mercoledì 7 novembre 2012

Si “ringrazia” il catto-radicale “cicciobello” ex piddì Rutelli...
l’Unità 7.11.12
Legge trappola, blitz Pdl-Udc in Senato
Bersani: ci temono, vogliono fermarci
Premio solo a chi supera il 42,5% e tre preferenze che penalizzano le donne
L’ultima possibilità
di Claudio Sardo


In commissione al Senato ieri è accaduto il peggio. Il Pdl, sostenuto da Lega e Udc,ha votato emendamenti al Porcellum che hanno il senso di una provocazione, se non di un disprezzo verso le istituzioni.
Ha fissato, con una forzatura, al 42,5% la soglia oltre la quale far scattare il premio di maggioranza alla coalizione più votata, e si è ben guardato dal prevedere istituti capaci di evitare un’ulteriore spinta alla frammentazione politica. Il Pdl non è apparso minimamente interessato a ragioni di sistema: l’obiettivo è mettere ostacoli, se non rendere proibitivo, un governo a guida Pd. Non pago di aver fatto tutto questo in spregio di ogni possibile intesa, non pago neppure delle sue colpe passate (perché è bene ricordarlo il Porcellum che umilia l’Italia venne approvato sei anni fa dalla stessa maggioranza che ieri lo ha corretto peggiorandolo), il Pdl ha pure deciso di aumentare il numero delle preferenze in modo da vanificare la norma sull’uguaglianza di genere, e colpire così la rappresentanza delle donne in Parlamento.
Il voto in commissione ora va riparato in aula. La correzione è assolutamente necessaria, sulla base di un consenso ampio. Perché non si può votare con il Porcellum. E non si può accettare una violenza come quella perpetrata ieri a Palazzo Madama. Ma occorre che la macchina dello sfascio si fermi. E che si fermi subito. Perché se la riforma elettorale dovesse essere approvata in questo modo, sarebbe la vittoria del «tanto peggio tanto meglio». Il Pdl ucciderebbe la riforma elettorale come già ha ucciso quella costituzionale, imponendo a colpi di maggioranza il suo semi-presidenzialismo che aveva il solo scopo di impedire un rafforzamento del ruolo del Parlamento e una maggiore efficacia dell’azione di governo.
Chi scherza col fuoco non si rende conto che il fallimento di questa riforma per quanto distante dai sentimenti dei cittadini, visto l’estremo tecnicismo di alcune norme rischia di essere la goccia che fa traboccare il vaso della sfiducia verso la politica, e verso la stessa democrazia. Chi pensa di trarre vantaggio dal permanere del Porcellum, la legge più screditata e invisa agli italiani, non comprende che l’onda del discredito può travolgere la stessa speranza di riscatto del Paese.
Una soluzione è stata posta sul tavolo: è il cosiddetto lodo D’Alimonte. Si fissi pure la soglia per la coalizione al 42,5% ma, nel caso il premio di maggioranza non dovesse scattare, si attribuisca al partito più votato un premio limitato in seggi (il 10% netto) in modo da favorire una coalizione parlamentare attorno al leader che gli elettori hanno comunque preferito. Accade così in tutti i sistemi parlamentari dell’Europa, qualunque sia il concreto meccanismo elettorale. Perché non deve accadere anche da noi? Perché dobbiamo restare in questa condizione di inferiorità che ci siamo inflitti? Benché il Pdl sembri agitarlo solo per ragioni strumentali (avendo sempre sostenuto il contrario), si può accogliere l’argomento in base al quale l’attuale premio di maggioranza va delimitato. Nei sistemi fondati sull’uninominale-maggioritario (come la Gran Bretagna e la Francia) il premio «di fatto» può addirittura raddoppiare il consenso del partito vincitore: ma in un sistema come il nostro, dove la rappresentanza proporzionale resta comunque un valore (basti pensare alle nomine parlamentari degli uffici di garanzia, a cominciare da quello supremo, il Capo dello Stato), è ragionevole cercare una misura condivisa. Se però si stabilisce che possa godere di una maggioranza del 55% dei seggi solo chi riceve almeno il 42,5% dei consensi, allora bisogna prevedere altri istituti che favoriscano la formazione di governi coerenti ed efficaci (e non paralizzati da coalizioni lunghe e litigiose).
Se restasse solo la soglia minima per il premio di maggioranza, la legge diventerebbe ancora più mostruosa: la disaggregazione e la frantumazione verrebbero addirittura incentivate, perché tutti coloro che non possono vincere punterebbero sul successivo negoziato parlamentare, ovvero sul trasformismo e sull’instabilità. Sarebbe peggio della prima Repubblica. Un premio misurato, ma non marginale, al primo partito invece fornirebbe una spinta contraria. Premierebbe l’aggregazione. Creare un partito grande diventerebbe per la prima volta dopo vent’anni un vantaggio, e non una penalizzazione. Tutti sarebbero spinti a comportamenti trasparenti, perché l’obiettivo elettorale resta la conquista della maggioranza. Ma gli elettori avrebbero finalmente il potere decisionale anche sulle coalizioni di governo. In ogni caso, se la soglia del 42,5% non si raggiunge, toccherà al leader del partito più grande formare il governo con chi gli è più vicino. E le grandi ammucchiate non converranno mai al primo partito.
Abbiamo poco tempo. E, forse, una sola soluzione disponibile. Se il Pdl prosegue sulla strada della rottura, compirà un delitto ai danni del Paese. E chi lo asseconda ne sarà corresponsabile.

La Stampa 7.11.12
L’ira di Bersani “Casini non vuole farci vincere”
D’Alema a Montecitorio: niente colpi di mano se no si rischia di lasciare il sistema attuale
di Carlo Bertini


«Se non si raddrizza la situazione, vuol dire che voteremo con il sistema attuale, non credano di cambiarlo così con un colpo di mano... ». Malgrado la legge dei numeri in entrambi i rami del Parlamento fotografi una realtà diversa, il gelido avvertimento pronunciato in Transatlantico da Massimo D’Alema rende bene l’idea di quale sia la posta in gioco dopo il blitz di ieri. Che per Bersani porta dritto dritto ad un sistema che porta al pareggio e «impedisce la governabilità». E l’umore nei confronti di Casini di tutto il vertice del Pd si può ben intuire dal pensiero espresso a voce alta da un altro dei pezzi grossi, «è chiaro che Pier non vuole farci vincere, questo è un atto contro di noi». Condiviso a quanto pare dal leader Pd che a questo punto si aspetta «tanti altri sgambetti da qui alle elezioni... ». Va da sè che anche la Bindi non sia affatto tenera, «se nessuno conquista la maggioranza dei seggi, “loro” ci sguazzano. Ma si illudono, perché noi Vendola non lo possiamo lasciare a spasso». Nei capannelli alla Camera tutti si interrogano sulle intenzioni del leader Udc e la Velina Rossa vicina agli ex Ds mette nero su bianco il sospetto che Casini voglia far tornare Monti al governo, «altrimenti sarebbe il principale concorrente nella corsa al Quirinale».
Tenendo a freno la lingua, Bersani prima dice che «così non va, noi non ci stiamo, il paese va governato» e poi ricorre a twitter per lanciare un siluro contro quel «qualcuno» che «teme che governiamo noi... ». Concetto forse riferito non solo a Casini, anche se i protagonisti del tranello sono gli stessi che ordirono nel 2005 la trappola del porcellum: «Fatta apposta - ricorda la Bindi - per costringerci all’Unione di 12 partiti che finì come si è visto, non vogliono farci governare». Uno dei colonnelli Pd con più voce in capitolo, fa notare che «c’è un larghissimo arco di forze che per motivi diversi non vuole farci vincere. Pdl e Lega per limitare i danni non vogliono che venga assegnato il premio, l’Udc e i centristi lo stesso perché vogliono arrivare al Monti bis». Ma sono sterili le considerazioni sul fatto che «loro hanno forzato perché sanno di avere le spalle coperte dal Colle sulla soglia per avere il premio» e che «questo è solo un voto in commissione e non è la legge definitiva». Perché anche alla Camera la vecchia maggioranza i numeri li ha e se cadessero nel voto segreto le preferenze si rischierebbe «la beffa che a quel punto restino le liste bloccate senza che nessuno ottenga il premio di maggioranza, l’unica cosa buona del Porcellum». E per capire quale sia la portata di questa norma appena votata, ci pensa D’Alema a spiegare che fissare una soglia per il premio rende il sistema ancora più proporzionale: perché le liste minori sono invogliate a non coalizzarsi andando per conto proprio. Per questo il Pd sposa il «lodo D’Alimonte» per concedere un «premietto» del 10% al partito maggiore che invogli all’aggregazione. Ieri mattina dopo un vertice ai massimi livelli con Bersani, il Pd aveva lanciato un amo per trattare sulla soglia al 40% e introdurre il «premietto» al primo partito. Ma la rottura inaspettata fa suonare solo i tamburi di guerra. Anzi, «guerra totale»: per far capire che il Porcellum ai centristi non conviene visto che sarebbero poi costretti a dividersi i 270 seggi alla Camera con Lega, Pdl, Idv, Grillo...

il Fatto 7.11.12
Legge elettorale. Urlano contro Grillo per fermare Bersani
Accordo Pdl-Lega-Udc e volata lanciata a Monti: premio a chi supera il 42,5%
I Democratici non ci stanno
di C.Pe.


L’attacco è arrivato da lontano, dall’estremo Oriente. Ha aspettato di atterrare dall’altra parte del mondo, Mario Monti, per richiamare all’ordine i senatori sulla legge elettorale, dopo aver a lungo conversato con il Quirinale, fin qui inascoltato dal Parlamento. E come ogni buon maestro che si rispetti, ha dato un aut aut ai suoi allievi: o la legge la cambiate voi, o la cambio io, con un decreto. “Tecnicamente – ha detto Monti – il governo potrebbe intervenire, ma è auspicabile che siano i partiti a cambiare l’attuale sistema di voto”.
É BASTATA mezza giornata perché, fiutata l’aria, i partiti si riorganizzassero. In commissione Affari costituzionali a Palazzo Madama, dove la bozza di riforma si era arenata, Pdl, Lega e Udc hanno approvato con un blitz un emendamento proposto da Francesco Rutelli: soglia del 42,5% perché la coalizione vincente possa incassare il premio di maggioranza del 12,5%. Il Pd è stato preso alla sprovvista ed è l’unico che ha qualcosa da perderci. Un’alleanza tra i democratici e Sel è stimata al 35-37%. Nella migliore delle ipotesi può raggiungere il 40%, mentre la soglia più alta è un’utopia per chiunque. Ma se nessuno raggiunge il premio, nessuno può governare il Paese. Tranne uno, ovviamente: Ma-rio Monti. Lo stesso che ieri mattina ha chiesto una modifica urgente della legge, salvo farla lui stesso. “Sia chiaro – ha risposto il segretario Pier Luigi Bersani – che se ci si ferma a oggi noi non ci stiamo. Non per noi ma per l’Italia. Questo impianto va profondamente aggiustato”. Nessuno pensi, è l’avvertimento del Pd, di introdurre arbitrariamente un metodo che porti al pareggio come viatico al Monti bis. Il premier in carica è l’unico che potrebbe provare a guidare un paese senza maggioranza. Ed è l’unico vero sfidante di Bersani, senza bisogno di fare primarie o presentarsi alle elezioni.
Ma la scusa addotta dai promotori della modifica è un’altra: abbiamo paura di Beppe Grillo. Fino a qualche giorno fa nessuno l’avrebbe confessato, nel timore degli attacchi da parte del comico genovese. Ma se i nemici da battere diventano due, allora meglio attaccare quello sulla carta più debole (Grillo) per uccidere anche l’altro (Bersani). “Una soglia significativa è la condizione base per evitare avventure – ha dichiarato Rutelli – in Sicilia il primo partito è stato quello di Grillo e la prima coalizione quella di centrosinistra. Occorre una soglia alta per avere un premio di maggioranza per governare, altrimenti il rischio è che il primo partito che ottiene il premio è Grillo. Ed è un rischio molto alto”. Insomma, guai far governare chi vince le elezioni. Meglio approvare un proporzionale corretto (con premio alla coalizione del 12,5% vincolato al raggiungimento del 42,5%, preferenze e soglia di sbarramento al 5%) per frammentare a dovere l’offerta politica e restituire ai centristi il loro ruolo di ago della bilancia, scippato dal sistema bipolare. L’Idv si è allineata al no del Pd, quasi a voler tendere la mano nella speranza che si riapra la possibilità di un’alleanza. Per Pier Ferdinando Casini “il testo è migliorabile. Bisognava trovare un punto, altrimenti non se ne usciva”. E a proposito della contrarietà del Pd osserva: “Ci sono reazioni di facciata e altre di sostanza. A me interessano le seconde”. Poi aggiunge che la decisione non ha nulla a che vedere con il Monti-Bis: “Cosa c’entra questo? ” chiede.
A RISPONDERGLI ci pensa Arturo Parisi: “Se di fronte alla reazione del Pd, Casini, che di Bersani e D’Alema è da sempre il principale alleato, dice che ‘ci sono reazioni di facciata e reazioni di sostanza’ è perchè ha le sue ragioni. Ho tuttavia paura che la vicenda della legge elettorale che Casini descrive come una commedia vada volgendo pian piano verso la tragedia. Quello che ancora non è chiaro è se ci si è alleati con l’Udc per tornare al passato, o se si torna al passato per allearsi con l’Udc”. L’unico punto di contatto tra Pd e Pdl è l’ipotesi che il relatore Lucio Malan presenti a suo nome una modifica come quella proposta da Roberto D’Alimonte, ovvero l’aggiunta alla soglia già votata del 42,5% un “premietto” di aggregazione al primo partito. Ma manca ancora l’accordo sulla percentuale. E le possibilità di dialogo si assottigliano sempre di più allungando la vita al Porcellum.

il Fatto 7.11.12
L’intervista: Matteo Orfini
“Con Casini c’è un problema”


Risponde al telefono dall’automobile. “Un attimo che accosto, ero a un incontro a Narni, ora sto andando a Umbertide, il novantesimo appuntamento pubblico in centodieci giorni”. Non si risparmia Matteo Orfini, responsabile Cultura e informazione del Partito democratico, nella sua campagna elettorale a favore di Pier Luigi Bersani. Ma la corsa verso Palazzo Chigi del segretario potrebbe subire uno stop se modificassero la legge elettorale.
Orfini, c’è un accordo per far fuori Bersani?
Di certo c’è un netto segno di irresponsabilità. Nel momento di massimo distacco dei cittadini dalla politica, invece di riconoscere l’esigenza di cambiare la legge partendo dagli interessi del Paese si fanno interessi di parte.
Quale parte?
Quella di chi, ogni volta che rischia di perdere, cerca di limitare la sconfitta.
Questa volta l’iniziativa non è guidata solo da Pdl e Lega, ma anche dai potenziali alleati dell’Udc.
È evidente che c’è un vulnus politico. Non solo nei confronti del Pdl da cui ci aspettiamo un passo indietro per continuare a dialogare, ma l’Udc sta facendo un grave errore.
Bersani ha detto basta dialogo sulla legge. È uno stop anche all’alleanza con Casini?
Anteporre gli interessi di parte a quelli del paese non fa onore a Casini. Siamo tutti chiamati alla responsabilità e alla soluzione della crisi con un dialogo tra progressisti e moderati, ma se si dimenticano di esserlo, per fare accordi con i “genitori” del Porcellum, si crea un grave problema.
Con questa legge vi conviene fare una nuova Unione per andare al governo, recuperando quel che resterà dell’Idv e dei movimenti?
Se fosse approvata chiederemo agli elettori di darci la forza di raggiungere quota 42,5% con la coalizione con cui ci siamo impegnati programmaticamente, quella che sta facendo le primarie, senza costruire baracconi inutili.
E l’Api, promotrice dell’emendamento, presente alle primarie con Bruno Tabacci?
Tabacci si presenta come personalità indipendente del centrosinistra, non esiste nessuna alleanza con il partito di Rutelli. Il Pd non è un hotel con le porte girevoli. Chi ha fatto scelte diverse sia coerente.
Rutelli ha detto che non ce l’ha con Bersani, l’innalzamento del premio è contro Beppe Grillo.
Sono comportamenti che non fanno altro che amplificare la forza del messaggio di Grillo. Lucrare vantaggi senza avere consensi crea solo frammentazione e ingovernabilità.
Non sarà una legge “ad personam” per Mario Monti?
Se il paese è ingovernabile lo è per chiunque, anche per lui. Non gli serve una maggioranza che metta veti su tutto. Con questa ipotesi si produce un proporzionale puro, senza i correttivi che esistono in tutti i paesi moderni, che darà solo frammentazione e proliferazione di liste e partiti per evitare che qualcuno raggiunga il premio.
La legge è ancora al Senato, è possibile che la Camera l’affossi?
Noi speriamo di no e auspichiamo un passo indietro di Pdl e Udc e la riapertura della discussione sulla base di un ragionamento serio e di un premio che garantisca la governabilità.
Il deputato democratico Roberto Giachetti, dall’alto dei suoi 65 giorni di sciopero della fame, è convinto che si rivoterà con il Porcellum.
Qualora ci fosse ancora quella legge sarà necessario fare le primarie per scegliere i candidati senza nominarli dall’alto. Il Pd è l’unico partito che ha deciso di farlo, neanche Grillo, che si riempie la bocca di democrazia diretta, l’ha ancora annunciato.
Ci sarà il Porcellum se si voterà anticipatamente. Lei non è mai stato contrario.
Ho detto che non è un’eresia, ma spero che questo governo arrivi a fine legislatura.
Chi sarà il prossimo presidente del Consiglio?
Bersani, naturalmente.

Repubblica 7.11.12
E Pierluigi ora si sente sotto assedio “Pier ha fatto partire il treno del Monti-bis”
Il capo centrista: sarò determinante. Ipotesi soglia al 40% e premio al 10
di Francesco Bei


ROMA — Dopo la rottura di ieri un nuovo accordo è in vista tra centristi e Pd. Si tratta di far scendere al 40% la soglia oltre la quale scatta il premio di maggioranza, garantendo comunque un “premiolino” del 10 per cento al primo partito in caso la coalizione non vinca il “premione”. Tradotto, l’alleanza fra il Pd (30%) e Sel (5%) non potrebbe governare da sola, non raggiungerebbe il premio e avrebbe comunque bisogno dell’apporto della “Lista per l’Italia” di Casini e Fini per formare una maggioranza. Spalancando così le porte a un Monti-bis. Grazie al “premiolino” la coalizione dei progressisti potrebbe però consolarsi alla Camera con il 45% dei seggi (35%+10% regalati ope legis).
Se questo è il compromesso che si profila, per capire cosa è successo ieri a palazzo Madama — la prima vera frattura strategica fra Casini e Bersani — bisogna tuttavia fare un passo indietro. Illuminando il patto segreto che Massimo D’Alema e Pierluigi Bersani avrebbero proposto nei giorni scorsi in alcuni colloqui riservati con i principali leader politici. Un patto per garantire i numeri della maggioranza futura e gli assetti di vertice della Repubblica. Anche il capo dello Stato ne sarebbe stato informato, così come il premier. La sostanza dell’accordo, naufragato ieri, ruotava su due cardini: mantenere il premio di maggioranza così com’è congegnato nell’attuale legge elettorale e, in
cambio, assicurare il sostegno del Pd all’elezione di Mario Monti al Quirinale. Mentre la presidenza della Camera sarebbe andata a Pier Ferdinando Casini
e quella del Senato ad Anna Finocchiaro. «Al posto di un pastrocchio che ci farebbe perdere l’unica cosa positiva dell’attuale legge, ovvero la garanzia della governabilità, forse — è stata la sostanza del ragionamento fatto a Casini e agli altri dal leader Pd — tanto varrebbe tenere in piedi l’attuale impianto».
C’è questo dietro la baraonda di ieri in commissione affari costituzionali al Senato. Perché la possibilità di mantenere in vita il Porcellum — con l’autosufficienza della futura maggioranza Pd-Sel — ha allarmato non poco tutti gli altri protagonisti. Provocando una reazione immediata di rigetto. Senza contare che Mario Monti, che nel disegno
del Pd dovrebbe traslocare al Quirinale per lasciare il posto a Bersani, non è affatto entusiasta della prospettiva. «Non so se quello è il posto dove posso essere utile — aveva spiegato il premier nei giorni scorsi — non so se sono adatto». Insomma, il corto circuito è stato totale e i sospetti reciproci hanno provocato l’isolamento in cui si è trovato ieri il Pd. La rottura infatti è stata vera e inaspettata. Dario Franceschini, che ha partecipato alla riunione mattutina con Bersani, Zanda e Violante per definire le ultime mosse, racconta così la doccia fredda: «Avevamo fatto sapere a Udc e Pdl che eravamo disposti a trattare su una soglia minima oltre la quale far scattare il premio di maggioranza, ma loro sono andati avanti lo stesso imponendo il 42,5%. Quella soglia è impossibile da raggiungere per chiunque, significa semplicemente che il premio non esiste e la legge è un proporzionale puro». Una legge fatta apposta per arrivare al Monti-bis. E dunque inaccettabile. «Pier ha fatto partire il treno del Montibis », si è sfogato il leader democratico.
Nella maggioranza di Bersani ieri la freddezza verso il capo dello Stato era palese. Proprio il capo dello Stato, al di là degli omaggi formali, è visto come il principale regista dell’operazione per riportare Monti a palazzo Chigi d’intesa con Casini e con la complicità di una parte del Pd. I veleni sono sul punto di tracimare, l’irritazione verso il Quirinale per il pressing sulla legge elettorale sta montando sempre più forte. Come rivela un dirigente del Nazareno «sono mesi che i rapporti tra Napolitano e Bersani sono ridotti al minimo sindacale». Così, quando la scorsa settimana il segretario del Pd, richiesto di un commento sull’ultima uscita del capo dello Stato, ha dettato un laconico «noi siamo sempre d’accordo con il presidente della Repubblica », a molti è sembrata nient’altro che la conferma del muro di incomprensione che si è alzato tra i due.

Corriere 7.11.12
Passo avanti traumatico che lascia una scia di pericolose tensioni
di Massimo Franco


Un passo avanti verso la riforma elettorale è stato compiuto, ma in modo traumatico. Il «sì» del centrodestra, allargato all'Udc, alla soglia del 42,5 per cento per far scattare il premio di maggioranza, viene registrato dalla sinistra come un segnale di rottura. Il voto di ieri al Senato si lascia dietro una coda di tensioni che promettono nuove sorprese di qui al passaggio alle aule parlamentari. Pier Luigi Bersani vede nell'intesa in commissione fra Pdl, Lega e centristi di Pier Ferdinando Casini il tentativo di impedire al Pd di governare. La sua tesi è che una legge del genere sia l'anticamera dell'instabilità: servirebbe a rendere inevitabile il governo di Mario Monti.
Alla base c'è la sensazione che Pd più Sel non siano in grado di toccare quella percentuale; e dunque che i partiti saranno costretti a mettersi d'accordo solo dopo sulla maggioranza della prossima legislatura. All'accusa velenosa di Nichi Vendola di seguire «il richiamo della foresta», l'Udc replica che una decisione era obbligata. Dopo la sentenza della Corte costituzionale, perplessa sulla configurazione del premio di maggioranza, bisognava intervenire. E proprio ieri il presidente del Consiglio aveva chiesto alle forze politiche di dare un segnale, per non spingere palazzo Chigi a decidere con un decreto.
Può darsi che una misura del genere sia un'ipotesi di scuola e non una prospettiva inevitabile. Ma certamente la Consulta offre un motivo o un pretesto in più per evitare che si voti con il sistema di oggi. Peraltro, una riforma è quanto chiede da mesi ai partiti il capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Rompere lo status quo con uno strappo forse è un azzardo. Bersani avverte: «lo sgambetto» dell'Udc ne provocherà altri, perché «la strada è lunga». Eppure, la decisione di ieri toglie alibi a chi accusava il Pdl di non volere la riforma; e mette a nudo la tentazione di chi, nel Pd ma non solo, sembra rassegnato al nulla di fatto.
Casini sostiene che il testo è «migliorabile». In Parlamento «si troverà un'intesa. Ci sono reazioni di facciata e altre di sostanza», aggiunge allusivo. E assicura che la soluzione approvata ieri non ha niente a che vedere con la voglia di imporre un Monti bis. Ma il Pd lo accusa di dare una lettura strumentale del responso della Consulta. E Bersani vede «un colpo di mano» compiuto da una «maggioranza spuria». L'obiettivo è consegnare un Paese «nel quale nessuno vince e nessuno perde», accusa Anna Finocchiaro, presidente dei senatori del Pd: un'ipotesi che a suo avviso favorirebbe solo il centrodestra.
Con simili premesse, la legge elettorale rischia una traiettoria paradossale: da simbolo di un'intesa che concilia e sublima interessi diversi, a specchio di un sistema frantumato. Significherebbe perpetuare non tanto la coalizione montiana ma la delegittimazione reciproca; e certificare ancora una volta che nessuno vuole o è capace di rinunciare a qualcosa per fondare una Terza Repubblica su principi condivisi da tutti, o quasi. A meno che la votazione di ieri non imprima un'accelerazione ad una discussione rimasta a lungo sterile e inconcludente; e costringa entro pochi giorni i partiti a cambiare marcia, nel tentativo arduo di recuperare un briciolo di credibilità.

Repubblica 7.11.12
Il Porcellum ingrassato
di Gianluigi Pellegrino


PER quanto ripugnante sia il porcellum, si sta riuscendo a fare di peggio. E per mano degli stessi autori di quel delitto. Recidivi incalliti. Le regole sulla formazione delle leggi, in democrazia sono tutto. E in materia elettorale, alla vigilia del voto, lo sono ancor di più.
Ed infatti il Consiglio d’Europa in uno specifico “Codice della buona condotta elettorale” ha stabilito che “gli elementi fondamentali del sistema elettorale, non devono essere modificati nell’anno che precede l'elezione” o dovrebbero essere legittimati da un consenso ampio di livello costituzionale.
È qui a ben vedere la principale ferita inflitta dalla “legge porcata”. A questo si riferiva Calderoli nella sua pubblica confessione. Fu una porcheria costituzionale infatti quella ordita dalla maggioranza berlusconiana, di approvare una legge dolosamente volta ad azzoppare la prevista vittoria del centrosinistra nelle elezioni del 2006. L’attentato andò a segno. Due furono le armi letali. Lo scippo del rapporto tra elettori ed eletti che il Mattarellum garantiva con il sistema dei collegi e che in quel momento avrebbe premiato nettamente la coalizione di Romano Prodi; e il mostro giuridico del “premio a perdere” concepito per il Senato con il correttivo maggioritario a scapito della coalizione vittoriosa.
Il combinato delle due aberranti misure ridusse a mera apparenza la vittoria del centrosinistra che infatti al Senato venne a reggersi su appena un voto e, grazie anche a non pochi errori, ebbe vita più breve di una farfalla.
Ma la porcata prima che nel merito era appunto nel metodo e cioè nella clamorosa violazione della regola che esclude nell’immediato ridosso del voto, modifiche al sistema elettorale che non siano garantite da una maggioranza assai ampia.
Quando le elezioni sono alle porte e gli schieramenti in gran parte formati, vi è solo un’alternativa che risponde a minime regole di civiltà costituzionale: o vi è ampia condivisione per approvare un nuovo sistema, oppure le norme elettorali restano quelle in vigore per insoddisfacenti che siano. Sarà compito del nuovo Parlamento novellarle e nel frattempo onere dei partiti applicarle nel modo più conforme alla sensibilità degli elettori (mediante selezioni primarie anche dei candidati nelle liste bloccate).
Invece si sta facendo l’esatto opposto. Si è aspettato che il partito democratico optasse per una coalizione meno larga ma più omogenea, per concepire l’imboscata che confeziona una norma cucita apposta per impedire che quella coalizione possa vincere e governare, se mai poi allargandosi in sede parlamentare, ma dalla posizione di forza che spetta a chi vince.
La volontà esplicita è di escludere la governabilità e l’alternanza tradendo quel poco di buono che la seconda repubblica partita con la stagione referendaria sembrava aver fatto conquistare.
La prova del nove è che mentre si dice di voler correggere l’anomalia del 55 per cento dei seggi che potrebbero andare anche ad un partito con appena il 25 per cento dei voti, si alza la soglia all’irraggiungibile 42 e mezzo per cento e ci si guarda bene dal rimediare all’oscenità del Senato dove il premio opera al contrario proprio in favore del caos.
Piuttosto che superare il porcellum lo si ingrassa; e si completa l’opera scippando definitivamente gli elettori anche della indicazione di una coalizione di governo.
Del resto basterebbe domandare a Casini o a Berlusconi se farebbero mai lo stesso ove per ipotesi i sondaggi li dessero in testa.
È questa la ragione della fondamentale regola europea che bandisce colpi di mano in zona cesarini in materia elettorale. Anche il Capo dello Stato lo ha più volte evidenziato. L’approssimarsi del voto se rende stringente l’opportunità di un sistema elettorale che ridia la scelta ai cittadini, allo stesso tempo impone la più ampia condivisione, che ovviamente non vi può essere su norme dolosamente contra partem, perfetto pendant di quelle ad personam.
Lo stesso Monti dovrebbe diffidare di un’operazione così smaccata concepita non da chi davvero lo vuole alla guida del Paese, ma da chi piuttosto che perdere preferisce mandare la palla nella tribuna del caos, per poi chiamarlo come foglia di fico di un governo e di una maggioranza sempre più contraddittori e quindi inconcludenti, privi di un leggibile percorso politico di crescita oltre la crisi.
Le regole ci sono per evitare anche questo. Per il loro rispetto è quindi legittimo attendersi un fermo monito del Quirinale non meno vibrato di quello che più volte ha giustamente rivolto contro il porcellum. Prima che sia troppo tardi e prima che la terza repubblica nasca su un nuovo sbrego alla condotta costituzionale di un paese europeo.

l’Unità 7.11.12
Paolo Flores da Galvano Della Volpe a Grillo
di Bruno Gravagnuolo


PARTITO D’AZIONE? NO PARTITO DELLA DEVASTAZIONE. Già, il  senso della provocazione lanciata da Paolo Flores D’Arcais sul Fatto e sul Corsera è questo: distruggere tutto per rigenerare tutto. Roba da far sembrare Bordiga un’educanda. Ecco la proposta del fondatore di Micromega: votiamo Renzi alle primarie per mandare in frantumi il centrosinistra. E poi Grillo, per fare a pezzi la partitocrazia. Scenario da incubo. Che produrrebbe ingovernabilità, e tecnici in sella per sempre. Come ha notato Asor Rosa. Tra tumulti plebei e spettro del default. Ma a Flores tutto ciò non importa. Sembra il Diario di un pazzo gogoliano, con pezzi di corpo e pensieri che se ne vanno in giro ciascuno per suo conto. Come nel Naso del celebre scrittore. Dalla catastrofe poi, nascerebbe un miracolo, lo stesso forse che Paolo Flores sognava in gioventù e che risogna, sotto mutate spoglie: la crisi generale del capitalismo e la rivoluzione permanente... Finì diversamente: controrivoluzione permanente, stalinismo, New Deal, fascismi. Ma questi son dettagli.
A Flores sta a cuore il sogno. La molla onnipotente che lo spinge a sognare a quel modo, mutatis mutandis. E il sogno viene da lontano. Prima c’è il Flores trotzkista espulso dal Pci. Poi il Flores settario del Soviet. E il Flores libertario sedotto dal primo Craxi (ripudiato). Segue l’occhettiano «clubista», prodiano e veltroniano radicale, che ripudia l’idea stessa di partito. Infine, ri-deluso e dopo i girotondi, fa asse diretta con Di Pietro e Travaglio, fino alla folgorazione per Grillo. Il tarlo di Paolo Flores in viaggio da Della Volpe a Grillo? È il movimentismo nuovista di cittadinanza che pensato contro i partiti, fatalmente favorisce partiti personali della democrazia diretta e carismatica. È il famoso «partito che non c’è». E che infine genera mostri populisti (a destra). Rosselli? C’entra zero. Era socialista e voleva giustizia e libertà, con stato di diritto, partiti e un blocco sociale fatto di classe operaia e ceto medio produttivo. Altro che Di Pietro Grillo.

Corriere 7.11.12
«Io, first gentleman»
Ed non si nasconde più Il compagno di Vendola: avevo scelto la privacy Ora ogni volta che potrò starò con Nichi
di A. F.


MILANO — Discreto, silenzioso, sempre un passo indietro rispetto al governatore pugliese. Lo si è visto anche al processo per abuso di ufficio dove ha scelto, per la prima volta, di stargli pubblicamente accanto. E all'indomani dell'assoluzione Ed Testa, compagno italocanadese del governatore della Puglia Nichi Vendola, ha deciso dopo anni di silenzio di venire allo scoperto. E di presentarsi per quello che è: il compagno del presidente della Regione Puglia Nichi Vendola. Lo ha fatto con un'intervista al settimanale Vanity Fair, in edicola oggi: «Come mi sono sentito al processo? Nel ruolo di first lady? Preferisco l'espressione first gentleman. In passato, ho sempre preteso il rispetto più assoluto della mia riservatezza e della mia privacy. Ora non ho più intenzione di nascondermi. Ogni volta che potrò e vorrò, sarò accanto a Nichi».
Ed detto Eddy ha 33 anni, è italocanadese, e ha studiato come graphic designer and creative consultant presso la Concordia University di Montreal, alla Ottawa University e poi a Urbino, design e comunicazione. Ha seguito ad esempio con affetto la vicenda di Vincenzo Deluci, trombettista e compositore jazz pugliese, trentenne, distrutto da un incidente stradale, che riesce ancora a suonare con un puntatore ottico. Con Vendola si sono conosciuti per caso: «In un bar della Capitale in una caldissima serata di inizio settembre. Abbiamo cominciato a chiacchierare, Nichi si è offerto di accompagnarmi a scoprire alcuni angoli incantati della vecchia Roma. Davvero una bella passeggiata, non è mai più finita. Per me è sempre lo stesso Nichi. Spesso intona delle canzoncine che inventa lì per lì, facendomi credere che si tratti di vecchie canzoni d'amore. E io ci casco».
D'altronde, proprio Vendola in un'intervista di qualche tempo fa al settimanale «Chi» ha confessato di aver ricevuto un nuovo orecchino di brillanti dal «suo amore», per i suoi 50 anni. E ha aggiunto che vivono a Terlizzi (Bari), da anni, che sono una coppia morigerata e tranquilla, e ricevono amici a cena: «Che altro potremmo fare con la vita che conduco?».
Versione confermata anche da Testa: «Oggi viviamo nel borgo antico di Terlizzi. Tutti sanno di noi, ma mai un episodio spiacevole: siamo sempre accolti con grande cordialità. Il Sud Italia è molto, molto più aperto di quanto non si immagini».
Di se stesso e della sua omosessualità Vendola ha sempre detto: «Confessare che ero omosessuale non è stato facile. Da quel momento ho dovuto lavorare il doppio. Per fare in modo che la gente dicesse: vedi, è gay, ma è bravo». E ultimamente ha avuto un battibecco pubblico con Rosy Bindi: «A 54 anni voglio dire che mi voglio sposare con il mio compagno. Rivendico questo. Come cittadino, come persona e come cristiano». Stessa opinione per Eddy Testa, che a Vanity spiega: «Io e Nichi ci sentiamo piuttosto discriminati da uno Stato che non riconosce i nostri diritti, che quasi non ci vede, e che sembra troppo condizionato da una classe dirigente ipocrita e arretrata. I matrimoni gay? Parliamo di stessi diritti per tutti. Figli? Noi ne vorremmo più di uno».

Corriere 7.11.12
Sui fondi (dichiarati) il rottamatore batte tutti


FIRENZE — Se le donazioni contassero più dei voti, Matteo Renzi sarebbe già il trionfatore assoluto delle primarie e il leader incontrastato del centrosinistra. Il rottamatore ha infatti già incassato più di 120 mila euro di contributi volontari surclassando Bersani (2.100 euro) e Vendola con 3.780 euro. Almeno queste sono le indicazioni che saltano fuori dagli elenchi dei sostenitori che hanno accettato di rendere pubbliche le loro generalità nei siti degli sfidanti. A sbirciare i website dei candidati, sorprende non solo la trasparenza del sindaco di Firenze, ma anche una bonaria ostentazione dei «doni» ricevuti con tanto di grafici sulle cinque città più generose (in ordine Firenze, Roma, Milano, Bologna e Torino), l'importo della donazione media (32,24 euro) e un'infografica sulla percentuale dell'elargizione divisa per importo. Così si scopre che il 44,37% dei sostenitori di Matteo ha sborsato dai 6 ai 10 euro, il 27,55% da 11 a 50 euro. E solo lo 0,80% ha versato più di 250 euro. Pochi, ma buoni, i generosissimi. Tra i nomi (omonimie permettendo) appaiono, infatti, Sebastiano Cossia Castiglioni, proprietario (con residenza in Svizzera) della tenuta vinicola di Querciabella (5 mila euro), l'imprenditore Gianfelice Rocca (1.000 euro), il radiologo fiorentino Andrea Stiatti (1.000 euro), l'ex amministratore delegato di Mediaset e oggi nel gruppo De Agostini-Planeta, Maurizio Carlotti (1.000 euro) e il vicepresidente della sezione farmaceutica della Confindustria, Giorgio Sismondi. Gli amici di Bersani non hanno tirato fuori più di 100 euro e l'unico nome celebre nella lista di Vendola è un tale Luigi De Magistris (500 euro). Il sindaco di Napoli? No, un omonimo.
Marco Gasperetti

Repubblica 7.11.12
Il senso delle primarie del Pd
di Piero Ignazi


Il nostro sistema politico è entrato di nuovo in una dinamica “rivoluzionaria”. Per fortuna il comitato di salute pubblica presieduto da Mario Monti non induce preoccupazione alcuna. Solo Berlusconi poteva straparlare di “terrore fiscale”. Nessuno intravede ghigliottine dietro la grisaglia e l’understatement del professore. Del resto, Robespierre non ha mai trovato imitatori nel paese dove crescono i limoni. Eppure la vita della nostra repubblica non scorre tranquilla. Siamo in uno stato di flusso, di indeterminatezza, di tensione. Il nostro futuro politico e istituzionale (per non dire di quello economico) è incerto. Così come vent’anni fa. Allora, dopo Mani Pulite, il sistema dei partiti, immobile per quarant’anni con le sue 7 stelle fisse (per i giovani: Msi, Pli, Dc, Psdi, Pri, Psi, Pci), crollò di schianto e ne emerse uno nuovo di zecca. Tanto nuovo da aver fatto parlare di una seconda Repubblica che invece non ha preso forma perché nessuna riforma costituzionale è mai stata approvata. Silvio Berlusconi, insieme all’amico Umberto, incarnò il “nuovo”. In effetti Forza Italia fu un unicum nel panorama europeo. Un partito senza iscritti, proprietà personale del fondatore, telecomandato dagli studi televisivi, retto da un nucleo di dipendenti aziendali.
Quella novità si è consunta con gli anni, come lo stesso Cavaliere arrivato a fine corsa con una maschera da Petrolini tragico. E con lui si sfaldano gli altri partiti. Il logoramento è sistemico, con la sola eccezione, forse, del Pd (sante primarie!) perché dopo vent’anni si è chiuso un ciclo. Potrà sembrare paradossale, ma il ciclo che arriva al capolinea è quello dell’antipolitica, iniettata a dosi mortali nel corpo politico nazionale proprio da Berlusconi e dal forzaleghismo di complemento. Chi ha parlato per anni di “teatrino della politica” o chi ha definito Roma una “ladrona” se non i campioni del centro- destra? Dall’altra parte, il centro- sinistra non è stato in grado di reggere e rispondere a quella visione. Non ha messo in campo nulla di altrettanto forte e coinvolgente sulla dignità e bellezza della politica. Solo i movimenti hanno fornito spinte vitali ma è nella loro natura accendersi e spegnersi. Il movimento della pace con tutte quelle bandiere appese alle finestre, una delle più diffuse espressioni di partecipazione politica della nostra storia repubblicana, oppure i girotondi, o ancora la mobilitazione femminista del “se non ora quando” sono state le sole risposte politiche al dilagare della disaffezione, dell’apatia, del disgusto. Con un crescendo rossiniano la lontananza dalla politica, sollecitata in maniera subliminale dal presidente operaio e imprenditore, operoso e libertino — ghe pensi mi, non preoccupatevi, divertitevi come faccio io tra calciatori e veline — si è trasformata in rabbia. La crisi economica ha fatto da acceleratore all’ostilità fomentata da una classe politica in gran parte autoreferenziale, inetta e corrotta. Da quanto tempo fosse in incubazione questo sentimento lo dimostra l’irruzione spettacolare di Beppe Grillo cinque anni fa, con quei “vaffa-day” che riempirono le piazze, a incominciare da quella di Bologna, tradizionalmente la più partecipativa e politicizzata. Grillo esprime,
dà sfogo, incanala questo rancore o lo alimenta? L’uno e l’altro. Ma rispetto a Berlusconi, l’antipolitico per antonomasia, Grillo non è emerso all’improvviso, calato dall’alto degli studi televisivi. Il suo blog è attivo da anni ed è uno dei più visitati al mondo. Non si occupa di interessi settoriali o di categoria mentre il Cavaliere si voleva rappresentante del mondo aziendale e delle partite Iva. Grillo affronta(va) temi specifici ma di portata generale, dai diritti degli azionisti al riscaldamento globale. E soprattutto schiuma di rabbia contro i partiti, le istituzioni, il sistema. È un mugugno incattivito ed elevato al cubo. Che rappresenta senza mediazioni quanto ribolle nella società. Attraverso la (sua) rete arriva in superficie quanto è stato alimentato per un ventennio dal berlusconismo. Grillo ora si muove su un crinale: può alimentare un disprezzo devastante nei confronti della politica tout court scadendo nel populismo (e certe sue tirate contro l’Unione Europea vanno in questo senso) o convogliare la domanda di una politica migliore, più rispondente e più pulita attraverso buone pratiche istituzionali, come già fanno molti suoi rappresentanti locali. Di fronte ad una ondata di “consenso disperato” che forse lo stesso Grillo non sa più come gestire, l’unico argine viene dal Pd e dalle sue primarie che costituiscono il solo momento aperto, partecipativo, di base in cui la politica risuona con accenti veri, nonostante l’eccessiva mediasettizazione di Renzi. Per questo, il partito di Bersani ha sulle sue spalle una responsabilità sistemica.

l’Unità 7.11.12
Perché la sinistra europea tifa per i Democratici
Dalla presidenza di John Kennedy un rapporto sempre più stretto lega la sinistra italiana al partito dell’Asinello
di Giuseppe Vacca


Dalle mie parti, nei primi anni Sessanta, era piuttosto frequente trovare affiancate nei bar, nei circoli ricreativi o nelle abitazioni private, le immagini di Papa Giovanni, Kennedy e Chruscev. Parlo dei Paesi della provincia di Bari, di luoghi di ritrovo popolare o di povere case dall’arredo contadino e operaio. Questi ritratti erano il simbolo di una nuova speranza, la speranza della pace mondiale accesa dalla distensione internazionale e dal Concilio. E quando Papa Giovanni morì, Kennedy venne assassinato e Chruscev fu destituito, molto spesso sotto quelle immagini si accendevano piccole illuminazioni, in segno di devozione e di auspicio che quella speranza non tramontasse.
Il consiglio comunale della mia città commemorò solennemente John Fitgerald Kennedy subito dopo il suo assassinio e anche il gruppo comunista si associò alla commemorazione, ma un consigliere, eminente figura di intellettuale, si rifiutò di levarsi dal suo banco. Kennedy era stato il Presidente dell’invasione della Baia dei Porci e dell’intervento in Vietnam, e per quell’illustre professore restava il simbolo dell’imperialismo americano: il nemico.
Il buon senso dei ceti popolari guardava più lontano di settori consistenti delle classi colte; percepiva l’unità del mondo al di là delle divisioni della guerra fredda; l’interdipendenza era più forte delle artificiose costruzioni dell’immagine del nemico. E di questo parlava la crescente attenzione di tutto il mondo per le elezioni presidenziali americane. Un’attenzione che negli anni Ottanta, periodo di nuova guerra fredda, faceva dire a Norberto Bobbio che le elezioni americane avevano una rilevanza internazionale così grande che tutti i cittadini dell’Occidente avrebbero dovuto avere il diritto di parteciparvi.
Qualcosa del genere è avvenuto dopo la fine del mondo bipolare. Negli ultimi venti anni l’attenzione dei media per le elezioni americane è cresciuta in modo esponenziale in tutto il mondo e accompagna in crescendo le campagne elettorali per settimane e mesi, accende le passioni e genera reazioni che si ripercuotono sull’agenda dei candidati e sulla formazione del loro consenso. È un buon segno. Nell’ultima campagna presidenziale i media hanno abbondato di paragoni fra il programma di Obama e quello di Romney cercando di dimostrare che non differivano granché. Ma chi potrebbe sensatamente pensare in Europa che, vinca l’uno o l’altro, non cambierà nulla?
Nel 2003 George Bush jr. piazzò una guerra nel Mediterraneo che spaccò l’Europa e ne inceppò l’unificazione. Quattro anni fa, appena eletto presidente, Obama volò a Berlino e vi tenne un grande discorso per invertire la rotta delle relazioni transatlantiche. Negli ultimi due anni si è adoperato alacremente per promuovere una convergenza fra Usa e Ue, premessa necessaria al varo di efficaci politiche anticrisi alla scala che oggi esige il mondo globale e interdipendente. Come potrebbero i cittadini che credono nell’Europa non essere con lui?
L’Unità di ieri ha titolato: «Siamo tutti democratici». Non è un titolo ad effetto. Se il principale discrimine tra le forze politiche italiane è l’opzione europea, non può sorprendere che il giornale che ha come principale riferimento politico l’Europa si schieri calorosamente per Obama . Ma non può sorprendere neppure che inclini verso i democratici americani quasi tutta la sinistra italiana. Essa è composita, ha storie e radici diverse. Ma da trent’anni la destra ha assunto sempre più la figura della «rivoluzione neoconservatrice» pensata e guidata dalla destra repubblicana americana.
È quindi naturale che la sinistra si sia venuta rimodulando in crescente intelligenza e sintonia con i democratici di quel Paese.

l’Unità 7.11.12
Fabrizio Barca: «I cittadini devono sapere perché le opere non si fanno»
Secondo round di verifiche sull’attuazione dei progetti finanziati dall’Ue. «Le opere non si realizzano se non è la gente a chiederle Serve più democrazia»
intervista di Bianca Di Giovanni


Poco prima di Natale sapremo a che punto sono una quarantina di opere in via di realizzazione in Campania e in Sicilia finanziate con fondi comunitari per circa un miliardo. È appena partito infatti il secondo ciclo di sopralluoghi attivati da Fabrizio Barca. Per il ministro della Coesione territoriale è quasi un’ossessione. «Non basta fare decreti, bisogna vigilare sulla loro attuazione», va ripetendo ormai da tempo. Ma stavolta c’è un passo in più. Non basta neanche solo vigilare, bisogna anche far conoscere, attivare una rete di informazioni. «La gente deve sapere se una cosa funziona, o perché non funziona spiega E deve diventare furibonda se un’opera finanziata non viene realizzata. Perché le cose accadano serve partecipazione, serve democrazia, serve la spinta dei cittadini». Il rischio è che nessuno sappia nulla, e che tutti credano che non funzioni nulla e che così va il mondo.
Invece? Non va tutto male? Qual è il bilancio del primo round di sopralluoghi fatto a settembre?
«Quello era un caso diverso, si trattava di prevenire eventuali ritardi di attuazione e riguardava opere finanziate con fondi della coesione (cioè italiani, ndr). Si sono segnalate criticità per circa un quarto dei progetti, ma anche cose che funzionano. Che so, succede anche che una scuola inizia a spendere di tasca propria prima che arrivino i fondi, mentre un’altra non inizia mai». Quali criticità si sono evidenziate?
«Ce ne sono di tre tipi. In alcuni casi c’è una insufficiente capacità attuativa. In altri casi, come quelli in cui si sono nominati commissari, c’è il mancato coordinamento tra la struttura commissariale e quella ordinaria. Ma nella maggior parte dei casi c’è la mancata identificazione di chiare responsabilità». Spesso gli italiani pensano alla corruzione, al malcostume...
«Non c’è stato nulla di tutto questo. E in un certo senso il risultato è ancora più preoccupante, perché non si tratta di casi di malcostume, ma di una macchina con fisiologici elementi di ritardo. Io sono convinto che uno dei fattori determinanti è la circolazione delle informazioni. Ci sono alcuni casi in cui i soggetti interessati non sanno neanche che i fondi sono stati stanziati. Per questa ragione ho fatto leva sul contributo attivo delle associazioni di categoria. L’Ance (associazione costruttori, ndr) si è mossa in tutte le Regioni del Sud con molta efficacia. Bisogna capire che le cose avvengono perché qualcuno le richiede, se c’è democrazia e ci sono soggetti che ne hanno bisogno».
Il team che effettua i sopralluoghi ha avuto i problemi? È una squadra nuova? «Non ha avuto nessun problema, c’è stata collaborazione delle strutture locali. La squadra non è nuova, addirittura risale ai tempi di Ciampi all’Economia. Si è fatta già molta strada».
E in tutto questo tempo non si è riusciti a incidere?
«Molto si è fatto, ma quello che è mancato è stata per l’appunto l’informazione. Serve una rete che colleghi le attività con i cittadini e gli attori dell’economia locale. E questo manca ancora». Secondo Lei questa verifica fattuale delle decisioni politiche vale in tutti i campi?
«Credo che i problemi del nostro Paese non si risolvono normando, ma attuando. In Italia si lavora molto nella fase ascendente (cioè creazione delle leggi, ndr) e poco in quella discendente».
Veramente questa è la critica che si fa al governo Monti: Confindustria non perde occasione di ricordare quanti decreti attuativi mancano ancora...
«Vorrei ricordare che una parte rilevante dei provvedimenti sono auto-attuativi, cioè hanno efficacia senza norme secondarie. Si pensi al fisco e alla previdenza. L’attenzione di Confindustria si è appuntata su altri profili, ma quello che sostengo io è un’altra cosa, sta ancora più a valle. Io non parlo di decreti, ma proprio di realizzazione delle decisioni prese. Dobbiamo andare molto più in là, perchè anche i decreti attuativi sono qello che gli inglesi chiamano “paperwork”, lavoro di carta. Prendiamo il caso di Pompei non mi interessa lo stanziamento di 100 milioni, e neanche il varo di 6 bandi: mi interessa portare a casa risultati. Il problema dell’Italia è l’iperattenzione alle fasi cartolari e alle procedure».
A proposito di efficacia, come valuta il cambio di rotta della legge di Stabilità, il passaggio da meno Irpef e più Iva, a meno cuneo e meno Iva. Quale formula è più efficace per la crescita?
«A parità di saldi si possono fare infinite combinazioni di interventi. Quello che mi interessa qui è il metodo: per la prima volta le forze di maggioranza stanno costruendo delle soluzioni condivise, su cui possono convergere. Questo non è poco. Sono molto interessato al segno finale che acquisterà la manovra».
I problemi però restano molto gravi: poca occupazione, bassa crescita. L’Europa sta creando preoccupazioni in tutto il mondo. Pensa ancora che la formula di Bruxelles sia quella giusta?
«L’Europa non ha ancora adottato quelle misure per la crescita già approvate, grazie alla spinta di Hollande e al contributo di Monti. Non ha ancora attuato la decisione di escludere gli investimenti dal computo del patto di stabilità, e ancora non ha varato il bilancio qualitativamente più efficace per la crescita. Mancano ancora questi due passaggi, che devono arrivare al più presto».
Lei oggi ha già detto su twitter quello che pensa dei ministri tecnici che hanno intenzione di presentarsi alle elezioni... Può commentare la frase detta da Monti sull’opportunità di presentarsi in diverse formazioni per evitare dubbi sulle loro scelte «tecniche»?
«Credo che la preoccupazione di monti può essere fugata in un altro modo, molto più sicuro: che non si presenti nessuno di noi alle prossime elezioni».

Repubblica 7.11.12
Diffamazione, bavaglio più vicino
Senato, oggi voto finale in aula. Sospensione dall’Ordine, si spacca il Pd
di Liana Milella


ROMA — Il bavaglio per la stampa si avvicina pericolosamente. Multe e risarcimenti per migliaia di euro, editori colpiti, giornalisti sospesi per un anno dall’Ordine dalla terza condanna per una diffamazione. La commissione Giustizia, pure con i voti di una parte del Pd, licenzia il testo, anziché fare l’ostruzionismo promesso. E stamane la partita si trasferisce in aula. Perde quota l’ipotesi — cui pure si è lavorato alla Camera con contatti tra Pd e Pdl — di un emendamento al ddl sulle misure alternative al carcere del Guardasigilli Severino in cui inserire una sola norma asciutta mirata ad evitare il carcere al direttore del Giornale Sallusti. Che peraltro la procura di Milano non vuole assolutamente spedire in cella, ma semmai mettere agli arresti domiciliari con tanto di permesso giornaliero per lavorare. A Montecitorio, dov’è stato riscritto il meccanismo della “messa in prova” — lavori socialmente utili, in luogo del processo, per condanne fino a 4 anni — hanno atteso l’esito delle trattative al Senato per non sovrapporsi con una norma fotocopia. Voci discordanti sull’ammissibilità di un simile emendamento, contrari qualificati tecnici del palazzo per via dell’estraneità di materia, favorevole il Pdl. «Sempre di alternative al carcere si parla» dice Costa.
Per ora prevalgono i tre articoli del Senato. «Una legge pessima, se ne fermi l’iter, la democrazia è in pericolo» dice il segretario della Fnsi Siddi, e i direttori delle testate italiane sottoscrivono a decine l’appello «sui rischi per l’informazione». Il Pdl non vuole fermare quel treno e non resta che sperare in un deragliamento per le manifeste divisioni nel gruppo. Le ammette il presidente della commissione Giustizia Berselli, un pidiellino doc, quando dice che «una parte dei senatori è molto sensibile alla tutela del diffamato, poi ci sono i portatori delle istanze dei giornalisti che vogliono sanzioni più lievi». Berselli non elenca una terza categoria, chi vuole mantenere il carcere.
Frangia forte nel Pdl, presente pure nella Lega dove un esponente di rilievo come Mazzatorta dice: «Di fronte al danno arrecato alla reputazione della persona, che è un bene superiore, non si può cancellare la sanzione del carcere».
Oggi in aula si va allo sbando. Può accadere di tutto. Le divisioni sono trasversali. Il voto segreto, già chiesto da Rutelli sul primo articolo, potrebbe essere confermato. «Vediamo» dichiarava lui ieri. Sulla carta il Pdl dovrebbe votare sì, no Pd e Idv, no anche l’Udc, no la Lega (ma non è detto). Ma da Pdl e Pd arrivano le sorprese. Come quelle dei democratici che in commissione Giustizia si sono spaccati in tre pezzi. Si votava l’ennesima versione dell’emendamento Balboni-Mugnai sulla sospensione dall’albo. Sul tavolo quello che la toglie per la prima condanna, ne prevede una facoltativa fino a sei mesi per la seconda, la impone dalla terza in avanti per un intero anno. Votano a favore, con Pdl, Udc, Api e Lega, il capogruppo Pd Della Monica e Maritati, due ex pm, si astiene l’ex procuratore D’Ambrosio, deciso no da Casson e Vita. È lite tra loro. Dirà Della Monica che l’ha fatto «per garantire la riduzione del danno». La rimbrotta Casson «Le ho consigliato di non votare, è un errore politico, stavamo facendo ostruzionismo e invece abbiamo mollato». Vita è angosciato: «Mi sveglio con gli incubi, stanotte sono stato male, non posso credere che stiamo approvando una legge così, domani il mio e quello di tanti altri colleghi sarà un no fermo ». D’Ambrosio se ne va con l’aria disgustata: «Non si può fare una legge così...». Oggi il Pd promette ufficialmente di votare no, ma nel segreto dell’urna c’è chi, anche tra di loro, vuole colpire la troppo libera stampa.

l’Unità 7.11.12
Scuola e ricerca si può fare di più
di Margherita Hack

DA QUESTO GOVERNO DI PROFESSORI CI SI ASPETTAVA UNA MAGGIORE ATTENZIONE ALLA SCUOLA E ALLA RICERCA e invece sono stati prese iniziative discutibili, anche se in molti casi si è fatto marcia indietro.
La prima è il concorsone per docenti di scuola media. Gli insegnanti precari anche da decenni sono stati messi alla pari con chi si presenta a un concorso per la prima volta. Questo non mi sembra giusto e credo che si dovrebbe fare come si è fatto per gli incarichi all’univerisità, ovvero bandire un concorso riservato. Il che non vuol dire far entrare cani e porci, ma permettere a chi ha già guadagnato sul campo il diritto di insegnare di avere concorsi meno affollati.
La seconda è la proposta di accorpamento degli istituti di ricerca. Accorpare istituti piccoli ed efficienti per farne un carrozzone vorrebbe dire aumentare la burocrazia, diminuire l’efficienza e mettere insieme interessi spesso contrastanti. Per fortuna mi sembra che la proposta sia caduta. Infine, la proposta di aumentare le ore d’insegnamento dei docenti delle scuole medie senza toccare gli stipendi già scandalosamente bassi. Bisogna tener conto del fatto che il lavoro degli insegnanti non si esaurisce nelle ore di lezione, ma prevede le ore di preparazione della lezione, la correzione dei compiti e quindi è molto maggiore di quello che appare. Anche su questo mi pare si sia fatta marcia indietro.
Intanto, le ruberie vanno avanti, ma almeno abbiamo avuto la soddisfazione di vedere Fiorito in galera e Berlusconi condannato per un’evasione fiscale colossale. C’è poi stato il caso Di Pietro, accusato di avere oltre 50 appartamenti. Mi auguro si tratti di un errore: Di Pietro mi sembrava onestamente scandalizzato dalla disonestà. Spero di non essermi sbagliata.
L’Inps sta chiedendo ai pensionati la restituzione ogni mese di una piccola somma per una quattordicesima che l’Inps stesso avrebbe erroneamente dato. Mi meraviglia un po’ che i pensionati debbano pagare gli errori dell’Inps. Infine, si sta facendo un gran pasticcio con l’accorpamento di alcune province. Io penso che porterà grandi litigi, campanilismi e un aumento di spese perché una volta che due province saranno messe insieme bisognerà trovare una nuova sede più grande, ristrutturarla con costi notevoli. Meglio sarebbe abolire tutte le province, suddividendo il personale a esaurimento tra comuni e regioni. Risparmiare in altro modo si può: perché dobbiamo acquistare gli F35? A chi dobbiamo fare guerra? C’è poi la proposta dei radicali di risparmiare sulle Frecce Tricolori e utilizzare i soldi dello spettacolo aereo per i malati gravi. Qualcuno ha protestato, ma io credo che sia una proposta saggia. I piloti delle Frecce tricolori sono bravissimi e lo spettacolo è molto bello. Ma è uno spettacolo per il quale in pochi secondi si bruciano moltissimi soldi. È davvero necessario in tempi di ristrettezze economiche?

Corriere 7.11.12
L'assalto al concorso per i professori
La stima: 280 mila domande per 11 mila posti. Il ministero: no, meno
di Mariolina Iossa


ROMA — Sono almeno 280 mila, secondo una stima della rivista specializzata Tecnica della scuola, le domande arrivate al sito del Miur per partecipare al «concorsone» voluto dal ministro Francesco Profumo. La presentazione delle domande al concorso, che bandisce 11.542 posti per professori, quindi cattedre «vere e proprie» e la certezza di una sistemazione definitiva per altrettanti attuali precari, scade oggi improrogabilmente alle due.
È possibile farla soltanto attraverso il click sul sito Internet del ministero. Poi, si potrà aspettare fino al 21 novembre, sempre alle ore 14, per inserire o modificare i «titoli valutabili». Ma dal ministero respingono le cifre: non si andrebbe oltre le 160 mila domande, 280 mila è un numero «sballato». Dal ministero fanno sapere anche che il ministro è comunque «molto soddisfatto per l'andamento del concorso, sia per il numero sia per la qualità delle domande finora arrivate». Si tratta a questo punto di aspettare qualche ora per sapere la cifra esatta e comunque non si dovrebbe essere lontani dalla verità se si dice che per ogni posto a disposizione ci saranno circa 20 candidati. La stima di Tecnica della scuola comprende infatti le 60 mila domande non ancora perfezionate ma la cui gran parte certamente è stata poi conclusa in queste ore; comprende anche un certo quantitativo di candidati che non rientreranno nei criteri del bando ma le 280 mila domande sono state «contate a occhio», diciamo così, 36 ore prima della chiusura del bando e in questo giorno e mezzo è certo che migliaia di altre domande arriveranno al sito del Miur «Istanze on line».
Dal ministero fanno sapere che c'è un forte afflusso di domande che rallenta un po' l'inserimento online della richiesta da parte dei candidati professori.
Quanto l'aver ritardato, e aspettato fino all'ultimo, possa essersi rivelato dannoso lo saprà solo chi non è riuscito in tempo a cliccare la sua domanda ma una cosa è certa: sono moltissimi i candidati rispetto ai posti, e non poteva che essere. La domanda di partecipazione al concorso, che può essere fatta per una sola Regione, consente l'accesso alle prove preselettive che dovrebbero svolgersi a dicembre.
In alcuni casi, nelle Regioni con maggiori richieste, si potrà arrivare a ridosso di Natale: ciascun candidato avrà i suoi 50 test da risolvere su 3.500 resi pubblici 20 giorni prima. Si tratta di 50 quesiti a risposta multipla a cui rispondere in 50 minuti (18 quiz di comprensione del testo, 18 di logica, 7 di informatica e 7 di lingua straniera).
Una volta superata la preselezione si accederà alla prova scritta, domande a risposta aperta per valutare la padronanza delle competenze professionali e delle discipline oggetto di insegnamento, anche attraverso riferimenti interdisciplinari.
Allo scritto farà seguito una prova orale, ovvero una lezione simulata, della durata massima di 30 minuti, su un argomento estratto dal candidato 24 ore prima e da un colloquio immediatamente successivo alla lezione di una mezz'ora durante la quale verranno approfonditi i contenuti, le scelte didattiche e metodologiche della lezione simulata.
Ma il vero scoglio da superare è proprio quello iniziale, delle domande: secondo quanto riporta Tecnica della scuola più di un candidato potrebbe non essere ammesso allo scritto perché il Miur richiede il conseguimento della laurea da almeno 8-10 anni, a seconda degli anni di corso, e qualcuno potrebbe comunque volerci provare, anche senza avere i requisiti giusti. Questi aspiranti prof dovrebbero in ogni caso partecipare ai test preselettivi, e solo dopo, prima della prova scritta, verrebbero esclusi.

Corriere 7.11.12
L'esordio di Battiato: Tao e fisica quantistica io non farò politica
«In Regione senza stipendio e con la mia auto»
di Felice Cavallaro


CATANIA — La gag potrebbe diventare materia prima per l'imitazione di Fiorello perché la conversazione con Franco Battiato, al debutto da assessore di Rosario Crocetta, inciampa se lo chiami come non gradisce. «Assessore a me?». Va bene, Maestro. «Maestro, no no». Problemi di identità? «Non mi piacciono gli appellativi». E se azzardi che comunque, da assessore a Turismo e spettacoli, il cantautore amato anche come regista e scrittore, pittore, filosofo e poeta, scopre la politica, ecco la reazione: «Ma cosa dice? Sono affittato. Non faccio politica e non mi interessa avere a che fare con i politici».
Considerato da Crocetta il pezzo forte di una giunta che il governatore vorrebbe trasformare nella vetrina di una Sicilia presentabile, Battiato è chiamato a organizzare grandi eventi. Ma lui corre sempre dove lo porta il cuore. Offrendosi alle manifestazioni minori dove arriva senza prendere un centesimo, dal poverissimo Festival di Marzamemi, appena un proiettore nella piazza dove si girano i film del commissario Montalbano, al Festival di Salina perché si parla dei Sud del mondo. E ora, invece, «grandi eventi» per l'autore del vecchio refrain che per «direttori artistici e addetti alla cultura» proponeva la soluzione finale: «Mandiamoli in pensione». Erano solo canzonette? «Intanto, cambiare idea fa bene», sorride. Poi fissa i paletti: «Non sarò l'assessore alla Cultura. Mi occuperò di eventi speciali per mettere in contatto la Sicilia con il resto del mondo, dalla Cina all'America». Lo ripete anche nella bolgia della conferenza stampa di Catania implorando i cronisti: «Vi assittati ppi favuri?».
Non s'era mai visto così ironico e sereno Battiato, quasi riappacificato con la Catania dove nel 2005, quando vinse Lombardo sostenendo Scapagnini sindaco, tuonò il suo dissenso minacciando di espatriare. «Me ne andai davvero da Catania. Vendendo una casa stupenda in pieno centro per quell'aria irrespirabile di destra», precisa, anche se si trasferì a pochi chilometri, a Milo, sotto l'Etna. «E mica è Catania. A Milo ho trovato una pace fantastica. Senza i problemi che sfioro, quando parto, per arrivare in aeroporto». Problemi nei quali da assessore dovrà immergersi. Ma su questo il Battiato riappacificato sgancia un po' del suo pessimismo cosmico: «Tanti siciliani credono nel progetto di Crocetta. E, chiamato in causa, mi sono sentito in dovere di dire di sì». Però? «Però ho messo le cose in chiaro con Rosario: se mi fanno vedere qualcuno che non mi piace mollo. Non voglio assolutamente nessun tipo di contaminazione». Refrattario alla regola di tanti politici: «Non sopporto lo scambio: io ti do un pezzo di Rai, tu prendi quell'ente...». Nei patti invece non c'è niente per lui, così battendo i grillini che si riducono lo stipendio: «Non un euro. E nemmeno l'auto blu. A Palermo andrò con la mia. Anche questo è un fatto di libertà per non avere condizionamenti».
Sa che la politica è anche mediazione, ma la cosa non lo riguarda. Intransigente. Proprio come appare, con i suoi no a raffica, Crocetta, al quale dentro la maggioranza sussurrano di essere «ingrato», pronto com'è a dialogare con i «grillini». Termine sgradito non solo a Grillo, ma anche a Battiato, soddisfatto da una informazione di prima mano: «Mi hanno detto che, sapendo della mia partecipazione, avrebbero deciso di votare a favore della giunta». Che consideri positiva la spinta del gran capo delle Cinque Stelle contro la vecchia politica lo ammette: «Un attacco duro, sgradevole è quello che ci vuole per certa gente». Ma quando viene il dubbio che Battiato abbia votato Grillo e non Crocetta un sorriso azzera la domanda: «Non si dicono queste cose». Restano dubbi, mentre presto voterà Bersani, come dice in tv alla Gruber: «Andrò alle primarie per battere Renzi»..
Che fare subito? «Ho preso la mia vita sul serio da tempo. I miei interessi sono innanzitutto spirituali. Un fanatico dei mistici che hanno attraversato culture e religioni, ebraismo, taoismo, induismo... Troveremo pure questo negli eventi, oltre fisica quantistica, musica classica, anche leggera, ma di alto livello, danza, mostre...». E i compagni di viaggio di Crocetta? Dal Pd all'Udc? «Se un mio amico sposa una che non mi piace, che faccio, non vado al matrimonio?». L'«amico» in questo caso non piace a Fava che l'attacca sulla mafia, ma Battiato sceglie il campo: «Fava sbaglia». E Ingroia? «Un magistrato deve sempre poter dire quel che pensa». La valigia per il Guatemala è già imbarcata. «Gliel'avrei disfatta».

Repubblica 7.11.12
Senza esito il confronto con i sindacati
Licenziamenti confermati la Fiat non cede sui 19 di Pomigliano
di Paolo Griseri


TORINO — La Fiat mantiene i licenziamenti. I dirigenti di Pomigliano si presentano all’incontro con i sindacati senza modificare di una virgola l’impostazione annunciata: il Lingotto intende licenziare 19 tra gli attuali dipendenti impiegati sulla linea della Panda per far posto ad altrettanti cassintegrati della Fiom che il tribunale di Roma ha imposto di reintegrare perché discriminati dall’azienda. Dunque a nulla sono valsi gli appelli dei giorni scorsi da parte dei sindacati e degli stessi ministri del governo Monti che avevano invitato l’azienda a fare un passo indietro per evitare di esasperare il conflitto.
«L’incontro si è svolto in un clima di preoccupazione - racconta il segretario della Fim di Napoli, Giuseppe Terracciano - legato alle strumentalizzazioni della sentenza dalla Corte d’appello di Roma. Abbiamo chiesto alla Fiat il ritiro della procedura». Ma il Lingotto non ha accettato. La riunione è stata dunque aggiornata a data da destinarsi mentre all’esterno dell’edificio un gruppo di militanti dei Cobas contestava sindacalisti e azienda. Se i sindacati (Fim, Uilm, Fismic e Associazione quadri) non firmeranno la mobilità entro il 3 dicembre, le parti avranno ancora 30 giorni di tempo per trovare un accordo. Poi partiranno le lettere di licenziamento. Si arriverà così a gennaio, quando però la Fiat potrà dire di avere nuove esigenze produttive per la chiusura della produzione
della Panda in Polonia. Il responsabile auto della Fim, Ferdinando Uliano, ha chiesto «alla Fiat di ritirare i licenziamenti e alla Fiom di firmare gli accordi come hanno fatto i suoi delegati alla Maserati di Grugliasco, dove quel sindacato è in maggioranza ». Ma non sembra questa una strada semplice da percorrere. Le posizioni sembrano anzi divaricarsi ulteriormente mentre i sindacati del «sì» si aggiornano al 19 novembre per andare verso la firma del nuovo accordo di gruppo. Proprio ieri sera, presentando il suo libro «La solitudine dei lavoratori», il segretario della Fiom Giorgio Airaudo ha sostenuto che «a maggior ragione oggi quegli accordi sono inutili perché pensati per un piano, Fabbrica Italia, che non c’è più». Alla presentazione è intervenuto il sindaco di Torino, Piero Fassino: «Non è con atteggiamenti ideologici che si convince la Fiat a investire
», ha dichiarato attaccando poi le scelte di Marchionne a Pomigliano: «Le sentenze si applicano senza ritorsioni».
Le polemiche sullo stabilimento campano dividono anche i leader dei sindacali. Dopo l’uscita di Susanna Camusso su Marchionne che, a suo dire, sarebbe «il peggior ambasciatore dell’Italia nel mondo», Raffaele Bonanni ha proseguito il battibecco a distanza sostenendo che Camusso sta con Romney. La Cgil ha replicato con un tweet accusando Bonanni di copiare le battute dai giornali. Il ping pong si è spento in serata.

Corriere 7.11.12
La scelta dell'America né bianchi, né operai: i nuovi americani
Le minoranze ispaniche e asiatiche verso il sorpasso Demografia chiave del duello repubblicani-democratici
di Marilisa Palumbo


C'erano anche il cubano americano Marco Rubio, senatore della Florida, e l'indiano americano Bobby Jindal, governatore della Louisiana, nel comizio delle star repubblicane che hanno tirato la volata a Romney qualche giorno fa a Cincinnati, Ohio. Sono i volti della nuova America cui i repubblicani devono cominciare ad affidarsi: pena la marginalizzazione per anni a venire, non possono più permettersi di essere il partito di una classe bianca che invecchia mentre giovani istruiti, donne (specialmente non sposate), abitanti delle città e minoranze (che da sole formano già un quarto dell'elettorato) trovano la propria voce nel partito democratico. Nel 2008 furono questi gruppi di elettori a far vincere Obama, ma anche i liberal devono chiedersi se un altro candidato possa avere il suo stesso appeal e riconquistare la sua coalizione multi-colore.
Le minoranze
I demografi dicono che l'America è vicina a un «tipping point», un punto di svolta. Secondo William Frey, della Brookings Institution, queste elezioni sono state «l'ultimo hurrah per i bianchi». D'ora in poi i repubblicani non potranno più contare sulla cosiddetta «southern strategy», ossia puntare quasi esclusivamente su elettori «sudisti», evangelici e rurali.
Per la prima volta nella storia l'anno scorso i bambini nati da coppie miste o appartenenti alle minoranze — 2,02 milioni — hanno sorpassato le nascite dei bianchi non ispanici: 50,5% (erano il 37% nel 90) contro il 49,5%. Un dato premonitore di quello che accadrà tra un paio di decenni, quando l'America potrà dire addio alla sua maggioranza bianca: l'aumento esplosivo (anche se frenato nell'ultimo paio d'anni dalla crisi economica) dell'immigrazione e la crescita costante della popolazione latina e asiatica dovrebbero condurre al sorpasso attorno al 2040.
La campagna del 2008 è stata in qualche modo il racconto di un Paese che questa trasformazione la guardava con speranza e fiducia, materializzandola nel volto di quell'uomo dal nome improbabile, metà africano metà americano del Kansas, con una famiglia che, come lui stesso ama ripetere, «quando si riunisce sembra un'assemblea delle Nazioni Unite». Ma questa campagna, e prima ancora i quattro anni di Obama al governo, con il fallimento del suo sogno bipartisan e l'esplosione dei Tea Party, hanno raccontato invece un'America che davanti al cambiamento punta i piedi. Di mezzo c'è stata una crisi economica, e i limiti di un uomo caricato di aspettative messianiche, ma le trasformazioni che attraversano l'America non si possono fermare.
Se in una situazione economica ancora traballante e con una disoccupazione così alta il presidente è stato in testa ai sondaggi per quasi tutta la campagna, nonostante un misero 37% di sostegno da parte dell'elettorato bianco, è perché è sempre rimasto fortissimo tra gli elettori delle minoranze. Soprattutto tra i latinos, che quattro anni fa gli avevano accordato il 67% delle preferenze e che sono decisivi in molti stati chiave. Il New Mexico, dove gli ispanici sono ormai il 46,7 per cento della popolazione, non è neanche più comparso nella colonnina degli Stati indecisi. E pensare che nel 2004 Karl Rove, il «cervello» di Bush, considerava i latinos un gruppo di elettori in bilico: in fondo George W. aveva ottenuto il 44% delle loro preferenze. Peccato che poi sia arrivato il pugno duro sull'immigrazione. Il «Dream act», che garantirebbe la residenza e un percorso verso la cittadinanza ai giovani entrati illegalmente nel paese con i loro genitori, è fermo al Congresso per l'opposizione repubblicana. Ma c'è da scommettere che se ne tornerà a discutere. Ci sono voci pesanti nel partito, come quella di Jeb Bush, che da tempo suonano l'allarme: senza il voto ispanico il Grand Old Party è destinato a diventare una forza di minoranza. Dominare le preferenze dell'elettorato bianco, come Romney ha fatto per tutta la durata della campagna, non è più sufficiente.
L'elettore post-industriale
Ma non è solo la composizione razziale ed etnica dell'America a cambiare. Il passaggio, in molte aree del Paese, a un'economia post-industriale basata sulla produzione di idee più che di beni, ha aumentato il peso di un tipo di elettorato fatto di professionisti urbanizzati, che tende a votare democratico. Di più: che ha sostituito il «blue collar voter», l'operaio, come spina dorsale della coalizione democratica. Ne parlavano, descrivendo un'economia che ha la sua base nelle aree urbane e suburbane ribattezzate «ideopolis», John Judis e Ruy Teixeira in un famoso libro di ormai dieci anni fa, The Emerging Democratic Majority. Molte di queste aree sono dentro i famosi stati indecisi: Charlotte, il triangolo della ricerca in North Carolina, i sobborghi della Virginia settentrionale, la regione attorno a Denver, Colorado, Orlando e il sud della Florida. E poi ci sono gli spostamenti interni di popolazione, come quelli dei californiani liberal che hanno scelto di andare a vivere nell'area di Reno, in Nevada, di Albuquerque in New Mexico e in Colorado.
La religione
E infine, per quanto ancora le campagne elettorali si combatteranno su temi sociali come aborto e matrimoni omosessuali, su cui spingono soprattutto i repubblicani, davanti a un elettorato che vede crescere i non credenti (un americano su cinque, uno su tre tra gli under 30)? Un altro gruppo, i non affiliati, che secondo una recente indagine del Pew sono molto liberali sui temi sociali, meno sul ruolo del governo, ma comunque votano a larga maggioranza progressista. E sono quindi un gruppo solidamente democratico almeno quanto gli evangelici bianchi (anche loro il 19% della popolazione) possono essere considerati solidamente repubblicani.
Non è detto, anzi molto probabilmente non è vero che la demografia è destino. La sicurezza nazionale - come è accaduto dopo l'11 settembre, o l'economia come quest'anno - possono risultare più importanti di qualsiasi divisione razziale, di censo e di istruzione. Soprattutto, i partiti possono ridefinire la loro identità. È questa la sfida che attende i repubblicani nei prossimi quattro anni.

il Fatto 7.11.12
La Corte dei Conti francese: “TAV costoso e inutile”
Bocciatura alla vigilia del vertice di Lione
I giudici: “Spese lievitate da 12 a 26 miliardi e previsioni sul traffico merci sballate”
di Stefano Caselli


Torino Costi cresciuti a dismisura difficilmente sostenibili, convenienza economica assai dubbia e processi decisionali oscuri. Se l’ultima parola fosse quella della magistratura contabile francese, il progetto del Tav Torino-Lione sarebbe da tempo un ricordo. Questo almeno è quanto si deduce con sufficiente chiarezza dalle otto pagine indirizzate dalla Court de Comptes al primo ministro francese Jean Marc Ayrault.
Un parere redatto lo scorso 3 agosto pubblicato ieri in cui la Corte dei Conti di Parigi - pur avendo cura di non oltrepassare mai i limiti della propria competenza contabile - smonta la Grande Opera, ricorrendo peraltro ad argomentazioni ben note a chi in Italia segue da tempo la vicenda. Il tutto, peraltro, alla vigilia di un nuovo vertice italo-francese, in programma a Lione il prossimo 3 dicembre.
I GIUDICI definiscono il Tav Torino-Lione “un progetto molto ambizioso” concepito “in un contesto di forte crescita del traffico attraverso i valichi alpini”, ma immediatamente rilevano come “vi sia la sensazione che tutte le soluzioni meno costose siano state scartate senza essere adeguatamente approfondite”.
Particolare attenzione, com’è ovvio che sia, viene riservata al “forte aumento” dei costi preliminari (ossia quelli relativi ad opere come il tunnel esplorativo di Chiomonte in Valle di Su-sa): “Il budget del programma di studi e lavori preliminari - si legge nel parere - è stato inizialmente stimato in 320 milioni di euro, poi 371, quindi 524, 628, fino alle ultime stime fornite dalla conferenza intergovernativa franco-italiana che parlano di 921 milioni di euro”. Una lievitazioni che la Corte imputa alle problematiche caratteristiche geologiche del terreno ma, soprattutto, al blocco dei cantieri e al cambio di tracciato da parte italiana.
QUANTO al costo complessivo dell’opera, la maggiorazione è ancora più evidente: dai 12 miliardi di euro del 2002 ai 26,1 miliardi “secondo le ultime comunicazioni della direzione generale del Tesoro”. Costi elevatissimi che, sempre secondo la Court, non sembrano trovare copertura finanziaria certa: “L’accordo del 30 gennaio 2012 prevede una ripartizione dei costi (per la parte comune del tracciato, ndr) della prima fase di realizzazione per il 42,1% a carico della Francia e per il 57,9% a carico dell’Italia”, ma per il resto regna l’incertezza, soprattutto riguardo al contributo dell’Unione europea successivo alla fase di programmazione e di lavori preliminari (coperta per la metà dall’Ue), su cui non vi è “alcuna certezza”. Quanto alle risorse disponibili in Francia, la Corte indica gli stanziamenti dello Sistema nazionale delle infrastrutture e dei trasporti, ma evidenzia come “la ricerca di copertura finanziaria [sia] ancor più difficile dato l’attuale contesto”.
Le critiche più significative, tuttavia, riguardano l’utilità del progetto e la sua eventuale redditività futura. I giudici contabili francesi ripropongono ciò che in Italia si dice da oltre un decennio, ossia che le previsioni di aumento del traffico merci lungo i valichi alpini (e la conseguente saturazione delle infrastrutture esistenti) sulla base delle quali era stato concepito il progetto Tav (il rapporto Lagarde del 1991 dava per certa la triplicazione dei volumi entro il 2010) si sono rivelate clamorosamente sovrastimate: “Di fatto - si legge nel parere - il traffico merci è in calo dal 1999”, con la sola eccezione del valico di Ventimiglia “che continua a crescere” (e a qualcuno tornerà in mente il progetto alternativo lungo l’asse Torino-Cuneo-Nizza firmato anni fa dall’ingegnere torinese Gabriele Manfredi e mai preso in considerazione).
Sull’utilità economica del Tav in caso di realizzazione, il responso della magistratura contabile francese è impietoso: “Tutti gli studi socioeconomici realizzati sono negativi, quale che sia lo scenario preso in considerazione”. I giudici, quindi, concludono che “la complessità dell’opera rende difficile un parere”, tuttavia raccomandano “di non scartare l’alternativa di migliorare la linea esistente e, qualora il progetto dovesse comunque proseguire, di studiare misure per trasferire il traffico dalla gomma alla rotaia”.
Con buona pace degli onorevoli Stefano Esposito (Pd) e Agostino Ghiglia (Pdl), volati ieri a Parigi per firmare un appello pro Tav assieme ad alcuni senatori francesi, sembra difficile pensare che il parere della Court non influisca almeno un po’ sul vertice del 3 dicembre.

Repubblica 7.11.12
Parigi, vignetta choc contro la Chiesa cattolica
Nuova provocazione di “Charlie Hebdo”: un’immagine blasfema per le posizioni sui gay
di Anais Ginori


PARIGI — Una nuova copertina “blasfema” che farà discutere. Il settimanale satirico
Charlie Hebdo pubblica oggi in prima pagina una vignetta nel quale ironizza sulle gerarchie cattoliche che si oppongono al matrimonio per le coppie gay. Dopo che l'arcivescovo di Parigi André Vingt-Trois ha criticato il progetto di legge che sarà presentato oggi dal governo, Charlie Hebdo titola nel numero in uscita: «Vingt-Trois ha tre papà». Nella vignetta è rappresentato un amplesso tra Dio e Gesù, a sua volta sodomizzato dallo Spirito Santo.
Ancora prima di uscire in edicola, la copertina del giornale francese ha suscitato molte reazioni sui social network, con critiche indignate di alcuni cattolici. Nessun commento ufficiale, invece, da parte dei rappresentanti della Chiesa. Ma in un momento in cui è forte lo scontro sul rispetto della laicità dello Stato la mossa di Charlie Hebdo può diventare benzina sul fuoco. I giornalisti si difendono dagli attacchi rivendicando una tradizione di satira, consolidata nella storia della stampa francese. Le ironie sul Vaticano non sono mai mancate sulle pagine di Charlie Hebdo, anche se negli ultimi anni il giornale ha conquistato una notorietà soprattutto per lo sberleffo contro gli integralisti islamici.
Charlie Hebdo ha affrontato, e vinto, un processo per aver diffuso nel 2006 le controverse vignette su Maometto di disegnatori danesi, poi minacciati di morte. Un anno fa, la redazione parigina del settimanale è stata distrutta da un incendio doloso, alla vigilia della pubblicazione di un numero speciale intitolato “Charia Hebdo”. A settembre l'uscita di nuove vignette sul Profeta. Un numero che ha scatenato reazioni in tutto il mondo, e una timida difesa dal parte del governo socialista.
La copertina che fa ironia sul massimo rappresentante della Chiesa cattolica francese viene presentata come una forma di par condicio. «La libertà d'espressione non è una provocazione » ripete Charb, il direttore. Questa posizione ha suscitato molti dubbi, anche all'interno degli intellettuali di sinistra e strenui difensori della laicità. Al di là del dibattito su un eventuale limite alla satira, per il settimanale si tratta di un ottimo affare. Il numero ha venduto oltre 200mila copie, rispetto alla media di 45mila. Non è detto che il successo in edicola ci sia con la copertina di oggi sull'arcivescovo di Parigi. «I cattolici integralisti - osserva il direttore Charb - non hanno la stessa cassa di risonanza degli islamici integralisti. Con alcune copertine sul Papa, anche molto violente, non abbiamo avuto gli stessi aumenti di diffusione».

Repubblica 7.11.12
“Cristiani i più perseguitati” è bufera sulla Merkel


Ha suscitato forti polemiche la dichiarazione della cancelliera tedesca Angela Merkel: “Il cristianesimo è la religione più perseguitata del mondo” Lo ha detto durante un meeting della Chiesa tedesca protestante, sottolineando che la Germania ha bisogno di proteggere le minoranze cristiane nell’ambito della sua politica estera.

La Stampa 7.11.12
La legge era entrata in vigore nel 2005, votata dal governo socialista di Zapatero
Spagna, Rajoy sconfitto ”Le nozze gay sono legali”
La Corte Costituzionale respinge il ricorso del Pp
di Gian Antonio Orighi


Via libera definitiva ai matrimoni gay. Con una decisione che si è fatta aspettare più di sette anni, il Tribunale Costituzionale ha respinto ieri sera il ricorso presentato dal partito popolare (Pp, centro-destra) del premier Rajoy contro la legge sui matrimoni omosessuali approvata nel luglio 2005 da capo del governo di allora, il socialista e agnostico Zapatero.
Una bruciante sconfitta per i conservatori e per la Chiesa, che ha fatto fuoco e fiamme (persino una manifestazione, con la presenza in piazza di 19 vescovi, prima della luce verde parlamentare) per bloccare una legge di cui hanno usufruito, secondo i dati ufficiali dell’Istat spagnolo, 22.442 famiglie rosa. E una rivincita, postuma per Zapatero, ormai fuori dalla politica.
Il pp, allora all’opposizione (e unico partito di tutto l’arco parlamentare a votare contro, insieme a quattro deputati del centro-destra indipedentista catalano di CiU), sosteneva che la legge sui diritti civili per i gay infrangeva sette articoli della Magna Carta post-franchista del 1978, tra cui quello, il 32º, secondo cui «l’uomo e la donna hanno diritto a contrarre matrimonio con piena uguaglianza giuridica».
«Abbiamo presentato ricorso non tanto per gli effetti giuridici, che non ci importavano, quanto piuttosto per il nome di queste unioni, matrimonio - sottolineava, ieri mattina alla radio, Rajoy -. Adesso studieremo il da farsi».
Per gli undici magistrati del Tribunale Costituzionale, l’ultima istanza che poteva frenare la riforma del codice civile che per Zapatero significava «Costruire un Paese decente che non umilia i suoi membri», la legge zapaterista del 2005 è perfettamente legale. La sentenza non è stata unanime: su undici membri della Alta Corte (sette progressisti, quattro conservatori), i sì sono stati otto, i no solo tre. La decisione è stata presa in appena un’ora.
Ma anche tra i popolari i pareri contro quello che i fondamentalisti cattolici di Hazteoir ribattezzano «gaymonio», non erano univoci. L’attuale ministro alla Giustizia, Gallardón, sosteneva nello scorso febbraio che, secondo lui, le nozze omosessuali non erano affatto incostituzionali. E prima del dicembre scorso, quando era sindaco di Madrid, il Guardasigilli ha celebrato il matrimonio di molti mariti e marite (anche del Pp).
Il verdetto la dice lunga sulla laicità delle Spagna, che da molto tempo non è più la Riserva Spirituale dell’Occidente come durante la cattolicissima dittatura di Franco. I matrimoni dei gay (quattro milioni, quasi un decimo della popolazione, per il governo Zapatero) sono diventati così normali da non finire più neppure nelle brevi dei giornali. E sono approvati, stando ai sondaggi, dalla maggioranza degli spagnoli.
Segno dei tempi, nel giugno scorso le nozze gay sono entrate nel vocabolario ufficiale della Real Academia de la Lengua, la Crusca iberica. Grande festa, dunque, ieri sera tra le famiglie rosa, per le quali è finito l’incubo di perdere il loro status giuridico e i loro diritti civili.

Corriere 7.11.12
Era una spia l'inglese ucciso dalla «Lady Macbeth» cinese
di M. D. C.


PECHINO — L'unica certezza del caso Bo Xilai è che la storia non è chiusa. Non è bastata la condanna a morte, con sospensione della pena, per Gu Kailai, moglie di Bo, l'ex segretario del Partito di Chongqing, giudicata colpevole di aver assassinato l'inglese Neil Heywood il 14 novembre 2011. Non basta neanche la condanna a 15 anni per l'ex capo della polizia di Chongqing, Wang Lijun, già braccio destro di Bo. E neppure l'espulsione di Bo per corruzione e altro da tutte le sue cariche e dal Partito comunista, da domani a congresso. Alle ombre il Wall Street Journal aggiunge un suo tassello. Secondo il quotidiano, Heywood lavorava per l'MI6, i servizi segreti britannici. Il Journal aggiunge che, dopo essere scappato il 6 febbraio al consolato americano di Chengdu, Wang Lijun riferì che Gu Kailai gli avesse confessato: «Ho ucciso una spia».
L'ipotesi che Heywood lo fosse circolava da tempo. La circostanza, se vera, fornirebbe un movente più di sostanza rispetto a quello emerso dai processi a Gu e a Wang: che Heywood, per anni amico di famiglia di Bo, avesse minacciato il figlio della coppia, Guagua. Il ministro William Hague ha assicurato: «Heywood non era un impiegato del governo» inglese.

Repubblica 7.11.12
Il buon giornalismo e la censura cinese
di Moisè Naìm


David Barboza dirige la redazione di Shanghai del New York Times.
Ha appena pubblicato un articolo di straordinaria importanza, che potrebbe addirittura avere conseguenze dirette sulla vostra vita. Barboza ha raccontato la corruzione dei familiari di Wen Jiabao, il primo ministro cinese. In teoria non c’è nulla di nuovo: non passa giorno senza che in qualche parte del mondo scoppi uno scandalo di corruzione che coinvolge politici, uomini di governo e loro complici all’interno del settore privato. E dire che in Cina c’è corruzione è svelare un’ovvietà. Però questo articolo, e questo scandalo, sono diversi.
Come parlare della corruzione? I reportage su scandali di questo tipo di solito suscitano molto clamore, ma in molti casi non sono ben documentati e non approdano a nulla. Le denunce che rimangono prive di conseguenze creano grande frustrazione fra i cittadini e corrompono la lotta contro la corruzione. Ma non è il caso dell’articolo di Barboza, che ha realizzato un’inchiesta giornalistica fra le più documentate e rigorose che abbia mai letto sul tema della corruzione ai massimi livelli del potere. Il giornalista del New York Times si basa su dati confermati da diverse fonti, su prove impossibili da confutare, su complesse analisi finanziarie convalidate da revisori indipendenti incaricati di garantire l’accuratezza dell’articolo, e su un lungo, arduo ed evidentemente costoso lavoro di indagine giornalistica.
È ovvio che un articolo pubblicato all’estero non farà piazza pulita della corruzione in Cina. Ma è altrettanto ovvio che i dirigenti di Pechino, che fino a questo momento si credevano protetti dal sistema politico, ora sanno che ormai l’impunità e l’invisibilità della corruzione non sono più qualcosa di garantito.
Il buon giornalismo vale… e costa. L’eccezionale articolo di Barboza non avrebbe potuto essere scritto da un blogger, o da un’organizzazione giornalistica che si limita ad «aggregare» — vale a dire a riprodurre sulla Rete — i contenuti di altri. I social network, neanche a parlarne. Per fare questo articolo ci sono voluti l’organizzazione, le risorse finanziarie e gli elevati standard professionali del New York Times, tutte cose che hanno un costo elevato. Ma sono questi gli elementi che producono un giornalismo con un valore sociale, e a livello mondiale. Internet e le tendenze che stanno mettendo a rischio la sostenibilità finanziaria dei grandi mezzi di informazione sono per molti versi un fenomeno inarrestabile, ma articoli come quelli del New York Times dimostrano in modo eclatante quanto diventeremmo più poveri, come umanità, se scomparissero le organizzazioni capaci di produrre contenuti oggettivi, indipendenti e di alta qualità.
La Grande Muraglia cinese ormai non protegge più. Nell’antichità, la Grande Muraglia non fu in grado di impedire le periodiche invasioni dei mongoli. E oggi succede lo stesso: neanche la grande cybermuraglia che il governo di Pechino ha eretto per censurare i contenuti che viaggiano su Internet potrà impedire che i cinesi vengano a sapere delle rivelazioni fatte dal New York Times.
Il governo ha bloccato la pagina in inglese e in cinese del giornale americano e ha impedito di accedervi attraverso motori di ricerca come Google e social network come Weibo, l’equivalente cinese di Twitter. Le migliaia di censori al soldo delle autorità sono occupatissimi a monitorare e bloccare la diffusione di queste informazioni. Ma la storia è già riportata da tutti i mezzi di informazione del mondo e gira su Internet, sui social network e sulla bocca di tante persone in Cina. Tecnologie medievali come la censura fanno grande fatica a misurarsi con le tecnologie dell’informazione nell’era della globalizzazione. Sicuramente riusciranno a fare in modo che centinaia di milioni di cinesi non sappiano mai che la famiglia del loro primo ministro ha accumulato una fortuna di 2,7 miliardi di dollari, ma molti milioni di cinesi già lo sanno, e prima, da quelle parti, questo non succedeva.
Le conseguenze per voi. La Cina sta attraversando un periodo difficile: la crescita economica sta rallentando, le proteste di piazza, per rivendicazioni di ogni tipo, si moltiplicano. Domani comincerà il congresso del Partito comunista cinese, guidato dal nuovo leader Xi Jinping, che a marzo sarà nominato presidente. Il trasferimento dei poteri è stato ricco di tensioni e scontri fra fazioni rivali, che hanno visto, fra le altre cose, la defenestrazione di Bo Xilai, uno dei leader più potenti. Le rivelazioni dell’articolo del New York Times alimenteranno ulteriormente questi scontri. Per ora nulla lascia pensare che il cambio al vertice del potere possa influenzare in modo rilevante la stabilità politica della Cina. Ma se dovesse succedere l’economia cinese ne risentirebbe, e questo a sua volta aggraverebbe la crisi europea e penalizzerebbe i tanti Paesi la cui salute economica è legata a quella della seconda economia del pianeta.
Traduzione di Fabio Galimberti

Corriere 7.11.12
Nafisa, morta per «onore»
di Cecilia Zecchinelli


L'Afghanistan dimenticato, o che torna sui media quando l'ennesimo soldato occidentale viene ucciso, quando i nostri governi annunciano nuove strategie per le loro missioni. L'Afghanistan della gente normale, di cui non si parla, soprattutto delle sue donne e bambine, la parte più debole di una società devastata da decenni di guerra e violenza. Ieri il quotidiano locale Khaama ha ricordato che ci sono anche loro: Nafisa, 25 anni è stata ammazzata a colpi di fucile dal fratello a Shindand, nella provincia di Herat dove ha sede tra l'altro il comando italiano. Era scappata di casa, arrivata fino a Jalalabad nel lontano Est del Paese. Ma la polizia l'aveva trovata e arrestata, riconsegnata alla famiglia. Che non l'ha perdonata: l'onore prima di tutto, poco importa se il fratello è poi stato arrestato. Pochi giorni prima una 18enne di un villaggio vicino era morta nello stesso modo. I «crimini d'onore», diffusi e tollerati anche in altri Paesi, in Afghanistan sono ancora la norma. Non se ne parla, ma in silenzio quasi ogni giorno c'è una Nafisa che muore per mano di un uomo della sua famiglia.

La Stampa 7.11.12
Primo Levi: io non perdono
«Quando una violenza, un’offesa è stata commessa, è irreparabile per sempre»
di Jacopo Iacoboni


Al liceo Amaldi di Orbassano il critico Domenico Scarpa risponde alle domande degli studenti con un testo dimenticato dello scrittore scampato ad Auschwitz Primo Levi (Torino 1919 - 1987) in un disegno di Paolo Galetto. In basso internati al lavoro nel sottocampo di Monowitz, a Auschwitz: qui Levi fu detenuto per un anno (registrato con il numero 174.517), fino alla liberazione da parte dell’Armata Rossa il 27 gennaio 1945
No, Primo Levi non li perdonò mai. Ma il punto è: perché un diciottenne di oggi - e dopo aver letto più cose di Levi - si persuade del contrario, che l’autore di Se questo è un uomo abbia alla fine perdonato il boia, concedendo così almeno una Tregua al Male che ci attanaglia?
È mattina, siamo a Orbassano, cintura torinese, liceo scientifico Amaldi. Siamo venuti qui, sullo sfondo le montagne già innevate in una giornata ventosa e col cielo pulito come solo certe giornate piemontesi possono essere, per partecipare a un incontro organizzato, a venticinque anni dalla morte di Levi, dal Salone del Libro in collaborazione col Centro Primo Levi e il liceo, per il quale ha coordinato la cosa la professoressa Paola Albertetti. L’incontro è pensato così: tre classi, settanta ragazzi - uno spaccato imperdibile di mondo che uno non si rassegna a osservare solo scrutando nei trend topics incomprensibili di Twitter ascoltano il critico letterario Domenico Scarpa, a cui hanno preparato una serie di domande davvero interroganti, non banali, e una lettera aperta intitolata «Noi crediamo a Primo Levi», esattamente come la Lezione Primo Levi einaudiana che domani terrà Mario Barenghi. Il punto però, come sempre, è capire cosa crediamo, quando crediamo a Levi.
Così, parlando con Scarpa e i ragazzi mettiamo subito, piatto, il dito nella piaga. Il critico chiede come mai una delle loro domande sia centrata sul presupposto che Levi abbia perdonato i carnefici. Antonio, seduto in prima fila sul lato sinistro, spiega perché l’hanno pensato: «Levi nei racconti usa un tono molto distaccato, non ci fa intendere una condanna inappellabile... ». E la ragazza che è seduta all’altro capo dell’Auditorium, timidamente: «Anche in Se questo è un uomo, Levi non giudica, mai... ». È invece possibile, con Scarpa, argomentare il contrario; nel suo libro più famoso, Levi giudica eccome, almeno tre volte (per esempio nel «Se io fossi Dio sputerei a terra la preghiera di Kuhn», il personaggio che ringrazia l’Onnipotente perché è stato prescelto per la camera a gas il suo vicino, e non lui; nell’invettiva contro «l’innocente bruto» Alex e il suo gesto di scrollarsi la spalla alla fine dell’esame di chimica; o ancora nel verso «meditate se questo è un uomo, o vi si sfaccia la casa»). Ma ora riappare dagli archivi anche una chicca decisiva, una delle duecento pagine di testi ritrovati che verranno inseriti nella nuova edizione, dopo quella del ’97, degli scritti di Levi (curata da Marco Belpoliti, in collaborazione con il Centro Levi, uscirà per l’editore Einaudi).
C’è un libro del 1970 di Simon Wiesenthal, Il girasole (pubblicato da Garzanti e oggi introvabile), in cui il grande cacciatore di nazisti racconta un episodio che farà da diapason alla sua esistenza successiva. Leopoli, 1942, Wiesenthal si trova a raccogliere, nel campo di concentramento, la richiesta di un giovane SS in punto di morte: «Perdonami, ti prego». «Voleva morire in pace», scriverà Wiesenthal, che però gli nega il perdono. L’episodio lo tormenterà per tutta la vita. Quasi trent’anni dopo interroga artisti, scrittori, intellettuali ebrei chiedendo loro: voi cosa avreste fatto? Uno di loro è Levi, che risponde alla Levi, cesellando le parole, distaccato e chirurgico: «Quando una violenza, un’offesa è stata commessa, è irreparabile per sempre; può accadere che l’opinione pubblica richieda una sanzione, una punizione, un “prezzo” del dolore; può anche darsi che questo prezzo sia utile, in quanto indennizza, o scoraggia una nuova offesa, ma l’offesa prima resta, e il prezzo (anche se è “giusto”) è pur sempre un’offesa a sua volta, ed una nuova sorgente di dolore». Davanti a questa complicazione inaspettata del tema, vedi che i ragazzi di queste classi ormai magnificamente multietniche sospirano, pensano che, appunto, Levi stia per dire: ecco, sì, è inutile far pagare un prezzo, niente potrebbe ripagare il dolore.
Invece Levi scrive a Wiesenthal: «Premesso questo, credo di poter affermare che, in quella situazione, lei ha avuto ragione nel rifiutare al morente il suo perdono. Ha avuto ragione perché era il male minore: lei non avrebbe potuto perdonargli se non mentendo, o infliggendo a lei stesso una terribile violenza morale. È chiaro, tuttavia, che il suo rifiuto non risolve tutto, e si capisce abbastanza bene che lei abbia conservato dei dubbi: in casi come questo, il sì e il no non si possono separare con un taglio netto, e qualcosa resta sempre dall’altra parte». Qualcosa, come i convincimenti dei diciottenni, resta dall’altra parte. Levi scrive freddo perché opera, sul dolore e il male, qualcosa di simmetrico all’esperimento distaccato dei nazisti sull’uomo, quella che Scarpa non esita a definire «una rappresaglia della parola». Quando il suo capolavoro verrà infine tradotto, nel ’70, in Germania, lo scrittore osserverà che quel testo, che prima era solo «un’arma puntata» contro quel popolo, ora era anche «un’arma carica».
Qualcosa però, attenzione, resta dall’altra parte anche in Levi. Nonostante ne I sommersi e i salvati il nonperdono giunga a vette radicali, che però non attribuiscono alla Shoah il carattere di irripetibilità. «Non ho tendenza a perdonare, né a loro [i nazisti], né ai loro imitatori successivi, in Algeria, Vietnam, Unione Sovietica, Cile, Cambogia, Sudafrica». Il male, il paradosso è questo, è a un tempo sovrastorico eppure politico. Levi racconta Scarpa agli studenti - rispondeva a Jean Améry, il filosofo ebreo che scrisse Intellettuale a Auschwitz (Bollati Boringhieri), morto anche lui suicida dieci anni prima del grande torinese, che l’aveva chiamato «il perdonatore». I ragazzi ascoltano, stavolta muti. Hanno scritto «noi crediamo a Levi», ma in questo preciso istante ognuno di loro è un piccolo «io» gettato e solo, «solo come un ebreo», scrive Vladimir Jankélévitch ( Perdonare?, Giuntina). Si è partiti da una falsa idea buonista, ne usciamo con la Bibbia ribaltata di Levi, e Jankélévitch, «non perdonare loro, perché sanno quello che fanno».

La Stampa 7.11.12
Parigi, a Yehoshua il premio Médicis


Lo scrittore e drammaturgo israeliano Avraham B. Yehoshua (foto) si è aggiudicato a Parigi il Prix Médicis per il romanzo straniero con Retrospective (Grasset), un’opera malinconica sui misteri della creazione artistica. Nato a Gerusalemme nel 1936 in una famiglia d’origine sefardita, Yehoshua vive oggi a Haifa nella cui università insegna Letteratura comparata e Letteratura ebraica. Il Prix Médicis 2012 è stato attribuito a Emmanuelle Pireyre per Féerie generale (Editions de l’Olivier), il premio per la saggistica a David Van Reybrouck con Congo, une histoire (Actes Sud).

La Stampa TuttoScienze 7.11.12
Quando un’amigdala era meglio di pc e iPad
Com’è nato l’homo technologicus?
Un’avventura che inizia prima di megaliti e piramidi
di Gabriele Beccaria


Dalle pietre scolpite alla macchina a vapore: un lungo filo rosso di intelligenza e creatività
Prima dei megaliti di Stonehenge, degli zigurrat di Ur e delle piramidi di Giza l’«homo technologicus» era già al lavoro da tempi immemorabili.
Scolpiva amigdale, inventava punteruoli e asce, scopriva le forze del moto, mentre imparava a cacciare, a coltivare le piante, ad addomesticare gli animali. Aveva cominciato a lavorare elementi come pietra, ossa e legno e si avventurava nel mondo della metallurgia.

E’ con il racconto delle nostre origini di inventori che si apre la monumentale «Storia della Tecnologia» di Singer, Holmyard, Hall e Williams: un classico, che ritorna in una nuova edizione, con il primo volume che dalla preistoria si allarga al 500 a. C., con «la caduta degli antichi imperi». Professor Gian Arturo Ferra­ ri, lei ha curato l’opera per Bollati Boringhieri: perché così tanta attenzione per le tecniche degli albori, tra scalpelli e punteruoli, se poi ci si ferma alla metà del XX secolo, ignorando l’era del silicio e della virtualità? «E’ fondamentale ricordare che i quattro curatori e gli studiosi che scrissero gli articoli dei sette volumi erano per lo più anglosassoni, influenzati per un verso dall’antropologia britannica, e coloniale, dell’Otto-Novecento, e per l’altro dal legittimo orgoglio di essere stati la culla della rivoluzione industriale». Quindi la soglia del 1950 fu aggiunta solo in un secondo tempo. «Sì. I curatori erano convinti che il passato è una realtà di continua acquisizione di conoscenze e, perciò, se la fase iniziale della tecnologia si colloca all’inizio della storia universale, il punto d’arrivo non può che essere il trionfo della prima e della seconda rivoluzione industriale, Proseguire avrebbe significato affrontare una sfida senza soluzione, un vero e proprio incubo».
Perché un incubo? «Pensiamo all’impianto dell’opera. Poteva reggere fino al momento in cui la tecnica è ancora la traduzione concreta della scienza e il progresso scientifico e i successi tecnologici corrono su linee convergenti, ma ben distinte. Poi, nel XX secolo, tutto cambia: la tecnologia diventa ricerca applicata e la scienza, compresa quella più teoretica, si incarna in mostruosi apparati tecnologici. Basta pensare agli acceleratori di particelle e al bosone di Higgs. Raccontare la tecnologia della seconda metà del 900 è così difficile che finora nessuno l’ha fatto. Siamo in attesa che qualcuno ci provi». Torniamo al passato: è nata prima la tecnica o la scienza? «Secondo gli autori, si tratta di evoluzioni parallele, che rispondono a un quesito conoscitivo: sapere come stanno le cose. Di conseguenza gli strumenti scientifici sono il prototipo di quelli tecnici. Questo è evidente proprio nel primo volume dedicato a preistoria e storia preclassica». Ma quanto conta la «scintilla creativa»? «Molto. Agli autori interessa scoprire e analizzare il momento in cui un oggetto o una tecnica è stato realizzato per la prima volta: scintilla creativa e scintilla conoscitiva coincidono. Quella che fa capire, appunto, come stanno le cose e che permette di “fare”, dall’osservazione dei moti delle stelle all’ideazione del moto rotatorio per costruire vasi». E’ una forma di pensiero in­ credibilmente «lungo», che regge millenni. «Sì. E infatti nei primi due volumi ci si concentra tanto sulle tecniche più “basiche” e primitive, come quelle per realizzare i trapani o accendere il fuoco, quanto sugli strumenti più sofisticati del mondo greco-romano, come il famoso orologio astronomico di Antikitera». Ma come nasce un’idea? Dal genio individuale a da una condizione storica? «I curatori avevano in testa il mondo industriale classico. Considerano le invenzioni come il risultato di una collettività, tranne che in casi più rari, in cui è protagonista il singolo. Un esempio è la macchina a vapore, che ha un nome e un cognome, James Watt. E’ interessante che lui la brevettò più volte e che tra i detentori del brevetto ci fosse il nonno di Charles Darwin, Erasmus: ecco un caso in cui storia della tecnica e storia della scienza tornano a intrecciarsi».

Gian Arturo Ferrari Storico : EX PROFESSORE DI STORIA DELLA SCIENZA ALL’UNIVERSITÀ DI PAVIA, È PRESIDENTE DEL CENTRO PER IL LIBRO E LA PROMOZIONE DELLA LETTURA IL LIBRO : «STORIA DELLA TECNOLOGIA» ­ BOLLATI BORINGHIERI"

La Stampa TuttoScienze 7.11.12
È nascosto nel Dna il libro di storia più grande di sempre
Adesso è facile scoprire le proprie origini
di Spencer Wells
, Cornell University

La genetica sta rivoluzionando lo studio della biologia umana. Nel prossimo secolo la comprensione delle nostre origini, della longevità e delle malattie sarà trasformata. E se c’è un enorme interesse per questa nuova strada, il Genoma ci permette anche di scrutare nel passato. Poiché abbiamo ereditato i geni dai genitori e loro dai nonni, il nostro Dna contiene quello che è un «libro di storia», che svela aspetti inediti del passato più remoto.
Immaginate di prendere un aereo al centro del globo cartesiano, a 0° di longitudine e 0° di latitudine, a circa 1000 km a Ovest di Libreville, nel Gabon, nell’Africa centro-occidentale. Se volassimo verso Est e ci regalassimo il trucco fantascientifico di esplorare il terreno, punto per punto, dal nostro privilegiato punto di osservazione, avremo un significativo campione della varietà umana.
I primi che incontreremmo sono i centroafricani, che parlano lingue bantu. Più a Est vedremmo ancora individui di pelle scura, ma con un aspetto leggermente diverso. Sono i popoli nilotici dell’Africa orientale, slanciati e di alta statura. Vivono nella savane e dipendono quasi completamente dal bestiame. Sparsi tra questi gruppi, ci sono individui che parlano un’altra lingua, gli Hadza.
Proseguendo l’odissea verso Est, incontriamo un’enorme massa di acqua prima di raggiungere un arcipelago noto come Maldive. Qui la gente appare ancora diversa. Se la pelle è piuttosto scura, i volti sono differenti, dalla forma del naso al tipo di capelli. Troviamo poi una grande isola. Abbiamo raggiunto Sumatra e incontriamo un altro tipo umano - un po’ più piccolo - con altre sembianze. E, continuando, ecco i melanesiani. Sono per molti aspetti dissimili dagli africani e quindi la loro pelle scura è una caratteristica che si è evoluta in questa regione? O indica un legame con l’Africa?
Continuando il viaggio incontriamo i polinesiani, che vivono in piccoli atolli. Sembrano simili a chi popola Sumatra, ma sono allo stesso tempo differenti. Il grande interrogativo è: perché siano arrivati in luoghi tanto remoti? E come ci sono arrivati?
A questo punto ci si imbatte nella costa dell’Ecuador, in Sud America. Nella capitale, Quito, c’è uno strano miscuglio di persone. Sembra che ci siano due tipi principali: quelli che per certi aspetti assomigliano ai popoli delle Maldive, ma con la pelle più chiara, e quelli per molti versi simili ai nativi di Sumatra e della Polinesia. È strano trovare «campioni» così diversi di umanità nello stesso luogo. Le altre località che abbiamo visitato, infatti, tendevano a essere più omogenee. Perché l’Ecuador è diverso? Un mix eterogeneo si trova più a Est del continente: qui, sulla costa nord-orientale del Brasile, incontriamo di nuovo degli africani, ma molto lontano dall’Africa! E così, nel lungo viaggio di ritorno verso il nostro punto di partenza, ci interroghiamo sugli intrecci che abbiamo appena visto e cerchiamo di formulare una spiegazione.
Il nostro breve giro del mondo, infatti, era un esperimento mentale, con cui immaginare ciò che devono avere incontrato gli esploratori europei, centinaia di anni fa, durante i primi «viaggi di scoperta». Ostentando un po’ di ignoranza, possiamo porre domande semplici che oggi ci sembrano banali. Ma l’aspetto interessante è che, fino a poco tempo fa, tranne che per gli africani e gli europei incontrati in Sud America, non c’era alcuna spiegazione per le realtà che abbiamo visto.
Spiegare i modelli globali della diversità umana è l’obiettivo del «Progetto Genographic», l’iniziativa internazionale sostenuta dalla National Geographic Society. Utilizzando gli strumenti d’avanguardia della genetica molecolare, stiamo decifrando la storia codificata nel Dna. Il progetto, da poco rilanciato, invita tutti a partecipare: sul sito www.genographic.com si può saperne di più e poi, acquistando un kit «Geno 2.0», si scoprono i dettagli delle proprie origini. Insieme, possiamo ricostruire la vostra storia - la nostra storia - la storia umana.

Spencer Wells Genetista: È PROFESSORE DI GENETICA UMANA ALLA CORNELL UNIVERSITY (USA) E DIRETTORE DEL «GENOGRAPHIC PROJECT»
IL SITO : HTTPS://GENOGRAPHIC. NATIONALGEOGRAPHIC.COM/"

l’Unità 7.11.12
Elettroshock la scossa violenta che ancora resiste
La pratica usata in 90 strutture: è ora di abolirla
In Italia 90 strutture sanitarie lo praticano ancora:
per alcuni è una brutalità ottocentesca per niente scientifica, per altri salva la vita
di Gioia Salvatori


In quel manicomio esistevano gli orrori degli elettroshock. «Ogni tanto ci assiepavano dentro una stanza e ci facevano quelle orribili fatture. Io le chiamavo fatture perché non servivano che ad abbrutire il nostro spirito e le nostre menti». Non tutti sono in grado di raccontarlo come Alda Merini, ma sono centinaia le persone che vivono vite in lotta contro depressione, manie, schizofrenie. La malattia mentale riempie il tempo e lo spazio di case e anime, quelle dei malati, quelle dei loro congiunti. Per chi ne sta fuori spesso è ancora un male scandaloso, di quelli di cui è sconveniente parlare, quelli per cui è meglio non chiedere «come sta». Anche l’elettroshock è un argomento tabù e non tutti sanno che in decine di ospedali pubblici e privati del nostro Paese, viene praticata legalmente, ogni giorno, la T.e.c., la terapia elettroconvulsivante volgarmente detta elettroshock. Non sono solo spettri di poeti a poter raccontare quella scossa, ma anche la casalinga pescarese, il dirigente scolastico sardo, la ragazza triestina, il quarantacinquenne sudtirolese e il suo conterraneo che ora lavora in un’associazione per il sostegno ai malati di mente.
1.400 TRATTAMENTI NEGLI ULTIMI TRE ANNI
La T.e.c. non è una pratica scomparsa con la riforma Basaglia, con l’apertura delle porte dei reparti psichiatrici e con la chiusura dei manicomi. Tra il 2008 e il 2010 in Italia sono stati fatti 1400 elettroshock in novanta strutture sanitarie pubbliche e private tutte elencate in una tabella del ministero della salute. In genere i pazienti si sottopongono alla terapia per cicli, col ricovero e un’anestesia di cinque minuti che consente a una leggera scossa di due/otto secondi di attraversare il cervello. I picchi della pratica si rilevano nei reparti guidati da “elettroshockisti” convinti: medici che hanno anche una associazione, l’Aitec, e che hanno chiesto ufficialmente a ministri della sanità, in anni recenti, di incrementare i mezzi utili a diffondere la T.e.c. Una terapia «salvavita nei casi gravi di catatonia maligna e guaritrice nel 50 per cento dei casi di depressione maggiore», dice il primario del reparto psichiatrico dell’ospedale di Brunico, Roger Pycha. Una «terapia ascientifica, ottocentesca e abbrutente, che spegne le persone senza curarle», dice il segretario di Psichiatria democratica Emilio Lupo. Gli fa eco il collega basagliano Ernesto Venturini «Negli anni 50 e 60 praticai la T.e.c. con convinzione, da assistente universitario, poi vidi cosa accadeva ai malati che venivano curati con assistenza 24 ore su 24 a Gorizia da Basaglia e capì che l’elettroshock non solo è un trattamento umiliante ma che i miglioramenti sono solo legati alla perdita temporanea della memoria: ci si dimentica dell’elemento ossessivo salvo poi avere peggiori ricadute legate anche alla distruzione dell’autostima».
Ma la vexata questio è la scientificità della terapia elettroconvulsionante. L’elettroshock è una pratica empirica non scientificamente provata, dicono i detrattori, tesi che i fautori negano dicendo che all’estero c’è fior di letteratura sulla T.e.c.. L’argomento infervora: Psichiatria democratica ha pronta una campagna contro: «No elettroshock» è lo slogan, con la vignetta di Staino, il sostegno di altre cinque associazioni tra cui Libera e Cittadinanzattiva e di alcuni parlamentari. Obiettivo? Arrivare al divieto di elettroshock in Italia, uno dei paesi d’occidente dove, comunque, è meno diffuso: la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, la Danimarca hanno numeri superiori.
A maggio anche la commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema sanitario nazionale presieduta dal senatore Ignazio Marino si è occupata di T.e.c., tra l’altro con una ispezione all’ospedale di Brunico e una audizione del ministro della salute Balduzzi. Nei verbali dell’ispezione a Brunico si legge di un reparto psichiatrico con le porte chiuse a chiave in buone condizioni ma con dentro un paziente che chiedeva l’elettroshock perché gli dava ‘gioia’, come egli stesso ha riferito ai parlamentari, aggiungendo che non gli era stata proposta terapia farmacologica prima del trattamento elettrico (fattibile, ex lege, solo se cicli di farmaci sono stati inefficaci). Non si deve immaginare l’elettroshock come un trattamento disumano, una tortura per poveri pazzi, fa capire il senatore Marino, ma, considerando la delicatezza della materia «bisogna vigilare affinché i protocolli vengano rispettati». Non solo: i parlamentari a lavoro sul tema hanno anche incontrato un uomo che, pur avendo problemi psichici gravi tanto da aver subito T.e.c., aveva un fucile e con esso cacciava. Un caso che ha colpito tutti e che è finito nei verbali di una delle sedute della commissione d’inchiesta sul sistema sanitario dedicate all’elettroshock. Lo stesso mese è stato audito il ministro della salute Balduzzi che ha fornito i dati sulla terapia elettroconvulsionante in Italia e ricordato quali sono i confini entro i quali può essere praticata.
IL PARADOSSO TOSCANO
Ma quali sono le regole? Le linee guida sono state dettate dal ministero della sanità ai tempi di Rosy Bindi e dicono che l’elettroshock può essere somministrato solo dopo che per più volte sia stata tentata la via farmacologica e previo esame del soggetto da curare da parte di un terzetto di esperti esterni alla struttura psichiatrica in cui si affaccia il paziente per la T.e.c. Le stesse linee guida del 1999 rilevano che è tutta da dimostrare la superiorità della T.e.c. rispetto ad alcune cure farmacologiche e che frequenti sono i rischi di ricadute. Proprio per questo si incrementano i controlli e si richiedono consensi informati, affinché la T.e.c. sia l’ultima spiaggia dopo i farmaci e solo in casi di gravi pazienti (depressione maggiore, ipertermia maligna, sindrome maligna da neurolettici).Alcune regioni (Toscana, Piemonte, Marche) hanno provato a vietare l’elettroshock ma hanno incontrato la bocciatura della Corte Costituzionale poiché il divieto di una terapia medica non rientra nei poteri di un ente locale, nonostante la riforma del 2001. Capita così che la Toscana, il cui consiglio regionale si era schierato con una legge all’unanimità contro la T. e.c., sia oggi una delle regioni in cui è praticata con numeri record all’ospedale di Pisa che, insieme a Brunico e Oristano, e uno dei poli pubblici di questa terapia.

l’Unità 7.11.12
Si praticava al mattatoio sui maiali
di G.S.


ROMA L’elettroshock è nato all’Università di Roma nel 1938, per mano del dottor Ugo Cerletti. La prima persona ad esservi sottoposta fu un uomo che, fermato dalle forze dell’ordine alla stazione Termini: si agitava troppo per una crisi psicotica acuta. Così su di lui venne sperimentata la tecnica di impulsi elettrici in testa, fino ad allora si usava al mattatoio di Testaccio per addolcire i maiali furenti, quando sentivano imminente il massacro.
Erano gli anni bui della dittatura, i Trenta e i Quaranta, quelli in cui della T.e.c., a detta degli stessi fautori, in Italia si abusò. I pazienti vi venivano sottoposti numerosi e senza anestesia. «Era la psichiatria biologica oggettivante spiega lo psichiatra basagliano triestino Peppe Dell’Acqua la stessa delle contenzioni e della lobotomia. Pratiche a cui in America furono sottoposti anche pazienti eccellenti come Rosemary Kennedy, sorella di John, lobotomizzata a 23 anni perché troppo vivace». Poi arrivò Franco Basaglia che ai pazienti psichiatrici negli anni 60 e 70 diede libertà e tolse le divise, inserendoli in una serie di relazioni, opportunità e cure che duravano l’intera giornata, secondo una concezione esistenzialista e fenomenologica della malattia mentale. Concezione per cui il malato, l’uomo, non può corrispondere a una serie di sintomi. Così la T.e.c. finì il suo momento di gloria, salvo restare molto praticata, ancora oggi, nei reparti psichiatrici guidati da fautori di questa tecnica. Nella tabella del ministero della salute che elenca i ‘dimessi’ dopo T.e.c., spiccano i numeri dell’azienda ospedaliera di Montichiari con 421 elettroshock fatti nel triennio 2008-2010; i dati del policlinico universitario di Pisa con 163 T.e.c. nel triennio e le 195 del polo ospedaliero San Martino di Oristano. Poi ci sono l’ospedale di Brunico con 102 trattamenti e la casa di cura privata di Verona ‘Villa Santa Chiara’ con 254 in un triennio in cui in tutta Italia ne sono state praticate 1400.
Alla terapia tutti vengono sottoposti. Dai dipartimenti di salute mentale raccontano che tra i pazienti ci sono molte donne, malati per cui i congiunti non sanno più che pesci prendere e che si rivolgono a cliniche private alla ricerca di un beneficio considerato subitaneo e facile, ’insospettabili’ uomini di mezza età e anziani. Proprio contro l’applicazione della terapia agli ultra-settantacinquenni si schiera con più forza il segretario di Psichiatria democratica Emilio Lupo, sottolineando tra l’altro i rischi di morte legati all’anestesia oltre che il non senso di un intervento tardivo su un malato cronico.