sabato 3 novembre 2012

l’Unità 3.11.12
Bersani-Steinbruck
Il Pd e l’Spd: una svolta in Europa
Il segretario Pd al candidato cancelliere dell’Spd: «Usciamo dalla spirale dell’austerità»
Il leader socialdemocratico: «Lui è la nostra speranza per l’Italia»
di Luigina Venturelli


MILANO «Rispetto a pochi anni fa, quando nella mappa dell’Europa a ventisette era difficile distinguere paesi che non fossero governati dal centrodestra, adesso, anche a causa della crisi economica, ci sono profondi cambiamenti in atto, come ha dimostrato la vittoria di Hollande in Francia». A parlare è il tedesco Peer Steinbrück, ex ministro delle Finanze e candidato cancelliere socialdemocratico alle prossime elezioni politiche che dovrebbero decretare la conclusione dell’epoca di Angela Merkel.
Al suo fianco, in conferenza stampa a Milano dopo un incontro in prefettura con il premier Mario Monti, c’è il segretario del Pd Pierluigi Bersani, che si augura possa accompagnarlo nel delineare la svolta progressista che potrebbe presto modificare gli equilibri politici nel vecchio continente. «Spero possa essere lui il candidato del centrosinistra» a guidare l’Italia, sottolinea Steinbrück, con un endorsement esplicito in vista delle primarie democratiche di fine novembre.
OBIETTIVI CONGIUNTI
Lo sguardo, però, è già rivolto oltre le imminenti sfide elettorali, alla complessa fase economica e politica che l’Europa sta vivendo. «Noi riformisti vogliamo ricongiungere la società in rapporti più equi tra le diverse classi sociali» sintetizza il candidato Spd.
Gli fa eco Bersani: «L’avvitamento su misure di austerità ci sta portando fuori strada. Servono politiche nuove che guardino all’economia reale, che contrastino la disoccupazione, e che diano voce all’Ue in tema di controllo dei mercati finanziari, perché l’impressione è che in questa crisi la ricchezza scappi e la povertà resti».
Dal punto di vista istituzionale, l’obiettivo resta quello di «rilanciare il processo costituente europeo» arenatosi in questi anni di recessione e tentazioni antieuropeiste. «Un progetto» sottolinea il segretario Pd, «che prima o poi dovrà misurarsi anche con le opinioni pubbliche dei diversi paesi, per non lasciare il terreno a facili populismi e culture regressive».
DIREZIONE UTILE AL PAESE
Degenerazioni di cui la vita politica italiana è stata ed è tuttora ricca di esempi, contraddistinta da un «eccezionalismo che ci ha già procurato un sacco di guai» e di cui, secondo Bersani, è ora di disfarsi. A questo proposito, la cronaca politica di giornata forniva tra le novità anche l’ipotesi di un eventuale ticket formato da Beppe Grillo e Antonio Di Pietro, con il comico del Movimento 5 stelle come candidato premier e l’ex pm come inquilino del Quirinale. «Non lo so se sia vero che Di Pietro ha preso questa direzione, ognuno va dove lo porta il cuore» commenta non senza ironia il segretario dei democratici. «Io penso che quella direzione non sia utile, né come modello democratico né come direzione di marcia per un paese che è in crisi».
E un paese in crisi richiede proposte di soluzione a problemi concreti: «Solo la protesta, solo un’idea generica che pure raccoglie la rabbia e il distacco dei cittadini, non porta soluzioni a problemi che si chiamano Europa, euro, situazione economica e sociale, occupazione e lavoro».
Tra i richiami dell’attualità, anche il braccio di ferro tra la Fiat e la Fiom, culminato con l’annunciato licenziamento da parte del Lingotto di diciannove lavoratori per far posto ad altrettanti iscritti Cgil reintegrati in azienda dalla magistratura. «Un gesto non accettabile perché contiene un messaggio sul piano morale, che non fa bene al Paese» puntualizza Bersani. «Se viene riconosciuto che c’è un errore o una colpa dell’azienda, questo non può essere immediatamente scaricato sui lavoratori e sulle loro famiglie. Si sarebbe potuta trovare una soluzione diversa, se solo Fiat si fosse mossa con gesti nella direzione di marcia della solidarietà e non della rottura e dello scontro».
Tanto più che finora la casa automobilistica non ha chiarito davvero le proprie intenzioni industriali: «Mi piacerebbe approfondire bene questo accavallarsi di piani e capire di cosa si sta parlando: fin qui abbiamo visto rompere il giocattolo e non quello che si possa definire un piano».
ELEZIONI A SCADENZA NATURALE
All’indomani del via libera anche del segretario Pdl Angelino Alfano e dopo l’apertura del leader Udc Pier Ferdinando Casini, infine, il segretario del Pd torna a bocciare l’ipotesi di anticipare le politiche a fine gennaio o inizio febbraio, in un unico election day, in abbinamento con le regionali di Lazio, Lombardia e Molise. «Noi, per fortuna, abbiamo un Presidente della Repubblica che sa benissimo dirigere il traffico, non mettiamoci tutti a fare i vigili» afferma Bersani. «Noi, lealmente, abbiamo detto, un anno fa, che si va a scadenza naturale e lo ribadiamo».

l’Unità 3.11.12
A Roma leader socialisti e democratici del mondo
Vertice del centrosinistra mondiale nella capitale
A dicembre si porranno le basi della nuova governance politica internazionale
di Umberto De Giovannangeli


La data è già fissata: il 14 e 15 dicembre prossimi a Roma. L’ambizione è altissima: realizzare una due giorni che veda impegnati, ai massimi livelli, i leader progressisti di tutto il mondo. Pier Luigi Bersani lo ha anticipato nell’intervista di ieri a l’Unità: «A metà dicembre annuncia il segretario del Pd ospiteremo un grande appuntamento a cui parteciperanno progressisti e democratici provenienti da ogni parte del mondo, per creare una rete che va al di là delle antiche famiglie». La preparazione del meeting è a uno stato avanzato. Ufficialmente, nessuno si sbilancia, ma al Nazareno, sede nazionale dei Democratici, c’è ottimismo, non solo per le dimensioni della partecipazione ma anche per il livello dei partecipanti.
ASPETTATIVA
A Roma si discuterà di una «governance progressista» di un mondo globalizzato. E lo si farà con dirigenti di partiti che sono al governo di Paesi chiave: dal Brasile al Sud Africa, dalla Francia a, si spera, gli Stati Uniti. «Confidiamo che questo diventi il primo, grande appuntamento internazionale per il candidato premier del centrosinistra rimarca Lapo Pistelli, responsabile Esteri del Pd -. E siamo soddisfatti che sia stato riconosciuto ai democratici italiani di ospitare il vertice dei leader progressisti, dopo anni di lavorio e di visite ai partiti in tutti i continenti». Nei due giorni verranno sperimentate modalità di lavoro molto innovative filtra dal Nazareno insomma non sarà la solita parata di discorsi.
Il meeting sarà un ulteriore sviluppo di quanto emerso nella seconda conferenza internazionale dei parlamentari progressisti, organizzata dal Pd l’aprile scorso a Montecitorio. La rete progressista è cresciuta ulteriormente in questi mesi. In termini di adesioni e di elaborazione. Un passaggio significativo è stato il «Manifesto di Parigi» sottoscritto dai leader progressisti europei. «L’Europa è il nostro patrimonio comune. Il nostro dovere è di proseguire la costruzione di un’Europa più unita e più democratica». Così comincia il documento elaborato a Parigi alla convention progressista «Un nuovo Rinascimento per l’Europa. Verso una visione progressista comune», firmato dai leader socialisti europei. «Constatiamo che l’assenza di una governance economica europea democratica ed efficace prosegue il documento minaccia di trascinare l’Europa nella recessione. Privilegiando la deflazione salariale, omettendo di condurre politiche per la crescita e l’occupazione, ignorando la solidarietà e la lotta contro le diseguaglianze si legge ancora riducendo l’Europa a uno spazio di sorveglianza e di sanzione, tralasciando il dialogo sociale e la democrazia, si voltano le spalle alle necessità della lotta alla crisi e allo stesso progetto europeo...». «La solidarietà dicono i ancora i progressistideve essere nel cuore delle politiche europee, solo così sarà garantita la stabilità della nostra moneta».
Quella che viene delineata, e sostanziata in idee e proposte operative, è una «governance progressista» che dal Vecchio continente intende proiettarsi a livello mondiale. E il meeting di metà dicembre si muove in questa direzione. Altro appuntamento cruciale, su questa strada, è in programma l’8 e 9 febbraio 2013. È lo stesso Bersani a parlarne nell’intervista al nostro giornale. «D’Alema - spiega il segretario del Pd - in qualità di presidente della Feps, sta lavorando per organizzare a febbraio un incontro che ha l’obiettivo di lanciare sul piano politico una grande idea europeista».
Una idea che dovrebbe sostanziarsi in un programma comune delle forze socialiste e progressiste per le elezioni europee del 2014. Idee e uomini. Obiettivo dei leader progressisti europei è anche quello di indicare un candidato comune alla guida dell’Europa comunitaria. «I cittadini europei dovranno essere messi in grado di decidere chiaramente sugli orientamenti della politica dell’Unione sottolinea il “Manifesto di Parigi” ...Bisogna estendere la co-decisionalità alle scelte fondamentali di politica economica e sociale. Questo implica una democrazia europea basata sul metodo comunitario, un maggior ruolo per il Parlamento europeo e i parlamenti nazionali, basata sulla sussidiarietà e la partecipazione dei cittadini, e accompagnata da un rafforzamento dell’influenza di veri partiti politici europei. A questo scopo, i partiti progressisti europei dovrebbero proporre un candidato comune alla presidenza della Commissione europea».

l’Unità 3.11.12
Rinnovamento e dispotismo
di Michele Ciliberto


«Quando si sbaglia nell’analisi, si sbaglia anche nell’orientamento politico», era solito raccomandare un autorevole politico italiano, ed è opportuno seguire questo suggerimento anche di fronte ai risultati delle elezioni siciliane e al successo del movimento 5 Stelle.
Cosa significa questo successo, cosa indica, di quali bisogni e richieste è effetto ed espressione?
Credo che esso sia un effetto della lunga crisi della democrazia italiana; da questo punto di vista non è sorprendente. In forme nuove, e con nuovi strumenti a cominciare dall’uso intelligente e spregiudicato della Rete esso sta riuscendo ad intercettare, e a dare voce, alla richiesta, diventata sempre più forte nel nostro Paese, di un profondo e radicale cambiamento della vita politica italiana. Una esigenza, acuitasi nel vivo della crisi sociale, e diventata impetuosa e incontenibile di fronte alla stagnazione e, per certi versi, alla decomposizione del sistema politico e dei partiti della seconda Repubblica, imperniato su una legge elettorale sciagurata, di cui non si misurerà mai a sufficienza il male che ha fatto alla nostra democrazia.
In questo senso il movimento di Grillo interpreta, e dà voce, a esigenze obiettive, reali, come il voto siciliano conferma: esprime i bisogni, e anche il violento risentimento dei «governati» che si contrappongono frontalmente ai «governanti» e alle modalità duramente e strettamente corporative della politica che essi incarnano. Nasce, in sintesi, da una vera e propria crisi di legittimità della rappresentanza, a tutti i livelli, a cominciare da quella parlamentare. Certo, in questi ultimi mesi, il movimento si è giovato di un forte sostegno sia di parte della stampa che della televisione; ma sarebbe sbagliato non capire che i recenti successi hanno un lungo lavoro alle spalle. Così come sarebbe sciocco ridurlo in stereotipi reazionari, perfino di tipo fascista.
Il problema, assai grave ed inquietante, è un altro: ammodernato attraverso la Rete, il movimento 5 Stelle affonda le radici nella ideologia, anzi nella mitologia, della «democrazia diretta», e come tutti i movimenti di questo tipo sfocia in posizioni dispotiche e populistiche. Se non ce l’avessero spiegato i classici, basterebbe l’esperienza politica degli ultimi due secoli a mostrarci quanto sia profondo il nesso tra democrazia diretta e dispotismo. Le dichiarazioni di Grillo sulla sua funzione di capo, le aperture a Di Pietro, il lessico maschilista che usa (e che si sta diffondendo, in modo riprovevole, anche fuori del suo movimento), la ricerca di performances sportive, il disprezzo verso i seguaci che non seguono il Verbo, sono capitoli di un libro conosciuto, assai noto. Altro che novità: se avrà successo, il movimento di Grillo, acutizzerà la crisi della democrazia italiana, e lo farà ed è questo il punto più grave dall’«interno» della democrazia stessa, muovendosi sul terreno democratico.
Ma se questa analisi è giusta, per le forze del cambiamento è necessario oggi porre al centro anzitutto la questione della democrazia, mettendo in campo tutte le trasformazioni e le novità necessarie per ristabilire un circuito di comunicazione tra «governanti» e «governati». È qui, lo dico senza enfasi, che si giocano il futuro e il destino della nostra Nazione.
È perciò assai apprezzabile l’insistenza con cui il segretario del Pd ha voluto che si tenessero le primarie, anche rinunciando a una rendita di posizione. Con tutti i loro rischi, e i loro limiti, sono uno strumento opportuno, in un momento così grave di crisi della rappresentanza, che tocca in modo diretto il nodo cruciale della stessa legittimità democratica. È solo in questo modo che si può cominciare a tagliare le radici di movimenti come quelli di Grillo e a spezzare il consenso che cresce intorno a loro, fino ad assorbire personaggi come Di Pietro, avviando, nel campo populista, un processo di semplificazione da non sottovalutare, per gli effetti che può avere sulla riorganizzazione del sistema politico italiano.
Ma, certo, le primarie non bastano, non possono bastare. Quella che appare sempre più chiara, e a questo fine le scadenze di questi mesi possono essere importanti, è la necessita di cominciare a mettere all’ordine del giorno, muovendo dalle esperienze in atto, la costruzione di un partito in grado di motivare, e organizzare in forme nuove, tutte le forze, tutte le energie, le aspirazioni, i bisogni di coloro che si riconoscono negli ideali dell’eguaglianza, della giustizia sociale, della libertà, superando antiche barriere e vecchi steccati. Sulle forze riformatrici italiane è pesata, a lungo, la maledizione della divisione, della contrapposizione, delle lotte intestine. Oggi si può finalmente cambiare, aprire una pagina nuova: ce ne sono le basi, le condizioni. L’Italia è attraversata da un profondo bisogno di rinnovamento, da una fortissima esigenza di liberarsi da un passato pesante, dalla voglia di ricostituire l’orizzonte del futuro, uscendo, finalmente, da una stasi che umilia le migliori energie di un grande Paese. Pane per i denti di un moderno partito riformatore che voglia, e sappia, svolgere la sua funzione nazionale, dando voce a chi tace ma vuole parlare e farsi sentire; e che, se non trova interlocutori, o si chiude nel silenzio oppure si affida alle sirene del potere diretto, senza mediazioni, dispotico.
Se si vogliono ricostituire le basi della nostra democrazia, ridarle forza e legittimità, è anche di qui che bisogna passare.

il Fatto 3.11.12
“M5S e Idv arrivano al 25-30% ”
Opinione comune tra i sondaggisti: “Crescono a ogni errore degli altri
di Carlo Tecce


Renato Mannheimer (Ispo) non è grillino.
È un sondaggista, docente di analisi dell'opinione pubblica, che diffonde le sue rilevazioni a Porta a Porta e sul Corriere della Sera. È lui, proprio Mannheimer, che non fissa limiti: “Dove arriva il Movimento Cinque Stelle? Corre, corre fortissimo. Non può essere fermato, più sbagliano i partiti e più guadagna. Adesso è oltre il 20 per cento, con l'Italia dei Valori andrebbe al 25 almeno e il 30 – più o meno nei paraggi del Pd – non è un'illusione ottica”. Un po' di pessimismo, professore: “Non potrei nemmeno dire, ecco, Beppe Grillo sbaglia con questa dichiarazione, distrugge con questa iniziativa, s'immobilizza con questa investitura: no, non posso dirlo”. E perché? Cos'è che la trattiene? “Una realtà in continuo movimento. L'autolesionismo dei partiti classici, a parte il Pd che regge bene il confronto interno. Gli elettori del Movimento sono giovani, istruiti, seguaci: non andranno via, non presto. La sorpresa, che ormai sorpresa non è, sarà certamente il M5S”.
In tempi non sospetti, ad agosto, Roberto Weber (Swg) ammoniva Pier Luigi Bersani: “Il Pd aspetti a cantare vittoria. La grande incognita è Beppe Grillo”. Weber, come se la passa l'incognita? “Una bellezza. Io calcolo una crescita di 0,75 al mese, e quanti ne mancano al voto? ”. Circa cinque. “Perfetto. Adesso siamo al 23, ci teniamo bassi? ”. Il giusto. “Ottimo. Oggi siamo al 27”. E domani? “Tanto, tantissimo. Il 30 non è un utopia”. E cos'è? “Le conseguenze di un disastro. I partiti che sommano errori a errori”. Pesiamo l'Italia dei Valori e Antonio Di Pietro. “Questo no, non mi interessa”. E perché? “Non aggiunge e non toglie nulla. Il M5S è autonomo. Tutti i flussi spiegano che l'Idv ha già donato abbastanza al Movimento. C'è un residuo di quattro o cinque punti che conserva Di Pietro, ma sono assolutamente marginali per chi va fortissimo e straripa ovunque”.
Nicola Piepoli risponde da Parigi: “Qui s'intercetta il futuro”. Professore, lo può rubare e impiantarlo in Italia? “Ce l'abbiamo il futuro. E lei l'avrà saputo”. Ci stupisca. “Il Movimento Cinque Stelle è un fenomeno incredibile. Io l'ammetto: mi sono sbagliato”. Apprezzata la sincerità, racconti. “Sì, allora. Comincio dal voto siciliano. Un attimo prima, il mio istituto dava il M5S tra il 15 e il 16 per cento”. Ci ha beccato, quasi. “Ma stiamo parlando di Sicilia, non si rende conto? Grillo è andato lì a nuoto. Ha riempito le piazze, ha sfidato i palazzi. Ed è riuscito a sfondare in un'isola difficile, ora lo vedo già superare la boa del 20”. Benedice il matrimonio con Di Pietro? “Perché mi chiede il permesso? ”. Non si preoccupi, un parere basta: “No, non capisce. Volevo dire che Grillo può fare qualsiasi cosa. Può inventarsi alleanze con chiunque, l’importante che non siano uomini e donne che ricordano la Casta. Lei forse l’avrà saputo, ma oltre il M5S c’è tanta nebbia. A Parigi, però, c’è un clima molto piacevole”.

Repubblica 3.11.12
La leadreship dei blogger
di Nadia Urbinati


Il movimento di Beppe Grillo sta conquistando un largo consenso elettorale, al Nord come al Sud, nelle elezioni comunali come in quelle regionali. Un vento nazionale di rivolta contro la corruzione dei partiti e l’incompetenza di un establishment che resiste al cambiamento. Il giudizio degli elettori che votano M5S e quello dei giudici e dei tribunali sembrano andare nella stessa direzione, che è quella di fare piazza pulita della classe dirigente che si è stabilizzata nell’Italia del post-Mani Pulite. Il movimento ha la dignità della cittadinanza democratica e le opinioni dei cittadini meritano rispetto. Ma come cittadini abbiamo anche il bisogno e il dovere di capire, di esaminare criticamente il nostro tempo. Pur nella difficoltà dettata dalla velocità e radicalità del cambiamento.
Il M5S rappresenta come il compimento del lungo processo che ha portato la società civile dentro la politica, saltando l’intermediazione delle associazioni partitiche, quelle che la nostra Costituzione indica come essenziali nella determinazione della volontà sovrana. Si potrebbe parlare di processo di impossessamento della politica da parte dei cittadini come persone private. Silvio Berlusconi ha ovviamente rappresentato la forma estrema di questo processo, anche per gli oggettivi mezzi economici di cui disponeva che gli hanno consentito un’appropriazione non solo simbolica. L’aspetto che più interessa è vedere come questa rivoluzione della società civile contro la società politica abbia cambiato radicalmente le forme del giudizio, del linguaggio e del movimento politico. Come abbia immesso nel discorso pubblico il giudizio estetico insegnando a giudicare politici e politiche con l’occhio del gusto personale: non per capire che cosa sia “giusto o ingiusto” ma che cosa “ci piace o non ci piace”.
Il fatto è che una domanda che interroga il gusto è naturalmente più istintiva e meno riflessiva, difficile tra tradurre in discorso ragionato sul quale trovarsi d’accordo o schierarsi. Si dice infatti che de gustibus non disputandum estproprio perché il gusto è un giudizio soggettivo non deliberativo. Per esempio le virtù della politica – la prudenza, la moderazione, l’onestà – possono essere valutate a partire da informazioni corroborate con una certa oggettività, e possono produrre opinioni che non sono solo mie o tue: discutere sulle virtù o i vizi politici porta i cittadini a fare ragionamenti utili ai fini delle scelte politiche. Ma le virtù estetiche – la prestanza, la simpatia, la bellezza – non hanno altra base d’appoggio che l’emozione; su di esse si conviene per via di impressionabilità o di chiacchiera.
A partire dalla fine dei partiti tradizionali, questa nuova pratica del giudizio e del discorso ha determinato anche nuove forme organizzative mettendo in risalto soprattutto la persona del fondatore, unico punto capace di unire persone diverse con gusti diversi. Dall’esperimento di Forza Italia in poi, tutti i nuovi gruppi politici sono stati come associazioni di affiliati sotto il nome e la persona di chi li ha iniziati. Anche il M5S rientra in questo modello. Ed è interessante osservare come per “Non-Statuto” (così si chiama il regolamento del movimento) i militanti del M5S siano definiti “utenti” – individui che entrano nel blog dove la loro voce è come un’eco che riproduce i temi del discorso lanciato dal Grillo. L’idea, certo dettata da onestà e volontà di pulizia, è di presentare il bloggismo degli utenti come un segno di libertà perché fuori dalle “formalità” e dagli statuti di partito. Il fatto è che questa libertà dalla formalità non è detto che si traduca in maggiore libertà. I dissapori interni al movimento e le periodiche scomuniche dimostrano che la mancanza di forme non è garanzia di libertà. La parabola dell’espansione del privato nella sfera politica può dunque essere un grave ostacolo alla libertà democratica. Prevedendo questo, la Costituzione ha voluto riconoscere ai cittadini il diritto di “associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.

Andrea Orlando: “E’ una competizione impari”
il Fatto 3.11.12
Grillo “non lo fermiamo”
5 Stelle. I partiti terrorizzati dalla sua avanzata
L’incubo del movimento come primo partito prende forma
I sondaggisti: Grillo+Idv possono arrivare al 30%
Per Mannheimer, Piepoli e Weber l’eventuale alleanza fra grillini e dipietristi potrebbe insidiare il Pd:
“Marcia inarrestabile: M5S cresce quasi al ritmo di un punto al mese”
Bersani: “ L’asse tra lui e Di Pietro non utile al Paese”
di Wanda Marra


Nella vita le cazzate le facciamo tutti, facciamo politica anche con quello che siamo. E confrontarsi con un fantasma, con uno che non ci mette la faccia, che decide lui quando apparire, in maniera imprevedibile, è una competizione impari”. Andrea Orlando, responsabile Giustizia del Pd, giovane turco, sembra addirittura disarmato rispetto alla miscela esplosiva rappresentata da Grillo. “Stiamo facendo le primarie: è attraverso di loro che passa la nostra legittimazione”. Legittimazione dei partiti: ecco un’espressione entrata a pieno titolo nel dibattito politico. Così come “influenza” della Rete e nella Rete, alla quale ieri Claudio Tito su Repubblica dedicava un pezzo in cui si respirava l’attesa dell’Apocalisse. D’altra parte, per dirla ancora con Orlando “la paura di un salto nel buio” è palpabile, soprattutto davanti a un fenomeno che mette insieme “consenso e reazione: una miscela esplosiva, come nel 92-93”. Dopo Berlusconi, Grillo. Ecco, a sentir parlare politici di lungo corso, quello di Grillo sembra un incubo che diventa realtà. Il 5 Stelle può essere il primo partito? “In Sicilia l’ha dimostrato”, va al punto Roberto Rao, braccio destro di Casini. “Sarebbe interessante capire che succede con lui alla guida del paese: perché per ora ha sempre parlato come uno che mirava a fare l’opposizione”, dice ancora Orlando. Uno scenario impensabile, appena fino a qualche giorno fa, quando i travagli dei Democratici - saldamente primo partito nei sondaggi - erano rappresentati più che altro dalla possibile vittoria di Renzi alle primarie. “Renzi si muove dentro confini più stretti. Ma alla fine anche lui è un fenomeno di destrutturazione e la sua forza è fare a meno della storia”, spiega ancora Orlando. Additati al pubblico ludibrio come esponenti di una casta indifendibile, ineluttabilmente soggetti a perdere pezzi di consenso un po’ alla volta, i politici comunicano una sensazione d’impotenza.
PIER LUIGI BERSANI fa una considerazione che assomiglia a un monito di Napolitano: “Un'alleanza tra Grillo e Di Pietro non è utile nè come modello democratico nè come direzione di marcia per il paese”, dice, riferendosi alla trovata del leader genovese che in un Tweet ha lanciato Di Pietro al Quirinale. Nei corridoi del Palazzo si commenta che in fondo è solo un modo per togliergli voti. E però, magari al Colle Tonino non ci va, ma i suoi voti i 5 Stelle se li prendono. Matteo Renzi contesta il metodo: “Non si decide il capo dello Stato con un Tweet”. E Matteo Richetti, tra i suoi fedelissimi, presidente dell’Assemblea regionale dell’Emilia Romagna ha un approccio più fattivo: “Se siamo in grado di dare risposte, il consenso di Grillo non aumenterà.” Lapidario in controtendenza: “La politica che si preoccupa della politica ha già perso in partenza”. La politica però continua a preoccuparsi. Secondo Guido Crosetto, candidato Pdl alle primarie, “è tardi” per arginare Grillo. Ci sono “molte possibilità” che i 5 Stelle siano primo partito. Al quale riconosce una capacità di usare la Rete a livello persuasivo sulla quale non si può sindacare: “Usa tutti i mezzi che ha, e non è colpa sua se gli altri non l’hanno fatto prima”. Però, “non accettabile che lui si opponga ai dibattiti”. Poi ammette: “Può essere che si voti a febbraio. Ma dovremmo cercare di non regalargli il vantaggio col Porcellum”. Nichi Vendola: “L’intesa tra Antonio Di Pietro e Beppe Grillo è un principio di deflagrazione per Italia di Valori e la decisione del leader Idv è inaspettata e contraddice una serie di aperture. Ora sta scegliendo la strada del populismo. È un grave errore politico”. Sorprendentemente il bersaniano Stefano Fassina, responsabile Economia del Pd prova a guardare il bicchiere mezzo pieno: “Il movimento di Grillo è ambivalente. Ha anche tante energie positive e costruttive”. E a proposito di potenza della tv, potenza della rete e capacità lecita o illecita di usare questi strumenti, ecco quel che scriveva ieri sul Foglio Giorgio Gori, lo spin doctor di Renzi, uno che da ex direttore di Mediaset di tv se ne intende: “Grillo non va in tv - e lancia anatemi verso chi dei suoi vi si concede - perché la tv è la tv che va regolarmente da Grillo”. E poi cita la battuta di De Gaulle: “Niente rafforza l’autorità quanto il silenzio”.

il Fatto 3.11.12
Chi ha paura degli “influencer”
L’allarme di Repubblica: “Controllano un milione di persone”
di Carlo Tecce


Qui lo diciamo e qui lo neghiamo: Repubblica è influenzata da Pier Luigi Bersani. È l’indice Klout, bruttezza, che misura il tasso di frequentazione e interazioni su Twitter e Facebook.
Il quotidiano di largo Fochetti pesa 91, che vuol dire tantissimo se l’infinito s’arresta a 100, e il primo contatto in assoluto è il segretario del Partito democratico, tecnologicamente abbastanza brillante, ma anche non troppo a quota 73. Proprio su Repubblica, Claudio Tito ci ha svelato un sistema di manipolazione che nemmeno Klout conosce e, dunque, può persino inquietare: “Gli esperti spiegano che al fianco del Movimento Cinque Stelle ci sono una decina di persone con il cosiddetto ‘Indice Klout’ superiore a 75: ossia capaci di condizionare oltre 100 mila utenti su Internet. Dieci influencer vuol dire pilotare un milione di persone e determinare di fatto il clima della rete. A favore o a sfavore”. Mica male. Un bel mezzo potente di altissima cilindrata. Grillo sarà pure un maestro di social network, però arranca, dietro, anzi distante dal 91 di Repubblica: è fermo a 82, che non ha eguali tra i politici, ma non è un aggregatore di squadroni inter-nauti. I dieci influencer di Grillo sono: il M5S di Palermo; il giornalista Claudio Messora: il M5S nazionale; il sito Cado in piedi; il candidato siciliano Giancarlo Cancelleri; il consigliere emiliano Giovanni Favia; il sindaco di Parma, Federico Pizzarotti, il M5S di Roma; il giovane milanese Matteo Calise e il M5S di Firenze. Nessuno può vantare le platee paventate da Ti-to e nessuno può definirsi misterioso. Questo è il referto trasparente di Klout: Grillo influenza i grillini e ne viene influenzato. Non c'è traccia di gruppi pronti a “pilotare un milione di persone”. Il giornalista di Repubblica, capo dei servizi politici, segnala anche “il primo passo di un preoccupante percorso politico”. Cioè l’immaginifica fusione a freddo fra il Movimento Cinque Stelle e l’Italia dei Valori. La sorpresa arriva in superficie: Antonio Di Pietro per Klout vale quasi Grillo, voto 80. La questione è Klout, che fa riflettere Tito: “Tutti aspetti (la storia di Twitter e Facebook, ndr), appunto, di cui ognuno deve prendere atto. Nella consapevolezza che la ‘svolta politica’ di Grillo può colpire in primo luogo lo schieramento progressista. Ma soprattutto far scavalcare definitivamente al Paese il crinale che ci separa dall’antipolitica e dal marasma”. Attenzione a Klout, dunque. E attenzione, si potrebbe aggiungere, a Barack Obama, un appassionato di Twitter che qualche milioncino di esseri umani e inter-nauti riesce a influenzare.
Il presidente americano rasenta la perfezione, 99 su 100. Ma non s’è mai sentito Mitt Romney, lo sfidante il 6 novembre per il nuovo mandato alla Casa Bianca, denunciare una spectre che assale gli elettori con getti di cinguettii. E per tornare provinciali, si possono citare numerosi amministratori più pervasivi o competitivi con Beppe Grillo: i sindaci Giuliano Pisapia (83), Luigi De Magistris (83) e Matteo Renzi (74) ; il governatore Nichi Vendola (81) ; i giornalisti Gianni Riotta (80) ed Enrico Mentana (70) ; il deputato Andrea Sarubbi (77).
Twitter e Facebook offrono tante varietà di gusti e sapori. E ogni giorno un influencer deve conquistarsi il pubblico con una dichiarazione, un’osservazione, un link a una foto o un video.
Il presunto squadrone di Grillo è un po’ indecifrabile e molto variabile. Magari se domani qualcuno dovesse scoprire i dieci cavalieri del cinguettio, lo scriva immediatamente sui social network. E il temibile Klout lo premierà.

il Fatto 3.11.12
“Beppe premier? Non può, è stato condannato”
Parlano i 5 Stelle della prima ora
E nella casa quartier generale del leader è arrivato il momento delle scelte

di Ferruccio Sansa

Genova Beppe è il padre del Movimento, il garante, ma non sarà il candidato premier”. Le figure di primo piano del Cinque Stelle non hanno dubbi. No, non è una sconfessione, né una presa di distanze da Grillo. Come spiega Roberto Fico, già candidato sindaco a Napoli: “Beppe non ha intenzione di candidarsi e sa che non potrebbe per statuto”. Fico non lo dice espressamente, ma il riferimento è a quella condanna per un incidente stradale di tanti anni fa che rende il grande capo non eleggibile. Marco Vagnozzi, presidente del consiglio comunale di Parma, aggiunge: “Beppe presidente del Consiglio? È il primo che non vorrebbe. Immaginatelo a un tavolo con i capigruppo come Cicchitto”. Vagnozzi ricorda: “È stato lo stesso Beppe a dire che lo stemma del gruppo parlamentare sarà quello del Movimento Cinque Stelle, senza accenni al blog beppegrillo.it . L'ha sempre detto: voi non sarete grillini a vita. È come il rapporto padre-figlio, il legame resta forse più forte anche quando il ragazzo sa camminare da solo”.
Grillo che si fa da parte? No, lo ha scritto lui stesso sul suo blog: “Io devo essere il capo politico di un movimento, però voglio dirvi che il mio ruolo è quello di garante, di controllare, vedere chi entra, dobbiamo avere soglie di attenzione molto alte”.
SONO ORE concitate nel quartier generale di Beppe Grillo. Che poi è la sua grande casa rosa di Sant’Ilario, affacciata sul mare di Genova. La luce è accesa nel salotto dove il comico-capo politico passa le ore al computer circondato da pile di libri, da fotografie, dal pianoforte nero lucido che in passato suonava. Ma il tempo oggi è poco: il telefono squilla in continuazione, decine di sms e mail.
Non c'è pace. Se Grillo si affaccia per strada ecco che lo fermano, gli stringono la mano, lo toccano come la statua della Madonna. E lui pare incerto tra l'eccitazione del momento e l'ansia di decidere. Perché non c'è tempo, bisogna fare scelte importanti nelle prossime ore: prima delle elezioni politiche bisogna decidere che cosa fare per le regionali del Lazio e della Lombardia. E poi c'è il rapporto con Antonio Di Pietro, che il leader del Cinque Stelle propone come presidente della Repubblica. Che qualcuno indica come possibile alleato (ma il 70 per cento degli elettori di Grillo non sono d'accordo, lo rivela un sondaggio del Fatto).
APPENA un anno fa Grillo diceva: “Macché governare, noi abbiamo un ruolo di testimonianza, di stimolo”. Oggi è tutto diverso: stime prudenti parlano di almeno 100 parlamentari Cinque Stelle. E addirittura, anche nel Pd, c'è chi teme una grande alleanza con Di Pietro e, chissà, la Fiom. “Certo, siamo vicini a diventare il primo partito italiano. Non vedo perché non dovremmo pensare al governo. Ma le alleanze sono chiacchiere: guadagneremmo cinque-dieci punti da una parte, ma li perderemmo dai nostri”, sorride uno dei consiglieri più stretti del grande capo. Poi c'è il sistema elettorale, il tanto vituperato Porcellum: “A sorpresa – con il disgregarsi del Pdl e noi del Cinque Stelle che sfioriamo il 25 per cento – potrebbe rivelarsi grimaldello per scardinare il muro dei vecchi partiti che lo avevano inventato per perpetuare il potere. Ma vedrete che quelli vireranno verso il proporzionale con premio di coalizione per tagliarci fuori”.
Grillo, a differenza di Berlusconi, ha una cerchia ristretta di consiglieri: c'è Gian Roberto Casaleggio, l'uomo che ha messo in piedi il blog e che frena l'irruenza dell'amico con la sua razionalità. Poi il fratello Andrea che a Sant'Ilario è di casa, così come Enrico, il nipote avvocato che alleggerisce lo zio delle rogne legali e amministrative. Una battuta alla moglie Parvin, che i vicini scherzando ormai chiamano First lady, ai figli. Grillo parla, ascolta si passa la mano tra i capelli bianchi. Sospira, cammina senza sosta, si risiede e cammina ancora. “È un fiume in piena di entusiasmo”, raccontano. C'è chi, dopo la traversata dello Stretto, sussurra di sbarchi a Roma. Il Tevere? Chissà.
Una cerchia impenetrabile. È dura anche parlare con i “grillini”. Chiami consiglieri regionali e comunali ed è una sfilza di cellulari che suonano a vuoto se si vede il numero del cronista. “Sai, si stanno decidendo le candidature al Parlamento. A parlare si rischia di restare bruciati. Meglio il silenzio”, si limita a dire uno di loro.
FICO si lascia un po’ più andare: “Abbiamo fissato regole stupende per il nostro gruppo parlamentare: i sostenitori registrati potranno proporre leggi, se votate da almeno il 20 per cento degli iscritti saranno presentate in Parlamento. Dalla democrazia rappresentativa siamo a quella partecipata. Arriveremo a quella diretta, con i referendum senza quorum”. E i candidati al Parlamento come li sceglierete? “Tra quelli di noi che si sono già candidati in passato”. Vi accuseranno di prendere gente di partito. E la società civile? “Le candidature di indipendenti non funzionano, guardate Michele Santoro o Luigi De Magistris. Meglio le persone che da anni si battono con noi, di cui ci fidiamo”.
Sì, c'è tanto entusiasmo. Ma anche incognite e decisioni da prendere. La luce del grande salotto di Grillo rimane accesa fino a notte.

il Fatto 3.11.12
Marco Pannella
“M5S dialoghi con i Radicali”


Il leader storico dei Radicali, Marco Pannella, a margine del congresso del suo partito che si tiene a Roma in questi giorni, dà consigli a Beppe Grillo: “Stai attento, perché senza dialogo si va a sbattere e si rischia di crepare politicamente. Anche per questo ti chiedo di aprire un dialogo con noi”. Emma Bonino ne fa un’analisi più puntuta: “Il vero rischio è che gli italiani si lascino affascinare da un uomo che passa, perché dopo dieci anni dobbiamo accompagnarlo ai suoi funerali politici”. Chiarisce poi sulla legge elettorale: “È un evidente fallimento dei partiti il fatto che i cittadini a pochi mesi dal voto non sappiano ancora con quale legge elettorale andranno alle urne”. Quanto a un eventuale accordo al Senato, scrolla le spalle: “Non c’è limite al peggio visto che si vorrebbe far ricorso al voto di scambio e nello stesso tempo anche ai nominati”. Ha poi concluso: “Anche questa volta, come è già successo in passato, rischiamo di restare fuori dalle istituzioni rappresentative, rinunciando a una presenza per noi molto importante. Ma in politica per fare un accordo bisogna essere in due“.

Repubblica 3.11.12
Casini riapre le porte al Pd “Patto possibile come in Sicilia se rompe con gli estremisti”
E al Pdl: appelli patetici. Voto in febbraio? Buonsenso
intervista di Carmelo Lopapa


ROMA — Al voto anche a febbraio, se sarà necessario per fare economia. Ma con una nuova legge elettorale, altrimenti tutto il sistema politico sarà travolto dall’antipolitica. Pier Ferdinando Casini si dice pronto a rilanciare l’asse col Pd che in Sicilia ha portato a un insperato successo. A patto che il partito di Bersani si liberi dagli «estremismi ». Per il Ppe italiano invocato da Alfano e i suoi, tanto più dopo il «penoso» Berlusconi di Lesmo, siamo fuori tempo massimo.
Quando sarà approvata la legge di stabilità si sarà esaurita la mission del governo Monti, presidente Casini? Voto anticipato a febbraio, magari in election day con le regionali?
«Non sono interessato al dibattito, non è un affare di stato. Un mese prima o un mese dopo non cambia molto. Rispetterò in ogni caso la decisione, che spetta al presidente della Repubblica. È una valutazione di buon senso, che tiene conto delle difficoltà finanziarie e del periodo di crisi, non può diventare la disfida di Barletta».
Dice che nell’eventuale anticipo non c’entra il panico da perdita dei consensi dei partiti? L’antipolitica avanza.
«Quel problema esiste, ma non lo risolviamo certo con un mese in più di tempo».
Forse lo risolvereste intanto con l’approvazione della riforma elettorale.
«Sarebbe un harakiri della politica se non restituissimo voce ai cittadini. Il fenomeno Grillo verrebbe moltiplicato se espropriassimo ancora gli elettori della possibilità di scegliere i loro rappresentanti».
Siamo a ridosso della campagna elettorale ma della Lista per l’Italia non si hanno se non vaghe coordinate. Ce la farete?
«L’importante è che ci siano simbolo e nome all’atto dello scioglimento delle Camere. E posso assicurare che ci saranno. Sarà la lista che vedrà insieme tutti coloro che credono nella convergenza tra società civile e buona politica, nel segno della continuità del governo Monti. Non sarà il restyling dell’Udc».
Il professore resta vostro candidato naturale nonostante Bersani la pensi diversamente?
«Monti ha cambiato il linguaggio della politica in Italia. Ha compiuto scelte dolorose, sfidando l’impopolarità, ha messo al bando la demagogia e i populismi e riportato il Paese al centro della politica internazionale. Lo dico fin d’ora: migliore sarà il risultato della Lista per l’Italia all’indomani del voto, più probabile sarà la permanenza di Monti a Palazzo Chigi».
E con Monti premier sarebbe più facile sarebbe l’approdo di Casini al Quirinale?
«La presidenza della Repubblica non può finire nel tritacarne di una contrattazione partitica, solo chi ha poco senso delle istituzioni può pensarlo. Prendo atto di una cosa, tuttavia: qualcuno mi vorrebbe rottamare, altri in corsa per il Colle. Potrei rispondere che mi ritengo ancora troppo giovane, sia per l’una che per l’altra soluzione».
Ha letto del Berlusconi che da Malindi cambia di nuovo idea sul governo Monti? Continua a non piacergli.
«Il Pdl è nel Ppe dove milito anche io. Ma che quel partito ha governato male e la conseguenza è la crisi profonda in cui versa. Non basteranno colpi da teatro o predellini per risollevarlo».
Invocano ancora il dialogo con voi.
«Io non voglio chiudere il dialogo, ma c’è ormai una doppia anima nel Pdl. Quella di Berlusconi e quella di Alfano, che pur coi limiti visibili sta cercando di dare una impronta di maggiore serietà al partito. Io preferisco dialogare con chi, come me e Bersani, ha impostato la politica del governo Monti.
Ad ogni modo, noi non possiamo pagare le contraddizioni di un Pdl che compie un passo avanti e due indietro. Gli appelli che ci vengono rivolti li trovo ridicoli, patetici, dopo anni di attacchi in cui non hanno mai smesso di darci per morti».
Che impressione le ha fatto il Berlusconi di Lesmo?
«Un’impressione francamente penosa. Una caricatura di vent’anni fa. Lui ha lasciato il governo compiendo una scelta responsabile, dolorosa. Ma ogni epilogo dovrebbe avere i requisiti della dignità e del decoro. A Lesmo abbiamo assistito a scene da decadenza dannunziana».
Siete reduci dal successo in Sicilia al fianco del Pd. È stata la prova generale in vista delle politiche?
«Un Udc rinnovato in quella regione ha avuto quasi gli stessi punti percentuali di Pdl e Pd. Premesso questo, è stata un’esperienza molto interessante. L’incontro tra moderati e progressisti è possibile, ma deve essere fatto in piena chiarezza e serietà».
Insomma, tra voi e loro c’è di mezzo Vendola, per altro rinfrancato dall’assoluzione.
«Sono garantista per tutti e sono lieto che sia stato assolto, per la Puglia tutta e per lui: le accuse erano alquanto singolari. Ma il problema non è personale, è politico. Io chiedo al Pd come sia possibile un’alleanza con chi ha sostenuto il referendum sull’art. 18, la battaglia al fianco dei No tav, con chi ha attaccato Monti e il suo governo. Ricordo agli amici del Pd che in Europa la sinistra ha governato bene, così Schroder in Germania come Blair in Inghilterra, dopo aver messo al bando gli estremi del sindacalismo e della politica».
Montezemolo adesso sembra davvero a un passo dall’impegno in politica.
«Porte aperte al dialogo. Ascolteremo con attenzione la loro proposta politica. Ma aggiungo: per fare cose insieme bisogna avere rispetto reciproco. Noi lo abbiamo dimostrato nei confronti di tutti. Adesso confidiamo di trovare altrettanto rispetto da parte loro».
Avverte una emergenza Grillo? Non sarà il caso di costruire una coalizione ampia già prima del voto per fronteggiare l’antipolitica?
«Rispetteremo la lettera e lo spirito della nuova legge elettorale. Ma ho molti dubbi che le ammucchiate confuse ed eterogenee servano a contrastare Grillo. Piuttosto rischiano di aiutarlo. Per noi questi mesi non sono stati una parentesi da archiviare per ritornare ai vecchi giochi, per ripresentarsi come se nulla fosse con le vecchie coalizioni. Sono quelle che hanno degradato la politica e ci hanno portato fin qui».

Corriere 3.11.12
Quell'accordo finale sul Porcellum
La riforma salterà. L'unica trattativa sarà sul premio di maggioranza
di Massimo Franco


Prima si dovrà consumare il rito, e quando sarà certificato ciò che oggi è già evidente, quando verrà formalmente sancito il fallimento della trattativa, solo allora — a un passo dalle urne — si aprirà la vera trattativa per tentare di modificare il Porcellum. Ma su un unico articolo: quello che riguarda il premio di maggioranza. Lo stralcio della riforma della legge elettorale sarà l'epilogo di una inconcludente mediazione che si è protratta per mesi tra incontri riservati e pubblici dibattiti, proclami di imminenti accordi e minacciosi richiami istituzionali.
Per salvare la riforma bisognerà dunque cancellarla e concentrarsi sul nodo attorno al quale fin dall'inizio si è ingarbugliata tutta la faccenda. È il premio di maggioranza, è quello il sancta sanctorum del Porcellum, che il capo dello Stato chiede venga modificato per uniformarlo alle indicazioni della Corte Costituzionale.
È vero che la disputa accademica e politica in questi anni si è incentrata sulle deprecate liste bloccate, che hanno partorito parlamenti di nominati. Ma il cuore del sistema elettorale è l'altro, che garantisce a una coalizione vincente con qualsiasi risultato di ottenere la maggioranza assoluta alla Camera. Va introdotta una soglia minima per accedere al premio, ecco il punto. E lo stralcio della riforma serve per impedire l'agguato delle votazioni a scrutinio segreto che si prepara a Montecitorio, e che affosserebbe definitivamente un provvedimento già delegittimato.
Così i testi, su cui ancora per settimane si cimenteranno la Commissione e l'Aula del Senato, le norme e gli emendamenti che verranno presentati, discussi e poi votati, diventeranno politicamente carta straccia, resoconti di defatiganti lavori parlamentari destinati all'oblio. Ma siccome è chiaro che l'intesa è di non trovar l'intesa, siccome il tempo è usato per far passare il tempo, siccome è impensabile procedere per decreto, anche al Quirinale si sono ormai convinti che ci sia un unico modo per eliminare l'alibi dei veti incrociati, dietro cui si cela il patto per il mantenimento dello status quo.
Non è chiaro se l'operazione dello stralcio sarà l'effetto dirompente di un messaggio alle Camere di Napolitano, o se i partiti si adopereranno anzitempo per evitare un conflitto istituzionale senza precedenti. È certo che la soluzione è stata discussa dai vertici istituzionali, e rappresenta l'extrema ratio per uscire dallo stallo di una riforma che — prima ancora di essere esaminata dal Senato — è stata di fatto disconosciuta da Berlusconi. È vero che il Cavaliere — sconfessando i suoi stessi sherpa — si è scagliato solo contro le preferenze. Ma ha posto una pietra tombale sulla legge.
E non c'è dubbio che l'ex premier sia ostile verso quel meccanismo di selezione, ma era e resta un altro il suo obiettivo: «Bisogna abolire per intero il premio di maggioranza», ha chiesto agli sbigottiti dirigenti del Pdl che si occupano del provvedimento. Il leader che ha incarnato in Italia il bipolarismo, vorrebbe insomma un ritorno al proporzionale puro, che con le liste bloccate avrebbe però un sapore sovietico. Dall'altra parte è Bersani che, senza esporsi, difende ora il premio di maggioranza del Porcellum. E muro contro muro non se ne esce.
Schifani, consapevole di dover gestire l'iter di una riforma su cui non c'è passione e non c'è intesa, farà quanto è in suo dovere da presidente del Senato, «mi assumerò — ha detto ai suoi interlocutori — la responsabilità di portare il testo in Aula, con o senza relatore». Il problema politico verrà dopo, quando cioè verrà formalizzata l'impossibilità di andare avanti. A quel punto chi si assumerà il compito di proporre lo stralcio? Sarà una richiesta dei partiti tramite i gruppi parlamentari o un'iniziativa di stampo istituzionale?
È ancora presto per capirlo, visto che il rito deve ancora consumarsi. Di sicuro, fallita la maxi-trattativa, è già in corso la mini-trattativa che muove dall'idea del senatore centrista D'Alia: assegnare il premio di maggioranza a una coalizione che ha superato il 40%, e se ciò non dovesse verificarsi, garantire un mini-bonus di seggi al partito che ha ottenuto il maggior numero di voti. Bersani nicchia per ora, ma sa che si prepara la tagliola dello stralcio, e che Napolitano è pronto a dire in pubblico quanto gli ha già detto in privato.
Certo, non mancano argomenti ai difensori del Porcellum per sottolineare quali siano le controindicazioni. Dato il quadro politico frammentato, sarà difficile oltrepassare la soglia del 40% per ottenere il premio di maggioranza. E un modello elettorale che predetermina il risultato elettorale rischia di produrre un aumento dell'astensionismo e del voto di protesta. Traduzione: con questo tipo di modifica sarebbe pressoché scontato un Monti-bis nella prossima legislatura. Con la schiettezza che tutti gli riconoscono, l'altro giorno il segretario dell'Udc Cesa non ha usato perifrasi con un dirigente del Pd per confutare questo ragionamento: «Lo volete capire o no che dopo il voto, con Grillo al 20%, ci saranno i numeri solo per fare un governo di larghe intese?».
Lo stralcio si avvicina, a passi lenti. Dato che senza una riforma, per quanto mini, il capo dello Stato non indirà le elezioni nazionali, i partiti si prenderanno ancora un po' di tempo. Vorranno vedere prima i risultati delle elezioni regionali. Incrociando le dita.
Francesco Verderami

il Fatto 3.11.12
“Lavoriamo sotto ricatto: firma o sei fuori da Fiat”
Gli operai di Pomigliano rompono il silenzio: “Il caporeparto ci impose di sottoscrivere una lettera contro i 19 da riassumere”
di Salvatore Cannavò


È la prima volta che degli operai del nuovo stabilimento Fiat di Pomigliano, tra i 2091 fortunati che sono stati riassorbiti dalla Fiat, accettano di parlare con la stampa. Si schiariscono la voce, seccata da troppi anni di silenzio, e parlano con nettezza, “per non perdere la dignità”, come dice uno di loro. Ma di nascosto, chiedendo di non essere ripresi in volto ed esigendo di essere citati con nomi di fantasia. Giacomo, Filippo, Sergio e Andrea hanno tra i 30 e i 37 anni, uno di loro è entrato in Fiat nel 2006, gli altri nel 2001, giovanissimi. Sono iscritti o ex iscritti ai sindacati che hanno firmato gli accordi di Marchionne: Uilm, Fim e Fismic.
Li incontriamo in una mattina resa tranquilla dal ponte dei morti. Pomigliano è in fibrillazione intorno al cimitero, c'è traffico, anche in città, ma meno del solito. L'auto della polizia locale incrociata in centro è lo specchio delle contraddizioni italiane: una bella Audi A3, 2000 Tdi, niente a che vedere con la produzione Fiat. Poco più avanti, nel deposito del Comune si infila anche una Smart, con tanto di insegna sulla fiancata. La Fiat non abita qui.
GLI OPERAI si siedono e cominciano a parlare. Parlano di getto: “Io dovrei essere l'operaio modello di Marchionne - spiega Filippo - nessun iscrizione al sindacato, ho sempre lavorato tranquillamente, ma con quello che succede ora non si può scherzare”. Quello “che succede” è la petizione circolata in fabbrica la scorsa settimana e con la quale gli operai si dicevano preoccupa-ti per il fatto che le 145 assunzioni ordinate dal Tribunale per sanare la discriminazione contro la Fiom potessero minacciare chi il posto ce l'ha. Un’iniziativa vissuta come una nuova guerra tra poveri. “Il team leader, il capo squadra mi ha detto 'Firma, fai presto che ho da fare', senza nemmeno farmi leggere. Ho firmato. Ma quando ho chiesto spiegazioni mi ha detto che mi avrebbe potuto cancellare e mettermi nella lista di quelli là”. Quelli là sono gli altri, quelli che non sono solidali con l'azienda, gli amici della Fiom. Sergio è più esplicito: “Il motivo per cui siamo qua è che abbiamo visto uno schifo”. La petizione è stata “fatta dall'azienda ma presentata come ispirata dagli operai”. Sergio racconta: “Un sindacalista mi ha spiegato tutto. All'inizio della settimana il direttore ha convocato i sindacati dicendo che occorreva fare qualcosa sulla vicenda delle riassunzioni”. A quel punto, spiega, si sono attivati “i capi, i team leader e i sindacati, in particolare la Fim Cisl: giovedì e venerdì scorsi alle 6 di mattina c'erano già dei sindacalisti in fabbrica, di solito arrivano alle otto, e facevano girare la petizione”.
“A ME – continua Sergio - è stato detto chiaramente: ti consiglio di firmarla perché se non la firmi ti mettono in mobilità forzata. Ma io la penna non l'ho presa in mano”. E non ha paura? “Certo che ho paura di finire tra i 19 da sacrificare. Ma io faccio il mio lavoro e voglio essere giudicato solo per quello. Pensavo saremmo stati in pochi a firmare, e invece siamo arrivati a 600”. L’azienda, sentita dal Fatto, afferma di “non voler rispondere a dichiarazioni anonime”. Su richiesta di un commento, però, è secca: niente a che vedere con la petizione. La Fim è più sfumata, invita a non strumentalizzare la vicenda, parla di 1900 firme arrivate presso la sede nazionale e invita a riflettere su iniziative del genere.
Nel racconto c’è anche il clima dentro la fabbrica dove la vita non è facile, soprattutto dopo i ritmi imposti dal piano Fabbrica Italia. Le pause, soprattutto, sono una bestia nera, tre da 10 minuti in otto ore di lavoro: “Non c'è il tempo di parlare con il collega vicino, di bere da una bottiglietta dietro alla postazione, se siamo raffreddati non c’è tempo di prendere un fazzoletto dalla tasca. Abbiamo un minuto per fare una macchina: un minuto per fare l'operazione e subito dietro spunta l'altra macchina”. L'azienda si è mangiata il tempo: “Prima avevamo 30-40 secondi per tirare il fiato tra una macchina e l'altra”. Ora non ci sono più. “Quando ho firmato il contratto, spiega Sergio, il direttore mi ha detto che sono state tolte le sedie e i tavolini perché, tanto, con il nuovo sistema di lavoro non c'è bisogno di sedervi”. “Mi ha colpito la scena – aggiunge Filippo – di vedere alcune donne andare in bagno con in mano cracker, panini e frutta, per non perdere tempo”.
Accanto agli operai della Fip ci sono anche quelli in cassa integrazione, ancora dipendenti di Fiat Group Automobiles (Fga). Sono 2276 e aspettano. Con poca fiducia. “Io vivo con 760-780 euro di assegno di cassa integrazione - spiega Andrea - e meno male che mia moglie lavora”. Però ora deve sospendere il mutuo da 700 euro e le bollette si accumulano sul tavolo. Lui ha sempre votato Ds e poi Pd, “ma ora non voterò, la politica deve schierarsi”. Ma Marchionne dice che ha evitato il massacro sociale, che rispondete? “Che quando arriviamo a luglio 2013 e finisce la Cassa integrazione - dice Giacomo, assunto dal 2001 ma fuori dalla fabbrica - noi andremo tutti in mezzo a una strada, in mobilità.
A Marchionne domando: può confermare che nel 2013 noi saremo felici e contenti andando a lavorare e non ci troviamo invece a casa?”.

l’Unità 3.11.12
Paul Krugman
Per l’economista premio Nobel siamo affetti da un’amnesia collettiva
Già non ricordiamo che cosa ci ha portato alla crisi del 2008
di Gianluca Galletto


NEW YORK Qualche sera fa ad un cocktail privato Paul Krugman, premio nobel per l’economia e famoso editorialista progressista del New York Times, ha parlato di temi economici americani, delle imminenti elezioni e di Europa. «Siamo in una fase di perdita di memoria collettiva e generazionale», ha esordito, parlando delle risposte finora date dalla leadership politica occidentale alla crisi. Citando l’economista Rogoff (autore di Questa volta è diverso: Otto secoli di follia finanziaria, repubblicano, e consulente chiave del team Obama durante la transizione) spiega come le crisi finanziarie siano una sorta di rito di passaggio universale per le economie di mercato. Ogni volta i leader pensano che le analisi e gli interventi usati in passato non siano applicabili.
«Poco dopo il 2008 ci siamo dimenticati di cosa ci ha portato a un passo dal baratro. Abbiamo dimenticato la nostra storia (gli anni trenta, ndr)». Per l’ennesima volta, ci dice che questa non è una crisi da ciclo economico, ma una crisi finanziaria da debito eccessivo e richiede interventi più drastici. «Abbiamo avuto uno di quei momenti alla Willy il Coyote» che continua a correre quando ha sotto il dirupo. In queste crisi i tempi di recupero sono lunghi. La massa di debito privato da smaltire è enorme, e lo strumento della sola politica monetaria insufficiente. I leader occidentali, superata la fase critica, sono divenuti compiacenti. A partire dall’amministrazione Obama.
«Questa è una crisi atlantica», in cui Europa e Usa, con caratteristiche diverse, hanno combinato gli stessi guai. In questa lunga fase di riduzione del debito, il settore privato taglia le spese per ripagare i quoi debiti. L’economia globale è un sistema chiuso e la mia minor spesa è il tuo minor reddito. La somma finale è una recessione, che, in questo caso diventa «non una Grande Depressione, ma una depressione».
Negli Usa si sta affermando il fenomeno quasi sconosciuto della disoccupazione di lunga durata. Poiché i sussidi durano massimo due anni, il risultato è un aumento della povertà, con costi sociali tremendi e un impatto negativo sull’economia in quanto una fetta importante della forza lavoro esce completamente dal circuito economico.
I governi devono intervenire nel sostituire la mancata spesa privata, con buona pace per deficit e debiti sovrani, meglio di una depressione. «Quello che sta facendo l’Europa e che i repubblicani vorrebbero fare qui è una follia. L’austerità va attuata in fase di boom, non ora. In questo modo invece ammazziamo i redditi e il rapporto debito/reddito torna a salire. Perché non siamo in una Grande Depressione? Proprio perché oggi invece che allora abbiamo dei “grandi governi”. Questa catastrofe umana potrebbe essere risolta molto più facilmente». Serve più spesa, una politica aggressiva di sollievo dei mutui in default e il proseguo di politiche monetarie non convenzionali, come la Fed sta facendo. A chi gli dice che gli Usa viaggiano con un debito oltre il 100% del Pil, un deficit al 7.5% e un rischio di dollaro in caduta, risponde che «ce lo possiamo permettere perché il dollaro è ancora la valuta mondiale di riserva, e, anzi, un suo deprezzamento aiuterebbe l’economia con maggiori esportazioni».
E dell’Europa Krugman che ne pensa? «Avrei tanto voluto essere in quelle stanze dove nel ’92 si decideva dell’Euro per poter gridare per favore non commettete questa follia! Non siete pronti per una moneta comune!». Però si dice alla fine ottimista, convinto che le élite europee se ne rendano conto e in particolare la Merkel che alla fine farà la cosa giusta. E non risparmia una lode molto chiara al presidente della Bce: «Sono un gran fan di Draghi».
Peer Steinbrück comincia la sua campagna per far riconquistare alla Spd la guida del governo tedesco con una vittoria già in tasca. La sua nomina a candidato per la cancelleria è filata liscia come l’olio.E questo è accaduto contrariamente alle aspettative di molti e nonostante una consolidata litigiosità masochista della sinistra (non solo) tedesca. I suoi possibili concorrenti, il presidente del partito Sigmar Gabriel e il capo del gruppo parlamentare Frank-Walter Steinmeier, gli hanno ceduto il passo con molta fairness. In altri tempi non sarebbe stato così, soprattutto verso un compagno di partito ben caratterizzato su un’anima precisa della galassia socialdemocratica: quella più legata al solido realismo dei cosiddetti Macher (facitori di fatti) alla Helmut Schmidt, poco inclini agli innamoramenti ideologici e diciamolo abbastanza conservatori. La destra della sinistra, per dirla così.
Il miracolo della ritrovata armonia richiede qualche spiegazione. La prima è la natura stessa e la gravità della crisi del debito. Tutta la Spd oggi, dalla sinistra alla destra del partito, è unita nella consapevolezza che la strategia dell’austerity à la Merkel è sbagliata e destinata al fallimento. Forse quello che è in grado di comprenderlo meglio è proprio Steinbrück, che, come ministro delle Finanze nella große Koalition guidata dalla cancelliera tra il 2005 e il 2009, ebbe una buona parte di merito nel contrastare il disastro del 2008 dopo il crack della Lehman Brothers. Dalla sua esperienza di insider nel mondo della finanza, maturata già nel tempo in cui era stato Ministerpräsident della Renania-Westfalia, Steinbrück ha tratto la convinzione che dalla crisi non si esce senza una radicale e profonda riforma dei rapporti tra la politica e il mondo dei mercati. L’opinione è condivisa oggi da tutto il partito, anche da quelli che hanno diffidato dell’ex ministro delle Finanze e della sua propensione a non disdegnare posti nei consigli di amministrazione (ultimo, fino a poco tempo fa, quello nella ThyssenKrupp) e a dispensare buoni consigli a pagamento a industriali e operatori.
Va riconosciuto che in materia di regolamentazione dei mercati finanziari Steinbrück ha presentato, in un Positionspapier diffuso a fine settembre, posizioni molto lucide e radicali: la separazione tra banche d’affari e banche commerciali (una richiesta che gli ha tirato addosso l’ostilità dei colossi finanziari tedeschi, a cominciare dalla Deutsche Bank), la proibizione delle «transazioni ad alta frequenza» che permettono movimenti di ingenti capitali via computer in pochi secondi, la creazione di un fondo di sicurezza sui depositi sostenuto dalle stesse banche, il bando dei derivati più pericolosi. Non è esattamente il programma di un «moderato» come, con qualche sconcerto, hanno sottolineato i giornali più conservatori dando il via, subito dopo, a una specie di macchina del fango alla tedesca sui compensi (del tutto leciti) che il candidato socialdemocratico ha percepito in passato come oratore.
La regolamentazione dei mercati finanziari, che la Spd aveva adottato come linea anche prima, per iniziativa di Gabriel, non è l’unico elemento unificante della strategia economica socialdemocratica. Ce n’è un altro, altrettanto importante: la condivisione del debito. Dopo qualche esitazione, tutti i dirigenti del partito si sono schierati per l’adozione di misure che costringano Berlino ad accettare quello che finora è stato, e resta, un tabù assoluto: che siano gli eurobond o un redemption fund o regolamenti nell’ambito dell’Unione bancaria, la Spd, tutta a parte qualche frangia marginalissima, ritiene che non ci sia altra strada. Non solo per ragioni di solidarietà europea, ma anche perché la strategia attuale sta portando a recessioni sempre più incontrollabili che richiedono poi, soprattutto alla Germania, proprio quei salassi in aiuti e quote nei fondi di stabilità cui il governo federale ha forti difficoltà a provvedere.
Ponendo la questione della mutualizzazione del debito, la Spd ha mostrato coraggio. A nessuno sfugge la circostanza che oggi come oggi l’idea che ci si debba accollare una parte dei debiti dei paesi «spendaccioni» non è affatto popolare nell’opinione pubblica tedesca, anche quella orientata a sinistra. Ma il compito della politica non è proprio quello di convincere l’opinione pubblica? E poi, e lo stesso Steinbrück l’ha detto esplicitamente anche nell’incontro di ieri con Bersani, i socialdemocratici sono convinti che la politica del «risparmiare, risparmiare, risparmiare» imposta dall’attuale governo di Berlino alla strategia europea cadrà presto in pesantissime contraddizioni anche nella ricca Germania, dove l’export comincia già a soffrire della recessione altrui.
Regolazione e moralizzazione dei mercati finanziari e condivisione del debito: è la base di una strategia alternativa che il meno «alternativo» degli esponenti socialdemocratici tedeschi propone a tutta la sinistra e ai democratici europei. Ieri a Milano è emersa una buona concordanza con il Pd e anche con il governo Monti. Dovrebbero seguire passi concreti.

Repubblica 3.11.12
La strada da seguire per creare più lavoro
di Luciano Gallino


Per di più il governo sembra sottovalutare la gravità della situazione. La disoccupazione di massa rappresenta tutt’insieme un’enorme perdita economica, uno scandalo intollerabile dal punto di vista umano, e un minaccioso rischio politico. Sotto il profilo economico, quasi tre milioni di disoccupati comportano una riduzione del Pil potenziale dell’ordine di 70-80 miliardi l’anno. Anche se ricevono un modesto reddito dal sussidio di disoccupazione o dai piani di mobilità, i disoccupati sono lavoratori costretti loro malgrado alla passività. Non producono ricchezza sia perché non lavorano, sia perché i mezzi di produzione, cioè gli impianti e le macchine che potrebbero usare, giacciono inutilizzati. Un’altra perdita economica deriva dal fatto che lunghi periodi di disoccupazione comportano che le capacità professionali si logorano e sono difficili da recuperare.
Dal punto di vista umano la disoccupazione di massa, insieme con la povertà che diffonde, è uno scandalo perché i loro effetti, come ha scritto Amartya Sen, scardinano e sovvertono la vita personale e sociale. Elementi fondamentali di questa, dall’indipendenza personale alla possibilità di accedere per sé e i figli a una vita migliore, dalla realizzazione di sé alla sicurezza socio-economica della famiglia, sono strettamente legati alla disponibilità di un lavoro stabile, dignitosamente retribuito. Quando esso viene a mancare, anche tali elementi crollano, e la persona, la famiglia, la comunità sono ferite nel profondo delle loro strutture portanti.
Quanto al rischio politico, qualcuno dovrebbe ricordarsi che uno dei fattori alla base dell’ascesa del fascismo e ancor più del nazismo è stata la disoccupazione di massa. E la capacità di ridurla mostrata da tali regimi dopo la crisi del ’29 è una delle ragioni del sostegno popolare di cui hanno goduto fino alla guerra che li ha abbattuti. Di certo oggi né l’uno né l’altro dei due regimi avrebbero la stessa faccia. Ma i sintomi di autoritarismo che affiorano in Europa, e i movimenti di estrema destra dagli alti tassi elettorali in almeno dieci Paesi, non sono da sottovalutare. Sperando che qualche movimento non cominci a promettere “ridurrò la disoccupazione a zero”. La promessa che fece e poi mantenne Hitler, fra il 1933 e il ’38.
Poiché le austere ricette dei tecnici finora hanno aggravato il tasso di disoccupazione anziché ridurlo, sarebbe ora di pensare a qualcosa di più efficace, e magari sperimentarlo. Ho fatto riferimento altre volte all’idea che sia lo Stato a creare direttamente occupazione, in merito alla quale esistono solidi studi. Tempo fa si chiamavano schemi per un “datore di lavoro di ultima istanza”, ma oggi si preferisce chiamarli schemi di “garanzia di un posto di lavoro” (job guarantee, JG); il che non significa affatto una garanzia per quel posto di lavoro, ma per un posto di lavoro dignitoso e ragionevolmente retribuito. Coloro che elaborano simili schemi sono economisti e giuristi americani, australiani, canadesi, argentini, indiani; i quali, diversamente dai nostri governanti di oggi e di ieri, sembrano tutti aver meditato sull’articolo 4 della nostra Costituzione, quello per cui “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro”: non del lavoro, si noti, di cui tratta invece l’articolo 35. Il primo mai attuato, il secondo in via di estinzione nella legislazione e nelle relazioni industriali.
Uno schema di JG prevede che in via di principio esso sia accessibile a chiunque, essendo disoccupato, vuole lavorare ed è in grado di farlo. Di fatto sarebbe inevitabile, visti i numeri in gioco, dare la preferenza a qualche strato di persone in peggiori condizioni di altre, quali, per dire, i disoccupati di lunga durata. L’attuazione di uno schema di JG richiede un’agenzia centrale che stabilisce le regole di assunzione e i livelli di retribuzione, e gran numero di imprese (o centri di servizio o cooperative) a livello locale che assumono, al caso addestrano e impiegano direttamente i lavoratori, oppure li assegnano a imprese locali in progetti di immediata e rilevante utilità collettiva. Dando la preferenza a settori ad alta intensità di lavoro e bassa intensità di capitale, dai beni culturali ai servizi alla persona, dal recupero di edifici e centri storici alla ristrutturazione di scuole e ospedali. I centri locali trattano con le imprese le condizioni a cui esse possono impiegare i lavoratori del programma, dalla partecipazione ai costi del lavoro fino all’eventuale passaggio del dipendente dal pubblico al privato.
Trovare le risorse per finanziare simili schemi è una questione complicata, nondimeno vari studi attestano che non è impossibile risolverla. Prima però di trattare tale tema c’è una premessa inderogabile: deve manifestarsi la volontà politica di affrontare con nuovi mezzi la catastrofe disoccupazione. Chiedere a un governo neoliberale di esprimere una simile volontà è forse troppo, ma le crisi sono sia uno stimolo, sia una buona giustificazione per cambiare idee e politiche.
C’è una novità a livello europeo che dovrebbe indurre a discutere di simili schemi, e magari a sperimentarne qualcuno in singole regioni. Ai primi di settembre 2012 si è svolta a Bruxelles una conferenza internazionale sulle politiche del lavoro, organizzata dalla Commissione europea. Una sessione era dedicata a “La garanzia di un posto di lavoro – Concetto e realizzazione”. Hanno perfino invitato a parlare uno degli studiosi più noti e polemici in tema di JG, l’australiano Bill Mitchell. Posto che nei programmi di JG rivivono le teorie di Keynes in tema di politiche dell’occupazione, nonché la memoria del successo che gli interventi statali ebbero durante il New Deal rooseveltiano, aprire alla discussione di tali programmi uno dei templi della teologia neo-liberale, qual è la Commissione europea, è un segno che qualcosa sta cominciando a cambiare sul fronte ideologico delle politiche del lavoro.
Il documento base della sessione in parola formula varie domande: “Quali sono i maggiori ostacoli in Europa alla realizzazione di schemi di garanzia d’un posto di lavoro… volti ad affrontare la crisi della disoccupazione? Possono tali ostacoli venire superati? In quali aree potrebbero o dovrebbero essere sviluppati degli impieghi pubblici per disoccupati? Quanto tempo ci vorrebbe prima che a un disoccupato sia dato un lavoro nel settore pubblico?”. Sono domande a cui anche il nostro governo dovrebbe cercare di dare risposta, meglio se non soltanto in forma cartacea. Dopotutto, ce lo chiede l’Europa.

Repubblica 3.11.12
L’era della compiacenza
L’inganno della cultura al servizio del potere
di Gustavo Zagrebelsky


NELLE società libere, la cultura è una funzione sociale, per così dire, democratica. Giustamente si dice che la cultura ha una funzione politica, ma questo vale in senso ampio, come servizio alla vita della pòlis, non nel senso stretto di “politica dei politici”. La cultura è una delle tre “funzioni sociali” sulle quali si reggono le nostre società: economia, politica e, per l’appunto, cultura.
Tutti i bisogni sociali sono ascrivibili a uno degli elementi di quella triade, elementi che, variamente configurati, intrecciati, coordinati o messi in gerarchia connotano il modo d’essere e di reggersi delle nostre società. La dottrina delle tre funzioni, che ha radici antichissime, deve tener conto degli odierni postulati della libertà e dell’uguaglianza. Libertà significa mobilità sociale, dunque la possibilità di passare da una funzione all’altra. L’uguaglianza, a sua volta, esclude che alle tre funzioni possano corrispondere categorie sociali separate, com’era invece nelle società antiche. Il cittadino è potenzialmente attivo nel campo economico, politico e culturale; può passare dall’uno all’altro, all’altro ancora, e può perfino svolgerne più d’una contemporaneamente.
La caduta delle barriere rigide, non esclude affatto, tuttavia, che ciascuna funzione mantenga il suo profilo differenziato; che chi si dedica e quando si dedica a una di esse, operando negli ambiti e nelle istituzioni corrispondenti, sia tenuto a un codice di comportamento specifico, vincolato ai dettami di una vocazione particolare. La confusione dei comportamenti determina situazioni percepite come improprie, inammissibili, corrotte. Le commistioni sono la spia della perdurante vitalità nella nostra coscienza civile di quell’antichissima visione tripartita delle funzioni sociali, in quanto non siano accettate ma siano squalificate come incompatibilità o conflitti d’interesse dagli effetti inquinanti. Non è forse questo uno dei temi politici dominanti nel nostro Paese, dove le connivenze tra finanza e politica, nel silenzio, nei balbettamenti o con la copertura e la connivenza della cultura, hanno avvelenato i pozzi da cui ciascuna di esse dovrebbe attingere le proprie specifiche, non contaminate, risorse?
La cultura, i suoi attori, i beni di cui essi dispongono, vivono, per così dire, assediati. La loro forza materiale è nulla, ma la forza spirituale può essere grande. Si comprende allora che le altre funzioni sociali, l’economia e la politica, la lusinghino per ottenerne i favori, la insidino. Dall’altra parte, poiché la cultura non produce né ricchezza né potere, si spiega la forza d’attrazione che economia e politica esercitano su chi opera nel campo della cultura. Qui, nascono i tradimenti.
C’è un’evidente asimmetria: le seduzioni sono a senso unico. Non si è mai visto che la cultura abbia seriamente tratto a sé uomini dell’economia e della politica, distraendoli dalla ricchezza e dal potere. Non esistono “stati di cultura”, se non nell’immaginario regno platonico dei filosofi. Invece, esistono “Stati di politica”, dove il momento politico pretende il monopolio della legittimità; ed esistono Stati di economia, dove è il momento economico, travestito da tecnico, a pretendere il monopolio della legittimità. Né l’uno né l’altro, tuttavia, potrebbero esistere senza la legittimazione, la copertura, offerta dalla cultura. Ma, quale cultura? Poiché la ricerca del potere e della ricchezza, come prodotti della libertà e dell’uguaglianza, ha di per sé effetti distruttivi della compagine sociale, la cultura che si limita a seguire pedissequamente gli interessi di chi opera in quegli altri ambiti moltiplica la distruzione e contraddice il suo compito di “terzo” unificatore.
Il mondo della cultura ha il diritto al rispetto della sua autonomia e gli uomini di cultura hanno il dovere di difenderla. Esempi? Non c’è rispetto, quando i beni culturali e i beni ambientali, che sono “culturali” anch’essi, sono usati e abusati, ceduti, cementificati, per ottenere consenso da spendere nella competizione per il potere. I “beni culturali”, conformemente alla loro natura e funzione, hanno da essere collocati in una sfera immunizzata dalla politica. Se esiste un ministero che si occupa di cultura, questo non dovrebbe essere concepito come appannaggio di partiti in funzione di non si sa quali “politiche culturali”, che non spetta loro progettare e mettere in opera. Ma, devono anche essere immuni dagli interessi commerciali. Non c’è rispetto quando sono sfruttati in campagne commerciali, per promuovere marchi e pubblicizzare prodotti. Possono, certamente, procurare e produrre denaro. La cultura – per parafrasare un’espressione triviale – non si mangia, ma può dare da mangiare a molti e in molti modi, soprattutto quando, com’è auspicabile, si rivolge al pubblico dei grandi numeri. Ma, deve trattarsi, per così dire, di una conseguenza, o di un effetto collaterale e indotto, non dell’obiettivo primario, prevalente sul rispetto della cultura. La quale non esiste per dar da mangiare ai corpi, ma per alimentare le forze spirituali dell’auto- coscienza individuale e collettiva.
Non c’è rispetto per la cultura quando il Ministero, questa volta dell’istruzione, formula programmi scolastici come quello noto “delle tre I” (inglese, internet, impresa) che esprimono un’idea puramente aziendalistico- esecutiva della scuola, idea resa concreta nella programmazione degli studi nei dove una volta si studiava il diritto costituzionale e pubblico e ora si studiano i contratti con la pubblica amministrazione, le opportunità di finanziamento delle imprese, la disciplina degli investimenti finanziari, e altre cose di questa natura (Gazz. Uff. 30.3. 2012, Supplemento), cose utili ma in ambito diverso. Dall’altra parte, non c’è rispetto per la cultura da parte di chi, per primo, dovrebbe difenderne l’autonomia. Come ho già detto la nostra epoca è sempre più ricca di consiglieri e consulenti e sempre meno d’intellettuali. Quella del consigliere sarebbe una sorta di versione odierna “dell’intellettuale organico” gramsciano che si collegava alle forze storiche della società per conquistare “l’egemonia” e per svolgere così un compito certo ambiguo, ma indubbiamente grandioso. Il consigliere di oggi vive tra ministeri, enti, istituti, fondazioni, aziende, e si lega al piccolo o grande potente, offrendo i suoi servigi intellettuali e ottenendo in cambio protezione e favori. La stessa cosa può ripetersi per i consulenti che offrono le proprie conoscenze alle imprese, per testarne, certificarne, magnificarne e pubblicizzarne i prodotti; per testimoniare la qualità del ciclo produttivo, la sua non-nocività, la sostenibilità dell’impatto ambientale, e altre prestazioni di questo genere. Naturalmente, consiglieri e consulenti non sono affatto cosa cattiva, ma solo quando non sono spinti dalla smania di “proporsi” e per questo, inevitabilmente, accettano d’essere reclutati e d’entrare “nell’organico” di questo o quel potente. L’uomo di cultura diventa allora uomo di compiacenza, sebbene spesso voglia illudere se stesso d’essere lui a usare il potente come mezzo per realizzacorsi re le proprie idee, mentre è sempre il contrario: sono le sue idee a essere usate come mezzo per gli interessi del potente.
La società del nostro tempo, dove le conoscenze sono sempre più approfondite e settorializzate; dove nessuno padroneggia anche solo la minima parte dei problemi dalla cui soluzione dipende la vita collettiva; dove il più sapiente nel suo campo è perfettamente ignorante nei campi altrui; dove quindi è inevitabile delegare ad altri la conoscenza che ciascuno di noi, da solo, non può avere: in questa società, massimo è il bisogno di fiducia reciproca. Se non ci si potesse fidare gli uni degli altri e, in primo luogo, di coloro che per professione si dedicano a professioni intellettuali, se l’integrità delle loro “prestazioni” fosse inficiata dal sospetto di compromissione con interessi politici o economici, la cultura, come indispensabile luogo “terzo” di convergenza e convivenza, sarebbe un corpo morto. Il dileggio degli intellettuali non sarebbe immotivato.

il Fatto 3.11.12
Foto della settimana
È da piccoli che s’impara
Il bambino di Hebron tra i giganti armati d’Israele
di Lidia Ravera


Un bambino di 3 anni, solo, fra uomini protetti e mascherati dalle uniformi. I calzoncini, la camicetta rosa, le ginocchia nude, un minuscolo paio di sneaker ai piedi. Gli uomini in uniforme imbracciano armi pesanti. Le tengono a tracolla, le puntano. Ha gli occhi attenti e ansiosi, il bambino, come se cercasse di decifrare qualcosa. Oppure qualcuno che gli spieghi. Gli uomini hanno occhi distratti. Stanchi. Hanno 20 anni, da quando sono nati non hanno visto altro, non hanno imparato altro. Guerre, attentati, check point, barriere, muri. Funerali rabbiosi, bandiere insanguinate. Il bambino è nato da poco, la ripetizione non ha ancora spento lo stupore. È attonito, il bambino. Lo spavento è nelle proporzioni: lui tutto intero, dai piedi alla testa, arriva appena alle ginocchia dei soldati. Vicino a lui sembrano giganti in agguato. Potrebbero calpestarlo, travolgerlo.
Perdere l’hanno già perso. Non lo guardano, infatti, nemmeno come il particolare sbagliato nel quadro. E lui non guarda loro. Li registra, assieme al resto di quel mondo incomprensibile. Chissà dov’è sua madre. Se hai tre anni, nel nostro Paese, c’è sempre qualcuno che ti tiene per mano. Ma vivere in Palestina non è come vivere nel tuo Paese, nel Paese dove sei nato. Sei in ostaggio, se sei nato in Palestina, sei tollerato, ostacolato, discriminato. Il suk di Hebron, è il luogo dove il bambino si è perso o forse sta aspettando o cercando di capire. Alle sue spalle, non si vede, ma c’è un posto di blocco. E subito dietro, strade che gli israeliani possono percorrere e i palestinesi no. Passaggi frazionati, quattro metri per gli israeliani, uno per i palestinesi. Hebron è il crocevia di un intenso traffico d’odio. Un territorio senza pace. Vivere su un territorio senza pace, su una terra contesa, è come vivere con il terremoto. Uno dei contendenti è forte e l’altro è debole. Se fai parte dei deboli la tua casa può essere rasa al suolo da un momento all’altro, puoi morire da un momento all’altro. Anche se hai tre anni, cinque, dieci. Può morire tua madre. Da un momento all’altro. Gli occhi del bambino, solo solo fra i soldati giganti, sembrano saperlo: non conoscono quell’allegria prima della parola, quando senti pulsare la vita allo stato puro. Voglia di correre e ridere, dar calci a una palla, volare e ascoltare le storie. La leggerezza di una mente ancora vuota è un lusso, per i bambini nati in Palestina, nascono e, poco dopo, hanno già visto tutto.
Tutto quello che non dovrebbero vedere. Sanno già tutto. Tutto quello che non dovrebbero sapere. Sanno, e li colpisce un dolore precoce. Senza speranza. Smisurato. Il dolore si trasformerà in odio, dopo, a 12 anni, 15, 20. A 3 anni è presto per odiare, non sei ancora capace. Così il dolore diventa solitudine. E nella solitudine ti perdi.

il Fatto 3.11.12
Il New York Times anticipa il risultato: Vince ancora Obama
Nate Silver, il genio dei sondaggi, è sicuro: gli stati chiave in bilico andranno al presidente
Nell’ultimo mese creati 171 mila posti di lavoro
di Angela Vitaliano


New York Per il New York Times la partita è finita, il vincitore è Barack Obama. Ma se potessimo scegliere una sola parola per dare il senso di ciò che caratterizza la vigilia americana dell’election day – martedì 6 tutti alle urne – sarebbe senz’altro “numeri”. Quelli legati all’uragano Sandy – Obama ha incassato l’endorsement del sindaco di New York, Micheal Bloomberg – quelli legati ai sondaggi per le presidenziali e quelli relativi alla disoccupazione.
SONO 171 mila i nuovi posti di lavoro creati durante il mese di ottobre: una cifra al di sopra delle più rosee prospettive degli economisti che si sarebbero accontentati di 125 mila. Cinquantamila posti in meno sarebbero, dunque, bastati a confermare un trend che dallo scorso aprile è diventato abbastanza stabile da far scendere il tasso di disoccupazione al 7.8%. Lo stesso che c’era nel gennaio del 2008, prima che la crisi facesse salire la percentuale in maniera inarrestabile, tanto da toccare il 10% verso la fine del 2009.
Eppure, nonostante il fatto che i numeri diffusi ieri siano estremamente positivi, l’indice di disoccupazione sale di uno 0.1% raggiungendo il 7.9% e dando così modo a Mitt Romney – fresco dell’endorsement di Mr Burns, il cattivo padrone della centrale nucleare di Sprienfield nei Simpson – di attaccare il suo avversario sottolineando che “oggi, dopo quattro anni di amministrazione Obama, la disoccupazione è peggiore di quando lui è stato eletto”. In effetti, la crescita del tasso di disoccupazione non è attribuibile a un peggioramento della situazione economica. Anzi. Il contrasto fra i numeri positivi dei nuovi posti di lavoro e la disoccupazione “in aumento” è spiegabile con il fatto che un numero più vasto di persone ha ricominciato a cercare un lavoro. I dati sulla disoccupazione, infatti, tengono dentro esclusivamente i disoccupati che stanno attivamente cercando impiego e non quelli che, per una ragione o per l’altra, hanno smesso di farlo. Il fatto poi che disoccupati di lungo termine siano tornati a cercare un’occupazione stabile può essere letto solo come un segno di maggiore fiducia nei confronti del mercato del lavoro. Se per Romney le cifre di ieri sono il segno del fallimento di Obama, per quest’ultimo sono il segno del progresso “reale” che sta avvenendo nel Paese anche se “sappiamo che abbiamo molto altro lavoro da fare”. In Ohio Obama è tornato anche sulla questione che occupa molto spazio in questi giorni e che riguarda lo spot elettorale del repubblicano, in cui Romney dice che la Chrysler intende spostare la produzione delle Jeep per il mercato cinese, in Cina facendo intendere che ciò comporterà una perdita di posti di lavoro per gli Stati Uniti. “Lo so che siamo vicini alla data dell’elezione – ha detto Obama – e lo so che il governatore Romney non sta vivendo dei bei momenti qui in Ohio perché si era opposto al salvataggio dell’industria automobilistica, ma questo non è un gioco, qui si parla di posti di lavoro. Qui si parla della vita della gente”. I vertici della Chrysler hanno più volte smentito Romney annunciando, anzi, che sono in programma nuove assunzioni all’interno dell’azienda nei prossimi mesi. La battaglia, tuttavia, non è destinata ad assumere toni più moderati, a soli tre giorni dalle elezioni, e soprattutto non qui in Ohio, Stato dove Obama continua a mantenere un modesto ma stabile vantaggio e che Romney dovrebbe assolutamente riuscire a strappare per aumentare le sue chance di elezione. Ieri sera, infatti, il candidato repubblicano è stato la star dell’evento, “Romney-Ryan Real Recovery Road Rally, ” che si è svolto a West Chester, subito fuori Cincinnati, sempre in Ohio, insieme a sua moglie Ann, al suo vice Paul Ryan e un centinaio di supporter vip fra cui John McCain, Condoleezza Rice, Marco Rubio, Rick Perry e Rudy Giuliani. In Ohio, però, tornerà anche Barack Obama, accompagnato da un’altra star che ha mostrato altre volte di saper parlare lo stesso linguaggio della “middle class” di questo Stato: Bruce Springsteen.
IL ROCKER sostenitore del presidente già nelle scorse elezioni e da sempre noto per essere un democratico, aveva già suonato qui, prima di un discorso di Bill Clinton. Questa volta, invece, viaggerà con il candidato democratico, per tutta la giornata di lunedì, che li vedrà insieme a Madison nel Wisconsin, per poi spostarsi a Columbus in Ohio dove si uniranno al rapper Jay-Z che con loro proseguirà, per Des Moines in Iowa dove ad attenderli ci sarà Michelle, per ricominciare lì dove la storia era cominciata. Anche Mitt Romney, intanto, ha annunciato che l’evento conclusivo della sua campagna elettorale, che si terrà a Manchester nel New Hampshire, vedrà un cantante al suo fianco, e cioè Kid Rock, autore del “Born Free” che fu usato durante la convention di Tampa. Martedì Obama tornerà nella sua Chicago, per attendere i risultati con la sua famiglia e il suo staff; Mitt Romney sarà con Ann a Boston. Intanto continua il rompicapo dei sondaggi che mostrano sempre una corsa serrata dei due con Obama, però, in vantaggio, sebbene di poco, negli Stati chiave. I repubblicani hanno, negli ultimi giorni, mostrato un certo ottimismo a proposito della possibilità di recuperare e vincere in Pennsylvania e in Michigan ma lo staff del presidente sembra tranquillo sebbene l’uragano Sandy abbia inevitabilmente rallentato l’azione del “porta a porta” dei volontari in tante aree danneggiate.
E se le informazioni dei democratici parlano di una netta supremazia di Obama nel “voto anticipato”, Nate Silver, il “genio” dell’analisi dei sondaggi del New York Times, ha scritto, in sintesi, che la corsa è conclusa e che il vincitore è lo stesso di quattro anni fa.

La Stampa 3.11.12
L’aguzzino che vide morire i suoi figli desaparecidos
Argentina: li salvò una volta, la seconda non intervenne
di Emiliano Guanella


A processo Oscar Alfredo Castro ufficiale della Marina coordinava gli squadroni della morte a Bahía Blanca
Il massacro degli Anni 70 Fra il 1976 e il 1983, durante la dittatura militare, in Argentina scomparvero 40mila oppositori: i morti accertati sono 9mila, degli altri non si sa più nulla

Una tragedia greca consumata negli anni della dittatura militare argentina, con un padre capitano della Marina che non fa nulla per salvare i suoi due figli desaparecidos. Il genitore è Oscar Alfredo Castro, oggi agli arresti domiciliari, accusato di essere stato uno dei capi degli squadroni della morte a Bahia Blanca. Un ufficiale dedito anima e corpo a quella che veniva venduta come la lotta anti-sovversiva, fatta di sequestri, torture, esecuzioni sommarie e voli della morte. I suoi figli sono Alfredo e Luis, spariti nel 1977 quando avevano rispettivamente 22 e 19 anni.
All’epoca dei fatti Castro - che a distanza di trent’anni è ora sotto processo a Bahia Blanca - era separato da tempo dalla sua prima moglie, che viveva a Buenos Aires con i quattro figli della coppia. A Bahia Blanca, città che ospita il quartiere generale della Marina per il Sud del Paese, aveva formato un’altra famiglia, moglie e due gemelli appena nati. Casa e lavoro, pochissimi contatti con l’ex consorte. Quando scoppia il golpe, i due ragazzi studiano e fanno politica tra le fila del movimento peronista. Alfredo va all’Università, Luis è all’ultimo anno delle scuole superiori. Frequentano il gruppo scout di Villa Bosch, nella periferia sud della capitale argentina, coordinato da don Mario Bertone.
In due anni furono diciotto in totale i desaparecidos del gruppo. Alfredo e Luis vengono sequestrati a casa, sotto gli occhi della madre, che il giorno dopo si presenta di corsa a casa del fratello, il colonnello dell’esercito in pensione Ezequiel Montero. Lo zio si limita ad accompagnare la sorella a presentare la denuncia, ma poi non fa più nulla. La donna chiama allora l’ex marito, che pochi giorni dopo organizza una spedizione intimidatoria a casa di don Mario, il «prete comunista» che considera l’autore del lavaggio del cervello sui giovani. Alfredo e Luis passano sei mesi reclusi a Campo de Mayo, quartier generale dell’esercito. Vengono torturati in ogni modo, costretti a dormire in celle dove possono stare solo seduti, mangiando pane e acqua.
Nel frattempo, il capitano Castro si divide fra la scuola dei sottufficiali della Marina e la coordinazione degli squadroni della morte. Alla cerimonia di chiusura dell’anno 1976 pronuncia un appassionato discorso a favore della lotta contro i sovversivi. «Dovete essere pronti a dare la vostra vita per affermare i sacri principi che reggono da sempre la nostra Repubblica: la profonda fede in Dio, il rispetto delle istituzioni civili e militari e la sacralità della famiglia».
Alla vigilia di Natale i due ragazzi vengono miracolosamente liberati. Tornano a casa, ma sono vigilati costantemente. Il padre va a trovarli a Buenos Aires e li invita, anzi gli ordina, di andarsene dal paese. «Ve lo dico una sola volta, non tornerò mai più a chiedervelo». I ragazzi non ne vogliono sapere, riprendono gli studi, il più grande pensa di sposarsi a breve con la fidanzata Maria. Il 30 giugno 1977 i militari sfondano di nuovo la porta di casa. Con una scusa qualsiasi se li portano via. La madre si precipita a Bahia Bianca. Il padre, questa volta, è inflessibile. «Algo habran hecho, se li hanno presi è perché stavano facendo qualcosa di sbagliato». Marita lo implora, sa che questa volta potrebbe andare peggio. «La Marina non c’entra niente - gli spiega l’ex marito -. Buenos Aires è sotto la giurisdizione dell’Esercito. Abbiamo fatto un patto d’onore, non si può chiedere un prigioniero che sia in mano ad un’altra Forza Armata. Preparati ad aspettarli per molti anni ancora». Marita entra a far parte delle Madri di Piazza di Maggio. Alfredo e Luis non sono mai più tornati.

La Stampa 3.11.12
Tutto proibito nella Pechino del 18° Congresso
di Ilaria Maria


Le misure di sicurezza approntate per il XVIII Congresso del Partito Comunista, che aprirà l’8 novembre (e che ancora non si sa quanto durerà) sono numerose, e non mancano di fantasia. Per tre settimane a Pechino sarà proibito vendere coltelli da frutta, per il pane e a serramanico. Se si prende un taxi non è consentito aprire il finestrino, per evitare che i passeggeri lancino in strada volantini. Inoltre, il tassista può fare percorsi tortuosi per evitare i luoghi dove si incontrano i partecipanti al Congresso. Proibite anche le mongolfiere. E, per contrastare estemporanei gesti di protesta, sono proibiti anche i piccioni, quelli che i vecchi pechinesi trasportano nei parchi in gabbie di legno coperte da un telo, che poi scoprono per farli cantare. Illegali fino a prossimo avviso gli aeroplanini telecomandati, cancellati gli eventi pubblici sportivi, musicali o culturali, vistosa la presenza della polizia. Difficoltà online: Internet in questi giorni è molto lento in tutta la Cina, e servizi come gmail sono quasi inutilizzabili. Il termine Diciottesimo Congresso è censurato sul web, e tutti ricorrono al suo omonimo più vicino, in cinese: Sparta.

Corriere 3.11.12
Ecco i volti del futuro in Cina Ma sono tutti «prìncipi rossi»
La nuova generazione di leader ha un passato «pesante»
di Marco Del Corona


PECHINO — Il sangue blu della Cina è rosso. L'aristocrazia rivoluzionaria dei padri s'irradia sui figli, e nella contesa per gli assetti della Repubblica Popolare del prossimo decennio chi può spendere i suo quarti di nobiltà lo fa. Niente di nuovo. I cosiddetti «principini rossi» già abitano le stanze del potere ma l'approssimarsi del congresso del Partito comunista ridà slancio alle gomitate. Gli analisti cercano di indovinare i dosaggi nella composizione del comitato permanente del Politburo: quanti «principini rossi» e quanti invece i dirigenti formatisi nella Lega della Gioventù, i parvenu della politica cinese, che hanno nel segretario uscente Hu Jintao il loro campione. I figli dei padri nobili avranno il prossimo numero uno, Xi Jinping (suo padre Xi Zhongxun fu vicepremier) ma i due campi sono a loro volta attraversati dall'orientamento genericamente definito «riformista» e da quello «di sinistra». I nove membri del comitato permanente, il vero centro del potere in Cina, dovrebbero essere ridotti a sette, anche se non ne esiste alcuna certezza, e il toto-nomine si estende ai 12 posti di un altro organismo cruciale, la Commissione militare. Dentro e intorno alla quale, ovvero negli ambienti dell'Esercito popolare di liberazione, si muovono altri «principini».
A cinque giorni dall'inizio del congresso, circolano liste possibili di membri del comitato permanente. Una delle valutazioni condivise è che, salvo sorprese, né i «principini» né gli uomini della Lega e neppure la categoria trasversale dei protetti dell'ex leader Jiang Zemin siano così forti da colonizzare completamente la cupola del potere di Pechino. Lo stesso Xi Jinping, figlio d'arte, è l'esito di un compromesso. Il probabile primo ministro, l'ora vicepremier Li Keqiang, arriverà all'incarico da semplice uomo di Hu, mentre un altro vicepremier attuale, Wang Qishan, è genero di Yao Yilin, già vicepremier, uno di coloro che nell'89 sostennero la repressione armata sulla Tienanmen.
Nei sette, o nove, si ipotizza con sempre maggiore insistenza che possa entrare Yu Zhengsheng, potente segretario di Shanghai benché il fratello, direttore di un dipartimento del ministero della Sicurezza dello Stato, fosse scappato negli Usa nel 1985: sotto l'ala di Jiang, ha origini di prestigio, con un padre segretario del Partito a Tianjin, Huang Jing (vero nome Yu Qiwei: ex fidanzato di Jiang Qing, ultima moglie di Mao), e con una madre, Fan Jin, che fu vicesindaco di Pechino; e anche il suocero fu un alto dirigente. Paiono rarefarsi invece le chance per Liu Yandong, figlia di un viceministro ma con un passato nella Lega, di entrare nel comitato permanente, tuttavia resterà tra i 25 membri del Politburo.
L'incertezza continua a sobbollire a ridosso di un congresso di cui si sa la data d'inizio ma non ancora quella di chiusura (si suppone il 14 o 15). E se la gamma delle possibilità si sta rivelando così ampia è per la caduta del principino rosso che si era ritagliato il ruolo di outsider: la fine di Bo Xilai, espulso dal Partito e in attesa di un processo per corruzione e (molto) altro, ha sparigliato i giochi, acceso appetiti, reso più imprevedibili le mosse della «sinistra» che si riconosce(va) nel populismo neomaoista dell'ex segretario del Partito a Chongqing. Bo manteneva ottimi rapporti con diversi alti esponenti dell'Esercito popolare di liberazione. I nuovi equilibri toccano dunque anche i generali, alcuni dei quali coinvolti in un recente cambio al vertice, ma occorre attendere il congresso per capire quanto i principini in armi avranno da dire. Il più carismatico dei militari è il figlio del presidente della Repubblica Popolare che la Rivoluzione culturale spazzò via nel 1969, Liu Shaoqi: il generale Liu Yuan aveva grandi aspettative, ora chissà; Zhang Haiyang, il cui padre fu vicepresidente della Commissione militare, potrebbe scontare i legami con Bo; mentre Wu Shengli, figlio di un vicegovernatore dello Zhejiang (Wu Xian), aspira alla vicepresidenza della Commissione militare o al posto di ministro della Difesa. Loro lo sanno: non c'è niente di meglio che un congresso del Partito comunista cinese per ripassare l'arte della guerra.

Corriere 3.11.12
L’etica della Cina comunista, repubblica sempre meno popolare
Risponde Sergio Romano


Non condivido la sua risposta a proposito degli Stati etici. Allora secondo lei lo era anche la Cina di Mao e lo è pure la Cina di oggi? A me sembra che nella storia del popolo cinese la parola «etica» non sia ancora entrata!
Mauro Gatti

Caro Gatti,
A nche la Repubblica popolare, come ogni Stato comunista, aveva ideali e valori morali: la fede nel suo radioso futuro, la sottomissione di ogni cittadino alla guida del partito e agli interessi collettivi della società. In un libro pubblicato nel 1966, dopo un viaggio in Cina (Cara Cina ed. Longanesi), Goffredo Parise raccontò di avere chiesto al suo interprete se fosse membro del partito e di averne ricevuto questa risposta: «Magari! Ho fatto domanda due anni fa ma in Cina non è così facile come in Italia entrare nel partito, bisogna esserne veramente degni. Bisogna essere bravi, buoni, lavorare bene, meglio e più degli altri, sacrificarsi per gli altri, per il bene comune e per l'edificazione socialista del nostro Paese». Aggiunse che la fede si ottiene leggendo le opere del presidente Mao Tse-tung e che «senza fede e conoscenza delle opere del presidente Mao non solo non si arriva a nulla, ma si scivola inesorabilmente verso il concetto borghese della vita e della società».
Come vede, caro Gatti, lo stile di vita e gli esercizi quotidiani di un candidato al partito comunista cinese, negli anni Sessanta, erano quelli di un seminarista che attende trepidamente il giorno della consacrazione e sogna di dedicare la sua vita sacerdotale all'avvento della profezia socialista. La rivoluzione culturale, di lì a poco, fu una guerra di religione, sferrata contro l'apparato imborghesito del partito da una massa di monaci divorati dalla rabbia e dalla fede. Senza questa fede religiosa non sarebbe stato possibile, per esempio, imporre la regola del figlio unico o trascinare le masse verso traguardi impossibili come quelli del «grande balzo in avanti» e di «una acciaieria in ogni villaggio».
Ho usato l'imperfetto, a proposito dei valori morali della società cinese, perché la situazione negli ultimi decenni è alquanto cambiata. Il Paese è ancora formalmente comunista e il partito non tollera deviazioni verso altre fedi che possano mettere in discussione la sua autorità. Ma le riforme di Deng Xiaoping hanno avuto per effetto, insieme a uno straordinario sviluppo economico, un livello di corruzione che è salito sino a contagiare il partito e le sue alte sfere. Conosciamo il caso di Bo Xilai, capo della provincia di Chongqing, e della moglie, Gu Kailai, condannata a morte (la sentenza è stata sospesa) per l'uccisione di un uomo d'affari britannico. Sappiamo che le cerchie familiari dei maggiori leader si sono prodigiosamente arricchite e che i figli possono permettersi di completare gli studi nelle più costose università americane. Ha fatto molto rumore negli scorsi giorni la notizia di un incidente automobilistico che ha provocato la morte di due persone. La macchina era una Ferrari, il giovane che la guidava, Ling Gu, era il figlio di uno dei più fidati consiglieri del presidente Hu Jintao. Più recentemente le autorità cinesi hanno rabbiosamente smentito una inchiesta del New York Times sulle fortune accumulate dalla famiglia del premier Wen Jiabao: una somma che ammonterebbe a due miliardi e settecento milioni di dollari. Qualche mese fa, in giugno, l'agenzia Bloomberg aveva fatto una analoga inchiesta sulla fortuna della famiglia di Xi Jinping, l'uomo che nei prossimi giorni, in occasione del Congresso del partito, dovrebbe diventarne segretario, assumere la presidenza della Commissione militare ed essere in tal modo il numero uno della Repubblica popolare. Ma la Cina può ancora definirsi «popolare»?

Corriere 3.11.12
Quei segnali di fumo da Pechino, un aiuto a superare la crisi siriana
di Franco Venturini

La grande diplomazia internazionale sembra aver avuto un sussulto davanti all'inesorabile procedere della mattanza siriana. Nell'arco di poche ore, tra ieri e ieri l'altro, ha preso corpo una possibilista posizione cinese e quella americana ha subìto un non irrilevante cambiamento.
La Cina ha proposto un piano in tre tappe: un cessate il fuoco progressivo, regione per regione; la creazione di una autorità centrale transitoria; la moltiplicazione degli sforzi umanitari. Mentre il terzo punto trova tutti d'accordo, i primi due necessitano di verifiche e chiarimenti. Non è detto che tregue regionali possano aver più successo di quella proposta dall'Onu e appena fallita. Non viene precisato se la «transizione» avrebbe luogo con o senza Assad, e se il Presidente dovrebbe eventualmente lasciare il suo posto prima del periodo transitorio (come chiedono gli occidentali e gli arabi sunniti) oppure dopo (come hanno ventilato Mosca e Pechino). Ma, per quante incognite permangano, la mossa cinese segnala che, alla vigilia del cambio della guardia nel Pcc, Pechino è stanca di inimicarsi sul dossier siriano non solo l'Occidente ma anche gran parte del mondo arabo. Mosca comincia a pensarla allo stesso modo? L'ipotesi va esplorata rapidamente, e nel caso di risposta affermativa va trovata una intesa sulla questione del «prima» e del «dopo» (tra l'altro in questa indagine l'Italia può svolgere un ruolo significativo).
In campo americano, poi, si potrebbe dire che Hillary Clinton ha scoperto l'acqua calda. Il Consiglio nazionale siriano — ha detto con durezza la Segretaria di Stato — resta inguaribilmente diviso al suo interno ed essendo composto da esponenti spesso vissuti in esilio non è rappresentativo di quanto accade in Siria, dove a combattere contro Assad è l'Esercito libero formato da disertori (purtroppo infiltrati da jihadisti e qaedisti vari). Si tratta di una presa di coscienza tardiva ma benvenuta, che dovrebbe facilitare un approccio occidentale più realistico alla tragedia siriana.
Un segnale di fumo da Pechino (e forse anche da Mosca), e una giusta correzione di rotta a Washington. Meglio della paralisi. Ma per convincere Assad e i suoi nemici a deporre le armi forse è troppo poco e troppo tardi.

La Stampa 3.11.12
Medicina tra scienza e business
Multinazionali contro l’India la guerra dei farmaci poveri
Due processi a New Delhi segneranno il destino dei generici a basso costo Per milioni di malati di Aids nel Terzo Mondo è una questione di vita o di morte
di Alessio Schiesari


La lotta contro l’Aids cammina su gambe scheletriche come quelle di Thembisile Ferguson, un sudafricano 40enne che ha scoperto di essere sieropositivo nel 1999. Da allora, periodicamente, la malattia gli succhia via la vita, lasciandogli solo la pelle scura, il metro e ottanta di altezza e 35 chili di ossa. La prima volta è successo dodici anni fa, prima che iniziasse a prendere i farmaci anti-retrovirali. Doveva pagarseli di tasca sua perché il governo sudafricano non poteva permettersi di curare i 4,1 milioni di malati di Aids del Paese. Quando i pochi risparmi finirono, si rivolse alla clinica Ubuntu di Khayelitsha, un piccolo centro finanziato da Medici senza frontiere.
Era il 2000, e al tempo curare un malato costava 10mila dollari l’anno, perché bisognava pagare le royalty a chi i farmaci li aveva inventati e brevettati. Per questa ragione sono iniziate le prime campagne di Medici senza frontiere e del Tas, il movimento per l’accesso ai farmaci. Sotto la spinta dell’opinione pubblica, nel 2003, il Sudafrica ha modificato la legge sui brevetti per arginare la pandemia di Aids. La nuova legge ha portato la soluzione. Dall’India sono arrivate navi piene di anti-retrovirali generici che, invece di 10mila dollari l’anno, ne costavano appena 120. Thembisile, e con lui tanti altri, ha potuto cominciare a curarsi negli ospedali pubblici. Secondo i dati di Msf, la concorrenza dei generici a basso costo prodotti in India ha reso possibili le cure per 8 milioni di sieropositivi in tutto il mondo. Anche oggi, il 91 per cento dei bambini affetti da Hiv e l’80 per cento dei malati si cura con generici indiani.
Thembisile non lo sa, ma la sua battaglia si combatte anche nelle aule di un tribunale lontano 10mila chilometri, quello di Nuova Delhi, dove si stanno svolgendo due processi che potrebbero avere enormi ricadute sulle possibilità di accesso ai farmaci. Dai camici bianchi alle toghe scure dei magistrati, perché la fortuna dell’industria farmaceutica indiana nasce da una legge: il Patent act del 1970, la legislazione sui brevetti che non riconosceva alcuna royalty alle case farmaceutiche. Per 35 anni l’industria indiana ha replicato, in forma generica, i farmaci creati in Occidente e li ha rivenduti nel Sud del mondo, contribuendo a fare crollare il prezzo di molte medicine del 99 per cento.
Dal 2005 però, come previsto dagli accordi per l’entrata nel Wto, il Patent Act è stato modificato per conciliare il diritto alla salute e quello sulla proprietà intellettuale. Da allora, Nuova Delhi ha concesso 3.488 brevetti in cinque anni. La legge, benché riformulata, mantiene due restrizioni importanti: anzitutto permette di brevettare solo le «vere innovazioni mediche», e non vecchie formulazioni per cui siano stati trovati nuovi modi d’utilizzo. L’altra condizione disciplina i brevetti forzosi, ovvero una clausola con cui lo Stato si riserva il diritto di consentire la produzione di un farmaco a un’azienda diversa da quella detentrice del brevetto se le esigenze sanitarie nazionali lo richiedono. Ad esempio, quando il prezzo di un medicinale è considerato «esorbitante».
Queste clausole sono al centro dei processi di Nuova Delhi, in cui sono impegnati due colossi farmaceutici europei: Novartis e Bayer. La svizzera Novartis contesta la sezione 3d, quella contro l’«evergreening», l’estensione di un brevetto ottenuta grazie a una leggera modificazione del principio attivo. Una pratica considerata da Msf «abusiva» ma assai diffusa, che permette di mantenere artificialmente alti i prezzi bloccando la concorrenza dei generici. Il processo, iniziato nel 2006, riguarda il Glivec, un farmaco antitumorale usato nella cura del leucoma che - secondo l’Ufficio brevetti indiano – sarebbe una semplice riformulazione in forma salina dell’imatinib, una medicina il cui brevetto è già scaduto.
«Con questa tecnica le multinazionali tentano di ribrevettare le stesse medicine per estendere la durata dei brevetti, portandola dai vent’anni concessi dai trattati internazionali fino anche a quaranta o cinquant’anni», spiega Catherine Tomlinson, capo ricercatrice di Tas, l’Ong sudafricana che si occupa di accesso ai farmaci. La causa di Bayer riguarda invece il Nexavar, un farmaco contro il cancro ai reni e al fegato brevettato nel 2008. Nel marzo scorso però, l’ufficio brevetti ha decretato che lo stesso farmaco fosse prodotto anche in forma generica dalla Natco, con la sola clausola di destinare il 6 per cento dei ricavi alla casa tedesca. È stata la prima applicazione indiana del brevetto forzoso e ha permesso di fare crollare il prezzo del 97 per cento. La brevettazione forzosa è prevista non solo nel Patent act indiano, ma anche nella dichiarazione di Doha che integra gli accordi Trips, quelli stipulati in seno al Wto che hanno spinto l’India a riformare la legislazione sui farmaci. Pochi Paesi, però, fino a oggi hanno deciso di applicarla. E nessuno sugli ultimi ritrovati della lotta all’Aids.
Per capire cosa questo significhi occorre tornare in Sudafrica. Nel febbraio scorso, Thembisile Ferguson è ricomparso alla clinica di Ubuntu. La prima generazione di anti-retrovirali, quella che Msf e Tas sono riusciti a importare in versione generica in Sudafrica, sul suo corpo non ha più alcun effetto. La terza generazione di farmaci però costa molto, circa 4mila dollari l’anno, oltre la metà del reddito di un sudafricano.
Come 12 anni fa avveniva con i primi anti-retrovirali, oggi il sistema sanitario nazionale non può permettersi la terza generazione di cure perché non esistono versioni generiche di questi farmaci. Sono infatti sotto brevetto sia dove si potrebbero produrre - come in India - che dove si potrebbero esportare, come in Sudafrica. Entro la fine di quest’anno, nel mondo, 500mila malati avranno bisogno di cure più avanzate. E le cliniche di Msf non possono permettersi farmaci per tutti. «Una soluzione potrebbe essere la brevettazione forzosa, per questo è così importante capire cosa accadrà con la causa della Bayer in India», spiega Catherine Tomlinson. Dal destino del discount indiano, dipende la possibilità di cura per Thembisile e milioni di altri ammalati nel resto del mondo.

La Stampa 3.11.12
Justin, malato di Aids a Kinshasa
«Io sono vivo grazie alle pillole pirata Al diavolo i brevetti, la vita viene prima»
di Gia. Gal.


Justin si definisce un «miracolato». E in effetti la sua vicenda appare emblematica di un Terzo Mondo nel quale le cure «autorizzate» restano una terra promessa per la maggior parte della popolazione. Da quando 12 anni fa a Kinshasa, nella repubblica democratica del Congo, gli è stato diagnosticato l’Aids, Justin, oggi quarantenne, si è sempre curato con il «cocktail-pirata» di quei farmaci «generici» che le multinazionali dei brevetti sanitari stanno cercando di mettere al bando. «Non deve essere il mercato a decidere chi vive e chi muore», protesta, consapevole che senza le cure gratis garantite da una ong il decorso della sua malattia gli sarebbe già stato fatale.
«I brevetti sui farmaci aggravano l’enorme squilibrio sanitario tra Paesi ricchi e poveri e sono una delle più grandi ingiustizie del mondo attuale», testimonia Justin, denunciando l’eccesso di tutele dei diritti di proprietà intellettuale. «Senza medicine gratis sarei già morto», ribadisce, puntando l’indice contro il mancato accesso ai farmaci per un miliardo di persone come lui. «È la più grave violazione del diritto alla salute», insiste.
Justin non si è rassegnato e ha bussato alle porte di enti benefici internazionali che operano in Congo. A salvarlo sono stati i farmaci «equivalenti» messi a disposizione gratuitamente da un ente no-profit. In Paesi nei quali l’accesso al sistema sanitario è pressoché inesistente, evidenzia Justin, «le multinazionali hanno potere di vita e di morte», perciò la «cura pirata» è stata per lui l’unica e obbligata via per sottrarsi a un rapido decorso letale della malattia.

Corriere 3.11.12
Le tecniche per vedere i sentimenti
di Massimo Piattelli Palmarini


Le raffinate tecniche oggi disponibili per visualizzare le attivazioni cerebrali non cessano di darci sorprese. L'ultima di queste è l'attivazione di un'area nota per essere associata al dolore, psichico o fisico, quando un soggetto si accinge (si noti bene solo si accinge) a svolgere un compito matematico e entra in uno stato di ansia. Quando poi attivamente svolge quel compito matematico, quell'area si zittisce. In anni recenti, proprio quest'area, chiamata insula posteriore, è stata vista attivarsi anche quando un soggetto riceve un'offerta monetaria ritenuta non equa. Infatti, l'insula è anche associata al disgusto, morale o materiale, come cattivi odori, cibo marcio e simili. Stanislas Dehaene e collaboratori (al Collège de France a Parigi) hanno visto attivarsi una regione chiamata giro fusiforme, quando un soggetto effettivamente esamina una formuletta matematica, del tipo (12 x 4) – 19. Stando alla nuova ricerca appena pubblicata, nel cervello di coloro che hanno una speciale angoscia per la matematica, prima di effettuare il calcolo, si accende l'insula posteriore. Altri ricercatori, tra i quali il Premio Nobel per l'economia Daniel Kahneman, avevano visto attivarsi altre aree connesse al dolore, in particolare l'amigdala sinistra, quando un soggetto anticipa di subire, in un gioco di scommesse e lotterie, una perdita finanziaria anche modesta, anche solo di un paio di dollari. Da tutto questo si conclude qualcosa di importante, cioè che aree cerebrali attivate in noi da qualcosa di fisico, piacere o dolore, sono anche in noi attivate dal solo pensiero, dall'aspettativa, di qualcosa di spiacevole o, all'opposto, piacevole. Siamo, in fondo, sia animali biologici che animali simbolici. Lo sapevamo, ma è interessante averne una conferma così diretta.

il Fatto 3.11.12
Epistolario
“Quell’instabile di Eugenio”
Pannunzio scrive di Scalfari: “Non ha vere affinità con nessuno, vuole solo arrivare”
di Silvia Truzzi

  
La sola storia possibile è quella che si ricostruisce da dentro, attraverso la memoria di sé”. La sera andavamo in via Veneto: tra Mario Pannunzio, Franco Libonati, Sandro De Feo, Ercole Patti, Moravia e Paolo Pavolini, il convitato di pietra era Marcel Proust. Poi c’era lui, Eugenio Scalfari, che di questo libro datato 1986 è proprio Swann, io narrante di un’età dell’oro che comincia alla fine degli anni Quaranta. Qualcuno ha notato che curiosamente il memoir scalfariano – il lavoro più famoso, assieme a Razza padrona – manca nella poderosa opera omnia, uscita a settembre per i prestigiosi Meridiani Mondadori. Frugando tra le pagine leggere leggere – a sfogliarle c’è sempre il timore di romperle – ci s’imbatte in una nota dell’editore che spiega come, nel Meridiano, si è proceduto per sottrazione: risultano, nel testo definitivo, “dolorose esclusioni”. Tra cui La sera andavamo in via Veneto, di cui però il lettore troverà “ampli stralci nel Racconto autobiografico” che precede la selezione dei testi. Ampi, ma non esaustivi. Per esempio al rapporto con Mario Pannunzio, intellettuale liberale e fondatore del Mondo, Scalfari dedica nel Meridiano poche righe, peraltro in condominio: “Pannunzio e Arrigo Benedetti furono i miei maestri. A entrambi debbo moltissimo. Con entrambi e in modi diversi ebbi una rottura forte, come avviene tra padri e figli. A tanti anni di distanza ne porto ancora nel cuore l'insegnamento e la memoria”.
Amici, nemici, politica: il carteggio  tra il fondatore del Mondo e Valiani
Di quella rottura si trova invece traccia in un epistolario tra Pannunzio e Leo Valiani che in questi giorni l’editore Aragno dà alle stampe: 17 anni di lettere che s’intitolano “Democrazia laica”. Dentro: la politica, motore per nulla immobile di tutto, gli amici (e i nemici) che attorno al giornale gravitavano, discutevano, (si) dibattevano, fondavano il Partito radicale, organizzavano furiose sessioni di lavoro (i famosi Convegni dell'Eliseo). In due missive, entrambe dei primi anni Sessanta, Pannunzio racconta la sua frattura con Scalfari a Valiani (azionista, padre costituente, collaboratore del Mondo e de L’Espresso). I giudizi sono definitivi, le conclusioni sofferte: “Instabile, femmineo, esuberante. Non ha veri legami o affinità ideali e morali con nessuno. Tutto è strumentale, utilitario; tutto deve servire alla sua splendida carriera. Ma ha sempre avuto la sensazione di perdere tempo stando con noi”. E poi: “Un pasticcione e libertino, politico, economico, che nel campo della sinistra democratica ha portato i sistemi scarfoglieschi e angiolilliani”. Pannunzio ce l’aveva, e parecchio, con Renato Angiolillo. Il suo Taccuino in risposta alla provocazione del Tempo contro la “malapianta azionista” e i visi pallidi acidi, moralisti, calvinisti, è ancora oggi celebre. È l'invettiva contro i “visi rosei”, qualunquisti, indifferenti, pronti a commuoversi se la nazionale di calcio perde, pieni di una comprensione che si scioglie di fronte “a un piatto di spaghetti alle vongole”. Voilà, il battesimo degli “italiani alle vongole”: espressione carissima al fondatore di Repubblica, che in La sera andavamoinviaVeneto dedica invece molte pagine al discepolato contrastato e all'ultimo strappo con il padre-maestro. Gli anni Sessanta albeggiano e gli screzi tra il Mondo e il partito radicale, che tante firme del giornale avevano contribuito a far nascere, cominciano a diventare scontri: sulla politica estera e su quella interna, soprattutto in merito ai rapporti con quel Psi che Scalfari avrebbe poi sposato, diventando deputato nel 1968. Poi scoppia il caso Piccardi (Leopoldo, soprannominato dagli amici del Mondo “Papiniano” per le sembianze solenni). Renzo De Felice scrive che Piccardi aveva preso parte a un convegno sulla razza, organizzato nel ‘38 in Germania: boom.
Un “fiammifero nel pagliaio”: Il caso Piccardi e la fine del Mondo
Nell'autunno del '61, la rivelazione diventa casus belli e scatena una tempesta all'interno del Partito radicale (di cui Scalfari è vicesegretario): i rapporti tra Eugenio e Mario vanno in frantumi. “La rottura del '62 non coinvolse soltanto il nostro piccolo partito (...). Mise fine all'amicizia tra Pannunzio e me, o meglio al rapporto padre-figlio che tra noi era cominciato in un pomeriggio del settembre '49, ed era cresciuto rapidamente fino a diventare – almeno per me – uno degli elementi essenziali della mia vita intellettuale e politica. Nel cupio dissolvi che lo prese (...) ritenne fermamente che, una volta distrutta quella che in gran parte era stata l’opera sua, nessuno avrebbe potuto proseguirla (...). Dopo la rottura – così credo che pensasse – non ci sarebbe potuto esser altro che una recherche del passato, la memoria volontaria e involontaria celebrate da Proust, via della Colonna Antonina e il caffè Rosati come il cortile di palazzo Guermantes in Faubourg Saint- Honoré”. E fu la fine del Mondo, nella versione di Scalfari: “Mario troncò consapevolmente tutte queste cose e tutti questi rapporti il giorno in cui s’accorse che ciascuno di essi si stava affrancando dal complesso del padre nei suoi confronti. Forse capì che i figli non sarebbero stati in grado di liberarsi di lui”. La metafora del padre mutuata dalla psicanalisi – una teoria che per un secolo ha fatto incalcolabili danni spacciandosi per scienza – è una via d’uscita come tante, forse la più semplice. “La memoria di sé, assunta come fatto centrale dell'esistenza e della sensibilità, crea un problema d'importanza enorme che Proust solleva quasi senza accorgersene (...). L'immagine che io ho di me stesso, l'immagine che ho degli altri che mi circondano, l'immagine che suppongo che gli altri abbiano di me, l'immagine di sé che gli altri pensano che io abbia di loro. Basta che vi sia, in uno qualunque di questi specchi, un piccolo mutamento dovuto a un fatto, una parola, un ricordo, che subito quel mutamento si dipana su tutta la galleria degli specchi”. Così è lo stesso Scalfari, scomodando la Recherche (sempre in La sera andavamo in via Veneto), a illuminare la prospettiva della “madeleine bifronte”: si può essere discepoli di Pannunzio e insieme “reprobi” votati solo alla propria, “splendida”, carriera. E in qualche modo risponde anche a Roberto D’Agostino che qualche settimana fa – riportando sul suo sito un editoriale domenicale (“Io sono liberale di sinistra per formazione culturale. Ho votato per molti anni per il partito di Ugo La Malfa. Poi ho votato il Pci di Berlinguer, il Pds, i Ds e il Pd”) – si domandava come mai Scalfari avesse dimenticato il Psi che l’aveva mandato, seppur da indipendente, in Parlamento. Colpa di Proust.

Democrazia laica, Mario Pannunzio, Leo Valiani a cura di Massimo Teodori; Aragno (2 volumi, 30 euro)

Repubblica 3.11.12
La nostra filosofia del conflitto
Un saggio analizza uno dei temi principali del pensiero italiano
di Roberto Esposito


In tempo di globalizzazione cavalcante si potrebbe immaginare che anche la filosofia abbia perso qualsiasi tratto nazionale, per omologarsi a temi e linguaggi generali. In realtà, come avviene nel campo manifattura o della cucina, è proprio la contaminazione globale a rigenerare le tradizioni nazionali. Resta da spiegarsi l’attenzione più volte segnalata nei confronti del pensiero italiano. Una risposta convincente è adesso fornita nel volume di Dario Gentili, edito da il Mulino con il titolo Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica.
La sua tesi, condotta attraverso un’accurata genealogia del pensiero italiano contemporaneo, è che a metterlo in sintonia con il nostro tempo è la categoria di crisi, intesa nel suo doppio significato etimologico di divisione e di decisione. In una stagione dominata dal fantasma della crisi, non può sorprendere questa ripresa d’interesse per una filosofia che sembra letteralmente generata da situazioni critiche. Non solo, ma che vede nella crisi, più che un fenomeno di carattere economico, l’esito di determinate opzioni politiche. E’ questa interpretazione politica della crisi a fare del pensiero italiano un punto di riferimento privilegiato per cogliere il significato d’insieme della tempesta che oggi minaccia di travolgere, oltre che le finanze, la stessa possibilità di vita delle nostre società.
Estranea ad una matura teoria dello Stato, la filosofia italiana ha sempre pensato la politica come contrasto tra parti contrapposte in lotta per l’egemonia. Ma il passaggio cruciale avviene negli anni Sessanta e Settanta, quando la crisi della dialettica diventa l’oggetto centrale della teoria, cosiddetta “operaista”, che, in forme diverse, da parte di autori come Tronti, Asor Rosa, Cacciari, Negri, rompe con la tradizione storicistica per affermare il primato della parte sul tutto – vale a dire della classe operaia sul capitale. Riviste di quegli anni quali Quaderni rossi, Classe operaia e Contropiano definiscono i contorni di un soggetto non più costruito sul modello universalistico del “popolo” gramsciano, ma espressione di una divisione che taglia l’intero corpo sociale. Il presupposto di tale prospettiva è che le crisi economiche, tutt’altro che eventi neutrali di natura oggettiva, siano prodotte dal capitale stesso per svilupparsi. E che dunque non siano superabili con strumenti puramente tecnici. L’uscita dalla crisi è sempre, in ultima analisi, di tipo politico. Vale a dire orientata a favore degli uni contro altri, in base ai rapporti di forza che di volta in volta si determinano.
Mentre la filosofia anglosassone elabora modelli normativi, quella tedesca si esercita in pratiche ermeneutiche e quella francese si concentra sul rapporto tra parola e scrittura, il pensiero italiano lavora sul nesso, intensamente politico, tra conflitto e crisi. E’ questo il nodo teoretico che, pur con una serie di differenze interne, riconosciute e anzi valorizzate da Gentili, lega autori diversi come de Giovanni e Marramao, Bodei e Virno, Muraro e Cavarero. Se si eccettua il “pensiero debole” di Vattimo e Rovatti – ancora inscrivibile nell’orizzonte postmoderno, oggi riletto in chiave critica da Ferraris – l’intero quadrante della filosofia italiana ruota intorno alla questione del “politico”, come luogo di costituzione e di dislocazione della differenza. Quando il pensiero femminista rivendica la necessità, per la donna, di “partire da sé”, elaborando un proprio ordine simbolico, riproduce, su un altro piano, quanto gli operaisti avevano visto nel rapporto antagonistico tra Operai e capitale, come titolava il libro di Tronti.
E’ su questo passaggio che s’innesta la seconda ondata di pensiero che ha fatto da traino, sul piano internazionale, all’elaborazione dei filosofi italiani. Si tratta di quella concezione biopolitica che sposta radicalmente l’ordine del discorso operaista, situando il luogo del conflitto nella stessa categoria di vita. Come è noto, tale svolta, insieme teoretica e politica, prende le mosse dai corsi tenuti da Michel Foucault negli anni Settanta. Ma, rispetto ad essi, apre un cantiere di pensiero largamente originale. La biopolitica italiana – nelle sue varie declinazioni – da un lato presuppone il concetto di crisi, nel senso che elabora paradigmi binari come quelli di bios e zoe, di impero e moltitudine, di communitas e immunitas; dall’altro lo oltrepassa nella misura in cui la focalizzazione sul paradigma di vita biologica assegna al conflitto una portata più ampia e complessa dello scontro economico o politico. Intanto, differentemente dalla tradizione operaista – giunta da tempo al capolinea, anche per la disgregazione delle classi –, gli interpreti italiani della biopolitica hanno allargato il loro orizzonte al mondo globalizzato. Ma soprattutto si sono lasciati alle spalle quell’idea di “parte” che vincolava la vecchia sinistra ad una visione dicotomica della realtà. Ciò non vuol dire che il conflitto sia superato – verrebbe meno, con esso, la stessa possibilità della politica. Ma esso è integrato dentro un quadro più ampio in cui il paradigma di crisi va ripensato insieme a quello di governo della complessità. La parte, insomma, non è più ciò che confligge con l’altra per il dominio del tutto, ma il punto di vista dal quale il tutto assume una diversa configurazione, chiamando ad un impegno comune tutte le componenti della società.