martedì 6 novembre 2012

Corriere 6.11.12
Obama senza più voce «Difendo i vostri sogni»
Il guru Axelrod: «Vince lui. E io mi terrò i baffi»
di Massimo Gaggi


DES MOINES (Iowa) — «Comunque vada domani, è la fine di un viaggio incredibile, un'esperienza anche umana straordinaria, irripetibile. Da mercoledì mi riprendo la vita: torno da mia moglie, mi dedico al mio istituto di studi politici. E mi tengo i baffi: vinceremo».
David Axelrod, da anni il braccio destro di Barack Obama, si lascia avvicinare, cordiale, mentre gironzola dietro al palco del comizio nella piazza del Campidoglio di Madison, la capitale del Wisconsin. Il presidente sta già parlando. Fa freddo, c'è un sole pallido. È la prima tappa di una giornata particolare. Vigilia del voto, certo, ma anche fine di una storia politica: quella di Obama «campaigner», uomo che raccoglie voti per essere eletto.
A qualche metro da «Axe», gli altri uomini del team: David Plouffe, il capo di gabinetto Jack Lew, Robert Gibbs. Il portavoce Jay Carney parla in un angolo con Ben Rhodes, numero due del Consiglio per la sicurezza nazionale. Hanno tutti e due la barba lunga.
Una licenza possibile perché sono per qualche giorno lontani dai riflettori della sala stampa della Casa Bianca? «No, scaramanzia». Oggi, a urne aperte, il rito propiziatorio degli uomini del presidente sarà un pranzo al ristorante The Gage di Chicago, come quattro anni fa. Manca solo Jim Messina, rimasto nel quartier generale della campagna a mettere in moto «la bestia»: l'imponente macchina creata negli anni per portare alle urne il maggior numero possibile di elettori democratici. Una banca dati sterminata, milioni di profili personali, centinaia di migliaia di volontari.
Tocca a loro, oggi, spingere ai seggi il maggior numero possibile di simpatizzanti: in America la partecipazione al voto è sempre bassa e stavolta i democratici sono molto meno motivati che nel 2008. Lo si vede a occhio nudo anche in questa ultima giornata della campagna. Obama, con la voce sempre più roca, arriva esausto alla meta: recita per l'ennesima volta il copione delle promesse rispettate, del presidente che fa quello che dice. Che non entusiasma più ma è un tipo di cui ci si può fidare. Uno che dice la verità, anche quando è sgradevole.
A Madison c'è molta gente, almeno 20 mila persone, ma il tifo non è certo da stadio: l'unica ovazione arriva al momento dell'abbraccio con Bruce Springsteen, venuto a puntellare il suo presidente. Più tardi, a Columbus, in Ohio, arriva anche Jay-Z che canta una versione «purgata» della sua 99 Problems sostituendo la parola bitch (puttana) con Mitt. Nemmeno il Boss è troppo caloroso: «Mi ha chiamato lui — racconta imitando la voce profonda del presidente —. Sono Obama. Senti Bruce, ho bisogno del tuo aiuto per arrivare in fondo a questa campagna. E io sono venuto. Perché? Perché finalmente volo sull'Air Force One, e perché questa è l'ultima occasione per inseguire i nostri sogni e le nostre speranze. Perché Obama ci ha dato una sanità migliore e ha salvato l'industria dell'auto. Perché difende i diritti delle donne». E chiude cantando The Land of Hope and Dreams.
Ultime battute con gli uomini del presidente che ostentano sicurezza ma, in realtà, temono l'imponderabile di un arrivo in volata. E con un Obama a disagio nell'interpretazione della sua stessa campagna. L'ultimo giorno torna su «change» e «hope». Cambiamento, speranza: slogan ormai inutilizzabili, avevano decretato i suoi esperti, che hanno costruito una campagna più pragmatica, persino brutale. Ma questa, alla fine, è la sua cifra. Barack la ritira fuori nelle ore in cui chiude la sua corsa a perdifiato da un angolo all'altro dell'America a Des Moines, in Iowa: il luogo in cui cinque anni fa iniziò la sua avventura presidenziale con la prima vittoria nelle primarie contro Hillary Clinton.
«Momenti indimenticabili, non vivremo mai più niente di simile — ricorda quasi commosso Axelrod —. Oggi siamo come una band che si scioglie».
È giusto celebrare, ma, in questo nostalgico viaggio d'addio, il confronto tra l'entusiasmo di allora e l'affanno di oggi è impietoso. Sicuri di farcela? Lei ha scommesso i baffi.
«Sa che esiste un'associazione? Mi hanno criticato. Dicono che tratto con leggerezza una cosa seria, che sui baffi non si deve scommettere. E mia moglie è preoccupata: non mi ha mai visto senza, li ho da 40 anni. Le ho detto di stare tranquilla, so quello che faccio. Vedrete domani».

Corriere 6.11.12
I «Dreamer» in soccorso di Obama
di Paolo Valentino


Li chiamano Dreamer, i sognatori. Prendono il nome dal Dream Act, la legge che avrebbe assicurato loro un percorso verso l'integrazione e che l'Amministrazione Obama ha dovuto rimettere nel cassetto di fronte all'opposizione del Congresso. Sono le migliaia di giovani immigrati ispanici clandestini, che in Virginia, Ohio, Nevada, Florida, Colorado, California, Texas, da settimane vanno casa per casa, fanno valanghe di telefonate, battono i campus universitari per convincere la comunità latina, da sempre riluttante nell'esercizio del voto, a recarsi ai seggi e sostenere il Presidente. Se Obama fosse rieletto, il grazie più grande dovrebbe dirlo agli ispanici.
Ogni esito è possibile nella corsa, che questa sera darà agli Stati Uniti e al mondo il leader dei prossimi quattro anni. Ma chiunque pronunci il victory speech, due cose emergono con chiarezza da un'elezione che segna in ogni caso uno spartiacque storico nella vicenda americana.
La prima è che se Barack Obama venisse riconfermato, vincerebbe grazie alla scommessa demografica e generazionale, che apre prima del previsto le porte all'America della modernità, coagulando una coalizione che, al pari di quella del New Deal, potrebbe dare ai democratici il dominio dell'Electoral College per molti anni a venire.
La seconda è che se vincesse Mitt Romney, e le probabilità che accada sono pari a quelle del Presidente, sarebbe comunque l'ultima elezione in cui un candidato conquista la Casa Bianca puntando quasi esclusivamente sul voto bianco.
I fatti sono lì a dircelo. Se questa elezione fosse decisa soltanto dall'economia, la partita sarebbe chiusa da tempo. Obama non avrebbe alcuna chance di ottenere un secondo mandato. Ma non è così.
E anche se il Presidente in carica perderà pesantemente tra gli americani bianchi, che andranno alle urne ascoltando solo o in primo luogo la pancia della crisi, anche se sarà indietro di poco fra gli indipendenti, che nel 2008 lo votarono in maggioranza, le sue percentuali di consenso tra ispanici, afro-americani, giovani e donne non sposate sono così ampie, da poter ancora spuntarla, fosse anche di poco. Sono gruppi che votano bilanciando le preoccupazioni della crisi, con tematiche per loro rilevanti: l'integrazione degli immigrati per i latino, l'accesso allo studio e i diritti dei gay per i giovani, l'aborto e i fondi di Planned Parenthood per le donne single.
I sondaggi danno infatti a Obama appena il 36% del voto bianco, 8 punti in meno dell'ultima volta. Ma gli assegnano oltre il 70% di quello latino, il 92% degli afroamericani, il 63% delle donne single, oltre il 55% dei giovani sotto i 30 anni. Il rischio della scommessa fatta dagli strateghi del Presidente è tutto nella tradizione di scarsa affluenza alle urne di questi gruppi. Senza una massiccia partecipazione al voto, soprattutto degli ispanici, la minoranza più in crescita del melting-pot americano, Barack Obama non potrà ottenere un secondo mandato. Ma se gli sforzi di mobilitazione della sua campagna, di cui i Dreamer sono un pilastro, avranno successo, allora la geografia elettorale americana cambierà per sempre.
Sicuramente dettata dalle necessità, tacciata di opportunismo dagli avversari, quella di Obama è una battaglia moderna, che punta sull'America meticcia del futuro. E pone ai repubblicani un serio problema. Il mosaico etnico degli Stati Uniti è in piena rivoluzione. Già nel 2016, in California, Texas e Florida gli ispanici potrebbero essere l'etnia maggioritaria. Da soli questi tre Stati esprimono un terzo dei Grandi Elettori. Come dire che in mancanza di una strategia di conquista del consenso dei latino, i conservatori hanno poche speranze di assemblare una coalizione vincente. Tanto più se il partito rimane ostaggio delle posizioni estreme e anti-immigrati dettate dal Tea Party. Mitt Romney le ha dapprima sposate in toto, parlando perfino di auto-deportazione. Poi, come spesso gli accade, ha cercato di aggiustare il tiro. È un errore di calcolo che potrebbe costargli la Casa Bianca.

Corriere 6.11.12
«Giurò sulla Bibbia di Lincoln Barack completi la sua missione»

Spielberg: «Nella lotta al razzismo resta ancora molto da fare»
di Alessandra Farkas


NEW YORK — «Io sono un obamiano convinto», spiega Steven Spielberg, «e proprio perché l'America è ancora lacerata dal razzismo, l'aver assistito di persona all'elezione del primo presidente nero della nostra storia è stato per me un momento simbolico straordinario che porterò dentro finché campo».
In una lunga intervista concessa al settimanale del Corriere della Sera, Sette (che la pubblicherà la settimana prossima), in occasione del debutto del suo nuovo, attesissimo film Lincoln, il regista più famoso d'America conferma la sua fedeltà al presidente Barack Obama, di cui è tra i massimi sostenitori, (con oltre un milione di dollari versati solo nel 2012 al Super Pac obamiano Priorities Usa).
«A casa mia ho appeso la foto che mi ritrae all'inaugurazione di Obama insieme a mia moglie Kate, entrambi seduti sulla gradinata intorno al palco», incalza il 65enne regista di Schindler's List che nel 2007 appoggiò Hillary Clinton alle primarie (il marito Bill è amico intimo degli Spielberg). Ma dopo la nomination si è schierato con Barack Obama, che l'ha ospitato alla Casa Bianca per ben tre volte, una delle quali per guardare insieme un film nella sala di proiezione presidenziale.
Quindi c'era anche lei quel giorno a Washington?
«Eravamo stati invitati dalla senatrice californiana Dianne Feinstein. Io mi ero portato dietro la macchina fotografica con lo zoom e la videocamera e quando il giudice capo della Corte Suprema John Roberts è arrivato sul podio sono trasalito».
Che cosa è successo?
«Roberts aveva tra le mani la stessa Bibbia ingiallita sopra la quale nel 1861 prestò giuramento Abramo Lincoln, il presidente che ha abolito la schiavitù in America. Nel vedere il primo presidente nero degli Stati Uniti sfiorare la stessa Bibbia, e poi giurarci sopra, un brivido mi è corso lungo la schiena. Sono orgoglioso d'aver diretto un video per Obama proiettato alla Convention democratica nell'agosto del 2008».
I siti web dei cosiddetti «birthers» (seguaci delle varie teorie secondo cui Obama non sarebbe un «nativo americano») continuano ad affermare che quell'inaugurazione era illegale, proprio perché Obama non è nato in America.
«Gli animatori di quei folli blog sono persone disperate e il loro miserabile gesto tradisce un profondo squallore esistenziale e umano. Obama non c'entra nulla con quelle tesi farneticanti che sono state sbugiardate mille volte, il problema è soltanto loro».
Negli ultimi rilevamenti Obama e Romney restano testa a testa e secondo alcuni sondaggisti la vittoria del primo non è affatto scontata.
«Non mi preoccupo affatto, anche se credo che questa volta sia ancora più cruciale che tutti i democratici americani votino. L'affluenza determinerà il risultato di queste elezioni e ciò che mi preoccupa adesso è contribuire a far si che tutti gli aventi diritto si rechino ai seggi. Dobbiamo elettrizzare la base, soprattutto i giovani, le donne e le minoranze, per far sì che i numeri siano robusti come nel 2008. Sarà una gara serrata ma sono ottimista e anzi certo che Obama otterrà un secondo mandato».
Che cosa deve aspettarsi il mondo dall'America nei prossimi quattro anni?
«Se Obama sarà rieletto, la battaglia iniziata da Lincoln 150 anni fa sarà completata. Ma la strada da percorrere è ancora lunga e tortuosa anche perché il Paese resta più che mai spaccato a metà, con due anime che non si parlano e non si capiscono. Lincoln voleva condurre la nazione fuori dalla guerra civile, verso un sentiero di pace, riconciliazione, progresso e ricostruzione dopo un conflitto lungo, divisivo ed estenuante. La storia si ripete. Spero solo che sia Obama a scriverla».

Repubblica 6.11.12
E il voto "libero" Usa affascina i cinesi


PECHINO - I cinesi sono da sempre affascinati dalle elezioni americane. Ma stavolta lo sono ancora di più, probabilmente perché in concomitanza con le presidenziali Usa anche a Pechino si vota per il passaggio di poteri alla nuova generazione di leader, che verrà sancito dal diciottesimo congresso del partito.
Una vignetta che gira in rete esemplifica gli stati d´animo in Cina. Il cartoon mostra un elettore americano che si tappa le orecchie perché esasperato da due candidati urlanti, e un elettore cinese che cerca si origliare quello che si dicono i dirigenti del partito al riparo di un portone blindato.
In realtà, anche se i cinesi s´interessano sempre di più al voto americano, quello che li attira maggiormente nel sistema statunitense è la visibilità dei candidati, la loro accesissima campagna elettorale e lo scrutinio in tempo reale e sotto gli occhi del mondo: un miracolo per un popolo abituato a leader sfuggenti, che non ha il potere né di censurare né di premiare con il proprio voto.

Corriere 6.11.12
Da Roma a Milano, festa mobile aspettando l'alba (e i risultati)
di M. Ca.


ROMA — Come avviene ogni quattro anni, più d'uno ne uscirà deluso. Nelle intenzioni degli organizzatori, però, si profilano come feste i principali appuntamenti previsti oggi in Italia per le attese collettive dei risultati delle presidenziali americane. Il palcoscenico più esposto alle telecamere, nella notte elettorale, sarà a Roma. In un albergo che accrebbe la sua notorietà in anni della Dolce vita, l'ambasciata degli Stati Uniti ha predisposto schermi e proiettori per rendere interattiva la sala di un ricevimento. Centinaia gli inviti inviati a persone più o meno notabili: membri del governo italiano e autorità istituzionali, fauna da salotto ben allenata nello struscio con tappe da un party all'altro, ma anche studenti.
Obamiano di rito bostoniano, l'ambasciatore David Thorne ha voluto che si inventasse un hashtag, l'espressione preceduta dal cancelletto # che si usa su twitter, per far interagire gli ospiti con messaggi provenienti dall'esterno. La formula scelta è #LAmericaDecide. I commenti ritenuti migliori, inviati da dentro o fuori l'albergo, verranno proiettati nel ricevimento. Tra una cronaca televisiva da Stati in bilico fra democratici e repubblicani e un exit-poll, gli invitati potranno farsi scattare foto a fianco di (virtuali) Barack Obama, Joe Biden, Mitt Romney e Paul Ryan, i candidati dei due partiti a presidenza e vicepresidenza degli Usa. La serata comincerà alle 22, Thorne parlerà alle 23. Chiusura ipotizzata, sei del mattino. La stessa ora prevista per la fine del ricevimento del console statunitense Kyle Scott al Palazzo della Permanente di Milano con ingresso dalle 21 di oggi, #USPresMI come hashtag e videocollegamento con Chicago.
A Roma soltanto quanti hanno risposto sì all'invito potranno cenare stasera a Testaccio con i Democrats abroad, i democratici all'estero. Anche qui, percentuali e bar fino all'alba.
«Il bivio americano» è il titolo dell'appuntamento del Pd aperto al pubblico: dalle 20.30 alle tre nel Tempio di Adriano. Tra Pier Luigi Bersani, Enrico Letta, Lapo Pistelli, dovrebbero affacciarsi Dario Fo e Paolo Hendel. Party non-partisan, almeno nelle intenzioni, le maratone elettorali all'università John Cabot, a Trastevere, e dell'American International Club of Rome al Docks di via Clisio. In una notte Usa a far fare notizia anche le assenze. I motivi di quella di Berlusconi al ricevimento dell'ambasciata a Roma, nel 2008, li spiegò più tardi Patrizia D'Addario.

La Stampa 6.11.12
Bersani in videochat a La.Stampa.it
“Alle primarie in 2-3 milioni. Cittadinanza a chi è nato qui”
di Carlo Bertini


Sarà perché i sondaggi da una decina di giorni lo danno in costante crescita sul suo sfidante numero uno alle primarie, fatto sta che è un Pierluigi Bersani di ottimo umore, se pur fiaccato nel fisico dai malanni di stagione, quello che si presenta nella sede de «La Stampa» per la videochat condotta da Mario Calabresi. Un leader del Pd non intenzionato a cedere spazio allo sbocco di un Monti bis; convinto piuttosto di poter tenere insieme Vendola e Casini; determinato a imprimere un segnale di civiltà al suo futuro governo varando subito una legge per dare la cittadinanza ai figli di immigrati. E disposto a confermare che al congresso Pd non si candiderà più come segretario, ma non a garantire anzitempo a Renzi un posto da ministro. In sostanza Bersani non vuole dar l’impressione che ci sia un patto per il dopo-primarie con Renzi, perché questa è l’ora della battaglia, quella dei patti verrà tra un mese casomai. E consapevole che nel suo elettorato più di sinistra l’insofferenza verso il sindaco di Firenze cresce, il leader Pd non vuole neanche annunciare che lo sosterrà in caso uscisse vincente dai gazebo. Piuttosto cerca di evitare le trappole disseminate sul suo cammino verso Palazzo Chigi, mostrandosi disponibile a trattare sulla nuova legge elettorale.
Bertini
«No, non sono nel libro di Bruno Vespa. Ho fatto l’anno sabbatico». Si concede anche una battuta Pierluigi Bersani, ieri ospite della videochat de La Stampa.it. condotta da Mario Calabresi. Poi parla di Monti, primarie, Renzi, nozze gay. E del primo impegno in caso di vittoria: subito la cittadinanza ai figli di immigrati nati qui. Sul Professore
«Io so che il retropensiero di chi invoca il Monti bis è fare una legge elettorale da cui escano tutti partiti nani, in modo che così la politica non possa dare risposte e venga fuori il Monti bis. Ma chi la pensa così è fuori come un balcone, perché dalla palude verrebbe fuori solo la palude, si andrebbe a votare dopo sei mesi e sarebbe un rischio mortale per il paese». Bersani stoppa così il blitz di Pdl, Lega e Udc per dare il premio di maggioranza solo alla coalizione che superi il 40% dei voti. Il centrosinistra non ce la farebbe e Bersani lancia l’allarme... I diritti
Quali sono i primi provvedimenti di un governo da lei presieduto? «Le mie parole di riferimento saranno moralità, lavoro e diritti. Ho in testa una lenzuolata di provvedimenti: riforme istituzionali, legge sui partiti, norme anti-corruzione. E un rilancio dei diritti, perché un figlio di immigrati nato qui e che studia qui è un italiano. Dopo un ciclo scolastico gli deve essere riconosciuto questo status. E una legge del genere è sintomatica di quale Italia vogliamo, se vogliamo guardare con lo specchietto retrovisore o guardare avanti».
Le primarie
Si è mai pentito di aver deciso di fare le primarie? «No, è faticoso, ma sono contentissimo, è un giro per l’Italia che fa riprendere contatto con la realtà». Quante persone crede andranno a votare? «Realmente siamo sui 2-3 milioni», risponde Bersani che scherza poi sulla difficoltà di organizzare un duello televisivo. «Scopro che il problema maggiore è trovare la giornata che vada bene, perché tutti sono in giro. Ma il confronto in tv si farà, ne faremo uno solo e con tutti i candidati». Quindi nessun faccia a faccia a due concesso al solo Matteo Renzi.
Il futuro di Renzi
Se lei vince le primarie e poi le elezioni, è immaginabile che Renzi faccia parte della sua squadra di governo? «Le primarie non servono a fare dei bilancini, non dobbiamo aggiustare le cose dal giorno dopo e non sarebbe serio farlo. Detto questo non ho remore a immaginare che chi vota Renzi, e lui stesso nel futuro, possa essere utile al Paese». Se invece vince Renzi, Bersani lo sostiene e continua a fare il segretario del Pd? «Fino al prossimo congresso farò il segretario. E poi non mi ricandiderò». Non una parola se lo sosterrebbe oppure no... Imu e patrimoniale
L’Imu si può rendere più leggera per i redditi più bassi e chi promette di cancellarla racconta solo «favole». Bersani ricorda che quando fu introdotta l’Imu lui fece «una proposta ancora fresca: in attesa di tempi migliori si può alleggerirla affiancando un’imposta personale sui grandi patrimoni immobiliari».
Ed è vero che magari «si può fare anche qualcosa in più, ma promesse a vuoto non sono capace di farne. Chi promette di abolirla ci fa tornare agli anni che abbiamo alle spalle, alle favole che ci hanno portato al disastro».
Grillo e Di Pietro
«Grillo è spessissimo in tv, ma è abbastanza intelligente da riuscire a farcisi mandare dagli altri. E la tv ci casca, lo sta sponsorizzando mentre lui la insulta». Bersani non prende sottogamba la capacità del leader dei 5 Stelle di usare il mezzo televisivo pur senza accettare inviti ai talk show; di riuscire ad esser protagonista senza concedersi al confronto. «Diventa un fenomeno, ma siccome la tv lo fa crescere... Non voglio citare alcuni dei telegiornali, dei talk show che lo stanno “portando”, lui ha trovato il modo».
Perché avete regalato l’Idv a Grillo?, è una delle domande dei lettori. «Io non ho regalato niente a nessuno, ma dall’arrivo del governo Monti, Di Pietro ha compiuto una scelta di posizioni radicali e attacco al Pd. Significa che era latente una scelta politica, quella di mettersi più vicini a queste posizioni para-Grillo. Ma chi vuole caricarsi di compiti di governo ne accetta le condizioni, chi pensa ad altro stia giù, non possiamo far finta di andar d’accordo quando volano gli insulti». Governabilità
Il centrosinistra che si candida a governare il paese non sarà più quello dei tempi dell’Unione: sulle garanzie di governabilità della coalizione dei progressisti-moderati, il leader Pd non ha dubbi e prova a tracciare degli esempi concreti di come la sinistra possa un modus vivendi anche con i centristi di Casini: «Se uno legge la nostra Carta d’Intenti, troverà scritto a chiare lettere due cose: in caso di dissenso si vota a maggioranza nelle riunioni congiunte dei gruppi. Secondo, l’area dei progressisti si apre a posizioni moderate e le condizioni le vedremo. Certo, per noi ci sono cose irrinunciabili: voglio fare una legge tipo quella tedesca sulle unioni gay. Casini dice che su questi temi si lascia libertà di coscienza, non mi sembrano dunque posizioni incompatibili. Sul piano dei modelli sociali si possono trovare anche maggiori punti d’intesa». Bersani ricorda che invece nel 2006 c’erano 12 partiti, «da Mastella a Rifondazione, che facevano parte dell’Unione. E non c’era il Pd, che oggi è il primo partito del paese, dunque è un panorama molto più semplificato».

l’Unità 6.11.12
Vendola contro l’Udc, Bersani: «Basta veti»
Il leader di Sel: «O me o con Casini»
La replica: «Dialogare con tutte le forze europeiste»
Bersani annuncia che non si ricandiderà a segretario del Pd
di Virginia Lori


ROMA La ruota deve girare, dice Pier Luigi Bersani, e quindi al congresso Pd 2013 non si ripresenterà. «Non mi ricandiderò segretario». E questa «è una notizia», spiega durante la video chat nella redazione de La Stampa. Un annuncio e un messaggio: «Le primarie, che non c’entrano niente con il congresso del Pd, sono fatte da tutti i progressisti per scegliere il candidato alla guida del governo del Paese». Come dire: basta contrapporre due linee del Pd ed evocare scenari apocalittici post-primarie. Il segretario resta lui fino al 2013 e di conseguenza la linea del partito è quella fin qui tracciata.
Ma di carne sul fuoco nella graticola politica ce n’è in abbondanza, dalle alleanze, al dopo Monti, alla legge elettorale, al fronte che Di Pietro continua a tenere aperto sparando sul Pd. Ieri Nichi Vendola ha lanciato una sorta di ultimatum al leader Pd: «Ci sono troppe differenze di programma tra me e Casini. Ora il Pd e i suoi elettori devono decidere da che parte stare. Nella casa che voglio costruire, la casa del centrosinistra, non c’è Pier Ferdinando Casini». Bersani, dice, «vuole uscire sia con me che con Casini, ma entrambi vogliamo l’esclusiva». Un semi-ultimatum a dire il vero, perché Vendola non chiude del tutto la porta quando aggiunge che l’avere idee diverse «non significa che io non debba e non voglia confrontarmi con lui e con chi fa riferimento al suo universo valoriale».
Il segretario Pd non ci sta a farsi tirare per la giacca, sa bene che Vendola parla prima di tutto al suo elettorato in vista delle primarie, e replica: «Ho sempre detto che il gioco della torre non vale. Vado d’accordo con Vendola, e non solo con lui, nel campo progressista e poi voglio convincerlo, ma credo ne sia convinto che questo campo dei progressisti deve presentarsi in modo aperto, dialogante con tutte le forze europeiste di centro anche moderato». A chi evoca i fantasmi dell’Unione Bersani risponde che da allora ad oggi sono cambiate molte cose: non ci sono più la pletora di partiti e partitini, e oggi c’è il Pd, «il primo partito del Paese», il perno attorno a cui ruota la coalizione del centrosinistra. Ridimensiona anche il ruolo del centro perché se è vero che lo ritiene «come punto di equilibrio del sistema» è pur vero che non crede «al centro come un punto ordinatore».
In serata Casini, a Otto e mezzo, risponde così: «Mi sembra che Bersani abbia già scelto: fa le primarie con Vendola, hanno un rapporto di vicinanza che io non ho».
Ad Antonio Di Pietro che accusa il Pd o una parte di esso di voler annientare l’Idv e di averlo escluso dal centrosinistra, il segretario replica che è stato l’ex pm con i suoi continui attacchi e insulti da quando il Pd appoggia Monti ad essersi messo fuori dal confronto. E non ci sta a chi legge in questa scelta del Pd una sorta di regalo a Grillo. «Non ho regalato nessuno a Grillo. Dopo Monti, Di Pietro ha via via compiuto scelte verso posizioni radicali, di attacchi diretti al Pd», posizioni «para-Grillo». Ma il Paese non può permettersi di arrivare alle elezioni con un centrosinistra e «il resto del mondo arrabbiato», perché «con la rabbia non si costruisce nulla». Bersani accusa anche i media di fare il gioco del comico genovese: «Lui li insulta e un sacco di tg danno i servizi. La tv lo sta sponsorizzando mentre lui li insulta», a cominciare da diversi «talk show e tg».
Un piccolo giallo scoppia quando un’agenzia lancia la notizia che in caso di vittoria Bersani nominerebbe Renzi ministro. Poco dopo, quando già sui siti comparivano i titoloni, arriva la smentita. «Abbiamo un sacco di sindaci che sono enormi risorse è la risposta a una domanda sul ruolo di Renzi certamente Renzi e tanti altri amministratori. Volete mica fare adesso il giochino del governo? Le primarie non si fanno per fare i bilancini, ma servono per scegliere il candidato progressista». Secondo le previsioni al Nazareno (ieri hanno fatto sapere che sono già oltre 16mila le registrazione on line per votare) ai gazebo si attendono dai due ai tre milioni di persone.
Ma il vero nodo resta la legge elettorale. Il rischio più grande è che si partorisca un mostro (targato Lega-Pdl, ancora una volta) peggiore del Porcellum. «Ci vuole governabilità dice il segretario e quindi un premio di maggioranza, ad esempio del 12.5%. Altrimenti la sera delle elezioni se non c’è governabilità viene lo tsunami».

l’Unità 6.11.12
Asor Rosa: «Così il Pd può salvare l’Italia e ridare un ruolo alla sinistra»
«Necessario interloquire con i moderati. Vendola aiuti la riaggregazione dei progressisti
Che cosa c’entra la Fiom con il grillismo?»
di Bruno Gravagnuolo


ROMA «Bersani ha avuto coraggio e va appoggiato. Se vince c’è la possibilità di salvare il Paese e persino di ridare un ruolo alla sinistra, rilanciandone radicamento e valori». Si schiera Alberto Asor Rosa, provocando polemiche sul Manifesto. Ma lo fa “sperimentalmente”, senza dare per scontata la fine delle «due sinistre», come Mario Tronti sul nostro giornale. Su un punto è chiarissimo però: Bersani e Vendola devono marciare insieme.
Professor Asor Rosa, anche per lei le due sinistre, rifrormista e radicale, non hanno più senso?
«La tesi secca della fine delle due sinistra è di Tronti. La mia posizione è più pragmatica. E cioè: malgrado la persistenza di una differenza quasi fisiologica tra le due realtà, oggi è necessario riunificarle in un solo aggregato. Per far fronte a un’emergenza drammatica.
Del resto la parte più estrema della sinistra si va frantumando, e ciò spinge verso un’aggregazione con il Pd».
E i motivi «forti» di questa posizione? «Non solo c’è crisi e disgregazione del Paese, ma sulle macerie del berlusconismo si profila la formazione di un polo moderato. Si tratta di fronteggiare, con una diversa offerta, questo polo di interessi. Sia per farci i conti, sia per interloquire, magari all’indomani di un risultato elettorale incerto. Vendola perciò deve dare una mano alla riaggregazione dei progressisti».
Dunque un giudizio positivo su Bersani e la sua politica: unità a sinistra e apertura al centro. Giusto?
«Bersani è un politico stagionato, figlio della migliore tradizione emiliana del Pci. È privo di oltranze ideologiche e ha una serietà di fondo. È stato lui a inventare l’alleanza con Vendola e a tener duro sul punto. Se il risultato elettorale lo premierà, anche il discorso strategico di Tronti sulla fine delle due sinistre potrebbe realizzarsi».
Veniamo a Monti, esperienza onerosa imposta dai mercati e che comporta molti bocconi amari per la sinistra. Che giudizio ne dà?
«Una parentesi, che deve lasciare il posto a una soluzione politica, nel quadro della democrazia rappresentativa. Il mix di liberismo e moderatismo incarnato da Monti è transitorio, ma ha reso possibile la liquidazione di Berlusconi. E fa bene il centrosinistra rappresentato da Bersani a immaginare il dopo. E il dopo sta in Europa, una realtà dominata da tecnocrati e monetaristi. Qualsiasi prospettiva riformista non può che passare dal superamento di questa Europa. Decisivo quindi il rapporto con le socialdemocrazie europee. La riapertura di orizzonti e speranze ricomincia di qui».
Nel “secolo scorso”, fu tra i primi a denunciare il populismo in letteratura. Che effetto le fa l’idea di un asse tra la Fiom, Di Pietro, Travaglio e Grillo, contro i partiti?
«Posso dire di averlo “inventato” il populismo... e trovo inverosimile che la Fiom possa andare a braccetto con certe compagnie. La Fiom difende salario, operai e rappresentanza in fabbrica. Non c’entra con il grillismo, che esprime un trionfo mai visto del populismo e dell’antipolitica più reazionari. Certo, una volta in Parlamento, i grillini dovranno misurarsi con cose concrete e magari si ribelleranno al loro conducator. Il che già accade di continuo sotto i nostri occhi».
Ha fatto bene Bersani ad accettare le primarie e a modificare lo statuto,mettendosi in gioco?
«Non credo nelle primarie e le considero una perdita di tempo, destinata ad accrescere il frastagliamento generale. Credo altresì che Bersani non potesse rifiutarle, in questo Pd. Nondimeno ha mostrato coraggio e decisione. E se la sua sfida risulterà vittoriosa potrà finalmente porre le basi per qualcosa di diverso. Sia per il governo del paese, che per il futuro di un Pd in grado di unirsi con Vendola. Ne deduco che occorre appoggiare Bersani».
Sempre in tema di «tanto peggio tanto meglio», che ne pensa dell’idea di Flores d’Arcais: votiamo Renzi alle primarie e Grillo alle politiche?
«Conosco da anni Flores. Uomo intelligente, ma dominato da un super ego smisurato e onnipotente. La sua è una logica dissolutoria e autodistruttiva, che avrebbe l’effetto di distruggere le sue stesse idealità “rigeneratrici”. Un Pd renziano e diviso, e Grillo in maggioranza relativa, produrrebbero il caos. E il commissariamento permanente dell’Italia da parte dell’Europa».

l’Unità 6.11.12
La campagna di D’Alema al Sud: «O la politica o l’instabilità»
«C’è una sola proposta di governo: l’alleanza tra progressisti e moderati. E poi c’è chi la vuole demolire, senza curarsi delle conseguenze»
«Vendola dice “io o l’Udc”? Rispetto la propaganda, che è parte della politica, ma non può sostituirla»
di Simone Collini


E’ una strana campagna elettorale. C’è una sola proposta di governo credibile, in grado di garantire una legislatura stabile, quella di un’alleanza tra progressisti e moderati. E poi ci sono moltissimi che si affannano a demolirla, senza preoccuparsi di quel che poi accadrebbe al nostro Paese».
Da quando ha annunciato che in caso di vittoria alle primarie di Pier Luigi Bersani non si ricandiderà in Parlamento, Massimo D’Alema ha intensificato le iniziative in giro per l’Italia a sostegno del segretario. Ieri era a Bari, dopodomani sarà a Bologna, poi Campania, Calabria, Basilicata, «per far emergere il sostegno del Mezzogiorno alla candidatura di Bersani», scegliendo invece non a caso per la chiusura del 23 novembre la Toscana. «Ci si sarebbe potuti aspettare un minor impegno? E perché scusi? Anzi, è un segnale da dare, ci si dedica alla lotta politica anche se non si è in corsa personalmente. Dobbiamo restituire l’idea che la politica è una battaglia per affermare dei valori, delle convinzioni. Io ho fatto questo passo per togliere il sospetto di voler difendere una posizione personale e per poter combattere più liberamente per un progetto. Ora che io e Veltroni abbiamo detto che non ci ricandideremo noto che la campagna è finita, che Berlusconi ha fatto sapere che si ripresenterà e nessuno ha avuto nulla da ridire. Evidentemente la campagna era per togliere noi dal Parlamento. Ma va bene, è giusto che siamo noi a dare l’esempio».
Per D’Alema è la «politica» che deve tornare, dopo la fase di «emergenza» dei tecnici. Nella tappa pugliese gli chiedono dell’Ilva, e lui dice che a fronte dei «molti annunci» del ministro dell’Ambiente Clini (che si risente e a distanza replica che da parte sua non ci sono stati annunci «ma solo fatti e impegni rispettati») il governo avrebbe potuto fare di più. C’è la questione delle Province, «tagliate con l’accetta», come dimostra il caso dell’«invenzione» della Provincia Brindisi-Taranto: «Non voglio difenderle, anzi qui invece di tre ne vorremmo due, una al nord e un Grande Salento, più l’area metropolitana di Bari, il che avrebbe una logica. Io ho grande rispetto del governo tecnico, ma si dimostra per molti aspetti che c’è bisogno della politica, cioè di un rapporto col Paese che sia meno astrattamente ragionieristico».
D’Alema sa che il vero avversario da battere non è un centrodestra ormai inesistente (tra un’iniziativa e l’altra legge sul cellulare un sondaggio che dà il Pdl doppiato dal Pd, «lo vede?») ma proprio la sfiducia diffusa nei confronti dei partiti, «l’idea che sono tutti uguali» e la campagna «contro il ritorno della politica»: «C’è chi spera che nessuna proposta di governo riesca a ottenere un consenso sufficiente per avere di nuovo un governo tecnico. Ma l’assenza di una maggioranza politica sarebbe drammatica per il Paese, porterebbe il massimo dell’instabilità, ed è irresponsabile chi lavora per un tale esito».
A lavorarci è anche un Pdl che al Senato oggi proverà a far passare un emendamento sulla legge elettorale che prevede l’assegnazione del premio di governabilità solo a una coalizione che superi il 40%. «Prevedere una soglia minima sarebbe un incentivo a disaggregarsi perché interesse di molti sarebbe non far scattare il premio, così poi tutti i giochini sono possibili», ragiona prima di partecipare a un’iniziativa al Parco dei principi di Bari Palese. D’Alema però ammette che un premio illimitato, così com’è previsto dal Porcellum, è incostituzionale perché rischia di alterare il principio di rappresentanza. «La soluzione può essere trovata in un premio limitato, che però è certo che scatti, perché allora sì che ci sarebbe un incentivo ad aggregarsi».
Ma al di là dei tecnicismi elettorali, per D’Alema resta un punto fermo, e cioè il fatto che «l’unica proposta di governo in grado di garantire una legislatura stabile e fare le riforme necessarie è quella di un’alleanza tra progressisti e moderati». Questo tour per le primarie l’ha portato a incontrare lavoratori di aziende in crisi, come la Micron, vicino ad Avezzano, docenti e ricercatori universitari (Italianieuropei ha organizzato per il 21 a Napoli un’iniziativa sul manifesto degli intellettuali pro-Bersani), sindaci di grandi e piccoli Comuni alle prese con le difficoltà a chiudere i bilanci (la sera prima di arrivare a Bari era a Martignano, in provincia di Lecce, per una cena elettorale a cui è seguito il ballo della pizzica). Contesti e persone diverse, ma che esprimono ogni volta le stesse problematiche, che riguardano la crisi, le politiche del rigore, la necessità di creare occupazione. Per questo dice che «la nostra prospettiva va oltre Monti»: «un governo di emergenza, ma noi dobbiamo andare oltre l’emergenza, dobbiamo costruire una prospettiva per il Paese. Gli impegni sul rigore sono irrinunciabili, ma occorre qualcosa di più, più giustizia sociale, maggiore attenzione al lavoro». E questo, per D’Alema, può farlo solo un’alleanza di governo tra progressisti e moderati, «un’alleanza che si fonda sul fatto che c’è un grande partito come il Pd che ormai è dato nei sondaggi al 30%, che fa da baricentro, e una candidatura come quella di Bersani, che rappresenta la garanzia di una coalizione coesa». E se un’agenzia dice che il leader Pd sarebbe intenzionato a dare un ministero a Renzi in caso di vittoria, D’Alema in una pausa tra un’iniziativa e l’altra osserva che quella stessa agenzia è stata annullata. «In ogni caso deciderà Bersani con il Presidente della Repubblica, e comunque non ci sarebbe nulla di strano che alcuni competitori entrassero nel governo Bersani». E Vendola che dice o me o Casini? Sorride. Poi: «Io sono molto rispettoso della propaganda, è una parte della politica, ma non può sostituirla»

Corriere 6.11.12
Bersani bipolare per scongiurare il Monti bis


L' addio della sinistra a Mario Monti dopo le elezioni sta prendendo una forma e una motivazione sempre più nitide e irrevocabili. Il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ritiene che farlo rimanere presidente del Consiglio nel 2013 significherebbe non creare le condizioni per la stabilità, ma per un ritorno alle urne. E senza troppi giri di parole definisce quanti accarezzano l'ipotesi di un Monti bis «fuori come dei balconi»: espressione colorita che fa pensare a chi è avulso dalla realtà. L'ipotesi di una legge elettorale «da cui escano i partiti come dei nanetti e viene fuori il Monti bis», a suo avviso è un azzardo. «Dalla palude viene fuori la palude, e si rivota dopo sei mesi».
Per il premier, in futuro Bersani vede «un alto ruolo». Rispunta, non dichiarata, l'idea di eleggere Monti al Quirinale, come garante di un governo di centrosinistra guidato, appunto, dal segretario del Pd. Ma qualunque schema, per il momento, rischia di rivelarsi acerbo. Sull'evoluzione del dopovoto pesano tuttora troppe incognite. Intanto, quello che Bersani considera l'interlocutore moderato per definizione, l'Udc, insiste a dire che Monti rimane il suo candidato a palazzo Chigi anche per la prossima legislatura. «Vorremmo un Monti bis con alcuni ministri politici dentro», fa sapere Lorenzo Cesa, il segretario.
E la contraddizione diventa eclatante soprattutto quando, rispetto a prese di posizione di questo tenore, si ascolta Nichi Vendola, l'alleato che il Pd ha già scelto a sinistra. Non solo chiede a Bersani di scegliere fra lui e Casini. Ma ribadisce che l'agenda dell'attuale governo dovrà essere stracciata. Come premesse di una nuova maggioranza, non è il massimo della chiarezza.
Probabilmente il capo di Sel fa la voce grossa perché cerca di giocare un qualche ruolo nelle primarie del Pd; perché dopo la sonora sconfitta subita in Sicilia deve dare segnali di vitalità e di protagonismo; e perché sa che in questa fase preelettorale deve concedere molto all'estremismo. Si indovina anche l'esigenza disperata, da parte di Vendola, di recuperare qualche voto emigrato nel Movimento 5 Stelle del comico populista Beppe Grillo attaccando Monti. Mandare segnali così radicali può tuttavia rivelarsi a doppio taglio: presso gli elettori e sul piano internazionale.
Bersani sente di poter vincere con un buon margine la candidatura a palazzo Chigi da parte del Pd. Predice due o tre milioni di votanti alle primarie. Gira la voce che potrebbe dare un ministero al suo avversario Matteo Renzi, ma il sindaco di Firenze reagisce piccato e lui smentisce. Al di là di queste schermaglie interne rimane il tema di fondo del dopo Monti. La domanda irrisolta è sempre la stessa: che succederà. Per Bersani gli italiani sarebbero «i più bipolari del mondo»; dunque, niente «centro ordinatore». La convinzione, però, potrebbe risultare frustrata non da un sistema proporzionale, ma da un bipolarismo condannato a produrre risultati elettorali ambigui.

Corriere 6.11.12
Si tratta sul premio di maggioranza. Il Pdl: accordo o avanti senza il Pd
di Lorenzo Fuccaro


ROMA — Sulla legge elettorale che sostituisca il Porcellum l'incomunicabilità tra Pd e Pdl è totale. Pier Luigi Bersani garantisce di volerlo cambiare: «Sono pronto a votare un compromesso, ma gli altri, il Pdl, presentino una proposta e non la cambino ogni 48 ore». Chi pensa, aggiunge il leader del Pd, di riformare il sistema di voto in modo che non ci siano vincitori e favorire così un Monti bis «è fuori come un balcone». Ma dal Popolo della libertà giunge, in forma ufficiosa, una replica molto irritata. In realtà, fa notare chi segue da vicino il dossier, sono quelli del Pd che recitano «Camera con vista», nel senso che stanno a guardare, sperando che alla fine resti l'attuale sistema perché, con i sondaggi che li danno vincenti, prenderebbero la maggioranza assoluta senza essere costretti a fare coalizioni dopo il voto. Il che lascia supporre che l'intenzione del centrodestra sia quella di andare avanti «anche senza il Pd», se persiste questo atteggiamento di chiusura da parte degli uomini di Bersani.
Il nodo è tutto politico (e non tecnico) perché all'orizzonte non c'è soltanto la scelta su chi governerà il Paese, ma chi vincerà avrà un ruolo decisivo nell'elezione del nuovo capo dello Stato. Al momento questo nodo non sembra facile a sciogliersi benché il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, si sia più volte speso con richiami pubblici affinché i partiti arrivino alle elezioni politiche nazionali con regole nuove e abbia incontrato tutti i loro leader. Ieri, ad esempio, è salito al Quirinale Angelino Alfano per riferire appunto sugli intendimenti del Pdl al riguardo. L'insistenza di Napolitano, secondo alcuni rumors, potrebbe sfociare nell'invio di un messaggio motivato alle Camere, se il Parlamento non cambiasse il Porcellum. Il sistema in vigore, del resto, è stato oggetto di rilievi critici anche da parte della Corte costituzionale, nella parte relativa al premio di maggioranza perché non collegato al raggiungimento di una certa soglia.
È in questo clima di aspro confronto che torna a riunirsi oggi la commissione Affari costituzionali del Senato, presso la quale è in corso l'esame della «bozza Malan». In primo piano c'è proprio la discussione su quale sia la base minima per fare scattare il premio di maggioranza, indicato nel 12,5 per cento. Il Pd non la vuole, mentre Pdl, Udc e Lega la fissano tra il 45 e il 40 per cento. Carlo Vizzini, che presiede la commissione, fa notare con realismo che «non c'è ancora una mediazione sul vero punto politico del provvedimento. E così potrei proporre di accantonare gli emendamenti che riguardano questo argomento per fare avanzare i lavori». Il mio impegno, aggiunge, «è di licenziare un testo e nominare conseguentemente un relatore entro questa settimana o, al massimo, entro i primi giorni della prossima».
Tuttavia, Lorenzo Cesa, segretario dell'Udc, è convinto che lo sblocco non sia lontano. «La nuova legge sarà approvata domani in commissione», assicura. E Gianpiero D'Alia, capogruppo del partito centrista in Senato, già intravede uno spiraglio: «Se si trova un accordo con il Pd, il premio potrebbe essere dato al primo partito, qualora non si raggiungesse la soglia minima per fare scattare il bonus»: una sorta di «premio di consolazione». D'Alia coglie i segni di un qualche ripensamento da parte del Pd. D'altronde, in un editoriale pubblicato ieri dall'Unità, il direttore Claudio Sardo, vicino a Bersani, auspica che «nel caso che il premio non scatti si attribuisca almeno al primo partito un premio di governabilità non inferiore al 10 per cento: non basterà a quel partito per costituire una maggioranza autosufficiente ma si aiuterà quel partito e il suo leader a comporre una soluzione coerente in Parlamento». Che sia questo lo sbocco? «Mi sembra — osserva il senatore Stefano Ceccanti, costituzionalista democrat — una soluzione ragionevole».

Repubblica on line 6.11.12
Renzi rilancia la rottamazione
"Se Bersani perde non si candidi"


ROMA - Anche gli altri candidati alle primarie, dicano fin d'ora che se perdono le primarie non prenderanno posti da ministro e non andranno nemmeno in parlamento. Matteo Renzi a Radio 24 risponde così a una domanda sul suo futuro politico.
Niente premi di consolazione, dice Renzi. "Se perdo le primarie rimango a fare il sindaco e non vado in parlamento, non vado a fare il ministro. Dopo di che - aggiunge lanciando una sfida ai contendenti - vorrei lo stesso atteggiamento da parte di altri. Chi perde dà una mano ma senza legare i propri contenuti a una sistemazione personale. Niente sgabelli".

Matteo Renzi nel presepe. Sotto forma di statuetta con la camicia bianca, la cravatta e il cartello con la scritta "rottamiamoli", immerso fra i pastori del presepe a San Gregorio a Napoli, fra personaggio dello spettacolo e della politica, quest'anno compare anche il sindaco fiorentino candidato alle primarie.
 
il Fatto 6.11.12
Il sondaggio Emg: Pd primo partito, M5S al 18%


IL PD SAREBBE al primo posto con il 29,9% dei voti, quasi il doppio del Pdl sceso al 15,8% mentre il M5S di Beppe Grillo toccherebbe il 18,2% e l’Italia dei Valori perderebbe l'1,2%, arrivando al 2,9%. È quanto emerge dal sondaggio sulle intenzioni di voto alla Camera elaborato da Emg e diffuso ieri sera nel corso del TgLa7. Le rilevazioni mostrano inoltre “ancora in lieve ascesa la Lega, che raggiungerebbe il 6,6% e Sel che avrebbe il 5,3% , mentre l'Udc arriverebbe al 5,6%”. Leggera flessione per Fli stimata al 2,7% e stessa percentuale per la Federazione della sinistra e La Destra, entrambi al 2,3%. Il Psi sarebbe all’1,3%; Fermare il Declino otterrebbe lo 0,7% e stabili resterebbero gli Ecologisti Verdi e Reti civiche all’1,4%. Da segnalare l’astensione record al 34%, con gli indecisi all’11,9% e le schede bianche al 2,6%. Rispetto alla scorsa settimana, perde il 3% la fiducia in Mario Monti che arriverebbe al 47%. Quanto alla classifica della premiership, il sondaggio indica che scenderebbe al 15% la percentuale degli italiani che voterebbe il Professore. Poco dietro di lui ci sarebbero Matteo Renzi al 14%, seguito da Bersani (stabile all’11%), Angelino Alfano (all’8%) e Beppe Grillo al 7%.


Repubblica 6.11.12
I movimenti a sinistra del Pd da Gallino a De Magistris la rincorsa ai voti grillini

La lista dei sindaci. Neutrale la Fiom
di Goffredo De Marchis

Tutti puntano al superamento dell´agenda Monti e della carta di intenti democratica
Per molti il candidato premier di questa galassia può essere il pm di Palermo Ingroia

ROMA - Pezzi di sinistra che vogliono incrociare pezzi di elettorato «in liquefazione». L´astensionismo siciliano (53 per cento) e i sondaggi che danno il non voto a livello nazionale vicino al 40 stanno "accendendo" una serie di movimenti alla sinistra del Pd e anche di Sel. L´ultimo in ordine di tempo è il Manifesto di Marco Revelli, Paul Ginsborg, Luciano Gallino e Livio Pepino. "Cambiare si può" dicono nel titolo e puntano a «creare le condizioni per una presenza elettorale alternativa alle elezioni politiche del 2013». Alternativa a che cosa? A Bersani, a Grillo, a Vendola che «firmando la carta d´intenti del Pd si è vincolato in sostanza all´agenda Monti», spiega il professor Revelli. Si sono dati tempo fino a un´assemblea fissata per il primo dicembre. Se una parte dell´elettorato darà la risposta attesa, se le mille schegge di quel campo riusciranno a trovare un´intesa, la lista elettorale sarà nella scheda.
È una galassia mista e ancora piuttosto confusa. Il che non è certo un vantaggio a pochi mesi dal voto politico. C´è il Movimento dei sindaci, ossia la lista Arancione guidata da Luigi De Magistris, guardata con simpatia da Leoluca Orlando, a caccia di altri sostegni a cominciare da Marco Doria per finire a Giuliano Pisapia (molto complicato). Un tentativo solo abbozzato di creare le condizioni per un "partito" che non avrà i primi cittadini candidati ma la loro benedizione e il loro sostegno. C´è il corteggiamento nei confronti della Fiom, il sindacato dei metalmeccanici in guerra con Marchionne e al quale l´amministratore delegato della Fiat fa una bella pubblicità con le sue "iniziative" quotidiane. Maurizio Landini, il segretario delle tute blu, ha dichiarato con nettezza che il sindacato non scenderà in campo, non cederà alle lusinghe di nessuno, nemmeno a quelle di Tonino Di Pietro che con Maurizio Zipponi cerca in tutti i modi di agganciare le sue alle lotte degli operai. Ma quel bacino di voti fa gola a molti. «Noi - dice Revelli - ci muoviamo su una proposta molto vicina a quella della Fiom».
L´obiettivo sono i consensi degli astenuti e quelli di Grillo che vengono da sinistra. «Oggi l´unica offerta contro questo governo è il comico - dice Revelli -. Noi ci proponiamo di costruire un altro contenitore per quel tipo di protesta». Fra i firmatari del Manifesto Sabina Guzzanti, Massimo Carlotto, don Gallo, Haidi Giuliani, l´operaio Fiom di Pomigliano Antonio Di Luca, don Marcello Cozzi di Libera. Se il tentativo non potrà ambire a traguardi superiori «alla mini-testimonianza di bandiera» verrà archiviato. Si parla di un target oltre la soglia del 5 per cento. Il termometro saranno le adesioni sul sito www.cambiaresipuo.net. La legge elettorale invece è una variabile minore. «Per l´ampiezza dell´elettorato in libertà il sistema di voto ci interessa poco», dice Revelli. E con il Porcellum Antonio Ingroia sembra il candidato premier più adatto.
Ma i movimenti hanno certamente bisogno di un coordinamento perché nello stesso spazio si muove da tempo la Federazione della sinistra, ancora quotata nei sondaggi intorno al 2 per cento. La frammentazione non li aiuterà a raccogliere i voti in uscita e ad arginare il boom dei 5 stelle. Il primo dicembre, giorno dell´assemblea, è subito dopo le primarie del Partito democratico. Che diranno qualcosa su dove andrà il centrosinistra.

Corriere 6.11.12
Da Ginsborg a Moni Ovadia le firme per il «Quarto polo»


Dare vita a un «Quarto polo», una lista per le elezioni del 2013 che, a sinistra, «offra volti nuovi» e sia alternativa a Monti, alla coalizione Pd-Sel-Psi e al Movimento 5 Stelle. È l'obiettivo di un documento che ha fra i promotori i professori Luciano Gallino e Marco Revelli e il vicepresidente di «Libera», Marcello Cozzi, e che è stato firmato da una settantina di persone, fra le quali Sabina Guzzanti e don Andrea Gallo. La campagna si chiama «Cambiare si può, noi ci siamo». Sottoscrittori e promotori, viene spiegato, non sono i futuri candidati, ma persone che condividono il percorso del documento: «La sfida è proporre un'alternativa nei contenuti e nei metodi, che tiri una riga netta con il recente passato di tutte le varie sinistre». Nella lista dei firmatari si trovano persone attive nel mondo dell'associazionismo, intellettuali e giuristi (come Paul Ginsborg, Tonino Perna, Alberto Lucarelli, Giovanni Palombarini, Ugo Mattei), artisti e scrittori (come Moni Ovadia, Massimo Carlotto, Sabina Guzzanti, Gianmaria Testa, Piero Gilardi), delegati di luoghi di lavoro (come Antonio Di Luca, uno dei lavoratori di Pomigliano «discriminati» da Marchionne) insieme a rappresentanti di movimenti come don Gallo, Haidi Giuliani, Riccardo Petrella, Emilio Molinari e Guido Viale

l’Unità 6.11.12
M5S, Salsi si ribella: noi come Scientology
di Toni Jop


«Sono stata lapidata, il Movimento sta diventando come Scientology»: ecco che mentre Grillo si appresta a diramare sul suo blog il comunicato politico numero cinquanta e rotti, nella sala del consiglio comunale bolognese, una donna infila un sasso nel “ciclostile” del leader massimo. E di nuovo si torna a vedere ciò che molti osservatori non hanno mai voluto cogliere nella schiuma effervescente dei Cinque Stelle: nelle retrovie della Grande Avanzata non c’è democrazia, c’è, piuttosto, aria di setta.
Federica Salsi, la consigliera del Movimento che nei giorni scorsi aveva partecipato di sua iniziativa a Ballarò e per questo si era meritata una reprimenda volgare dal capo Grillo l’aveva accusata di aver ceduto alla sensibilità orgasmatica del suo punto G ha ripreso la parola dal suo scranno con una storia in mano, la sua, e le mura di Gerico sono crollate.
«Ci sono momenti davvero dolorosissimi nella vita in cui si deve osservare il mondo da un diverso punto di vista pagandone anche le conseguenze. E questo è uno di quei momenti»: Salsi aveva appena pronunciato queste parole quando Massimo Bugani e Marco Piazza, i suoi compagni di squadra, si sono alzati dai loro posti e sono andati ad accomodarsi lontano, accanto ai consiglieri leghisti. Che bella stoffa d’uomini, e che coraggio ammirevole. Per questi leoni quel che stava accadendo nel cuore di una delle più civili e democratiche città d’Europa, era troppo: si stava discutendo di offrire solidarietà per gli insulti piovuti sulla testa della consigliera. Hanno preferito, nei fatti, dar ragione a chi, dalla platea web dei Cinque stelle, ha in questi giorni accusato Salsi di essere una «puttana», una che «si deve togliere dai coglioni», una «venduta».
Ha provveduto la stessa Federica a riportare questi commenti, trascrivendoli dal blog di Grillo e dal suo profilo Facebook. Per questo, ha parlato di setta, ha citato Scientology, ha attaccato lo stesso Grillo ribadendo critiche già espresse dopo le offese del capo politico. Ha detto di voler assumersi dolorose responsabilità per impedire che il movimento si trasformi in un mostro, e si è interrogata su chi abbia dato a Grillo il permesso di proporre la presidenza della Repubblica, e l’alleanza, a Di Pietro, oppure di dare dell’«ebetino» a Matteo Renzi.
Un «tradimento», insiste la consigliera, l’investitura di Di Pietro: «Non è che – aggiunge – l’amicizia tra Beppe, Di Pietro e Casaleggio riesce a nascondere le realtà emerse dall’inchiesta di Report?». Poi, è passata alla formazione delle liste elettorali, impostate dalla decisione, di Grillo e Casaleggio, di aprire solo a chi si è già candidato, blindandole: «I cittadini che decidono di impegnarsi... non sono persone formate per i compiti che andranno a svolgere.... finché è un Comune o un quartiere ci si può fare le ossa, ma in Parlamento no, a decidere il destino di tutti». Infine, ancora Grillo: «Lui o chi per lui non sono superiori ai diritti costituzionali che ancora vigono in questo Paese». Grillo, le donne ti toseranno.

Repubblica 6.11.12
Anche richieste di dimissioni contro la consigliera di Bologna. Ma si fa largo il fronte del no: così ci autodistruggiamo
"Senza Beppe sei polvere, vattene a casa" sul web i militanti assediano Federica la ribelle
Molte frecciate arrivano da donne: "Sapevi le regole, le hai infrante, non fare vittimismo"
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA - La difendono in pochi, Federica Salsi, quando - subito dopo il suo discorso - in Rete si scatena il pandemonio. Gli amici del profilo Facebook, alcuni militanti stanchi delle scomuniche, qualche compagno di battaglia che si ferma a ragionare. Per il resto, quello che parte su siti e social network è un processo senza appello. Dove la consigliera comunale di Bologna viene descritta come «una schiava volontaria del sistema tutta bagnata che si deve levare dai coglioni». Non sono solo i circoli on line di Bologna, o meglio, due militanti a loro nome, che ne chiedono le dimissioni. È il web, attraverso Twitter, Facebook, il blog del leader. «Senza Grillo eri, sei e sarai polvere - scrive Stefano M. da Roma - non hai capito nulla della fatica trentennale di Beppe, fattelo tu a nuoto lo stretto di Messina». Si allinea Andrea Forgione64, da Avellino: «Caro Beppe non mandare in televisione queste capre del movimento, fanno brutta figura. Per non parlare di chi ci va tutta bagnata... altro che punto G, state a casa tanto non vi candidiamo, fatevi pagare bene da Bersani». Perché è questa, la tesi che viene fuori tra le righe. O meglio, tra gli insulti. Che Federica - come Giovanni Favia, il consigliere regionale emiliano già entrato in rotta di collisione con Grillo e Casaleggio - sia in cerca di una candidatura purché sia, perché è già al secondo mandato, e nel MoVimento non si può ricandidare. Scrive Gabriele Tinelli: «La democrazia impone di fare quello che la maggioranza vuole, e la maggioranza vuole che la Salsi si dimetta per aver tradito i principi del M5S». Donato Tobi: «Scientology tende a non farti più uscire dal suo cerchio, mentre dal M5S si può uscire velocemente, anche con una bella scarpata in kulo!». Non ci sono solo uomini. Dopo la solidarietà delle militanti piemontesi, arrivata domenica, Grillo incassa quella di Mary dg che sul blog scrive addirittura una poesia dal titolo Federica la rosa della sera, e conclude: «Non si azzardi a parlare a nome della base, lei non mi rappresenta né come attivista né come donna né come cittadina». O quella di Silvia: «Questo vittimismo femminile a tutti i costi non lo sopporto. Sapeva le regole, le ha infrante, punto». E poi «venduta», «leaderina», «cavalla vanesia». Non manca nulla. Qualcuno la paragona a Belèn, «per gli orecchini». Chi è vicino alle sue posizioni, in Emilia Romagna, spiega che questa è solo la Rete. Che lei sul territorio ha molto consenso. Che nessuna assemblea voterà mai la sua espulsione. E che però, il web nelle mani di Grillo diventa «un´arma, un esercito, una tifoseria». Pesante da sopportare. Chi la difende, soprattutto su Facebook, spiega che sulla tv non c´è nessuna regola scritta. Qualcuno le scrive: «Forza Federica, rappresenti la parte migliore del movimento». E i dissidenti appaiono anche sul blog: «Non ne posso più di questa gogna blogghistica di Beppe», scrive Lorenzo Berardi. Oppure Fabio: «Certi commenti alla Borghezio mi mettono mille dubbi sul MoVimento». E Michel Franzoso, da Piacenza: «Di questo passo si distrugge quello che si è costruito. Beppe sgrida i cattivi di turno e tutti a obbedire? Siamo in tv tutte le volte che i tg passano un servizio dove Grillo sbraita come un indemoniato. È quel che la gente off line vede il più delle volte, un comico con manie di grandezza che strilla e accusa il mondo».

Repubblica 6.11.12
Il metodo dell’ostracismo
di Francesco Merlo


Come sempre chi ha idee confuse ha paura delle idee. E dunque Grillo e i suoi pasdaran, per paura delle idee di Federica Salsi, hanno deciso di punirla e l´hanno isolata anche fisicamente, come fanno i talebani con le donne che hanno rotto il patto d´onore. Mancava solo che le tirassero le pietre. E infatti, quando nel consiglio comunale di Bologna lo spettacolo è diventato grottesco, la Salsi si è sentita – ha detto – «lapidata in pubblico».
E le pareva – ha aggiunto – di essere «dentro Scientology» perché questo cieco fanatismo grillino sarà pure comicità che si fa tragedia, ma chissà quanti vaffanculo stanno diventando concreti e duri sulla pelle di una donna viva e sensibile. E infatti le è sembrato di subire – ha scandito – «una violenza» quando il suo compagno e collega Massimo Bugani si è alzato e l´ha lasciata sola pronunziando frasi sconnesse ma tonitruanti come questa: «Io credo che per me parli la mia storia» (la geografia è afasica?).
Come si vede, il linguaggio è ridicolo ma anche allarmante. Ascoltiamo ancora questo goffo Carneade che, confortato da Momsen e da Polibio, si appella «alla mia vita e al mio impegno su questi temi all´interno del consiglio comunale». Ecco: «Questi temi» erano la partecipazione a Ballarò della lapidanda e disonorata Federica e non i rumori di guerra atomica tra Iran e Israele.
E però dietro la nostra facile risata c´è la preoccupazione per il vuoto delirio che la Storia ci ha fatto ben conoscere nella sua versione grandiosa e che adesso Grillo ci ripropone in chiave buffa e mostruosa ma pur sempre violenta, tragicomica appunto. Pensate che Bugani si è fatto fotografare mentre fa il gesto di vittoria come Churchill con alle spalle l´emblema del Movimento 5 stelle e addosso una t-shirt con su scritto: «Io siamo Massimo Bugani». Certo, questo invasamento somiglia più a quello di Sandro Bondi per Berlusconi che alla mistica dei comunisti per Stalin, ma la banalità dello squilibrio è la stessa. Grillo - ha raccontato ieri il quotidiano Pubblico - ha compilato una lista di cronisti da evitare, di giornali a cui non concedere interviste, di programmi televisivi da boicottare. Macchiettisco dunque. E tuttavia violento. E non verso i giornali (chi se ne importa) ma verso i militanti che se disobbediscono e vanno a Ballarò vengono appunto lapidati come Federica Salsi.
E sono i tipici sintomi di quelle febbri da teste calde. Pensate che il nostro Carneade produce video inchieste per il movimento, il gruppo virtuale dei grillini, firmate con il soprannome di un pirata, "Nick il nero", proprio come un tempo i ragazzi di Farinacci adottavano nomignoli salgariani: "La disperata" era la squadra, e il capomanipolo era "Yanez".
Di sicuro Federica Salsi non è Rosa Luxemburg ma una di quelle donne che è bello incontrare e frequentare solo per scambiare battute sull´attualità o sulla moda o sui figli. E difatti pensava di poter dire la sua su quel piccolo mondo che è la politica italiana senza chiedere il permesso a Grillo o a Casaleggio o ai consiglieri comunali di Bologna - l´altro scientologo si chiama Marco Piazza - che l´hanno maltrattata. E ascoltate ancora come diventava accorato Bugani, un po´ Atlante e un po´ Giobbe, con il peso e le ferite del mondo addosso: «Ci sono momenti davvero dolorosissimi nella vita (e i fazzoletti grondavano pianto, ndr) in cui si deve osservare il mondo da un diverso punto di vista pagandone anche le conseguenze. Questo per è me uno di quei momenti». Stephen Zweig, che li chiamò Momenti Fatali, ne aveva contati 14: quattordici vite che riassumono il mondo. Bugani è il quindicesimo Momento Fatale.
E forse il sedicesimo è Antonio Di Pietro mentre caccia Massimo Donadi, un altro reietto, reo di dissenso. Di Pietro, che nella sua lunga storia non ha mai nascosto la mano mentre lanciava le pietre, sta finendo in una filodrammatica dove ci sono tutte le parti in commedia, buffonesche e tragiche. E ora i suoi intellettuali organici fanno esercizi di filologia catastale, come neppure Bocchino ai tempi di Tulliani, precisando che le case sono 11 e non 56. E la loro contabilità al dettaglio distingue appartamenti e particelle, donazioni e "elargizioni modali", affitti e speculazioni, senza pensare che – come diceva Totò – «non è la somma che fa il totale», perché è il dettaglio che offende, è il dettaglio che si fa trave nell´occhio del moralista, nel cuore della confraternita.
Comunque Di Pietro, che campa di televisione, non potrà mai entrare nella Scientology di Grillo. Ce lo spiega di nuovo il devotissimo Carneade Bugani, citando Pasolini: «Non c´è niente di più feroce della banalissima televisione». Così il grillismo da mediocrità dispettosa sta mutandosi in populismo velenoso. L´originaria comicità è diventata ferocia contro il dissenso. Scriveva Rimbuad: «… avverto la ferocia del sorriso idiota».


Corriere 6.11.12
«Mafia sopravvissuta grazie alla trattativa fatta con lo Stato»
I pm: 20 anni di amnesie istituzionali
di Giovanni Bianconi


PALERMO — C'entra la caduta del Muro di Berlino, «la "grande madre" di una catena di eventi». C'entrano «l'eccesso di tassazione e l'utilizzazione distorta della spesa pubblica», che provocò la «rivolta della borghesia commerciale e della piccola imprenditoria» al Nord. C'entrano le inchieste di Manipulite e persino Licio Gelli, che con la sua «inusuale collaborazione giudiziaria» contribuì alla «eliminazione politica» del ministro Martelli, «percepito come un ostacolo».
Fu anche a causa di questa concatenazione di fatti che prese forma la «scellerata trattiva» tra lo Stato e la mafia al tempo delle stragi, divisa in tre distinte fasi: cominciata nel '92 all'indomani della sentenza definitiva del maxiprocesso a Cosa nostra, quando governavano ancora Andreotti e la Dc; proseguita nel 1993 durante il governo «tecnico» presieduto da Carlo Azeglio Ciampi; culminata nel '94 con l'esecutivo guidato da Silvio Berlusconi, quando si realizzò la «definitiva saldatura del nuovo patto di coesistenza Stato-mafia, senza il quale Cosa Nostra non avrebbe potuto sopravvivere e traghettare dalla Prima alla Seconda Repubblica».
La sintesi dell'indagine della Procura di Palermo è contenuta in una memoria di 22 pagine inviata ieri al giudice dell'udienza preliminare Piergiorgio Morosini, l'ultimo atto d'accusa sottoscritto dal procuratore aggiunto Ingroia prima di partire per il Guatemala. Insieme alla sua firma ci sono quelle dei quattro pubblici ministeri che restano a sostenere l'accusa: Lia Sava, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Il documento riassume il processo e chiarisce i singoli capi d'imputazione per i dodici imputati di cui è stato chiesto il rinvio a giudizio (più qualche indagato nell'inchiesta stralcio). E che conferma che restano vaste zone d'ombra, dovute ai «tanti, troppi, depistaggi e reticenze, spesso di fonte istituzionale».
Scrivono i pm: «Questo ufficio è consapevole che non si è del tutto rimossa quella forma di grave amnesia collettiva della maggior parte dei responsabili politico-istituzionali dell'epoca, durata vent'anni, che avrebbe dovuto arrestarsi, se non di fronte alla drammaticità dei fatti del biennio terribile '92-93, quanto meno di fronte alle risultanze che confermavano l'esistenza di una trattativa ed il connesso, seppur parziale, cedimento dello Stato».
Dopo il delitto Lima (12 marzo '92), «prima esecuzione della minaccia rivolta verso il governo e in particolare il presidente del Consiglio Giulio Andreotti», con le stragi il ricatto si estende dai singoli uomini politici alle istituzioni in generale. «È il momento in cui irrompe sulla scena una male intesa, e perciò mai dichiarata, Ragion di Stato che fornisce apparente legittimazione alla trattativa e coinvolge sempre più ampi e superiori livelli istituzionali», accusano i pm. Che rivendicano il lavoro svolto citando una frase dell'attuale presidente del Consiglio Mario Monti, pronunciata nel ventennale dell'eccidio di Capaci: «L'unica vera Ragione di Stato è quella verità che questo Ufficio non ha mai smesso, e mai smetterà, di cercare».
Gli imputati si dividono in due grandi gruppi. Da un lato i mafiosi (Riina, Provenzano, Bagarella, Brusca e il «postino» Nino Cinà), che dopo l'omicidio Lima recapitarono il famoso «papello» con le richieste per interrompere le stragi. I loro «minacciosi messaggi» proseguirono con le bombe del '93, finché nel '94 «fecero recapitare al governo presieduto dall'on. Berlusconi l'ultimo messaggio intimidatorio prima della stipula definitiva del patto politico-mafioso». Così «la lunga e travagliata trattativa trovò finalmente il suo approdo nelle garanzie assicurate dal duo Dell'Utri-Berlusconi».
Il fondatore di Forza Italia, così come gli altri capi di governo, non risponde di alcun reato; semmai è considerato parte lesa, in quanto vittima del ricatto. Al contrario, i sospetti intermediari istituzionali (i parlamentari Mannino e Dell'Utri, e i tre ex carabinieri del Ros Subranni, Mori e De Donno) «sono tutti accusati di aver fornito un consapevole contribuito alla realizzazione della minaccia» per aver svolto «il ruolo di consapevoli mediatori fra i mafiosi e la parte sottoposta a minaccia, quasi fossero gli intermediari di un'estorsione. Con l'aggravante che il soggetto "estorto" è lo Stato e l'oggetto dell'estorsione è il condizionamento dell'esercizio dei pubblici poteri». Di qui l'imputazione, per loro come per i boss, di «violenza o minaccia a un Corpo politico».
All'appello mancano almeno due imputati che nel frattempo sono morti: Vincenzo Parisi e Francesco Di Maggio, all'epoca capo della polizia e vice direttore generale delle carceri, «che agendo entrambi in stretto rapporto con l'allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, contribuirono al deprecabile cedimento sul tema del 41 bis». Il riferimento è alla mancata proroga del trattamento del «carcere duro» per oltre trecento detenuti, tra i quali alcuni mafiosi. Secondo la Procura l'impulso arrivò proprio da Di Maggio «uomo fidato dei Servizi di sicurezza e da sempre legato al Ros dei carabinieri, con l'avallo che gli derivava anche dai rapporti con il capo dello Stato Scalfaro, a sua volta influenzato da Parisi». L'ex capo della polizia e Mori vengono dipinti come «gli uomini-cerniera che divennero uomini-artefici della trattativa, decisivi nel garantire l'adempimento degli accordi presi».
Sempre nella ricostruzione della Procura Scalfaro è considerato il regista di altri passaggi-chiave: dall'avvicendamento tra Scotti e Mancino al Viminale a quello tra Martelli e Conso alla Giustizia, fino al cambio della guardia al vertice dei penitenziari, tra Nicolò Amato e il duo Capriotti-Di Maggio. Su Conso e Mancino, accusano i pm, «si è acquisita la prova di una grave e consapevole reticenza». Il primo sulla sua nomina a ministro dell'Interno e sulla consapevolezza dei contatti tra i carabinieri e Vito Ciancimino; il secondo sulla decisione di non prorogare alcuni decreti «41 bis» nell'autunno 1993.

il Fatto 6.11.12
De Benedetti e il Lingotto
Pericolo CDB per Marchionne
di Stefano Feltri


Per ora gli risponde soltanto Marina Berlusconi, per conto di quella Fininvest che gli ha dovuto pagare 564 milioni di euro come risarcimento di una corruzione giudiziaria che scippò la Mondadori alla sua Cir: “Qualcuno dovrebbe spiegare all'ingegner De Benedetti che talvolta forse il silenzio è d'oro”. A Che tempo che fa di Fabio Fazio, Carlo De Benedetti, infatti, aveva detto che quella di Silvio Berlusconi nel caso del lodo Mondadori era “la corruzione del millennio” (c’è la sentenza definitiva). Ma chi tace, anche se avrebbe avuto più ragioni di Marina per protestare, è Sergio Marchionne. Con una battuta l’editore di Repubblica ed Espresso ha paragonato la reazione dell’ad Fiat a Pomigliano alle rappresaglie dei nazisti: “Poteva anche fare uno ogni dieci come facevano i tedeschi”, dice De Benedetti, alludendo ai 19 operai di Pomigliano che la Fiat vuole allontanare per far posto ad altri 19 che secondo un tribunale sono stati esclusi solo perché tesserati Fiom e quindi ora devono essere riassunti. Per la verità è stato Marchionne il primo a evocare il Terzo Reich, citando in un’intervista il film La scelta di Sophie: lui, sicario e vittima, doveva scegliere non quale figlio ma quale stabilimento sacrificare (all’epoca disse che ne chiudeva due, ora si è corretto: sono tutti salvi). Un conto è la polemica costante con Diego Della Valle – motivata anche dalle frizioni con Fiat dentro Rcs – un altro, per Marchionne, è trovarsi contro un ex amministratore delegato del Lingotto (sia pure per una breve e non felice parentesi). Anche perché De Benedetti si è ritirato da tutto, passando le quote dell’impero ai figli, tranne che dalla supervisione dei giornali. E Repubblica, con fasi alterne, ha contribuito molto a rendere le forzature di Marchionne accettabili a un pubblico di centrosinistra (con l’eccezione degli editoriali sempre durissimi di Luciano Gallino). Qualche malizioso insinua che ora, completato il passaggio generazionale, De Benedetti non deve più preoccuparsi dei destini di Sogefi e quindi può parlare liberamente: la società di componentistica del gruppo rifornisce anche Fiat-Chrysler che vale il 6,5 per cento del fatturato (percentuale in costante calo). Ma a rileggere editoriali e interviste dell’Ingegnere negli ultimi mesi si capisce che c’è un’ostilità più profonda, meno caratteriale e più culturale rispetto a quella di Della Valle. Certo, a gennaio 2011 ha detto che “credo che tutti debbano essere grati a Marchionne perché ha preso la Fiat in un momento di baratro e l’ha salvata”. Ma questo, al manager col maglioncino, l’ha sempre riconosciuto persino Maurizio Landini della Fiom.
Ma De Benedetti non ha mai creduto alle promesse di Marchionne (“Una fabbrica costa un miliardo, 20 miliardi vuol dire 20 fabbriche”). E da tempo scrive – sul Sole 24 Ore – che se la Fiat non vuole più produrre in Italia, il governo deve subito cercare altri gruppi che rilevino gli stabilimenti, per dare continuità e salvare l’occupazione. Nell’approccio di CDB caricare sul governo il peso delle scelte di Marchionne è anche un modo per colpire il ministro incaricato, quel Corrado Passera con cui i rapporti sono compromessi dai tempi della Olivetti. E Passera finora è riuscito solo a trovare l’acquirente sbagliato per la fabbrica di Termini Imerese (Massimo Di Risio, poi scartato). Ma soprattutto, a 78 anni, De Benedetti vede in Marchionne e nel modo in cui sta trasformando il Lingotto anche il segno della fine di un’epoca. La sua. Quella in cui l’industria e la finanza italiane dipendevano da un Avvocato e da un Ingegnere. In teoria è ancora così, più o meno, (John Elkann è ingegnere e Rodolfo De Benedetti ha studiato Legge). Ma è solo apparenza.

Corriere 6.11.12
Landini: non sono «mister No». Sì al tavolo (se Marchionne chiama)
di Enrico Marro


ROMA — Gli altri sindacati chiedono alla Fiat di ritirare i 19 licenziamenti a Pomigliano annunciati per far posto agli iscritti Fiom-Cgil da assumere in seguito alla recente sentenza.
«Siamo d'accordo. Anzi la Fiom — risponde il segretario generale Maurizio Landini — ha scritto venerdì agli altri sindacati proponendo di chiedere insieme non solo il ritiro dei licenziamenti, ma anche che rientrino al lavoro tutti gli oltre duemila dipendenti in attesa di essere riassunti. Ma non ci hanno neppure risposto».
Forse vi ritengono in qualche modo responsabili dei licenziamenti. Se non aveste fatto causa alla Fiat...
«Non siamo responsabili nella maniera più assoluta. Lo è invece la Fiat che ha messo in atto una ritorsione contro la Fiom. La sentenza del tribunale di Roma dovrebbe essere valorizzata da tutti i sindacati perché riguarda il diritto dei lavoratori di non essere discriminati».
Gli altri sindacati vorrebbero però che la Fiom, anche se non è d'accordo, almeno prendesse atto degli accordi fatti con la Fiat e approvati dalla maggioranza dei lavoratori.
«La Cisl di Bonanni e gli altri sindacati hanno accettato in Fiat di uscire dal contratto nazionale dei metalmeccanici in cambio di un piano, «Fabbrica Italia», che non c'è più. Non ci possono chiedere di accettare una cosa che non c'è più. A questo punto noi proponiamo di riaprire una trattativa complessiva per discutere qual è il nuovo piano e arrivare a un nuovo accordo».
E chi dovrebbe prendere l'iniziativa?
«Lo chiedano anche gli altri sindacati insieme con la Fiom e, se necessario, lo faccia il governo».
Ma gli altri sindacati e l'azienda stanno già discutendo.
«Non stanno facendo alcuna trattativa. La Fiom, invece, vuole una vera trattativa».
Ma se poi non accettate nemmeno ciò che si decide a maggioranza, obietta ancora Bonanni.
«Allora chiariamo questa cosa. In Fiat i referendum sono stati fatti a Pomigliano e Mirafiori mettendo sotto ricatto i lavoratori. Perché invece gli 80 mila dipendenti della Fiat non hanno potuto votare quando quegli accordi sono stati estesi a tutto il gruppo? Inoltre, perché Bonanni non chiede ai suoi com'è possibile che si stia facendo una trattativa per il contratto nazionale dei metalmeccanici escludendo il sindacato più rappresentativo, cioè la Fiom, in aperta violazione dell'accordo del 28 giugno 2011?».
Scusi, ma qui ha ragione Bonanni: è paradossale che la Fiom, dopo aver combattuto nella Cgil contro l'accordo del 28 giugno, ora lo invochi.
«Noi eravamo contrari perché in quel testo c'è la derogabilità del contratto nazionale, ma essendo quello un accordo interconfederale, la Fiom, una volta che è in vigore, lo rispetta e ne chiede l'applicazione. Di paradossale c'è che chi lo ha firmato non lo stia applicando».
La soluzione può essere quella indicata dal segretario della Cgil, Susanna Camusso: un decreto legge sulla rappresentatività?
«La Fiom chiede una legge sulla rappresentatività da tempo. Abbiamo anche presentato una iniziativa di legge popolare. Ma, tornando alla Fiat, la soluzione è la riapertura della trattativa».
Tutti dovrebbero fare un passo verso la Fiom, ma quale sarebbe il passo in avanti di una Fiom che dice sempre no?
«Questa è una banalizzazione. Noi facciamo delle proposte. Abbiamo detto alla Fiat che siamo a pronti a discutere di utilizzo degli impianti e delle procedure di raffreddamento per prevenire il conflitto. E per evitare gli accordi separati proponiamo di applicare le regole democratiche della rappresentanza».
Ma ci vogliono anche sanzioni per i sindacati che poi non rispettano gli accordi, come dice Bonanni?
«Chiedo a Bonanni: qual è la sanzione per la Fiat che ha chiesto e ottenuto tutto ciò che ha voluto in cambio di un piano che non c'è più?»

Corriere 6.11.12
Cisl e Uil: Pomigliano, Fiat si fermi
Oggi l'incontro dell'azienda con i sindacati della fabbrica campana
di Raffaella Polato

MILANO — Appello unanime: «Fiat ritiri il provvedimento, fermi la procedura per la mobilità». Difficile che il Lingotto lo faccia. Andrà avanti. E questo è probabilmente quanto i vertici di Fabbrica Italia Pomigliano comunicheranno oggi a Cisl e Fim, Uil e Uilm, Fismic, Ugl, Associazione Quadri. Le «sigle del sì», quelle che con il gruppo hanno condiviso il nuovo modello contrattuale combattuto dalla Fiom, avevano chiesto la convocazione immediata dell'azienda. Immediatamente, in effetti, l'hanno ottenuta. L'incontro con le federazioni campane (come previsto dall'iter in questi casi) è fissato per oggi pomeriggio nella sede dello stabilimento napoletano. I rappresentanti sindacali sanno però già che la convocazione non prelude al richiesto — da tutti loro — «passo indietro». È un puro passaggio tecnico, o al limite interlocutorio, per poter mandare avanti quanto Fiat ha annunciato il 31 ottobre: 19 sono gli iscritti Fiom che il Tribunale ha ordinato di assumere subito (per altri 126 i tempi si allungano a sei mesi), 19 sono i dipendenti già assunti che verranno «conseguentemente» messi «in mobilità» (preludio di fatto al licenziamento).
È la decisione che da giorni concentra sul Lingotto accuse pesanti e violente polemiche, con il segretario pd Pier Luigi Bersani in prima fila a chiedere l'intervento del governo. Ma, questa volta, dall'«altra parte» Sergio Marchionne si ritrova anche i sindacati che ha fin qui sempre avuto come partner. Se l'aspettava, certo, sarebbe ingenuo pensare il contrario. La «mossa di Pomigliano» fa evidentemente parte di una precisa strategia e mira, tra l'altro, a mettere a nudo quella che per Torino è una chiara contraddizione: per poter essere assunti da Fip, come da ordine del Tribunale, gli iscritti Fiom dovranno firmare e rispettare quello stesso contratto che l'organizzazione di Maurizio Landini non ha mai riconosciuto e mai riconoscerà (vedi anche l'intervista sotto, ndr).
Il nodo è ben presente a Cisl, Uil, Fismic, Ugl, Associazione Quadri. Che infatti si muovono su due piani. Da un lato continuano ad attaccare i metalmeccanici Cgil: «Basta — ripetono — con la spirale delle cause in Tribunale, rispettino la volontà della maggioranza, firmino gli accordi che quella maggioranza ha votato». Dall'altro lato, però, la mossa Fiat rischia di portare anche loro in Tribunale contro l'azienda. Raffaele Bonanni, Luigi Angeletti, gli altri segretari lo dicono compatti da quando è scoppiato il caso. E il concetto è stato ribadito ieri, a Torino, in un incontro (tecnico) già fissato per discutere il rinnovo contrattuale. Sintesi: «Non possiamo accettare che, per riparare a una presunta discriminazione, a essere discriminati siano i nostri iscritti». L'invito al Lingotto è cercare, a partire dall'appuntamento di oggi a Pomigliano, «soluzioni alternative ai licenziamenti». Ma se così non fosse, se la «mobilità» che la Fiat è intanto decisa a mandare avanti «alternative» non ne prevedesse, la risposta sarebbe una sola. Come la Fiom, benché per ragioni opposte a quelle della Fiom, anche Cisl, Uil, Fismic e tutti gli altri porterebbero Torino davanti a un giudice.

Repubblica 6.11.12
Centinaia di futuri medici. Diplomati negli atenei di Timisoara
Così gli italiani si attrezzano contro il numero chiuso. Con qualche rischio
di Paolo G. Brera


A centinaia, ogni anno, lasciano l´Italia per venire fin qui. In Romania, tra Arad e Timisoara. È il nuovo Eldorado degli aspiranti camici bianchi, quelli che vogliono evitare le difficoltà (e le spese) dei nostri test d´ingresso. Imparano la lingua, studiano, superano esami, fanno tirocinio e vivono il loro sogno. Ma al ritorno il riconoscimento della laurea resta un´incognita
"Entro già in sala operatoria, faccio medicazioni, da noi invece farei soltanto teoria"
"I professori sono eccellenti, così come i laboratori. E la frequenza è obbligatoria"
Da qualche tempo però si indaga sui titoli di studi falsi, rilasciati a migliaia dal 2009 a oggi

Timisoara. MA GUARDA dove sono finiti, i nostri futuri dentisti, per imparare il mestiere: in Transilvania, vicini di casa dell´uomo dai canini più famosi del mondo, il conte Dracula. Più di 600 studenti italiani alla privata Vasile Goldis di Arad, una cinquantina alla statale di Timisoara; un altro migliaio sparpagliati nel resto della Romania, tra Iasi e Bucarest, tra Cluj e Costanza. Metà studiano per diventare odontoiatri, l´altra metà sarà medico. Ma stanno arrivando anche dozzine di infermieri e veterinari.
C´era una volta la fuga dei cervelli italiani, oggi anticipiamo i tempi: esportiamo direttamente il semilavorato. Secondo gli ultimi dati disponibili (rapporto Migrantes 2011) 42mila ragazzi hanno varcato i confini e studiano all´estero. Migliaia di candidati medici sono rimbalzati contro «quei test assurdi» per due, tre, quattro anni consecutivi prima di decidersi a coltivare i sogni in un terreno meno ostile. Virtù dell´Europa unita: ti laurei dove riesci, eserciti dove vuoi. Molti hanno scelto la Spagna, ma costa una fortuna tra tasse e carovita. Così a ogni iscrizione sciamano a centinaia in Romania, ogni anno più numerosi: in una mano la valigia dell´emigrante, nell´altra quella di mamma o papà che paga e conforta. Quando partono per la Transilvania sembrano Claudio Bisio e Angela Finocchiaro in Benvenuti al Sud. Benvenuti in Romania, invece: «Mia figlia - racconta la psichiatra Nicla Picciariello - era la migliore della classe, al liceo, ma ha provato quattro volte il test a Medicina e non è passata: lo sanno tutti che i posti erano già assegnati. Sconfortante, me lo lasci dire. Così si è iscritta alla statale di Timisoara. Per noi è stata una ferita: non dovremmo avere pregiudizi».
«Ma è un Paese arretrato, tanti criminali... Siamo partite insieme, le ho detto di togliersi i brillanti, via le borse di Chanel, solo vestiti dimessi. Quando sono arrivata qui mi sono vergognata. È un sogno, altro che inferno! Le auto si fermano due metri prima delle strisce, le facoltà hanno ottimi laboratori e mi sento molto più sicura a girare sola e ingioiellata qui che in Italia». Vale il reciproco: «Un giorno - racconta Alessandro Nicolò, II anno di odontoiatria ad Arad - ho detto a una professoressa che arrivavo da Reggio Calabria ed è sbiancata: "Oddio ma lì sparano per strada, è pericoloso, c´è la ´ndrangheta!" Le ho risposto: accidenti, guardi che da noi dicono lo stesso della Romania».
A Timisoara e Arad, l´eldorado degli aspiranti camici italiani, quasi tutti vengono dal Mezzogiorno. «Certo, spero di tornare al più presto nel mio Paese - racconta Marzia Russo, ventenne di Foggia, II anno di Medicina in inglese ad Arad - ma sarò per sempre grata alla Romania: in Italia mi sarei dovuta laureare in una disciplina che non mi interessa. Qui ho già iniziato il tirocinio, entro in sala operatoria, cambio medicazioni e assistito a operazioni delicate. In Italia? Farei solo teoria». In realtà, le nostre università non permettono facilmente il reintegro, una volta aggirato il test. «Ma quest´anno 29 ragazzi sono riusciti a tornare all´Università di Bari», sorride Nino Del Pozzo di Tutor University, che offre assistenza logistica alla Vasile Goldis di Arad.
Ogni anno quasi 90mila italiani affrontano il test delle facoltà mediche, e l´80 per cento vengono dal Centro-Sud. Ne passa uno su otto. «In Italia per iscriverti ai test - spiega Maria Vincenza M., uno dei 170 ammessi quest´anno ad Arad su 300 candidati italiani - spendi da 50 a 100 euro ogni tentativo. Poi ci sono i corsi: io ho speso 4mila euro ma il listino aveva soluzioni da 9, 10 e anche 12mila euro tra teoria, esercizi, simulazioni e glossario. In più ho speso 500 euro di libri». «Fate la somma, moltiplicate per 90mila studenti e capirete perché in Italia questa follia dei test non la cancelleranno mai», dice un papà, Raffaele, in cerca di casa per la figlia.
«In questi dieci anni - dice Giuseppe Lavra, vicepresidente dell´Ordine dei medici di Roma - ci troveremo con 40mila medici in meno. Il guaio è che non mancano ancora, così non facciamo nulla per risolvere il problema». Un paradosso che costa milioni: in Romania ogni studente spende in media 4mila euro di tasse ogni anno, che «diventano 10 o 12mila con affitto, mantenimento e trasferimenti». Per duemila italiani fanno una ventina di milioni di euro ogni anno che le famiglie avrebbero speso volentieri in Italia, invece che in Romania. E anche l´esodo in conto studi diventa business. «Per venire qui a Arad - dice Del Pozzo - da noi spendono 3mila euro per l´iscrizione e l´assistenza ai test di lingua, e fino a 10mila con il tutor. Ogni tanto ci arrivano telefonate strane, gente che pensa che studiare qui sia una finzione. Beh, ragazzi, non avete capito niente: 15 giorni di vacanze a Pasqua, una ventina a Natale e poi luglio e agosto, il resto dell´anno non ti muovi. C´è obbligo di frequenza e vi conoscono uno a uno, non ci si passano i badge come in Italia».
«Una volta superato il test iniziale di romeno, che per fortuna è semplice da imparare - dice Antonino Nicolò, 25 anni, futuro dentista figlio d´arte e rappresentante di tutti gli studenti - si studia mattina e pomeriggio, teoria e pratica in laboratorio, test ogni sei mesi e se non passi ripeti l´anno come al liceo. I professori sono eccellenti, abbiamo strumenti e tecnologie per laboratorio e ricerca e il mestiere lo impari davvero: al quarto anno ho iniziato a fare devitalizzazioni, una pratica difficile perché tocchi il nervo. Abbiamo tre studi a Reggio, ma se avessi studiato in Italia sarei arrivato da mio padre come gli altri, senza saper fare nulla». Antonino parla il romeno meglio dei romeni. Lo conoscono tutti: «Se ti si rompe un tubo in casa, se cerchi un avvocato o un marito basta chiamare lui... Antoninoooo», scherza Anamaria Nyeki al compleanno di Sebastian Popescu, un amico comune. Gli hanno già offerto, dice, di restare come assistente, a fine corso. «Mi sento a casa, ma lo stipendio è bassissimo. Vedremo».
Ad Arad - 180mila abitanti e un´architettura asburgica deliziosa, ma diroccata - le famiglie appena arrivate dall´Italia le incontri a colazione nella hall del migliore albergo. Quasi sempre almeno uno dei genitori è medico, a volte primario: «Insegno radiologia alla Sapienza - dice Francesco Briganti - e sono qui per mia figlia. La mia presenza dimostra che il test è una cosa seria, e che in Italia molte cose non funzionano».
Da qualche anno, in Romania le lauree false sono nel mirino. Alla Grigore T. Popa di Iasi hanno stracciato 62 titoli conquistati da italiani senza imparare una parola di romeno. E nel 2010 il rettore della Spiru Haret di Bucarest è stato sospeso: «Nel 2009 avevano rilasciato 50mila diplomi - ha raccontato in tv l´ex ministro dell´Istruzione Ecaterina Andronescu - e lo stesso l´anno precedente». Lauree facili, facilissime. Per discernere il loglio dal grano, Andronescu ha proposto di far ripetere gli esami in università irreprensibili, «pubbliche o private». E tra queste «la Vasile Goldis di Arad», la più amata dai ragazzi italiani. Il guaio è il riconoscimento incerto della laurea. Nella Ue sarebbe automatico, ma gli scandali inducono prudenza. «Monitoriamo da tempo - spiega il ministero della Salute italiano - un preoccupante fenomeno di titoli rilasciati a seguito di corsi ad hoc, formalmente validi ma nella sostanza privi di valore. Le richieste di riconoscimento sono in netta espansione. In Romania, solo in una decina di casi è stata accertata la regolarità del corso».
Loro, gli studenti, sono disposti a scommetterci sei anni di vita. Affittano camera a 200 euro, montano Sky in italiano «anche se non si potrebbe» e vivono il loro sogno tra caffè "ristretto" e covrigi caldi, le cialde ammazza-fame. Vita universitaria, amori e amicizie senza frontiere. Se metti piede fuori dalla cittadella, ad Arad, sprofondi nella povertà e nel latifondo. Ma il centro è dei grandi edifici pubblici e del teatro austro-ungarico, con bar e ristoranti affollati da ragazzi romeni e italiani, da studenti israeliani e tunisini. «Mai una violenza, un furto o un´aggressione», assicura Antonino al ristorante. Un gigante romeno si avvicina per salutarlo. È il capo della polizia anticrimine. «Chiede di spiegare ai nuovi arrivati di non fare sciocchezze: non è come in Italia, un solo spinello e ti arrestano per spaccio internazionale. Lo stesso per l´alcol: se guidi, tolleranza zero».

Repubblica 6.11.12
Giacomo Deferrari, rettore dell’Università di Genova
"La selezione è giusta ma va ancora migliorata"
di Elena Dusi


«No. Anche se mio figlio fosse bocciato tre volte ai test, non gli consiglierei di iscriversi lì» dice convinto Giacomo Deferrari, ex preside di Medicina e oggi rettore all´Università di Genova.
Il numero chiuso sta fallendo?
«Non scherziamo. Non ci si iscrive a Medicina o ad altri corsi di studio a numero chiuso solo per interesse culturale, ma per svolgere una professione. E la facoltà deve essere in grado di preparare un professionista. Se avessimo mille iscritti e aule affollate all´inverosimile, insegnare il mestiere sarebbe impossibile. Il numero chiuso resta necessario».
Ma iscrivendosi all´estero viene di fatto bypassato.
«Non possiamo impedire ai ragazzi di iscriversi all´estero. Però possiamo contrastare il fenomeno migliorando le condizioni in Italia».
In che modo?
«Allargando un po´ le maglie del numero chiuso. Oggi la sproporzione fra chi partecipa ai test di accesso a Medicina e chi li supera è enorme: ogni anno gli iscritti sono il triplo o il quadruplo dei posti disponibili. Questo non dipende tanto dalla scarsità del lavoro, perché il numero di medici nel nostro Paese è in calo e aumentare i laureati non creerebbe grandi scompensi. Il problema è che gli studenti vanno seguiti, soprattutto nel momento in cui entrano in reparto e imparano l´aspetto pratico di un mestiere. Ed è qui che il sistema italiano mostra le sue carenze. Finché non verrà risolto questo imbuto sarà impossibile frenare il fenomeno dei ragazzi che si iscrivono in Romania o Albania».
Ci sono soluzioni?
«Certo, e a costo zero. Creando delle strutture che io chiamo "ospedali per l´insegnamento e la ricerca" permetteremmo agli studenti di essere coinvolti nell´attività di tutti i reparti».
Perché oggi cosa avviene?
«A Genova, per esempio, abbiamo l´Istituto San Martino che è composto per metà da reparti universitari e per metà da reparti ospedalieri. Il raccordo fra i due mondi purtroppo non è sempre ottimale. Negli ospedali per l´insegnamento e la ricerca, al contrario, tutti i reparti sarebbero aperti agli studenti. Questo sistema non comporterebbe aggravi per nessuno e farebbe aumentare le possibilità di seguire i ragazzi nel loro lavoro pratico. Strutture simili rappresentano la norma negli Stati Uniti e nei paesi anglosassoni in genere. Sono nate circa un secolo fa e da lì si sono diffuse anche in Francia».
Da noi invece?
«Se ne parla. Molti ministri si sono detti interessati. È stata anche istituita una commissione per studiarne la fattibilità. Si è riunita una sola volta. Non mi chieda il perché. Non lo so».
Gli ospedali per l´insegnamento e la ricerca permetterebbero di abolire il numero chiuso?
«Sarebbe auspicabile allargare le maglie del numero chiuso. Ma non ritengo assolutamente che sia il caso di abolirlo. I risultati di alcuni test di ammissione sono inguardabili e il numero di studenti deve essere commisurato alle possibilità di insegnamento di una facoltà. Chi si farebbe visitare da un medico che non ha mai visto un malato durante tutto il suo corso di studi? Il numero chiuso è una garanzia per tutti noi che prima o poi avremo bisogno di un professionista».

Repubblica 6.11.12
Signor Netanyahu, risponda ai palestinesi
di David Grossman


Ma cosa aspetta, signor Netanyahu? Il capo dell´Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, ha dichiarato in un´intervista alla televisione israeliana di essere disposto a tornare a Safad (la città dov´è nato nel nord di Israele) come turista. Nelle sue parole era discernibile la più esplicita rinuncia al "diritto del ritorno" che un leader arabo possa esprimere in un momento come questo, prima dell´inizio di un negoziato. Allora perché lei aspetta, signor Netanyahu? È vero, Abbas non ha pronunciato le precise parole "rinuncia al diritto del ritorno" e in un´intervista in arabo si è affrettato a prendere le distanze dalle proprie dichiarazioni sostenendo che questa è solo la sua opinione personale e nessuno è autorizzato a rinunciare al "diritto del ritorno". Conosciamo questa danza palestinese: un passo avanti, in inglese, e due indietro, in arabo.
Eppure nelle parole di Mahmoud Abbas c´è qualcosa di nuovo, un segnale. Nella nota cacofonia di urla e accuse che le due parti – inevitabilmente sorde l´una all´altra – si scambiano c´è un suono nuovo. Una nota che richiede un´attenzione diversa e una reazione più complessa e creativa.
E lei, signor Netanyahu, non reagisce.
La cosa è un po´ imbarazzante eppure le ricordo, signor Netanyahu, che lei è stato eletto per governare Israele, per riconoscere rari segnali di opportunità come questi e sfruttarli per far uscire il Paese dal vicolo cieco in cui è bloccato da decenni.
Lei di certo capirà, signor primo ministro, cosa significa per un leader palestinese pronunciare apertamente quelle esitanti parole. Di certo può immaginare – al di là del muro di sospetto e di ostilità che esiste fra voi – cosa significa per l´uomo Mahmoud Abbas, nato a Safad (dove per tutta la sua esistenza ha sognato di tornare a vivere), dichiarare che rinuncia a questo sogno. Lei, ovviamente, può liquidare le parole del presidente Abbas definendole un tentativo di manipolazione. Tuttavia, in quanto leader soggetto a pressioni da parte di estremisti e fanatici, può anche apprezzare in cuor suo il coraggio che gli è stato necessario per pronunciare ad alta voce queste parole, ben sapendo quanto potrebbero costargli.
Ma lei, signor Netanyahu, non ha quasi reagito. Nel vuoto di questa reazione si è introdotto il suo ministro degli Esteri che, con la delicatezza che lo contraddistingue, ha attaccato il presidente Abbas e ridotto in polvere le sue dichiarazioni.
No, mi scusi. Lei in effetti ha reagito con una dichiarazione breve, quasi casuale, all´inizio della seduta di governo: «Se i palestinesi vogliono parlare», ha detto, «la strada per il negoziato è aperta. Ma senza alcuna condizione preliminare».
Il tono di questa reazione automatica mi ricorda la famosa frase di Moshe Dayan dopo la guerra dei Sei Giorni: «Aspettiamo la telefonata di Hussein e di Nasser». Abbiamo aspettato. È arrivata la guerra del Kippur.
Se continueremo ad aspettare, signor Netanyahu, accadrà una tragedia. È vero, per il momento i palestinesi sono tranquilli. Quarantacinque anni di occupazione li hanno schiacciati, sgretolati e paralizzati. E siccome sono tanto sconfitti e apatici qui in Israele cresce il senso di indifferenza e l´illusione che le cose andranno avanti così per l´eternità.
Ma laddove ci sono esseri umani non c´è vera paralisi. E laddove ci sono milioni di persone oppresse non esiste un vero status quo. La disperazione e il senso di sconfitta hanno una forza e una dinamica proprie. Che aumenteranno e si addenseranno nell´ombra fino ad esplodere all´improvviso con enorme violenza.
E quando ci sarà un nuovo scontro tra noi e i palestinesi lei, signor Natanyahu, potrà dirci con onestà che ha fatto di tutto per evitarlo? Che ha smosso ogni pietra? Che ha risposto a ogni appello, anche il più debole ed esitante?
Lei di certo penserà: siamo in tempo di elezioni, non è il momento di smuovere le acque, ogni passo verso i palestinesi potrebbe compromettere la solida maggioranza della destra. Lei, politico esperto, sa che ci sono anche argomentazioni concrete, valide e forti a favore di un eventuale negoziato con i palestinesi proprio in questo periodo. Ma non voglio addentrarmi in queste argomentazioni perché una discussione in proposito dovrebbe avvenire a un altro livello, in un´altra dimensione. In una dimensione in cui lei dovrebbe dar prova di essere un leader, non un politico. In una dimensione in cui lei dovrebbe riconoscere che Mahmoud Abbas è forse l´ultimo esponente di punta palestinese che dichiara che non permetterà che ci siano una terza Intifada e nuovi atti di terrorismo. In una dimensione in cui lei dovrebbe riconoscere che le parole di Abbas in quell´intervista – per quanto "ammorbidite" e rimaneggiate in seguito (dopo tutto anche il presidente dell´Autorità palestinese è un politico oltre che un leader) – sono forse l´ultima opportunità di iniziare un processo che potrebbe affrancare Israele dal declino e dall´errore in cui è intrappolato da decine di anni.
In una simile dimensione sarebbe necessario un grande e audace movimento, non spasmi elettorali. La politica è, come si sa, l´arte del possibile. Ma governare, talvolta, è una vera e propria arte. È creare dal nulla. Fra noi e i palestinesi in questo momento c´è il deserto, il nulla, il vuoto. Un presidente palestinese che dice che sa che potrà tornare a Safad, la sua città natale, solo come turista invia a lei, signor Netanyahu, un segnale dalle profondità di questo vuoto. Potrebbe essere un segnale falso. Oppure potrebbe spegnersi fra un istante. Potrebbe non essere altro che un tentativo di manipolazione (anche se, a giudicare dalle reazioni furiose dell´opinione pubblica araba, molti connazionali di Mahmoud Abbas prendono estremamente sul serio le sue parole). Tutto è possibile. Ma nella situazione in cui si trova Israele lei, signor primo ministro, deve rispondere a questo segnale perché, se non lo fa, se davvero non ha intenzione di reagire seriamente a questa minuscola possibilità, io faccio fatica a capire per quale motivo chiede di essere rieletto a capo del governo.
(traduzione di Alessandra Shomroni)

Repubblica 6.11.12
Migliaia in piazza per i "matrimoni per tutti"
Ma è già scontro tra Hollande e la Chiesa
Nozze e adozioni per le coppie gay la Francia si divide
Se la normalità diventa discriminazione
Domani approda in Consiglio dei ministri la riforma annunciata dal governo socialista
di Anais Ginori


PARIGI È iniziato per caso, come in una vecchia foto di Doisneau. Julia e Auriane, 17 e 19 anni, si baciano a Marsiglia, nel mezzo di una manifestazione contro i matrimoni omosessuali. Una forma di provocazione. L´abbraccio saffico delle due giovani, immortalato da un fotografo Afp, si trasforma rapidamente in un´icona, fa il giro del web. Il "kiss in" è diventato così il nuovo rito nelle piazze francesi. È successo qualche giorno fa a Strasburgo, sabato scorso a Limoges. Un gay pride romantico, un gigantesco french kiss per sostenere il progetto di legge sul riconoscimento del matrimonio e le adozioni per le coppie omosessuali.
Domani approda in Consiglio dei ministri la riforma promessa in campagna elettorale da François Hollande. La Chiesa ha già fatto sapere che considera la legge come una «prepotenza», che apre una «discriminazione tra bambini». L´arcivescovo di Parigi, André Vingt-Trois, ha ipotizzato una mobilitazione dei cattolici anche nelle strade. Per il presidente socialista sarà il primo, vero scontro sociale da quando è stato eletto, nel maggio scorso. Con un record di impopolarità nei sondaggi, Hollande si deve preparare a un conflitto aperto con le gerarachie ecclesiastiche. Uno scenario simile a quello che ha dovuto affrontare, con alterne fortune, l´ex premier spagnolo José Luis Zapatero.
Nonostante la difesa del progetto e il richiamo alla "Repubblica laica", il governo sta già tentando di smorzare le polemiche. La riforma è stata ribattezzata "matrimonio per tutti", con il cambiamento della definizione del codice civile da unione "fra un uomo e una donna" a unione "fra due persone". Dal disegno di legge è stata tolta la possibilità per le coppie omosessuali di accedere alle tecniche di riproduzione assistita, mentre si legalizzerà l´adozione. La riforma dovrebbe essere discussa a gennaio dal parlamento in modo da entrare in vigore entro l´estate prossima.
La maggioranza dei francesi rimane favorevole alla proposta. Negli ultimi mesi è stato però registrato un calo dei consensi. Il 58% dei cittadini approva la legalizzazione del matrimonio e il 50% la possibilità di adottare, con un calo, rispettivamente, di 5 e 6 punti rispetto all´anno scorso. Segno che gli argomenti dei cattolici e dei difensori della famiglia tradizionale hanno fatto breccia o che, più probabilmente, il governo non ha saputo difendere un progetto simile a quello già adottato da paesi vicini, come la Spagna o il Belgio. La Francia è stata all´avanguardia per i diritti delle coppie omosessuali, con l´approvazione dei Pacs, oltre dieci anni fa. Per paradosso, a condurre la battaglia del «matrimonio a tutti» è un presidente che non si è mai voluto sposare e che ancora oggi si accontenta di una convivenza more uxorio all´Eliseo.

Corriere 6.11.12
«Atene non paga, niente medicine»
Il gruppo Merck interrompe la fornitura degli anti-tumorali alla Grecia
di Luigi Offeddu


BRUXELLES — Nel 1668, quando comprò la «Farmacia dell'Angelo» a Darmstadt in Germania, Friedrich Jacob Merck non immaginava certo che cosa sarebbe diventata: il più antico colosso farmaceutico al mondo, uno dei più potenti e il secondo negli Usa, oltre 40 mila dipendenti in 67 diverse nazioni, ricavi per 2,8 miliardi di euro nei primi 6 mesi di quest'anno, l'11,6% in più rispetto all'anno precedente. E una missione ufficialmente dichiarata: «Migliorare sempre di più la qualità della vita umana». In quei 67 Paesi e altrove. Ma forse non in Grecia, protesta qualcuno ad Atene: perché da ieri la Merck non fornisce più agli ospedali pubblici greci il suo più importante farmaco anti-tumorale. Motivo: troppi pagamenti in ritardo o sospesi, per via della crisi economica. E troppi crediti nei confronti della sanità greca — ma questa non è certo la spiegazione ufficiale — convertiti in titoli di Stato ellenici, poi deprezzatisi con l'aggravarsi della situazione generale (solo la consociata Merck Serono avrebbe accettato, in pagamento dei farmaci, bond per 56 milioni di euro).
Il medicinale che viene negato ora agli ospedali si chiama commercialmente Erbitux (principio attivo, il «cetuximab»), è il secondo prodotto più venduto della Merck, risulta prescritto soprattutto per i tumori colon-rettali o per quelli della testa e del collo. Nel 2011, le sue vendite nei vari Paesi hanno toccato gli 855 milioni di euro. Gli ammalati greci potranno sempre acquistarlo in farmacia, è stato fatto sapere: ma in ospedale, come si può intuire, dovrebbe essere meno costoso e più facilmente disponibile.
Sempre in queste ore, la Merck Serono ha annunciato che investirà ogni anno un milione di euro per premiare le ricerche più innovative nel campo della sclerosi multipla. Ma il problema greco è tutt'altra cosa, e resta. Non è la prima volta che la crisi incide sui costi della salute e su uno degli aspetti più angosciosi della vita umana, la lotta a un tumore. È già accaduto fin dall'anno scorso, con altre case farmaceutiche, sempre in Grecia e in altri Paesi. Ed è stato già detto che potrebbe accadere ancora, anche in nazioni come l'Italia. La Roche, per esempio, ha sospeso le forniture a credito a 23 ospedali pubblici portoghesi, appellandosi al fatto che avevano accumulato debiti per 135 milioni di euro, e che ritardavano ormai i pagamenti anche per più di 420 giorni. E proprio l'altro ieri, da Bruxelles, la Federazione delle imprese farmaceutiche in Europa ha indirizzato una lettera al governo greco, offrendogli una sorta di «sanatoria», cioè un tetto ai pagamenti dovuti, e chiedendo però che non si accumulino in futuro altri debiti: continueremo a fornirvi le medicine, questo il senso del messaggio, purché d'ora in poi onoriate gli impegni e mettiate ordine nei vostri conti. Ma la stessa Federazione ricorda anche che le aziende farmaceutiche hanno già concesso circa sette miliardi di euro in sconti e rateizzazioni, non solo alla Grecia ma anche alla Spagna, o all'Italia. E anche qui c'è un messaggio, neppure tanto cifrato: qualcosa come «la nostra parte l'abbiamo fatta, non siamo vampiri». Del resto, il rischio sovrano — quello che un governo fallisca per i suoi debiti — è diventato un fattore importante anche per le case farmaceutiche internazionali: non se ne parla molto ma c'è e si fa sentire, come spiegano all'«Ihs Global Insight», un centro-studi che analizza proprio i livelli di rischio economico, finanziario e commerciale in oltre 200 nazioni. La stessa Merck può essere un esempio: ha risentito della crisi europea e nonostante le buone notizie sui ricavi, ha annunciato massicci tagli entro il 2015, fino al 10% della sua forza lavoro in Germania.
La polemica continua: forse, non c'è risposta al dilemma fra i legittimi diritti dell'impresa, anche quelli commerciali, e l'altrettanto legittimo — oltre che lacerante — diritto dell'individuo alla salute, a un'esistenza dignitosa. Ma quello della Merck è un caso particolare, che può avere per qualcuno — giusto o no che sia — anche una valenza simbolica: perché la testa o il cuore dell'azienda stanno ancora a Darmstadt in Germania, nella nazione governata da Angela Merkel. La Germania: il Paese che più ha sostenuto le misure di austerità per Atene, quello che più alza la voce nella Trojka, la commissione mista Ue-Fondo monetario-Banca centrale europea che reclama altri tagli immediati al bilancio greco, anche e soprattutto al bilancio sanitario. E Angela Merkel, poi: la cancelliera che solo pochi giorni fa è stata accolta da fischi e qualche bottigliata nel centro di Atene, fra lo sventolare beffardo di bandiere con la svastica, la leader straniera che almeno una parte dell'opinione pubblica greca considera responsabile delle proprie angosce. Da domani, al Parlamento si vota di nuovo sulle riforme dell'austerità, il governo scricchiolante e diviso si gioca tutto: la vicenda della Merck non aiuterà forse a vedere le cose più razionalmente.
Neanche questo, avrebbe mai potuto immaginare Friedrich Jakob Merck, quando decise di investire i suoi talleri d'argento nella «Farmacia dell'Angelo».

l’Unità 6.11.12
Cina, vigilia del congresso. Premier sotto inchiesta
Dopo le rivelazioni del New York Times sulle ricchezze accumulate dai suoi familiari, Wen Jiabao chiede che il partito indaghi
Tensione ai vertici della Repubblica popolare
di Gabriel Bertinetto


Comunisti cinesi a congresso in un clima a dir poco elettrico. L’inizio è fissato per dopodomani, e ancora ieri non sono mancati i colpi di scena. Se non sorprende tanto l’espulsione di Bo Xilai, capo della tendenza maoista, ormai caduto in disgrazia, meno prevedibile era l’apertura di un’inchiesta su Wen Jiabao, premier uscente e leader della tendenza riformatrice. È stato lui stesso a sollecitarla, dopo le notizie diffuse dieci giorni fa dal New York Times sull’enorme ricchezza accumulata dai suo familiari. L’Ufficio permanente del Politburo l’ha subito accontentato, e questo non era del tutto scontato.
Il diciottesimo congresso sarà così fisicamente o politicamente orfano dei due dirigenti più carismatici, quelli ai quali negli ultimi anni hanno fatto idealmente riferimento gli oppositori del nuovo corso da un lato, e coloro che al contrario ne auspicavano un’accelerazione dall’altro.
Wen Jiabao ieri era in Laos per il vertice Asia-Europa, durante il quale ha avuto anche un colloquio con il suo omologo italiano Mario Monti. Per Wen è uno degli ultimi impegni ufficiali nelle vesti di capo del governo. Da tempo è previsto che il congresso ratifichi la sua sostituzione con l’attuale vice Li Keqiang, così come è in programma l’uscita di scena del capo di Stato e segretario del partito Hu Jintao, cui subentrerà l’attuale numero due Xi Jinping.
Ciò che non si poteva prevedere fino a poche settimane fa è che Wen lasciasse la carica in condizioni tali da lasciar credere che alla perdita del ruolo istituzionale, si accompagni anche l’azzeramento del prestigio e dell’influenza politica. Molto naturalmente dipenderà dall’esito dell’inchiesta, e questo dipenderà probabilmente a sua volta dagli equilibri di forza interni al partito, così come matureranno durante i lavori del congresso.
Secondo il reportage del quotidiano statunitense i parenti stretti del premier, dalla moglie alla mamma, dai figli ai cognati, hanno accumulato un’immensa fortuna, pari a circa 2,7 miliardi di dollari. Un arricchimento rapidissimo, che ha coinciso con il decennio in cui Wen è stato ai massimi vertici del potere. Il giornale non ha potuto appurare un diretto coinvolgimento del capoclan, ma in alcuni casi sono emersi indizi di un apparente conflitto di interessi. Leggi riguardanti il sistema assicurativo sembrano avere favorito l’impressionante ascesa di un’azienda di famiglia la Pin An.
Sia Wen Jiabao sia i congiunti hanno smentito ogni accusa e minacciato azioni legali. Il governo ha oscurato per rappresaglia l’edizione online del New York Times in Cina. Lo stesso era accaduto in giugno quando Bloomberg diffuse notizie riguardanti il patrimonio e gli investimenti del presidente Hu Jintao.
Alcuni sinologhi ritengono tuttavia che difficilmente le indagini interne su Wen porteranno a risultati clamorosi. Il fatto è che sono molti i dirigenti cinesi ad avere approfittato della loro posizione per trarne vantaggi personali, e che «potrebbero avere ricchezze da nascondere», spiega He Weifang, giurista della Università di Pechino. Inoltre anche per coloro che non hanno responsabilita dirette, sarebbe pericoloso consentire che si scavi troppo a fondo, «considerando le esplosive ripercussioni sociali» che ne potrebbero derivare.
Oltre a cacciare Bo e ad aprire l’inchiesta su Wen, il Comitato centrale ha promosso due generali, Fan Chanlong e Xu Qiliang, a vicepresidenti della Commissione militare centrale, un organismo di cui è a capo Hu Jintao. Quest’ultimo cesserà sicuramente di essere il numero uno nello Stato e nel partito, ma potrebbe mantenere la testa della Commissione militare centrale, potente anello di congiunzione fra partito e forze armate. Si ripeterebbe insomma quanto accadde dieci anni fa con il suo predecessore Jiang Zemin, che per due anni restò alla guida della Commissione anche dopo avere lasciato la poltrona di presidente della Repubblica e segretario del Pcc.

l’Unità 6.11.12
Scuola, l’importanza dei libri stampati
Non rottamate i libri di testo
di Benedetto Vertecchi


È difficile trovare una ragione per l’accanimento che il ministero dell’Istruzione sta dimostrando nei confronti della cultura italiana. In apparenza si tratta di intervenire sull’organizzazione del lavoro, come nel tentativo di aumentare da 18 a 24 ore l’orario di cattedra degli insegnanti, senza porsi il problema del contesto dell’attività.
Oppure di promuovere nelle università corsi in lingua inglese, non si capisce destinati a chi, ma che hanno come unico effetto quello di affermare un’immagine subalterna degli studi superiori.
La mancanza di un disegno che non sia la semplice amplificazione di un generico senso comune si ritrova anche nelle disposizioni recentemente emanate sulla sostituzione dei testi cartacei con supporti elettronici. In altre parole, gli allievi non dovranno più studiare utilizzando libri stampati, ma useranno tavolette digitali.
Ovviamente, questo passaggio dal cartaceo al digitale è presentato come una svolta epocale. Nessuno si è preoccupato però di immaginare quali potranno esserne le conseguenze, sia quelle che si possono solo immaginare (perché non ci sono elementi, in positivo o in negativo, a favore o contro l’uso dei supporti digitali), sia quelle che è fin troppo facile anticipare, perché fanno riferimento a dati di comune possesso. Tra le conseguenze che si possono immaginare c’è un cambiamento del rapporto tra gli allievi e i libri. Cambia (è solo qualche esempio) la percezione fisica del testo, le operazioni che si compiono nel processo di apprendimento, il riferimento mnemonico a questo o a quel passo. Chi ci assicura che usando libri digitali sia possibile ottenere risultati quanto meno non peggiori di quelli che si ricavano dai testi cartacei? Non sarebbe stato opportuno, prima di intervenire per via normativa su un aspetto così delicato del funzionamento della didattica, passare attraverso una limitata, ma rigorosa fase sperimentale per stabilire i punti di forza e quelli di debolezza dei libri tradizionali e di quelli modernizzati tramite le tecnologie digitali?
Ma la questione dei libri non si esaurisce solo con considerazioni di funzionalità didattica. In un Paese come l’Italia, in cui la lettura costituisce, malgrado il grande aumento della popolazione scolarizzata, un’attività alla quale si dedica solo una parte minoritaria della popolazione e in cui le opportunità di lettura pubblica sono scarse per i limiti della rete bibliotecaria, i libri di scuola rappresentano spesso, proprio dal punto di vista fisico, l’unico contatto con quello che resta, malgrado tutto, il riferimento culturale più evidente.
In un contesto regressivo della capacità di comprendere il testo scritto, com’è quello che in misura crescente caratterizza i paesi industrializzati, la scomparsa dei libri dagli oggetti percepiti entro le mura domestiche rischia di accelerare la perdita della capacità di utilizzare i repertori simbolici che sono stati alla base della grande trasformazione culturale e sociale negli ultimi secoli.
Occorre anche chiedersi quali testi saranno disponibili per le tavolette digitali. Certo, se si tratterà solo di riprodurre i libri già esistenti su carta, l’operazione sarebbe di assai modesto rilievo. Gli unici a compiacersi del cambiamento sarebbero i produttori di tavolette.
Non potremmo non attenderci, invece, un peggioramento delle condizioni, già non brillanti, dell’industria editoriale che potrebbe perdere una percentuale consistente del suo fatturato. C’è anche da chiedersi, una volta riprodotti testi esistenti, chi potrebbe impegnarsi nel predisporne di nuovi, oltretutto senza disporre di riferimenti certi circa il modo in cui potranno essere utilizzati nell’educazione scolastica.
Vale la pena di aggiungere che i libri su carta possono essere letti in un tempo lungo. L’accesso alla Bibbia di Gutenberg presenta difficoltà di ordine culturale, perché è scritta in latino, ma non tecnico, perché i caratteri continuano a essere perfettamente leggibili. Nel caso delle edizioni digitali si deve prevedere una doppia caduta: quella che investe la tecnologia, che richiede la sostituzione sempre più rapida dei prodotti ora proposti, e quella dei sistemi di codifica, che anche se in tempi un po’ più lunghi rende inutilizzabili codifiche effettuate su supporti non attuali (quanti usano ancora i dischetti magnetici? E per quanto tempo continueremo a usare i supporti ottici?). Occorrerebbe, per cominciare, incoraggiare la ricerca e fondarla, invece che sul senso comune, su solide basi sperimentali. Intanto, si deve evitare di rendere le scuole sempre più povere, visto che, per acquisire mezzi che potranno essere usati per un tempo breve, sono costrette a rinunciare a quelle dotazioni che potrebbero essere alla base di attività creative e progettuali, tali da impegnare il pensiero e l’azione di bambini e ragazzi.

La Stampa 6.11.12
Quello che ci resta della Grecia
Dal V secolo a.C. l’energia portentosa e purificatrice della rivelazione tragica
di Guido Ceronetti


Non è il farmaco a mancarci ma il non-essere, lo stato forse beato di non-essere-mai-stati
Dioniso, il Caprone errante, da dove viene? La spietatezza che gli attribuisce Euripide nelle Baccanti è senza pari

Mi domandavo spudoratamente, che cosa possiamo utilizzare per sempre, della Grecia? In che cosa può aiutare in concreto, l’Occidente in cui siamo, orizzonte dannato, a crearsi un pensiero, un ideale di consolazione? È stato il tema del mio monologo drammatizzato al teatro Grassi di Milano il 2 ottobre scorso e l’attenzione con cui il pubblico l’ha seguito m’incoraggia a una riflessione ulteriore.
Dal fondale nero pendeva la Nike di Samotracia, che accoglie col suo volo vertiginoso i visitatori del Louvre. È un rimedio contro l’angoscia? La Nike vale il mantello della Madonna della Misericordia di Piero? Nel momento del loro apparirci sì, ne ho fatto esperienza. L’ignoto artista credeva di celebrare una vittoria militare, invece la sua Nike è una leva per sollevare in alto un’idea dell’uomo dalla bassura, lo aiuta a vincere se stesso, gli sussurra «Questo sei tu» come una Upanishad di marmo palpitante.
Un messaggio come questo calma però soltanto la calma: in una condizione di bisogno e di tumulto estremo, nell’implacabile cadenza di ciò che è ultimo - uomo contro uomo, uomo in preda alla natura - ci contempla impassibile, la statua senza mani non accenna gesti di aiuto.
«Oh l’orribile squarcio di coltello!/ Il corpo mio, la mia figura invecchiano! / Non ho la forza di soffrirlo. E a te ricorro / (Tu a volte medichi), Arte di poesia; / Stordiscimi / Per mezzo dell’immagine e del suono / Tanto dolore... »
Stordirgli il dolore... così si consola Kavafis, nel 1921, immaginando il lamento di un poeta, Iason di Cleandro, vivente sei secoli d. C.
Ma che cosa può fare per lui, al di là di un fuggitivo stordimento, l’artepoesia? La vecchiaia procede inesorabile, i piaceri da lui amati non galleggiano più che nella parola evocatrice, il suo androceo efebico è nebulosa di ricordi.
Epicuro volle fornirci di un verbo di salvezza. Ma sopravvenuti gli spasimi atroci della vescica, la sua consolazione suprema non furono le grandi massime irradiate dalla sua filosofia; fu di ubriacarsi a più non posso in una tinozza caldissima, e uscire così dal martirio prostatico e dalla vita.
Oggi però il primario urologo, a noi vecchi capibranco ai quali nella buona salute dava conforto filosofare, indora l’amara pillola: «Eh, non lamentatevi... oggi sono pronti per voi amorevoli cateteri, farmaci d’America, nano e criochirurgia... un giardino di delizie!».
Ma L’Ellade eterna è ben ferrata in repliche dure. Risponderebbe che non è il farmaco a mancarci ma il non-essere, lo stato forse beato di non-esseremai stati, che questo Sein zum Tode Essere per la Morte -, sia pure rischiarato dal tenue lume dell’arte di poesia, non vale tanto spreco di pena, non compensa la violenza dei flagelli che colpiscono il pianeta darwiniano. Di più: la Grecia sacra si domanda se davvero siamo, se tutto davvero sia; dubita degli Dei e della loro provvidenza, li teme e li irride, sa che a noi non ordiscono che inganni: Euripide che volle romperne la rete fu sbranato dai cani.
Davvero, la consolazione senza limiti non è greca! Anche nell’eccesso la Grecia è misura.
Spunta un sorriso in una poesia di Yannis Ritsos, ed è a prezzo di pena. Vedi la raccolta della Pignata affumicata. In un poema del 1944, Grecia occupata, tedeschi ad Atene con poco convinti alleati italiani, Ritsos fra i prigionieri dell’occupante stipati in una galera intravede e fa circolare la consolazione di un sorriso, di un comune sorridere. C’è bellezza. C’è come c’è nella Nike Samotrakis e nella Venere di Milo. Il dono con misura greco è qui.
(L’attrice Dianira canta la versione musicata del poema di Yannis Ritsos. Segue lettura della traduzione inedita di Nicola Crocetti).
Dagli splendori e le doglie del quinto secolo a. C. emerge l’energia portentosa, la violenza purificatrice della rivelazione tragica.
(Gli attori Baruk e Dianira recitano il quarto coro di Edipo re di Sofocle nella traduzione di Guido Ceronetti, contenuta nell’antologia Trafitture di tenerezza, Einaudi-Poesia)
E nel comprendere il tragico greco tutto il tragico è compreso; una conoscenza come quella basta alla comprensione del mondo. Sotto specie di tragico ogni pensare è concluso, e so bene che non può bastare. Il tragico ti blocca, ti anestetizza, ti svoglia dall’affrontare l’imperfezione e l’imperfettibiltà di tutto ciò che è infinito.
L’infinità cosmica o temporale o divina è aborrita dal tragico, è del tutto fuori dal suo comprenderci in un mondo finito, in quanto il tragico è compimento di uno o più destini - incluso tutto quel che può esserci, in un destino, di ulteriore - se quel compiersi predestinato non è la morte. Fortunatamente di Elladi ce n’è più d’una. Non quella soltanto che si è fissata nel dramma tragico. La Grecia alessandrina ha un altro volo, appena qualche secolo dopo. Ma aver dato nome e un linguaggio specifico e universale all’archetipo Tragedia (alla lettera: Canto del Caprone) è una (o la) gloria della lingua greca.
Ma Dioniso, il Caprone errante, da dove viene?
Da quali Orienti? Io lo vedrei più figlio dello Shiva indiano, che della coscia di una divinità mascolina, ma la spietatezza, la perfidia che gli attribuisce Euripide nelle Baccanti è senza uguali (per alcuni, Dioniso è nato in Grecia o non lontano di là).
Il Dio manifesta la sua scarsa propensione al bene a partire da un verso (810) che per un attore può essere di una estrema difficoltà interpretare. Il testo del famoso ultimo dialogo Dioniso-Penteo comincia con un Alfa iniziale isolato che colpisce come una folgore e contiene, nell’elementarità di un suono vocalico, tutta la selvaggia smisuratezza dello smembramento di Penteo che seguirà tra poco: Quella A è una cesura fondamentale nella vicenda, che ne indica il decisivo mutamento per determinazione divina.
A, niente altro che una vocale da dire, ma con quanta energia e sudore di attore! Da quel momento il povero re di Tebe è un uomo morto.
La messinscena di un dramma greco è avvolta di un’aura di irrappresentabilità; anche quando viene fatta nei luoghi stessi e nella lingua propria. In abiti d’oggi, una mania registica, in traduzioni traballanti, non rivestiamo che dei disastri. C’era canto in eccesso, e l’Opera lirica non era lontana, le musiche perdute. Josef Svoboda il più grande degli scenografi, ha vestito coro e personaggi di Edipo re di costumi poveri e svolazzanti. Non sappiamo, da quelle non leggere maschere di scena, quanto fossero distinguibili le voci nei pomeriggi teatrali.
Dice Seferis che Cassandra, lei straniera, parla con un gallo nero nella strozza. Mi sono introdotto un gallo nella gola per furore onomatopeico, ma non ne è uscita la voce di Cassandra! Anche il gallo evangelico, che col suo canto ripetuto tre volte ricorda a Pietro il suo rinnegamento, non è un vispo galletto da pollaio. Bisogna provare e riprovare voci, esercitandosi nel bilinguismo, e i galli, in Italia come in Grecia, canteranno.
Esofago, l’interno della gola, deriva da uno dei verbi più tremendi del linguaggio tragico: sfágo, sfázo (macellare, scannare, ammazzare, massacrare, trucidare). Eschilo usa, nell’ Agamennone, il sostantivo terrificante da lui creato androsfaghíon (mattatoio d’uomini). Uno dei gridi di strada della vecchia Atene, Corfù, Tessalonica, dei venditori di angurie, era, e forse lo è ancora, óla tà sfázo, le sgozzo tutte, e il venditore mostrava quanto rosse e succose fossero. Una grande filologa contemporanea, Nicole Loraux, ne trattò in un saggio dal titolo terribile: Modi tragici di uccidere una donna, 1985, perché nei tragici le donne che muoiono uccise o suicide lo sono per impiccagione o per coltello di sacrificatore: morire di gola è la classica morte femminile per atti violenti (si tratti di Antigone o di cronache d’oggi). In Shakespeare, molto naturalmente muoiono per impiccagione e soffocazione lady Macbeth e Desdemona, e Giulietta per veleno ingerito.
Nei deliri della pazzia l’emissione di suoni dalle corde vocali richiamano sempre la gola, che la Loraux psicanaliticamente compara alla gola profonda uterina, profondità primaria, temuta, del corpo.
Il verbo sfágo, che è da sempre nella lingua dell’Ellade, ha corrispondenti biblici e in ebraico vivente: shachàt, shamàd. Lo shochèt è il macellaio rituale (colpo nella gola) delle sinagoghe (il vegetariano Isaac Singer ne aveva orrore) e l’angelo Maschìt è l’angelo Sterminatore. Shamàd è il verbo delle carneficine e della Distruzione.
Della pregnanza di questi verbi, che hanno inondato tutto ciò che c’è di più umano nelle lingue parlate e scritte, quando si mettono in scena i tragici, bisogna tener conto. Il verbo tragico, come la Strada Maestra di Dostoevskij, sempre contiene un’idea, e più d’una idea, ispira e abbozza scenografie meglio incollate al testo, è presa diretta di corrente nella vita.
Lo spettacolo termina con versi incantevoli da una delle grandi poesie di Giorgio Seferis, Epifania 1937: «Mormorii nel silenzio sterminato / (Non so più bocca aprire né ragionare) / Trattengono in me la vita: / Di quella notte il respiro di un cipresso, / La voce umana dell’onda marina / Notturna sulla ghiaia, il ricordare / La tua voce e il suo dirmi Eftichìa », «Buona fortuna».

Corriere 6.11.12
Nella «Piazza delle lingue» la storia della Penisola


L'appuntamento di oggi e domani a Firenze con la sesta edizione de «La piazza delle lingue» ricorda i 400 anni dell'Accademia della Crusca. «L'Europa dei dizionari per il IV centenario del Vocabolario della Crusca» è il titolo del convegno che si svolge oggi a Villa Medicea di Castello, sede dell'Accademia. Per l'occasione è stata allestita anche una mostra intitolata «L'Accademia della Crusca e i 400 anni del Vocabolario», che illustra le tappe fondamentali che hanno portato alla pubblicazione del dizionario.

Corriere 6.11.12
La Crusca: quattro secoli in difesa dell'identità italiana
Nei suoi vocabolari una storia di vivacità e «purismo»
di Cesare Segre


Si festeggiano, oggi e domani, i quattrocento anni del Vocabolario della Crusca (1612). Non è una data qualsiasi. A quell'altezza, nessuna delle grandi lingue moderne aveva un vocabolario in cui fosse depositato l'assieme delle parole e dei modi di dire che costituiscono ciascuna lingua. E l'italiano stesso era in verità piuttosto giovane, dato che solo nella prima metà del Cinquecento, a opera di Pietro Bembo nel ruolo di teorico, di Ludovico Ariosto (e del Sannazaro) nel ruolo di «utilizzatori finali», si era generalizzato e regolato l'uso dell'idioma toscano letterario. A meno di un secolo di distanza, quest'idioma era ormai riconosciuto, anche se non ufficialmente, come lingua nazionale: mancava infatti una nazione cui rapportare la lingua usata dai dotti e dagli alfabetizzati dei vari stati e staterelli in cui era frazionata l'Italia.
Ma che cos'è un vocabolario, o dizionario? Oggi lo sappiamo tutti, e sappiamo come lo si usa. Sappiamo che di ogni lemma il vocabolario illustra il significato, o i vari significati; che le reggenze di parole e verbi sono indicate nel seguito della voce, e così via. Ma tutto questo dovettero inventarselo gli accademici della Crusca, che tra l'altro collaboravano all'opera gratis, per puro amore della lingua. E non erano solo filologi, ma anche scienziati e artisti, che s'improvvisarono lessicografi, con successo. I vocabolari d'oggi, nella sostanza, non sono diversi da quello della Crusca. E lo stesso si può dire per i vocabolari delle lingue europee, che seguirono il nostro a molta distanza: per il francese, quello dell'Académie (1694), e per lo spagnolo, quello della Real Academia (1726-1739), per l'inglese, quello di Samuel Johnson (1787), e così via.
Perché questa priorità italiana? Tra i molti motivi si potrebbe indicare lo sviluppo, da noi, degli studi filologici e la vivacità della «questione della lingua», che accompagnò e animò l'affermazione del toscano come base della lingua italiana. Ma il motivo principale è il fatto che nella metà del Trecento erano già apparsi i capolavori di Dante, Petrarca e Boccaccio, testimoni della nascita di una grande lingua letteraria. Era ovvio cercare di coglierne il sistema linguistico e soprattutto lessicale. C'è poi un fatto significativo. La prima edizione del Vocabolario fu pubblicata a Venezia: quasi la conferma ufficiale di un asse linguistico Firenze-Venezia, che nei fatti si era già realizzato, dato che gli attivissimi tipografi veneziani avevano per primi eliminato dalle loro stampe i tratti dialettali che invece restano vistosi nei volumi pubblicati altrove.
L'Accademia della Crusca celebra l'anniversario nella splendida Villa Medicea di Castello. Lo festeggia anzi, dato che alle relazioni si mescolano uno spettacolo sulla vita di Dante e un concerto di musica barocca. Ma per il resto si tratta di importanti relazioni dedicate agli altri vocabolari «cadetti» su quella che viene chiamata «la piazza virtuale della Crusca», insomma sul prezioso e sempre aggiornato tesoro lessicografico che l'Opera del Vocabolario continua a raccogliere, nonché sui modi di compilare un vocabolario, in un quadro ben consapevole dei problemi del multilinguismo, tra i più urgenti d'oggi. I relatori sono tutti di alto livello: solo fra gli stranieri, citeremo Eva Buchi, Wolfgang Klein, José Antonio Pascual, Francisco Rico, John Simpson, Harro Stammerjohann, Edward F. Tuttle. Una varietà d'interventi in cui s'intravvede la feconda dialettica tra esemplarità e produttività dei vocabolari, tra sincronia e diacronia, tra lingua e lingua. Perché se un vocabolario appare come la registrazione dei tesori di una lingua, il suo utente deve essere consapevole che molti di quei tesori cadranno in disuso, sostituiti da altri, nuovi, in una creazione continua. Le cinque successive edizioni del Vocabolario seicentesco lo mostrano bene.

Corriere 6.11.12
Due incontri su Ezra Pound

Il poeta Ezra Pound (foto) è dibattuto oggi a Milano in due convegni: il primo si svolge alle 10 all'Università degli Studi (con Davide Bigalli, Andrea Colombo, Bernard Dew, Luca Gallesi, Alessandro Rivali, Alessandro Zaccuri); il secondo è previsto alle 18 alla Libreria Hoepli: è la presentazione di «Carta da Visita» (Edizioni Bietti) con Giulio Giorello.

Corriere 6.11.12
L’abisso di Mahler seguendo Nietzsche
di Paolo Isotta


La Terza Sinfonia di Gustav Mahler, composta tra il 1895 e il 1896, è uno dei monumenti della letteratura sinfonica di tutti i tempi.
Di sterminato organico, i legni addirittura a quattro, per non parlare dell'artiglieria pesante, di una foltissima percussione, del coro femminile, del coro infantile e di un contralto solo; di sterminata ambizione; di sterminata lunghezza, il primo movimento che dura da solo oltre la mezz'ora; di sterminata complessità, per il voler essere simbolicamente costrutta intorno ai temi della Natura e della Notte e per il far ricorso a un testo di Federico Nietzsche cavato da Così parlò Zarathustra messo in bocca scultoreamente al contralto; a non dire d'un altro, tratto dall'antologia di Arnim e Brentano intitolata Il corno magico del fanciullo, Des Knaben Wunderhorn.
La Sinfonia, peraltro, è una vera e propria epitome dello stile e della visione del mondo del suo Autore; giusta la lezione nicciana, vuol essere il superamento del Dolore per il conseguimento della Gioia e dell'Amore verso, dapprima, la Natura, poi verso il suo Creatore; senza che l'immensa e caotica raffigurazione del Dolore perda i connotati grotteschi, danza di marionette impazzite, che in Mahler pare la sola possibilità di tale raffigurazione, se si esclude quella della Marcia Funebre. A tal proposito ricordiamo come i suoi Scherzi siano crudelissimi, la dissonanza acre adoperata a fini espressivi e connotativi: il che da solo mostra l'inane speculazione di coloro che vogliono annettere il Grande a una presunta «avanguardia». E ricordiamo, ancora, l'influenza fondativa che tali Scherzi hanno sulle Sinfonie di Sciostacovich, il massimo erede di Mahler, gigante anch'egli.
Ho ascoltato la Sinfonia circa quarant'anni fa, a Roma. Il maestro Siciliani aveva convocato uno dei migliori direttori del dopoguerra, Michael Tilson Thomas, il quale, per motivi che mi sfuggono, non fece poi la meravigliosa carriera che le sue doti avrebbero dovuto aprirgli. Chissà se negli archivi della Rai esiste ancora registrazione di quel concerto straordinario. Il mio orgoglio di napoletano esulta adesso che racconto di un concerto altrettanto straordinario avutosi sabato e domenica al Teatro San Carlo.
Sul podio un bravissimo concertatore, John Axelrod, che occupa attualmente la carica di direttore stabile dell'Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi. Egli dimostra l'eccellenza dell'orchestra napoletana, della quale fan parte preziosi solisti, e ne ricordiamo solo il trombone e la cornetta a pistoni, che suona nel magico «interno» onde la sua melodia sembra provenire da astrali lontananze. Dobbiamo menzionare ancora i nomi del contralto Rinat Shaham e dei maestri dei cori Salvatore Caputo e Stefania Rinaldi. Quel che non mi sarei atteso è che a onta del cosiddetto «ponte» il pubblico è convenuto fittissimo, decretando al concerto un successo che, per non esser stato preparato da una campagna mediatica, è apparso vieppiù trionfale.
Di Axelrod va rilevata una cosa essenziale, diriger egli in modo non scolastico e secondo uno stile inserito nella tradizione interpretativa mahleriana.
Axelrod possiede una chiara tecnica direttoriale e la narratività del contesto, cosa oggi sempre più rara nelle giovani generazioni; e giovane egli è. Lo sterminato e catartico Adagio finale, formalmente modellato su quello della Patetica di Ciaicovski, è da lui battuto «in quattro» al fine di non far perdere la tensione melodica e armonica. Quanta letteratura musicale novecentesca per questo Adagio daremmo!

Repubblica 6.11.12
"La Rete regala conoscenza ma non può sostituire la forza delle esperienze"
Manuel Castells. Parla il sociologo esperto dei fenomeni del web: il suo nuovo saggio analizza la politica e i movimenti
"Quando cambia il modo di comunicare, cambia anche la natura delle rivoluzioni"
"Internet certo non elimina gli abusi di potere ma aiuta a renderli più difficili"
"La crisi dei partiti farà nascere nuove forme di rappresentanza Ma ci vuole tempo"
di Riccardo Luna


«Io non faccio previsioni. Racconto quello che osservo. E la realtà è che i grandi movimenti sociali di questi dieci anni, quelli che sono nati su Internet e sono arrivati sulle piazze d´America, d´Europa e del Nord Africa, stanno cambiando il mondo. Come è sempre accaduto nella storia, i movimenti possono essere repressi, strumentalizzati, traditi. E possono morire. Ma il vero punto è come scompaiono: se lasciandoci una eredità di speranza e di progresso umano o meno. Io credo che i movimenti di questi anni abbiano lasciato un segno molto forte: per esempio hanno terremotato la nostra fiducia nelle banche e nei politici. Non è poco». Manuel Castells è a Milano per una conferenza: ha 70 anni e dalla pubblicazione di L´età dell´informazione, nel 1996, fino all´ultimo, Reti di indignazione e speranza, appena pubblicato in Italia (Università Bocconi Editore, pagg. 304, euro 25), si è dedicato come nessun altro a indagare il rapporto fra Internet e movimenti politici.
A quelli come Eugeny Morovoz che hanno messo in evidenza "il lato oscuro della rete" come strumento di sorveglianza e repressione politica, Castells risponde: «Internet non elimina automaticamente i dittatori, ma rende la loro vita più difficile. Il potere ha sempre spiato i cittadini. La differenza è che adesso noi possiamo sorvegliare il potere. Chiedete conferma a tutti quei politici che si devono travestire per fare i loro affari sporchi senza essere ripresi dai nostri telefonini». Quanto alla accusa, mossa tra gli altri da Malcom Gladwell, di sopravvalutare il ruolo di Facebook e Twitter nelle recenti rivoluzioni, dice: «La questione non è se Internet abbia o meno provocato delle rivoluzioni. La questione è che tutte le rivoluzioni dipendono dalla comunicazione fra le persone. E quando si verifica un cambiamento fondamentale del modo di comunicare, che con Internet diventa orizzontale, multimodale, interattivo e immediato, allora cambia la natura dei movimenti politici. Così Internet non ne è la causa, ma non possiamo davvero capire i movimenti sociali di questi anni senza capire il ruolo della rete».
Cosa resta di tante piazze occupate, di tante speranze? Ha davvero l´impressione che oggi viviamo in un mondo migliore di dieci anni fa?
«Se guardiamo a valori come l´eguaglianza, la dignità delle donne, l´importanza della conservazione del pianeta, o anche i diritti umani fino alla sfide ai dittatori e agli autori di autentici genocidi; se guardiamo a tutto questo non possiamo negare il ruolo dei movimenti. Nella primavera araba per esempio sono stati rovesciati dittatori sanguinari e il potere è passato al popolo. E chi dice che le rivoluzioni sono fallite per l´ascesa dei partiti islamici dimentica che negli ultimi dieci anni tutte le elezioni democratiche in ogni paese arabo hanno avuto gli stessi risultati. Purtroppo noi occidentali siamo abituati a considerare democrazia solo quello che coincide con i nostri interessi. Altrimenti preferiamo i dittatori».
Prendiamo Occupy Wall Street che ha coinvolto centinaia di città americane. O gli Indignados, che dalla Spagna hanno contagiato l´Europa. Cosa hanno ottenuto?
«Ottenere il supporto della maggioranza della popolazione per denunciare l´ingiustizia sociale e la complicità fra élites politiche e finanziarie non è poco. Il fatto è che oggi molte democrazie non sono più democratiche, nel senso che la classe politica si è arroccata al potere escludendo i cittadini i quali a loro volta sono disinformati dai media controllati dai grandi gruppi economici. Ma la coscienza delle persone sta cambiando: è come l´acqua, se trova un canale ostruito ne cerca un altro. Non puoi fermarla».
L´impressione è piuttosto che solo l´Islanda abbia vissuto un cambiamento visibile, con la wiki-costituzione redatta con il contributo di tutti i cittadini attraverso i social network. Perché lì ha funzionato?
«L´Islanda non è l´unico posto però c´è una verità: un pieno cambiamento democratico e pacifico è avvenuto solo in Islanda. Forse perché ha una democrazia molto antica e anche perché il 96 per cento della popolazione è connessa ad Internet e molti di loro sono esperti di rete».
A prescindere da dove siano nati, i movimenti sociali che descrive hanno in comune un rifiuto del sistema politico. E la astensione elettorale. Questo spesso ha avuto come conseguenza una vittoria dei partiti conservatori. È questo che vogliono? Tanto peggio, tanto meglio?
«È un ragionamento sbagliato. Tutti pensano ai nazisti in Grecia ma Syriza ha tre volte i voti dei nazisti e oggi vincerebbe le elezioni se la coalizione conservatori-socialisti non governasse grazie ad un trucco della legge elettorale. Quello che c´è di vero è che tutti i movimenti sfidano la legittimità del sistema politico, ma non la democrazia in sé. In tutto il mondo eccetto la Scandinavia la maggioranza dei cittadini non si sente più rappresentata dai partiti. E così questi hanno chiuso tutte le vie d´uscita per un cambiamento reale. Ma così si ignora la Storia. Guardate a quel che è accaduto con il MoVimento 5 Stelle in Sicilia: io non ho abbastanza elementi per giudicare Beppe Grillo, ma è evidente che il suo successo elettorale dimostra che tutte le volte che i cittadini possono scappare dall´attuale sistema, lo fanno all´istante».
Nella sua visione la democrazia rappresentativa è in crisi irreversibile: l´approdo è una democrazia liquida, imperniata sulla trasparenza e gli strumenti di partecipazione dal basso del web?
«Viviamo una fase costituente. È empiricamente chiaro che gli attuali sistemi politici non rappresentano più i valori e gli interessi dei cittadini. Ma non c´è nessun progetto chiaro di una democrazia diversa. Come potrebbe esserci? I popoli sono in lotta, il modello arriverà dal basso non come elucubrazione di qualche aspirante leader. Quello che si può già dire è che le reti di Internet e le reti sociali consentono alle persone di mobilitarsi senza leader e organizzazioni. Siamo nel mezzo di un grande processo di trasformazione con un finale aperto. Ci sono molti rischi, è vero, ma arriveremo a costruire nuove forme di rappresentanza. Io non credo che capiterà presto. Per questo gli Indignados spagnoli dicono: andiamo piano perché andiamo lontano».
C´è ancora bisogno di andare in piazza per cambiare le cose? In fondo Internet dimostra il contrario.
«Assolutamente sì. Perché abbiamo bisogno di sentirci parte di una comunità, di condividere esperienze, toccarci, abbracciarci. Persino essere picchiati dalla polizia assieme. Se i movimenti esistessero soltanto su Internet sarebbero un videogioco. Viviamo e combattiamo con Internet non dentro Internet».

Repubblica 6.11.12
Il giurista e i suoi anni a scuola. Con qualche suggerimento
 Piccoli consigli agli studenti
l pensiero ha norme inesorabili: le parole vanno usate con parsimonia
di Franco Cordero


E’ virtù l´humanitas e lo stesso nome designava lo studio delle lettere, sul presupposto che ingentiliscano la persona. Questa storia parla d´una scuola e narra avventure climateriche. In greco "klimaktér" significa gradino o piolo d´una scala, nonché congiunture pericolose della vita umana, ricorrenti ogni settimo anno.
Dura sette anni anche l´evo che racconto, segnato da profonde mutazioni: l´Italia era finto Impero sotto la diarchia Re-Duce; ridotta all´osso da una guerra calamitosa, diventa repubblica. Siamo in quarta elementare. Al mattino le scolaresche prendono posto nel corridoio lungo corso Re Umberto, davanti alle rispettive aule, ed ecco un dialogo databile 2 marzo 1938, Mercoledì delle Ceneri: «è morto D´Annunzio»; annuncia l´ultimo venuto; «era vecchio come il cucco», commento, non sapendo chi portasse quel nome sontuoso.
Tra noi spiccava un forestiero evoluto, Adolfo Sarti, e salterà la quinta. Del secondo ginnasta, rammento viso, statura, voce, maniere, tutto fuorché il prenome. Ero designato anch´io al salto, infatti ascolto qualche lezione in casa del maestro, contigua al Teatro Toselli: la porta dà sul ballatoio; è un prete dal viso rosso, oriundo della val Casotto, e nelle feste patriottiche porta gradi militari, ex cappellano. Ma saltare l´anno è da puer pragmaticus, quale non ero, incline invece ai passi introspettivi: ad esempio, sapevo quanto sia volatile l´Io, pronome evocante deperibili ricordi; e desisto, noncurante della carriera. I due entrano nel ginnasio: li rivedo ogni mattina in via Barbaroux, dov´è finita anche la nostra classe; e dissimulo lo status inferiore liberandomi del grembiule.
Finalmente, giugno 1939, anche noi sosteniamo l´esame d´ammissione nel vecchio convento delle clarisse, adiacente all´omonima chiesa. Il ginnasio non è aperto a tutti ma la selezione ha maglie larghe: "I miei giochi" è il tema d´italiano; all´orale esito, dovendo definire il colore glauco, aggettivo carducciano, e la interrogante indica una gemma nell´anello. Dal 15 ottobre restiamo in via Barbaroux traslocando al pianterreno (...). La professoressa è giovane e fine. Insegna matematica un laureando pendolare da Caraglio.
Matematico anche don G. (religione, un´ora alla settimana) e viene da famiglia contadina della Spinetta, come Giuseppe Peano, al quale saranno intitolate le elementari di Tetto Canale. Mia madre v´insegnava, anno Domini 1932. Lì avevo sfiorato Thanatos cadendo nella «bialera» ma era parte infima del disegno cosmico che scorressi sotto i lastroni del ponte; poi racconto d´avere visto la luna ossia un barlume all´altro capo; episodi meno importanti diventano figura d´ex voto nel Santuario della Riva (...). Corre l´ultimo anno dei lampioni accesi. Sulla linea Maginot tedeschi e franco-inglesi fingono un Sitzkrieg, guerra da seduti, o drôle de guerre, stramba (...).
L´anno scolastico 1943-44 (quarto della guerra persa e quinta ginnasio) comincia tardi, lunedì 15 novembre. L´indomani nevica. Attratto dalla medicina (v´influiscono Axel Munthe, Cronin, Marañon), m´arrischio nella camera ardente dell´ex pugile dal nome slavo, fattorino del fascio locale, poi seviziatore negl´interrogatori: partigiani scesi dalla Bisalta gli hanno regolato i conti; girando intorno alla bara studio quel viso cattivo. «L´hanno ucciso perché stava con noi e finiremo tutti così», esclama drammaticamente uno della casa, benvestito, intrattenendo due signore compunte (...).
L´equinozio primaverile 1945 lascia le cose quali erano in loco ma l´Armata rossa sta sull´Oder e, forzato il Reno a Remagen, gli alleati sciàmano verso l´Elba. Il bel tempo richiama gli schettini. In una domenica già tiepida artisti ragguardevoli cantano arie d´opera nel concerto pomeridiano al cinema Italia, accompagnati dal solo pianoforte. La fine arriva d´un colpo (...).
A proposito d´abile didattica e mnemotecniche, Jules Michelet nomina la Societas Iesu (Histoire de France, IX volume, 512s.): formava dottori a 15 anni, eloquenti, sapientissimi, in gran décor, «sots à jamais», irreversibilmente stupidi; tale, ad esempio, Ludovico Settala, luminare milanese. Dal Silvio Pellico, come l´ho vissuto, gli scolari ricevevano impronte d´intelligenza laica. Lo stile è cuneese, quindi alieno dall´enfasi. Lo definiva un capitolo degli Statuti 1382, n. 406, «de non eundo ad septimas»: il lutto sia evento dell´anima, senza gesti; pianti clamorosi nei funerali costano sei soldi; idem invitare estranei alla messa del settimo giorno.
Vogliamo fissare qualche massima? Il pensiero ha norme inesorabili: le parole vanno usate con parsimonia, mai prima d´avere chiara la cosa da dire; è frode, e marchia chi la consuma, tutto quanto nasconda, trucchi, simuli l´idea; prenez garde dalla loquela canterina, sconnessa, ridondante, perché indica spirito fraudolento; e non dimentichiamolo, sapere conta meno del pensare.

(Questo testo è un brano della lezione che venerdì 9 terrà a Cuneo - salone del Comune - e l´indomani nel bicentenario Liceo classico Silvio Pellico sul tema "Sette anni d’humanitas")

Repubblica 6.11.12
La fisica come metafora. La misura del tempo
Kentridge: "Giocando vi spiego l’entropia"
“Il mio discorso è sulla misura del tempo, sui modi diversi per trasformarlo in qualcosa di materiale per riuscire a trattenerlo”
di Laura Putti


Per me le teorie scientifiche sono una metafora umana: anche il linguaggio lo uso per farlo diventare altro
L’artista sudafricano sarà a Roma dal 15 novembre con la sua nuova creazione "Refuse the hour" Un singolare insieme di musica, danza, teatro e arti visive sui principi della termodinamica

AMSTERDAM Che cosa sarebbe il mondo se l‘entropia non esistesse? Domanda difficile, specie se rivolta da uno dei più geniali artisti dei nostri tempi. William Kentridge, sudafricano, disegnatore e animatore di disegni, creatore di arazzi e scultore, regista di opere liriche e di spettacoli di marionette, è seduto in un hotel molto "arty" appena fuori dal centro di Amsterdam. Dopo aver visto il suo nuovo spettacolo, Refuse the hour (in cartellone al RomaEuropa Festival dal 15 al 18 novembre all´Argentina di Roma, coprodotto dal Teatro di Roma) rinfrescare la memoria sul concetto di "entropia" era il minimo da farsi. Entropia: "grandezza usata in termodinamica come indice della degradazione dell´energia in un sistema fisico" (Zingarelli) o anche "trasformazione di energia ordinata in disordinata, o utilizzabile in inutilizzabile o da informata a disinformata" (Rudolf Julius Clausus). «L´entropia è, in fondo, la tendenza della natura verso il disordine» dice Kentridge «Sono cose che vanno in pezzi, che non puoi afferrare, ma devi cercare di calcolare. Prendiamo il riciclaggio dei metalli: non puoi riciclare al 100 per cento. Quello che va perduto è la misura dell´entropia».
Se ne parla in Refuse the hour, rifiuta l´ora - quindi il tempo - spettacolo facile da vedere, meno facile da capire. Ma perché voler capire se abbiamo la possibilità di abbandonarci al flusso della musica, della danza e dei meravigliosi disegni di Kentridge, delle sue caffettiere volanti? Da una parte sono in scena, quasi come attori, stranissimi marchingegni meccanici (megafoni, ruote di bicicletta, cinghie rotanti), posti alle spalle dello stesso Kentridge sempre presente sul palco; c´è una band dal vivo con le musiche di Philip Miller; tre cantanti, d´opera e tradizionali sudafricane, e, come primadonna, la straordinaria danzatrice Dada Masilo; ci sono i film di disegni animati e anche un film muto in bianco e nero girato dall´artista sudafricano. Dall´altra parte: la scienza, l´entropia, perfino la teoria della relatività.
Come orientarsi in tanta abbondanza?
«Per me la scienza è sempre un modo di arrivare a una metafora umana. Nello spettacolo non spiego la scienza: cerco la metafora. Uso il linguaggio scientifico per farlo diventare altro. Seguo un percorso filosofico preciso».
E questo percorso è legato al tempo?
«Totalmente. La misura del tempo, i modi diversi per trasformarlo in cosa materiale per riuscire a trattenerlo. Il tempo di un film, il tempo che si trasforma in vento per le strade di Parigi».
E´ proprio vera, così come la racconta, la storia dell´ora esatta nell´800 attraverso tubi di aria pneumatica per le strade di Parigi?
«Verissima. A un certo punto a Parigi arriva l´imposizione del tempo assoluto coordinato da uno scambio di segnali inviati con l´aria in tubi pneumatici per le strade. Un orologio "madre" mandava l´ora esatta a orologi "figlie". La gente si iscriveva, comprava il segnale, voleva l´ora esatta. Sembra ridicolo, folle, ma è vero».
Poi arriva il telegrafo, l´occasione per parlare di ciò che le sta più a cuore: il Sudafrica dell´apartheid, l´orrore delle colonie, le diseguaglianze nel suo paese (il padre di Kentridge, Sidney, è stato uno degli avvocati in prima linea contro le ingiustizie dell´apartheid, difensore di Biko nel ´77, ndr). Il tempo come distanza geografica?
«E´ a quel punto che diventa materiale. La gente non poteva capire dove si trovava nel mondo, finché non si è data una misura al tempo. Tutti quegli orologi che avrebbero viaggiato nelle navi erano cose individuali. Solo quando è arrivato il telegrafo si è davvero stabilito il tempo di un continente. La sua geografia. Nel diciannovesimo secolo nelle colonie iniziano a spuntare le linee del telegrafo, il quale da una parte serviva a ricevere il segnale orario, quindi a collegarsi con il tempo del mondo, ma dall´altra era un formidabile sistema di controllo».
Lo spettacolo Refuse the hour è nato da un suo incontro, a Parigi, con il professor Peter Galison. Voleva creare uno spettacolo con un fisico di Harvard?
«L´ho incontrato perché ero interessato alle immagini che attraversavano lo spazio parlando della teoria della relatività. Da lì sono arrivato al tempo che attraversa le strade di Parigi, fino all´ultima parte dello spettacolo in cui il tempo sprofonda nel buco nero che annulla spazio e tempo. Al centro ho messo un mito che mio padre ci raccontava da bambini, quello di Perseo e la Medusa. Perseo che uccide per caso, lanciando un disco, suo nonno Acrisio re di Argo il quale, travestito da barbone nascosto tra la folla della gara sportiva, cercava di sfuggire alla profezia di morte per mano del nipote. A quel punto ho capito che non parlavo solo di tempo, ma di destino. E´ il momento o non è il momento? E´ arrivato o no il mio tempo».
Nei giorni dello spettacolo a Roma, il Maxxi (dal 17 novembre al 3 marzo) inaugurerà una versione di "The refusal of time", l´installazione realizzata per Documenta 13 di Kassel. Quali analogie?
«Il tema è lo stesso, ma spettacolo e installazione offrono sensazioni molto diverse. Nel museo lo spettatore è al centro, tutto gli sta attorno. Ci sono megafoni dai quali puoi ascoltare le letture, ma se ti allontani ascolti solo la musica. Non sei obbligato alle parole, come nello spettacolo».