i baffi. In Sicilia la lista che ha preso più voti è quella di Grillo. Questo dato basta da solo a giustificare tutta la preoccupazione degli osservatori. Ma quel che è sbagliato è attribuire quelle percentuali ai partiti «tradizionali», perché partiti tradizionali non ce ne sono da un bel po’. Hanno tutti pochissimi anni di vita: sono sigle nuove. E da qualunque punto di vista li si guardi, non si troverà in essi nulla di paragonabile a un partito tradizionale. Se qualcuno o qualcosa ha percentuali irrisorie, sono dunque partiti che hanno da tempo perduto le caratteristiche tradizionali: in termini di radicamento, di organizzazione, di elaborazione culturale. Non è necessario che sia così: negli altri Paesi europei non è così. Bisognerebbe per questo scrivere, se proprio si vuol dare addosso alla classe politica, che hanno percentuali irrisorie i partiti avventizi e occasionali che da qualche anno, non di più, si presentano alle elezioni. Ma così non si può scrivere: perché così si comincerebbe a pensare che il vero problema è proprio quello di ricostruire il Paese irrobustendo le risorse politiche di cui dispone, dando forza ai partiti capaci di durare e di costruire per il futuro. La direzione di marcia sarebbe allora opposta a quella indicata dal Corriere: non fatevi da parte e lasciate lavorare i tecnici, ma fatevi avanti, e dateci un progetto per l’Italia.
Ma questo, a ben vedere, è proprio quello che il centrosinistra si candida a fare. E se ci sarà un centrodestra capace di fare altrettanto sarà il benvenuto, in una competizione che avrà ancora il nome di elezione politica, e non di selezione tecnica del Parlamento nazionale.

Corriere 1.11.12
L'argine per difendersi dall'avventurismo
di Paolo Franchi


Dice il presidente Monti che il suo governo sarà anche «maledetto», ma agli italiani è pur sempre più gradito di quanto lo siano i partiti. È vero, come da ultimo ci mostra (almeno per i partiti) il voto siciliano. Ma le parole del presidente del Consiglio meritano ugualmente qualche riflessione in più.
Sullo straordinario discredito in cui versano, chi più, chi meno, i partiti attuali non c'è molto da aggiungere. Chi più, chi meno, se lo sono andati a cercare, dando addirittura l'impressione, negli ultimi tempi, di volerlo promuovere attivamente. Di assoluzione gran parte dell'opinione pubblica, e forse la maggioranza degli elettori, non vuole, comprensibilmente, sentir parlare, e nemmeno di attenuanti. Tutto vero, tutto giusto. O quasi. Perché lo stato comatoso in cui versa la politica è anche il frutto di una lunga, martellante campagna che la ha avuta per principale bersaglio. Una campagna condotta da destra e da sinistra, e fondata sull'idea (non propriamente nuovissima in tanta parte della cultura italiana) che la politica democratica non possa risolvere i problemi, perché è essa stessa, per definizione, il problema. Tanto più in un mondo vasto e terribile in cui le decisioni che contano si prendono in sede sovranazionale, e a noi non resta che fare i compiti a casa.
A questa offensiva i partiti hanno risposto adeguandovisi, o facendo finta di adeguarvisi. Almeno finché è stato materialmente possibile. Quando l'Italia si è ritrovata davvero sull'orlo del baratro, è venuta giù tutta la messinscena della sacra rappresentazione pseudo-bipolare delle due Italie l'un contro l'altra armate. E, assieme alla messinscena, sono venuti giù pure gli attori. Per primo Silvio Berlusconi, e con lui quel che restava del centrodestra, certo. Ma pure un centrosinistra che, proprio mentre il Nemico toglieva frettolosamente le tende, doveva prendere atto di non rappresentare un'alternativa di governo credibile.
Qualcosa di non troppo dissimile, si dice, lo avevamo già visto una ventina di anni fa. Tra le differenze, però, ce n'è una sostanziale. Possiamo anche appassionarci quanto vogliamo alle primarie, un succedaneo tanto partecipato quanto vagamente strampalato dei congressi di un tempo, di cui nessuno sa dire esattamente la posta. Ma stavolta non c'è, neanche nelle primarie, alcun «nuovo che avanza» sul quale appuntare, magari con qualche indebita euforia di troppo, delle speranze riformatrici, alcun referendum cui affidare le sorti di una rigenerazione della politica. Ci sono solo da una parte una crisi economica e sociale più devastante di quanto vogliamo confessarci, e un governo costretto a farsi «maledire» per i suoi provvedimenti. Dall'altra degli ectoplasmi di partiti, che vorrebbero liberarsene ma non hanno la minima idea di come riuscirci. Sullo sfondo, crescono la protesta opaca e muta, ma di certo ostile, dell'astensionismo di massa; e la protesta rumorosa di un aspirante movimento di liberazione e di autogoverno degli onesti e dei semplici, che dilaga sotto l'insegna delle Cinque Stelle. Finché non prenderà corpo una terza e più preoccupante protesta, nutrita dalla collera sociale, si leverà sempre qualche saccente «antitaliano» a spiegarci che, ancora una volta, la situazione è grave ma non seria.
È uno sbaglio grossolano. La situazione è già ora sufficientemente grave e sufficientemente seria da sconsigliare di vestire i panni degli apprendisti stregoni. Ancora una volta può aiutare, forse, il raffronto con quello che capitò una ventina di anni fa. Qualcuno ricorda, forse, Alleanza Democratica, che si autodefiniva, agli esordi, «il partito che non c'è»: non c'era, e guarda caso non è mai davvero venuta al mondo, nonostante le simpatie e le blandizie che le riservarono grandi giornali, intellettuali, ambienti economici che contano. Chi oggi pensa di costruire dalle parti del centro, magari in nome di Monti o come suol dirsi della sua agenda, un altro «partito che non c'è», farebbe bene a riflettere su quell'esperienza, e a mettere su, se ne ha la forza, qualcosa di più sostanzioso: anche in considerazione del fatto che, purtroppo o per fortuna, c'è sempre da passare l'esame finestra delle elezioni.
Poi, ci sono strade magari meno fascinose, ma forse più realistiche. Sempre vent'anni fa, non si disperse sul nascere solo Alleanza Democratica. L'alleanza tra i progressisti e i moderati, il centro-sinistra con il trattino, come lo chiamava Francesco Cossiga, non riuscì nemmeno a prendere corpo. Vinse, facendo propria e amplificando la spinta dell'antipolitica, Berlusconi. Adesso, la crisi è molto più grave, l'antipolitica molto più radicale, i rischi per la democrazia molto più seri. Spiace ricorrere a un linguaggio politico datato, ma il problema principale è come fare argine a tutto questo. Le questioni che dividono la sinistra che guarda al centro e il centro che guarda a sinistra (non riassumibili solo nel nome di Niki Vendola) sono, come è noto, assai numerose. Ma, come è sempre avvenuto nella storia d'Italia, un argine all'avventura più solido della loro intesa si fatica a immaginarlo. Chi ne conosce uno diverso, e migliore, farebbe bene a renderne edotto il Paese. E subito.

Repubblica 1.11.12
Voto di protesta
Tra astensioni e liste alternative quando vince l’anti-politica
di Carlo Galli


Alzare la voce contro la Casta è solo un primo passo, ma non è di per sé sufficiente a innescare il cambiamento
La polemica tra vecchio e nuovo resta improduttiva se rimane limitata al solo aspetto anagrafico

Arrivano gli effetti politici dell’antipolitica – che estranea alla politica non è mai stata –. I siciliani secedono, escono dal sistema politico. Come al tempo della caduta del Muro le barriere furono infrante e i confini violati da una trasgressione liberatoria, così oggi cadono le fragili mura e i tarlati edifici della Seconda repubblica, per il combinato disposto di due modalità di protesta, distinte ma convergenti: quella passiva dell’astensionismo e quella attiva del voto a favore di un movimento populista rabbiosamente antisistema. Se i siciliani, in maggioranza, non vanno a votare, se un sesto di quelli che votano scelgono una forza che si chiama fuori dalle logiche della politica ordinaria, e se gli altri si distribuiscono in partiti medio-piccoli che non possono dar vita a maggioranza stabili e coese, allora tutto ciò fa barcollare le istituzioni, le terremota, le delegittima.
Nulla è stato fatto, a oggi, dalle elezioni amministrative di primavera – dalle quali questo esito si poteva evincere con facilità – per porre rimedio alla cattiva politica che è la madre della protesta. Ora siamo alla crisi non nel sistema ma del sistema: sarà ben difficile che la politica sappia produrre nuove soluzioni; in Sicilia – e anche in Italia, se l’isola è ancora da considerarsi, come lo fu in passato, il laboratorio in cui si esperimenta ciò che poi accadrà nella penisola – urge il passaggio alla Terza repubblica, perché la Seconda non ce la fa.
Si manifesta, è vero, un trend, l’unico possibile, di governabilità; a fronte dell’astensione, del grillismo e dello spappolamento della destra, si può far conto esclusivamente su un’alleanza, per difficile che sia, fra Pd, Udc e Sel (quest’ultima, da sola, perde, fa perdere e rende instabile il sistema). Tranne, naturalmente, che non si formi e non sia vitale un Nuovo Centro – ma il Pdl di Alfano non si scioglierà tanto facilmente –. A fronte di questo sentiero politico stretto agli italiani, oggi, vengono proposte molte offerte antipolitiche, in concorrenza fra di loro: Grillo, Di Pietro, il Berlusconi ultima maniera – che con il suo sfacciato populismo tenta appunto di recuperare la protesta –, hanno il medesimo target: recuperare l’astensionismo, a ogni costo.
E qui sta il nodo del voto (o del non voto) di protesta. Alzare la voce, o non alzarsi dalla poltrona di casa, contro i partiti, contro la Casta – le cui prestazioni sono troppo insoddisfacenti, la cui corruzione è troppo disfunzionale – è solo un primo passo, che rischia di essere un passo indietro (o un affondare sul posto, nelle sabbie mobili), se non si fa il secondo. Che dovrebbe essere prendere coscienza del fatto che l’antipolitica è una forma di populismo dal basso che protesta contro il populismo dall’alto, che lo rifiuta ma non lo modifica qualitativamente, che lo assume, benché in negativo e
inconsapevolmente, come una sorta di orizzonte o di destino – non a caso, dall’alto c’è chi lavora (Berlusconi, con la sua ultima novità: Forza Italia alleata con la Lega) per riprendersi quel consenso che dapprima cercava attraverso l’amore comunitario, e che ora invece insegue facendosi interprete della rabbia popolare –.
Pendolo che non fa muovere nessun orologio, ovvero che segna sempre la stessa ora, la protesta antipolitica è solo il rifiuto di prendere consapevolezza che le questioni politiche non si risolvono solo cambiando il ceto politico, ma mettendo in campo nuove idee e nuovi orizzonti, e nuovi assetti degli interessi, plurimi, che coesistono in una società complessa. Come il nesso polemico vecchio/nuovo ha senso solo se esprime un conflitto non solo anagrafico, così il rapporto amico/nemico che il populismo vuole istituire far Noi e Loro, fra popolo ed élites, ha senso solo se dà vita al disegno di un nuovo assetto della repubblica.
Se ciò non avviene, la protesta è sì il segno di un mondo che muore, di un ordine che si sbriciola, ma resta subalterna alla crisi di quel mondo, la abita facendo parte del problema e non della soluzione. D’accordo, nessuno rimpiangerà, dal punto di vista politico, gli ultimi vent’anni (nemmeno gli anni Ottanta, in verità): ma il voto di protesta è, rispetto a quel ventennio, un congedo dal quale ci si deve infine congedare. Il voto di protesta ha senso, insomma, solo se è anche una proposta. Altrimenti è un’agitazione inerte, è molto rumore per nulla. O per resuscitare, come avverrà in Sicilia, politiche di Palazzo, maggioranze instabili, a geometria variabile; certo, non una sconvolgente novità. In altri termini, è controproducente e paradossale: non solo fa sì che la maggioranza che protesta sia governata dalla minoranza che vota, ma è il modo migliore per lasciare tutto com’è, o per preparare un futuro diverso ma peggiore.
Nella terra del Gattopardo, che come si sa non è la Sicilia ma l’Italia intera, si profila un Gattopardismo inconsapevole e pigro: se non capisce che il futuro non è l’antipolitica speculare alla cattiva politica che l’ha generata, e che non è neppure semplicemente una nuova politica ma che deve essere soprattutto una buona politica, il gatto con l’occhio di lince rischia di essere un gattino cieco, la bestia astutissima di restare intrappolata nella propria ingenua furbizia. Solo se comprendiamo che la protesta va rivolta soprattutto contro la nostra pretesa di non occuparci di politica e di esserne soltanto i fruitori passivi, riusciremo a superare la secessione interna – la voragine che in Sicilia si è aperta, e in cui rischia di precipitare tutta l’Italia – fra noi e la nostra esistenza politica, e a evitare il rischio di distruggere, con la nostra esasperazione, proprio la nostra speranza.

Repubblica 1.11.12
Le contestazioni nella storia d’Italia
Se un sistema entra in crisi
di Massimo L. Salvadori


Movimenti che fanno risaltare il discredito delle forze dominanti e segnano il passaggio da un blocco di potere ormai esaurito a un altro come più volte è accaduto in passato

Protestare significa dichiarare pubblicamente, dare testimonianza, uscire allo scoperto, dire basta a qualcosa o a qualcuno. Non a caso il Lutero che disse “basta” alle malefatte di Santa Madre Chiesa fu detto “protestante”. La protesta, quando non sia solo un atto di negazione, è animata da uno spirito di rivolta che accompagna la volontà di cambiamento ad una promessa di rinnovamento. L’humus che la genera e in cui prospera è la crisi politica, istituzionale, sociale, il discredito dei soggetti già dominanti. Essa diventa acuta e protagonista in quelle che possiamo definire “crisi di regime”, intendendo per tali tanto i momenti estremi di crollo di un tipo di Stato quanto quelli che segnano la bancarotta di un blocco di potere e di un sistema partitico.
Orbene, siamo oggi in pieno nella quarta crisi di regime nella storia dell’Italia unita: dopo quelle che causarono la fine dello Stato liberale, dello Stato fascista, del blocco di potere Dc-Psi con Tangentopoli e il cedimento dell’intero sistema partitico sorto nel secondo dopoguerra. Ci troviamo di fronte all’esaurimento dell’informe Seconda Repubblica e nel confuso affacciarsi di una ancora del tutto indistinta Terza Repubblica, nella quale esplode la protesta. Una protesta, che ha trovato le sue clamorose espressioni nelle recentissime elezioni siciliane, assumendo le vesti da un lato di un’astensione dalle urne dalle dimensioni senza precedenti e dall’altro del trionfo – che già ha alle sue spalle una storia breve ma assai significativa – del movimento grillino. I movimenti di protesta politica e sociale sempre hanno dovuto e devono fare i conti con un passaggio molto delicato, complesso e difficile: dal no al sì, dall’attacco agli avversari alla dimostrazione di una propria costruttiva capacità politica. È in questo che sta il loro redde rationem.
In proposito le lezioni del passato parlano chiaro. Le elezioni del 1919 furono un vero e proprio trionfo della protesta dei socialisti e dei popolari cattolici contro la classe dirigente liberale che andò incontro al fallimento a beneficio del fascismo; nel 1946 l’Uomo qualunque di Giannini, che, pur di dimensioni elettoralmente assai contenute, fece nondimeno gran fracasso in polemica con il ritorno dei vecchi partiti, finì per farsi trasformisticamente riassorbire da liberali, missini e democristiani; nel 1992-94 la protesta morale e politica contro Tangentopoli e il potere incarnato dal CAF entrato in coma, che vide protagonisti i movimenti referendari e la Lega, ebbe come principale atto conclusivo la vittoria elettorale di Berlusconi, che fece il miracolo di alleare quest’ultima, An e Forza Italia riuscendo a riciclare e rivitalizzare tanti ex democristiani ed ex craxiani, gettando le basi di una lunga palude.
E ora? Avanzano a grandi passi gli uomini di Grillo, mentre Berlusconi finalmente boccheggia, il Pdl è costretto a fare i conti con i suoi molti peccati e, purtroppo, il Centro-sinistra non va troppo male ma neppure troppo bene. La protesta degli elettori che in Sicilia hanno voltato la testa dinnanzi alla scheda e lo straordinario successo dei grillini – chiamati, appunto, ad un’ardua prova del nove – suscitano insieme preoccupazione e speranza: preoccupazione in quanto inequivocabile sintomo della quarta crisi di regime e speranza perché ci si augura che inducano le forze politiche nel loro insieme a comprendere per chi suona la campana e a trarne le debite e auspicabili conclusioni.

il Fatto 1.11.12
I giovani non bastano per la rivoluzione
di Massimo Fini


Bastano la giovinezza e le facce pulite dei giovani “grillini” siciliani (un’antropologia che si riproporrà, e probabilmente con numeri ancor più consistenti, alle prossime elezioni politiche) per sperare in un futuro migliore? In linea di massima direi di no. Nei dintorni del Sessantotto, quando imperversava il più spudorato giovanilismo (il modo migliore per inculare i giovani è farli sentire protagonisti, portarli in palmo di mano – allora, nella società che assaporava il benessere, c’era anche, e forse soprattutto, una ragione economica: i giovani erano diventati un settore di mercato appetibile) scrissi per Linus un articolo intitolato: “Basta con i giovani” che concludeva così: “La cosa migliore, modesta ma onesta, che possono fare i giovani è una sola: invecchiare”. È VERO CHE QUELLI DEL SESSANTOTTO non fanno testo, erano giovani fuori ma già marci dentro. Erano figli della borghesia e della borghesia avevano preso tutti i notori vizi: il cinismo e l’opportunismo. Non volevano cambiare il mondo ma semplicemente sostituirsi ai loro padri nell’esercizio del potere, con metodi, se possibile, ancora più trucidi. Il viso di Paolo Mieli (militante, assieme ad altri rampolli dell’alta borghesia e dell’aristocrazia romana, di PotOp, “molotov e champagne”) diceva, già allora, tutto: non voleva fare nessuna rivoluzione ma diventare, per vie scorciatoie, direttore del Corriere della Sera.
Avranno la stessa sorte i giovani “grillini” una volta preso il potere o una sua fetta? È probabile. Il Tempo, padrone assoluto delle nostre vite, ci logora, affievolisce i nostri entusiasmi, spegne le nostre speranze. Ci si adegua. In C’eravamo tanto amati, un bel film del 1974, con Gassman, Manfredi, la Sandrelli che, passati i tempi spavaldi della giovinezza si ritrovano nei loro quarant’anni, uno dei protagonisti dice, amaramente: “Volevamo cambiare il mondo, ma è il mondo che ha cambiato noi”. “Ci vuole del talento per invecchiare senza diventare adulti” canta Franco Battiato.
I giovani “grillini” hanno però qualche vantaggio rispetto alle generazioni che li hanno preceduti. Per quanto possono invecchiare, incarognire e i loro volti deformarsi è difficile che finiscano per omologarsi totalmente ai mascheroni che sono in circolazione attualmente. Gasparri, Berlusconi, Cicchitto sono dei “top ten” dell’orrore, fisico e morale, e pare impossibile scalzarli da questa speciale classifica.
E POI I GIOVANI “grillini” hanno un guru, un capo, un padre-padrone ultrasessantenne, che li sorveglia, li tartassa, li bacchetta, li punisce, li espelle e che è uno dei pochissimi che “è invecchiato senza diventare adulto”.
Non si tratta però di un endorsement: per il quotidiano della City londinese, il Movimento Cinque Stelle non offre “una coerente soluzione” ai problemi dell’Italia. Sta quindi ai partiti politici riprendere in mano la partita avviando una stagione di riforme, in primis una nuova legge elettorale e nuovi standard etici per i futuri deputati. In caso contrario le élite politiche dell’Italia resteranno le migliori “piazziste” per il “buffone che tanto disprezzano”.

il Fatto 1.11.12
Nei sondaggi Bersani stacca il sindaco fiorentino

Sondaggi in crescita per Pier Luigi Bersani. Da Pagnoncelli a Ballarò martedì sera il segretario veniva dato al 43 per cento contro il 32 di Renzi.
Ieri, secondo la Stampa, i due si distaccavano di sette punti, il segretario al 46, il Sindaco al 39. E dietro, Vendola al 10%, Puppato al 4, Tabacci all’1%. (circa 12.000 interviste su un campione rappresentativo dell’elettorato delle precedenti primarie).
Secondo la rilevazione riservata che circola al Pd i punti di distacco tra i due sarebbero molti di più: Bersani sarebbe al 46 per cento, inseguito da Renzi al 31.

l’Unità 1.11.12
Primarie, l’albo non sarà in rete
La decisione del Garante divide renziani e comitato promotore
Bersani al Colle fa il punto sulle fiforme
di Maria Zegarelli


ROMA I dati personali degli elettori delle primarie non saranno diffusi on line così come quelli del pubblico appello di adesione al Manifesto della coalizione di centrosinistra. La decisione è arrivata ieri dal Garante della privacy (a cui aveva fatto ricorso Matteo Renzi) precisando che spetta al Comitato dei Garanti fissare le modalità con cui i dati relativi all’appello pubblico siano consultabili ma non nelle forme esplicitamente vietate. L’albo degli elettori, invece, come ha precisato il Garante, «verrà utilizzato esclusivamente ai fini delle verifiche legate alle operazioni di voto». Ed è stato lo stesso Garante della Privacy a ricordare che anche nella memoria fornita dal presidente del Comitato dei Garanti, Luigi Berlinguer, la pubblicazione on line era stata eplicitamente eslcusa.
Esulta Roberto Reggi, coordinatore della campagna elettorale di Renzi: «Il Garante della Privacy ci ha dato ragione su tutto: ci sarà quindi la possibilità della pre-iscrizione on -line e la tutela dei dati sensibili per tutti gli elettori! Avremo quindi primarie più libere di quelel pensate dall’apparato del Pd al quale la prepotenza non ha portato fortuna!. Spiace...». Dal Comitato Bersani arriva immediata la replica: «Stupisce l’entusiasmo dei sostenitori di Renzi per un pronunciamento del Garante che non fa altro che confermare l’impostazione già prevista dai Garanti delle primarie dice Alessandra Moretti In particolare si conferma che l’albo dei sottoscrittoti dell’appello del centrosinistra è pubblico, anche se, esattamente come previsto dal regolamento dei Garanti della coalizione, non divulgabile on line». Si potrà dunque, consultare nelle sedi dei partiti, mentre gli elettori saranno liberi di decidere se dare o meno il pro-
prio consenso al trattamento dei dati personali. Intanto Lino Paganelli, che rappresenta il sindaco fiorentino nel Coordinamento delle primarie non perde tempo: chiede «che sia convocata a stretto giro una riunione del Coordinamento nazionale per le primarie in modo da mettere gli uffici elettorali nelle condizioni di iniziare i propri lavori nel modo più efficace e rispettoso delle indicazioni sui temi della privacy».
RENZI, BERSANI E IL PCI
Il sindaco, intanto, alza lo scontro con il segretario. Nell’ultima fatica letteraria di Bruno Vespa, spiega che da quando sono iniziate le primarie comunica solo «con sms semplici e secchi, roba da 60 caratteri». Racconta che Bersani gli ha dato ragione quando si è offeso per quel «fascistoide» usato da Michele Prospero su l’Unità, e rimprovera il segretario di portare il Pd verso il vecchio Pci.
Al segretario, dice durante il tour nelle Marche, «andrebbe ricordato che questo partito non è la versione 2.0 del Pci. Il Pd non sono solo i ragazzi delle Botteghe Oscure cresciuti, ma sono quelli cresciuti alle Botteghe Oscure insieme con tanti altri». Su Facebook rimbalza la foto del rottamatore accolto nella sua tappa alle Marche dal coordinatore del Pdl di Senigallia, Alessandro Cicconi Massi, poco male, perché, spiega Renzi, «davanti ai delusi del centrodestra come si fa a non fare appello anche a loro? La sinistra è un grande patrimonio di ideali e valori ma non voglio un museo di statuine». Assicura anche che se dovesse voncere lui le primarie non romperà il patto con Vendola, ma sarà il governatore ad adeguarsi al suo programma. «Io mi aspetto lealtà da Vendola, non avrei in programma un ribaltamento di alleanze».
«Il Pd non è un Pci 2.0, ma il partito riformista del nuovo secolo», replica Bersani da Pavia, poco prima di salire sul palco per un comizio. «Senza radici non si fanno foglie nuove», ripete come una mantra. A chi gli chiede quali siano i difetti della «ditta», risponde: «Abbiamo qualche limite di anarchismo e poi, non sempre abbiamo la sufficiente tenuta, magari siamo un po’ troppo nevrotici per i miei gusti. Bisogna essere più sicuri di noi stessi, più saldi, il difetto più grosso è che non sempre comprendiamo quanto siamo forti, che siamo più forti delle nostre debolezze che giustamente ci vengono rinfacciate. Bisogna essere più sicuri, i difetti li abbiamo, ma tanto in giro di meglio non c'è». Quindi, meglio mettersi «a contatto con i problemi della gente e cercando di essere uniti, senza mai dimenticare le antichissime radici di solidarietà e piega popolare della nostra proposta». Ieri il segretario, prima di partire per Pavia, è salito al Colle per un colloquio con il Presidente della Repubblica nel corso del quale si sono affrontati i nodi della legge di stabilità, «della stabilità dell’azione del governo» e della legge elettorale che il Capo dello Stato vuole sia cambiata prima del voto di primavera. «Ogni tanto ci si incontra per fare il punto sulla situazione dice il segretario Pd -. Ogni tanto si fa una chiacchierata che è sempre molto gradevole: le “mezze ore” con il Presidente sono le migliori che passo», ha spiegato.

La Stampa 1.11.12
Cgil mobilitata per Bersani regole ed effetto-Sud I tre problemi di Renzi
Allarme dai sondaggi: il divario dello sfidante cresce
di Fabio Martini


Il sindaco continua ad ostentare la proverbiale sicumera, tanta gente continua a radunarsi attorno al suo camper e dentro ai teatri, eppure tra gli uomini di Matteo Renzi comincia a trapelare un filo d’ansia. Qualcosa che somiglia ad un allarme rosso: a 25 giorni dalle Primarie tutti i sondaggi (tranne uno) segnalano un irrobustimento delle preferenze per Pier Luigi Bersani e una contestuale flessione del suo sfidante più quotato. Ma non è solo questione di sondaggi: cominciano ad affiorare tante spie rosse. A cominciare dalla mobilitazione informale ma massiccia, non tanto del pachiderma Cgil, ma del suo strumento più agile, lo Spi, il sindacato pensionati. Un potenziale di 3 milioni di iscritti-elettori che, attivato soltanto al 30%, collocherebbe Pier Luigi Bersani su un corposissimo piedistallo di partenza. Ma il pericolo più insidioso, visto dai renziani, sta dentro la più controversa delle regole decise dai «saggi» per le Primarie: ci si registra in un posto e si vota in un altro. Si tratta di una regola destinata a sgonfiare l’afflusso di una parte dell’elettorato di opinione, ma questo effetto nelle regioni del Mezzogiorno potrebbe trasformarsi in un effetto-valanga a favore del candidato portato dalle strutture di partito.
Matteo Renzi se ne è accorto. Ai suoi lo ripete da qualche giorno: «Finito il giro, bisogna rilanciare». E infatti il giro d’Italia del camper tra le province finisce lunedì e a quel punto Renzi dovrà decidere come lanciare la volata finale. Imperativo categorico per un personaggio che, nel mettersi in gioco, non ha chiesto il permesso a nessuno dei poteri forti della sinistra: i capi-corrente del Pd, i guru dell’informazione, gli editori di riferimento, i sindacati. L’uomo si fida molto di sé e dunque, sarà una volta ancora il suo estro a dettare i tempi degli ultimi 20 giorni. Le tentazioni sono molte, a cominciare dall’idea di lanciare segnali più forti, per poter dirottare su Renzi «una parte dell’elettorato grillino», come sostiene il supporter Mario Adinolfi. Ma in attesa dell’ispirazione «giusta», il sindaco e i suoi stanno ragionando su come tamponare le falle. Quella della Cgil, senza dubbio, è imparabile. Sostiene Antonio La Forgia, già presidente della Regione Emilia Romagna: «Bersani parte con un milione di voti in più». Una valutazione che trova indirettamente conferma in un dato inatteso: i segretari dello Spi dell’Emilia-Romagna, riproponendo in versione aggiornata l’antica cinghia di trasmissione sindacato-partito, hanno dato vita ad un Comitato pro-Bersani.
Ma il campo nel quale Renzi, probabilmente, ha perso una battaglia decisiva è quella delle regole delle Primarie. Anziché impegnare uno dei suoi in una trattativa, volta ad impedire la norma dello sdoppiamento registrazione-voto, Renzi ha ostentato disinteresse («Mi fido di Bersani»), successivamente ha accusato il colpo («Non ci parliamo da settimane», ammette lui stesso), ma ora si trova a dover affrontare a mani nude la battaglia nelle due regioni per lui più ostiche (Sicilia e Calabria), senza dimenticare che alle Primarie 2009 Bersani conquistò in Campania il 60,4%, otto punti in più che a livello nazionale. I precedenti in città come Napoli, Renzi lo sa, consigliano un controllo occhiuto del voto e del «dopo-voto» ma per farlo occorre una macchina organizzativa imponente per coprire i circa diecimila seggi sparsi in tutta Italia e almeno i cinquemila luoghi addetti alla registrazione: mentre Bersani può contare sulla struttura del partito, i renziani dovranno mettere in campo circa quindicimila volontari con le «antenne». Dice Pino Pisicchio, deputato pugliese di lungo corso: «Nel Mezzogiorno la procedura doppia di registrazione-voto scoraggerà molto la partecipazione e persino le percentuali oggi rilevate dai sondaggi per Renzi, sono destinate a sgonfiarsi».



l’Unità 1.11.12
Dopo la Sicilia, il Lazio: Casini rilancia l’asse col Pd
I centristi abbandonano la Polverini
e non escludono un’alleanza anche con Sel
di A.C.


ROMA Effetto Sicilia nei rapporti tra Udc e Pd. E se a livello nazionale ancora permangono le difficoltà a cementare un fronte che vada da Vendola a Casini, nel test delle regionali che anticiperà le politiche lo “schema Crocetta” (ma stavolta allargato anche a Sel) sembra destinato a ripetersi. Passando anche per il Comune di Roma.
«L’esperienza della Regione Lazio è finita ed è finita male a causa della inaffidabilità del gruppo del Pdl. Nella città di Roma siamo all’opposizione e diamo un giudizio negativo su quella amministrazione. Io penso che in sede elettorale non è ipotizzabile pensare a un nostro impegno con il centrodestra a livello laziale», ha detto ieri Casini una conferenza stampa. Parole tutt’altro che scontate, visto che l’Udc è stato uno dei principali sostenitori della giunta Polverini, dove era rappresentato (ma la giunta come noto è ancora in carica) dal vicepresidente Luciano Ciocchetti. Il capo centrista stavolta sembra aver spiazzato anche i suoi dirigenti laziali, che con “Renata” non avevano mai rotto i ponti. Anzi. Lei stessa si era fatta vedere a settembre alla kermesse centrista a Chianciano e nel giorno delle dimissioni non aveva mancato di ringraziare «gli amici dell’Udc» per il lavoro fatto insieme.
Ma Casini va anche oltre, spiegando che l’Udc è «disponibile a governi imperniati sul riformismo e non su vecchi tabù della vecchia sinistra. Con quei tabù non abbiamo nulla a che fare». Mentre nel Lazio i democratici, capitanati da Enrico Gasbarra, si affrettano a sottolineare la «novità politica» rappresentata dalle parole del capo centrista (e non mancano i leader nazionali come Enrico Letta che ribadiscono la necessità di un asse di governo Pd-Udc), Anche in Lombardia qualcosa sembra muoversi. Allontanando l’ipotesi di un rassemblement moderato a sostegno di Gabriele Albertini con Pdl e centristi, ipotesi che pure ha avuto una certa plausibilità.
E così sembra sempre più probabile che l’election day delle regionali, previsto per gennaio-febbraio, possa rappresentare un test ancora più robusto per l’asse progressisti-moderati.
Non è detto che questo si traduca in un sostegno dell’Udc a Nicola Zingaretti. Anche perché, sondaggi alla mano, la coalizione Pd-Sel-Idv avrebbe già i numeri per vincere. E i vendoliani (ma anche parti del Pd) sono molto scettici sull’ipotesi di un allargamento al centro. È possibile anche una corsa solitaria dei centristi, che comunque renderebbe ancora più insignificanti le speranze di vittoria della destra. Ma la svolta laziale di Casini sembra figlia di un disegno che va ben oltre le realtà locali, e che mira a testare la tenuta dell’asse progressisti moderati anche nel Lazio e in Lombardia, per trarre utili insegnamenti in vista delle politiche. Le parole di ieri del segretario Lorenzo Cesa appaiono molto chiare: «L’alleanza tra moderati e progressisti per noi è irreversibile. Cattolici e progressisti, le grandi anime culturali presenti nel Paese, devono unirsi per governare l’Italia nella prossima legislatura Soprattutto se arriva Grillo in Parlamento con il 16 o il 18% dei parlamentari, non ci sono alternative». «Vendola ha aggiunto Cesa ci ritiene incompatibili con lui e noi siamo d’accordo. Se è per questo non è compatibile nemmeno con il Pd, che a differenza sua sostiene lealmente il governo Monti. Ci vuole chiarezza sugli obiettivi da raggiungere: per noi bisogna andare avanti con Monti, col risanamento e insieme con lo sviluppo. Mettere insieme Vendola con noi e il Pd non mi sembra molto coerente».
Al di là della nota insofferenza per il leader di Sel, Cesa ha annunciato che alle primarie voterebbe Bersani: «Sono molto amico e vicino a Tabacci ma è ovvio che lo scontro è tra il segretario e Renzi. Io stimo molto Pier Luigi, è una persona seria, al di là del fatto che Renzi sia più vicino a me idealmente. Penso che il Paese debba essere guidato da una persona solida, io Bersani lo apprezzo per la sua serietà e compostezza».
Al di là del rapporto personale tra il leader Pd e Casini, che si sono visti alla Camera martedì faccia a faccia, dentro i due partiti i pontieri sono in azione per stringere i bulloni dell’intesa. Dice Enrico Letta: «La vicenda siciliana dimostra che è indispensabile un’alleanza più larga, bisogna tenere insieme moderati e riformisti. Questo asse, questo rapporto è vincente ed è l'unica cosa che regge in questo panorama di sfascio. È l'unica ipotesi credibile di governo e Vendola lo deve capire: dobbiamo tenere insieme lui e Casini». Sul fronte Udc Enzo Carra da tempo lavora in questa direzione: «Casini dice che un alleanza progressisti-moderati è ineludibile, io aggiungo che ormai è anche ineluttabile...».

La Stampa 1.11.12
5 Stelle, scenari dopo la Sicilia
Lazio e Lombardia, i partiti temono il boom-Grillo
A Roma è già al 15%, senza aver fatto campagna. Alle comunali il Pd teme il ballottaggio
di Mattia Feltri


Preparate i sacchi di sabbia: il diluvio è appena cominciato. Il sindaco a Parma, il quindici per cento e primo partito di Sicilia sono stati niente perché è nei prossimi mesi che il Movimento 5 Stelle promette di far ballare tutti. Si rinnovano i consigli regionali del Molise ma soprattutto del Lazio e della Lombardia (forse il 27 gennaio), da dove il centrodestra esce dal governo dopo un finale imbarazzante, fra ostriche trangugiate, vacanze caraibiche, soprattutto fra predazioni furibonde e apparentamenti con la ’ndrangheta. Subito dopo bisognerà eleggere il sindaco di Roma, nello stesso giorno in cui si voterà per le Politiche. Non c’è istituto demoscopico, come molti sanno, che a livello nazionale quoti sotto il venti per cento i grillini (siccome non amano essere chiamati così, propongono il terribile acronimo Am5s, attivisti eccetera, oppure “cittadini”). Sono percentuali su cui si trasecola e su cui si imbastiscono teorie sociologiche. Ma fin qui si è un po’ trascurato quello che rischia di succedere localmente.
Nel Lazio, oggi il Movimento è già ai livelli siciliani. Ipr Marketing venti giorni fa lo dava al quattordici per cento, un punto sopra il Popolo della Libertà. Gli ultimi rilevamenti di Ipsos (un’indagine cominciata meno di una settimana fa) lo innalzano al quindici abbondante. I “cittadini” si accreditano già del sedici e mezzo. Tutto questo senza che Beppe Grillo abbia varcato con una sola ruota del suo camper i confini laziali. Per capire di che si sta parlando, basta tenere conto che gli ultimi sondaggi, prima che il comico traversasse a nuoto lo Stretto, attribuivano al M5S Sicilia l’otto per cento. Il tour indefesso e gutturale di Grillo ha portato quasi al raddoppio. Non significa che nel Lazio si toccherà il trenta, ma significa che il margine di crescita è ampio e imprevedibile. In più - spiegavano i sondaggisti la scorsa settimana molto sarebbe dipeso dal risultato di Palermo: se i grillini avessero fatto il botto, e lo hanno fatto, ne avrebbero goduto un po’ ovunque.
Sondaggi su Roma città non ce ne sono. Salvatore Pirozzi, attivista della capitale, è una pasqua: «Noi qui andiamo dal tredici al venti per cento», dice citando sue fonti. Dato vago, ma non tranquillizzante per i partiti tradizionali. Che infatti sono piuttosto preoccupati. Non tanto il Pdl, che ha deciso di affidare a Gianni Alemanno la questione della sconfitta, che è inevitabile, e che nessuno si è offerto di intestarsi presentandosi al posto del sindaco. Di certo è inquieto il Partito democratico, che non ha ancora scelto il suo campione e già intravede scenari parmensi. L’eventualità che a Roma vadano al ballottaggio il Partito democratico e il Movimento non è così vaga. E proprio Parma (ma non solo) dimostra che i ballottaggi sono brutte bestie.
Nemmeno i “cittadini” hanno ancora scelto i loro candidati, né per il Lazio né per Roma né per la Lombardia, dove però le procedure sono cominciate e a fine novembre sono previste le primarie on line. Ma non è il nome del pretendente a scaldare o annacquare le passioni: quello che conta, almeno finché si parla di sondaggi, è la sigla grillesca. Uno di qualche giorno fa, di Gpg-Sp, stila per la Lombardia la seguente classifica: Pd ventidue, Pdl diciotto, Lega Nord diciassette, M5S quindici e naturalmente in rimonta e naturalmente in crescita. È il nubifragio, ed è solo all’inizio.


il Fatto 1.11.12
Il Financial Times: “È ora di prenderlo sul serio”


IL COMMENTO è comparso ieri sulle colonne del Financial Times, autorevole quotidiano britannico: “Per le élite romane - scrive - è venuto il momento di prendere Beppe Grillo sul serio”. Un consiglio ai politici italiani, alla luce del risultato delle regionali in Sicilia: “Se i partiti politici tradizionali, invece di far finta di nulla, avessero fatto proprie le legittime richieste espresse da Grillo, il Movimento 5 Stelle non godrebbe del sostegno di cui invece gode oggi”. Per esempio, dice il Financial Times i partiti avrebbero dovuto copiare da Grillo la riduzione degli stipendi dei politici e il divieto a essere eletti in Parlamento se si hanno precedenti penali.

l’Unità 1.11.12
L’anticorruzione è legge. L’incandidabilità è «finta»
Ok definitivo alle norme anti tangenti
Severino ora punta a prescrizione e voto di scambio
Dell’Utri potrà essere candidato
di Claudia Fusani


Missione compiuta. Ma non c’è voglia di esultare. L’anticorruzione è legge e intorno al testo alla fine si è contata una maggioranza altissima (460 sì per la fiducia, 480 per il voto finale), cosa che dopo l’intemerata conferenza stampa post sentenza di Berlusconi non era da considerare scontata. E questi sono, in questo momento, elementi sicuramente positivi.
Ma esultare è un’altra cosa. E la prima ad esserne consapevole è il ministro Paola Severino: «Sono soddisfatta perché i numeri delle votazioni dimostrano che alla fine c’è stata un’ampia condivisione politica» dice calcando il Transatlantico dopo il voto finale e l’ennesimo tour de force smorzato dal color albicocca della giacca. È chiaro però che poteva essere fatto di più e meglio. E dietro l’affermazione del ministro «nessun compromesso al ribasso» c’è esattamente il contrario e la scelta di portare a casa comunque qualcosa. Ci sono nuovi reati (corruzione tra privati, traffico di influenze illecite, corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio, corruzione per l’esercizio della funzione, concussione per induzione), talvolta le pene sono state alzate e con loro i tempi della prescrizione. C’è il complesso delle nuove regole e relative sanzioni negli uffici pubblici per prevenire la corruzione. E alcuni divieti pesanti come quello per i dipendenti pubblici di ricevere regali e, per la magistratura amministrativa e l’avvocatura pubblica, di dirimere arbitrati. Sono sacche antiche di privilegi spazzati via con la legge.
Ma manca ancora molto: nuove regole sul voto di scambio, sulla prescrizione (che ammazza 200 mila processi ogni anno), e poi il falso in bilancio e l’autoriciclaggio. «Nulla è perfetto e tutto è perfettibile» ha detto il ministro citando Esopo e impegnandosi per i mesi che restano della legislatura. Quelle del ministro sono una lista di buone intenzioni che dipendono però solo in piccola parte dai suoi uffici. Sulla non candidabilità dei condannati, ad esempio, Severino ha quasi un moto di stizza quando le si ricorda che la norma, così com’è, è inutile. Uno specchietto per le allodole che non distrae più nessuno. L’aula ha approvato anche ieri una serie di ordini del giorno. Dicono tutti che bisogna fare presto per avere norme chiare prima del voto politico, in Lazio e Lombardia.
SPECCHIO PER LE ALLODOLE
Il Parlamento ha dato la delega al governo su questo punto. Il legislativo dell’Interno, il prefetto Bruno Frattasi, è pronto. Ma restano problemi di tempo. E di contenuto. Frattasi spiega quelli di tempo: «Gli uffici hanno già scritto lo schema del decreto delegato. Solo che la procedura prevede che il testo ripassi dal Parlamento, cioè sia sottoposto al vaglio delle commissioni per un parere obbligato ma non vincolante». Parere che le commissioni di Camera e Senato possono dare in 60 giorni, ma anche in una settimana.
Su quelli relativi al contenuto della delega, il prefetto auspica («è soprattutto la mia aspirazione da cittadino») che quando i partiti compileranno le liste e dovranno scegliere i candidati «prevalgano più i motivi di opportunità che non quelli del diritto».
Quello del prefetto è un modo gentile per dire che le maglie della non candidabilità sono amplissime. Così tanto che tra 21 condannati definitivi che stanno in Parlamento e dei 125 indagati o condannati in primo e secondo grado, si potranno candidare praticamente tutti tranne uno: Giuseppe Ciarrapico. I paletti della delega, messi dal Parlamento e non dal governo, vietano la candidatura a chi ha condanne definitive superiori ai due anni per reati di grave allarme sociale e contro la pubblica amministrazione. Il senatore Marcello Dell’Utri, stando così le cose, potrà essere ricandidato. Ha una sola condanna definitiva (2 anni e 3 mesi) patteggiata e per frode fiscale. «Nel nostro schema di decreto il patteggiamento è paragonato alla condanna definitiva» spiega Frattasi. La frode fiscale però non è tra i reati previsti. «A meno che aggiungenon si decida di inserire anche i reati fiscali tra quelli di grave allarme sociale su cui il governo può ancora intervenire per allargare le fattispecie». Anche coloro che hanno avuto la riabilitazione, seppure per reati gravi come il terrorismo, possono essere candidati.
Mancano 4 mesi e mezzo alla fine della legislatura. Dovendo scegliere, dopo le misure per un carcere più vivibile, il ministro Severino punta a lavorare sul prescrizione e voto di scambio. Ma è solo un sogno.

l’Unità 1.11.12
Scuola, dopo l’orario ora il blocco della legge Aprea
Incassato la bocciatura dell’aumento delle ore di insegnamento, il mondo dell’istruzione punta al ritiro della legge 953
Introduce un concetto di autonomia inutile e dannoso
di Mario Castagna


ROMA Vittoria! Non sono pochi gli insegnanti che possono dichiarare, ad alta voce, che la battaglia sull’aumento dell’orario di lavoro si è conclusa positivamente per loro.
Ieri sono stati presentati nella commissione Bilancio della Camera dei deputati, su iniziativa del Partito democratico ma con l’adesione di tutti i partiti della maggioranza, gli emendamenti che sopprimono la norma tanto avversata dai docenti italiani. Gli emendamenti erano stati già approvati all’unanimità dalla commissione Cultura, improbabili dunque sorprese dell’ultimo minuto. Gli insegnanti italiani possono tirare un sospiro di sollievo dal momento che il loro orario lavorativo rimarrà di 18 ore settimanali. Evitato quindi qualsiasi tipo di aumento dell’orario, dopo che nei giorni scorsi si era sparsa la voce tra gli insegnati che un punto di compromesso sarebbe potuto essere l’aumento dell’orario lavorativo di sole tre ore settimanali.
«L'approvazione dell'emendamento soppressivo all'aumento dell'orario di lezione, presentato dal relatore e dalle forze di maggioranza, è il primo passo per il definitivo stralcio della norma ha dichiarato Manuela Ghizzoni, presidente democratico della commissione Cultura Qualsiasi intervento di modifica dell'orario di lavoro deve essere inserito in ambito contrattuale e non può che tendere al rilancio della professione docente e del suo ruolo sociale».
La palla ritorna quindi al centro del campo dal momento che, secondo i docenti, non finisce qui la partita. Prossimo obiettivo è il ritiro del progetto di legge 953, la cosiddetta legge Aprea, che è stata già approvata dalla Camera e che deve essere ora approvata dal Senato.
L’AUTONOMIA CHE SERVE
In una lettera pubblica indirizzata al segretario del Pd Pierluigi Bersani, diverse reti locali di scuole ed insegnanti sparse su tutto il territorio nazionale, dalla «Retescuole» di Milano al comitato «La scuola siamo noi» di Parma, dal coordinamento «NapoliScuole Zona Franca» al «Coordinamento provinciale Presidenti Consigli di istituto, di circolo e Comitati genitori» di Modena, denunciano con forza che la legge 953 è una legge da ritirare perché, secondo loro, l'autonomia che ne deriva non è quella che serve alla scuola. Infatti, sempre secondo i firmatari della lettera, non verrebbe costruita un'autonomia didattica e organizzativa in grado di valorizzare le competenze educative dei docenti e le forme di autogoverno della scuola, come è stato fino ad oggi grazie ai decreti delegati del 1974. Denunciano al contrario che ci sarà un'autonomia fondata sulla separazione, l'autoreferenzialità e la parcellizzazione delle componenti scolastiche, dirette solamente da un dirigente scolastico nominato dall'alto che somiglierà sempre più ad un amministratore delegato e non ad educatore di comunità.
La legge Aprea rischia di diventare il prossimo obiettivo di una mobilitazione che in questi ultimi giorni ha, tra alti e bassi, fatto rivivere a molti lo spirito dell’autunno 2010, quando la protesta di piazza contro la legge Gelmini aveva riempito le strade di studenti ed insegnati. Anche in quel caso partiti e sindacati avevano dovuto rispondere ad una sollecitazione esterna e, soprattutto il Partito democratico, avevano dovuto cambiare il proprio atteggiamento iniziale.
Nelle assemblee e nelle iniziative organizzate in questi giorni nelle scuole di tutta Italia non si respira certo l’aria di vittoria. Il rischio dell’involuzione corporativa di tutta questa mobilitazione è molto alto ed è anche per questo che il movimento degli studenti sta cercando costantemente alleanze con il variegato mondo delle associazioni dei docenti.
Il primo segno di questa alleanza, seppur in ambito universitario, è stata l’elezione alla presidenza delle commissioni Didattica e Programmazione dell’Università di Torino di Giuliano Antoniciello, studente di Fisica di 23 anni. Mai uno studente era stato chiamato a presiedere un organo di governo così importante, da sempre appannaggio della componente docente. Prove tecniche di un’alleanza che può aiutare studenti e docenti ad oscurare ognuno i propri difetti ed esaltare invece i propri punti di forza.

l’Unità 1.11.12
L’appello
Scienziati italiani, mobilitiamoci anche noi
di Pietro Greco


IN POCHI GIORNI L’EUROPA E GLI USA SI GIOCHERANNO UNA PARTE DEL LORO FUTURO. Quella fondata sul ruolo che ha e deve avere la scienza nella loro società e nella loro economica. Il 22 e il 23 novembre a Bruxelles si incontreranno i capi di stato e di governo dei 27 per definire il budget della Ue per gli anni 2014-2020. Si dovrà decidere, tra l’altro, il budget di Horizon 2020, ovvero il programma di investimenti per la scienza. Alcuni Paesi, come l’Italia, chiedono un aumento degli investimenti rispetto agli anni passati, per recuperare il gap che l’Europa sta accumulando rispetto alle altre aree, avanzate o emergenti, del mondo nella «società della conoscenza». Altri, come il Regno Unito, puntano su un taglio del bilancio dell’Unione, compreso quello per la scienza e l’innovazione.
Due settimane prima, il 6 novembre, gli americani eleggeranno il loro nuovo presidente. Uno, il presidente uscente Obama, ha dato prova in questi quattro anni passati di puntare sulla scienza per rilanciare la competitività del suo Paese e ha dichiarato che, se sarà eletto, la sua Amministrazione continuerà a puntare sulla ricerca pubblica. Lo sfidante, il repubblicano Romney, punta invece a un drastico taglio del bilancio federale, investimenti in scienza e sviluppo tecnologico compreso.
In entrambi i casi si assiste a una «discesa in campo» di premi Nobel, che avvertono l’importanza drammatica della scelta che potrebbe chiudere un ciclo multisecolare dell’Occidente. Negli Stati Uniti ben 68 laureati a Stoccolma hanno lanciato un appello a favore di Obama, perché non solo vedono a rischio la scienza pubblica ma le fondamenta stesse dell’economia e della società americana. Un’interpretazione fatta propria, la scorsa settimana, da Nature, la più diffusa e prestigiosa rivista scientifica al mondo. In Europa ben 44 tra premi Nobel e Fields Medals (una sorta di Nobel per matematici) hanno lanciato lo scorso 23 ottobre un appello perché il budget di Horizon 2020 non venga tagliato e l’Europa segua le indicazioni di Antonio Ruberti e Jacques Delors e cerchi di entrare da protagonista nella società e nell’economia della conoscenza, l’unica strada per uscire dalla crisi attuale e conservare la sua più grande invenzione, il welfare state, lo stato del benessere. L’appello, nelle ultimo ore, è stato sottoscritto da altri 3 premi Nobel e, soprattutto, da 100.000 ricercatori dell’intero continente, che hanno sottoscritto un appello parallelo proposto dall’Ise (Initiative for Science in Europe). I due gruppi di scienziati che si sono mobilitati indipendentemente l’uno dall’altro, hanno chiaro tre cose. La prima è che è la scienza ad aver garantito lo sviluppo impetuoso dell’Occidente nell’ultimo mezzo millennio. E che se l’Occidente lo dimentica, smarrisce la propria identità. La seconda è che in molti Paesi dell’Occidente la destra politica ha perso coscienza del ruolo che ha la ricerca scientifica nel determinare quella che Adam Smith chiamava «la ricchezza delle nazioni». Lo ha dimenticato la destra americana, con Romney; la destra britannica, con Cameron; la destra italiana, con Tremonti. Ma è anche vero che il mondo economico occidentale dalla finanza che non libera risorse, alle industrie che non innovano ad aver smarrito l’antica ricetta. La terza è che la comunità scientifica ha il dovere di mobilitarsi. Che non può starsene in disparte a guardare mentre in sede politica ed economica si gioca una così grande partita.
Diciamolo francamente. Nessuna di queste tre cose è ancora sufficientemente chiara in Italia, dove la partita è ancora più decisiva. Pochi si avvedono, nel mondo politico ed economico, persino tra gli economisti, che quella della ricerca è una partita decisiva non per un piccolo gruppo di scienziati, ma per il futuro del Paese. Pochi associano la crisi del nostro Paese al fatto che l’Italia ha scelto, mezzo secolo fa, un «modello di sviluppo senza ricerca» e che oggi ne paga le conseguenze. Pochi distinguono tra conservatori e progressisti nel nostro Paese anche sulla base del diverso ruolo che la destra e almeno una parte più sensibile del centrosinistra assegnano alla scienza nella costruzione di un futuro economicamente, socialmente ed ecologicamente desiderabile.
Ma è anche vero che la comunità scientifica italiana stenta a mostrare la reattività che in questi giorni stanno dimostrando sia la comunità scientifica americana sia la comunità scientifica europea. Non sappiamo se per ritrosia, paura o rassegnazione gli scienziati italiani stentano a mobilitarsi in numero sufficiente contro il declino del Paese. Mentre i colleghi americani ed europei dicono loro che è giunta l’ora di scendere in campo.

l’Unità 1.11.12
Shelly Yachimovich
«Le destre alleate un pericolo per Israele»
Dal settembre 2011 è alla guida del Partito laburista israeliano
«Credo in due Stati e due popoli, dobbiamo rilanciare il dialogo»
di Umberto De Giovannangeli


«L’unione tra Netanyahu e Lieberman dovrebbe preoccupare chiunque abbia ancora a cuore quei principi di solidarietà sociale e di convivenza che sono stati a fondamento della nascita dello Stato d’Israele. Quello a cui Netanyahu e Lieberman hanno dato vita è un’alleanza che alimenta la divisione e lo scontro sociale, che discrimina le minoranze. Un’alleanza dal profilo razzista». È un j’accuse possente quello lanciato da Shelly Yachimovich, 52 anni, dal settembre 2011 alla guida del Partito laburista israeliano, dopo aver battuto nelle primarie l’ex segretario generale del Labour ed ministro della Difesa Amir Peretz. Yachimovich è la seconda donna alla guida del Partito laburista israeliano dopo Golda Meir (1969-1974).
Israele verso il voto. Un voto anticipato al 22 gennaio 2013. Molti analisti prevedono una netta affermazione della destra, al punto da prefigurare già la spartizione di potere e poltrone: al falco Lieberman andrebbe il ministero della Difesa. Una prospettiva che Amir Oren, analista militare del quotidiano di Tel Aviv Haaretz, ha così valutato: «Il dato agghiacciante è sotto gli occhi di tutti. Lieberman sarà ministro della Difesa, avrà accesso a tutti i segreti nucleari e di intelligence, autorizzerà operazioni ed incursioni, sarà l’uomo chiave di ogni guerra necessaria o superflua». «È uno scenario da incubo!» ha concluso Oren.
«Condivido il grido d’allarme di Oren dice a l’Unità la leader laburista, un passato di giornalista di successo della Tv israeliana Canale 2, “colomba” pacifista e sostenitrice delle istanze sociali che sono state alla base del movimento degli “indignados” israeliani e so bene che la nostra strada è in salita. Ma la partita è ancora aperta. Il mio obiettivo oggi è di unire le forze democratiche e progressiste per creare un’alternativa di governo alle destre, partendo dalla devastazione sociale provocata dall’attuale governo. Netanyahu non è un monarca assoluto, unto da Dio. Può essere sconfitto». Quanto al processo di pace, Yachimovich afferma: «Credo in due Stati e in due popoli, e ritengo che i contenuti di un accordo di pace sostenibile da ambedue le parti siano quelli delineati dall’allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton a Camp David. Se sarò primo ministro, ridarò slancio al dialogo con i palestinesi».
In vista delle elezioni anticipate, Benjamin Netanyahu e Avigdor ieberman hanno deciso di unire i loro partiti, Likud e Israel Beitenu. Cosa pensa di questo patto d’azione?
«Il peggio possibile. Il loro è uno spregiudicato patto di potere che s’innesta su una ideologia reazionaria che si nutre del peggior nazionalismo e di un liberismo selvaggio che sta trasformando Israele in una “giungla” in cui i più deboli, gli anziani, le madri single, i giovani, rischiano di finire ai margini della società, senza diritti e senza futuro, condannati alla povertà assoluta o a un precariato a vita. In Israele esiste una grande questione sociale che la sinistra deve saper affrontare e risolvere puntando su un mercato che va regolato e indirizzato alla costruzione di opportunità di lavoro. Equità, solidarietà, giustizia sociale sono i pilastri di una politica che ridia speranza e ossigeno ad un Paese che la destra sta trasformando in una “giungla” sfrenata. La destra sta distruggendo lo Stato sociale. Noi dobbiamo impedirglielo».
Un tema centrale nel dibattito politico riguarda l’Iran e come garantire la sicurezza d’Israele.
«Vede, all’ordine del giorno nella vita d’Israele c’è sempre stato il problema della sicurezza. Il mio Paese vive in una sorta di trincea permanente. Lungi da me sottovalutare la minaccia iraniana la comunità internazionale deve rafforzare ulteriormente le sanzioni contro il regime di Teheran e isolarlo sul piano diplomatico ma oggi la gente ha compreso che la sicurezza contro una minaccia esterna non è più sufficiente, perché è necessario anche rendere più sicura la nostra vita quotidiana, avere un tetto sulle nostre teste e cibo sulle nostre tavole, e una buona istruzione per i nostri figli e sicurezza nelle nostre strade. È questa idea di “sicurezza” sociale che la destra ha pesantemente incrinato. La sinistra deve costruire su questo una forte, credibile alternativa, chiamando i partiti di centro ad un fronte comune. La scelta in queste elezioni sarà tra uno Stato radicale isolato e uno Stato sionista sano. Sono convinta che giustizia sociale e pace siano due facce della stessa medaglia: quella di un Paese che vuole investire nel futuro e non chiede altro che di essere un Paese “normale”, non più in trincea ma profondamente integrato in un Medio Oriente che le “primavere arabe”, nel bene o nel male, hanno comunque ridisegnato».
Negli ultimi tempi si sono moltiplicati in Israele episodi d’intolleranza da parte di un insorgente estremismo religioso. Qual è in proposito il suo punto di vista?
«La battaglia contro l’estremismo religioso non è una battaglia di destra o di sinistra ma è una battaglia di civiltà dell’intero popolo ebraico».

l’Unità 1.11.12
Nucleare
Il premier israeliano «Arabi sollevati se colpiamo l’Iran»

Un ipotetico attacco israeliano contro i siti nucleari dell’Iran produrrebbe un «grande sentimento di sollievo» anche in molti Paesi arabi, che generalmente non amano Teheran. Lo ha detto il premier israeliano, Benyamin
Netanyahu, intervistato da Paris-Match, in occasione della sua visita ufficiale in Francia. In caso di attacco israeliano, «cinque minuti dopo, contrariamente a ciò che immaginano gli scettici, credo che un grande sentimento di sollievo attraverserebbe la regione». «L'Iran prosegue il leader israeliano non è popolare nel mondo arabo, al contrario».

il Fatto 1.11.12
Furio Colombo
Aspettando Obama


POICHÉ tu passi per un conoscitore dell'America, puoi dirmi che cosa dobbiamo aspettarci dall’eventuale rielezione di Obama, visto che dalla sua prima elezione per noi (europei, italiani, ma anche nel mondo) non è venuto nulla di nuovo e nulla di buono?
Nicola

COME SA chi mi legge, risponderò con una forte dose di partigianeria e poi cercherò di dimostrare. Penso che Barack Obama sia una delle figure politiche più importanti che abbiano attraversato la scena del mondo negli ultimi decenni. Per esempio mi sento di dire che Obama non ha dato neppure l'impressione di identificarsi con il potere e di essere la voce del potere. Quella che ascoltiamo è la sua voce di uomo intelligente e colto, conscio della immensa difficoltà del momento, che parla da persona a persona e appare del tutto separato dallo strumento della potenza. Durante questo primo periodo di Obama presidente c'è sempre stato il senso di presenza degli Stati Uniti, ma mai il senso di ingerenza. E non è iniziata alcuna guerra, neppure quando l'estroso e iperattivo presidente francese Sarkozy si è buttato sulla Libia, neppure quando (in circostanze che restano ancora misteriose) l'ambasciatore americano è stato ucciso a Bengasi. Se si pensa che il periodo di Obama è stato preceduto da quello di George W. Bush, che ha iniziato e perduto, in Afghanistan e in Iraq, le due guerre americane più importanti dopo il Vietnam (altra guerra “tremenda, inutile e perduta”, per usare le parole di Robert Kennedy) e se si considera in che mondo Obama ha vissuto questo suo periodo non si può non vedere con chiarezza che Obama è stato il primo capo di Stato (del più grande) in molto tempo a separarsi dal mito della potenza come soluzione per cercare la diplomazia, la politica e le idee come modo di convivere invece di distruggere e per condividere, invece di imporre la democrazia “esportandola”. Obama ha certo pensato, lui che viene spesso accusato di “socialismo” perché vuole le cure mediche garantite a tutti i suoi concittadini, compresi i poveri, al danno arrecato al mondo, alla sinistra, al socialismo da leader come Tony Blair che le guerre non solo non le evitano ma le inventano con documenti falsi, e facendo in modo che falliscano mediazioni diplomatiche, come quella di concordare l'uscita di scena di Saddam Hussein senza la guerra (un folle progetto dei Radicali italiani che stava quasi per riuscire). Accetto l'obiezione che la promessa di Barack Obama, al suo Paese e al mondo, era molto più grande di quel che è riuscito a fare. Per questo scommetto, niente affatto equidistante o imparziale, o prudente, sulla sua rielezione. Se non ci sarà, avremo un'America molto diversa. E so di poter dire che non sarà migliore.

Repubblica 1.11.12
L’ambiguo rapporto dei francesi con le istituzioni
Dalla Bastiglia a Marine Le Pen
di Marc Lazar


Con la Quinta Repubblica la situazione sembrava stabilizzata. Ma ineguaglianze, difficoltà economiche e tensioni identitarie irrisolte per decenni hanno provocato nuove ondate di malcontento

La Francia è uno dei paesi prediletti dalla protesta, grazie alla tradizione rivoluzionaria iniziata nel 1789 e al rapporto ambivalente che si è stabilito tra lo Stato e i francesi. Da una parte, il primo assicura la modernizzazione della società e la protezione dei secondi. Dall’altra, in mancanza di potenti organizzazioni intermediarie, lo Stato diviene spesso l’oggetto delle recriminazioni dei cittadini, delle loro critiche e della loro rabbia, che alimentano le manifestazioni di piazza o le rivolte, nonché il voto di protesta.
Perché la contestazione prenda la via delle urne, ci vogliono dei partiti e dei leader che sappiano cavalcare il malcontento sociale e l’insoddisfazione politica di una parte più o meno grande dell’opinione pubblica. I cosiddetti partiti di protesta, spesso populisti, non hanno alcuna possibilità di governare: si pongono in opposizione irriducibile al “sistema”, questa parola magica che designa l’insieme eternamente fustigato delle istituzioni e dei partiti di governo, sospettati di servire gli interessi delle élite o dell’“establishment”, appellandosi al popolo o ad alcune sue componenti e proponendo delle soluzioni rapide e semplicistiche alle questioni più complesse.
Il voto di protesta ha caratterizzato la breve storia della Quarta Repubblica (1946-1958), favorito dal sistema elettorale proporzionale. Con i comunisti, che raccoglievano un elettore su quattro, e i gaullisti. Avversari reciproci, convergevano per sfruttare il malessere sociale e denunciare le continue crisi di governo, il moltiplicarsi degli scandali di corruzione e l’incapacità delle autorità di gestire il processo di decolonizzazione. Nel 1956, i qualunquisti francesi, detti “poujadistes”, dal nome di Pierre Poujade, difensore dei piccoli commercianti e degli artigiani in via di scomparsa, ottennero l’11,6% dei suffragi, dimostrando così l’ampiezza della crisi della politica francese.
La crisi sembrò risolta con la Quinta Repubblica e un sistema elettorale maggioritario uninominale a doppio turno per la designazione dei deputati. Queste riforme hanno semplificato l’offerta politica, ma la protesta non è cessata. Soprattutto dopo una trentina d’anni con le difficoltà economiche, l’accentuarsi delle ineguaglianze sociali e le tensioni identitarie. Lo testimonia il successo dell’estrema destra e dell’estrema sinistra. Il Front National ha sviluppato temi molto sentiti negli strati popolari come quelli della sicurezza, della lotta contro l’immigrazione e della paura dell’Islam. L’estrema sinistra ha denunciato la fine del modello sociale. Insieme, con argomenti diversi, hanno mirato entrambi contro obiettivi comuni: gli altri partiti, le classi dirigenti e l’Europa. Quest’anno, Marine Le Pen, dirigente del Front National e Jean-Luc Mélenchon, leader del Front de Gauche, hanno raccolto il 29% dei voti al primo turno delle elezioni presidenziali. Con altri piccoli candidati paragonabili, la protesta ha sfiorato il 36% dei suffragi.
Il voto di protesta ha due aspetti strettamente connessi. Un rigetto viscerale della politica in base al quale tutti i politici sono identici e corrotti. Una sincera aspirazione al rinnovamento della politica. È una responsabilità delle istituzioni esistenti dare delle risposte a questo grido di dolore che alimenta la protesta, adattarsi e ridare un senso alla politica. Altrimenti, rischiano di essere travolte dall’ondata della contestazione.
traduzione di Luis E. Moriones

La Stampa 1.11.12
Cina verso la svolta “Basta con la politica del figlio unico”
Un centro studi governativo: troppo impopolare
di Ilaria Maria Sala


Lo squilibrio A causa della politica del figlio unico in Cina ci sono molti più maschi giovani che femmine in quanto numerose coppie abortiscono i feti di sesso femminile

Arrivano nuove critiche all’impopolare «politica del figlio unico» applicata in Cina, ma questa volta la fonte è un think-tank alle dipendenze del Consiglio di Stato, la Fondazione per la Ricerca sullo sviluppo, che consiglia di eliminare progressivamente la prassi, arrivando a sospenderla del tutto da qui al 2020. Lo studio, annunciato ieri dall’agenzia di stampa Xinhua, ribadisce fino a che punto sia mal digerita una politica che, introdotta nel 1980 per ridurre la popolazione cinese, è stata causa di alcuni fra i più gravi abusi dei diritti umani nel Paese.
Se il problema che ha portato alla sua introduzione è sotto gli occhi di tutti – un’esplosione demografica che pesa sia sulle infrastrutture che sul potenziale di sviluppo nazionale – le difficoltà e la sofferenza create dalla decisione di limitare le coppie ad avere un solo figlio sono numerose, e minacciano di estendersi nei decenni. Per restare sul piano prettamente economico, la delicata questione dell’invecchiamento della popolazione, che dovrebbe portare a circa 450 milioni di anziani di qui al 2050. Ma i peggiori casi di aborti forzati e controllo delle nascite invadente si sono avuti proprio da parte di autorità locali sulle cui spalle grava la responsabilità di assicurare che le municipalità non sforino il piano regolatore delle nascite. Pena la riduzione dello stipendio, il blocco delle promozioni, multe e altri provvedimenti punitivi.
La preferenza, in particolare nelle zone rurali, per il figlio maschio ha portato a un’incontrollabile diffusione dell’aborto selettivo, risultata in milioni di bambine «mancanti», a cui non è stato dato il permesso di nascere e a un potenziale esercito di scapoli che non potranno trovare moglie in Cina. Ciò nonostante, molti attribuiscono proprio alla severità della politica del figlio unico lo stabilizzarsi dell’esplosione demografica, e il fatto che le riforme economiche siano riuscite a togliere dalla miseria centinaia di milioni di persone.
Già da diversi anni, però, la politica più odiata dalla popolazione cinese è stata addolcita: nelle campagne, le coppie il cui primo nato sia femmina hanno diritto ad un secondo figlio. Molti gruppi etnici minoritari possono avere fino a tre figli. Nelle città, inoltre, le coppie formate da figli unici possono avere due bambini, e molti degli abitanti di alcune città particolarmente sviluppate, fra cui Shanghai, possono avere due figli. Anzi: come ripetono instancabilmente gli slogan dipinti sui muri delle campagne, l’aspirazione della dirigenza nazionale (che non teme gli echi eugenetici della sua incitazione) è quella di «innalzare la qualità della popolazione e ridurre il numero delle nascite». Innumerevoli sono poi le persone che hanno deciso di pagare le salate multe per chi ha più di un figlio, o che si recano all’estero (inclusa Hong Kong) per dare alla luce il pargolo senza incorrere in penalizzazioni.
Gli appelli contro il perdurare della politica del figlio unico sono stati numerosi nel corso degli anni, e per quanto quest’ultimo venga da un think tank particolarmente altolocato, fino ad ora non ci sono stati segnali da parte del governo cinese di voler eliminare interamente questa controversa pratica. Ma in queste settimane, in attesa del 18esimo congresso del Pc, che selezionerà la nuova classe dirigente, i maggiori controlli imposti per evitare ogni segnale di dissidenza o protesta sono accompagnati da imprevisti dibattiti per una maggiore liberalizzazione.

La Stampa 1.11.12
Ecco il Congresso E i vecchi leader fanno capolino
di Ilaria Maria Sala


A dimostrazione del perdurare di un certo potere, e per vanità di leader in pensione, nei giorni precedenti il 18esimo Congresso del Partito Comunista che si aprirà a Pechino l’8 novembre ecco riapparire, quasi per magia, in pubblico vecchi volti assai noti. Jiang Zemin, predecessore di Hu Jintao, è stato avvistato in diverse occasioni, ben seguite dai media nazionali.
L’ex-premier Li Peng, l’uomo che più di altri ha il nome legato al massacro di Tiananmen, è ricomparso con una donazione di 350.000 euro per gli studenti poveri di Yan’an, la «base rivoluzionaria» della guerra civile fra nazionalisti e comunisti. Il denaro, secondo quanto detto dalla televisione di Stato, è frutto dei diritti d’autore dei libri che Li ha scritto da quando è andato in pensione. Zhu Rongji, il premier riformista che ha portato la Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, si è fatto vedere per un evento all’Università Qinghua, la più importante università tecnica del Paese. Anche altre figure minori, ormai in naftalina, ricompaiono ribadendo che la successione politica in corso continua ad essere problematica.

l’Unità 1.11.12
Ma l’Ungheria è ancora un Paese Ue?
di Paolo Soldini


L’UNIONE EUROPEA HA MENO DI DUE SETTIMANE per impedire un nuovo scempio della democrazia in Ungheria. Il 12 novembre il governo di Viktor Orbàn porterà in parlamento la contestatissima legge che obbliga i cittadini ad iscriversi in un apposito registro per poter votare. Si tratta di un provvedimento che (almeno fuori dell’Ungheria) viene considerato come un tentativo di condizionare gli elettori e tener lontani dalle urne i potenziali oppositori. Se la legge passerà e ci sono pochi dubbi visto che Orbàn controlla con il suo Fidesz i due terzi dei deputati - l’Ungheria sarà il primo paese in Europa a dotarsi di un sistema elettorale che viola clamorosamente i princìpi delle libertà democratiche.
Non è la prima volta che il regime ultraconservatore e nazionalista forza le regole della democrazia. Con la riforma costituzionale del gennaio scorso furono approvati provvedimenti che limitavano la libertà di stampa, mettevano in mora l’indipendenza della banca centrale e ponevano in pratica sotto tutela politica i magistrati. Qualche reazione, allora, ci fu. Soprattutto in relazione ai condizionamenti sulla banca centrale. La Commissione Ue si chiese se l’Ungheria dovesse essere considerata «una democrazia o una dittatura», fu avviata una procedura di infrazione e venne bloccato un megaprestito che avrebbe portato un po’ di ossigeno all’economia in crisi. Poi più nulla. Che si sappia, nessuna presa di posizione è arrivata ora da Bruxelles. Neppure dal Parlamento europeo. E dire che le istituzioni Ue avrebbero in mano un’arma potente per fare pressione sul regime ungherese. È l’articolo 7 del Trattato, che prevede la sospensione dei paesi Ue che non rispettino i princìpi delle libertà civili fissati nello stesso Trattato. Fu la prospettiva che venne evocata alla fine degli anni ’90 contro l’Austria, dopo che il capo del governo conservatore si alleò con il partito xenofobo di Jörg Haider. Ci fu qualcuno che pensò all’utilizzo dell’art. 7 anche contro il governo Berlusconi.
Il silenzio di Bruxelles è grave. Tanto più che si sta già delineando un nuovo clamoroso schiaffo del governo ungherese al diritto comunitario. Orbàn e i suoi vorrebbero impedire l’entrata in vigore, nel 2014, della liberalizzazione della compravendita di terre. Finora, con un’eccezione alla regola, l’Ue ha consentito alla pretesa di Budapest di riservare solo ai cittadini ungheresi la proprietà dei terreni agricoli, la vera, grande ricchezza del paese. Questa sorta di monopolio nazionale ha favorito l’accaparramento di aziende agricole da parte di una vera e propria casta di grandi proprietari, legati molto spesso ai clan del Fidesz. Vedremo se almeno di fronte a questa ennesima violazione dei princìpi dell’Unione, qualcuno, a Bruxelles, troverà da ridire. A cominciare dai dirigenti e dai membri, anche italiani, del Ppe, di cui il Fidesz è membro a tutti gli effetti.

Corriere 1.11.12
Darwin in battaglia contro lo schiavismo
Sposò la causa della liberazione dei neri anche in nome delle sue teorie scientifiche
di Giulio Giorello e Telmo Pievani


Nel libro La sacra causa di Darwin, Adrian Desmond e James Moore ci offrono un sontuoso affresco dell'Inghilterra vittoriana. Il loro è un Darwin come non lo si è mai visto, mosso dalle passioni, intransigente, quasi ossessionato da un fuoco sacro che doveva permeare tutta la sua vita: la lotta contro la schiavitù e contro tutte le catene imposte dalla disuguaglianza. Con un crescendo impressionante: dalla giovanile ostilità alla tratta dei neri, all'impegno per lo smantellamento delle istituzioni schiavistiche nelle due Americhe, fino alla percezione delle difficoltà dell'integrazione degli schiavi liberati in società ancora pervase da pregiudizi razzisti.
Di che cosa discuteva e che cosa leggeva il naturalista inglese, mentre formulava in segreto le sue idee evoluzionistiche? Per lo più dello scandalo del commercio — fosse legale o clandestino — degli africani strappati dai loro Paesi, della buona impressione avuta dagli amici di colore, delle infami crudeltà perpetrate dagli schiavisti, con la complicità di governi corrotti che le tolleravano da una parte all'altra dell'Atlantico, e soprattutto delle pretese giustificazioni «scientifiche» di tutta questa brutalità, formulate invocando l'origine distinta delle «razze» o addirittura delle «specie» umane.
Completavano il quadro le campagne di finanziamento delle associazioni antischiaviste, complici le agguerrite sorelle e cugine, le «donne della famiglia» tutte unite negli sforzi affinché la Gran Bretagna si emancipasse da qualsiasi contaminazione con gli sporchi traffici e con lo spaventoso sfruttamento, proclamando l'uguaglianza e la libertà per tutti gli esseri umani. E quando era in gioco la questione della «peculiare istituzione» (come la schiavitù era chiamata nel Sud degli Stati Uniti), Darwin non esitava a prendersela persino con i suoi maestri, come Charles Lyell, o con gli amici più fidati, come Joseph Hooker e Thomas Henry Huxley. Prudente e circospetto come sempre, doveva instancabilmente cercare appoggio tanto per la sua causa scientifica quanto per quella etico-politica, pur ricevendo in cambio frequenti delusioni.
Scrivendo a Alfred Russel Wallace nel 1857 a proposito del suo saggio L'origine delle specie confessava: «Chiedete se parlerò dell'"uomo"; credo che l'eviterò, essendo l'argomento tanto circondato di pregiudizi, benché riconosca pienamente che è il problema più alto e interessante per un naturalista». Ma nella stessa lettera aggiungeva che la sua opera era intesa a fornire «una vasta raccolta di dati di fatto con uno scopo ben definito»; in particolare, sottolineava che «è da tre mesi di fila che lavoro su un solo capitolo, quello dell'ibridismo». Desmond e Moore ricostruiscono l'ossessione di Darwin per gli incroci tra le varie razze di piccioni di allevamento e ci fanno capire come questa sperimentazione non fosse che una grande metafora per smantellare scientificamente il pregiudizio che gli incroci tra esseri umani di diverse razze (quelli chiamati sprezzantemente mulatti in analogia con il mulo, ibrido sterile di un asino e di una cavalla) producessero inevitabilmente prole sterile, come ci si aspetterebbe se si trattasse non di semplici razze ma di specie differenti, isolate l'una dall'altra da una barriera riproduttiva. Eppure, Darwin si sentiva tutt'altro che pronto a trattare direttamente di Homo sapiens!
Questo evoluzionista riluttante si deciderà a pubblicare sull'argomento «più alto e interessante per un naturalista» solo in tarda età: quasi costretto dalla veemenza dei dibattiti nel suo stesso Paese. Ma fin dalla gioventù aveva ben chiara in mente la fratellanza dell'intero genere umano. Per lungo tempo aveva avuto come alleati nell'antischiavismo proprio quei filantropi cristiani, devoti teologi naturali, che poi lo guarderanno con riprovazione per via del suo naturalismo senza eccezioni. Darwin finirà per sostituire l'origine in Adamo e Eva con la materialistica discendenza comune, come fondamento scientifico dell'abolizionismo, combattendo senza posa ogni teoria «pluralista» o «poligenista» che prevedesse creazioni separate o genealogie parallele delle «razze» umane.
Con il senno di poi possiamo dire che il suo fu veramente un colpo da maestro: mentre i suoi avversari invocavano origini totalmente distinte per le diverse componenti del «genere uomo», Darwin li spiazzava radicalmente andando persino a indicare l'antenato comune tra gli esseri umani e le grandi scimmie.
Pur mantenendo la sua autonomia esplicativa sul piano scientifico, poi corroborata da un secolo e mezzo di ricerche, la visione darwiniana venne notevolmente influenzata dal tema morale e politico dell'abolizionismo. Questo libro ci insegna così che quella grande «rivoluzione copernicana in biologia» non fu il frutto di una mente disinteressata, bensì di una personalità travagliata, immersa nelle battaglie civili del suo tempo. Fu il prodotto di chi aveva incontrato i volti dei popoli più diversi nella circumnavigazione del globo, dello spirito di un attivista instancabile, caustico nemico dei sudisti americani e della loro «scienza della razza», ma ancor più l'opera di un animo turbato dalle urla di dolore degli schiavi, dalle scene di genocidio viste in Tasmania, dalle «veneri ottentotte» impagliate e messe in mostra come trofei nei musei del «civile» Occidente. Non è sempre vero che lo scienziato lavori nel chiuso del suo laboratorio o del suo studio, incurante del mare turbinoso delle umane passioni. Come avrà modo di constatare il lettore delle pagine di Desmond e Moore, nell'impresa scientifica talvolta anche la collera è buona consigliera.
Negli ultimi capitoli di questo libro possiamo anche cogliere il peculiare e del tutto personale «darwinismo sociale» di Darwin, motivato dalla sua intenzione di applicare la selezione naturale al mondo sociale umano. Inasprito dai pregiudizi di genere e di classe tipici di un gentleman vittoriano, Darwin restava al contempo profondamente condizionato dal suo umanitarismo e dalla convinzione dell'unità evolutiva di tutte le «razze» umane («razze» della cui realtà oggettiva dubitava, poiché venivano classificate nei modi più diversi dagli «esperti»). Emergerà pubblicamente soltanto nel 1871 (in L'origine dell'uomo) quella che oggi ci appare una contraddizione latente tra le durezze malthusiane (che portano l'autore a teorizzare in alcuni passaggi lo scontro tra le razze umane come motore di progresso) e il rifiuto di qualsiasi discriminazione razziale sulla base di una visione dell'evoluzione umana centrata sulla parentela genealogica di tutti i viventi e sulla compassione come lievito della socialità.
Tale miscela teorica di indulgente filantropia e di individualistica competizione ha fatto sì che Darwin venisse ora strumentalizzato ora attaccato da fronti contrapposti che gli attribuivano idee edulcorate non sue, o viceversa gli imputavano le più ingiuriose colpe (fra tutte, quella di essere stato il padre dell'eugenetica e del razzismo novecenteschi).
L'opera preziosa di Desmond e Moore non condanna e non assolve, ma spazza via queste mistificazioni, che ancora sopravvivono in certa letteratura antidarwiniana. Dopo questa meticolosa ricostruzione storica, diventa davvero impossibile continuare ad associare ingannevolmente il nome di Darwin al razzismo scientifico.

Repubblica 1.11.12
Cme coinvolgere OMi nostri studenti
A proposito dell’articolo di Lodoli su “La fine dell’umanesimo”
di Valerio Magrelli


“Addio cultura umanista” è il titolo di un bell’articolo sulla scuola che Marco Lodoli ha pubblicato ieri su queste pagine. Basti un passaggio: «Professori di lettere, storia, filosofia, arte finiscono a parlare nel vuoto, come radioline lasciate accese in un angolo». Lodoli afferma che, per la stragrande maggioranza dei ragazzi, il patrimonio culturale del nostro paese non significa più niente. Saltati i ponti, le rive si allontanano sempre di più.
Verissimo, ma la mia esperienza con studenti universitari del primo anno di lettere e lingue, in un ateneo della provincia laziale, risulta differente. Ammetto che l’età non è la stessa, e che già la loro scelta indica un interesse per il mondo umanistico. L’incontro con le matricole, però, ricorda molto quello con gli iscritti agli istituti tecnici o ai licei. Fino a vent’anni fa, ad esempio, per spiegare il racconto dello scrittore francese Maupassant Palla di sego (1880), citavo il film di John Ford Ombre rosse ( 1939). Oggi nessuno conosce più quel western. Ho provato a chiarire la tragedia della Shoah, col film di Tarantino Inglourious Basterds (2009). Ma in classe nessuno lo aveva mai sentito nominare, così come nessuno aveva udito la parola “paltò” (cioè pa-letot), che avevo pronunciato per spiegare un particolare fonetico.
Insomma, è innegabile che, nella nostra epoca, docenti e discenti appartengano a linguaggi e culture quasi estranei fra loro. A sancire tale terribile divario, ricordo il giorno in cui, menzionando Pasteur, allusi alla cicatrice causatami dal vaccino. In un silenzio sbigottito, scoprii di essere l’unico, fra cinquanta persone, a portare quel marchio. Non lo sapevo, ma da tempo il farmaco viene assunto per bocca... Altro che tatuaggi, piercing e branding: la mia diversità generazionale appariva medicalmente iscritta sul mio corpo, “à la Foucault”, sotto forma di stigma.
Eppure non sono del tutto d’accordo con Lodoli. A mio parere, infatti, tra professori e allievi esistono ancora dei punti di contatto. Ma per trovarne ho abbandonato i riferimenti al cinema, preferendo i giornali e la tv. Studiando il teatro francese del Seicento, ad esempio, ho menzionato i libertini amici di Molière, quei precursori dell’Il-luminismo che vennero perseguitati dalla Chiesa e dai Protestanti in quanto epicurei, materialistici, atei. Ebbene, per esaminare l’intolleranza, i roghi, le torture, Vanini e Gassendi, su su fino a Voltaire e Diderot, ho voluto parlare di Rushdie – autore, va da sé, ignorato dai presenti.
Raccontando della fatwa, ho notato la somiglianza fra la teocrazia sciita degli ayatollah iraniani e quella cattolica dei papi romani, ricordando che la Santa Sede, lungi dal rinunciare al suo bimillenario potere temporale, vi fu costretto a cannonate, dai nostri bersaglieri, a Porta Pia (peraltro, nella Città del Vaticano, la pena di morte, praticata fino al 1870, fu abolita nel 2001). Ciò per dire che il libero pensiero non è una concessione generosamente elargitaci, bensì una conquista ottenuta col sangue dei martiri laici, martiri che nell’Islam furono sconfitti malgrado lo straordinario impulso profuso sin dal X secolo.
Certo, non ho risparmiato tinte forti, con le proteste dell’ambasciatore francese per la puzza di carne bruciata che, da Campo de’ Fiori, impestava Palazzo Farnese. Almeno, però, la mia lezione potrà impedire che si verifichi di nuovo la scenetta riportatami da un amico. Passando sotto il monumento di Giordano Bruno, lo sciagurato ha sentito uno studente che, al cellulare, pregava la sua ragazza di raggiungerlo, «qui in mezzo, sotto la statua della Madonna».

Repubblica 1.11.12
Il libro di Warner spiega il periodo imperiale
Se tutti dicono “Ave Cesare”
di Lucio Villari


C’è una attualità di Cesare che in Europa coincide esattamente con il sorgere, nel clima filosofico del Rinascimento, del pensiero politico moderno e con la necessità di precisare la forma moderna dello Stato, monarchico o repubblicano, come specifica istituzione giuridica e civile autonoma rispetto ai due poteri egemoni, l’Impero e la Chiesa. In Italia in particolare l’immagine di Cesare trasmessa fino allora dai cronisti e storici latini (soltanto a metà del XV secolo, grazie agli umanisti, si ha la certezza scientifica della paternità di gran parte dei suoi scritti) serviva a identificare un potere politico e militare originale che avrebbe potuto funzionare da punto di riferimento in una possibile, comune difesa militare dell’Italia dagli stranieri invasori e come deterrente di prepotenti poteri interni.
Con Napoleone e poi con il “cesarismo” e con l’insidioso bonapartismo il potere di Cesare fu descritto come autorevole perché legittimato delle magistrature di cui era stato ripetutamente investito (dal consolato alla dittatura); autoritario perché capace di battersi alla pari, quando era necessario, con il potere massimo della Repubblica, il Senato; sicuro di sé perché fondato sul consenso popolare; orgoglioso della storia personale e pubblica di cui era stato anche l’unico narratore. Infatti la figura di Cesare scrittore “popolare”, efficace nel linguaggio e nello stile, perfeziona l’altra figura più specificamente politica e istituzionale da far dire di recente, a qualche storico del mondo antico, che la sua assunzione di tutti i poteri, culminati nel 45 nella dittatura perpetua, sia stata in realtà una “dittatura democratica”.
Questa definizione è, tra le tante, la più discutibile. Tale sarebbe apparsa, ad esempio, a Machiavelli che lo cita appena nel Principe mentre nei Discorsi ne attribuisce la fama soprattutto alla storiografia di regime («Né sia alcuno che si inganni per la gloria di Cesare, sentendolo massime celebrare dagli scrittori: perché quelli che lo laudano sono corrotti dalla fortuna sua e spauriti dalla lunghezza del suo imperio, il quale non permetteva che gli scrittori parlassero liberamente di lui»). Comunque, per almeno cinquecento anni Cesare ha avuto emuli e ammiratori. Dal duca di Valentino («Aut Caesar aut nihil») a Napoleone che a Sant’Elena dedicò a Cesare un libro pensando in fondo a se stesso («L’autorità di Cesare era legittima, perché necessaria e protettrice, perché tutelava tutti gli interessi di Roma in quanto era l’effetto dell’opinione e volontà del popolo»), a Napoleone III con il suo “impero liberale” nato dalle urne elettorali. Machiavelli, Guicciardini, Bodin, Botero, Montaigne, Naudé (teorico dei colpi di Stato), Shakespeare, Montesquieu (l’elenco si allunga fino ai nostri tempi), in modo diretto o per allusioni, hanno sempre tenuto conto di Cesare e del modello di potere militare-popolare comprendente guerre civili e decisivi colpi di Stato (uno di questi fu certamente il passaggio del Rubicone) fino alla minaccia ai fondamenti storici repubblicani, cioè liberi, di Roma.
Questa premessa è per dire dello studioso del mondo classico greco e latino, Rex Warner, traduttore di Cesare e autore di romanzi di rilievo che nel 1958 ha dedicato a Cesare un dittico dove il protagonista racconta di sé in prima persona. Cosa che il Cesare vero fece ostentatamente in terza persona. Il risultato è una “autobiografia” inventata ma verosimile: Ilgiovane Cesare e Cesare imperiale. I due libri sono stati tradotti quest’anno in italiano dall’editore Castelvecchi. Cesare imperiale (traduzione di Elisabetta Stefanini, pagg. 377, euro 17,50) è il racconto storico, il “romanzo” di avventure reali e di una vita vissuta non solo nell’azione ma anche pensata mentre si svolgeva. È grazie a questo pensare le cose oltre che a farle che l’autobiografia finta dà ad esse più autenticità. “Cesare-Warner” pensa politicamente e commenta le sue gesta addirittura sino alla serena vigilia delle idi di marzo. Una morte prevista, quasi attesa (Montaigne annotò con ammirazione il tranquillo andare al suo destino di Cesare) che naturalmente Warner non può raccontare ma che il suo inventato “Cesare-Warner” prevede lucidamente con una riflessione politica quanto mai “cesarea” e orgogliosa che conferma il permanere del complicato giudizio storico su di lui. «Se venissi assassinato oggi stesso, il popolo, dopo i primi momenti di smarrimento, si rivolterebbe contro i miei assassini e inizierebbe a venerarmi come un dio, in modo molto più sentito di adesso. Ma nonostante conosca bene la concretezza del potere e la sostanziale inconsistenza di gran parte degli onori che ho ricevuto, continuo a non sopportare la disonestà intellettuale e quella specie di legalismo moraleggiante e incivile che per tutta la vita ho visto adottare come pretesto per ciechi interessi personali e come giustificazione per ogni tipo di sopraffazione e di atrocità». A chi pensava Warner- Cesare nel 1958?
Infine, il raccontare prende nell’ultima pagina il sopravvento. «Spunta l’alba delle Idi di marzo... Il forte vento è calato, ed è giusto, considerando che è il primo giorno di primavera. Non è il momento di pensare alla morte, come stavo facendo, perché la terra si sta aprendo alla vita... Mi scorrono davanti agli occhi con estrema chiarezza molti momenti di pericolo, di trionfo, d’amore e di soddisfazione... Oggi ho una seduta al senato in una nelle sale attigue al teatro di Pompeo».

Corriere 1.11.12
«Livorno abolita? O' premier, tu se' un pisano»
di Paolo Conti


ROMA — «Mi verrebbe da dire: o' Monti, allora tu se' un pisano...» La megaprovincia Pisa-Livorno-Lucca-Massa Carrara farà la felicità di chi ancora getta benzina sul fuoco delle secolari divisioni toscane, autentiche sintesi del localismo nazionale. Lo sa bene Mario Cardinali, 75 anni, livornese doc, editore-direttore del mensile «Il vernacoliere», 40 mila copie attestate, da trent'anni alfiere dell'ironia espressa dalla libertaria Livorno verso il resto dei toscani, soprattutto dei vicini pisani, giudicati seriosissimi. Cosa accadrà tra voi toscani del Nord, Cardinali, con questo accorpamento? «Prima si era parlato della nuova Provincia Livorno-Pisa. Scopro adesso che ci mettono tutti insieme anche con i lucchesi e Massa e Carrara. A noi che ci importa? Basta che paghino tutto i lucchesi, tirchiacci che non sono altro...»
Al Vernacoliere stanno già immaginando la reazione editoriale. «Ci siamo divertiti per decenni con i pisani. Ebbe grande successo anche nel resto d'Italia il mio titolo dedicato a Cernobyl: "Nuvola atomica/ Primi effetti spaventosi/ È nato un pisano furbo/ Stupore nel mondo e sgomento in Toscana". O anche quello che inventai quando vararono la legge sulla tutela degli animali: "I pisani sono bestie anche loro/ Vogliamogli bene"». Ma perché tutta questa animosità? «Ragioni secolari. I pisani si sentono, e davvero sono, toscani antichi, autentici, doc. Hanno l'orgoglio della gloriosa Repubblica marinara. Sono giustamente fieri della loro università. Ma tendono a essere chiusi, calcolatori, un po' egoisti. Noi livornesi siamo invece figli di puttana nel senso letterale e più autentico del termine. Ferdinando I dei Medici, nel 1593, con la Costituzione livornina, proprio per fondare la città e il porto, concedette l'amnistia a tutti i mercanti che avessero pendenze. Arrivarono i cattolici perseguitati dai protestanti dal Nord Europa, gli ebrei cacciati dalla Spagna, altri dal Sud. Un crogiolo di gente, insomma. Molti maschi seguiti da donnine di facilissimi costumi. Per questo la natura dei livornesi, all'opposto dei pisani, è libertaria, allegra, godereccia, disincantata. E ironica».
Facile capire che, stando a questo schema, i creativi livornesi godano a far leva sul sussiego dei pisani: «Ricordiamo puntualmente ai pisani che, durante l'era napoleonica, Pisa era "sotto" Livorno dal punto di vista amministrativo. E loro non ci stanno, non ci stanno». Ma con la maxiprovincia, prevede Cardinali, non bisognerà fare i conti solo con la rivalità Livorno-Pisa ma anche con quella Pisa-Lucca: «Risale al 1314 quando il pisano Uguccione della Fagiola assediò Lucca, la espugnò e ne fece, come si scrisse, "una novella Troia". Le mamme lucchesi dicevano, fino a poco tempo fa, per spaventare i bambini: "su andiamo via, che tra poco arrivano i pisani"».
Ma con tutto questo pregresso, con tanto materiale alle spalle, come andranno le cose nella megaprovincia? Cardinali se la ride di cuore: «Andrà com'è andato tutto fino ad adesso. Non cambierà niente, e i toscani ci riusciranno, vedrete. Bisognerà inventarsi un nome, ma poco importa. La questione vera saranno i trombati di questa faccenda, quelli che rimarranno senza poltrona. Emigreranno alla Regione?» Insomma, lei dice, Cardinali, che non accadrà nulla? «Qui non c'è una improvvisa commistione di razze. C'è solo un po' di folklore. I veri problemi, lo sappiamo, dalla disoccupazione, dallo stipendio che non basta più, dal carovita dilagante. E per risolvere tutte queste faccende, non basta certo una battuta, un titolo ben riuscito. Purtroppo».

l’Unità 1.11.12
Le lacrime di Nichi. «Pensavo di emigrare in Canada»
di Andrea Carugati


ROMA Le notte insonni prima della sentenza. «Ovunque andavo c’era gente che mi chiedeva: se tu lasci, noi che faremo?». Ora la corsa «finalmente senza il freno»
Una notte insonne, passata in una macchina che lo riportava dal comizio di Rieti, che poteva essere l’ultimo della sua carriera, nella sua Terlizzi. L’arrivo a casa alle 5 del mattino, poche ore prima dell’ingresso nel tribunale di Bari, per ascoltare una sentenza che poteva stravolgere la sua vita.
Non era la prima notte insonne di questi ultimi giorni, quella di Nichi Vendola. «È un bel po’ che non riposo davvero, ho parecchio sonno arretrato», scherza al telefono il governatore pugliese, che ieri è passato da una telefonata all’altra. «Tutti i miei telefoni sono andati in panne, come il centralino della Regione», racconta sollevato.
Ma prima di quelle lacrime liberatorie, ieri mattina fuori dal tribunale, c’è stata la lunga notte in macchina, a fianco a lui solo il compagno italo-canadese Ed, che ormai è diventato la sua ombra anche nella vita pubblica, oltre che in quella privata. E quell’idea, di cui hanno riparlato rapidamente ieri notte, senza soffermarsi troppo: «Se tutto va male ce ne andiamo in Canada». Lì abitano i genitori di Ed, lì il governatore e il suo compagno volano spesso. «Ce ne andiamo in Canada e io torno a scrivere, magari a fare il giornalista». Un’idea appena accennata, un modo per esorcizzare l’angoscia, per immaginare una exit strategy che avesse anche un sapore vagamente confortante. Perché è vero che Vendola non avrebbe mai sopportato la «vergogna» di una condanna. Un peso che, come ha spiegato, non poteva portarsi addosso proprio per la sua vita «vissuta sulle barricate della giustizia e della legalità», contrassegnata anche dai lunghi anni nella commissione Antimafia, dalle intimidazioni che resero necessaria la scorta. «Oggi mi è stato restituito questo», ha detto commosso poco dopo la sentenza.
Quell’idea di lasciare tutto e partire, mai messa davvero in discussione se fosse arrivata la condanna, lo aveva stretto in una morsa: tra la serenità di qualcosa che «dovevo a me e alla mia storia» e l’angoscia per le conseguenze che avrebbe avuto su tantissime altre persone: «Ovunque andavo, in questi giorni, c’era gente che mi diceva: “E se tu ci lasci che ne sarà di noi?”. Non mi era mai capitato prima, sono decenni che le mie decisioni sono frutto di un’appartenenza, di un progetto corale. In fondo, sono anni che la vita sceglie per me. Ma stavolta nessuno mi poteva obbligare, perché era in gioco il senso stesso della mia vita...».
E infatti nessuno, neppure tra i suoi affetti più cari, aveva cercato di farlo desistere, neppure il compagno Ed, che da tempo condivide anche la passione politica. «Stavano tutti in ansia», racconta Vendola, «perché sanno bene con quale intensità emotiva vivo il rapporto con la legalità».
Poi c’è il «dolore», e per rimarginarlo ci vorrà del tempo, per questi anni vissuti nel tritacarne, quando il suo nome e la sua foto comparivano in apertura dei tg associati agli scandali della sanità pugliese, e al teatrino delle escort. «Meno male che papà non c’è più», è la frase che il governatore confidò a mamma Antonella. Era l’estate del 2009, ci sono voluti più di tre anni per lasciarsi tutto alle spalle. Nel frattempo c’è stata la seconda vittoria alle primarie pugliesi, e poi la riconferma alla guida della Regione, e la sfida delle primarie lanciata in splendida solitudine, quando ancora Berlusconi era saldamente in sella e il centrosinistra ancora un embrione.
Poi, quando le primarie nazionali sono finalmente arrivate, c’era quella spada di Damocle giudiziaria che lo stava spingendo a lasciar perdere tutto. «Non devo solo essere immacolato, ma anche apparire tale...». Alla fine quel dubbio ai primi di ottobre era stato sciolto, troppo forte la pressione dei suoi compagni di partito. E allora Vendola era partito da Ercolano, ma qualcosa non andava. «Avevo il freno a mano», racconta, «ora non più. E se mi ci metto so essere un ciclone». I problemi politici, in realtà, restano intatti. Così come il rischio, per Vendola, di non riuscire a “bucare” nella sfida tra Bersani e Renzi. Però adesso vuole provarci davvero, tonificato da quell’«abbraccio popolare», quell’«amicizia civile» che sta ricevendo in queste ore. Dalla gente semplice fino ai cenacoli della sinistra chic, come quello riunito a Roma martedì sera, poche ore prima della sentenza, per la presentazione di un libro di Giovanni Valentini sul Sud. Che gli ha tributato un lungo applauso, inaspettato. Ieri è arrivata anche la solidarietà bipartisan di amici e avversari politici, Bossi compreso. Ma a Vendola preme rispondere a Casini, che si è detto «contento» per l’assoluzione, ma lo ha pure infilzato: «Grazie al cielo la sua ferocia non mi appartiene». «Ferocia? Ci deve essere stato un fraintendimento, io sono severo nella lotta politica, mai stato feroce...», risponde il leader di Sel. Che ieri sera ha subito ripreso a sparare nei tg contro Marchionne e la finanza. «Adesso si fa sul serio».

Boncinelli intervistato da Augias a LeStorie su Rai 3
Esiste davvero l’anima? E in che modo condiziona il nostro libero arbitrio? Il genetista Edoardo Boncinelli, ospite di Corrado Augias a “Le Storie - Diario Italiano”, ci guida in un viaggio tra i misteri dell’animo umano.


Autore: Edoardo Boncinelli Titolo: Quel che resta dell'anima Editore: RIizzoli Collana: Saggi Pagine: 180 Prezzo: 18,00 euro Anno prima edizione: 2012 ISBN: 17060868
Quel che resta dell'anima

"Quando noi diciamo che l'anima è spirito, non diciamo altro se non che ella non è materia, e pronunziamo in sostanza una negazione, non un'affermazione" scriveva Giacomo Leopardi nel 1824. Ma oggi, a distanza di quasi due secoli, ha ancora senso parlare di anima? Spirito vitale, immortale, capace di provare emozioni e di garantire autonomia e libertà di scelta, fin dall'antichità l'anima ha subìto varie trasformazioni semantiche e di contenuto. Finendo per coincidere con la mente e la coscienza, due dei nomi attribuiti a quella "natura superiore" che si ritiene operare nelle nostre decisioni. Attraverso un'indagine dei meccanismi della mente, che parte da Aristotele e Agostino, passa attraverso la filosofia cartesiana e la psicoanalisi freudiana e giunge ai preziosi contributi forniti dal neurocognitivismo, Edoardo Boncinelli pone nuovi interrogativi sull'anima e sul libero arbitrio e risponde ad alcune questioni fondamentali. In che modo conosciamo il mondo? Cosa lega la percezione all'idea di anima? Possiamo quindi definirci liberi? Il risultato è una sorta di autobiografia intellettuale, un viaggio affascinante tra i mille volti dell'anima, in cui l'autore riprende tutti i suoi possibili significati districandosi tra quel principio immateriale, che la tradizione considera come fondamento della vita organica, e le capacità percettive dell'essere umano, che interpreta il mondo attraverso i sensi.
«Il nostro corpo è stato a lungo considerato come sede, momentanea e imperfetta, di un'anima immortale e immateriale. Con la fine o l'attenuazione della concezione religiosa dell'anima si sono alternati diversi agenti che hanno ripreso e incarnato alcune delle sue caratteristiche: dall'inconscio ai condizionamenti sociali, dalle emozioni alle passioni, tutti hanno ammiccato a un dualismo ontologico. La scienza ha sempre cercato di mettere in guardia gli uomini dal potere seduttivo di soluzioni facili, illusorie e lontane dalla corretta spiegazione dei fenomeni. «Ma è noto che l'uomo non ama conoscere la verità, soprattutto se lo riguarda da vicino, e preferisce le nozioni confuse e inverificabili che conducono al fiorire delle mitologie, passate e presenti» - scrive Edoardo Boncinelli in Quel che resta dell'anima (Rizzoli), un vero e proprio viaggio attraverso la tradizionale idea di anima e i suoi molteplici aspetti nel corso dei secoli. Un viaggio anche attraverso le parole, soprattutto quelle così cariche di significati da rendere ogni conversazione faticosa e spesso confusa. Sono le parole che Boncinelli chiama «parole-interruttore», quelle che ci trascinano in una nebbia di frasi fatte e pregiudizi, che non riescono a scrollarsi di dosso il peso ideologico e che attivano in noi reazioni immediate e poco razionali.
«Anima» è certamente una di queste, ma è in buona compagnia: coscienza, mente, razionalità, identità, emozione, informazione, pensiero. Sono termini che usiamo tutti i giorni e che richiedono una opera di pulizia semantica, se vogliamo procedere nella discussione senza inciampare in ostacoli insormontabili.
Nel cammino intorno all'anima si incontrano innumerevoli rompicapi, molti dei quali resi ingombranti dallo sviluppo delle neuroscienze. Ciò che oggi sappiamo ha reso irrimediabilmente superflua la nozione di anima e ha segnato definitivamente la fine del dualismo tra mente e corpo – o tra anima e corpo.
Eppure la credenza che ci sia qualcosa di superiore e non riducibile al nostro corpo è ostinata e diffusa, in parte per ragioni psicologiche. È figlia della nostra tentazione di non rassegnarci di fronte all'inspiegabile, di volerlo ammantare, innalzare al livello «dell'Immaterialità Suprema». Scrive Boncinelli: «È questa riposante immersione in regioni prelogiche che si conquista la nostra predilezione. Oltre che a subirne il fascino, tendiamo di solito anche a ritenere più profondo ciò che è più ambiguo e polisemico, fino a considerare mistico ciò che è spesso solo confuso e contraddittorio». Se aggiungiamo la tendenza a spiegare e interpretare i fenomeni con strumenti che ci sono familiari e a propendere per una interpretazione finalistica, ci rendiamo conto di quanto sia complessa e faticosa la strada per ripulire termini e concetti.
In un mondo che rifiuta spiegazioni magiche e religiose, la sfida è quella di costruire ipotesi esplicative senza invocare un deus ex machina. A volte anche quella di saper rinunciare momentaneamente alla ricerca.
A questo proposito Boncinelli ci ricorda l'avvertimento del grande fisico Erwin Schrödinger: il pericolo più grave di ricorrere a spiegazioni insoddisfaventi non è tanto quello di dire bugie, ma quello di sopprimere l'esigenza di cercarne una accettabile.
Tra le questioni più complesse e controintuitive c'è senza dubbio quella riguardante la nostra volontà e libertà decisionale. Se in un mondo fisico i nostri immateriali stati mentali sono causati da quelli cerebrali, e se è il nostro cervello a decidere, cosa rimane del libero arbitrio? Sono questioni su cui i filosofi della mente e i neuroscienziati si interrogano da tempo. Boncinelli propone una riflessione interessante: «Se il mio io si estende a tutto il mio corpo, allora non c'è dubbio che a decidere sono sempre io, ovviamente in assenza di coercizioni esterne. Paradossalmente, se invece l'io è inteso come un'istanza immateriale di natura autoreferenziale e distinta dal corpo stesso, l'anima appunto, allora l'esistenza del libero arbitrio è messa seriamente in dubbio dalle indagini sperimentali».
Rimane il fatto che la sovradeterminazione causale è un nodo difficile da sciogliere, ma è indubbio che il primo passo debba essere quello di charire i termini e le condizioni della nostra ricerca e dei dibattiti, troppo spesso soffocati da stratificazioni di malintesi e di equivoci».