domenica 4 novembre 2012

Corriere 4.11.12
Camusso: il governo abbia coraggio, un decreto per la rappresentanza
«Fiat ritiri i 19 licenziamenti e riprenda il confronto anche con Fiom»
di Susanna Camusso


Caro direttore,
vorrei tornare, a partire dalle scelte che la Fiat ha annunciato di voler compiere in risposta a una sentenza della magistratura, su alcuni temi che ritengo fondanti per la nostra democrazia e, più modestamente, per le relazioni industriali italiane.
Il contenzioso che l'azienda torinese ha sprezzantemente aperto, infatti, travalica lo specifico della vicenda sindacale in questione che brevemente riassumo. La Fiat è stata condannata da un giudice per aver discriminato un gruppo di lavoratori in base all'appartenenza sindacale. In pratica, dice la magistratura, in questi mesi l'azienda ha escluso dall'assunzione alcuni lavoratori perché iscritti alla Fiom-CGIL e l'ha fatto con precisione millimetrica, al punto che neppure uno di loro è stato selezionato proprio perché si erano liberamente iscritti a un'organizzazione che, altrettanto liberamente, non ha condiviso e quindi non ha firmato un accordo sindacale.
È importante partire da quanto accaduto, dalla discriminazione compiuta, dalla negazione dei diritti di cittadinanza dei lavoratori e delle libertà di espressione del pensiero sindacale e politico nel posto di lavoro. Da lì bisogna partire perché quello dei diritti è un tema fondante la nostra democrazia. Ed è un tema fondante dei sindacati confederali che per lunghi anni hanno combattuto questa e altre discriminazioni — da quelle di genere a quelle religiose o etniche — che nel corso del tempo si sono più volte manifestate sui luoghi di lavoro. L'hanno fatto insieme ai lavoratori che si sono messi in gioco in prima persona, pagando prezzi anche altissimi per conquistare e difendere diritti e doveri nei luoghi di lavoro e leggi che ne tutelassero l'esercizio. E a volte il ricorso alla magistratura, ai tribunali si è rivelato indispensabile per chiedere il rispetto di quelle stesse leggi e degli accordi pattuiti, oppure per determinare le regole contrattuali da applicare. C'è chi sostiene, legittimamente e in parte a ragione, che il ricorso al giudice sia una sconfitta per le relazioni sindacali e c'è chi afferma, in un parallelismo inquietante con quanto accade nel campo della politica, che l'intervento dell'organo giurisdizionale sia di per sé sbagliato non solo perché i magistrati sarebbero di parte, ma perché lo Stato, la magistratura non dovrebbe mai intromettersi nelle ricadute di scelte aziendali dettate esclusivamente da un mercato infallibile e giusto e quindi anch'esse inoppugnabili. Sono tesi contraddittorie e sbagliate che omettono in modo interessato i generosi aiuti accordati in passato, che coprono le pressanti richieste avanzate anche recentemente, o che nascondono, lasciatemelo dire, un antico desiderio padronale di comprimere reddito e diritti dei lavoratori.
Di fronte alla discriminazione, alla negazione di diritti, alla soppressione dell'agibilità politica e negoziale un sindacato ha il dovere di lottare e di chiedere alla magistratura il rispetto delle leggi. Ha il dovere di difendere non solo le conquiste ottenute con il sacrificio di tanti, ma la democrazia stessa così come regolata dalla nostra Costituzione e dalle leggi democraticamente votate dal nostro Parlamento.
Una simile discussione sarebbe impensabile in altri Paesi. Non la immagino negli Stati Uniti dove, sono certa, la Corte suprema non avrebbe dubbi a sanzionare l'azienda se dei lavoratori ricorressero contro Chrysler perché non assume lavoratori neri o musulmani o aderenti a qualche associazione di categoria.
Per questo la ritorsione che la Fiat ha deciso di attuare contrapponendo 19 lavoratori discriminati a 19 da discriminare è intollerabile. Intollerabile per il messaggio punitivo, retrogrado e vendicativo nei confronti dei 38 lavoratori e dei loro compagni. Intollerabile per il segnale che vuole dare di noncuranza delle regole e delle leggi e di sprezzo nei confronti dei poteri dello Stato e delle istituzioni.
Bisogna quindi eliminare dal campo la ritorsione. Bisogna rispettare la magistratura e le sue sentenze. Bisogna rimuovere la discriminazione senza determinarne altre. Questo è essenziale.
Fiat nei giorni scorsi ha ammesso l'errore di Fabbrica Italia. Abbiamo sentito dai suoi portavoce anche toni distensivi. Si esclude la chiusura di altre unità produttive nel nostro Paese (oltre alle tre già chiuse e tuttora senza soluzione) che lo stesso amministratore delegato aveva ventilato in un'intervista. Si parla di nuovi modelli e si prospettano missioni per alcuni stabilimenti. Certo, siamo ancora ben lontani da un vero e proprio piano che dovrebbe programmare e indicare date, investimenti, modelli e volumi, e potrebbe essere un segnale di non disimpegno della Fiat nel nostro Paese. Un segnale che, purtroppo, viene immediatamente e violentemente contraddetto dalla ritorsione di Pomigliano.
Anche il ministro del Lavoro con un comunicato importante ha chiesto all'azienda di fermare la ritorsione e ha segnalato la necessità di tornare ad avere normali relazioni sindacali.
Una simile scelta consentirebbe non solo di affrontare positivamente, con i contratti di solidarietà, le difficolta che il naufragio di Fabbrica Italia ha aperto nel rapporto tra produzione e organici nello stabilimento di Pomigliano, dove l'accordo separato prevedeva il reingresso di tutti i lavoratori, ma anche i nodi della lunghissima vertenza Fiat: il piano industriale, l'accordo aziendale, il riconoscimento della rappresentanza sindacale e il contratto di lavoro unico per i lavoratori metalmeccanici.
Come dare concretezza a questo percorso possibile? Una strada c'è: quella indicata dall'accordo interconfederale del 28 giugno scorso in cui s'individua nel contratto nazionale di categoria la fonte primaria di regolazione della contrattazione e per quanto riguarda gli accordi aziendali la firma a maggioranza da parte di Rsu liberamente e proporzionalmente elette, l'impegno di tutti al loro rispetto e la certezza della rappresentanza per le organizzazioni che ottengono almeno il 5 per cento tra iscritti certificati e voti ottenuti.
Se si adottasse responsabilmente questa strada, i dipendenti Fiat tornerebbero a essere lavoratori metalmeccanici e non più figli di un contratto aziendale costruito a misura dell'azienda; sarebbero superati tutti gli elementi di dubbia costituzionalità oggi presenti; sarebbe negato quello stile di comando forzoso e autoritario che impedisce ai lavoratori di esprimere i loro saperi e le loro competenze a vantaggio, in primo luogo, dell'azienda stessa; si tornerebbe a riconoscere diritti fondamentali e insopprimibili quali la libertà di pensiero e di associazione. Si tornerebbe, cioè, alla normalità del confronto e delle relazioni sindacali.
È una strada che si può intraprendere e che si dovrebbe percorrere. Il governo potrebbe esercitare il suo ruolo di garante di regole giuste e condivise. In questi mesi abbiamo visto molti decreti sui quali abbiamo espresso con lealtà le nostre critiche e il nostro dissenso per le ricadute negative sui lavoratori e sul lavoro. Vederne uno che recepisce i contenuti dell'accordo interconfederale sulla democrazia sindacale sarebbe un bel segnale di cambiamento.
* Segretario generale CGIL

l’Unità 4.11.12
Quel che manca alla manovra
di Guglielmo Epifani


Sia pure faticosamente, tra migliaia di emendamenti e di voti controversi, la legge di stabilità sta cambiando profilo. Le correzioni vanno quasi tutte nella giusta direzione.
Era la richiesta che tanti avevano avanzato. È scomparsa la retroattività delle norme fiscali rispettando lo statuto dei contribuenti e i comportamenti dei cittadini onesti. Si rinuncia a ridurre le aliquote fiscali in favore dell’eliminazione dell’aumento dell’Iva del 10 per cento che riguarda generi di prima necessità compresi gli alimentari di una diversa rimodulazione di tetti e franchigie alle detrazioni e deduzioni, e di un intervento in favore dei redditi da lavoro e delle famiglie numerose. Così riscritta, la manovra è sicuramente più equa e sostenibile, prevedendo un vantaggio più distribuito tra le diverse aree sociali. Privilegia due condizioni lavoro e famiglia e alleggerisce l’effetto sull’inflazione per tutti e soprattutto per i più indigenti. Si tratta ora di selezionare con attenzione le voci da escludere dai tetti delle detrazioni e dalle franchigie delle deduzioni, avendo come priorità casa e spesa sanitaria, in una fase in cui i costi dei mutui tendono a salire e la compartecipazione ai costi della sanità anche. Vanno rimossi quegli interventi più odiosi sulle pensioni di guerra e sugli altri aspetti che hanno suscitato fondate reazioni, come nel caso dei malati di Sla. È stato giustamente cancellato l’aumento delle ore di insegnamento che portava, oltre a insormontabili questioni di principio, anche effetti di blocco delle assunzioni, condannando ad un progressivo invecchiamento una funzione che ha bisogno di tenere assieme esperienza e rinnovamento. Questo aspetto riguarda in generale l’insieme dei settori pubblici ed è un problema troppo irresponsabilmente lasciato cadere. La riduzione della spesa pubblica, l’eliminazione di sprechi ed inefficienze, la razionalizzazione dei centri di spesa, la semplificazione degli assetti amministrativi, non possono condizionare l’equilibrio generazionale dei dipendenti. Ciò vale soprattutto per le professionalità che richiedono tempo per essere formate e per quelle che dal ricambio dell’età traggono nuove motivazioni, facilità verso nuovi linguaggi e sistemi di comunicazione. Infine restano aperti un problema ed una questione di fondo. L’aumento dell’Iva è confermato per l’aliquota più alta e ciò avrà un effetto sui prezzi e sui consumi a partire da metà del 2013. Se non si può fare altrimenti, per i saldi di bilancio, si potrà almeno rinunciare all’aumento delle accise sui prodotti petroliferi in modo da ridurre l’effetto sull’inflazione? La questione di fondo riguarda il rapporto tra la manovra e economia reale. Il 2013 non si presenta ancora come un anno di svolta. La crisi si prolunga e socialmente si aggrava. I provvedimenti hanno ora più equità ma gli effetti restano modesti per invertire le tendenze reali. Né si può chiedere questo ad un governo che si avvia alla fine della legislatura. Toccherà al governo che uscirà dal voto raccogliere questo problema, sperando che il quadro europeo non si deteriori e che il nuovo esecutivo abbia la forza e la stabilità necessarie. Qualcosa si è fatto ma il più resta ancora da dare.

l’Unità 4.11.12
Landini: se Fiat si ferma pronti al dialogo
di Massimo Franchi


ROMA «Nessuno scambio, il piano Fabbrica Italia non c’è più. Se si vuole fare una discussione vera, la si faccia sul nuovo piano e noi siamo pronti a sederci al tavolo per trovare un nuovo accordo. Ma prima si ripristini la legalità in fabbrica, si rispettino le sentenze e la Costituzione». Ai tanti che chiedono alla Fiom la firma sugli accordi in cambio della riassunzione dei suoi iscritti a Pomigliano, il segretario generale dei metalmeccanici della Cgil risponde lanciando una trattativa ex novo.
Landini, la decisione della Fiat di aprire una procedura di mobilità a Pomigliano come “rappresaglia” alla sentenza che le impone di assumere i primi 19 vostri iscritti ha provocato un coro di critiche quasi unamine. È una svolta?
«È un fatto assolutamente importante anche perché finalmente in tanti si sono resi conto che la strada intrapresa dalla Fiat è autoritaria e che l’azienda calpesta i diritti dei lavoratori. La ritorsione della Fiat non è solo contro la Fiom, è contro il diritto di qualsiasi lavoratori a scegliersi un sindacato. E difatti abbiamo chiesto che non rientrino non solo i nostri 145 iscritti, ma tutti i 2.300 lavoratori ancora non riassunti». Voi da un anno chiedevate l’intervento del governo. Ora il ministro Fornero critica Fiat ed è pronta a convocarvi. Siete soddisfatti?
«Se la convocazione arriverà, andremo al tavolo come abbiamo sempre fatto. Il problema è che noi ai tavoli con Fiat siamo esclusi e soprattutto che ad oggi ci sono ancora violazioni gravissime da parte dell’azienda in tutto il gruppo, da Pomigliano ma anche a Melfi dove tre nostri iscritti, nonostante le sentenze, vengono pagati per non lavorare. In più non dobbiamo dimenticarci i 4-5 mila fra dipendenti Fiat e indotto di Termini Imerese, di Irisbus, di Cnh Imola: sono ancora dipendenti Fiat in cassa integrazione e nessuno ne parla più. Ecco, mi pare che debbano essere sanate queste violazioni prima di parlare di svolta. È compito del governo far rispettare la Costituzione ed impedire discriminazioni». Intanto però gli altri sindacati vi chiedono di firmare il contratto per avere gli assunti a Pomigliano e poi poter combattere assieme la Fiat. Una sorta di scambio... «Non vedo scambi da fare, vedo una situazione nuova con cui fare i conti. Il piano Fabbrica Italia non c’è più: era quello su cui la Fiat aveva impostato l’accordo di Pomigliano e i referendum seguenti. C’è un nuovo piano di cui sappiamo troppo poco ma già si profila poco credibile. Allora io propongo a tutti, azienda, altri sindacati e governo, di discutere di questo nuovo piano per arrivare ad un nuovo accordo. Ma prima di tutto, ripeto, bisogna sanare le violazioni».
Tornando a Pomigliano, è evidente che la Fiat stia soffiando sul fuoco per una guerra fra i poveri. Come evitarla? «Ritirando i licenziamenti. La guerra fra poveri l’ha creata la decisione della Fiat che ha scelto di aprire la procedura di mobilità. Noi agli altri sindacati abbiamo proposto assemblee unitarie e il contratto di solidarietà per tutti i lavoratori non assunti. Siamo ancora in attesa di una risposta». A dir la verità Angeletti vi ha risposto: ha definito il contratto di solidarietà «una stupidaggine» perché calerebbe la produttività «alternando operai che entrano ed escono» ed invece per chi è ancora fuori ha proposto l’assunzione in altre aziende del gruppo...
«Ad Angeletti rispondo che Volkswagen nel 2008 su 100mila addetti aveva 30mila esuberi. Ha deciso di usare il contratto di solidarietà portando l’orario a 27 ore, ha fatto investimenti su nuovi modelli e poi ha rialzato l’orario per tutti. E la stessa soluzione usata nel 2010 in Iveco del gruppo Fiat, sottoscritta unitariamente. In più la produttività non si misura rispetto alle ore lavorate da un singolo lavoratore e il contratto di solidarietà permette al lavoratore di avere l’80 per cento dello stipendio contro il 60 della Cig. Sarebbe importante che un sindacalista come Angeletti si informasse...». Per questo rilanciate la manifestazione del 14 novembre proprio a Pomigliano... «Sì, lo sciopero generale del 14 proclamato dal sindacato europeo è l’occasione per far sentire solidarietà ai lavoratori di Pomigliano. I nostri livelli territoriali campani chiederanno che la manifestazione regionale si tenga a Pomigliano e io sarò là. In più posso annunciare che lo sciopero generale della Fiom si terrà in due giornate, mercoledì 5 e giovedì 6 dicembre, con manifestazioni in tutte le regioni». Intanto le elezioni siciliane segnalano l’insuccesso della lista Sel -Idv capeggiata da una vostra iscritta. Lei continua a ribadire che la Fiom non farà nemmeno parte di un partito. Non crede però che quel risultato ratifichi il fallimento di una sinistra movimentista e rafforzi la sinistra di governo?
«Mi pare che in Sicilia siamo di fronte al fatto che il 53% degli elettori non ha votato e che Grillo è il primo partito. I partiti dovrebbero porsi questi problemi. Noi rispettiamo l’autonomia dei partiti e chiediamo che rispettino la nostra. A noi interessa che il lavoro torni al centro dei programmi e ci rifacciamo alla discussione del 9 giugno quando chiamammo a discutere con noi tutta la sinistra. Ci aspettiamo che le promesse fatte quel giorno siano mantenute».

l’Unità 4.11.12
Di Pietro su un predellino viola
L’ex pm ha già pronto il simbolo (viola) e il nome (Basta!) del nuovo partito
Asse col Movimento 5 Stelle e Rifondazione comunista
Donadi guida la scissione: lista alleata con Pd e Sel
Rottura anche a sinistra Diliberto, Salvi e Patta lasciano Ferrero: ai gazebo per Bersani
Napolitano avverte: nessun motivo per il voto anticipato
Il sindaco di Firenze all’attacco: «No ad alleanze con l’Udc»
Il bivio della sinistra
di Claudio Sardo


LA FRAMMENTAZIONE POLITICA È UNA DELLE MALATTIE CHE HANNO PORTATO AL COLLASSO DELLA SECONDA REPUBBLICA. Ci mancherebbe solo che qualcuno provasse ora a spacciarla come la medicina. Una nuova legittimazione della politica e delle istituzioni passa necessariamente dalla ricostruzione di partiti solidi, almeno nel senso di capienti, non marginali, capaci di fare sintesi tra diversi e perciò di assumersi delle responsabilità di fronte al Paese. Se le leggi elettorali degli ultimi vent’anni, attraverso il maggioritario di coalizione, hanno premiato il ricatto dei «piccoli» e le liste personali di ogni taglia, anziché lo sforzo di comporre partiti democratici a vocazione maggioritaria, occorre moltiplicare gli sforzi per cambiare il Porcellum.
Ma, anche nel caso disgraziato di sconfitta della riforma, guai ad assecondare la (presunta) convenienza di coalizioni ampie e multiformi. Vorrebbe dire che non si è compresa la profondità della crisi di fiducia, né la portata della sfida storica che avrà di fronte il governo del dopo-elezioni, né la forza che dovrà esprimere per tenere insieme risanamento e cambio di indirizzo su scala europea. Per quanto riguarda il Pd e il centrosinistra non si tratta solo di evitare gli errori del ’94, e poi quelli dell’Unione: senza innovazione nelle forme della rappresentanza, oltre che nei contenuti, non si colmerà quel distacco che oggi separa la politica dalla diffusa domanda di partecipazione e dalla riscossa civica. Le primarie sono state una sfida coraggiosa. Bersani può dire di aver vinto la sua prima partita: su quali fondamenta potrebbe poggiare oggi il progetto di governo del Pd senza questa apertura, senza aver infranto le barriere dell’autoreferenzialità, dell’incomunicabilità con i cittadini che chiedono democrazia e cambiamento? Quale credibilità avrebbe avuto chi si fosse sottratto al rischio?
Da oggi comincia il percorso delle primarie. Da oggi gli elettori del centrosinistra potranno iscriversi per partecipare e decidere. Tuttavia, le primarie non devono esaurire il percorso dell’innovazione. La competizione interna fa salire il Pd nei sondaggi, ma il progetto di «partito nuovo» deve tornare a combinarsi con l’aspirazione ad un partito più grande. Il fatto che oltre a Bersani, Renzi e Puppato abbiano deciso di candidarsi, sulla base di una piattaforma comune, anche Vendola e Tabacci è una straordinaria opportunità. Guai a far cadere quell’impegno reciproco, assunto davanti ai cittadini che vogliono essere protagonisti di una nuova stagione.
La naturale tendenza conservativa delle strutture potrebbe suggerire prudenza: ma, se si ha la pazienza di ascoltare, la domanda è forte e diffusa. Non è solo una richiesta di unità come antidoto di possibili contrasti futuri. È una richiesta di solidità, di progettualità comune. È ancora una richiesta di coraggio. Non si esce dalla seconda Repubblica senza liberarsi degli schemi che l’hanno distrutta. Bisogna ricostruire partiti grandi. Plurali al loro interno, ma capaci di assicurare una coesione in nome del Paese, e non solo di una parte.
Un Pd più grande, sulla base della Carta d’Intenti. Un Pd che così potrà chiedere, dopo le primarie, anche ai moderati di fare altrettanto. Di dare una forma nuova e unitaria a quel Centro costituzionale che può condividere, per un’intera legislatura, un programma di ricostruzione nazionale. Oggi il Centro è un crocevia di rivalità e opzioni diverse. Chi è disposto a collaborare con il centrosinistra non può che rompere con il berlusconismo, inteso sia come partito personale, sia come pratica populista. Ma non può neppure pensare di rispondere alle sfide inedite con vecchie sigle e con giochi di rimessa. Il tempo nuovo non fa sconti a nessuno.
È un discorso che riguarda anche le forze minori della sinistra, sconvolte dall’esito delle elezioni siciliane. La crisi sociale sommata a quella politica ha in pratica annullato lo spazio di una sinistra radicale e antagonista. Oggi il dilemma è stringente: o si affronta la sfida del centrosinistra di governo, o si porta acqua al mulino del populismo. In Sicilia i numeri sono stati addirittura brutali: il Pd ha portato Crocetta alla presidenza, i 5 Stelle di Grillo sono diventati il primo partito, la sinistra radicale è stata cancellata dall’Assemblea regionale. Da mesi su l’Unità, a partire da un preveggente articolo di Mario Tronti, si discute della necessità di superare lo schema delle «due sinistre». Ora sarebbe un delitto chiudere gli occhi davanti alla realtà. La scelta di Vendola di partecipare alle primarie e di portare nel centrosinistra di governo la radicalità di alcune istanze è coraggiosa non meno di quella di Bersani di rimettersi in gioco, rinunciando alle prerogative dello statuto del Pd. Le rotture che si stanno consumando in queste ore nell’Italia dei Valori e nella Federazione della sinistra hanno esattamente questo segno: o si accetta la sfida della ricostruzione nazionale o si entra nell’orbita di Grillo. Non c’è una terza via di comodo, dove lucrare una rendita di posizione. Nessuno, tanto meno chi intende candidarsi alla guida del Paese, può permettersi di raccogliere sigle o siglette, vecchie o riverniciate. Se lo facesse, dimostrerebbe di non avere la qualità per affrontare il tempo nuovo.

l’Unità 4.11.12
Primarie, al via le registrazioni. Ma è ancora scontro sulle regole
Uffici elettorali aperti, da oggi è possibile iscriversi
Renzi: «Una trafila dettata dalla paura di perdere»
di Virginia Lori


Oggi partono ufficialmente le primarie: da stamattina per venti giorni fino al 25 saranno aperti gli uffici elettorali della coalizione per registrarsi. Ma il via avviene tra le polemiche. Renzi torna all’attacco e parla di una trafila dettata dalla paura di perdere. Reggi rincara: è una consultazione truccata. Intervista al responsabile organizzazione del Pd Nico Stumpo: sarà una grande prova di democrazia.
Migliaia di uffici elettorali sparsi in tutta la Penisola pronti ad aprire i battenti. E neanche tanto sullo sfondo ancora polemiche, sempre da parte di Matteo Renzi, sulle regole di questa competizione a cinque, arrivate anche ieri, alla vigilia del primo giorno di registrazione degli elettori delle primarie del centrosinistra.
«Le regole immaginate per le primarie hanno allontanato molte persone, secondo i sondaggi», accusa il sindaco di Firenze dalla sua newsletter, puntando il dito su come per le primarie di Lombardia e Lazio il Pd voglia tornare alle vecchie regole, mentre «solo per questa nostra competizione, pare, ci sarà bisogno di tutta la trafila dettata dalla paura di perdere che qualche sondaggio di troppo ha diffuso a settembre». Al sindaco rottamatore replica a distanza la portavoce nazionale per le primarie di Pier Luigi Bersani, Alessandra Moretti: per lei il segretario, aprendo le primarie ad altri candidati pd al contrario di quanto previsto dallo Statuto ha già dimostrato che prima viene l’interesse del partito e poi gli interessi personali, mentre «il rinnovamento del Pd è già in atto da tempo. Ma rifiutiamo l’idea che a essere rottamati siamo le persone, i valori, la storia. La storia della democrazia, delle battaglie politiche, della Resistenza, la costituzione, vogliano rottamare questo?».
Ma ormai siamo arrivati al nastro di partenza. Accesi i motori, la macchina delle primarie è in partenza. Da oggi, e per i prossimi 20 giorni, tutti i cittadini che vogliono partecipare con il proprio voto alla scelta del candidato premier del centrosinistra il 25 novembre potranno registrarsi negli uffici elettorali e online sul sito wwww.primarieitaliabenecomune.it. Sullo stesso sito web si troveranno da oggi tutte le informazioni su uffici elettorali e seggi di zona dove votare, scegliendo per citarli nell’ordine in cui appariranno sulla scheda elettorale tra Pier Luigi Bersani, Bruno Tabacci, Laura Puppato, Nichi Vendola e Matteo Renzi.
«Caro segretario Bersani, mi spieghi perché il Pd è orgoglioso delle primarie libere in Lombardia mentre ha provato a truccarle nel Paese?», twitta intanto Roberto Reggi, organizzatore della campagna di Renzi. «Reggi continua a straparlare», interviene Davide Zoggia, responsabile Enti locali del Pd, secondo il quale Reggi, tra l’altro, strumentalizza «le autonomie locali per la campagna delle primarie». E mentre a Piacenza la città di Bersani ma anche di Reggi in un’aria da derby, il «point» elettorale del sindaco di Firenze apre a soli 10 metri dal quartier generale dei bersaniani a dividerli solo un negozio d’abbigliamento e uno di cravatte pure Laura Puppato da Spinea, nel veneziano, lancia ufficialmente la sua campagna elettorale: «Mi sono candidata, contro le ostilità dei miei colleghi di partito per dare voce a tutti gli italiani sfiduciati».

Corriere 4.11.12
Premio di maggioranza, no da un italiano su due
La metà degli elettori preferirebbe un sistema proporzionale puro
di Renato Mannheimer


Il dibattito sulla riforma elettorale è ancora in corso, senza che se ne veda, a tutt'oggi, una conclusione. Tanto che molti esponenti politici si dichiarano convinti che in primavera si andrà a votare ancora una volta con il tanto deprecato Porcellum, magari lievemente modificato. Insomma, malgrado le promesse dei partiti (al convegno dei Giovani industriali a Santa Margherita nel giugno scorso, i principali leader garantirono il varo del provvedimento entro tre settimane), le caratteristiche del nuovo ordinamento sono lontane dall'essere definite. Restano tuttora in discussione elementi cruciali come l'introduzione o meno delle preferenze e la misura del premio di maggioranza.
Al riguardo, abbiamo visto come le preferenze siano richieste a gran voce dai cittadini. La maggioranza degli italiani le interpreta, a torto o a ragione, come una riappropriazione del potere di scelta dei parlamentari da parte del popolo e ritiene invece non così importanti i pericoli di inquinamento e di manipolazione del voto che, storicamente, le preferenze hanno comportato.
L'altro grande tema in discussione è il premio di maggioranza. Come si sa, quest'ultimo, pur alterando di fatto, in misura minore o maggiore, l'esito delle consultazioni, garantisce quella governabilità che un sistema proporzionale puro spesso impedisce o comunque rende più difficile, specie in presenza di una frammentazione partitica elevata come in Italia. Ancora una volta, è emerso un orientamento della popolazione che in parte differisce da molti dei progetti attualmente discussi in Parlamento. Poco più del 50% degli intervistati, infatti, si dichiara contrario al premio di maggioranza e incline a un sistema proporzionale puro. Una minoranza, anche se consistente (36%), si esprime invece a favore dell'applicazione del premio.
È ragionevole pensare che l'orientamento prevalente della popolazione, avverso al premio, sia legato anche ad una reazione contro la misura attuale — ritenuta eccessiva — di questo bonus. In generale l'atteggiamento dei cittadini è ancora una volta spiegabile con il desiderio di riprendere un maggior controllo sulla composizione del Parlamento e sulla vita politica del Paese nel suo complesso.
Risultano comunque relativamente più favorevoli — anche se in misura sempre minoritaria — al mantenimento del premio di maggioranza i cittadini con titoli di studio più elevati e posizioni sociali più «centrali», i giovani e gli elettori collocati nel centro e nel centrodestra (anche se, come emerge dai sondaggi, oggi il premio di maggioranza conviene specialmente al Partito democratico e al centrosinistra).
In generale, non è necessario né forse opportuno basarsi sulle opinioni dei cittadini per definire il sistema elettorale. Come è facile intuire, la maggior parte degli intervistati non può conoscere tutte le problematiche tecniche e le conseguenze dei sistemi elettorali e non ne sa pertanto valutare fino in fondo vantaggi e svantaggi. Ma l'atteggiamento degli italiani può quantomeno suggerire l'introduzione di un contenimento dell'entità attuale del premio, già richiesta dalla Corte e prevista peraltro da alcuni dei progetti presentati in Parlamento.
In realtà, occorrerebbe definire un sistema elettorale che risponda il più possibile alle necessità del Paese e coniughi al meglio rappresentatività e governabilità (a nostro avviso, avvicinandosi al modello francese a doppio turno). Viceversa, i partiti sembrano pensare sempre più spesso a un sistema elettorale che permetta loro di vincere le prossime elezioni. Tanto che le regole che propongono mutano in relazione agli esiti dei sondaggi di cui via via vengono a disporre. Un'ottica miope e di breve periodo che non fa il bene del Paese.

Repubblica 4.11.12
Ipotesi di un premio solo a chi supera il 40 per cento. E correzione del Porcellum in chiave anti-Grillo
Ma la “strana maggioranza” accelera legge elettorale per andare alle urne
L’ultimo tentativo è ritoccare il Porcellum
di Carmelo Lopapa


E ORA la corsa si fa frenetica. Correzione volante al Porcellum, per modificare il solo premio di maggioranza, e poi via, di corsa al voto. Il presidente Napolitano ha escluso elezioni anticipate. Ma la lettura che ne fanno tutti i big della maggioranza in queste ore converge verso l’appello a fare in fretta nel varare la riforma.
LASCIANDO aperta ogni possibilità, voto a febbraio e election day incluso. Martedì notte, mercoledì notte, doppie sedute in commissione e quindi in aula al Senato dal 13. Bersani, Casini e Alfano non hanno via d’uscita, se vogliono correggere il Porcellum e arginare lo tzunamigrillino. Dead line, il varo del testo entro dicembre. A quel punto, approvata la legge di Stabilità nei due rami, la missione di Monti può considerarsi compiuta. Una corsa contro il tempo mossa anche dall’istinto di sopravvivenza, come spiega il senatore Pdl Andrea Augello. «La scansione progressiva delle varie elezioni fino alle politiche in aprile non conviene a nessuno, piazzare le regionali a gennaio e il voto nazionale due mesi dopo vorrebbe dire regalare a Grillo oltre il 30 per cento, sarebbe la fine». Un ragionamento supportato dagli ultimi sondaggi in mano al Pdl. «Nel Lazio, il M5s valeva il 6 prima del voto in Sicilia — spiega l’ex sottosegretario — nei rilevamenti di questi giorni è schizzato al 14, vuol dire che a gennaio sarà quasi al 20. Ad aprile dieci punti più e oltre».
E allora meglio trovare una intesa minima sulla legge elettorale, è il ragionamento e l’interesse di tutti. Accogliere cioè il diktat della Corte Costituzionale del 2009: evitare che una coalizione o un partito con il 30 per cento ottenga il 55 a Montecitorio. Le trattative tra gli sherpa Verdini-Quagliariello-Migliavacca-Cesa sono interrotte. Ferme al palo dopo lo stop di mercoledì in commissione. E tanto più dopo l’uscita di due giorni fa di Berlusconi che ha affossato in via definitiva le preferenze, nonostante il pressing degli ex An del Pdl ma in linea con quanto gli chiedevano 40 deputati forzisti. Gaetano Quagliariello nega qualsiasi problema interno e si dice fiducioso su un’intesa nei prossimi giorni, almeno sul premio, appunto. «È abbastanza evidente che dal capo dello Stato è arrivato l’ennesimo invito a cambiare la legge, se non fosse stato così avrebbe smentito se stesso». Dunque, cosa succederà in commissione Affari costituzionali al Senato quando martedì riaprirà il cantiere con doppia seduta? «Napolitano ci dà l’ultima chance per consentire ai partiti di finire dignitosamente la legislatura — dice il presidente Carlo Vizzini (Psi) — se poi qualcuno vuole suicidarsi può anche farlo, magari tenendo davvero il Porcellum». Per evitare il «suicidio » restano tre nodi da risolvere: il premio alla coalizione o al partito, la soglia oltre la quale concederlo, le preferenze. Se non sarà approvato un testo a larga maggioranza al Senato (entro novembre), le votazioni segrete previste alla Camera manderanno tutto per aria subito dpo. Si lavora dunque per una correzione minimal del Porcellum e la mediazione prevede il premio alla coalizione che raggiungerebbe il 40, per garantire il 55 alla Camera e una maggioranza al Senato. Vorrebbe dire 340 seggi a Montecitorio, 165 al Senato. E le preferenze già previste (e approvate) nel testo Malan? Saranno bocciate in aula, prevedono tutti, come pure il sistema spagnolo e tutto il resto. «Ma noi su quel correttivo di facciata non siamo d’accordo — avverte il pd Maurizio Migliavacca — Vogliamo restare dentro un contesto maggioritario, dunque, premio almeno del 15». O al più il 12,5 proposto dai berlusconiani. Ma pur sempre al partito e non alla coalizione, è il paletto di Bersani e dei suoi: se non sarà così, il ritorno a un «governo di tutti» nel 2013 sarebbe scontato. «Non mi soffermerei sulla data del voto — taglia corto il vicecapogruppo Pd al Senato, Luigi Zanda — Quello di Napolitano è l’ennesimo appello a rimuovere un sistema che ha mortificato la democrazia dal 2005». Il Quirinale non scioglierà mai le Camere, figurarsi prima del tempo, senza la riforma, dice Roberto Rao, braccio destro di Casini, «ci ha invitato a far tesoro dei pochi talenti rimasti alla politica e non metterli sotto il mattone». Al momento appaiono sepolti.

l’Unità 4.11.12
Dove si annida il populismo
Non tutto ciò che si muove contro i partiti è populismo
di Alfredo Reichlin


Sarà forse perché ho conosciuto la politica in un tempo più terribile di questo e mi hanno insegnato l’importanza che ha capire a che punto della storia ci si trova. Ma sono convinto che la sinistra e le forze progressiste di oggi non possano sottovalutare la grandiosità dei mutamenti in cui sono coinvolte. Parto quindi da quel che considero il problema che più ci assilla in questo momento: cosa c’è davvero dietro questo tracollo sconvolgente del sistema politico. Il fatto che il Partito democratico non solo resista, ma si confermi sempre più come il pilastro della democrazia italiana è certamente un dato molto importante. Tuttavia occorre fare attenzione, poiché questo collasso non è solo frutto delle malefatte dei singoli, della mala politica, ma va letto anch’esso come l’esito di processi più profondi, che interpellano anche noi e il progetto di un partito “nuovo”. Stiamo attenti. Quando parliamo di collasso del sistema politico ci riferiamo a qualcosa che attiene all’articolazione stessa dello Stato democratico, alla formazione delle sue classi dirigenti, alla divisione e all’equilibrio dei poteri. Letto così, questo crollo è figlio, a mio avviso, dell’anacronismo del sistema sociale e di potere italiano. Del suo reale «blocco storico», dominato come è dal mare delle rendite. Esso si ripercuote – certo – sul sistema dei partiti, ma riguarda gli assetti reali del Paese, il complesso dei legami, dei compromessi sociali, la sua fisionomia storica. Insomma, ciò che rappresenta la sostanza della comunità nazionale e la base della sua difficile unità. Un sistema anacronistico che si rivela sempre più tale essenzialmente rispetto a un fatto storico del tutto nuovo: e cioè che è in atto una nuova fase d’integrazione internazionale connotata da un processo di europeizzazione che investe anche l’Italia, e non nelle forme timide o marginali immaginate finora. Noi saremo sempre più un pezzo dell’Europa in costruzione. È esattamente questa sfida straordinaria che impone la costruzione di una nuova compagine nazionale la quale sia in grado di partecipare, con le sue risorse, la sua cultura e i suoi bisogni, a un processo di tale portata, senza esserne travolta o amputata.
Ecco, se questa è la qualità e la profondità del problema che abbiamo di fronte, mi pare di poter dire che esso non è presente nella proposta politica di Matteo Renzi. Aggiungo che se è vero che il processo, qui solo accennato, è già in atto, allora è chiaro che un tale cambiamento ha bisogno di essere guidato in modo più esplicito. Il compito nostro, se siamo un grande partito, nazionale e popolare, è appunto quello di assumere la guida di questo processo così da renderlo evidente agli occhi di un popolo che mai come adesso appare smarrito e che s’interroga su di sé e sul proprio avvenire. Il punto – vorrei essere chiaro – non è solo rivendicare, come pure è legittimo, una diversità sul piano morale. Il Pd dovrebbe, piuttosto, coltivare l’ambizione di porsi alla guida del Paese e affrontare da lì il nodo di una ri-organizzazione delle forze nazionali. Occorre ribadire, esplicitando ancora di più e meglio ciò che è pur detto nella Carta d’intenti, che noi stiamo costruendo un partito per un nuovo Paese, per un Paese che sceglie di collocare compiutamente se stesso, le sue istituzioni e il suo destino, nel contesto di una nuova Europa. A questo proposito il neo-presidente della Regione Sicilia, Rosario Crocetta, ha detto qualcosa d’importante quando ha affermato che il voto espresso dagli elettori dà speranza all’europeizzazione di quella terra. Insomma, la mia impressione è che noi ci troviamo di fronte non soltanto a una crisi e a un momento di decadenza, ma a un nuovo passaggio storico che mette in luce nuovi assetti statali e nuove forze reali. Ecco perché sta a noi rendere esplicito su quali di quelle forze intendiamo far leva, ridefinire i nostri punti di riferimento e le realtà con le quali intendiamo entrare in campo e giocare la partita.
Non bisogna cedere alla tentazione della semplificazione. Non tutto ciò che si muove oggi contro i partiti può essere liquidato come populismo. Occorre, invece, interrogarsi sulla qualità dei partiti, su quel loro invecchiamento culturale che li rende inservibili di fronte a una realtà in movimento. Nel grillismo, ad esempio, io vedo, accanto alla delusione e alla sfiducia, una grande domanda di partecipazione e di rappresentanza che, se non troverà l’interlocuzione adeguata, allora sì, certamente, potrà determinare regressioni populistiche o favorire strategie elitarie di uscita dalla crisi.
E qui entra in gioco il grande tema del lavoro. Ma, aggiungerei subito a scanso di equivoci, il lavoro moderno. Perché a questo punto diventa decisivo avere una visione aperta delle realtà sociali per ciò che sono, con un’attenzione particolare a tutto quanto rientra o può rientrare sotto il capitolo dell’innovazione. Lo sottolineo perché da tempo il lavoro non è più solo quello manuale, ma si esprime attraverso le professioni, nuove esperienze e capacità che si sono affermate e sviluppate in buona misura grazie alle nuove tecnologie. Sono forze positive con le quali dobbiamo dialogare nella consapevolezza che non è lì che si annida la resistenza al cambiamento, la conservazione. Solo così la sinistra e le forze progressiste riusciranno pienamente a rappresentare ai loro occhi una garanzia concreta, affidabile. Ecco perché, nel rimettere al centro il lavoro, noi non possiamo limitarci alla sacrosanta difesa del lavoro operaio. Vedere nel lavoro la grande risorsa italiana significa fare appello alla creatività, alla capacità che c’è nella nostra gente e che è esaltata dai nuovi strumenti della rivoluzione digitale e del salto che è avvenuto nelle reti informative. Lo dico in modo semplicistico, si tratta di proporre una rivoluzione di portata simile a quella che guidò l’emancipazione delle genti rurali, ponendo maggiore attenzione agli spazi enormi che si stanno aprendo e incoraggiando i soggetti nuovi che sono già in campo, fornendo loro nuovi linguaggi, obiettivi, traguardi.
La sfida, insomma, è tornare a esercitare una influenza maggiore nei confronti delle nuove forze produttive. Favorire il loro sviluppo, compresa la cultura e il capitale sociale, è un vecchio tema della sinistra, ma resta la sola vera porta d’ingresso – soprattutto del Mezzogiorno – nel nuovo mondo. Capire questo significa percorrere fino in fondo la strada tracciata da Bersani, che vede nel «partito aperto» l’infrastruttura principale al servizio di un nuovo bisogno di rappresentanza. Non un partito che abbia la pretesa di comprendere dentro di sé, nei suoi riti, nei suoi meccanismi, tutto quanto si muove nella società, ma che sappia incoraggiare e governare i processi più innovativi. Una funzione di questo genere presuppone, naturalmente, anche un’idea molto larga delle alleanze non soltanto politiche, ma sociali. Può tornare utile, a questo proposito, ricordare la lezione più alta di Di Vittorio. Quando lavorò al Piano per il lavoro, egli offrì non soltanto delle idee, ma un’alleanza fino ad allora inedita e che, anche per questo, non mancò di suscitare diffidenze in determinati settori del Pci. Fondamentale è stata anche la decisione di Bersani di impegnare il Partito nell’avventura delle primarie. A fronte dei dubbi, certamente legittimi, espressi da alcuni all’inizio dell’estate, le ultime settimane hanno dimostrato la correttezza di quell’intuizione che ha proiettato il Pd in un grande esercizio di democrazia e partecipazione, sottraendolo a uno scenario politico segnato dalla decadenza e dagli scandali.
In sintesi, noi siamo in campo e ci stiamo ponendo alla guida di una riscossa culturale e democratica del Paese. Sarà un compito difficile e per riuscire nell’impresa avremo bisogno di tornare a pensare l’economia, la società, la cultura, senza timidezze e subalternità, ma anche senza le scorciatoie delle figure solitarie al comando. Non è solo di un Capo che oggi abbiamo bisogno. Ma di una nuova visione storica e politica.

l’Unità 4.11.12
Fenomenologia del grillismo
di Sara Ventroni


QUESTE ORE È DIFFICILE FARE PREVISIONI, MA GLI ANALISTICIRASSICURANO:Grillo non è Mussolini. Noi ringraziamo gli analisti per la preziosa informazione e ci mettiamo subito al lavoro. Prendiamo confidenza con l’idea di un grillismo parlamentare e tracciamo con la matita il passaggio storico dai giorni gloriosi e sbarazzini dei «Vaffa Day», con bagni di folla in canotto, al comunicato istituzionale emanato a rete unificata, sul sito ufficiale. Dall’insulto al Presidente della Repubblica alla candidatura di Di Pietro al Colle, per innegabili virtù chiropratiche risalenti agli anni d’oro di Mani Pulite. Ovviamente era una boutade. Era una boutade?
Siamo certi che al primo esegeta, il pioniere Andrea Scanzi, ne seguiranno altri. Immaginiamo un’esplosione di saggistica: il senso del corpo in Beppe Grillo; la democrazia liquida e quella gassosa; raccolte di gag in formato e-book; un nuovo dizionario dei sinonimi, dei contrari e degli astenuti. Non ci faremo mancare nemmeno saggi di antropologia della comunicazione, dove si chiarirà una volta per tutte che il vuoto in politica non esiste. Il vuoto viene subito riempito. Anche con altro vuoto.
In questi giorni vengono spesi fiumi di inchiostro editoriali, corsivi, fondi per spiegare che in Italia c’è una crisi della rappresentanza democratica. Oibò, non ce ne eravamo accorti. Le menti migliori si sforzano di spiegarci che dobbiamo capire il fenomeno Grillo. Dobbiamo farci i conti. Perché Grillo intercetta il malcontento. Grillo ha diagnosticato il cancro della politica (la crisi storica dei partiti) e ha trovato la cura: non un rinnovamento della democrazia rappresentativa, ma l’autodemocrazia. Prendiamo appunti. Noi non siamo e non saremo mai dei moralisti. Noi abbiamo addirittura simpatia per i candidati 5 stelle. Noi, se non fosse che è stato proprio Grillo a servircela su un piatto d’argento, non avremmo mai osato cavalcare una metafora così trita: il mussolinismo che emigra nel berlsconismo e sopravvive nel grillismo. Sono infatti gli «Italiani!» cui il comico si rivolge a non capire che è il loro stesso mentore, parodiando il balcone di piazza Venezia, a voler tenere viva una certa tradizione guascona. Non noi. Noi abbiamo coscienza storica. Sappiamo infatti che prima del Mussolini alleato con la grande industria e con la Germania, c’è stato il maestro di provincia, allevato nel sindacalismo rivoluzionario di Sorel; il romagnolo in bolletta, il giornalista pasionario dell’Avanti. Il figlio del fabbro anarchico.
Poi il carisma cresce, signora mia. E si è forti abbastanza da fare di tutti i partiti un sol fascio. Poi il carisma premia i proseliti obbedienti, censura i mormoratori. Il carisma rende lecite battute da caserma. E ci tocca pure ridere. Il carisma ama la mamma e si circonda di donne: ogni tanto le insulta, ma pazienza. Il carisma è sempre anche sportivo, il corpo politico non si risparmia. Si mette in gioco.
C’è una tradizione apocrifa del maschio italico. Va capita, non va giudicata. Il maschio italico porta la rivoluzione, bombarda i partiti e l’Europa demoplutogiudaica.
Il maschio è forte, per questo gli si concedono debolezze antidemocratiche.
Noi non ci meravigliamo. Il Movimento Cinque Stelle è la nuova frontiera democratica contro gli apparati polverosi di partito. Basta un videomessaggio, come nel 1994. A quel tempo non c’era youtube e internet era solo un universo di nicchia. Anche allora, però, si diceva che demonizzare non serviva a niente. Abbiamo imparato la lezione. Non demonizzeremo. Capiremo le ragioni e useremo solo le metafore autorizzate, quelle con bollino di origine garantita e protetta.

Repubblica 4.11.12
L’alternativa Grillo, catastrofe annunciata
di Eugenio Scalfari


BEPPE Grillo e la televisione: questo è il vero fenomeno che va studiato con attenzione perché è da qui che il Movimento 5 Stelle diventa un problema politico del quale le elezioni siciliane hanno dato il primo segnale.
La sera di giovedì scorso Michele Santoro ha dato inizio al suo “Servizio Pubblico” trasmettendo l’attraversamento dello Stretto di Messina del comico leader del populismo e dell’antipolitica dopo due ore di nuoto. Il “Servizio Pubblico” ha dedicato alla nuotata e al comizio effettuato appena toccata terra parecchi minuti e altrettanti e forse più al comizio successivo infarcito di parolacce (“cazzo”, “coglioni” e “vaffa” punteggiavano quasi ogni frase).
L’ascolto ha avuto il 10,37 di share pari a 2 milioni e quattrocentomila spettatori; poi lo share è salito al 18 per cento restando tuttavia al terzo posto dopo Canale 5 e RaiUno. Non è moltissimo ma sono comunque cifre significative.
Il fenomeno consiste nel fatto che Grillo non vuole a nessun patto andare in tv e rimbrotta, anzi scomunica, i pochi tra i suoi seguaci che trasgrediscono a quell’ordine.
Non vuole andare in tv perché sarebbe costretto a confrontarsi e a rispondere a domande e non vuole. Vuole soltanto monologare e se un giornalista lo insegue lo copre di contumelie. Quindi fugge dalla televisione ma le televisioni lo inseguono, lo riprendono, lo trasmettono. La Rete è gremita di video sul Grillo comiziante e monologante registrando milioni e milioni di contatti.
Conclusione: Beppe Grillo gode d’una posizione mediatica incomparabilmente superiore a quella di qualunque altro leader politico di oggi e di ieri. Una posizione che non gli costa nulla, neppure un centesimo, e gli garantisce un ascolto che si ripete fino al prossimo comizio del quale sarà lui a decidere il giorno, l’ora e il luogo. In Sicilia il suo candidato ha avuto il 18 per cento dei voti e il suo Movimento il 14. I sondaggi successivi al voto siciliano lo collocano attorno al 22 per cento. Quale sia il programma del M5S resta un mistero salvo che vuole mandare tutti i politici di qualunque partito a casa o meglio ancora in galera perché «cazzo, hanno rubato tutti, sono tutti ladri». Monti «è un rompicoglioni che affama il popolo ». E «Napolitano gli tiene bordone». Sul suo “blog” uno dei suoi seguaci ha già costruito la futura architettura politica: al Quirinale Di Pietro, capo del governo e ministro dell’Economia Beppe inpersona, De Magistris all’Interno, Ingroia alla Giustizia, Saviano all’Istruzione. Quest’ultimo nome sarebbe una buona idea ma penso che il nostro amico non accetterebbe quella compagnia. Per gli altri c’è da rabbrividire e chi può farebbe bene ad espatriare.
Resta da capire perché mai alcune emittenti televisive si siano trasformate in amplificatori di questo populismo eversivo. Resta la domanda:
perché lo fanno?
* * *
La risposta l’ha data una persona che ha un suo ruolo nella cultura italiana anche se ha sempre dato prova di notevole bizzarria (uso un eufemismo) intellettuale: Paolo Flores d’Arcais in un articolo sul Fatto quotidiano di qualche giorno fa intitolato “Matteo Renzi è pessimo ma io lo voterò” racconta le sue intenzioni delle prossime settimane. Nella prima metà dell’articolo dimostra, citando fatti, dichiarazioni e testi, perché Renzi a suo giudizio è quanto di peggio e di più lontano da una sinistra radicale e riformista. Fornita questa dimostrazione Flores dice che proprio questa è la ragione per cui darà il suo voto nelle primarie del prossimo 25 novembre a Matteo Renzi: perché se Renzi vincerà il Pd si sfascerà e questo è l’obiettivo desiderato da Flores, il quale alle elezioni (così prosegue il suo articolo) voterà per Grillo. Ma perché? Perché Grillo sfascerà tutto e manderà tutti a casa o in galera, da Napolitano a Bersani ad Alfano a Casini, da Berlusconi a D’Alema a Bossi, fino a Monti, Passera, Fornero, Montezemolo... insomma tutti. La palingenesi? Esattamente, la palingenesi. E poi? Poi verrà finalmente il partito d’azione, quello vagheggiato dai fratelli Rosselli e da pochi altri. Verrà e sarà un partito di massa. Guidato da lui? Questo Flores non lo dice. E con chi? Ma naturalmente con Travaglio, con Santoro e con tanti altri che hanno in testa disegni così ardimentosi.
A me sembrano alquanto disturbati o bizzarri che dir si voglia, altro non dico.
* * *
Resta ancora in piedi il problema di Mario Monti e della sua cosiddetta agenda. Le Cancellerie europee e Obama (con un fervido “in bocca al lupo” per lui) lo vorrebbero ancora alla guida del futuro governo, ma la volontà degli elettori italiani non può esser condizionata da governi stranieri sia pure strettamente a noi alleati.
Sulla sua credibilità l’attuale classe dirigente è interamente d’accordo, ma sulla sua agenda ci sono molte riserve. Quanto a Grillo la sua opposizione a Monti è totale.
Faccio in proposito le seguenti riflessioni.
1. La credibilità di Monti è strettamente legata alla sua agenda, in parte già attuata in parte non ancora. Se il futuro governo dovesse smantellare la politica economica di Monti la credibilità del-l’Italia crollerebbe con tutte le conseguenze che ne deriverebbero. Un esempio per tutti: se futuri investimenti dovranno essere finanziati con un deficit di bilancio e quindi con un ulteriore aumento del debito pubblico, i mercati porterebbero lo spread ad altezze vertiginose con effetti devastanti sul valore del nostro debito, sulla solidità del nostro sistema bancario e sui tassi d’interesse.
2. Il fallimento della Grecia può essere sopportato sia pure con molte difficoltà dall’Europa ma l’eventuale defaultdell’Italia no, perché porterebbe con sé il fallimento dell’intera Unione. Quindi metterebbe in moto un vero e proprio commissariamento del nostro Paese o la nascita di un euro a doppia velocità nel quale noi saremmo relegati nel girone di serie B. Un disastro di proporzioni enormi, come o peggio d’una guerra perduta.
3. Lo Stato italiano ha assunto una fitta rete di impegni con l’Unione europea e li ha recepiti nella nostra Costituzione. Il mancato rispetto di quegli impegni sconvolgerebbe dunque non solo l’economia ma anche il nostro assetto giuridico e costituzionale.
Ce n’è abbastanza per concludere: in gioco non c’è Monti ma l’Italia.
Esistono ovviamente margini di discrezionalità per accelerare il bilancio economico e l’equità sociale, ma il solo modo per renderli compatibili con la situazione esistente è di operare sulla crescita della produttività, su una ridistribuzione importante del reddito e della vendita di un parte del patrimonio pubblico. Non vedo altre vie per il semplice fatto che non esistono.
Occorre però che il futuro governo abbia il suo asse nel Centro e nella Sinistra democratica. Si chiama appunto centro sinistra, che unisca in unico disegno riformisti e moderati liberali. A Casini riesce ancora difficile congiungere la parola liberale con quella di moderato, ma bisogna che lo faccia intendendo per liberali non quelli di Oscar Giannino ma i liberal. Ho sentito pochi giorni fa che Vendola dichiara come punto di riferimento per lui la politica del Roosevelt del 1933. Se questo è vero, il punto di riferimento italiano sarebbe Ugo La Malfa e quello francese Mendés France.
Se così stanno le cose Vendola entri nel Pd, quello che nacque cinque anni fa al Lingotto di Torino e che Bersani attualmente rappresenta: un partito che, nel rispetto degli impegni europei, vuole costruire un Paese più produttivo, più equo e che abbia il lavoro come sua prima priorità.
L’alternativa, se questo disegno fosse sconfitto, è chiara: ritorno alla lira, discesa del reddito reale a livelli ancora più bassi, disoccupazione endemica, mafie e lobby onnipotenti, democrazia puramente nominale.
La scelta la farà il popolo sovrano e speriamo sia quella giusta.

Repubblica 4.11.12
La politica ai tempi di Klout ecco l’algoritmo della popolarità
L’indice che rivela quanto si è influenti sul web
di Riccardo Luna


ROMA — È solo un algoritmo. Eppure sta diventando uno dei punti del dibattito tra le forze politiche italiane. Perché questo indice misura la popolarità sul web. Anche dei politici nostrani e dei loro “influencer”. Quelli che influenzano la rete. ma esistono davvero gli “influencer”?
Klout è l’algoritmo che misura l’influenza di chiunque sia attivo sui social media, e non lo controlla nessuno. Anzi, lo controlla solo il suo inventore, Joe Fernandez, che infatti qualche mese fa, visto che la persona più influente del mondo risultava essere la popstar dei teenager Justin Bibier e questo evidentemente lo infastidiva, cambiò i criteri con cui è costruito l’algoritmo di Klout per far sì che il primo della classifica fosse il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama (il quale, per la verità, la settimana scorsa è stato raggiunto dai San Francisco Giants, forti del successo alle World Series di baseball). Questo per dire di cosa stiamo parlando.
La storia di Klout è abbastanza casuale. Inizia nel 2008, ovvero quando Twitter e Facebook non erano ancora esplosi. Joe Fernandez aveva 30 anni: figlio di un esule cubano, un paio di startup fallimentari alle spalle, quando era a letto per una convalescenza complicata che gli impediva di parlare, scrisse un post sui burritos messicani e in tanti iniziarono a chiedergli chi li facesse meglio. Fu così che intuì che in rete non siamo tutti uguali. Alcuni hanno più potere di altri perché sono più influenti. Lui era influente sui burritos evidentemente. Ma se fosse riuscito a misurare l’influenza di ciascun utente dei social media forse finalmente avrebbe svoltato. Aveva ragione. La sua terza startup la chiamò klout, che suona come clout, termine inglese che sintetizza l'influenza politica sugli altri. E nel Natale 2008 partì.
Klout è stato il primo, oggi non è affatto l’unico, anzi ci sono decine di misuratori alternativi del nostro comportamento in rete. E soprattutto negli Stati Uniti le aziende li prendono piuttosto sul serio visto che i punteggi Klout o simili vengono utilizzati anche per i colloqui di lavoro, o per dare una stanza migliore a un cliente di un albergo, e garantiscono risposte più celeri e cortesi ai call center. Non è affatto strano. Facciamo un esempio nostrano piuttosto frequente: se su un treno qualcuno twitta che il wifi non funziona, è matematico che la prontezza della reazione di Trenitalia dipende da quanto è influente chi ha scritto il tweet. Normale che la stessa cosa capiti in politica.
Ma come si misura l'influenza in rete? Soprattutto in base a tre parametri: la popolarità (quanti ci seguono), l’engagement (quanti reagiscono a quello che facciamo), il reach (una combinazione dei primi due). A seconda del peso che gli si dà, il risultato finale cambia. E infatti ci sono tanti indicatori diversi, concorrenti con Klout. Il presupposto comune è che i nostri messaggi in rete possano avere destini diversi: da essere totalmente ignorati fino a fare il giro del mondo. Naturalmente un messaggio del presidente degli Stati Uniti, che parte da qualche milione di follower solo su Twitter, ha molte più probabilità di fare effettivamente il giro del mondo, ma per come è costruita l'architettura dei social network, ciascuno di noi può immaginare di dire una cosa che tutti leggeranno (tutti si fa per dire: tutti quelli che stanno in rete e usano i social media, un fatto che in Italia taglia fuori quasi metà della popolazione).
Non sempre sono i messaggi più importanti ad avere successo. Anzi, spesso sono quelli
più scemi. O quelli più demagogici. Per tornare ai politici nostrani, uno dei “tweet memorabili” – si chiamano così su Klout - di questi ultimi 90 giorni è stato quello che Nichi Vendola ha mandato il 31 ottobre alle 10,31: «Assolto», diceva. E basta. Quel tweet ha coinvolto 714 persone che hanno deciso a loro volta di mandarlo alla rispettiva cerchia di persone con una effetto a catena considerevole. La notizia lo meritava in effetti, ma tra gli altri “tweet moments” spicca questo di Pierferdinando Casini: «Neri Marcorè è stato così bravo che mio figlio m’ha detto: Papà, perché vai in tv in vestaglia?». In 117 hanno reagito a questo inedito quadretto familiare. Quanto a Beppe Grillo, il suo magic moment, secondo Klout, è piuttosto datato e risale addirittura alle Olimpiadi di Londra, quando evidenziò il diverso costo, per la casse dello Stato, di una medaglia in Italia e una in Germania: “lo spread olimpico” ha coinvolto circa 350 persone, dalle quali probabilmente è ripartito con una dinamica molto simile a quella dei cerchi concentrici quando si tira un sasso in acqua.
In definitiva Klout non premia davvero chi è più influente nella vita reale, ma solo chi è più attivo, con successo, in rete. E nel caso dei politici premia di solito l'abilità degli staff che postano messaggi in nome e per conto del proprio leader di solito troppo impegnato a fare altro per occuparsi davvero del web. Non è uno scandalo: lo stesso profilo twitter di Obama è spesso ufficialmente utilizzato dallo staff, i tweet originali sono siglati “bo” (una pratica adottata pari pari dal presidente della provincia di Roma Nicola Zingaretti che si sigla “nz”). Il mondo non è Klout: se lo fosse Obama avrebbe battuto Romney 99 a 93, Matteo Renzi avrebbe sorpassato Pierluigi Bersani 74 a 73 ma perderebbe le primarie con Nichi Vendola, 82, il quale a sua volta dovrebbe lasciare che per palazzo Chigi corrano due sindaci con un super klout, Giuliano Pisapia e Luigi De Magistris (pari merito a 83). Ma la vita e la politica, per fortuna, sono molto più ricche e complesse dei tre parametri inventati da un esperto di burritos messicani.

l’Unità 4.11.12
Il caso
Pannella: pronti ad aiutare Grillo con l’esperienza
Il leader radicale ha ricordato la figura di Pino Rauti: «Con lui ho avuto un rapporto di stima e di amicizia»


«Il pianeta grillino non è armato di esperienza. Anche per questo siamo pronti a mettere a sua disposizione i frutti della nostra esperienza politica consolidata». Lo ha detto Marco Pannella in una conferenza stampa a margine dell’undicesimo congresso dei Radicali Italiani. «Continuo a dire ha proseguito il leader radicale che Grillo sbaglia se rifiuta il dialogo, perché questo rischia di mandarlo a sbattere politicamente. Senza dialogo con gli altri soggetti politici Grillo rischia di subire la rivolta dei suoi stessi grillini. Ma io non sono mai per il tanto peggio tanto meglio»
«Siamo pronti al dialogo anche con il Pd ha aggiunto Pannella ma non possiamo dimenticare di essere in credito con il centrosinistra avendo “salvato” con i nostri voti il governo Prodi». Quanto alle prospettive elettorali del Pr, Pannella ha aggiunto: «Non abbiamo la palla di vetro, ma chiediamo a tutti i possibili nostri interlocutori di rispettare le nostre battaglie politiche, in primo luogo per l’amnistia e la situazione inaccettabile della giustizia». Tra le le iniziative in corso particolare rilievo assume quella sulla situazione delle carceri. «Nella battaglia che stiamo conducendo sulla situazione della giustizia e delle carceri italiane abbiamo più fiducia nel dialogo con il Vaticano che nel Quirinale». Il leader storico dei radicali ha sottolineato come le «risposte di Napolitano su questi termi sono inaccettabili perché inspiegabilmente continua dirci che i tempi non sono maturi».
Venerdì il leader radicale ha ricordato la figura di Pino Rauti: «Con lui ho avuto un rapporto di stima e di amicizia ha detto Pannella -. Era un personaggio complesso che aveva a che fare con residui di fascismo». «Una volta venne a un nostro congresso continua il leader dei Radicali dove c’era come ospite anche Fausto Bertinotti, il quale parlando di Rauti a un altro compagno disse: sembra proprio uno di noi».

Corriere 4.11.12
Dall'Idv ai radicali, le «annessioni» di Grillo
Staderini: siamo da sempre aperti a chi vuole la moralizzazione
di Alessandro Trocino


ROMA — «Sono l'unico vero politico che c'è in Europa. Anzi, siamo in quattro: io, il papa, Bono Vox e Carlo Petrini». Ritagli di vecchi slogan, ancora a metà strada tra gag comica e impegno politico. Ma ora Beppe Grillo si è fatto grande e la sua guerra lampo pre elettorale appare molto poco folcloristica. Un blitzkrieg che — è il timore di molti esponenti della vecchia politica — potrà avere come risultato l'anschluss, ovvero l'annessione di buona parte dell'elettorato.
La candidatura di Antonio Di Pietro al Quirinale segna, secondo molti analisti, non solo un tentativo di Opa sui suoi elettori, ma anche un preavviso alla politica: i voti a 5 Stelle non resteranno nel congelatore e i futuri deputati grillini avranno incarichi e potere. Non a caso, tra il timore di una disfatta e un tardivo tentativo di recupero, ora sono in tanti a chiedere il dialogo. Lo fa, dal congresso radicale, Marco Pannella, che a differenza di altri da anni segnala la sua simpatia per l'ex comico: «Il pianeta grillino non è armato di esperienza. Noi siamo pronti a mettere a sua disposizione i frutti della nostra esperienza politica consolidata».
Richiesta di dialogo che si configura anche come un'offerta politica più concreta. Del resto i radicali, dopo essere stati eletti al Parlamento nelle file del Pd, sono ora sistematicamente ignorati dal trio Bersani-Nencini-Vendola. Il segretario Mario Staderini, la cui rielezione si decide oggi, è per il dialogo. Con qualche distinguo: «Non ho nessuna ostilità per un movimento che nasce da un'esigenza di ricambio, di riforme e di moralizzazione della politica che condividiamo. Grillo, per esempio, cita spesso il referendum sul finanziamento ai partiti, omettendo di dire che fu promosso da noi. Mi piacerebbe però che gli italiani avessero la possibilità di scegliere chi ha vissuto con le lotte quello che altri promettono di fare in futuro».
Ma la grande avanzata di Beppe Grillo rischia di non fare prigionieri. In prima linea, l'Idv di «Kriptonite» Di Pietro, come lo chiamava Grillo. La Santa alleanza (solo verbale) ha spiazzato e spaccato il partito. In prima fila fra i dissidenti, Massimo Donadi, da sempre ostile a Grillo, che in tempi non sospetti definiva «la polizza vita di Berlusconi». Ma ci sono anche i sostenitori del dialogo. Come Luigi Li Gotti: «Penso che i 5 Stelle vogliano fare politica. E con questa gente noi dobbiamo parlare». In linea anche Francesco Barbato: «Grillo e il suo popolo rappresentano quelle facce pulite con le quali bisogna rinnovare la politica. Loro due sono stati gli unici a opporsi al sistema. Ora Tonino deve liberarsi del marcio nell'Idv, cacciando i mercanti dal tempio e andando oltre».
Il Pd, con Pier Luigi Bersani, è uno dei massimi teorici dell'antigrillismo, inteso come variante contemporanea del populismo berlusconiano. Giovanni Favia, grillino sempre in odor di eresia, ha ben chiari i flussi elettorali: «Il Pd è il partito al quale potremmo sottrarre più elettori, anche se noi peschiamo da tutti». Favia non gradisce però Opa e politicismi: «Dobbiamo parlare di problemi concreti, non alimentare le telenovele dei partiti e fare marketing politico».
C'è anche chi, nel Pd, prova a lanciare un amo. Lo ha fatto l'altro giorno la candidata alle primarie Laura Puppato. Lo fa Pippo Civati, fresco autore di «La rivendicazione della politica», libello sottotitolato così: «5 Stelle, mille domande e qualche risposta». Bisogna parlare con i grillini? «C'è qualcuno, come me, che ci parla da tempo. Ora è un po' tardi. Prima Grillo veniva da noi, da Veltroni, da Prodi. Ora bisogna sfidarlo senza avere paura e rilanciando sui suoi temi, che sono anche nostri».
E nella sinistra che si interroga su come andare avanti, c'è una parte che teme di restare ancora fuori dal Parlamento. È la Federazione della sinistra, che si è spaccata ieri: «Dobbiamo scegliere se fare un'alleanza progressista o una testimonianza di opposizione — spiega Cesare Salvi —. Io sono per la prima. Altrimenti rischiamo di farci spazzare via. Scontiamo un ritardo enorme sulla questione morale e sui costi della politica. Temi grillini, certo, ma sui quali già nel 2005 lanciai l'allarme in un libro scritto con Villone. Da allora, sordità totale da parte di tutti».

il Fatto 4.11.12
Radicali a congresso: “Aiuteremo noi Grillo”


Il pianeta grillino non è armato di esperienza. Anche per questo siamo pronti a mettere a sua disposizione i frutti della nostra esperienza politica consolidata”. Lo ha detto ieri Marco Pannella in una conferenza stampa a margine dell’undicesimo congresso dei Radicali Italiani. “Continuo a dire - ha proseguito il leader radicale - che Grillo sbaglia se rifiuta il dialogo, perché questo rischia di mandarlo a sbattere politicamente. Senza dialogo con gli altri soggetti politici Grillo rischia di subire la rivolta dei suoi stessi grillini. Ma io non sono mai per il tanto peggio tanto meglio”.
Anche il Pd rientra nello scenario radicale: “I dirigenti del Pd ci trattano in Parlamento come se fossimo separati in casa - ha detto Emma Bonino -, ma noi radicali non crediamo di meritare questo trattamento. Di cosa siamo accusati? Di essere troppo laici, troppo leali, troppo trasparenti? ”. “Siamo pronti al dialogo con il Pd, ma non possiamo dimenticare di essere in credito con il centro sinistra avendo salvato con i nostri voti il governo Prodi - ha aggiunto Pannella -. Non abbiamo la palla di vetro, ma chiediamo a tutti i possibili nostri interlocutori di rispettare le nostre battaglie politiche, in primo luogo per l’amnistia e la situazione inaccettabile della giustizia”.
Sul punto, Pannella ha attaccato il presidente Napolitano: “Nella battaglia che stiamo conducendo sulla situazione della giustizia e delle carceri, abbiamo più fiducia nel dialogo con il Vaticano che nel Quirinale. Le risposte di Napolitano su questi temi sono inaccettabili perché inspiegabilmente continua a dirci che i tempi non sono maturi”.

Corriere 4.11.12
Pannella: «Carceri, più fiducia nel Vaticano che nel Quirinale»


«Nella battaglia che stiamo conducendo sulla situazione della giustizia e delle carceri italiane abbiamo più fiducia nel dialogo con il Vaticano che nel Quirinale». Lo ha affermato Marco Pannella in una conferenza stampa a margine del congresso dei Radicali Italiani, che si conclude oggi a Roma. Il leader storico dei Radicali ha sottolineato come le «risposte di Napolitano su questi termi sono inaccettabili perché inspiegabilmente continua dirci che i tempi non sono maturi». Pannella venerdì aveva esortato Giorgio Napolitano a insistere per la nascita della federazione degli stati uniti d'Europa ritenendo che «potrebbero essere proprio le burocrazie di Bruxelles a battersi contro l'unità politica europea».

«Bisognerà avere il coraggio dell’antifascismo di allora»
il Fatto 4.11.12
Risponde Furio Colombo
La marcia su Predappio


DA CITTADINO sono allarmato e angosciato. Parliamo di tutto con concitata enfasi, dalle primarie al disfacimento del Pdl. Ma non dei fascisti. Ciò che il 28 ottobre è avvenuto a Predappio mi sembra non sono squallido e spregevole, ma anche pericoloso. Perché tanto distratto e mal riposto senso di superiorità per l'evento come se fosse solo un carnevale?
Altiero

DESIDERO raccogliere e rilanciare questo segnale con lo stesso stato d’animo del lettore: disgusto e allarme. Il disgusto è perché questa gente si sente libera e autorizzata e persino apprezzata mentre sta trascinando in giro i cadaveri delle vittime del fascismo. Sono tanti, se si contano tutti gli ebrei italiani, tutti gli oppositori politici, da Gramsci a Rosselli, dalle Fosse Ardeatine ai luoghi di tortura (ma poi bisogna includere sia i soldati italiani morti nella guerra più vergognosa, sia le stragi di popolazioni africane ed europee di cui i fascisti sono stati protagonisti esclusivi o abbietti complici. Ma l’allarme è fondato perchè tutto ciò avviene, impunemente ai giorni nostri, senza attenzioni, senza senso di oltraggio, e con una passiva e sterile tolleranza che è la vera ragione di allarme. Fra tanti problemi e tante emergenze, non si fa caso a un ritorno che purtroppo è in sintonia con molti fatti europei, dalla Grecia all'Ungheria, dalla Romania all'Austria. Fascisti in divisa si affacciano come una curiosità (sono pochi ormai coloro che non hanno visto gente con quella divisa uccidere oppositori o consegnare ai tedeschi bambini ebrei). Ma non dite che è finita la guerra ed è cominciato il carnevale. Fascismo e nazismo sono sempre stati un osceno carnevale, anche mentre praticavano le stragi e alimentavano i forni. Non c’è purtroppo contrapposizione fra carnevale e delitto. È vero, ora beneficiano della nuova letteratura pseudo storica che fa apparire le vittime come i veri colpevoli, quando insorgono e lottano per liberarsi. La somma fra l’ottuso fascismo di coloro che sfilano nella lugubre divisa di morte e gli scrittori votati alla denigrazione della Resistenza è un team potente, lo stesso mix di feroce ignoranza e di interessata scaltrezza che ha fatto il primo fascismo. Bisognerà avere il coraggio dell’antifascismo di allora.

l’Unità 4.11.12
I cattolici non sono i moderati
di Domenico Rosati


LE ULTIME, O PENULTIME, DICHIARAZIONI DI MONTEZEMOLO, tramite Vespa, affollano per un verso la ressa al botteghino dei moderati e, per un altro, introducono ulteriori elementi problematici nel dibattito apertosi dopo l’adesione di alcuni esponenti di organizzazioni cattoliche al «manifesto per la Terza Repubblica». Che si candidi personalmente o meno, Montezemolo espone il disegno lui dice: la scommessa «di unire il mondo dei moderati» e di volerlo fare in esplicito contrasto con la coalizione guidata dal Pd «molto lontana, sentenzia, dal riformismo di cui abbiamo bisogno»
Quali moderati e quale riformismo? Il linguaggio generico aiuta a restare nell’equivoco. Nessuno può vietare ad altri di dichiararsi moderati, ma tutto dipende dai criteri di giudizio. Qual è, ad esempio, l’atteggiamento «moderato» sulle ritorsioni della Fiat sugli operai di Pomigliano? C’è chi considera la sentenza del giudice come un vulnus alla libertà d’impresa e chi pensa che tale libertà non si prolunghi, in violazione della legge, fino al diritto di rappresaglia. Ecco un tema da affidare, per un adeguato svolgimento a quei «cattolici di Todi» che hanno manifestato l’aspirazione a conciliare posizioni divaricate in nome di letture... funzionali dell’agenda Monti e della Dottrina sociale della Chiesa. Ed a maggior ragione a quegli altri che pure, sul finir dell’estate, si erano spesi pubblicamente per un’alleanza tra l’area del Pd e quella dell’Udc e che ora scoprono nel loro capofila una posizione di netta opposizione a tale ipotesi.
Va anche notato, e qui è giusto rifarsi alle articolate argomentazioni di Luigi Bobba, svolte proprio ieri su l’Unità, che le ragioni cattolico-democratiche che si desidera far meglio risaltare nella vita del Pd non sono mai state disgiunte, anche prima dei governi Prodi giustamente evocati, da una precisa caratterizzazione sulle scelte di politica economica e sociale. Ma una (in ipotesi) plausibile «sintesi tra ispirazione liberale, cattolico popolare e progressista» avrebbe avuto a che fare, in passato, con una posizione liberale di tipo einaudiano, intonata alla Costituzione, e non con un individualismo che fiuta profumo di... soviet persino nel cauto welfare di Obama.
Il fatto è che nello «scontro economico e sociale a carattere di classe» di cui parlò Giovanni Paolo II anche i cattolici presero posizione. E soprattutto quelli che per collocazione sociale erano più vicini alla condizione operaia mescolarono, specie alla base, le proprie attese e speranze con quelle della molteplice famiglia socialista. Non c’è invece memoria di congiunzioni prospettiche con figure del mondo «padronale», né traccia di documenti firmati insieme. Semmai ci si espose per realizzare, prima col centro-sinistra, anni ’60, e poi con la solidarietà nazionale assetti politici meno ipotecati dai potentati economici; e se ne dettero anche in casa democristiana, con Moro ma non solo, motivazioni convincenti, a partire dall’affermazione dell’autonoma responsabilità della politica.
Il discorso va ovviamente proseguito. Ma intanto consente di mettere a fuoco alcuni aspetti. Il primo è che «moderato» non è una categoria politica ma un carato di stile, apprezzabile dovunque si manifesti, quantomeno nel senso del ripudio della legge del più forte. Il secondo è che una sovrapposizione tra «moderato» e «riformista» non è attuabile meccanicamente; semmai il concetto di riformismo andrebbe riabilitato nella sua accezione originaria di differenza da ogni estremismo rivoluzionario, ma sempre in relazione ai modi e agli strumenti con cui contrastare le strutture ingiuste e i metodi inaccettabili del capitalismo nelle sue varie incarnazioni. È lungo quest’itinerario che in Italia le forze politiche e sociali democratiche si sono ritrovate sulla piattaforma della Costituzione, oggi assai poco considerata come riferimento impegnativo. Ci si comprende allora tra riformisti se ci si muove per fronteggiare i guasti di un capitalismo selvaggio e non certo per favorire lo scatenamento dei suoi spiriti animali.
Il terreno di prova su cui misurare convergenze e divergenze non può che essere, oggi, quello del lavoro. Non si tratta di riattivare i precedenti di scuola, ma di misurare l’effettiva volontà politica di dar vita, a scala europea e nazionale, ad un’inedita iniziativa. Si può chiamare programma, piano, schema d’intervento o (traggo dal mio repertorio) «alleanza per il lavoro». Importante è che s’identifichi nella mancanza di lavoro il male da curare e si decida di attivare in modo organizzato tutte le risorse private e pubbliche per uno sviluppo che produca nuova occupazione.
La ricetta corrente in pratica consiglia di aspettare che la soma si assesti sulla schiena dell’asino mentre l’asino cammina. È quella che ha sempre nutrito la protesta senza sbocchi fino all’eversione. E c’è un’altra ricetta, appunto quella riformista, che richiede un’iniziativa politica attorno alla quale coagulare convinzioni prima che consensi. È la cruna d’ago della «cultura di governo»: un passaggio obbligato e dunque non aggirabile con slalom di parole. Il tempo dei «venditori» dovrebbe essere passato. O no?

l’Unità 4.11.12
«Gli albanesi non sono una massa indistinta ma persone»
Parla Daniele Vicari regista del film «La nave dolce», da giovedì nelle sale cinematografiche
Racconta lo storico sbarco dei ventimila nel porto di Bari
di Gabriella Gallozzi


Questa è una storia che interroga le coscienze di tutti noi. A vent’anni da quello sbarco, infatti, appare chiara una cosa: la ferocia con la quale si attuano le politiche di respingimento non pagano. Nel ‘91 gli immigrati in Italia erano appena 250 mila, oggi sono 5 milioni». La passione civile di Daniele Vicari cittadino è la stessa che troviamo nel cineasta. Da Diaz, sulla «macelleria messicana» del G8 di Genova a questa sua ultima inscursione nel cinema della realtà con La nave dolce, potente fermo immagine sullo storico sbarco dei ventimila albanesi nel porto di Bari, il filo rosso è sempre lo stesso: la violazione dei diritti umani da parte delle nostre istituzioni «democratiche». In quell’occasione, infatti, gli albesi furono rinchiusi nello stadio cittadino per cinque giorni, trattati come bestie e poi «rimpatriati». Tante, tantissime sono le associazioni per la difesa dei diritti civili che, infatti, sostengono l’uscita nei cinema de La nave dolce (dall’8 novembre in sala per Microcinema), da Libera di Don Ciotti ad Amnesty International, dalla Caritas fino «A buon diritto» di Luigi Manconi che ha organizzato un’anteprima del film il 6 novembre al Teatro Valle occupato di Roma (ore 20.30).
Con l’ondata di anti politica che stiamo vivendo sembra che, sempre di più, siano le associazione a prendere in mano il testimone delle battaglie civili...
«Credo che dopo la caduta del muro di Berlino, alla politica classica sia venuta meno la capacità di relazionarsi con i cittadini. Negli anni Novanta abbiamo assistito all’esplosione delle associazioni e alla nascita del cosidetto Terzo settore, anche per motivi di sopravvivenza. Oggi le associazioni, come pure “A buon diritto”, hanno il merito di risvegliare la coscienza civile, diventando in qualche modo le depositarie dei diritti civili». Qualcosa del genere tocca anche al cinema?
«Beh certamente il cinema ha una sua funzione e responsabilità. Un tema come quello degli albanesi è ancora una miccia accesa, tanto che in rete si sono scatenate accuse contro di me e contro il mio film, un rigurgito di razzismo insomma. Eppure La nave dolce si propone allo spettatore come strumento di riflessione per capire cosa abbia spinto quei ventimila, perché sono arrivati fin qui. Per restituire la complessità di una condizione umana che, altrimenti, viene assimilata ai soliti luoghi comuni, tipo “gli albanesi sono tutti delinquenti”».
La responsabilità del regista, quindi, è la denuncia?
«Oh no. La responsabilità del cineasta è la riflessione. Il cinema prima di essere di denuncia deve essere cinema. Deve narrare una storia. Lo spettatore-cittadino vuole la storia non la tematica. Fermo restando il grande ruolo che ha avuto per noi la grande stagione di quello civile, penso per esempio a Indagine su un cittadino..., il cinema oggi si è liberato dall’obbligo della denuncia..».
In che senso?
«Con la nascita dei social media che coprono istantaneamente l’intero pianeta cosa può più fare il cinema? Arriverebbe un anno dopo gli accadimenti. La sfida è offrire una lettura del reale nella sua complessità, attraverso una elaborazione narrativa. In questo il cinema documentario si sta ricavando un suo ruolo determinante, modificando addirittura dall’interno lo stesso cinema di finzione. Se pensiamo a due grandi autori come i fratelli Taviani che fanno un documentario Cesare non deve morire, n.d.r. capace di riscuotere successi internazionalmente, allora è evidente che il cinema del reale stia trasformando l’intera nostra cinematografia».
Non cambiano però le strettoie del mercato...
«Però si possono vincere. Penso a Diaz, per esempio. Non avrei mai creduto che potesse diventare uno dei massimi incassi della stagione con 2 milioni di euro al botteghino. Ancora oggi lo chiedono per proiezioni e dibattiti. Sta per uscire in Francia, Spagna, Gran Bretagna, Germania. È stato acquistato da Sky, RaiCinema e passerà in tv. Ed è stato un film nato fuori dal sistema delle major..La Fandango ha rischiato davvero tutto per produrlo».
Quindi ci sono dei segnali di risveglio?
«Che la nostra società si stia risvegliando non ci sono dubbi. E questo anche grazie alla presenza degli stranieri. Ormai ognuno di noi ha un migrante al suo fianco, a scuola, nel posto di lavoro. Sulla Vlora, poi, c erano anche artisti come il ballerino Kledi Kadiu e il regista Robert Budina che hanno arricchito il panorama culturale del nostro paese. Non più una massa indistinta, ma persone. Come racconta La nave dolce».

l’Unità 4.11.12
Martedì al Teatro Valle «Un mare diviso in due»


Martedì alle 20.30, presso il Teatro Valle Occupato Roma, «Un mare diviso in due»: anteprima nazionale del nuovo film «La nave dolce» di Daniele Vicari. Ascanio Celestini legge «Lampedusa non è un’isola», a seguire «In nome del popolo italiano. Racconti dal Cie di Ponte Galeria», documentario di Gabriele Del Grande e Stefano Liberti. Interventi di Daniele Vicari, Stefano Cappellini, Luigi Manconi. Ingresso fino a esaurimento posti con sottoscrizione libera.
La serata nasce in occasione della pubblicazione del rapporto «Lampedusa non è un’isola. Profughi e migranti alle porte dell’Italia» che è l’anticipazione, riferita agli ultimi quattro anni di immigrazione, del rapporto generale sullo stato dei diritti in Italia, che «A buon diritto Onlus» pubblicherà nel 2014. A Buon Diritto Onlus è stata fondata nel 2001 da Luigi Manconi, che ne è il presidente. La sua attività si svolge in tre diversi campi, per la tutela dei diritti individuali e delle garanzie sociali: la questione dell’immigrazione straniera in Italia e quella della libertà religiosa; le tematiche dette di «fine vita», quali l’autodeterminazione del paziente e il testamento biologico; le problematiche della privazione della libertà nelle diverse sedi in cui si consuma: carceri, caserme, centri di identificazione ed espulsione, ospedali psichiatrici giudiziari.

l’Unità 4.11.12
Mangiamoci gli stranieri!
Questa modesta proposta stimolerebbe la vecchia pratica del cannibalismo modernizzando la gastronomia nazionale
di Ascanio Celestini


Le nostre città e le nostre campagne si sono riempite di lavoratori stranieri. Gente che lavora in condizioni di schiavitù e spesso anche di vera e propria tortura. Tutto ciò è illegale. Infatti molti di questi immigrati vengono arrestati ed espulsi. Molti altri vengono regolarizzati e ottengono diritti e assistenza. Io vi chiedo: perché cacciarli se sono disposti a farsi sfruttare? Perché regolarizzarli se sono disposti a lavorare come servi? Da dove viene questa vostra ansia di legalità? Viviamo tanto bene quando c’è la guerra civile, il far west.
Se volete per forza una buona legge sull’immigrazione, sull’esempio di illustri predecessori mi permetto di presentare una mia modesta proposta. Apriamo le frontiere, facciamoli entrare tutti, permettiamogli di lavorare un paio d’anni e poi mangiamoceli! Risparmieremo il denaro speso per la guardia costiera, per l’edificazione e il controllo di quegli antiestetici lager che chiamiamo Cie. Questo stimolerebbe la ripresa della vecchia pratica del cannibalismo stimolando la gastronomia nazionale con un’estetica tutta moderna. Ribalteremo il tipico piatto africano dell’esploratore messo a bollire vivo nel pentolone optando per ricette più sfiziose come tortelli con brasato di negro. I più chic potrebbero mangiare a tartine con burro e badante del volga. Il muratore rumeno potrebbe essere bollito alla maniera del polpo alla veneziana per la sua carne frollata dall’impatto per la caduta dal ponteggio. Lo zingaro alla brace arrostito direttamente nella sua roulotte.
Vuoi conoscere davvero il cibo che mangi? Ora puoi anche scambiarci due parole prima di metterlo in pentola!
A questi emigranti diremo «non venite da soli abbandonando nella povertà i vostri anziani genitori: gallina vecchia fa buon brodo!». Oppure potrebbero essere cucinati nel rispetto della gastronomia locale. Cous cous di vu-cumprà marocchino, stalliere indiano tandoori con senape e cumino, Inoltre il consumo di carne umana abbasserebbe anche quello di carne animale contribuendo alla causa animalista. Per esempio potremmo smettere di torturare le povere oche francesi spappolando invece il fegato di qualche tunisino e inventando un innovativo foie gras. Per chi è amante del pesce insieme ai totani e ai cefali, i pescherecci porterebbero negri freschi appena pescati dai barconi affondati a largo della Sicilia.
Risolveremmo anche la questione del sovraffollamento carcerario. Nelle nostre prigioni, ogni 100 posti ci sono 144 detenuti e il 40% sono immigrati. Potremmo pensare degli indulti con cadenza calcolata nei mesi di apertura della caccia. Con un sol colpo svuotiamo le prigioni e scateniamo i cacciatori che potrebbero sfogarsi sparando ai galeotti liberati e non più soltanto a fagiani rincoglioniti. Tutti quei carcerati che finiscono in padella libererebbero posti anche nei camposanti evitando di mischiare defunti stranieri ai defunti nostrani. La lega direbbe: padroni in cassa nostra!
Ma prima che qualcuno fra i benpensanti storca la bocca accusando il sottoscritto di razzismo, pretendo che si abbia la cortesia di andare a chiedere prima di tutto ai diretti interessati se non pensino, oggi come oggi, che sarebbe stata una grande fortuna quella di essere andati in vendita come cibo di qualità, alla maniera da me descritta, evitando così tutta una serie di disgrazie come quelle da loro patite quali lo sfruttamento, la prostituzione, la carcerazione, la fame o anche semplicemente l’impossibilità di pagare l’affitto.
Ma preoccupandomi di esser conciso, concludo con i dovuti ringraziamenti nei confronti dell’illustre scrittore irlandese Jonathan Swift mia ispirazione letteraria. E ringrazio anche i nostri governanti. Sono certo che si troveranno d’accordo con questa mia modesta proposta e saranno ben contenti di mangiarsi per intero tutta la nostra nazione anche senza alcun condimento.

l’Unità 4.11.12
Lampedusa non è un’isola
Nel rapporto realizzato da «A buon diritto onlus» gli ultimi anni di politiche governative in tema di immigrazione
di Luigi Manconi


Appena qualche giorno fa, Caritas e Migrantes hanno presentato il XXII Dossier Immigrazione 2012: vi si trova un quadro della presenza straniera in Italia che valorizza la dimensione di «normalità», ormai assunta dal fenomeno all’interno della società nazionale.
Certo, la popolazione straniera risente – e non poteva essere altrimenti degli effetti della crisi economica internazionale, come testimoniato dal dato relativo al numero di quanti vengono espulsi dal mercato del lavoro: nel corso del 2011, tra coloro che si sono trovati privi di occupazione, il numero degli stranieri ha superato quello degli italiani. E tuttavia l’incidenza degli occupati immigrati sul totale della forza lavoro è, sia pure di poco, cresciuta; e il numero di imprenditori con cittadinanza straniera è ulteriormente aumentato, raddoppiando rispetto al 2005. Dunque, anche all’interno di uno scenario così profondamente segnato dalla precarizzazione del lavoro e dal restringersi della base produttiva, la presenza straniera assume i contorni di una crescente, pur se sempre faticosa, integrazione. Basti un dato: a Milano, più di 1 minore su 5 è figlio di genitori stranieri; e cresce la loro stabilità: nella regione si contano infatti 4.169 matrimoni con almeno uno sposo straniero (10,6%) e a Milano le famiglie con almeno un componente straniero sono il 18,9%. Ma questa realtà ormai così stabilizzata – non è, ovviamente, tutta la realtà, e ancor meno omogenea è la percezione di essa presso l’opinione pubblica.
L’immagine dello straniero, nella mentalità corrente, oscilla ancora tra tre figure principali: quella del «bravo lavoratore», indispensabile per il nostro mercato del lavoro e per il welfare domestico; quella della «minaccia sociale», che disegna lo straniero come un pericolo per l’ordine pubblico e per la sicurezza delle comunità e delle persone; quella del «povero cristo», destinato a una vita marginale e alla mera sussistenza nelle pieghe delle periferie metropolitane. La dimensione «emergenziale», evocata dalle ultime due figure, è in genere trattata come materia criminale, da affrontarsi con le sole politiche dell’ordine pubblico e della repressione. Ma così non è. Dietro quella realtà «eccezionale» emergono processi che richiedono grande attenzione, e che interessano il senso comune e il sistema dei valori di una società. Non a caso, finalmente, di quei processi cominciano a interessarsi artisti e letterati. Un’ottima opportunità per conoscere quanto si va facendo in questa direzione, è l’appuntamento di martedì 6 Novembre al Teatro Valle di Roma, in occasione dell’anteprima nazionale del documentario di Daniele Vicari, seguita da brani del Rapporto «Lampedusa non è un’isola», realizzato da A Buon Diritto onlus, letti da Ascanio Celestini. Il documentario di Vicari, già autore di Diaz e del bellissimo Velocità massima (2002), racconta la vicenda della nave Vlora («dolce» perché destinata al trasporto di zucchero da Cuba), approdata a Bari l’8 agosto 1991 con a bordo ventimila albanesi, e le loro successive vicissitudini, dalla cattura alla prigionia nello Stadio della Vittoria, alle rivolte e, infine, al rimpatrio forzato di tutti gli esuli tranne 1.500 circa che si dispersero sul territorio italiano. Fu il primo sbarco di dimensioni così ampie sulle nostre coste; e costituì l’inizio di un flusso proseguito nei decenni successivi, a ritmo alterno, e con esiti spesso tragici. Nel corso degli anni sono morte mediamente, nelle acque circostanti il nostro paese, 5-6 persone al giorno. Questa verità, così crudele, viene ricostruita in «Lampedusa non è un’isola», attraverso la circostanziata analisi degli ultimi anni di politiche governative in tema di immigrazione. È importante che tutto ciò sia materia di indagine sociale e di dibattito e di conflitto politico, ma è altrettanto importante che diventi sostanza viva di comunicazione e di elaborazione culturale, espressiva, artistica. Come fanno Ascanio Celestini e Daniele Vicari.

l’Unità 4.11.12
Crescono le imprese gestite da extracomunitari


Gli immigrati resistono meglio alla crisi: nei primi nove mesi del 2012 le imprese individuali con titolari provenienti da Paesi extra europei sono cresciute di 13mila unità, mentre le altre sono diminuite di 24.500. È quanto emerge da uno studio di Confesercenti. In dieci anni il loro peso sul totale delle imprese è passato dal 2% a quasi il 9% e l’insieme delle attività imprenditoriali si è più che quintuplicato, a dispetto di una contrazione tendenziale generale dell’economia del 3%. Nel terzo trimestre 2012, in particolare, le imprese individuali hanno registrato un saldo positivo di 5mila unità di cui l’85% è costituito appunto da imprese di immigrati.
Più del 57% delle imprese si concentra in cinque regioni: il 18,6% in Lombardia, il 10,5% in Toscana, il 9,7 circa in Emilia Romagna e Lazio e l’8,6 in Veneto. Il 44% delle imprese individuali straniere svolge attività di commercio, un altro 26% è nel settore delle costruzioni e un 10% nella manifattura. L’80% delle ditte si
concentra quindi in soli tre comparti, dove anche la crescita malgrado la crisi è stata sostenuta. Un più 7,3% per le imprese del commercio, più 3% per le imprese edili, e più 3,6% per la manifattura (in generale le imprese individuali negli stessi comparti registrano variazioni negative dello 0,5%, 1,3% e 2,2%). Con oltre 98mila attività il serbatoio principale dell’imprenditoria immigrata è l’Africa: il Marocco si pone in testa con 57mila imprese (cresciute in un anno del 7%) a grande distanza seguono il Senegal (15.851), l’Egitto (1.3023) e la Tunisia (12.348). Gli imprenditori marocchini e senegalesi sono particolarmente dediti all’attività di vendita al dettaglio, gli egiziani alla somministrazione di alimenti e i tunisini nel comparto edile. I cinesi si collocano al secondo posto per numero di attività (41.623 e una crescita del 6%) prediligendo il comparto della ristorazione e dell’abbigliamento. Al terzo posto le oltre 30mila imprese albanesi principalmente attive nell’edilizia.

il Fatto 4.11.12
I comunisti in Ferrari frenano la Cina
L’8 novembre si apre il 18° Congresso del Partito, mentre i progressisti chiedono riforme liberali
di Erich Follath e Wieland Wagner


Pechino La Cina – che dall’8 novembre rinnova i vertici dello Stato con il diciottesimo congresso del Partito comunista – è ad una svolta. Non vuole più essere solo la “fabbrica del mondo”. Aspira ad un ruolo più importante, ma il motore dell’economia mostra segni di rallentamento. Huang Nubo è uno degli uomini più ricchi e controversi della Cina. “Amo la natura”, dice il, 56enne imprenditore che costruisce centri vacanze per ricchi. Interessante la sua storia: quando aveva 13 anni suo padre si suicidò dopo un violento litigio con un funzionario del Partito. Sua madre morì poco dopo per il dolore. Huang frequentò l’università di Pechino, entrò nel Partito comunista diventando responsabile della divisione propaganda. Poi abbandonò la politica e fondò la sua società.
“Un imprenditore è più libero di un politico”, spiega. Certo le amicizie con la nomenclatura non debbono aver nociuto ai suoi affari. Ogni anno dona in beneficenza 5 milioni di dollari e in Cina tutti lo conoscono per la sua generosità. Lo addolora che il suo ultimo progetto incontri così tanta ostilità. Huang si è innamorato di una zona dell’Islanda e desidera acquistare 31mila ettari di terra per costruire un albergo di lusso con 120 stanze, un campo da golf, un maneggio e un piccolo aeroporto. Molti i sospetti. C’è chi ritiene che sia tutta una manovra dei cinesi per piazzare degli agenti in Islanda. Certo quest’uomo ricco, ma legato ai vertici politici della Cina, non lascia tranquilli né gli islandesi né la Nato.
I TIMORI islandesi potrebbero essere definiti paranoici, ma non sono infondati. Gli imprenditori cinesi stanno acquistando proprietà in tutto il mondo e in molti casi si tratta di iniziative di natura strategica intese a garantire alla Cina materie prime, porti, vie di comunicazione. A metà luglio la Sinopec, il gigante dell’energia a capitale pubblico, ha acquistato per 1 miliardo e mezzo di dollari quasi il 50% della compagnia petrolifera canadese Talisman Energy. Più o meno nello stesso periodo la Cnooc, altro gigante cinese dell’energia, ha acquistato la canadese Nexen per oltre 15 miliardi di dollari. A Pechino si spera che questa azienda specializzata in perforazioni in mare a grandi profondità contribuisca a far fare il salto di qualità alla politica industriale cinese. Sul versante interno, l’economia sta dando segni di rallentamento. Da luglio a settembre il tasso di crescita è stato solo del 7,4%. Un record negativo per una economia abituata ad una crescita costante sopra il 10%. Il fatto è che il modello economico cinese ha “urgente bisogno di cambiamenti” si legge sul rapporto di marzo della Banca mondiale, per la prima volta redatto con la collaborazione del governo cinese. Secondo il rapporto la Cina deve abbandonare il monopolismo di Stato e approvare riforme strutturali.
INTANTO, sulla falsariga del Giappone e della Corea del Sud, si sta rapidamente trasformando in una più matura società industriale. Le conseguenze sono l’aumento dei salari e dei costi di produzione, la carenza di manodopera in alcuni comparti industriali, normative più severe in materia di sicurezza sul lavoro e un maggiore rispetto per l’ambiente. Molte aziende hanno già trasferito la produzione di scarpe e giocattoli in Paesi quali il Vietnam e la Cambogia. Il Pcc si chiede se la Cina debba continuare a scommettere sul capitalismo di Stato con masse di lavoratori che dalle campagne affluiscono nelle zone più industrializzate, o se deve puntare sulle imprese private hi-tech, difficili da controllare e che potrebbero alla lunga mettere in discussione il predominio comunista. Il primo ministro Wen Jiabao ha riconosciuto che la Cina ha problemi che portano ad uno “sviluppo instabile, squilibrato, non coordinato e in ultima analisi insostenibile”. Ma quando due anni fa ha tentato di avviare un processo di liberalizzazione dell’economia, Wen è stato costretto a fare un passo indietro e il prossimo congresso, che probabilmente segnerà una svolta storica, sancirà la sua fine politica. Nella lunga marcia per arrivare ai vertici dell’industria hi-tech, i capitalisti della Cina comunista hanno un obiettivo in mente: la Germania. Mentre alcuni politici della vecchia guardia temono le eccessive influenze dell’Occidente, economisti come Li Daokui incoraggiano apertamente i cinesi ad emulare lo “straordinario modello tedesco”. Li parla con entusiasmo di Berlino. Malgrado la crisi finanziaria e i problemi dell’euro, tutti gli indicatori economici tedeschi sono positivi. A gennaio la Cina ha effettuato l’investimento strategicamente più importante dell’anno facendo acquistare dalla Sany, che produce attrezzature per l’edilizia, la Putzmeister, azienda tedesca leader nel settore delle pompe per il cemento, gioiello dell’economia teutonica. L’acquisizione è costata mezzo miliardo di euro. La Sany, 70.000 dipendenti, ha sede a Changsha, la città famosa in Cina perché vi studiò Mao per sei anni. Il presidente si chiama Xiang Wenbo: “Sono convinto che l’industria tedesca non abbia altra scelta se non quella di formare alleanze strategiche con le principali aziende cinesi come la Sany”.
E QUESTO perché, spiega, la Germania dispone di tecnologie superiori, ma la Cina ha il controllo di enormi mercati. Le aziende tedesche hanno bisogno di mercati nuovi per allargarsi e fare profitti. Le speranze dei progressisti cinesi sono affidate a Wang Yang, 57 anni, responsabile del Partito nella provincia di Guangdong, onsiderato il politico più interessante del momento. Wanh Yang auspica riforme di tipo liberale dell’economia cinese. Più volte nella sua provincia si è schierato a fianco dei dimostranti o di quanti protestavano contro le autorità.
Non mancano gli scandali, che si susseguono ad un ritmo senza precedenti. Per Dali Yang, professore di scienze politiche all’università di Chicago, una cosa è chiara: “I politici cinesi sono preoccupati del fatto che alcuni dirigenti del Partito ostentino macchine come la Ferrari o orologi di lusso e siano sospettati di corruzione. Desiderano fare tutto il possibile per evitare che la rabbia dell’opinione pubblica si rivolga contro di loro”.
© 2012 Der Spiegel Distribuito da The New York Times Syndicate Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Corriere 4.11.12
Il presidente e i timonieri
America e Cina, i giorni del potere
di Franco Venturini


Martedì in America gli elettori decideranno sul filo di lana chi sarà il loro presidente nei prossimi quattro anni, giovedì in Cina comincerà a porte chiuse un congresso del Partito comunista che deve scegliere timonieri e rotte per i prossimi dieci anni: se un regista occulto avesse voluto accostare i due eventi politici che più di tutti plasmeranno il mondo di domani e contemporaneamente esaltarne le differenze, non avrebbe potuto fare di meglio.
Dei due candidati alla Casa Bianca, Barack Obama e Mitt Romney, sappiamo tutto, ma non sappiamo ancora chi vincerà. Dei due nuovi dirigenti cinesi, Xi Jinping, segretario del Partito, e Li Keqiang, primo ministro, conosciamo invece l'identità e siamo ragionevolmente sicuri della loro nomina, ma poco o nulla sappiamo su di loro, sulle loro idee, sulle loro vite. In America le elezioni sono una maratona, si comincia con le primarie, poi le convention, poi la campagna in ogni Stato e i dibattiti televisivi. In Cina vige invece l'unità di facciata, che peraltro questa volta non ha retto: Bo Xilai è uscito di scena con il marchio del criminale, la lotta di potere tra correnti contrapposte è venuta ripetutamente alla luce, il New York Times, certo non da solo, ha svelato le enormi ricchezze accumulate dall'attuale premier Wen Jiabao e dalla sua famiglia. Eppure giovedì il Partito comunista tornerà ad affermare il dogma dell'unità come se nulla fosse accaduto. Curioso: in America il popolo decide, nella Repubblica Popolare il popolo comincia appena a farsi sentire.
Ma se tra martedì e giovedì Stati Uniti e Cina porteranno ai livelli più alti le loro diversità di cultura politica, esistono anche, tra Washington e Pechino, somiglianze e solidi legami. Come potrebbe essere diversamente, tra la prima e la seconda economia al mondo, oltretutto in attesa di scambiarsi le posizioni tra una quindicina d'anni o forse prima? Se non fosse per il paradosso europeo (oggi l'Europa conta ma in negativo, soltanto perché la crisi dell'euro fa paura e minaccia contagio) chi mai nel mondo multipolare che si va precisando potrebbe pretendere una importanza paragonabile a quella dell'America o a quella della Cina?
Profondamente diversi, i due protagonisti della scena mondiale sono dunque anche fratelli, e non soltanto perché uno (la Cina) ha in tasca una buona parte delle cambiali dell'altro (l'America). Si dice che Pechino preferisca una vittoria di Obama, il che risulterebbe coerente con il conservatorismo cinese. Ma sarebbe interessante, se vincesse Romney, vedere come le sue requisitorie anticinesi cadrebbero ben presto nel dimenticatoio. Usa e Cina sono condannate, nel reciproco interesse, a convivere limitando le conseguenze dei contrasti; e possono, quando se ne presenta l'occasione, indossare le divise del tanto vanamente discusso G2, che non sarà mai, appunto, più che occasionale e difensivo.
L'America cambierà comunque martedì, molto meno se vincerà Obama, molto di più se vincerà Romney. Ma — e qui è davvero difficile stabilire se si tratti di una somiglianza o di una diversità — da giovedì in avanti dovrà cambiare soprattutto la Cina. I nuovi dirigenti designati, Xi Jinping e Li Keqiang, dovranno trovare l'accordo con sette membri del Politburo e con i militari sul modo migliore di adeguare ai tempi nuovi l'economia e la sempre meno rassegnata società cinese.
I termini della sfida spiegano il terremoto politico che ha preceduto e che forse accompagnerà il Congresso. Per quasi vent'anni l'economia cinese ha beneficiato di una crescita a due cifre. Quest'anno la previsione è di un aumento del Pil del 7,5 per cento: un sogno per noi, una sirena d'allarme per i cinesi. Il modello basato quasi interamente sulle esportazioni, in un mondo che stenta a crescere quando non è in recessione, non funziona più. Bisogna pensarne un altro, bisogna controllare l'inflazione, prevenire la bolla immobiliare e verificare la solidità (dubbia) del sistema bancario. Bisogna, insomma, adeguare la Cina al pianeta che la circonda e in particolare alla strisciante crisi americana (eccola di nuovo, l'interdipendenza dei due giganti). Non basta. La società cinese è cambiata, è più istruita, utilizza Internet malgrado tutti gli ostacoli posti dalle autorità, è dunque informata e non tollera più la corruzione e i privilegi estremi di un esercito sempre più nutrito di nuovi miliardari capital-comunisti. Sono all'ordine del giorno proteste di varia natura, e nelle fabbriche emerge lentamente una sorta di sindacalismo spontaneo.
La risposta ai due versanti del problema, quello economico e quello sociale, risiede nel favorire i consumi interni. La Cina lo sta già facendo, ma dovrà farlo molto di più. E per questo serviranno riforme, e per le riforme servirà consenso nel vertice del potere. Il tutto senza aprire varchi al dissenso politico, che anzi viene colpito più di prima. Il tutto senza indebolire il controllo del Partito comunista sui forzieri capitalisti della costa meridionale.
In fondo la sfida è ancora tutta qui, ed è doppia. L'Occidente ha pensato a lungo che comunismo e capitalismo non potessero coesistere a lungo, e ha atteso l'esplosione di un sistema che considerava impossibile. Oggi l'Occidente riconosce che il modello cinese ha funzionato, e prega che non esploda anche se i contrasti tra comunismo e capitalismo sono cresciuti. Martedì e giovedì, America e Cina tanto lontane e tanto vicine.

Repubblica 4.11.12
Le elezioni globali
di Joseph E. Stiglitz


LA STRAGRANDE maggioranza della popolazione mondiale non potrà votare alle imminenti elezioni presidenziali degli Stati Uniti, pur avendo una posta in gioco enorme.
Il numero dei non americani favorevoli alla rielezione di Barack Obama è schiacciante rispetto a quello di chi vorrebbe che a vincere fosse il suo sfidante Mitt Romney. E per ottimi motivi.
Dal punto di vista dell’economia, le politiche di Romney volte a creare una società meno equa e più divisa avrebbero effetti non direttamente percepibili all’estero. Ma in passato, nel bene come nel male, altri seguirono l’esempio dell’America in più occasioni. Le politiche restrittive proposte da Romney quasi certamente svigoriranno la già anemica crescita americana e qualora la crisi dell’euro si aggravasse potrebbero innescare un’altra recessione. A quel punto, con una domanda in ulteriore calo negli Stati Uniti, il resto del mondo avvertirebbe eccome le ripercussioni della presidenza repubblicana, e in modo molto diretto.
Ciò solleva la questione della globalizzazione, che implica da parte della comunità internazionale un’azione concertata su molteplici fronti. Peccato che ciò che è necessario fare al riguardo di commerci, finanza, cambiamento del clima e innumerevoli altre cose ancora non venga fatto. In parte, molti attribuiscono queste omissioni all’assenza di una vera leadership americana. Tuttavia, anche se Romney ricorresse alle smargiassate e a un’eloquenza a forti tinte, difficilmente altri leader internazionali ne ricalcherebbero i passi, in virtù del concetto (giusto, dal mio punto di vista) che così facendo egli porterebbe gli Usa – e loro – nella direzione sbagliata.
Con l’“eccezionalismo” americano si può darla a bere in patria, ma all’estero molto meno. In aggiunta, si è visto che il capitalismo di stampo statunitense non è né proficuo né stabile. A prescindere da ciò che risultava dai dati ufficiali sul Pil, tenuto conto che la maggior parte dei redditi americani è rimasta congelata per oltre quindici anni, era evidente che il modello economico statunitense non sarebbe stato vantaggioso per la maggior parte dei cittadini americani. In realtà, tale modello aveva fatto fiasco ancor prima che Bush lasciasse la sua carica.
Dal punto di vista dei valori – e in particolare i valori di Romney – le cose non vanno granché meglio. Ormai l’America ha la consapevolezza di essere tra i Paesi sviluppati che offrono le minori pari opportunità ai propri cittadini. E i drastici tagli di bilancio proposti da Romney per i ceti più poveri e la middle class rallenterebbero ancor più la mobilità sociale. Al contempo, però, Romney vorrebbe espandere l’apparato militare, investire più soldi in armi che non servono contro nemici che non esistono, e così facendo arricchirebbe i fornitori della Difesa, a discapito di investimenti pubblici.
Anche se il candidato non è Bush, Romney non ha preso realmente le distanze dalle scelte politiche della sua amministrazione. Si considerino, per esempio, i tre argomenti succitati, al centro dell’agenda globale: il cambiamento del clima, la regolamentazione del settore finanziario e gli scambi commerciali. Sul primo argomento Romney non si è nemmeno espresso, e il suo partito conta molti “negazionisti” del surriscaldamento del clima. Da questo punto di vista, di conseguenza, la comunità internazionale non può attendersi da Romney un’autentica leadership.
Per quanto concerne la regolamentazione del settore finanziario, anche se la recente crisi ha messo in luce l’assoluta necessità di leggi più rigide, in parte è stato impossibile raggiungere un accordo perché l’amministrazione Obama è troppo vicina al settore finanziario. Con Romney, invece, non si parlerebbe proprio di vicinanza: ricorrendo a una metafora, infatti, potremmo dire che Romney è il settore finanziario.
Uno dei temi finanziari sui quali esiste un’intesa globale è la necessità di far sparire i paradisi fiscali offshore, che esistono per lo più allo scopo di facilitare l’evasione o l’elusione fiscale, il riciclaggio di denaro sporco e la corruzione. Visto che lo stesso irremovibile Romney non ha chiarito per quale motivo si serva delle banche alle Cayman, è inverosimile sperare di fare qualche passo avanti in questo ambito.
Per ciò che riguarda gli scambi commerciali, infine, Romney sta promettendo di dare il via a una guerra commerciale con la Cina e di dichiararla una manipolatrice di valuta il primo giorno del suo mandato. Il paradosso – che sfugge ancora a Romney – è che altri Paesi accusano di manipolazione valutaria gli stessi Stati Uniti. Dopo tutto, uno dei vantaggi più importanti della politica di “alleggerimento quantitativo” della Federal Reserve – forse l’unico strumento ad avere un effetto tangibile significativo sull’economia reale – nasce proprio dal deprezzamento del dollaro statunitense.
La comunità internazionale ha enormi interessi diretti nell’esito delle elezioni americane. Purtroppo, la maggior parte di coloro che ne subiranno le conseguenze – quasi tutto il mondo – non ha la possibilità di influire sul risultato.
Traduzione di Anna Bissanti © Project Syndicate, 2012

Corriere 4.11.12
La «Chicago Machine» dei democratici contro la squadra religiosa repubblicana
Lo staff elettorale dei candidati specchio della distanza culturale
di Aldo Cazzullo


RICHMOND (Virginia) — «Quando si decide Romney a diventare un vero sfidante?». «Vogliamo la vittoria di Romney per salvarci dal socialismo, ma perché non segue i buoni consigli?». A 81 anni, Rupert Murdoch ha scoperto Twitter e ha cominciato a martellare il candidato repubblicano: «Deve cambiare squadra. Deve liberarsi dei vecchi amici e assumere veri professionisti. Ma dubito che lo farà. Così non sarà facile battere lo staff di Obama, i suoi tosti consiglieri di Chicago». Ovviamente, Romney non l'ha fatto. E lo scontro tra le due squadre sarà tra mormoni e «chicagoans».
Se Murdoch definisce qualcuno «tosto», significa che lo considera un incrocio tra John Wayne e Al Capone. E in effetti la «Chicago Machine» del partito democratico ha sempre temprato personaggi notevoli, spregiudicati ma anche sofisticati. Qualcuno si è perso per strada. Rahm Emanuel, capo dello staff, è tornato in città a fare il sindaco. Al suo posto è arrivato alla Casa Bianca William Daley: figlio di Richard, sindaco di Chicago per 21 anni, che nel 1960 fece votare i morti pur di portare a John Kennedy l'Illinois; fratello di Richard junior, che superò il padre di un anno guidando la città dal 1989 al 2011, e iniziò Obama alle durezze della politica. Ora William Daley si occupa della campagna elettorale, accanto a due italoamericani, Jim Messina, l'organizzatore, e Larry Grisolano, il tattico. Ma il vero alter ego del presidente resta David Axelrod, lo stratega.
Ebreo, 57 anni, intelligentissimo, ciondolante, ironico e autoironico — «sono pronto a tagliarmi i baffi dopo 43 anni se perdiamo Pennsylvania, Minnesota e Michigan» — Axelrod ha letteralmente inventato Obama. È stato lui a intuire il potenziale della sua storia e della sua «narrative», narrazione, parola sino a poco fa estranea al vocabolario politico, oggi indispensabile per capire il miracolo di un quarantenne issato alla Casa Bianca senza aver gestito non si dice uno Stato ma neanche una pizzeria.
Axelrod, rimasto un po' in ombra in questi quattro anni, ha ripreso il controllo dell'agenda e del linguaggio di Obama. È l'unico, insieme con Michelle, che può rimproverarlo, come ha fatto dopo il disastroso dibattito di Denver. Dice di lui il presidente: «Di solito i consiglieri tirano fuori il peggio di noi. David riesce a tirare fuori il meglio». Ha già chiesto di potersi ritirare a Chicago dopo le elezioni, per aprire un istituto di strategia politica all'università. Conosce la fama della sua metropoli e ci gioca su, citando gli Intoccabili: «Se loro portano il coltello, noi portiamo la pistola». Per Obama è quel che Karl Rove è stato per Bush, Michael K. Deaver per Reagan, James A. Farley per Roosevelt. E quel che Spencer Zwick è per Romney.
Il candidato repubblicano lo chiama «il mio sesto figlio». In effetti Spencer ha 33 anni, uno in meno di Ben Romney, il quartogenito, e due in più di Craig, il piccolo di famiglia. Ha studiato alla Brigham, l'università dei mormoni. Lavora con il suo mentore fin dal 2000, quando insieme organizzarono l'Olimpiade di Salt Lake City di due anni dopo. Poi si è occupato della raccolta fondi per la campagna che portò Romney a governare il Massachusetts, lo Stato democratico per eccellenza. I giornali americani lo raccontano generoso, pronto a dare le chiavi della casa di campagna ai collaboratori, in grado di far sentire la persona che ha di fronte «la più importante della Terra»; ma anche preda di un'aggressività che sfoga affrontando in giardino i figli veri di Romney in partite di pallacanestro che diventano risse, per poi scherzare sulle botte date e prese.
Il suo padre autentico, Craig Zwick, è un'autorità della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni (i mormoni appunto), ha un'impresa edile ed è amico degli uomini di punta della lobby, da David Neeleman, fondatore della JetBlue, a Henry Eyring, rettore della Brigham University. E in questi mesi la prima occupazione di tutti è stata raccogliere fondi per Romney.
I messaggi chiave della campagna sono quelli di sempre: per i repubblicani libertà e opportunità, per i democratici giustizia e protezione. Il resto lo fanno gli spot, le mail, gli sms, le telefonate; quindi, i soldi. Tra i finanziamenti diretti e quelli raccolti dai comitati, i SuperPac, la corsa alla Casa Bianca costa oltre sei miliardi di dollari, il Pil di un medio Stato africano. Nel 2008 Obama sopravanzò nettamente McCain. Stavolta i due candidati sono alla pari. Il presidente ha avuto di più dai piccoli donatori, oltre due milioni (compreso qualche straniero, che per legge non potrebbe), per un totale di quasi mezzo miliardo di dollari. Ma da solo il magnate dei casinò di Las Vegas Sheldon Adelson ha versato ai repubblicani 40 milioni, provocando l'emulazione dei colleghi Steve Wynn e Donald Trump — che con Obama deve avere un fatto personale — e la reazione di camerieri, cuochi e ragazzi degli ascensori riuniti nella Culinary Union e impegnati nel porta a porta per i democratici in Nevada, uno degli Stati in bilico.
Altri dipendenti non sono così fortunati. È nota la simpatica lettera ricevuta dai cinquantamila «collaboratori» del gruppo petrolchimico dei fratelli David e Charles Koch, grandi elemosinieri del Tea Party e ora di Romney: «Se vince un candidato che vuole imporre altre regole al business, potreste soffrirne le conseguenze…». Altrettanto espliciti gli avvertimenti di Richard Lacks, imprenditore del Michigan, e di David Siegel, costruttore della Florida, 7 mila dipendenti: «Se vince Obama vi licenzio tutti». Ma il vertice della lotta di classe (all'incontrario) si è avuto due settimane fa al Waldorf Astoria di New York, in una cena dove i finanzieri di Manhattan hanno versato assegni da 50 mila dollari in su per Romney (che ha delegato i rapporti con Wall Street a Jim Donovan della Goldman Sachs). Ne bastavano 40 mila alla cena per Obama organizzata da Mark Lasry, miliardario della Borsa e direttore di «92nd Street Y», il centro culturale ebraico. Punta sul vivo, Sarah Jessica Parker ha voluto organizzare pure lei la sua serata, sempre a Manhattan.
L'industria tradizionale è con Romney: l'associazione di petrolieri «American for Prosperity» ha stanziato cento milioni di dollari. Il mondo dell'informatica e di Internet simpatizza per Obama, cui i manager di Microsoft hanno versato a titolo personale 418 mila dollari. A capo delle strategie per il web di Romney c'è Zac Moffatt, 32 anni, che da quando è stato assunto (ed è diventato papà) si è tagliato i capelli. Nello stesso ruolo Obama ha Harper Reed, 34 anni, anche lui di Chicago: cresta, barba rossiccia, piercing. L'industria dello spettacolo è come sempre con i democratici. Steven Spielberg ha messo un milione, come Jeffrey Katzenberg, amministratore delegato di Dreamworks. Il padre dei Simpson, Matt Groening, si è fermato a 50 mila dollari ma soprattutto ha diffuso su YouTube una striscia in cui Montgomery C. Burns, il cattivissimo padrone della centrale nucleare di Springfield, si dice entusiasta di Romney. Il cofondatore di Linkedin, Reid Hoffman, ha dato a Obama un milione, il presidente di Newsweb, Fred Eychaner, 11. Invece George Soros, che detestando Bush pagò invano a Kerry un'ondata di spot in Florida e Ohio nel 2004 e nel 2008 donò a Obama 30 milioni, stavolta si è limitato a un milione e 250 mila. Altre volte il presidente ha rimediato figure penose. Come quando ha dovuto restituire i 200 mila dollari ricevuti da Juan José «Pepe» Cardona, magnate dei casinò, accusato di corruzione e scappato in Messico.

Corriere 4.11.12
Silver, il mago dei numeri contestato dai conservatori
Da settimane predice la rielezione del presidente
di Paolo Valentino


NEW YORK — Se fate il tifo per Barack Obama, siete in fibrillazione di fronte alla valanga di sondaggi che suggeriscono un drammatico duello all'ultimo voto con Mitt Romney per la Casa Bianca e rischiate l'infarto prima di martedì sera, calmatevi. Andate in Rete sul sito del New York Times e cliccate sul blog FiveThirtyEight. Lì troverete l'Oracolo che vi darà conforto e speranza.
È da mesi ormai che Nate Silver predice la riconferma del presidente. E come il Morpheus di Matrix, convinto di poter trovare l'Eletto, è diventato una sorta di balsamo dell'anima per il popolo progressista. Ma a differenza del capitano di Zion, Silver ha dalla sua la scienza e una solida reputazione di previsioni azzeccate.
Trentaquattro anni, definito da Wikipedia «statistico, sabermetrico, psefologo e scrittore», Silver ha fatto la sua fortuna prevedendo i risultati e le prestazioni individuali del baseball. Poi si è dedicato ai campionati di poker. Infine ha applicato i suoi sofisticati e complicatissimi algoritmi alla politica. Con un tasso di successo quasi incredibile: nel 2008 anticipò correttamente l'esito dell'elezione presidenziale in 49 Stati su 50 (sbagliò solo l'Indiana, dove Obama vinse a sorpresa) e indovinò i vincitori di tutte le 35 contese per il Senato.
Quanto alla corsa in atto, Nate Silver dà a Obama il 50,5% di probabilità di vincere il voto popolare e soprattutto l'80% di spuntarla nel collegio elettorale, quello decisivo per conquistare la Casa Bianca, dove Silver prevede 303 voti per Obama e 235 per Romney. Proprio il numero dei grandi elettori che lo compongono (538) dà il nome al suo blog, FiveThirtyEight. Per giungere alle sue previsioni, Silver combina e rielabora i dati dei sondaggi di 136 istituti statistici che seguono la campagna, ponderandoli Stato per Stato.
L'Oracolo non ha tentennato neppure nell'ultimo mese, quando tutte o quasi le rilevazioni hanno registrato la rimonta dello sfidante repubblicano, che ha reso nuovamente incerta una corsa considerata già ipotecata da Obama ancora in settembre. E questo gli è valsa una violenta raffica di attacchi da parte di esperti conservatori e perfino di media progressisti, che lo accusano di rubare il mestiere ai commentatori politici e sostanzialmente di essere un ciarlatano. Joe Scarborough, ex congressista repubblicano e popolare anchorman di Morning Joe sulla rete Msnbc, bastione della sinistra liberal, ha definito Silver «una barzelletta». Mentre il sondaggista conservatore Dean Chambers è passato all'insulto volgare, descrivendolo come «uomo sottile ed effeminato, con una vocina sussurrata».
Con grande senso dell'ironia, Silver ha liquidato il secondo con un tweet: «Questo è molto fico». Più piccato, a Scarborough ha invece proposto una scommessa: «Se Obama vince, tu doni 1.000 dollari alla Croce rossa, se perde li dono io». La mossa gli è valso un rimprovero etico dal public editor del New York Times, il suo giornale.
La comunità degli esperti è accorsa in sostegno di Silver, contestando l'accusa generale lanciata dal campo repubblicano, secondo cui i numeri dei sondaggi sarebbero truccati e la disciplina si starebbe troppo politicizzando. «Da tempo la scienza politica usa modelli matematici. Non c'è nessuna prova che i sondaggisti stiano aggiustando i dati», ha detto Karlyn Bowman, del think-tank conservatore American Enterprise Institute.
Nate Silver in realtà fa un mestiere diverso dai sondaggisti, applicando alla politica gli stessi algoritmi dei bookmaker. Non a caso, tutte le società di allibratori, da Las Vegas a Londra, danno Obama sicuro vincente a dispetto dei poll. Il sito BetFair, per esempio, dà al presidente il 67,8% di probabilità di rielezione, mentre per Intrade ne ha il 61,7%. Di più, la palla di cristallo di Silver non è neppure la sola tra i modelli statistici degli Usa a predire Obama: altri meno citati, ma non meno affidabili, come Votamatic e Princeton Election Consortium, sono ancora più favorevoli al presidente.

Corriere 4.11.12
Coppie gay e adozioni in Gran Bretagna, i cattolici perdono ma si rafforzano
di Marco Ventura


Il braccio di ferro tra governo inglese e Chiesa cattolica è a una svolta. Dopo la riforma legislativa avviata nel 2007, l'eguaglianza tra etero e omosessuali è sopra tutto: per la Charity Commission, l'organismo competente circa l'ammissione di enti non statali al servizio pubblico, nessuna agenzia adottiva può rifiutare un figlio a una coppia omosessuale.
Gli enti cattolici hanno tenuto duro: anche se prestiamo un servizio pubblico, abbiamo diritto alla nostra specificità, dunque a rifiutare un figlio a una coppia omosessuale. Venerdì scorso un tribunale d'appello ha respinto il ricorso di Catholic Care, un'agenzia cattolica della diocesi di Leeds che da più di un secolo gestisce adozioni. Secondo il giudice Sales non vi è ragione perché l'agenzia cattolica violi il divieto di discriminazioni tra coppie etero e omosessuali. Ha dunque prevalso la Charity Commission, il cui rappresentante ha definito la posizione cattolica «volubile e arbitraria». Le agenzie adottive cattoliche inglesi hanno perso la battaglia legale, ma hanno vinto la battaglia morale: ammirati da tanti anglicani, hanno lottato in nome della differenza contro ciò che ritengono un «moloch» statale secolarizzato e monopolizzatore; hanno testimoniato senza cedimenti la dottrina morale cattolica.
Catholic Care può ancora resistere in ulteriori gradi di giudizio, ma l'articolata decisione del giudice Sales sembra rendere remota l'eventualità di un ricorso. Catholic Care pare dunque destinata a cessare dalle proprie funzioni, ultima delle dodici agenzie adottive cattoliche che esistevano al momento in cui la legge fu adottata. La battaglia legale continua comunque a Strasburgo, dove è in arrivo la decisione della Corte europea sui casi inglesi di Lillian Ladele, licenziata per essersi rifiutata in quanto pubblico ufficiale di registrare unioni tra coppie dello stesso sesso, e Gary McFarlane, che ha perso il lavoro di consulente psicologico per la sua lotta contro l'omosessualità. Si fortifica in tribunale, anche quando perde, la resistenza cristiana contro l'Europa dell'eguaglianza.

Repubblica 4.11.12
La rinuncia di Abu Mazen “Non torneremo in Israele”


RAMALLAH — In una intervista diffusa venerdì sera dalla tv israeliana, il presidente palestinese Abu Mazen ha dichiarato di non avere intenzione di ritornare nella casa della sua infanzia a Safed, oggi in territorio israeliano: «Voglio vedere Safed. È un mio diritto vedere Safed, ma non viverci», ha dichiarato in inglese. Parole forti, che sembrano alludere a una rinuncia al diritto dei palestinesi a tornare nelle loro vecchie case che si trovano oggi in Israele. Abu Mazen ha ribadito di accettare lo Stato di Israele nei confini del 1967: «Credo che la Cisgiordania e Gaza siano la Palestina e che le altre parti siano Israele».
Il presidente israeliano, Shimon Peres, ha definito «coraggiosa» la dichiarazione rilasciata da Abu Mazen, mentre le sue parole sono state condannate da Hamas, al potere nella Striscia di Gaza, e hanno dato vita a manifestazioni durante le quali sono stati dati alle fiamme i ritratti del leader palestinese.

Corriere La Lettura 4.11.12
Il Principe è un europeista
Machiavelli voleva un'Italia al passo con i grandi regni
di Sergio Romano


Il mio incontro con Il Principe di Niccolò Machiavelli è legato a due libri. Il primo è una edizione in italiano e in inglese di grande formato, legata in pelle con fregi impressi a fuoco e lettere dorate. È stata stampata dalla Libreria del Littorio nel 1930 e contiene alcune interpretazioni del Principe, fra cui quella di Mussolini scritta per la sua rivista, «Gerarchia», nel 1924. La copertina ha sofferto, la pelle si sbriciola, l'oro delle lettere è sbiadito, ma il libro è sempre nella mia biblioteca con altre edizioni del Principe, fra cui una distribuita insieme alla rivista «Epoca» con la prefazione di Bettino Craxi e l'altra (Il Principe di Niccolò Machiavelli annotato da Napoleone) pubblicata, con una breve nota introduttiva di Silvio Berlusconi, da una casa editrice che porta il suo nome. (Incidentalmente le note di Napoleone sono un falso storico, uno dei molti apparsi in Francia dopo la morte dell'imperatore).
Il secondo libro invece si è perduto. Era un'edizione per i licei di un editore scolastico a cura di Daniele Mattalia, mio professore di storia e letteratura al Liceo Beccaria di Milano, la vecchia scuola dei Barnabiti dove aveva studiato e insegnato Carlo Cattaneo. Furono le lezioni di Mattalia che crearono i miei primi dubbi. A chi dovevo credere?
Dovevo credere a coloro che acclamavano in Machiavelli l'inventore della politica moderna, l'uomo che aveva spiegato ai suoi contemporanei perché il governo dell'anima, nella prospettiva della salvezza eterna, e quello dello Stato siano categorie diverse? Dovevo essere orgoglioso di appartenere a un Paese dove vi erano contemporaneamente il vicario di Cristo e il teorico dello Stato moderno? Oppure dovevo credere che Machiavelli avesse con grande scaltrezza smascherato il cinismo e la brutalità dei prìncipi per meglio suscitare i sentimenti repubblicani dei suoi connazionali? Quando studiammo Foscolo, Mattalia attirò la nostra attenzione su un passaggio dei Sepolcri in cui Machiavelli è descritto come «quel grande/ che temprando lo scettro à regnatori/ gli allor ne sfronda, ed alle genti svela/ di che lagrime grondi e di che sangue»? Il cinico Machiavelli era dunque un fervente patriota?
Mi facevo altre domande. Dovevo credere al Machiavelli risorgimentale, profeta dell'unità d'Italia, quello che nelle ultime righe del Principe esorta il casato dei Medici a prendere la guida del Paese per liberarlo dal puzzo del barbaro dominio? O dovevo credere a quegli inglesi, studiati da Mario Praz, per cui Machiavelli era un diavolo incarnato, suggeritore di complotti, avvelenamenti e altre malefatte? Nella sua incarnazione diabolica, prediletta dai britannici, Machiavelli appare agli inizi di un dramma di Christopher Marlowe intitolato L'ebreo di Malta, rappresentato sulle scene londinesi pochi anni prima del Giulio Cesare di Shakespeare, una tragedia in cui i temi machiavellici sono numerosi: come si conquista uno Stato, come lo si conserva, se sia meglio essere amati che temuti. Secondo Praz, il personaggio del Giulio Cesare che il pubblico inglese avrebbe certamente considerato machiavellico è quello di Cassio, regista della congiura, l'uomo che Cesare, parlando con Marco Antonio, descrive così: «Ha lo sguardo di un uomo sparuto e affamato. Sorride raramente, e quando sorride lo fa come schernisse se stesso e disprezzasse il proprio spirito per avere ceduto alla tentazione di sorridere».
Credo che la chiave di cui il lettore ha bisogno per orientarsi fra tante interpretazioni di Machiavelli sia nascosta nella sua vita. Il Principe è il risultato delle esperienze che l'autore aveva fatto negli anni fra il 1498 e il 1512 quando era stato cancelliere e segretario dei Dieci di Libertà, l'organo che nella Repubblica fiorentina era contemporaneamente ministero degli Interni, degli Esteri e della Guerra. Aveva viaggiato in Italia e in Europa, aveva frequentato le corti italiane, quella del Pontefice romano, del re di Francia e dell'imperatore Massimiliano. Aveva visto la politica nelle sue manifestazioni più crudeli e aveva constatato che mentre altrove, in Europa, questa politica stava creando lo Stato moderno, l'Italia si consumava negli intrighi, nella corruzione, nei tradimenti e nelle meschine strategie di signori che non vedevano oltre le mura delle loro città e di pontefici che non avevano altro obiettivo fuor che quello di evitare l'unione degli Stati della penisola. Comprese prima di altri che l'Italia, in queste condizioni, sarebbe stata spinta ai margini dell'Europa e sarebbe diventata, come avvenne nel 1494, la terra su cui altri avrebbero soddisfatto le loro ambizioni. Gli sembrò intollerabile che un Paese così ricco di ingegni, di storia e di bellezza si condannasse a una tale umiliante condizione. L'appello ai Medici, nell'ultimo capitolo, non è l'artifizio retorico con cui Machiavelli cercava di tornare nelle grazie del potere. È la speranza di un uomo che amava l'Italia.
Lascio al lettore decidere se fra l'epoca di Machiavelli e la nostra corra qualche analogia. Mi limito a osservare che questo Stato apparentemente unitario è un mosaico di lobby, corporazioni, patriottismi municipali, irresponsabilità regionali e sodalizi più o meno criminali: tutti decisi a difendere il loro particulare con comportamenti meno sanguinosi di quelli dell'epoca di Machiavelli, ma non meno corrotti. E osservo che in questo momento, come allora, il dilemma è fondamentalmente lo stesso: tenere il passo con i maggiori Paesi europei o precipitare nelle periferia del continente. Esiste oggi un Machiavelli lucidamente consapevole del pericolo? Esiste, fra Palazzo Chigi e il Quirinale, qualcuno pronto a raccogliere la sfida? Nei momenti di minore pessimismo ho l'impressione che gli inquilini dei due palazzi non abbiano dimenticato la loro lettura del Principe.

Corriere 4.11.12
L'umanesimo oltre la dea Ragione
Una nuova creatività per liberarci dalla dittatura del tecnicismo
di Andrea Carandini


Mancando il seno, il neonato succhia altro e scopre una realtà separata, che riempie di simboli. Oltre ai mondi interno e esterno esiste quello del gioco, della cultura. È la dimensione immateriale dell'essere, che ha fine in sé, in cui trascendiamo la vita pratica. Qui verità superiori intensificano e rappresentano l'essere, rendendo anche la vita pratica feconda. Ma razionalismo, industrialismo e tecnicismo di '800 e '900 hanno mortificato l'homo ludens. Svaghi meccanici che hanno puerilizzato e distratto, ponendo la cultura nel retroscena. Priva di creatività, anche la vita materiale è diminuita, serrata nel pensiero fisso dell'economia. A soffrire di ristrettezza sono state soprattutto le scienze dello spirito. L'idea di progresso, tratta dalle scienze naturali ma inapplicabile a quelle umane, ha portato a un presente incolore. L'idea di cultura, inventata nel '700 da Vico e Herder, è in crisi, e con essa l'idea di Bildung, formazione.
È il momento di tornare all'essenza cultura. La tradizione umanistica si è basata sul senso comune, non sul sapere dimostrato delle scienze. Infatti in costumi, morale ed estetica il caso singolo non si assoggetta a una regola. Kant ha ristretto la conoscenza concettuale all'uso della ragione, escludendo l'estetica, basata su un gusto soggettivo privo di significato conoscitivo. Si è giunti così all'Erlebnis, all'unità significativa, eccezionale, immediata: estranea alla storia. Si è trattato quindi di ridare verità alle scienze dello spirito. L'esperienza storica, infatti, è un continuum di cui l'arte è parte. Quando capiamo un testo, il suo significato si impone come avvince il bello. Nell'antichità le cose belle erano quelle che rifulgevano di per sé, per cui s'imponevano anche nel costume morale. L'antica idea di bello non si limitava all'estetica, aveva un carattere universalmente ontologico.
Dilthey si è chiesto come lo spirito arrivasse a conoscere la storia: «La prima condizione di una scienza della storia sta nel fatto che io stesso sono un essere storico e che colui che… indaga la storia è anche quello che la fa». Si è trattato poi di passare dalla fondazione psicologica (dell'Erlebnis) a quella ermeneutica delle scienze dello spirito. L'esperienza individuale vale come punto di partenza di un allargamento che trascende la ristrettezza della vita singola e abbraccia l'infinità del mondo storico. Yorck e Heidegger hanno individuato la corrispondenza strutturale tra vita e sapere, per cui comprendere è il modo originario dell'essere. Chi comprende l'altro, comprende se stesso, avendo entrambi il modo d'essere della storicità. E la storicità dell'essere è la condizione per rendere presente il passato.
Interpretare un testo
Per interpretare un testo bisogna difendersi dalle abitudini mentali inconsapevoli. In base al senso immediato di un testo, l'interprete abbozza un significato preliminare, ma raggiunge la comprensione elaborando il progetto iniziale, penetrando più a fondo il testo. L'interpretazione trae inizio da preconcetti, che vengono sostituiti da concetti più adeguati e in questo rinnovarsi del progetto conoscitivo sta il movimento del comprendere, dell'interpretare (non diversamente procediamo nella vita pratica). Serve essere sensibili all'alterità del testo, ma anche non dimenticare se stessi, coscienti dei propri pregiudizi: sono i pregiudizi inconsapevoli a renderci sordi al testo.
È dell'Illuminismo il pregiudizio contro tutti i pregiudizi, mirante a dissolvere ogni tradizione (del Romanticismo è lo stesso pregiudizio, rovesciato). Il pregiudizio è un giudizio enunciato prima d'un esame definitivo, non un giudizio falso, potendo essere valutato negativamente o positivamente. Stare nelle tradizioni non implica limitare la propria libertà. Se è vero che l'esistenza è condizionata in vario modo, allora l'ideale di una ragione assoluta non rappresenta una possibilità per l'umanità storica, essendo essa condizionata da situazioni date. Anche la più autentica e autorevole delle tradizioni non si sviluppa in virtù della forza di persistenza di ciò che una volta si è verificato ma ha bisogno d'essere riadattata, coltivata. Anche la conservazione è un atto della ragione. Anche nelle rivoluzioni il passato si conserva e, pur nel preteso mutamento di tutto, si salda al nuovo. L' ermeneutica storica rifiuta l'opposizione astratta fra tradizione e storiografia. Ciò spiega perché le riuscite nelle scienze dello spirito non invecchino.
Coscienza storica
La comprensione storica implica più che la ricostruzione del mondo cui l'opera apparteneva: la coscienza che noi apparteniamo all'opera e l'opera a noi. Mentre l'ermeneutica romantica scioglieva dal condizionamento storico la comprensione fondata sulla congenialità, l'autocritica della coscienza storica constata la mobilità storica sia dell'accadere che della comprensione e tra esse si pone. Colui che interpreta ha un legame con la cosa oggetto di trasmissione, ha un rapporto con la sua tradizione, ha con esse familiarità ed estraneità.
Il senso di un testo trascende l'elemento occasionale dell'autore e del pubblico originario. Comprendere è un atto anche produttivo. Così il tempo appare, non più come un abisso, ma come il fondamento dell'accadere nel quale il presente ha radici e un mezzo della comprensione stessa (scavalcare tale abisso era invece il presupposto dello storicismo, per il quale solo trasponendosi nello spirito dell'epoca si raggiungeva l'obbiettività storica).
Ciò che il passato comunica acquista nell'interpretazione un'esistenza nuova, come nel dialogo in cui nasce quanto nessuno aveva prima in mente. Lo storicismo si rifiuta a questa riflessione, perché la fiducia nel metodo gli fa dimenticare la propria storicità. Ma un pensiero autenticamente storico non insegue il fantasma dell'oggetto storico, riconosce ciò che è altro da sé insieme a se stesso e cerca il rapporto che lega la storia alla comprensione storica (parte anch'essa dell'accadere). Non esistono due orizzonti, quello dell'interprete e quello storico in cui egli si traspone, ma un unico, grande e mobile orizzonte. Cultura è muovere lo sguardo sull'oceano umano.

Corriere Salute 4.11.12
A sterminare i pellerossa furono i virus più che i fucili
di Alberto Paleari


Nelle Letters, il diario dei suoi viaggi nell'Ovest degli Stati Uniti, il pittore ed etnografo George Catlin così scriveva, nel 1832, a proposito degli indiani Mandan: «Da quanto posso dedurre dai loro racconti, una volta furono una nazione numerosa e potente, ma a causa delle continue guerre si sono ridotti al numero di oggi». Un numero esiguo, se ne deduce. George Catlin, animato da sincero amore per «gli uomini rossi», che ritrasse con ossessiva minuzia in oltre 400 tra quadri e schizzi, quella volta peccò di miopia storica: l'Uomo Bianco già prima di archiviare definitivamente la questione indiana con centinaia di trattati poco rispettati e il sostanziale annientamento dopo la Guerra Civile, aveva già inconsciamente posto le basi dell'olocausto dei nativi. Quanti fossero gli abitanti del continente nordamericano allo sbarco di Cristoforo Colombo nel 1492 è oggetto di calcoli e congetture contrastanti. La variabile è di decine di milioni di individui, ma un dato almeno è assodato: verso la fine dell'Ottocento gli indiani presenti nelle riserve degli Stati Uniti erano circa 250 mila. Comunque si consideri la questione, svariati milioni erano scomparsi: uccisi dalle pallottole, dal whiskey di marca più o meno pessima e, soprattutto, da malattie sbarcate nel Nuovo Mondo con gli europei.
Fu uno sbarco silenzioso e invisibile, ma feroce e letale: vaiolo, varicella, morbillo, malaria, influenza trovarono terreno fertile per la loro diffusione inarrestabile in quegli organismi che mai ne avevano sperimentato la presenza e che quindi non disponevano delle difese immunitarie specifiche. Indipendentemente dai rapporti che via via si stabiliranno tra Uomini Rossi e Uomini Bianchi, i successivi arrivi degli europei furono immancabilmente seguiti da una diminuzione drastica nel numero dei nativi. Già nei quarant'anni dopo il primo sbarco di Colombo, devastanti epidemie fecero milioni di vittime nelle isole caraibiche, come ebbe modo di constatare con i suoi occhi il frate domenicano spagnolo Bartolomé de las Casas verso la metà del XVI secolo e come non mancò di riportare con parole accorate nelle sue relazioni. Visto in questa prospettiva, anche l'amichevole rapporto di coabitazione che unì il quacchero inglese William Penn con gli indiani Delaware, sancito nel 1682 quasi corollario alla nascita dello Stato della Pennsylvania, si tinge dell'ombra di oscuri presagi. Uguale ombra potrebbe offuscare il mito, risalente all'inizio di quello stesso secolo, dell'amore tra l'indiana Pocahontas, figlia del capotribù dei Powathan, e il fondatore della Virginia, John Smith. Nell'area continentale il fenomeno delle stragi degli indiani a causa delle malattie fu particolarmente crudele durante il Settecento e l'Ottocento, raggiungendo punte tra l'80 e il 90 per cento di morti all'interno di una popolazione indifesa e allibita. In fondo, poi non ci sarebbe stato bisogno di sparare, sarebbe bastato attendere. Immigrati in cerca dell'Eden ed eserciti sbarcati dall'Europa, e non solo dalla Spagna ma anche dalla Francia e dall'Inghilterra, uomini di religione, cacciatori, nobili e prostitute, ricchi e straccioni, intellettuali e delinquenti, tutti quanti nell'arco di alcune decine d'anni contribuirono a quella silenziosa strage. I Mandan, tanto amati da George Catlin, scomparvero nel 1837, pochi anni dopo la visita del loro "amico" pittore: furono spazzati via dal vaiolo insieme con oltre la metà della popolazione delle Pianure; da quasi duemila che erano infatti si ridussero a meno di 130 individui, dei quali solo 23 erano uomini adulti. Da quelle parti il vaccino contro il vaiolo, che era stato scoperto nel 1796 dal medico inglese Edward Jenner, non arrivò mai. Era invece arrivato e visse a lungo, ospitato per ben 25 anni all'interno della tribù, un bianco, un cacciatore di pellicce, un francocanadese di nome Ménard, il quale si accasò con una donna mandan e richiamò in quell'area molti commercianti, tra questi un nutrito gruppo della Hudson Bay Company. Fu un via vai continuo di uomini, di animali, di cose di ogni genere. Un rimescolamento quotidiano, al quale non era estraneo il rapporto sessuale e quindi la facilità di contagio anche interrazziale.
I porti dove attraccavano le navi delle compagnie e dove gli indiani sostavano per giorni in attesa che la concorrenza tra i bianchi facesse lievitare i prezzi delle pellicce, erano un vero crogiuolo di razze, con individui arrivati dai più lontani Paesi. Nei porti nessuna regola igienica veniva rispettata. Malattia e contagio così erano all'ordine del giorno, e i pellerossa, tornando alle loro tribù dopo quei commerci, inconsapevolmente contribuivano allo sterminio della propria gente. Nemmeno le grandi pianure centrali riuscirono a salvarsi, se tra il 1798 e il 1801 un'infezione da streptococco passò come un uragano tra le popolazioni Sioux, Assiniboine e Cree. Venti anni dopo fu la volta della pertosse, che chiese il suo contributo di vittime nelle Pianure Settentrionali. Il contagio e le epidemie avevano instaurato un circolo vizioso dal quale non si riusciva ad uscire e nessun gruppo tribale poteva restarne indenne.
L a sequenza non conosceva soste e non rispettava nessun luogo, se sul finire dell'Ottocento anche i residenti della riserva di Pine Ridge dovettero fare i conti con il dilagare della tubercolosi. Il 29 dicembre del 1890, in una livida giornata che minacciava nevischio, il Massacro di Wounded Knee nel South Dakota pose ufficialmente fine alla "questione indiana". Soltanto all'inizio del Novecento il Governo di Washington prese seriamente in considerazione il problema della salute e delle cure mediche per gli indiani che erano sopravvissuti e che ancora si trovavano sul territorio della Federazione. Nel 1905 venne approvato un primo esiguo stanziamento di 122 mila dollari; contemporaneamente fu condotta un'indagine per valutare la diffusione delle malattie all'interno di quella popolazione: risultò che la patologia più diffusa era ora la tubercolosi. Si decise di aumentare la somma messa a disposizione, ma ormai il danno era irreversibile. L'Uomo Rosso diventò un'attrattiva turistica.
Trecento «riserve» negli Usa Nel 1865, finita la Guerra Civile tra Nord e Sud, il governo degli Stati Uniti decise di risolvere la "questione indiana" attraverso due vie: quella affidata alle armi dell'esercito e quella che prevedeva di chiudere le tribù entro in confini di aree ben delimitate, le riserve. Quest'ultima operazione venne affidata alla Commissione per la Pace, che nel 1867 riunì a Medicine Lodge Creek le tribù meridionali. Alcune, tra cui Arapaho e Cheyenne e parte dei Sioux, accettarono. La politica delle riserve presentava l'aspetto umanitario di un'esistenza priva di guerre, cibo sufficiente e una prima embrionale assistenza medica. In cambio cancellava lo specifico culturale. Oggi le riserve, con estensioni molto differenti, sono oltre trecento, in gran parte federali e alcune statali. I cittadini statunitensi che dichiarano di avere sangue pellerossa sono più di un milione, ma molti fra loro sono meticci, frutto di rapporti con etnie differenti. Questo fatto ne ha reso più forte il sistema immunitario.

Corriere Salute 4.11.12
I ricordi ci servono a immaginare il nostro domani
Ma l'autobiografia mentale non è del tutto affidabile
di Danilo Di Diodoro


La ricerca sta dimostrando che, quando si prova a immaginare il futuro personale, si cade inevitabilmente in un trabocchetto: a partire da frammenti di vita passata si cerca di ipotizzare un nuovo scenario. Qualche volta ci si azzecca, ma più spesso no (e se non fosse così saremmo indovini), perché, infatti, sarebbe più razionale cercare di prevedere il proprio futuro sulla base di indizi provenienti dal l'esterno piuttosto che dall'interno. Alla base della previsione del proprio futuro c'è dunque la memoria personale, quello che si ha dietro le spalle, e questo è il nucleo centrale della teoria del professor Daniel Schacter, psicologo della Harvard University, teoria a cui ha dedicato un articolo la rivista New Scientist.
Si tratta di un capovolgimento di quella che era sinora ritenuta la funzione principale della memoria, ossia la conservazione dei ricordi, finalizzata soprattutto al mantenimento di un'identità personale. È verosimile che questa nuova apertura possa, nel giro di alcuni anni, portare allo sviluppo di modelli molto più complicati della memoria e delle sue funzioni. Le teorie del professor Schacter hanno ricevuto conferma anche da studi di visualizzazione cerebrale, e sono state sviluppate a partire dall'intuizione del professor Endel Tulving, attualmente al Rotman Research Institute di Toronto. Questi fu colpito dallo strano caso di un paziente sofferente di amnesia, che aveva perso la memoria episodica, quella su cui si fonda l'autobiografia interiore. Il paziente manifestava un'inaspettata incapacità di previsione del proprio futuro. Si trovava con la mente completamente vuota se gli veniva chiesto di dire cosa avrebbe fatto la sera o di illustrare i programmi per l'estate successiva.
«Non è così sorprendente che confondiamo memoria e immaginazione, — dice Schacter — considerando che condividono così tanti processi». L'ipotesi che la memoria non serva solo per ricordare episodi accaduti nel passato ma anche per immaginare scenari futuri sta ricevendo grande attenzione da parte dei ricercatori. Dice in proposito il professor Fabio Del Missier, del Dipartimento di Scienze della Vita dell'Università di Trieste, che da molti anni studia la relazione tra i processi di memoria e le procedure decisionali: «È ancora presto per trarre conclusioni definitive su questo argomento, soprattutto per quanto riguarda le basi neurali di immaginazione e ricordo, ma le ricerche che sono attualmente in corso sembrano confermare l'importanza della memoria, insieme ad altri processi, anche nell'immaginare scenari futuri e nel determinare le decisioni da prendere. Senza contare il fatto che un diverso filone di ricerca ha dimostrato come i ricordi degli eventi passati possano influenzare anche i processi di giudizio e stima che sono alla base di una varietà di comportamenti della vita quotidiana. Anche se non sempre siamo accurati, nei giudizi e nelle stime, nel prevedere il futuro, possiamo comunque sostenere che la memoria è un elemento fondamentale nella nostra capacità di adattamento all'ambiente».
La memoria autobiografica è comunque un puzzle al quale mancano molti pezzi. Possono mancare parti importanti della vita e invece essere in bella vista parti apparentemente di nessun rilevo. È evidente come sulla base di questo meccanismo la previsione del futuro basata sulla memoria autobiografica sia da considerare un processo basato su dati mancanti, dall'esito necessariamente poco affidabile. E c'è un altro motivo a monte di tale inaffidabilità: dato che esiste una stretta correlazione tra identità e memoria autobiografica, avvengono anche continui aggiustamenti sui ricordi per far sì che siano congruenti con l'immagine che ciascuno ha di sé. Ad esempio, una persona che si considera coraggiosa tenderà a far svanire dai propri ricordi un gesto poco coraggioso. «Il senso di chi sei e di come metti in atto la tua personalità sono strettamente collegati alla memoria autobiografica» dice la professoressa Robyn Fivush della Emory University di Atlanta, che da molti anni lavora sui rapporti tra memorie infantili, identità personale e gestione interiore dei traumi psicologici.
In sostanza nella mente di ciascuno esiste un filo rosso che lega il passato al presente. Ed è straordinario che gli esseri umani possano, senza rendersi pienamente conto dell'eccezionalità di tale fenomeno, viaggiare nel tempo nella propria mente, lungo questo filo rosso che parte dall'infanzia e che non si interrompe mai, almeno finché non intervengono gravi processi patologici cerebrali. Naturalmente a sostenere questa linea del tempo interiore è l'idea stessa del tempo che passa, idea che si sviluppa molto precocemente negli esseri umani, seppure al l'inizio in modo incompleto.
A due o tre anni i bambini usano termini come "ieri" o "domani", ma quando si indaga, si scopre che "ieri" si riferisce a ogni evento del passato e "domani" a ogni evento che si dovrà svolgere nel futuro.
I ricordi autobiografici hanno infine la caratteristica di poter uscire dai confini della singola persona. Una ricerca condotta dalla dottoressa Amanda Barnier della Macquarie University di Sydney, che studia i meccanismi attraverso i quali la memoria seleziona che cosa ricordare e cosa dimenticare, ha scoperto che all'interno delle coppie ci può essere uno scambio o una condivisione dei ricordi autobiografici. Le coppie intervistate conservavano più ricordi dei singoli componenti la coppia, ma spesso i ricordi dell'uno erano "spacciati" dall'altro come propri, in una confusione mnemonica di cui nessuno aveva più la minima consapevolezza.

Corriere 4.11.12
Come dimenticare attivamente


Se dalla ricerca sulla memoria arrivano diversi suggerimenti su come migliorare le proprie performance mnemoniche (si veda nella pagina accanto), i consigli si fanno più traballanti quando si tratta di provare a dimenticare.
Eventi dolorosi o imbarazzanti del passato tendono a riaffacciarsi alla mente involontariamente e tenerli fuori dalla coscienza può risultare davvero difficile. Secondo studi condotti da Emily Holmes, dell'Università di Oxford, i ricordi si fissano meno nella mente se, subito dopo l'evento che non si vuole ricordare, ci si impegna in attività cerebrali, ad esempio con un videogioco che richiede concentrazione (per esempio il conosciutissimo Tetris). Forse questa concentrazione sottrae energie al processo di cementificazione mnemonica dell'evento che non si vuole ricordare.
Un'azione altrettanto positiva sembra possa giocarla l'ascolto di musica rilassante, probabilmente perché ricolloca la mente in un ambiente sereno, sottraendo emotività negativa all'evento che non si vorrebbe ricordare. I ricordi, infatti, si fissano anche in base all'intensità delle emozioni da cui sono accompagnati.
«Alcuni studi condotti in passato hanno mostrato che impegnarsi attivamente nel tentativo di dimenticare può anche produrre il risultato opposto — dice il professor Fabio Del Missier, del Dipartimento di Scienze della Vita dell'Università di Trieste —. Seguendo questo ragionamento, per chi vuole dimenticare un evento sarebbe più opportuno cercare di focalizzarsi su un altro pensiero o ricordo ben definito, piuttosto che cercare di sopprimere un ricordo non voluto. Recentemente, alcuni ricercatori, tra i quali Michael Anderson del MRC Cognition and Brain Sciences Unit di Cambridge, nel Regno Unito, hanno avanzato l'ipotesi che le persone siano effettivamente in grado di mettere in atto processi di soppressione dei ricordi, possano insomma esercitare un certo grado di controllo sui ricordi non voluti. È un ambito sul quale si stanno svolgendo attualmente nuove ricerche, e in futuro si arriverà probabilmente a capire meglio anche l'altro aspetto della questione. Ossia, quali sono le conseguenze a lungo termine, oggi non del tutto conosciute, della soppressione dei ricordi con elevata valenza emotiva».
Una recente ricerca realizzata proprio da Michael Anderson, in associazione con Roland Benoit, utilizzando la Risonanza magnetica funzionale, e pubblicata sulla rivista Neuron, ha mostrato anche quali sono i meccanismi cerebrali che consentono di "dimenticare attivamente".
Un primo meccanismo è basato sulla disattivazione dell'ippocampo, sede, dei ricordi stabilizzati o comunque snodo per il loro recupero. Disattivazione che può avvenire in maniera volontaria attraverso stimoli provenienti da un'area cerebrale chiamata corteccia prefrontale dorso laterale destra. In sostanza, è l'interruttore interno che utilizziamo quando tentiamo di "spegnere" un ricordo sgradevole.
A questo meccanismo può aggiungersi il tentare di evitare gli stimoli associati a quel ricordo. «Talvolta si cerca di evitare persone, cose, pensieri, — spiega ancora Del Missier — ma è una strategia da usare con cautela perché rischia di diventare limitante per l'individuo e per la sua vita. Probabilmente una strategia più idonea potrebbe essere quella, oggi sostenuta da alcuni ricercatori, di accettare ed elaborare i pensieri e i ricordi non voluti, senza avere la pretesa di sopprimerli».
L'altro meccanismo cerebrale studiato da Anderson e Benoit è quello della sostituzione volontaria di pensieri, alla quale più o meno tutti ricorrono senza rendersene sempre pienamente conto. Questa sostituzione è possibile perché la coscienza ha una capacità limitata e non può ospitare contemporaneamente due diversi ricordi. «Dato che questa sostituzione di pensieri richiede il recupero di un ricordo alternativo, essa prevede un'attivazione dell'ippocampo e non una sua disattivazione» dicono Anderson e Benoit. E concludono: «La comprensione di questi due distinti sistemi di controllo dei ricordi non voluti potrebbe aiutare a sviluppare trattamenti in grado di trattare quei problemi psichici associati a una deficitaria regolazione della memoria, come quella che si presenta dopo un trauma».

Corriere Salute 4.11.12
Quei buchi nel passato causa di disagio profondo


C'è qualcosa che non va nella memoria delle persone che hanno subìto uno stress psichico acuto, ad esempio nel corso di una catastrofe naturale, come un terremoto, o in qualche azione di quella catastrofe artificiale che è la guerra.
Dopo l'esposizione a un evento traumatico, è possibile sviluppare il cosiddetto Disturbo post-traumatico da stress, caratterizzato da una sequela di sintomi psicologici, come uno stato di nervosismo costante, insonnia, irritabilità, oltre che dalla difficoltà di ricordare particolari di quello specifico evento traumatico. Paradossalmente, però, allo stesso tempo si può essere perseguitati proprio da ricordi non voluti. Sono i cosiddetti flashback, caratterizzati dal ripresentarsi alla mente, in maniera ossessiva e irrefrenabile, di sensazioni simili a quelle sperimentate durante l'evento.
La memoria è dunque al centro di questo disturbo, in parte perché non si riesce a ricordare, in parte perché in qualche modo non si riesce a dimenticare. Per molto tempo si è creduto che l'alterazione della funzione mnemonica fosse la conseguenza del Disturbo post-traumatico da stress, ma di recente diversi ricercatori stanno cambiando idea in proposito. Avanza l'ipotesi che per prima cosa potrebbe svilupparsi, proprio in seguito all'evento traumatico, il difetto della memoria, la difficoltà a ricordare attivamente; successivamente, a causa di questo difetto, fanno breccia nella mente l'ansia, l'irritabilità e i flashback non voluti.
È sulla base di questa ipotesi che alcuni ricercatori, come Tim Dalgleish della MRC Cognition and brain sciences unit di Cambridge, nel Regno Unito, stanno sviluppando un innovativo approccio terapeutico al Disturbo post-traumatico da stress. Ai pazienti viene chiesto non di provare a dimenticare, ma piuttosto di ricordare, di scavare nella propria memoria, con una tecnica chiamata Memory specificity training, basata su parole chiave che richiamano alla mente proprio i dettagli degli eventi traumatici.
Una ricerca realizzata su rifugiati afghani ha dato risultati incoraggianti, anche se non tutti gli esperti concordano sulla razionalità di questo approccio. Di sicuro il paziente viene coinvolto attivamente nel proprio trattamento psicologico, e probabilmente questo aspetto da solo contribuisce a scuoterlo dalla sua condizione.
Ma un'alterazione della memoria viene oggi considerata anche come possibile causa o concausa della depressione. Lo ha intuito il dottor Mark Williams dell'Addenbrookes Hospital di Cambridge, nel Regno Unito, durante una serie di test mnemonici di confronto tra pazienti depressi e non depressi: i primi tendevano a riferire ricordi molto più generici. Il dottor Williams si è allora chiesto se questa alterazione mnemonica potesse essere la causa della depressione, invece che la conseguenza.
In particolare, oggi i ricercatori concordano sulla differenza esistente tra vari tipi di memoria autobiografica: la "memoria specifica" (per esempio, "il giorno della mia laurea", con luogo ben definito e tempo non superiore a una giornata), e la "memoria generale" che può riferirsi a eventi generici (come "le feste che facevo con i miei amici"), oppure a eventi della durata superiore a un giorno (per esempio, "le vacanze del mese scorso"). Sono differenze apparentemente sottili, ma in realtà importanti perché questi diversi tipi di memoria autobiografica funzionano in maniera diversa nelle persone che soffrono di depressione e in quelle che non ne soffrono.
Una volta aperta la strada, altri ricercatori hanno seguito questa ipotesi con studi sperimentali, ad esempio quello realizzato su un gruppo di teenager, che ha dimostrato come quelli dotati di memorie solo generali avrebbero in futuro sviluppato più facilmente uno stato depressivo. Jennifer Sumner della Northwestern university di Evanston, nell'Illinois, ha pubblicato sulla rivista Behavioral Research Therapy una revisione con metanalisi di 15 studi, arrivando alla conclusione che effettivamente la genericità dei ricordi espone a cadute depressive. «Riuscire a ricordare eventi positivi del proprio passato dà automaticamente maggiori speranze per il futuro» dice la dottoressa Sumner.
Inoltre, dato che la memoria è lo strumento usato dalla mente, seppure in maniera tendenzialmente fallace, per organizzarsi e affrontare le sfide future, la carenza di specifici ricordi riduce le proprie abilità di problem-solving, la fiducia in se stessi, il che certamente espone a un maggior rischio di depressione.
Il passo successivo sarà quello di provare a mettere in campo nuovi trattamenti psicoterapici che abbiano l'obiettivo di aiutare le persone che soffrono di depressione a ricordare in maniera più specifica gli eventi della propria vita. «Solo circa la metà dei pazienti risponde a uno dei vari interventi disponibili per il trattamento della depressione — dice Sumner —. E di loro solo circa un terzo alla fine raggiunge una condizione di completa remissione dei sintomi. Quindi, sviluppare e testare tecniche per aumentare la specificità della memoria autobiografica può essere considerato senz'altro utile, verosimilmente sempre in associazione con le tecniche di psicoterapia cognitiva già esistenti». Anche per la depressione, così come per il Disturbo post-traumatico da stress, la tecnica che appare maggiormente promettente è il Memory specificity training.
«Risultati preliminari suggeriscono che questa tecnica possa risultare efficace nell'aumentare il livello di specificità della memoria, e tale incremento è risultato associato a una riduzione della ruminazione psicologica e a un incremento dell'efficacia dei processi mentali di problem-solving — spiega ancora la dottoressa Sumner —. Le future ricerche dovranno esaminare la migliore modalità per incorporare queste tecniche nei protocolli di trattamento già esistenti».

Corriere Salute 4.11.12
Vuoi «immagazzinare» tutto e più velocemente?

Allora gira gli occhi prima a destra e poi a sinistra

Chi non vorrebbe decidere liberamente che cosa ricordare e cosa dimenticare della propria vita? Sarebbe come costruire a tavolino la propria memoria, e quindi la propria identità. Ma non è facile. Certi eventi che si vorrebbero ricordare vengono dimenticati, altri che si vorrebbero dimenticare non si riesce proprio a cancellarli. La memoria può essere stimolata a ricordare, ad esempio tornando più volte sullo stesso ricordo.
È più o meno quello che si fa quando si studia. Guardare passivamente una pagina anche per ore non aiuta molto a ritenere quello che c'è scritto, ed è meglio ripercorrere i punti essenziali per valutare quanto si è appreso; ancora più utile è tornare a distanza di tempo sulle stesse pagine, per "lucidare" quanto si è imparato in precedenza. E questo vale anche per i ricordi della propria vita.
Si sa poi che un ruolo positivo sulle performance della memoria è giocato dall'attività fisica. Studi sperimentali hanno dimostrato che una semplice passeggiata di dieci minuti, e meglio ancora una corsetta, può migliorare la capacità di ricordare una sequenza di nomi, probabilmente perché l'organismo viene stimolato verso una condizione di allerta. Una curiosa indicazione viene da due ricercatori della Manchester Metropolitan University, Andrew Parker e Neil Dagnall. Secondo questi studiosi, in base ai risultati di una loro ricerca, sarebbe opportuno guardare alternativamente più volte verso destra e verso sinistra dopo aver studiato una lista di parole. Questo movimento faciliterebbe, almeno nei destrimani, la connessione tra i due emisferi cerebrali, facilitando la trasmissione e la diffusione delle parole studiate. Mancini e ambidestri non si gioverebbero invece di tale tecnica, dal momento che per loro è già naturalmente attivo un sistema di scambio di informazioni tra i due emisferi. Per chi vuole avere la certezza totale di poter fissare indefinitamente
un ricordo della propria vita esiste comunque un sistema infallibile ben conosciuto da tutti, cioè archiviare il ricordo non nel proprio cervello, ma fuori di esso, su una memoria informatica. Molti software sembrano creati apposta per sostituirsi alla memoria autobiografica, così come le agende informatizzate dei cellulari hanno annullato la memoria umana dei numeri telefonici. Applicazioni come Memory-life, o Evernote consentono di fissare un ricordo in uno specifico sito internet, sotto forma di testo, e-mail, foto, sito Internet, registrazione audio o video. Poi il ricordo può essere taggato con alcune parole chiave e recuperato, al momento del bisogno, attraverso un procedimento non diverso da quello della memoria naturale.
L'applicazione Hello consente di fare la stessa cosa con le persone che si incontrano e che possono essere catalogate, fotografate e corredate di una serie di informazioni personali.
Diventa, così, facile fare bella figura quando le si rincontrerà la volta successiva e le si potrà stupire con una gran quantità di particolari che le riguardano. E magari, anche se oggi sembra fantascienza, un giorno si riuscirà a trovare un modo per accedere
a questi siti, ma anche a tutto lo scibile della rete, direttamente dal proprio cervello, così da saltare la mediazione della tastiera.

l’Unità 4.11.12
Chi è il padrone del nostro Dna?
La vicenda della Myriad Genetics scatena il dibattito
L’azienda americana possiede, grazie a un suo test, il più grande database al mondo sulla predisposizione al tumore di seno e ovaie. E invoca il brevetto per tenerlo riservato
di Luca Landò


«ESISTE UN SOLO BENE», DICEVA SOCRATE RIFERENDOSI ALLA CONOSCENZA. Per fortuna del grande filosofo non c’erano uffici brevetti da quelle parti, altrimenti la celebre frase sarebbe stata interpretata diversamente. Come l’invito a trasformare in azioni e quote di mercato le nuove idee e i nuovi saperi. È proprio quello che ha fatto la Myriad Genetics, un’azienda americana specializzata nell’inventare (e brevettare) importanti test genetici e da qualche giorno protagonista di un acceso dibattito all'interno della comunità scientifica.
La vicenda è questa. Nel corso degli anni la Myriad Genetics ha raccolto e conservato i dati ottenuti analizzando il Dna di milioni di donne con un test di sua proprietà. I risultati sono stati poi inseriti in un archivio elettronico formando il più grande database al mondo sulla predisposizione genetica al tumore del seno e delle ovaie: una conoscenza preziosa che secondo gli oncologi e i biologi molecolari potrebbe aprire nuove porte alla prevenzione di questa grave patologia. Potrebbe. Perché i vertici dell’azienda hanno fatto sapere di non avere alcuna intenzione di rendere pubblico l’archivio elettronico. Il motivo è semplice, dicono: senza il test da loro inventato e brevettato, quelle informazioni non sarebbero mai esistite, tantomeno raccolte e catalogate.
La posizione della Myriad Genetics ha scatenato la rivolta del mondo scientifico riaprendo un annoso e delicato argomento: la conoscenza dei dati genetici è un bene pubblico o una ricchezza privata? E a chi appartengono quei dati? Al legittimo proprietario del Dna da cui sono stati prelevati o a chi ha inventato e brevettato la tecnica per raccoglierli? Un tema spinoso, come si vede. Anche perché il futuro della medicina è sempre più legato alla traduzione dei messaggi scritti all’interno del nostro codice genetico, aprendo nuove porte nel campo della prevenzione e della terapia ma anche nuove opportunità alle aziende di bioingegneria e biotecnologia. Il guaio è che nel vivace mondo della bioeconomia la libertà d’impresa finisce per mettere a dura prova sia i diritti dell’individuo che il bene collettivo. È il caso della Myriad Genetics, brillante azienda di Salt Lake City, nello Utah, che nel 1994 gettò nello sconforto la comunità scientifica annunciando di aver brevettato un gene (Brca) la cui presenza nel Dna di una donna indicava un maggior rischio di sviluppare un tumore al seno.
La ricerca di una possibile predisposizione ereditaria per questo tumore ha coinvolto nei primi anni Novanta i più importanti gruppi di ricerca americani ed europei. Il primo a identificare e sequenziare il gene responsabile di questa predisposizione (in realtà sono due: Brca-1 e Brca-2) fu proprio il fondatore della Myriad Genetics, Mark Skolnick che insieme al suo socio in affari il premio Nobel Walter Gilbert brevettarono sia il gene, anzi i geni, che il metodo che aveva reso possibile la scoperta.
Secondo la comunità scientifica, la mossa fu un autentico atto di pirateria: senza le precedenti conoscenze scientifiche, che gli altri ricercatori avevano reso di pubblico dominio, Skolnick non sarebbe mai riuscito a isolare e sequenziare il gene in questione. Sir Bruce Ponder, che negli anni Novanta guidò un gruppo internazionale di ricerca che gettò le basi scientifiche che portarono alla scoperta dei geni Brca, è quanto mai esplicito: «Quando la Myriad capì che eravamo vicini alla scoperta, raccolse 40 milioni di dollari, accelerò le ricerche e ci bruciò sullo scatto finale identificando il gene. Sono stati più rapidi di noi, non c’è dubbio, ma dovrebbero avere l’onestà di ricordare una cosa: il loro brevetto poggia ancora oggi su conoscenze scientifiche ottenute da ricerche finanziate con fondi pubblici. Hanno il dovere di restituire alla collettività quello che la collettività gli ha messo gratuitamente a disposizione». La Myriad, ovviamente, non sente ragioni. E il motivo è facile da intuire: solo nel secondo trimestre 2012 l’azienda ha fatturato oltre 105 milioni di dollari proprio grazie ai test per i geni Brca.
A peggiorare la situazione (e l’immagine della Myriad) si è aggiunto un altro fatto. Oltre a detenere i diritti su tutti i test per i geni Brca, l’azienda ha fatto sapere di voler tenere per sé un bene ancora più prezioso: tutte le informazioni «parallele» che vengono raccolte eseguendo i test. Come quelle variazioni genetiche il cui significato non è ancora noto ma che secondo gli scienziati potrebbero aprire nuove strade alla gestione del rischio tumorale e alla prevenzione. «Riuscire a capire il ruolo e il senso di queste mutazioni ci aiuterebbe ad aiutare le donne esposte al rischio di tumore al seno e, nel caso, ad adottare le prevenzioni e le terapie necessarie», dice Martina Cornel, docente di genetica e dirigente della Società europea di genetica umana.
«I dati sulle variazioni genetiche presenti nel Dna di una persona sono molto importanti», spiega David Scott responsabile della raccolta fondi di Cancer Research, l’associazione inglese per la ricerca sul cancro. «Ma quando il numero delle persone esaminate è molto vasto, come in questo caso, gli effetti sono potenzialmente dirompenti, perché potrebbero accelerare le conoscenze scientifiche sullo studio dei tumori e sulla possibilità di individuarli ed eventualmente curarli». E l’accento cade ancora una volta sul condizionale. Potrebbero. Perché è vero che la conoscenza è un bene, come diceva Socrate. Ma dipende da chi la brevetta.

La Stampa 4.11.12
Andrea Carandini: “La cultura? Per molti è ancora un lusso”
intervista di Alain Elkann


Il professor Andrea Carandini l’8 novembre terrà a Firenze, in occasione di «Florens 2012 - Biennale Internazionale dei Beni Culturali e Ambientali», una lectio magistralis che ha per titolo «La cultura»: che cosa dirà nell’occasione?
«Mi sono occupato tutta la vita di cultura ma, come diceva l’Avvocato Agnelli, “parlo con le donne ma non di donne”. Allora vorrei non parlare di cultura ma guardare la cultura per capire di che cosa si tratta. I vertici istituzionali, quando elencano i loro programmi, non la menzionano mai. La cultura è stata sostituita dai vari dispositivi tecnologici, eppure richiede attenzione e approfondimento».
Ma che cos’è la cultura?
«È la mediazione tra presente e passato in vista del futuro, e non lo studio del passato o del presente. Oggi in Italia viviamo in un presente piatto e grigio senza visione nè alle spalle nè davanti a noi. Si ha quasi l’impressione dell’abbandono della scienza e dello spirito, e ciò mi rattrista molto. La cultura oggi è principalmente scienza e tecnologia. Nelle scienze naturali esiste il progresso, e una verità spodesta la precedente. Ma nelle scienze dello spirito nulla mai si supera».
Ma la cultura umanistica va avanti?
«Sì, soprattutto quella molto specialistica in cui si ricostruisce il passato senza dialogo con il presente».
Ed esiste ancora l’arte contemporanea?
«Ho molta difficoltà nel valutare l’arte contemporanea perchè è qualcosa di troppo immediato. La distanza del tempo è un elemento molto utile per valutarla».
Oggi si può quindi valutare l’opera di Picasso?
«Sì, perchè sono passati tanti anni e quindi riusciamo a essere distaccati. Il dialogo risulta più efficace».
Ma la cultura è un lusso?
«Purtroppo viene ancora vista come un lusso e quindi in tempo di crisi vengono tagliati immediatamente i fondi. Eppure se i cinesi o gli indiani vogliono capire perchè la storia dell’occidente è diversa da quella dell’oriente, devono venire in Italia».
Perchè in Italia?
«Perchè fin dall’inizio del ’600 è stata il centro dell’occidente. La verità classica e il mondo antico sono state riscoperte con il Rinascimento che è stato una liberazione dal Medio Evo».
Anche gli occidentali devono conoscere l’arte orientale?
«Solo imparando e appropriandoci delle cose e facendole nostre abbiamo la possibilità di diventare grandi come il mondo».
La televisione, google e il telefonino aiutano a capire meglio?
«No, distruggono. Secondo me sono un’infinita perdita di tempo. Per conoscere il mondo i modi sono infiniti».
Quindilaveraricchezzanonèil denaro ma la conoscenza?
«Direi di più: tra essere e conoscere c’è un rapporto costitutivo originario. E la base della cultura è il gioco».
Perchè la cultura è gioco?
«Perchè il gioco è quello spazio intermedio che si crea tra il bambino e la madre, pensiamo all’orsacchiotto o al ciuccio. Quest’ultimo è il simbolo del seno, quindi tra noi e il mondo esterno si crea uno spazio terzo che è quello che si chiama appunto spazio culturale».
Tutti possono accedere alla cultura?
«Sì, perchè abbiamo bisogno di sospendere una vita ordinaria per accedere a una vita straordinaria: basta sostituire il tempo che dedichiamo alla distrazione a un divertimento più evoluto che dia maggiore felicità».
E come si può fare?
«Ci vuole più silenzio, solitudine, amore per lo sforzo, per la lettura. Del resto anche i campioni olimpionici si allenano e la cultura ha bisogno di allenamento celebrale».
A che cosa serve nella vita ordinaria l’allenamento cerebrale?
«La creatività che curiamo nel settore culturale si riverbera nel settore produttivo. Il fondatore di Eataly non ha inventato il prosciutto o l’insalata, ha fatto del prosciutto e dell’insalata un fatto culturale e così ha impiegato 500 giovani. Adriano Olivetti ha messo la cultura e gli uomini di cultura al centro della sua industria».
La Apple è cultura?
«Certo che lo è. E Steve Jobs ha primeggiato perchè ha saputo coniugare estetica e prodotto. Del resto lui da giovane studiava calligrafia».
E le università?
«Sono alla frutta in quanto drammaticamente decadute. Invece di dare un po’ di vino ai meritevoli, hanno distribuito indiscriminatamente acqua colorata e il sapore si è perso dappertutto salvo che in Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia e Germania dove esistono centri di eccellenza e la dimensione verticale del merito ha saputo armonicamente combinarsi con la dimensione orizzontale dell’uguaglianza».
Parlare del turismo culturale è importante?
«Parlarne no, e del resto se ne parla troppo senza fare nulla. Avevamo la vecchia guida Touring e l’abbiamo sostituita con il nulla».
Esistono siti sulle città italiane e i loro territori di buona qualità culturale?
«Non c’è nulla. Ma non sarebbe una grande impresa da varare, anzi servirebbe a far assumere giovani in modo che chiunque possa capire cosa c’è, cosa vedere, dove mangiare e dove dormire ad esempio a Ferrara».
E i siti archeologici?
«Stanno andando in rovina».
Chi li mantiene?
«Abbiamo a disposizione 86 milioni: la metà di quel che serve per costruire la nuova Brera».
E allora?
«Tra 15 anni l’Italia sarà in rovina per i terremoti, le frane e l’usura del tempo. E l’usura del suolo è sempre peggio perchè l’agricoltura è ridotta al minimo. Un tempo c’erano i mezzi per la manutenzione ordinaria dei beni culturali. Ma a forza di tagli tanto vorrebbe eliminare il ministero e abolire l’articolo 9 della Costituzione che dice che la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico artistico».

La Stampa TuttoLibri 3.11.12
Figlio di nessuno
I novantanove anni dell’autore di «Necropoli», voce degli sloveni della Venezia Giulia e dei croati dell’Istria
“Umiliati e offesi: Dostoevskij ci ha rivelato chi siamo”
di Giovanni Tesio


«Avevo sette anni, assistetti al rogo della Casa della Cultura, sentivo che era un’ingiustizia»
«Avrei voluto essere lo Spinoza di Rensi: Dio è nella natura, sono diventato col tempo panteista»
«Umberto Saba sta con Leopardi, ti parla della vita e dell’uomo con rara lucidità»
«La letteratura migliore affronta il tema del Male, come il Manzoni»

L’appuntamento è a Prosecco (Prosek), il mare davanti e il Carso alle spalle. Boris Pahor arriva puntuale con il carico dei 99 anni che non mostra, anche se li ha appena compiuti festeggiandoli con la sua «autobiografia senza frontiere» che s’intitola Figlio di nessuno, scritta con la collaborazione di Cristina Battocletti (Rizzoli). Per Pahor Trieste è esilio e residenza, una patria ingrata che – come sloveno – è costretto a vivere per amore e per forza. L’identità degli sloveni – ma insieme la difesa di ogni nazionalità conculcata – è diventata la bussola della sua navigazione, suo rovello e suo sestante, la spina della sua mente e ancor più del suo cuore. La fama di Pahor è cresciuta negli ultimi tempi (in Francia e anche in Germania molto prima, in Italia si può dire che sia scoppiata con l’edizione di Necropoli pubblicata da Fazi e prefata da Magris), ma lui scrive da sessant’anni e più, intrecciando drammaticamente la sua esperienza affettiva, culturale e letteraria ispirata alla causa slovena con l’universo vissuto come internato politico nei campi di Dachau, Natzweiler-Struthof, di Harzungen e di Bergen-Belsen. Stando alla biografia, il suo rapporto con i libri nasce con un rogo. «Sì, con il rogo che avvenne davanti al monumento a Verdi. Ma io ho assistito – avevo sette anni – anche al rogo dei sei piani del Narodni dom, la Casa della Cultura Slovena in piazza Caserma, oggi Oberdan. Capivo poco, ma sentivo che era
una cosa ingiusta. Il mio papà era fuori di sé, la mia mamma piangeva, io ero fuggito di casa con mia sorella di quattro anni per andare a vedere. Ma dopo la prima, furono bruciate a Trieste ancora una seconda e una terza Casa o Centro di Cultura slovena». Ripercussioni, personali, fa­ miliari? «Il mio papà allora era in servizio come fotografo della gendarmeria e quando andammo a vedere il secondo di questi roghi, ricordo che un amico gli disse: “Franz, è meglio che tu non ti mostri qua intorno”. In seguito, siccome poi volevano trasferirlo in Sicilia, si pensionò – una pensione ridicola – e si mise a vendere burro, miele e ricotta come ambulante in piazza Ponterosso». Tornando al rogo dei libri, se lei – col senno di poi – aves­ se deciso di diventare un uomo­libro come nel ro­ manzo di Bradbury Fahre­ neheit 451, quale libro sa­ rebbe stato? «Sarei stato lo Spinoza di Giuseppe Rensi, di cui possiedo l’edizione Bocca del ’44».
La ragione? «Mi pare che lo Spinoza spiegato da Rensi, e dunque non solo l’ Ethica, sia meraviglioso. Tutti gli esseri hanno un’anima. Tutto è vivo nella natura. Dio è nella natura, Deus sive natura. Io mi ritengo religioso ma non credente. Sono diventato panteista». Lei è stato però in seminario fino ai primi due anni del corso di teologia. «Sì, ma la storia è un po’ più lunga. Fino alla quarta la scuola elementare l’ho fatta in sloveno, poi arriva il Fascismo e cambia tutto. Costretto a fare la quinta in italiano, i miei pagarono un maestro perché mi aiutasse. Mio padre voleva che facessi una scuola di commercio e mi iscrisse a un biennio commerciale, ma mi bocciarono due volte, non perché non fossi intelligente, ma perché non ero per niente convinto. Allora i miei si decisero ad ascoltare il consiglio di farmi proseguire gli studi in seminario. Cosa che avvenne prima a Capodistria e poi a Gorizia».
Fu un’esperienza formativa? «A parte il mio progressivo distacco dalla Chiesa come istituzione, lì capii che nessun potere poteva obbligarmi a cambiare identità. Insieme con altri miei compagni di nascosto facevamo studi di cultura slovena. Cercavamo libri come sigarette di contrabbando. Ho dovuto fare partita doppia: da un lato studiare per essere promosso, dall’altra approfondire lo sloveno (per forza di cose il mio sloveno era scadente), la sua storia, la sua letteratura». Quali gli autori sloveni predi­ letti? «Faremmo notte se volessi darle una risposta esauriente. Mi limiterò a dire i racconti di Ivan Cankar, le poesie di un prodige come Sreko Kosovel, il grande lirico Francè Prešeren (mirabile il suo serto di sonetti), l’opera di Edvard Kocbek (specialmente Tovarišija, ossia Compagnia), su cui – dopo avere tergiversato su una proposta di Diego Valeri – feci poi la tesi con il professor Arturo Cronia all’Università di Padova». Al di là degli sloveni più suoi, una lettura di allora che sia ri­ sultata fondamentale? «Certo Dostoevskij di cui lessi tutto il possibile. Ma il libro cardinale fu per me Umiliati e offesi. Quando ho letto quel libro, mi sono detto: siamo noi, gli sloveni della Venezia Giulia, noi e i croati dell’Istria. E feci una specie di giuramento: se fossi arrivato a scrivere qualcosa sul serio avrei scritto il tema degli umiliati e offesi. E di fatto tutti i miei libri sono legati a questo tema». Tralasciando il tema dei cam­ pi della morte, che come scrit­ tore le ha dato la notorietà, anche il sanatorio ha contato. «Certo, il sanatorio di Villierssur-Marne. È stata la mia Sorbona. Lì ho affrontato molti classici e soprattutto i moderni, ad esempio Camus, Sartre, Vercors. Di Camus apprezzo tutto. Non fu troppo chiaro sulla questione algerina, ma aveva ben percepito da subito che con il comunismo non si sarebbe andati lontani». Vedo che per dritto e per tra­ verso è pur sempre la spina nel cuore dell’identità slove­ na a darle il maggiore assillo. «Certo. E temo che lei non scriverà quanto sto per dirle. L’Italia politica si ricorda delle foibe e degli esuli, ma tace di tutto ciò che ha fatto il Fascismo contro gli slavi. Non parla del Fascismo antislavo né dei crimini della Slovenia occupata dal ’41 al ’43 e dei campi di concentramento fascisti». Per contiguità, se penso alla cultura triestina e giuliana, penso a personaggi straordi­ nari come Svevo, Slataper, Saba, Cergoly, Marin… «Tenga conto che io ho conosciuto i triestini da sloveno. Svevo non è tra i miei amati. Slataper purtroppo non lo ricorda nessuno nelle scuole, ma lui – “pennadoro”, come significa il suo nome – gli sloveni li stimava. Cergoly era simpaticissimo e l’ho frequentato. Dirigeva il “Corriere di Trieste”, il giornale del Territorio
Libero di Trieste, un giornale di informazione ben fatto e finanziato dagli sloveni. Ho conosciuto anche Marin, che stimo molto come poeta ci siamo scritti, sono stato invitato da lui a Grado, mi ha mostrato le sue conchiglie. Era uno dei redenti che quando si è trovato in Italia si dispiaceva di aver perso la parte austriaca».
E Saba? «Saba sta con Leopardi. È un poeta che si legge, che ti parla della vita e dell’uomo con estrema lucidità. Tutta la grande poesia è poesia che non deve avere bisogno dell’interprete per capirla». Come insegnante di lettera­ tura italiana nelle scuole slo­ vene, a quali classici ha pro­ posto con più convinzione? «A parte Dante, sicuramente Manzoni, pagine che si leggono e che non studi per capire. Non Joyce, non il nouveau roman. Magari meravigliosi dal punto di vista tecnico, ma difficili da mettere in mano a gente non colta, non preparata. Scrittori utili, anche se conosco il dibattito sull’inutilità della letteratura. Io sono per una letteratura umanamente impegnata e penso che la migliore letteratura del mondo sia quella che affronta il tema del male». Non è proprio quanto fa Manzoni? «Appunto. Ma lo fa raccontando dei fatti e soprattutto scrivendo un romanzo che si spiega tutto da sé. I promessi sposi è un Umiliati e offesi. Quel gran libro io lo leggo così». Ricorda il primo libro che ha letto? «Potrebbe essere Pod svobodnim soncem (Sotto il sole libero) di Fran Saleški Fingar». Quale sta leggendo in questi giorni? « La bataille du silence. Souvenir de Minuit di Vercors, un libro edito da la Presse de la Cité nel ’67». Proprio Vercors («Le silence de lamer») mifapensareaTrieste tra Carso e mare. Noto che le metafore marine nella sua opera sono predominanti. «Amo sia il Carso sia il mare. La maggioranza dei triestini sloveni o sono di origine carsolina oppure della valle di Vipava (Vipacco). Ma io sono nato davanti al mare, nel ghetto ebraico, in Via del Monte, cheèancheinunapoesiadiSaba. Da bambino ho fatto l’esperienza del mare. E poi non dimentico Baudelaire, “Homme libre, toujours tu chériras la mer! ».

Repubblica 4.11.12
Quando Costantino creò la tolleranza religiosa
di Giuseppe M. Della Fina


A 1700 anni dall’editto di Milano sulla libertà di culto la città celebra l’imperatore e sua madre Elena Decenni di grandi trasformazioni sono al centro della mostra “Costantino 313 d. C. L’editto di Milano e il tempo della tolleranza” allestita negli spazi di Palazzo Reale a Milano (sino al 17 marzo 2013). I curatori, Paolo Biscottini e Gemma Sena Chiesa, hanno voluto e saputo rendere conto della complessità di una fase storica in cui ancora convivevano il mondo pagano che stava andando verso il suo superamento e il mondo cristiano che veniva affermandosi.
Tale groviglio di attese, di speranze, di paure si ritrova nella decisione che Costantino e Licinio – nel racconto dello scrittore cristiano Lattanzio – presero nel corso di un incontro avvenuto millesettecento anni fa nei pressi di Milano, una delle città principali dell’Impero come anche recenti indagini archeologiche confermano: essi vollero – sulla scia di un editto precedente emanato da Galerio nel 311 d. C. - concedere: “la libertà di seguire la religione in cui ciascuno crede, affinché qual si voglia sia la divinità che sta in cielo possa essere benevola e propizia nei nostri confronti e in quelli di tutti i nostri sudditi”.
Una risposta che prende atto della forza di penetrazione del messaggio cristiano, che aveva ormai conquistato fasce ampie della popolazione e una parte significativa delle classi dirigenti, e, al contempo, della paura di rompere un equilibrio religioso – che agli occhi ancora di buona parte degli uomini del tempo aveva assicurato una sufficiente armonia nel rapporto con il divino per secoli.
Lungo il percorso espositivo scorrono i protagonisti e i simboli di quella stagione: Costantino, innanzitutto. Tre ritratti – posizionati vicino – e provenienti da York, (il luogo dove proclamato imperatore), da Roma e da Naissus (Niš, dove era nato), offrono visivamente la complessità della sua figura. Tanto che non sembrano raffigurare nemmeno la stessa persona e la differenza non è data solo dal trascorrere del tempo, o dal peso del potere, o dalla necessità di rivolgersi a genti diverse. Sono i ritratti di un uomo molteplice, che diviene sintesi dei contrasti del suo tempo. Poi la madre Elena che abbracciò il cristianesimo con maggiore convinzione e senza le mediazioni imposte dal ruolo istituzionale e politico del figlio. Quasi una nuova Maria nella riproposizione degli scrittori cristiani contemporanei o di poco successivi: il vescovo Ambrogio arrivò ad affermare: “Costantino fu sì beato, ma lo fu per una tale madre! ”. In mostra le immagini di Elena ritornano più volte e appartengono ad epoche diverse, ma quella che rimane più impressa è la Santa raffigurata da Cima da Conegliano in un olio su tavola giunto dalla National Gallery of Art di Washington: Elena è una giovane donna in abiti regali che tiene la Croce, sullo sfondo è un paesaggio che infonde pace. Un’altra presenza centrale nell’esposizione è il Cristogramma formato dalle due lettere greche iniziali del nome di Cristo, (Chi Ro) il simbolo che sarebbe apparso a Costantino prima della battaglia di Ponte Milvio contro Massenzio accompagnato dalla frase In hoc signo vinces: Piero Dello Francesca immortalò quel sogno ad Arezzo, qui il simbolo appare riprodotto su opere preziose e su semplici lanterne a indicarne il valore simbolico e la diffusione. Infine in mostra – a completare il quadro del periodo - sono esposti gli scettri e altre insegne imperiali attribuite allo sconfitto Massenzio che qualcuno dei suoi seguaci aveva sepolto con cura: sono state rinvenute in un recente scavo archeologico effettuato a Roma, alle pendici del Palatino.

Corriere La Lettura 4.11.12
Nel cuore dell'impero assiro
La ricostruzione del tessuto rurale e urbano di Ninive
Qui nacque e si affermò il primo regno globale della storia
di Daniele Morandi Bonacossi


La riscoperta dell'Assiria e delle vestigia del primo impero globale della storia, esteso dalla Mesopotamia al Delta del Nilo, fu uno dei prodotti certo secondari, ma assai significativi, del Secolo dei Lumi e del vivace interesse verso il recupero delle civiltà antiche nato in Francia, ma presto diffusosi anche in Inghilterra, a partire dalla spedizione napoleonica in Egitto (1798-99) e dalla monumentale «Descrizione dell'Egitto» redatta dai savant di Napoleone, che di quella campagna costituì la più straordinaria ricaduta scientifica.
In quella temperie culturale post-illuminista maturarono le prime ricerche archeologiche condotte nella provincia ottomana di Mosul, nel nord dell'Iraq, dal viceconsole francese di origine italiana, Paolo Emilio Botta, e dall'inglese Austen Henry Layard, i quali — tra il 1842 e il 1849 — effettuarono straordinarie scoperte nelle tre successive capitali dell'impero assiro: Kalhu (odierna Nimrud), Dur-Sharruken (Khorsabad) e, da ultima, Ninive (Quyunjiq).
L'arrivo di dozzine di sorprendenti rilievi che descrivevano le imprese di conquista dei sovrani assiri e delle statue colossali di tori androcefali al British Museum e al Louvre, dove la collezione di antichità assire scavate da Botta a Khorsabad si arricchì rapidamente a dismisura tanto da portare all'apertura della prima esposizione pubblica di arte assira già nel 1847, fu accompagnato da un enorme successo di pubblico.
Oggi, per colmare i vuoti di una esplorazione archeologica negli ultimi decenni fortemente compromessa dalle guerre, la Missione archeologica italiana in Assiria dell'Università di Udine ha iniziato — tra luglio e ottobre 2012 — un nuovo progetto di ricerca interdisciplinare nell'entroterra dell'antica Ninive, denominato «Progetto Archeologico Regionale Terra di Ninive».
Obiettivo della ricerca è la ricostruzione del tessuto insediativo, economico e demografico dell'entroterra rurale di Ninive fra preistoria ed età islamica e della trasformazione dell'ambiente naturale antico come conseguenza di variazioni climatiche e dell'impatto che le attività di sussistenza dell'uomo, soprattutto agricoltura e pastorizia, ebbero sul territorio. Particolare attenzione viene rivolta all'insediamento e all'utilizzo del territorio in epoca neo-assira, soprattutto nelle sue risorse fondamentali, terreni agricoli e acqua, e alla rete infrastrutturale creata dagli ingegneri dell'impero (canalizzazioni, dighe, sbarramenti di corsi d'acqua e rete viaria), la cui ricostruzione permetterà per la prima volta di comprendere l'organizzazione di quello che fu il cuore geografico, politico e culturale di uno dei primi imperi della storia.
Le ricerche condotte dall'Università di Udine hanno permesso d'individuare quasi 250 siti archeologici distribuiti nella campagna di Ninive e datati fra il VII millennio a.C. e l'epoca ottomana. La gran parte di questi insediamenti era abitata in età tardo assira, fra l'VIII e il VII secolo a.C., epoca in cui il re assiro Sennacherib (705-681 a.C.) abbandonò la vecchia capitale fondata dal padre, Sargon, a Dur-Sharrukin/Khorsabad, per spostare il centro del suo impero nella città di Ninive e costruire una capitale di dimensioni (750 ettari rispetto ai precedenti 200) e splendore mai visti prima di allora. Le iscrizioni di Sennacherib menzionano la deportazione di quasi mezzo milione di prigionieri di guerra in Assiria e in particolare a Ninive e nel suo territorio.
Contemporaneamente, tra il 702 e 688 a.C. circa, il re assiro costruì una grande e articolata rete di canali d'irrigazione nella regione pedemontana a nord di Ninive, dove opera la missione italiana. Al ramificato sistema irriguo dell'entroterra di Ninive, ancora poco conosciuto in sé, si collegavano elementi edilizi e monumentali di grande importanza: il primo acquedotto in pietra della storia (Jerwan) e una serie di rilievi rupestri di grandi dimensioni raffiguranti il re e le principali divinità assire nei siti di Khinis, Shiru Maliktha, Faideh e Maltai. Nelle iscrizioni celebrative che accompagnavano i grandi rilievi fatti scolpire dal sovrano a Khinis, Sennacherib vantava di aver deviato le acque dei fiumi in diciotto aree distinte e di averle fatte confluire in un sistema di canali che forniva acqua per l'intero arco dell'anno ai campi della pianura di Ninive «che, a causa della mancanza d'acqua, erano caduti in abbandono ed erano coperti da ragnatele, mentre i contadini, che non conoscevano le tecniche d'irrigazione artificiale, rivolgevano gli occhi al cielo aspettando la pioggia».
La ricognizione archeologica ha permesso di evidenziare l'esistenza nella «Terra di Ninive» di una fitta rete di piccoli insediamenti agricoli e fattorie che punteggiavano la campagna assira e si allineavano in molti casi lungo la rete di canali regionali costruita da Sennacherib per una lunghezza complessiva di oltre 160 chilometri. Una simile distribuzione spaziale dell'insediamento indica che questo monumentale sistema idraulico era in grado d'irrigare un'area dell'Assiria settentrionale ben più grande dell'immediato entroterra della capitale. L'intera fascia rurale pedemontana a nord di Ninive traeva dunque beneficio dai canali di Sennacherib, ottenendo, grazie a questo enorme intervento di pianificazione territoriale e di creazione d'infrastrutture su scala regionale, un innalzamento del rendimento agricolo accompagnato da una considerevole riduzione del rischio di perdita dei raccolti a causa della siccità, una piaga ricorrente nella regione allora come oggi.
Lungo un tratto del canale, presso il villaggio di Faideh, la missione italiana ha compiuto una scoperta eccezionale: sei rilievi assiri scolpiti nella parete rocciosa del canale affioravano dal terreno che ne colmava l'antico letto. I rilievi, raffiguranti verosimilmente una processione cui partecipavano le divinità principali del pantheon assiro, come nel caso dei pannelli scolpiti nella roccia presso Maltai, si sommano ad altri tre analoghi rilievi noti fin dagli anni 70 del secolo scorso, costituendo così un complesso monumentale straordinario e assolutamente unico, la cui integrità è purtroppo seriamente minacciata dalle attività industriali svolte nel vicino villaggio.
La ricognizione del grande canale che da Khinis portava a Ninive, che il sovrano assiro aveva chiamato «Canale di Sennacherib», ha riservato altre grandi sorprese. Fino a oggi, infatti, il mondo scientifico tendeva a ritenere che il grande acquedotto di Jerwan, costruito per permettere al «Canale di Sennacherib» di valicare una stretta valle fluviale lungo il suo percorso per Ninive, costituisse un'opera d'ingegneria unica e ineguagliata. Le ricerche sul campo hanno permesso d'individuare altri cinque acquedotti analoghi, costruiti con gli stessi blocchi squadrati di calcare e la stessa tecnica impiegata nell'acquedotto di Jerwan. Gli acquedotti romani costruiti per portare acqua alla capitale a partire dalla fine del IV secolo a.C., che indussero Plinio il Vecchio (Naturalis Historia XXVI, 123) colmo di ammirazione ad osservare che «chi vorrà considerare con attenzione … la distanza da cui l'acqua viene, i condotti che sono stati costruiti, i monti che sono stati perforati, le valli che sono state superate, dovrà riconoscere che nulla in tutto il mondo è mai esistito di più meraviglioso», avevano avuto illustri antecedenti nell'Assiria di quattro secoli prima.
Università degli Studi di Udine
Direttore della Missione archeologica italiana in Assiria

Corriere La Lettura 4.11.12
Raperonzolo rimase incinta
Crudeltà, sesso e mamme cattive: i fratelli Grimm senza le censure
La matrigna di Biancaneve era in realtà sua madre
di Cristina Taglietti


Tutti sanno che Raperonzolo, rinchiusa nella torre, cala dalla finestra la lunga chioma bionda e permette al reuccio di salire fino alla sua stanza. Quello che non tutti sanno è che, dopo «essersela spassata per un po'», la bella principessa si ritrova con i vestiti troppo stretti e due gemelli in arrivo, destinati a nascere fuori dal matrimonio, nel deserto dove la poverina viene esiliata. I fratelli Grimm, in realtà, questa storia la raccontarono una volta, nel 1812, nella prima edizione delle fiabe che nel corso degli anni vennero rimaneggiate. Nel 1857 uscì la raccolta definitiva, l'edizione standard a cui tutte le successive faranno riferimento. Un'edizione in cui, tra le altre cose, si omette di dire che la matrigna di Biancaneve, quella che manda il cacciatore a ucciderla raccomandandogli di portarle il cuore, è in realtà la vera, vanitosa, madre regina (come una madre naturale era quella di Hansel e Gretel). Nel 1812 c'erano anche sgozzamenti e squartamenti e, in generale, una quantità di sangue che poi verrà asciugato.
Ora, in occasione dei duecento anni di quei primi «Kinder- und Hausmärchen» (Fiabe), Donzelli pubblica La principessa Pel di Topo e altre 41 fiabe da scoprire, una selezione dalle 156 originarie a cura di Jack Zipes, studioso di letteratura per ragazzi di fama mondiale, che a Jacob e Wilhelm Grimm ha dedicato anni di studio, analizzando tutto il loro lavoro di folkloristi. Così, accanto a fiabe classiche, ma in versioni poco note, come «Il gatto con gli stivali», «Barbablu», «Pollicino», «Raperonzolo» e «Biancaneve», ce ne sono altre praticamente inedite in Italia, come quella che dà il titolo al libro, o come «Le bambine e la grande fame», dove una madre in miseria, invece di sacrificarsi per le figlie come vorrebbe l'iconografia dell'amore materno, vuole mangiarle. O come «Certi bambini si misero a giocare al macellaio», dove il piccolo che fa la parte del macellaio sgozza quello che fa la parte del maiale. A dare i volti a vecchi e nuovi protagonisti c'è la matita sensibile di Fabian Negrin.
Il grosso delle revisioni le fece Wilhelm che attenuò la crudeltà di alcune storie. «A prevalere — spiega alla "Lettura" Zipes — non furono criteri cristiani o moralistici, ma letterari. Tuttavia, nei rimaneggiamenti successivi, i due studiosi cercarono di ridimensionare ogni aspetto delle fiabe che potesse offendere i lettori della media borghesia tedesca. Oltretutto, ricevettero dalle loro fonti moltissime varianti delle stesse storie e Wilhelm, che era un artista, cercò di prendere da esse motivi ed elementi per modellare esteticamente le fiabe in modo che avessero il suono poetico dell'oralità». Le fiabe raccolte dai Grimm non erano scritte per i bambini (allora la letteratura per l'infanzia era un genere che non esisteva) e nella loro prima edizione erano scarne, con dialoghi secchi e azione rapida. La famiglia, in questa tradizione, appare un luogo estremamente pericoloso, in cui nemmeno l'amore dei genitori è al riparo da derive efferate. «Nell'ambito famigliare si consumano crimini come incesti, stupri, torture, bullismo — spiega Zipes —. È per questo che le fiabe e il folklore continuano a interessarci: perché sono drammi in cui gli esseri umani mettono in scena desideri, invidia, odio e speranza. È affascinante che quasi tutte comincino con un giovane, o una giovane, che viene bandito dalla famiglia, mandato in missione, picchiato o minacciato. C'è proprio una spiccata predilezione a mostrare come i bambini debbano imparare a sopravvivere. Si comincia sempre con un conflitto che deve essere risolto».
Anche Philip Pullman ha appena pubblicato in inglese una sua selezione di 50 fiabe dei Grimm (le pubblicherà Salani nel 2013): pure lì molte sono poco note, comunque prese dall'edizione standard del 1857. A Zipes la scelta di Pullman è piaciuta: «Riesce a prestare la sua voce vigorosa alle favole senza cambiarle troppo» dice lo studioso che, peraltro, apprezza anche la completa riscrittura in chiave femminista che Angela Carter ha fatto di alcune storie dei Grimm e di molte di Perrault ne La camera di sangue. Quello che non gli piace sono certe versioni cinematografiche. Zipes ne ha analizzate circa 500 nel suo libro The unknown history of fairy-tale films, uscito due anni fa negli Usa: «Il pubblico occidentale si è disneyficato e pretende film convenzionali che non sono particolarmente interessanti, quando invece ne esistono di favolosi come quelli di Michel Ocelot, Garri Bardin, Jim Henson e molti altri».

l’Unità 4.11.12
È arrivato l’e-book store
L’Unità è il primo quotidiano a vendere libri digitali
Da domani ben 38mila titoli potranno essere acquistati on line, dai gialli ai libri
del Papa, da Ken Follett ai grandi romanzi
di Maria Serena Palieri


EBOOK.UNITA.IT È L’INDIRIZZO AL QUALE, DA DOMANI, I LETTORI DELL’UNITÀ TROVERANNO IN VENDITA 38.000 TITOLI in formato digitale: dai romanzi ai saggi, dai libri di studio ai manuali, lo «store» offrirà la possibilità di comprare, con un clic, tutti i titoli che l’editoria italiana ha digitalizzato, grazie all’accesso alle quattro principali piattaforme in cui essi sono in vendita, Edigita, Mondadori, BookRepublic e Stealth. Prezzi dallo zero dei titoli in promozione allo 0,99% cui vengono venduti fin qui molti dei libri in formato ebook fino ai prezzi più alti delle novità che nascono sia in cartaceo che in digitale. Pagamenti con carta di credito o in PayPal. Formati e Pub, pdf o Mobi (quest’ultimo compatibile col Kindle di Amazon) e possibilità di leggere i testi dove che sia, su computer, su smartphone, su tablet, su e reader.
L’Unità è il primo quotidiano nazionale a offrire questo servizio. Lo offre in partnership con Simplicissimus BookFarm, il marchio che ha esordito nel 2006 (primo in Italia) importando e reader e che, con una di quelle quattro piattaforme, Stealth, oggi lavora soprattutto nella distribuzione dei contenuti. La formula studiata insieme consentirà ai lettori di trovare nello stesso store Unità anche i libri digitali prodotti da altre testate (p.es. i Libri di Repubblica).
Ma leggiamo insieme il contesto in cui nasce questa proposta. Con una scusa dovuta: perdonateci se infarciamo la prosa di termini tecnici in inglese, ma il fatto è che l’ebook è una rivoluzione globalizzata, e quindi è in questo nuovo esperanto che essa si esprime. Partita in ritardo, rispetto al mercato anglosassone, la battaglia italiana per il libro digitale ha decollato nel 2010: a gennaio di quell’anno i titoli in ebook erano 1.619, a ottobre dentro il padiglione Italia della Buchmesse partì la corsa, con gran sguainar di sciabole, a dicembre i libri disponibili erano 5.900. Due anni dopo si sono sestuplicati. E crescono al ritmo di 200 a settimana. Il che non significa che il mercato si espanda allo stesso ritmo, perché le vendite ancora non superano l’1% di quelle complessive. Se i grandi gruppi editoriali vanno sperimentando tutte le possibilità che la rivoluzione consente, tra gli editori piccoli e medi si procede con più cautela nell’innovazione, vista la crisi. Ma è anche vero che ogni giorno vanno nascendo marchi che optano direttamente per il solo digitale, da Quinta di copertina a Blonk.
Che la rivoluzione ormai sia un dato di fatto non c’è chi lo neghi. Tra i funerali che vengono celebrati, luttuosi, per il libro di carta (ma sarà vero che è destinato a scomparire?), del nuovo che avanza si cominciano a vedere più vantaggi: per il lettore ingombro e maneggevolezza e, in certi casi, possibilità di leggere a costi bassi, per l’editore le potenzialità ipertestuali così come la possibilità di ritirare fuori titoli di catalogo estromessi dalle librerie a causa del turn over, per gli aspiranti scrittori l’accesso al self publishing... E certo, è una rivoluzione, e questo significa discontinuità: nascono forme di lettura in «community», collettive anziché intime. Un bene o un male?
Torniamo alla novità di oggi, a questo nuovo indirizzo: ebook.unita.it. Dalle «Cinquanta sfumature» dell’eros grigio, nero e rosso ai libri di papa Ratzinger, dagli Idòla di Laterza che smentiscono i luoghi comuni in cui siamo forzati a credere (vero che il Welfare State non sia più sostenibile?) al Ken Follett che riscrive in romanzo il Novecento, sullo store Unità trovate tutto ciò che in digitale, in Italia, esiste.
E, visto che si vara una nave, può mancare l’equivalente della bottiglie di champagne da rompere sulla chiglia? Può mancare l’iniziativa promozionale? Dal 12 novembre ogni settimana un titolo verrà lanciato a un prezzo speciale. Gialli, gialli digitali.
Ultima nota, il self publishing. Simplicissimus ha uno spazio apposito, battezzato con acume Narcissus (i libri autoprodotti in gergo inglese, dal 1941, si chiamano vanity published). E il nuovo store aprirà un concorso a chi si auto produce. In giallo. Il tredicesimo titolo della collana offerta in promozione sarà il vincitore della gara.
E allora buona lettura. Anzi, buona e-lettura.