giovedì 8 novembre 2012

l’Unità 8.11.12
Bersani: «Adesso tocca a noi»
Il leader Pd: «Vince l’America dell’inclusione e della libertà, battuti populismo e fondamentalisti del mercato»

«Con Obama vince l’America dell’inclusione e delle libertà. Questo risultato è uno sprone per i partiti democratici e progressisti europei. Ora tocca a noi fare la nostra parte per vincere e contribuire ad un’uscita dalla crisi nel segno dell’equità». Così Pier Luigi Bersani che considera il voto americano un’ottima notizia anche per l’Europa: «In Obama avremo un interlocutore molto interessato a che l’Europa cresca e esca da una politica di austerità. In più voglio anche ricordare dice il segretario Pd che Obama ha vinto con un particolare linguaggio: cioè con il coraggio della verità». Tema a cui Bersani tiene molto, non a caso è uno dei leit motiv della sua campagna elettorale, quel «linguaggio di verità» con cui bisogna parlare agli italiani per archiviare definitivamente l’era delle promesse mai mantenute e dei miracoli mai avvenuti.
«Obama dice Bersani non ha concesso niente ad affermazioni di tipo populista che vanno di moda negli Stati Uniti e si è concentrato sui temi del lavoro, anche in polemica con il predominio della finanza che invece veniva meglio interpretato dall’altro contendente, e quindi è una bella vittoria». Matteo Renzi prima parla su Facebook: «Il discorso di Obama stanotte ha regalato speranza, emozione e coraggio come a Boston nel 2004 o nella campagna per le primarie del 2008. Che spettacolo! Buongiorno America...». Il governatore pugliese Nichi Vendola, altro competitor ai gazebo, sceglie un social network, quello fondato da Mark Zuckerberg. Scrive: «Four more years (per altri quattro anni). Obama ce l’ha fatta. Buongiorno a tutti».

l’Unità 8.11.12
D’Alema: sconfitte le forze che volevano il ritorno al liberismo estremo

L’elezione di Obama è il frutto di una «battaglia fortemente ideologica» in cui ha vinto «un blocco di forze che non voleva il ritorno della destra, del liberismo estremo, dell’egoismo, della deregulation finanziaria, di quelle che erano state le idee portanti della destra e che sono state all’origine della crisi». Così Massimo D’Alema commenta il voto americano, sottolineando in particolare il peso che nella competizione elettorale appena conclusa ha avuto la «caratterizzazione forte e marcata» dei due candidati. «Credo che abbia prevalso l’idea che la ricetta della destra ha detto l’ex premier intervistato al Tg3 dei conservatori,
non solo non era una risposta alla crisi ma avrebbe riproposto le politiche all’origine della crisi. È stata ha sostenuto una battaglia fortemente ideologica».
Al Tg1 il commento di Mario Monti: «Ho inviato a Obama un messaggio di rallegramenti per questo grande successo, combattuto, conclusosi in quello spirito di unità nazionale che caratterizza l’America». Secondo Monti, Obama è «un presidente che sa usare lo strumento del mercato e gli strumenti dello stato: è importante per noi», è un «presidente attentissimo alle esigenze Usa ma che capisce l’Europa con cui è bello lavorare».

La Stampa 8.11.12
Bersani, via ai sondaggi per fare una nuova Unione
Incontri per creare due raggruppamenti, uno alla De Magistris a sinistra, uno al centro
di Fabio Martini


Guai a chiamarla «Nuova Unione». Al Pd, da anni ormai, rifiutano qualsiasi allusione a quella eterogenea coalizione, l’Unione, che dopo esser stata portata al governo da Romano Prodi nella primavera del 2006, diciotto mesi più tardi cadde per effetto di litigi intestini e trasformismi. Eppure, da qualche giorno il vertice del Pd ha avviato - con discrezione - contatti per rimettere le «ali» al partito, favorire cioè l’aggregazione di due nuovi contenitori, uno a sinistra e uno a destra del partito di Bersani. Da una parte, un listone arancione, giustizialista, aperto a personalità comuniste, guidato dal sindaco di Napoli Luigi De Magistris; e una lista moderata, che abbia come portabandiera Bruno Tabacci e qualche ministro del governo Monti. La mission? Le due liste dovrebbero consentire ad una coalizione incardinata sul partito di Bersani e sulla Sel di Nichi Vendola di provare ad avvicinare quella quota 40% che oggi appare un miraggio.
I segnali che vanno verso la «nuova Unione» si stanno moltiplicando. Nei giorni scorsi sono stati avvistati nella sede nazionale del Pd di Santa Andrea delle Fratte due cari vecchi compagni Oliviero Diliberto (segretario del Pdci) e Cesare Salvi (che lasciò i Ds per non confluire nel Pd) e qualcuno assicura di aver intravisto anche la sagoma di Marco Rizzo, ex deputato Prc e Pdci, anche se nessuno è in grado di giurare che sia salito ai «piani alti». Secondo segnale: due giorni fa si è incontrato con Pier Luigi Bersani Massimo Donadi, il presidente dei deputati dell’Idv entrato in collisione con Di Pietro. Terzo segnale: in un editoriale del direttore dell’Unità Claudio Sardo pubblicato domenica scorsa è stata fornita la cornice concettuale all’operazione: «Dopo le Primarie il Pd» chiederà un’alleanza al «Centro costituzionale», «disposto a collaborare col centrosinistra», ma anche «alle forze minori della sinistra» interessate alla sfida del governo, come dimostrano le «rotture che si stanno consumando nella Federazione della sinistra e nell’Idv». Unico paletto, la riproposizione di «sigle e siglette, vecchie o riverniciate». Come dire: bene Diliberto che qualche giorno fa ha rotto con Rifondazione, ma per rientrare nell’alleanza non pensi di portare «dentro» la sigla del suo partito.
Certo, l’ideale per Bersani resta un accordo pre-elettorale con l’Udc. Al momento si tratta di una ipotesi lontana, ma dopo la vittoria in Sicilia sta affiorando una novità: i dirigenti Udc di Lazio e Lombardia (dove si voterà prima delle Politiche) spingono per cominciare a farla lì l’intesa col Pd. Intanto gli uomini di Bersani stanno tastando il terreno per provare a far lievitare l’asse progressistimoderati, favorendo la nascita di due aree. A sinistra, dando per irreversibile la rottura tra Pd e Di Pietro, il personaggio più ambizioso è il sindaco di Napoli De Magistris che da tempo si è inteso con Bersani, per restare nell’ambito del centrosinistra e che ora dice: «Comincia a costruirsi un’alleanza tra i non allineati del sistema». Arriverà anche Donadi dall’Idv? Superare il quorum non sarà semplice. Anche se dovessero confluire, come singoli personaggi di area comunista. Ieri, un gruppo di personalità del vecchio Pci romano (Valentini, Mele) in rottura col Prc hanno diffuso un manifesto pro Zingaretti nel Lazio. Cantiere aperto anche sul versante moderato, dove si è già collocato Bruno Tabacci, in corsa per le primarie del centrosinistra, e dove potrebbero collocarsi alcuni ministri del governo Monti che non se la «sentissero» di entrare nel listone del Pd.

«Sono in troppi a volere che il Pd non vinca...»
Corriere 8.11.12
Bersani teme «giochini» Ma i suoi insistono: un'intesa è possibile
di Monica Guerzoni


ROMA — «Un accordo si troverà, perché il primo a volerlo è proprio Casini...». Enrico Letta dà voce a quell'area dialogante che, di ora in ora, si va rafforzando al vertice del Pd. Quando si appella ai partiti perché non facciano «harakiri» il vicesegretario parla soprattutto al suo, che rischia di arroccarsi nella partita più delicata della legislatura. Sì, perché mentre Bersani minaccia barricate in Aula, cresce il fronte di quanti gli rimproverano «l'immobilismo» delle scorse settimane: una linea che ha portato i democratici ad allontanarsi dall'alleato naturale, «regalando» Casini agli avversari.
Bersani si è stufato dei «giochini» di Palazzo e ha allertato i suoi perché si preparino a fare «opposizione netta», contro una legge che ritiene un'autostrada per il Monti bis: «Cosa succede se vanno avanti a colpi di maggioranza? Semplice, sarà scontro frontale. Andiamo in Aula e vediamo chi vince». Il segretario ha ben chiaro che una larga maggioranza trasversale lavora per sbarrargli il portone di Palazzo Chigi e, per quanto privo di alleati in Parlamento, si prepara alla guerra. La sfida al Senato è data per persa, ma alla Camera Bersani non dispera di portare i partiti a più miti consigli, anche minacciando i centristi con l'idea di una lista civica moderata. «L'antico vizio delle riforme a maggioranza produce o la rissa o il pantano», avverte Follini. Ma se Migliavacca si dice pronto a una «opposizione netta» e Bressa prevede che «alla Camera sarà un Vietnam», i capicorrente non sono disposti a rischiare l'assalto. «Il Porcellum va cambiato — apre Fioroni —. Bisogna garantire a chi vince la possibilità di governare e restituire agli elettori il diritto di scelta».
A taccuini chiusi diversi dirigenti, ex popolari, veltroniani e pure bersaniani, sostengono che un centrosinistra determinato a governare pur essendo minoranza sarebbe «un regalo a Grillo». E che se saltasse fuori un «premietto» all'8 per cento, Bersani non potrebbe rifiutare. D'altronde, come spiega «con il cuore sanguinante» un parlamentare stimato come Pierluigi Castagnetti, «non c'è solo la governabilità, c'è anche la democraticità e il 40 per cento bisogna prenderlo nelle urne!». E poi ci sono i deputati vicini a Rosy Bindi, che a Bersani rimproverano di aver «trascurato troppo a lungo la legge elettorale». Matteo Renzi ha offerto una sponda al leader quando ha scritto su Twitter che la modifica proposta «è quasi peggio» del Porcellum. Eppure Enrico Morando, veltroniano schierato col sindaco di Firenze, è severissimo nell'elencare tutti i «no» del Pd, dal sistema francese a quello spagnolo: «Abbiamo costruito da soli il nostro male. Se stai fermo, rischi di pagare un prezzo elevato». Ora è tardi e a Bersani non resta che alzare i toni, per uscire dal cul-de-sac e non passare per colui che ha tergiversato col segreto scopo di tenersi il Porcellum. O, per dirla con Casini e Rutelli, per uno che aspira a «prendere il 55% dei seggi con il 30% dei voti». Offesa che Bersani respinge con forza: «Non possiamo consegnare il Paese alla prospettiva di non avere un azionista di riferimento che organizzi il governo». Lo strappo del leader centrista lo ha deluso e sorpreso e Bersani con i suoi ragiona così: «Pier si accorgerà che schiacciarsi sul Pdl non gli conviene. Vuole la grande coalizione? Si assuma la responsabilità di portarci nella palude».
Vista la tenaglia che lo stringe il segretario si è imposto l'obiettivo minimo di «dare le carte» se e quando si tratterà di formare un esecutivo «politico-tecnico». Il problema è che persino dentro il Pd c'è chi non vuole lui e Vendola azionisti di riferimento e la reazione orgogliosa con cui il partito respinge il «golpe» non basta a mascherare gli umori della maggioranza. E così, in gelo con Casini e a disagio con Napolitano, che anche ieri gli ha comunicato la «preoccupazione» e l'urgenza, il segretario si trova in bilico fra trattativa e rottura. Letta spinge per il negoziato e media con Casini, ma Bersani si tiene aperta l'uscita di sicurezza della battaglia finale alla Camera, con la speranza che la legge vada a infrangersi sulle preferenze. Un'ipotesi su cui Stefano Ceccanti non scommette un euro: «Sono in troppi a volere che il Pd non vinca...».

il Fatto 8.11.12
Legge elettorale, democratici in trappola
L’accordo proposto dal Pdl è di ridurre la soglia per il premio d maggioranza e una “consolazione” del 5% al primo partito
di Caterina Perniconi


I senatori ci sono andati lo stesso in Commissione Affari costituzionali ieri sera alle 20.30. Non sapevano che nel frattempo alla Camera fossero ripresi i contatti tra Denis Verdini e Maurizio Migliavacca sulla legge elettorale. “Poi è spuntato il presidente Vizzini – raccontano – e ci ha mandati tutti a cena perché tanto il nostro lavoro lì non serviva”.
LA TRAPPOLA per il Partito democratico è stata organizzata fuori dai Palazzi. Dopo il blitz di martedì al Senato, quando è stato approvato l’emendamento proposto da Francesco Rutelli che istituisce una soglia del 42,5% per conquistare il premio di maggioranza alla coalizione (irraggiungibile per chiunque), ora l’asse Pdl-Lega-Udc ha offerto ai democratici l’opportunità di riflettere un’altra settimana su un nuovo compromesso. La proposta è quella di ridurre la soglia per il premio al 40% (sempre troppo elevata per gli alleati Pd e Sel) e concedere un “premietto” di consolazione al primo partito del 5%. Trasformando la proposta del professor Roberto D’Alimonte, premio al primo partito del 10%, in un contentino. “Quello che si sta delineando sulla legge elettorale è un pastrocchio proporzionalista” spiega il costituzionalista “peggiore del Porcellum che finirà per rendere il Paese ingovernabile”. Anche D’Alimonte è convinto: “Il comportamento di alcune forze politiche mi sembra provocatorio per impedire il successo del centrosinistra mentre così il sistema si trasformerà in un proporzionale puro”. Tutti i partiti, infatti, correranno per sé e per vincere il premio. Almeno quello di consolazione. L’Udc si sta riorganizzando e ieri ha proposto ai suoi deputati una rosa di simboli tra i quali scegliere il nuovo emblema del partito. Poi ha tirato un stoccata al Pd: “Se qualcuno vuole che Vendola e Bersani governino con il 55 per cento avendo il 30 per cento dei voti, alzi la mano. Io non lo voglio”. Questo è ciò che succede cambiando la legge elettorale a sei mesi dalla elezioni e con i sondaggi in mano: ognuno cerca di assecondare i propri interessi e non quelli dei cittadini, un milione dei quali l’anno scorso firmò un referendum per cancellare il Porcellum.
“NON VOGLIAMO governare da soli con il 30 per cento ma serve una legge elettorale che garantisca la governabilità – ha risposto Enrico Letta – la follia è pensare di tornare a un proporzionale puro”. E sebbene la riforma sia nascosta sotto la dicitura “anti-Grillo”, Bersani cerca di tenere il punto: “Nessuno può pensare che dalla palude possa venire fuori un Monti bis”. Perché toccherebbe proprio a lui, che ieri ha minacciato di modificare la legge per decreto se ce ne fosse bisogno, governare un sostanziale pareggio. “Vorrei una legge elettorale in cui dopo un’ora chi perde si congratula con chi vince – ha detto Matteo Renzi, stregato dall’America e da Barack Obama – non certo il Porcellum. Ma la modifica proposta è quasi peggio! ”. Per una volta d’accordo anche con l’altro sfidante delle primarie, Nichi Vendola, secondo il quale “sta prevalendo l’idea che il nuovo sistema di voto bisogna farlo in sartoria” mentre “ le regole del gioco andrebbero riscritte guardando con particolare attenzione alla crisi della democrazia e delle forme di partecipazione”.
LA VARIABILE sulla strada dell’intesa resta il Pdl. Perché un accordo con il Partito democratico e l’Udc costringerebbe a uno strappo con la Lega. Non a caso il senatore Roberto Calderoli oggi ha attaccato i “tavoli e tavolini che hanno fatto ritardare di sei mesi sulla riforma”. Non solo. Anche altri partiti più piccoli come l’Mpa o Coesione Nazionale sono contrari al “premietto” perché, di fatto, toglierebbe loro voti. E se l’asse della vecchia maggioranza può bastare a portare la legge fuori dal Senato, non è detto che alla Camera il percorso sia meno accidentato. Intanto un’altra settimana è persa e la sopravvivenza del Porcellum appare ancora garantita.

La Stampa 8.11.12
Legge elettorale Si tratta sul premio al primo partito
Il Pd chiede il 10%, il Pdl non vuole superare il 6 Napolitano: “Prevalga l’interesse generale”
di Ugo Magri


Non parlava di America ma di Italia Napolitano, quando ieri osservava che «non è solo fair play, negli Stati Uniti l’interesse generale prevale sui contrasti». Per poi aggiungere tra lo speranzoso e l’amaro: «Prima avremo questo atteggiamento anche da noi, meglio sarà per il paese». Il Capo dello Stato senza dubbio si riferiva al brutto spettacolo dei partiti, che finora non sono stati capaci di superare il «Porcellum», madre di tutte le vergogne politiche. Per Napolitano guai se si tornasse alle urne con le liste dei nominati, con i premi di maggioranza spropositati e con tutte le incongruenze della legge attuale. Il suo incoraggiamento si fa pressante perché alla riforma ormai sembra mancare poco, anzi pochissimo. Ieri sera la distanza tra i partiti era ridotta a un misero 4 per cento. Che non è una cifra calcolata a spanne, ma la differenza aritmetica tra quanto chiede il Pd per dire sì alla riforma, e ciò che invece sarebbe disposto a concedere il Pdl. Bersani insiste perché il premio al partito più votato sia pari al 10 per cento dei seggi, i berlusconiani sono disposti a spingersi a un premio del 6 per cento come massimo. Dieci meno 6 fa, per l’appunto, 4. Possibile che non riescano a mettersi d’accordo?
In teoria le divergenze non si esaurirebbero qui. Ad esempio, tra i partiti si sta discutendo come attribuire l’altro premio: quello che scatterebbe qualora una coalizione riuscisse a superare l’asticella piazzata al 42,5 per cento dei suffragi. Il Pd gradirebbe che, vista la difficoltà dell’impresa, quest’altro premio fosse almeno del 15 per cento, e che l’asticella venisse abbassata al 40; il Pdl viceversa insiste per tenere l’asticella dov’è, e per un «bonus» non superiore al 12,5. Bersani e i suoi (da Enrico Letta a Migliavacca, dalla Finocchiaro a D’Alema) battono sullo stesso concetto con identiche parole: «Serve garantire la governabilità, non si può pensare che creando una palude venga fuori il Montibis», basta con il governo tecnico... Ma su questo punto i due maggiori partiti non faticheranno a trovare un compromesso perché, tanto, un salto al 40 o al 42,5 per cento nessuno sembra in grado di farlo. Se si dà retta ai sondaggi, Bersani più Vendola valgono al massimo un 35, Berlusconi lo vede col binocolo. Perciò l’unico premio cui possono eventualmente aspirare non è la tombola, ma il «premietto» consolatorio al partito che, pur senza superare l’asticella, si piazza primo. Bersani (che ha ritrovato su questo punto l’intesa con Casini) sotto il 10 per ora non vuole scendere, sarebbe «inaccettabile». E il Pdl sopra il 6 per ora non intende andare.
L’ultima novità è che ha fatto rientro a Roma il Cavaliere, reduce dalla vacanza in Kenya. I suoi gli hanno riassunto i termini della questione, in modo da capire come la pensi realmente. E siccome Silvio avrebbe anche potuto dire «non mi piace nulla», mandando all’aria quanto si è deciso fin qui, tutto ieri si è fermato in attesa dell’incontro a pranzo tra Berlusconi, Alfano, Letta e Verdini. La commissione in Senato, dove si sta votando la riforma, è stata prudentemente sospesa dal presidente Vizzini. Il tavolo tra i partiti, rinviato... Una situazione paradossale. Finché, verso sera, finalmente la prognosi è stata sciolta: Verdini negozierà per conto del Pdl sulla base dello schema fin qui discusso. Può tentare la stretta finale, senza mollare sul famoso 4 per cento...

il Fatto 8.11.12
Luciano Gallino: “Cambiare si può: una lista per il lavoro”
di Salvatore Cannavò


Può essere una lista fondata sui temi del lavoro e della crisi, in fondo non ne parla nessuno, nemmeno Grillo”. Il professor Luciano Gallino la presenta così la proposta di una lista della sinistra che è stata lanciata con l’appello “Cambiare si può” firmato da numerosi esponenti della sinistra intellettuale, sociale e anche da artisti e artiste. Accanto al suo nome si trovano quelli di Marco Revelli, Paul Ginsborg oppure Moni Ovadia e Sabina Guzzanti, operai della Fiom e esponenti No Tav oppure l’esponente del comitato No Dal Molin di Vicenza. “I contenuti della nostra lista - spiega Gallino - erano già presenti nell’appello del movimento Alba (acronimo di Alleanza, lavoro, beni comuni, ambiente, ndr) di qualche mese fa. Dinanzi al fallimento della politica e alla latitanza di idee soprattutto da parte del centrosinistra ci è parso utile appellarci a chi è sensibile ai temi concreti e attivare le forze di una sinistra non solo parolaia.
Chi sono i soggetti a cui guardate?
Non i partiti. Ci sono invece tante persone che si interrogano sul significato reale della crisi economica globale e hanno intenzione di scavare un po’ di più, di trovare risposte più concrete. Queste persone sono più numerose di quanto si pensi. La crisi ha morso in profondità e ha contribuito a far nascere numerosi interrogativi sulle bugie che vengono raccontate, su improbabili luci in fondo al tunnel o sul fatto che le responsabilità di tutto sarebbero della Germania.
Non ritiene che si tratti delle stesse persone attratte dal movimento di Grillo?
In quello che dice Grillo ci sono alcune cose interessanti. Quello che a me non va, però, è il tono sopra le righe, l’elemento aggressivo fino all’insulto e al disprezzo dell’avversario. Credo che ci siano molte persone attratte da quei temi ma non dai toni da commedia popolare.
È solo una questione di toni?
Non solo: se si guarda il programma del Movimento Cinque stelle, come giustamente invita a fare Travaglio, cliccando sul sito del movimento, si può osservare, ad esempio, che il M5S non parla di lavoro o di occupazione o di altri temi che figurano nel nostro appello.
Che rapporti avete, invece, con altri soggetti della sinistra?
Tra coloro che hanno condiviso e appoggiato l’appello c’è Paolo Ferrero, da cui si può essere distanti politicamente ma che dice cosa di notevole concretezza sulla finanza e le politiche di austerità. Il problema è piuttosto rappresentato dai vari partiti che si alleano, si frantumano, si dividono. Non si sa mai bene con quale soggetto si ha a che fare. Punti di contatto ci sono con la Federazione della Sinistra e anche con Sel. In realtà ci sarebbero anche con gli elettori del Pd che sono cosa diversa dai loro dirigenti.
Quale sarà il rapporto con il centrosinistra?
La nostra lista è sicuramente a sinistra del Pd. Noi siamo disposti a confrontarci sui programmi ma le premesse non sono allettanti. Non c’è molto da attendersi dal Pd.
Nella lista ci sarà anche De Magistris?
Francamente non so risponderle. Vedremo nelle prossime riunioni, il 18 novembre e poi il 1 dicembre.
Sarà una lista arancione?
Non so, non ho grande attrazione per l’arancione.
Meglio il rosso?
Un rosso magari non troppo intenso ma un colore più forte non mi dispiacerebbe.

Corriere 8.11.12
Multe e no al carcere. Sulla diffamazione c'è l'accordo Pdl-Pd
Nuovo testo: salta la stretta sul web
di Virginia Piccolillo


ROMA — «Fermiamoci! Riflettiamo sulla natura di una legge che, suggerita da un caso particolare, tocca un punto sensibile della democrazia nel nostro Paese». A poco è servito l'appello accorato del presidente della commissione di Vigilanza Rai, Sergio Zavoli: il ddl Sallusti continua la sua corsa contro il tempo. Ma ora con una riformulazione «più snella», frutto di un accordo tra il Pd e il Pdl, raggiunto ieri dal presidente della commissione Giustizia Filippo Berselli (Pdl), che esulta: «Il testo è blindato, stavolta potremmo farcela». Ottimista anche sul rispetto della tabella di marcia super accelerata che prevede oggi alle 12 il termine per la presentazione degli emendamenti e martedì il voto in aula.
«L'obiettivo è dare vita a un testo molto più snello» spiega la presidente dei senatori del Pd Anna Finocchiaro, perché «così com'era, l'articolo 1 avrebbe impedito al Pd di votare positivamente nonostante l'eliminazione della pena detentiva». Ma la Federazione della stampa, che aveva salutato con favore il ritorno in Commissione del provvedimento, è cauta: «Aspettiamo di vedere il testo. Ma se la sanzione pecuniaria resta alta, resta anche la nostra contrarietà» dice il presidente, Roberto Natale.
Il testo prevede ora due articoli anziché tre. Ed è stato asciugato di quelle norme che più avevano acceso la contestazione in commissione. Eliminate le misure interdittive per i giornalisti. Non c'è più la ritorsione sui contributi per l'editoria. Depennata anche la norma «ammazza-libri», che prevedeva l'obbligo di rettifica anche per le pubblicazioni non periodiche. Sparite pure le disposizioni sui blog e i motori di ricerca, che in nome del diritto all'oblio, prevedevano la rimozione dei contenuti, dei dati e delle immagini dai siti Internet su richiesta di chi si sentiva diffamato, pena 100 mila euro di multa.
Le sanzioni pecuniarie per stampa, radio e tv, però restano. Incluso quel tetto massimo di 50 mila euro da pagare in caso di diffamazione per un fatto determinato, finora punito con l'arresto. Trentamila euro il tetto massimo per la diffamazione a mezzo stampa. 15 mila per la diffamazione semplice. Resta anche l'obbligo di rettifica, da pubblicare senza commento e delle stesse dimensioni dell'articolo diffamatorio, entro due giorni per i quotidiani, ed entro una settimana per i periodici, dall'articolo diffamatorio. Ma la pena è diminuita fino a due terzi se sia stata pubblicata la rettifica a richiesta dell'offeso nei termini previsti. È diminuita per il solo autore, se abbia chiesto la pubblicazione della smentita o della rettifica. Pena aumentata invece se il direttore o il responsabile della testata, anche online, omette di pubblicare rettifiche o dichiarazioni della persona offesa. Come pena accessoria, c'è poi la pubblicazione della sentenza.
Nato per salvare il direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti, dalla condanna a 14 mesi di carcere (subita per aver diffamato un giudice sulla base di una notizia falsa che non ha mai voluto rettificare), il disegno di legge procede dunque nel suo iter parlamentare anomalo. Ieri l'ultimo colpo di scena. Il ddl è stato tolto dall'Aula dove si avviava verso una sonora bocciatura del suo punto chiave, l'articolo uno che prevedeva le sanzioni al posto del carcere, e rimandato in toto alla commissione Giustizia. Malgrado lo avesse già licenziato. E malgrado contenesse dei punti già approvati dall'Aula. Una decisione contestata nell'emiciclo dall'ex ministro leghista Roberto Calderoli: «È un errore rispetto al regolamento». E fuori, da Silvia Della Monica, ex magistrato e senatrice del Pd, che ieri si è dimessa da relatrice del ddl: «Non si può far tornare in Commissione un provvedimento solo perché non piace. Sarebbe troppo facile. Non lo consente il regolamento, ma nemmeno la Costituzione. Il caso Sallusti si può risolvere il altri modi e io sono contraria alle leggi ad personam, pro o contro qualcuno».

il Fatto 8.11.12
Crimine organizzato e saluto fascista
risponde Furio Colombo


LA MAFIA è un reato e chi venisse in piazza a celebrare la mafia sarebbe prontamente fermato. Perché invece il fascismo viene scambiato con un ideale, tollerato e permesso con il compiacimento dei buoni verso i credenti?
Ettore

SE IL LETTORE si riferisce a ciò che è accaduto ai funerali di Pino Rauti, ha ragione. L'assenza di forza pubblica e di cancellazione immediata dell'evento militare e fascista è non solo riprovevole ma, dal punto di vista delle leggi italiane, certamente colpevole. La cacciata di Fini è una brutta pagina, ma riguarda la vita interna (e squallida) di certi gruppi (pensate alle grida di “fuori, fuori, va in sinagoga!”). Invece è incomprensibile che si possa procedere a tutti i macabri riti del fascismo, uno dei regimi più assassini che abbiano attraversato la storia e governato non solo l'Italia ma, assieme al nazismo, mezza Europa, senza che vi sia stato intervento, identificazione di tutti, arresto dei responsabili. Dobbiamo sapere chi sono coloro che salutano i loro morti con lo stesso saluto e le stesse grida che hanno salutato via Tasso, le Fosse Ardeatine, le stragi nei Balcani, le razzie di cittadini italiani ebrei, il gas asfissiante in Africa, i massacri in Libia. C’è sempre il rischio, a Roma, che accedano a qualche incarico pubblico. Non sarebbe giusto cavarsela parlando di una comprensibile amnesia dopo tanti decenni. Questa è gente che ha continuato a vivere nel fascismo come i mafiosi nella mafia, dopo che è stato processato e condannato dalla Storia come un delitto grave con una potente vocazione a uccidere. Da Gramsci a Gobetti, da Matteotti ai fratelli Rosselli, tutta la storia italiana dell'altro secolo è testimonianza di delitti repellenti che hanno arrecato all'Italia sofferenze e danni immensi. Impossibile trasformare in uno scherzo il comportamento che le televisioni (con encomiabile accuratezza) ci hanno fatto vedere nel giorno di quel funerale. La figura di Rauti qui non conta come rispettabile defunto, ma come non rispettabile leader fascista che ha tenuto in vita, anche dal punto di vista organizzativo, gente come quella che è andata a tributargli onore. Quando senti dare ordini perentori e obbediti con linguaggio militare (“attenti!”, “riposo!”) e l'uso deliberatamente ripetuto della parola “camerati” non potete far finta di non vedere che siete in presenza di un reato che evoca, celebra e raccomanda un delitto. Il delitto è enorme, perciò il reato deve essere perseguito. Se non lo è, c'è una grave omissione di atti d'ufficio.

l’Unità 8.11.12
Trattativa, dubbi sulla memoria dei pm
di Giovanni Pellegrino


Nel contesto internazionale e nazionale, che segnò il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, i pm collocano, con narrazione particolareggiata, la fosca trama di una trattativa, che subito dopo l’omicidio Lima venne a svilupparsi per iniziativa dell’allora ministro Mannino. Quest’ultimo, sapendosi prossima vittima designata della vendetta mafiosa, incaricò uomini dei Ros di contattare il vertice di Cosa Nostra per conoscere quali prezzi lo Stato avrebbe potuto pagare, affinché il programma omicidiario venisse abbandonato.
Gli attentati di Capaci, via D’Amelio, Firenze e Milano, che sanguinosamente scandiscono il biennio 1992-1993, vengono inseriti nel contesto della trattativa, di cui i pm individuano con precisione altri protagonisti istituzionali (tra gli altri il capo della Polizia nella sua vicinanza a Scalfaro), assumendo che alla stessa fu funzionale nella formazione del governo la sostituzione di Scotti con Mancino e di Martelli con Conso, nonché la sostituzione di Nicolò Amato con il duo Capriotti-Di Maggio nell’amministrazione delle carceri.
Alla mafia un primo prezzo fu pagato con la mancata proroga da parte del ministro Conso di oltre 300 decreti di applicazione del 41 bis. Fu secondo i pm un «segnale di distensione» non sufficiente a soddisfare i desiderata di Cosa Nostra, per cui una nuova minaccia fu portata al neo costituito governo Berlusconi tramite il canale Bagarella-Brusca-Mangano-Dell’Utri e conseguì il risultato finale di consentire a Cosa Nostra di traghettarsi nella seconda Repubblica mediante la saldatura di un nuovo patto di coesistenza con lo Stato, di cui i pm lasciano soltanto intuire i possibili contenuti.
La gravità dei fatti sin qui esposti non è in discussione; si tratterebbe di una delle pagine più fosche della storia repubblicana anche per il prezzo di sangue che all’instaurarsi e al proseguire della trattativa sarebbe stato coscientemente pagato; sicché sorprende che dai pm non vengano contestate ipotesi delittuose diverse e maggiori da quella delineata nell’art. 338 c.p., che punisce la violenza o la minaccia esercitata da un privato ad un corpo politico, con la reclusione fino a 7 anni elevabile a 8 o a15 nel concorso delle circostanze aggravanti previste dal successivo art. 339.
I privati autori della minaccia sono ovviamente gli uomini di Cosa Nostra (Rina, Provenzano, Brusca, Bagarella e Cinà), che già sepolti da ergastoli non verranno turbati dalla nuova contestazione. Sorprendente quindi è che ai pubblici ufficiali e ai rappresentanti politico-istituzionali partecipi della trattativa non vengano contestati reati propri, connessi alla violazione del vincolo di fedeltà istituzionale, ma soltanto di avere operato come ausilio e tramite della minaccia mafiosa al governo. Agli ex ministri Mancino e Conso non viene contestato nemmeno questo, ma soltanto al primo di aver mentito quando fu sentito come testimone in un altro processo e al secondo di non aver detto la verità nel corso della specifica indagine.
Pure sembra indubitabile, almeno a chi scrive, che un ministro della Giustizia, che nel non prorogare ben trecento regimi di carcere duro paga consapevolmente un prezzo a Cosa Nostra, commetta un reato proprio del suo ufficio. E rilievo non tanto diverso meriterebbe un ministro dell’Interno che accetta l’ufficio nella consapevolezza di essere stato nominato perché ritenuto affidabile nella prosecuzione d’una trattativa già in corso con la principale associazione criminale del Paese.
E tuttavia le ragioni tattiche che hanno ispirato questa scelta abdicativa dei pm sono abbastanza chiare, una volta che la contestazione di un reato ministeriale li avrebbe privati della possibilità di proseguire le indagini perché la legge attribuisce queste competenze al Collegio per i reati ministeriali. È legittimo quindi domandarsi se, in un sistema dominato dalla obbligatorietà dell’azione penale, la scelta dei reati contestabili possa esser così profondamente influenzata dalla volontà di conservare la competenza alla prosecuzione.
Ma le perplessità che la lettura della memoria dei pm suscita sono anche altre. Secondo la ricostruzione della Procura le condotte di minaccia, che sostanziano l’addebito penale, sarebbero comunque cessate nel ’94, quando avrebbero raggiunto il fine cui erano dirette, e cioè la definitiva saldatura del nuovo patto di coesistenza tra lo Stato e la mafia. Ma dal ’94 ci separa uno spazio temporale di ben 18 anni così da fondare il sospetto che si sia già prescritto il delitto, per cui si procede; un sospetto che i pm sono indubbiamente attrezzati a fugare, se hanno chiesto il rinvio a giudizio e non il proscioglimento per prescrizione. Ma ciò non toglie che, se un rinvio a giudizio verrà disposto, sui tre gradi del successivo processo la prescrizione incombe come una probabilissima mannaia.
In qualche modo i pm sembrano farsi carico del problema nella parte finale della loro memoria, quando evocano come unica e legittima ragione di Stato la ricerca della verità, in cui si dicono ancora impegnati, così implicitamente prospettando l’utilità all’accertamento del vero anche di una conclusione del processo con una sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione. In tal modo la Procura palermitana trascura, come già avvenuto in altri notissimi casi, che il proscioglimento per prescrizione non accerta che il fatto contestato sia stato commesso, ma attesta soltanto l’insussistenza nel processo di elementi sufficienti ad escluderne la commissione.

Repubblica 8.11.12
Blitz alla Camera, salta la legge anti-omofobia
Pdl, Lega eUdc bocciano il testo in commissione. Il Pd: “Vergogna, il governo faccia un decreto”
di Elsa Vinci


ROMA — Bocciata la legge contro l’omofobia. Se la Francia da ieri riconosce i matrimoni tra omosessuali, in Italia omofobi e transfobici possono continuare a girare indisturbati. Le norme che prevedono pesanti sanzioni penali per chi non rispetta una sessualità diversa finiscono in soffitta: a Montecitorio la commissione Giustizia ha approvato un emendamento della Lega Nord che ha cancellato l’intera legge. Il testo in discussione estendeva i contenuti della legge Mancino del 1993: un anno di carcere per chi istiga non solo all’odio razziale, etnico o religioso ma anche a quello contro le persone omosessuali. «Italietta bigotta », riecheggia la sinistra. «Medioevo dei diritti», accusa Ingazio Marino, senatore dei democratici. «Il centro-destra condanna il paese all’oscurantismo », reagisce Nichi Vendola, leader di Sel. Il Parlamento è diviso ma c’è chi non si arrende.
Paola Concia del Pd, totem della comunità gay, da sempre impegnata nell’approvazione della legge, promette che la battaglia riprenderà in aula, dove però rischia di riformarsi il “fronte del no” organizzato da Pdl, Lega Nord e Udc. Donatella Ferrante, capogruppo del Pd in commissione Giustizia, chiede al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri, di intervenire direttamente con un decreto legge. «Le aggressioni sono all’ordine del giorno — ricorda — e solo il cinismo di Alfano, Casini e Maroni può perseverare in questa ipocrisia imbarazzante». Giulia Bongiorno (Fli), presidente della commissione Giustizia, parla di «ennesima occasione gettata al vento». Anche lei auspica l’intervento dell’esecutivo: «Rivolgo un appello a questo governo, così attento alle istanze europee, affinché riconosca l’urgenza di un intervento legislativo». Sul testo bocciato, prima firma Di Pietro-Palomba, giura di non arrendersi pure l’Idv. «Ancora una volta — afferma Federico Palomba — la lobby omofoba è intervenuta per bloccare una norma giusta e
opportuna».
Una sola eccezione nel centro destra: la pdiellina Mara Carfagna, ex ministro per le Pari opportunità, al momento della votazione si è astenuta. «L’iter della norma anti omofobia — dice — deve andare avanti per trovare in aula soluzioni condivise ed equilibrate come quelle già attuate in molti Stati moderni». Lo stop alla legge ha provocato l’ennesimo strappo nella maggioranza che sostiene il governo Monti, e soprattutto ha allontanato ancora di più Pd e Udc. Ma al di là del dato politico, l’Italia sembra non riuscire a dotarsi di uno strumento giuridico che punisca i reati contro la discriminazione sessuale. La legge è stata affossata proprio nel giorno in cui tre Stati americani hanno approvato le nozze tra persone dello stesso sesso, mentre la Corte Costituzionale spagnola difende la legittimità della legge sul matrimonio omosex, e il governo francese sdogana i matrimoni gay. L’Italia, controcorrente, è l’unico Paese fondatore dell’Unione europea a non avere leggi di tutela per gli omosessuali. È recentissima, tra l’altro, l’ennesima aggressione omofobica di due ragazzi a Firenze che si tenevano per la mano. Il sindaco Matteo Renzi invita «a guardare soprattutto ai diritti». Il Pd ha scritto al ministro dell’Interno: se il Parlamento non è in grado di legiferare vi sono tutte le ragioni di necessità e urgenza per valutare la presentazione di un decreto governativo.

La Stampa 8.11.12
La Chiesa delusa Aveva puntato sui valori di Mitt
Aborto e sanità obbligatoria, i “peccati” di Obama
di Andrea Tornielli


Benedetto XVI ha inviato un messaggio a Obama, pregando Dio «perché lo assista nelle sue altissime responsabilità di fronte al Paese e alla comunità internazionale» e perché «gli ideali di libertà e giustizia» che hanno guidato i padri fondatori «continuino a risplendere nel cammino della nazione». Il portavoce, padre Federico Lombardi, ha aggiunto l’augurio che il Presidente «possa servire il diritto e la giustizia» nel «rispetto dei valori umani e spirituali essenziali, nella promozione della cultura della vita e della libertà religiosa». Accenni non casuali, dato che negli ultimi mesi proprio su questi temi a Obama erano arrivate le critiche accese dalla nuova leadership dei vescovi Usa di nomina ratzingeriana.
L’atteggiamento della Santa Sede appare ben più cauto rispetto al novembre 2008. Allora, appena eletto Obama, «L’Osservatore Romano» titolò: «Una scelta che unisce». Il quotidiano vaticano, accusato dai prelati Usa di troppo entusiasmo, oggi invece sottolinea che «l’ondata di speranza in un cambiamento radicale montata quattro anni fa è ormai esaurita».
Nei sacri palazzi abita una pattuglia di prelati americani che speravano nella vittoria di Mitt Romney: il cardinale Raymond Burke, Prefetto della Segnatura, noto per le sue posizioni contrarie a Obama; l’assessore della Segreteria di Stato, Peter Brian Wells e il Prefetto della Casa Pontificia, James Harvey. Contrari anche due porporati curiali ormai pensionati, Bernard Law e James Stafford.
Con Obama il Vaticano ha molte consonanze sulla politica internazionale: la lotta alla povertà, il dialogo con l’Islam, la ricerca di soluzioni diplomatiche per le crisi in Siria e in Iran e la questione palestinese, la gestione dell’immigrazione. Ma per Benedetto XVI e i suoi collaboratori in Segreteria di Stato rimane imprescindibile il richiamo ai valori «non negoziabili». Non a caso, ricevendolo nel luglio 2009, Ratzinger donò a Obama copia dell’istruzione «Dignitas personae», dedicata alla bioetica e alla dignità da riconoscere a ogni essere umano fin dal concepimento.
La Chiesa americana, con l’appoggio papale, è scesa in campo massicciamente. Il cardinale di New York Timothy Dolan ha definito «sconsiderata» la decisione di rendere obbligatoria anche per le associazioni religiose l’assicurazione sanitaria per i dipendenti, che comprende rimborsi per la contraccezione e l’aborto. Il cardinale di Chicago Francis George ha invitato il clero a «istruire» i fedeli alla vigilia del voto. Il vescovo Daniel Jenky ha chiesto ai preti di leggere dal pulpito una lettera anti-Obama, mentre l’arcivescovo di Baltimora, William E. Lori, ha bollato la riforma sanitaria come «minaccia alla libertà religiosa».
Una battaglia che ha trovato sponde anche al di qua dell’Oceano, come quella della Fondazione «Giovanni Paolo II per il Magistero sociale» presieduta dal vescovo di San Marino Luigi Negri, che ha diffuso una nota augurandosi che il popolo americano «non abbia a pentirsi» della scelta.

il Fatto 8.11.12
Obama ha fatto il miracolo perché non ha ceduto
di Furio Colombo


Voglio annotare due frasi che ho raccolto, una all'inizio della notte di Obama, l'altra alla fine. A Roma, la più importante notte elettorale in molti anni è iniziata in un albergo dove l'ambasciatore americano aveva riunito alcune centinaia di persone (soprattutto americani a Roma) per vedere in diretta l'evento. Ma prima ha fatto un discorso, gentile e diplomatico, da ambasciatore. Salvo una cosa. A un certo punto ha detto: “Queste elezioni sono costate 6 miliardi di dollari. É una cifra davvero eccessiva. Troppi soldi e troppo poche idee”. In quell'istante, senza sapere il risultato che sarebbe venuto dopo alcune ore, l'ambasciatore Thorne ha spiegato il senso, ma anche la gravità di ciò che stava per concludersi, quella notte, in America: una cifra immensa riversata sulle elezioni americane con un unico scopo, rimuovere Barack Obama. Per questo la seconda frase mi sembra memorabile. Ha detto il conduttore della Cnn, Wolf Blitzer, quando la vittoria di Obama è apparsa sicura: “La prima elezione di Obama è un evento storico. La sua rielezione è un miracolo”.
IL FATTO È che Obama ha affrontato la rischiosissima prova della rielezione (essere presidente una volta sola è un segno che resta, non gradevole, nella storia del Paese e che si fa notare persino ai bambini a scuola) facendo il contrario di ciò che un buon manager o stratega avrebbe dovuto suggerirgli: non ha ceduto su nulla, non ha ridisegnato la sua immagine secondo un profilo più accettabile per il probabile nemico. Non ha lasciato cadere gli aspetti più contestati delle cose fatte o di quelle da fare. Qualcuno avrà fatto caso a una piccola frase del suo discorso che, da sola, lo distingue da tutti i predecessori. Eccola: “L'America è di bianchi e di neri, di nativi americani e di ispanici, di giovani e di vecchi, di abili e disabili, di etero e di gay”. Mai detto prima nella storia americana. Nuove minoranze entrano, accettate alla pari nel “melting pot”, la grande fusione di religioni e di razze che a mano a mano ha preso a bordo gli esclusi. Ma c'è un altro aspetto che attribuisce a Barack Obama un ruolo unico, finora, nella politica americana. Per salvare la sua legge per l'assistenza medica gratuita gli hanno chiesto un piccolo ritocco: niente aborto, non importa se terapeutico o no. L'aborto è omicidio (è la visione della Chiesa cattolica e di alcune potenti chiese fondamentaliste) e lo Stato non può finanziare omicidi. Di colpo il Partito Repubblicano è diventato religiosissimo, ha tentato di impadronirsi di una massa di poveri e di indurli a votare contro se stessi. Tutto ciò Barack Obama lo conferma nel suo discorso di vittoria, nel modo più chiaro possibile. Prima frase da ricordare: la democrazia è fondata sull'uguaglianza. Il valore di questa affermazione è sconvolgente perché è un gesto che respinge la gara fra privilegiati. Seconda frase. Obama racconta la storia di un padre che lo ha avvicinato, nell'Ohio, per parlargli della sua bambina di otto anni. La bambina è malata di leucemia. Dunque è condannata a morte, perché, neppure vendendo le poche cose che possiede, il padre potrebbe pagare le cure e gli ospedali che la salverebbero. Obama racconta, perché la sua folla raccolga l’impegno: non si abbandona nessuno. Terza frase: “Voi avete fatto di me un presidente migliore, perché noi siamo una famiglia e nessuno va avanti da solo. O insieme o niente. Questa è l'America”.
È IMPORTANTE fare molta attenzione al modo in cui Obama dice “famiglia”. Non intende un family day in cui si certificano certe vite e se ne scartano altre, e ciascuno, per famiglia intende i propri congiunti. Qui famiglia sta per popolo, sta per nazione, e anche per Stato. Poi Obama affronta l'idea di eccezionalismo. È una strana definizione con due facce. La prima è un vanto, che non può non essere caro a Obama perché significa: noi non abbiamo alcun passato in comune. Noi abbiamo in comune il futuro e, in questo, siamo l'unico popolo al mondo. Ma il secondo significato di questo strano e misterioso fattore della costruzione dell’America è: nel momento in cui ti vanti di essere eccezionale, l'eccezionalità scompare.
Questo vale soprattutto per la potenza. Obama la concepisce come diplomazia e come politica, non come forza. E così comincia la seconda epoca Obama, ora l’ancor giovane presidente degli Stati Uniti definisce la sua immagine, vita e lavoro, non per un sondaggio, ma per la Storia.

La Stampa 8.11.12
La Grecia dice sì al piano di austerity, il Parlamento approva i nuovi tagli
Atene s’infiamma: “Siamo alla fame”
di Tonia Mastrobuoni

qui

l’Unità 8.11.12
Sì di Hollande alle nozze gay
Via libera del governo al «matrimonio per tutti»
La parola al Parlamento. La Chiesa si oppone
di Luca Sebastiani


PARIGI Costretti dalla crisi economica ad una circospetta melina politica durata mesi, ieri finalmente il governo socialista è uscito allo scoperto e ha dato corpo ad uno degli impegni fondamentali che François Hollande aveva preso di fronte ai francesi. Il Consiglio dei ministri ha infatti approvato il progetto di legge che apre l’istituto del matrimonio e dell’adozione alle coppie dello stesso sesso. È il «matrimonio per tutti», come è stato ribattezzato per sottolineare la filosofia di un provvedimento che non si vuole rivolto ad un gruppo, agli omosessuali in particolare, ma che intende aprire all’uguaglianza al di là del sesso.
Si tratta di una misura storica, che prima di entrare in vigore dovrà passare in Assemblea a gennaio, ma che ha già acceso un vasto dibattito, soprattutto dalla parte delle Chiese. A differenza del 1999, quando il governo della «gauche plurielle» di Lionel Jospin introdusse le unioni civili (Pacs) sotto il fuoco di una feroce polemica politica memorabile anche nella sua messa in scena parlamentare, questa volta infatti la destra sembra non aver cercato il corpo a corpo. Certo, il campo gollista resta contra-
rio ed ha già invocato un rinvio o in subordine un referendum, ma anche a destra le mentalità sono ormai evolute. Nel suo programma, per gli omosessuali propone infatti un’unione civile che eguagli in diritti il matrimonio pur restandone distinto.
In realtà è la società che è molto evoluta dal ’99. Oggi, secondo un sondaggio di le Monde, è il 65% dei francesi ad essere favorevole al matrimonio tra omosessuali, e il 52% all’adozione. E non è un caso che le voci contrarie, sia politiche, ma soprattutto religiose, si siano concentrate sui diritti dell’infanzia per contestare l’impianto del matrimonio per tutti.
RELIGIONI CONTRO
Le Chiese di Francia, con quella cattolica a far da apripista, hanno infatti occupato il campo dell’opposizione e da settimane si premurano di rilasciare dichiarazioni altisonanti. Una santa alleanza tra musulmani, ebrei e cristiani (cattolici, ortodossi e protestanti) emersa a metà settembre, al Consiglio dei rappresentanti di culto in Francia. Contrari al provvedimento ognuno è partito alla battaglia per proprio conto, tutti però cercando di evitare il dibattito politico per privilegiare quello sociale. Rispetto ai tempi dei Pacs le tre religioni monoteiste hanno evitato di rifarsi ad argomentazioni teologiche, ma hanno preferito spostare il dibattito sul piano «antropologico». In particolare i cattolici hanno insistito sulla differenza sessuale alla base del patto sociale che struttura la società, e sul diritto dei bambini di costruirsi un’identità riferendosi alle figure del padre e della madre.
Il tam tam dei cattolici aveva preso inizio già quest’estate con la preghiera del presidente della Conferenza episcopale, il cardinale André Vingt Trois, ed è continuato quasi quotidianamente fino al climax di questo fine settimana, quando l’arcivescovo ha tuonato definendo il «matrimonio per tutti» un «inganno» che farà «tremare le fondamenta della nostra società».
A contrastare la Chiesa più che la gauche politica è stata quella civile, in particolare l’associazionismo omosessuale che ha smontato le teorie della Chiesa convocando a riprova l’esperienza di fatto di molte coppie omosessuali con o senza figli, più diffusa di quanto si pensi. E che da oggi avrà un riconoscimento di diritto.

La Stampa 8.11.12
Pechino pensa al Congresso Barack è in secondo piano
Riflettori puntanti sulla transizione nel partito comunista
di Ilaria Maria Sala


La Cina ha guardato alla campagna elettorale americana con distacco: assenti le maratone televisive che riportavano il minuto per minuto dei sondaggi, della votazione e infine dei risultati. Anzi: ieri mattina l’agenzia di stampa Xinhua ha lanciato un dispaccio titolato «Gli occhi del mondo sono puntati sulla Cina».
Nulla che vedere con le elezioni presidenziali Usa: si tratta dell’apertura - oggi del 18esimo Congresso del partito comunista cinese, che ha quest’anno l’incarico decennale di nominare il nuovo Comitato centrale del politburo, che apparentemente sarà ridotto da nove a sette membri e guiderà le nomine più importanti della politica cinese. L’atmosfera preCongresso è asfissiante: le misure straordinarie di sicurezza sono così numerose da comprendere l’obbligo per i tassisti di strappare le maniglie degli sportelli e dei finestrini, per prevenire che un passeggero testa calda possa decidere di gettare volantini sovversivi da un’auto in corso.
Internet è più lento che mai, i siti bloccati sono più numerosi del solito, e il centro della capitale è pieno di zone nelle quali è proibito transitare o sostare. Il Congresso durerà fino al 14 novembre, ed è quanto di più lontano dalla politica americana si possa immaginare: niente elezioni ma nomine, stabilite da più di duemila membri del Partito (fra cui uomini d’affari e medaglie d’oro alle Olimpiadi), senza eccessive incognite. Si sa fin d’ora che il prossimo segretario di Partito sarà Xi Jinping, che in marzo assumerà anche il ruolo di Presidente, succedendo Hu Jintao. Il Primo Ministro sarà Li Keqiang, mentre l’attuale Wen Jiabao terminerà il suo mandato. I restanti cinque uomini (sembra non ci siano donne) sono, secondo l’analista Willy Lam, «molto conservatori: le indiscrezioni di riforme che si sono avute in questi giorni sono solo per non inquietare gli osservatori, ma dopo la crisi legata alla caduta di Bo Xilai, la leadership non vorrà rischiare e sceglie di non promuovere nulla di nuovo, alla ricerca della stabilità».
E’ proprio quello che Pechino si aspetta anche da Obama, pur mantenendo toni bassi sulla rielezione: forse per evitare spiacevoli paragoni fra il modo di scegliere i leader negli Usa e in Cina. Anche sui siti web dei quotidiani cinesi le prime notizie riguardano tutte il Congresso, e solo cercando fra le brevi si può scoprire la conferma di Obama alla Casa Bianca. Il compassato silenzio ufficiale cinese è però smentito dal web, malgrado censura e lentezze: quando la vittoria di Barack Obama era cosa certa, 25 milioni di tweet riguardanti Obama sono stati contati su Sina Weibo, il principale sito cinese clone di Tweeter (censurato). La maggior parte di loro è felice dell’elezione di Obama, pochi arrischiano paragoni su come vengono scelti i leader in un Paese e nell’altro. E’ ancora lontano il giorno del suffragio universale in Cina. Invece Ting Wai, professore all’Università Battista di Hong Kong, cita fra le possibili riforme quella dell’informazione: «non una liberalizzazione totale, ma una diminuzione della censura». L’attuale stretto giro di vite su Internet, però, lascia pensare che anche questa riforma non sia fra le più urgenti.

Corriere 8.11.12
Cina, il Grande Ricambio Alla ricerca dei riformisti
Via oggi al Congresso del Partito comunista
di Marco Del Corona


PECHINO — I camerieri cinesi che ieri, alla festa elettorale all'ambasciata americana, hanno esultato per la vittoria di Barack Obama, non concederanno il bis. Da cittadini della Repubblica Popolare stanno per avere il loro nuovo leader ma la liturgia del potere a Pechino ha un altro passo.
Accanto alle luminarie che danno il benvenuto al 18° Congresso del Partito comunista («shibada»), il rito prevede un ricorso massiccio a polizia e misure di sicurezza, con i potenziali guastafeste spediti fuori città o sott'osservazione. Il consesso comincia oggi, i delegati dovevano essere 2.270 ma due sono morti, e si procede in 2.268. Ci sono 34 imprenditori privati e, per la prima volta, 26 lavoratori migranti, mentre anche i media governativi evocano l'ineluttabilità di riforme peraltro dai contenuti sfumati fino all'impalpabilità.
Tra i marmi ipertrofici della Grande Sala del Popolo, da oggi al 14 si finiscono di mettere a punto gli assetti per i prossimi dieci anni. Gli accordi essenziali dovrebbero essere già chiusi. Il segretario del Partito, Hu Jintao, e il numero tre, Wen Jiabao lasceranno il comitato permanente del Politburo, il vertice del sistema, insieme con altri cinque compagni: dei nove componenti attuali ne resteranno in carica solo due, probabilmente in una formula ridotta a sette componenti.
I due superstiti sono proprio coloro che costituiranno il volto di un potere comunque collettivo: Xi Jinping, destinato a diventare segretario e dunque numero uno del Paese, e Li Keqiang. In marzo, con la sessione annuale del parlamento, il passaggio di consegne si completerà: Hu cederà a Xi il ruolo cerimoniale di capo dello Stato e Li, ora vicepremier, subentrerà a Wen come primo ministro. Verranno distribuite le altre cariche istituzionali e fino ad allora nuovo Politburo e vecchio esecutivo coabiteranno. Incerta la presidenza della commissione militare, che Hu potrebbe trattenere ancora per sé. All'appuntamento il Partito arriva affaticato. E non soltanto per il rallentare dell'economia che impone ripensamenti urgenti. La formazione politica più grande della Storia, oltre 82 milioni di iscritti, deve conservare agli occhi del popolo una legittimazione ingracilita. «Abbiamo tratto — spiegava ieri il portavoce Cai Mingzhao — lezioni estremamente profonde dai casi di Bo Xilai e Liu Zhijun», l'ex capo del Partito a Chongqing e l'ex ministro delle Ferrovie, espulsi dal Partito per corruzione e altro. E la corruzione, con la crescente divaricazione fra élite ricca e il «Paese reale», è uno dei temi più visceralmente sentiti.
Le speculazioni sulla personalità di Xi Jinping e la composizione del vertice indulgono sulle credenziali riformiste di questa o quella figura, di questa o quella fazione. Pare smentita la rimozione del «pensiero di Mao Zedong» dalla costituzione del Partito (non quella dello Stato). Che sarà ritoccata — è stato spiegato — ma non nella cornice fondamentale.
Come ha scandito ieri il portavoce Cai, il ruolo guida del Partito comunista non si discute: «La riforma del sistema politico deve attenersi alla realtà della Cina». Un mantra risaputo.
Piuttosto, Hu e Xi potrebbero introdurre ora forme di democrazia interne al Partito simili a quanto sperimentato dal Vietnam comunista. Secondo la Reuters, che cita «tre fonti vicine alla leadership», il piano sarebbe di aumentare il numero dei candidati per i diversi livelli decisionali del Partito. Se così fosse, per selezionare i circa 200 membri del comitato centrale, i 2.268 delegati potrebbero scegliere tra un numero di candidati superiore anche del 40%, quindi 280 in lizza per 200 poltrone (nel 2007 il margine era dell'8%); allo stesso modo, il comitato centrale sceglierebbe i 25 componenti del livello successivo, il Politburo, tra più di 25 aspiranti; e a sua volta, il Politburo potrebbe scegliere i 7 o 9 del comitato permanente, il gruppo supremo, tra più di 7 o 9 nomi.
Ritocchi esoterici, ma se l'ipotesi si materializzasse, il 18° Congresso sarebbe davvero un po' diverso dagli altri.

La Stampa 8.11.12
Nel minestrone di Macaluso i guai della sinistra d’oggi
Un libro-intervista dell’ex esponente migliorista: l’errore del Pci e dei suoi eredi è non essersi voluto integrare nel socialismo europeo
Nel ventennio berlusconiano la storia controcorrente di ciò che accadde dall’altra parte
La destra comunista sempre più emarginata, quasi espulsa, a partire dalla successione a Berlinguer
di Marcello Sorgi


Se davvero, con la caduta ormai prossima della Seconda Repubblica, si comincerà a scrivere la storia del ventennio, accanto al famoso risotto di Massimo D’Alema che segnò l’ingresso di Antonio Di Pietro in politica, da oggi in poi bisognerà mettere il minestrone di Emanuele Macaluso. Davanti al quale Giuliano Amato fu per qualche ora candidato del centrosinistra alle elezioni del 2001 in cui poi invece, al suo posto, Francesco Rutelli andò incontro alla sconfitta. Quel giorno c’era anche Giorgio Napolitano, del tutto ignaro del destino che lo aspettava cinque anni dopo al Quirinale. Amato, come premier in carica, era pronto a guidare la coalizione; ma l’indomani, quando Veltroni gli comunicò che i sondaggi davano con molte probabilità il centrosinistra battuto, preferì ritirarsi. «Giuliano non è mai stato un combattente», annota Macaluso nel suo Politicamente s/corretto - La sinistra dalla Bolognina a oggi nel racconto controcorrente di un protagonista (Dino Audino Editore, pp. 95, € 9,90), una lunga intervista con Peppino Caldarola, piena di aneddoti e dettagli gustosi.
Gli anni dal ’93 a oggi sono stati ricostruiti finora soprattutto come quelli di Berlusconi. Questa invece è la storia di quel che accadde nell’altra metà del cielo. La tesi di Macaluso è che la fine del Pci, prima ancora che dalla caduta del muro di Berlino nel 1989, fu determinata dalla volontà di non scegliere di integrarsi nell’orizzonte del socialismo europeo. Passi, il rifiuto di una scelta come questa, dopo la morte di Berlinguer e il duello decennale tra Pci e Psi. Ma dopo la scomparsa di Craxi e del suo partito, perché il Pds, e poi i Ds, con tutti i leader da Occhetto a D’Alema a Veltroni a Fassino, si sono sempre rifiutati di schierarsi con i socialisti che governano in Europa?
La risposta che Macaluso si dà è legata alle sorti della destra comunista, la corrente amendoliana, «migliorista», di cui Napolitano è stato il leader, e che ha dovuto scontare una progressiva emarginazione, quasi un’espulsione, dal suo partito. C’è la vicenda della successione a Berlinguer, in cui prima lo stesso Napolitano, poi Luciano Lama, vengono scartati per richiamare in campo l’anziano Alessandro Natta. C’è una sorta di processo interno contro Macaluso, accusato, nella sua Sicilia in cui ha combattuto per decenni contro la mafia, di far parte di un’anima del partito compromessa in una rete d’affari con i boss e legata a quelli che sarebbero i mandanti interni dell’assassinio di Pio La Torre. È troppo. Macaluso il 20 giugno ’95 scrive a D’Alema, e annuncia la sua uscita dal partito. La lettera, pubblicata integralmente e rimasta senza risposta, documenta una forma di stalinismo sopravvissuto anche in tempi in cui il partito aveva abbandonato da tempo la definizione «comunista».
Da quel momento in poi comincia per l’autore una seconda vita di battitore libero della sinistra. Che mantiene peso intatto all’interno del suo campo. Si può consentire, in polemica con tutti, di difendere Andreotti e sostenere che andava processato «politicamente», e non «giudiziariamente» per i suoi rapporti con la mafia. Può condurre con più libertà la battaglia per la scelta socialista, che il partito continuerà a rifiutare. E a un certo punto viene invitato a un pranzo riservato in vista della nascita del Pd. A tavola ci sono lo storico Pietro Scoppola, senatore, storico e padre nobile della sinistra cattolica, e il cardinale Achille Silvestrini, che ai vertici della Curia sta dalla stessa parte. Gli spiegano che l’insistenza sulla natura laica della componente che viene dall’ex Pci rischia di compromettere la fusione con gli ex Dc. E per essere più chiaro, Scoppola spiega che in Italia un partito siffatto «non può non avere un rapporto particolare con la Chiesa cattolica». Tanto basta a Macaluso per restarne fuori. E a suo giudizio, per mettere il Pd nell’equivoco e nei guai in cui si trova ancor oggi.

Repubblica 8.11.12
Il tramonto della destra
di Marc Lazar


Il 2012 è caratterizzato dallo scacco subito da due figure, le più emblematiche della destra europea tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo: quelle di Silvio Berlusconi e Nicolas Sarkozy. Porre a confronto questi due uomini non significa certo considerarli identici su tutti i punti; al contrario. Le differenze sono legione. L’età: l’italiano è nato nel 1936, il francese nel 1955. La professione: il primo è uomo d’affari, il secondo avvocato. L’impegno nella vita politica: Berlusconi lo ha scelto tardivamente, aprendo un conflitto d’interessi senza precedenti, fonte di considerevoli tensioni nella vita italiana; mentre Sarkozy ha aderito giovanissimo al movimento neo-gollista. Il contesto italiano differisce da quello francese anche su molti altri registri: l’Italia è stata scossa, negli anni ’90, da uno tsunami politico che non ha l’equivalente in Francia; ma anche qui, sia pure con modalità diverse, c’è stata una crisi di rappresentanza. Diversa anche la storia dei rispettivi partiti. L’Ump (Union pour un mouvement populaire) è nata assai prima di Sarkozy, che tuttavia l’ha riplasmata a proprio vantaggio; mentre Berlusconi ha creato di sana pianta prima Forza Italia e poi il Pdl. La Repubblica italiana versa tuttora in una fase di transizione incompiuta ed estenuante, mentre la Francia è retta dalla Costituzione della V Repubblica che, nonostante difetti e critiche, si dimostra efficace. Infine, Berlusconi, a differenza di Sarkozy, ha sempre dovuto agire in seno a una coalizione.
Ciò nondimeno, i due uomini presentano numerosi tratti in comune, tanto da giustificare il termine di “sarko-berlusconismo”. Li accomuna innanzitutto il periodo della loro ascesa al potere: Sarkozy è eletto sindaco di Neuilly, contigua a Parigi, nel 1983, e quindi deputato nel 1988, ma la sua vera ascesa inizia nel 1993 quando, appena 38enne, viene nominato ministro del Bilancio. Da quel momento in poi è uno dei politici francesi più in vista, e sarà presidente della Repubblica dal 2007 al 2012. Berlusconi scende in campo nel 1994, e ossessiona letteralmente l’Italia per quasi 20 anni, al potere come all’opposizione. In secondo luogo entrambi hanno attuato nel campo della comunicazione un vero sconvolgimento, che Sofia Ventura ha analizzato bene nel libro
Il racconto del capo
(Laterza). E ciò non soltanto attraverso l’uso che hanno fatto dei media, in particolare della televisione; ma anche con la loro narrazione politica, il loro stile di provocazione permanente, l’abbattimento di molti tabù e lo stravolgimento dei codici e delle regole abituali della politica, personalizzandola a oltranza. L’uno e l’altro si sono sforzati di costruire un’egemonia culturale intorno a valori contraddittori: Europa e nazione, liberismo e protezionismo, modernità e tradizione, elogio del lavoro e celebrazione dei piaceri della vita. Entrambi hanno occupato un vasto spazio, dal centro ai confini della destra estrema, costruendo intorno a sé un blocco sociale, certo con alcune differenze legate alle caratteristiche di due società diverse,
ma con le stesse basi sociali: professionisti, autonomi, manager, ceti popolari, anziani, abitanti delle piccole e medie città, cattolici osservanti.
La loro irradiazione è stata reale, come il loro smalto e il prestigio di cui hanno goduto, sebbene al tempo stesso abbiano suscitato vivaci opposizioni. Come si spiega allora il declino di Berlusconi e poi di Sarkozy? La crisi finanziaria, e quindi quella economica, hanno scompaginato ogni cosa, facendo dilagare il disincanto tra i sostenitori dei due leader per le tante promesse non mantenute, e alimentando l’aspirazione al cambiamento. A dire il vero, il fatto che questi leader forti abbiano concentrato tutta l’attenzione sulla loro persona li ha esposti a un pericoloso effetto boomerang: oggi l’opinione pubblica li vede come i responsabili del deterioramento economico e sociale. In questo clima, l’incanto che avevano suscitato si è rotto.
C’è ora da chiedersi cosa ciascuno lascerà dietro di sé, sempre che la loro rinuncia alla politica sia reale – una decisione di cui si può dubitare, almeno nel caso di Sarkozy. Si manifesta qui una differenza di rilievo: in Francia l’Ump continua ad esistere, e rimane un’efficace macchina elettorale. Diverso il caso del Pdl, anche perché Berlusconi non voleva un partito solido, che col tempo avrebbe potuto fargli ombra. Ma l’ingombrante eredità dei due leader fa sentire comunque il suo peso su tre questioni fondamentali. La strategia: che posizione deve assumere la destra, con chi allearsi? La leadership: chi sarà il successore del capo e come esercitare la direzione del partito e della destra, con quale stile, in un momento in cui l’opinione pubblica è indubbiamente stanca di dirigenti tutto smalto e lustrini, e si aspetta personalità serie e competenti? Infine, e soprattutto, si pone il problema del futuro del sarkozysmo e del berlusconismo, cioè di forme di cultura politica più longeve di chi, a un dato momento, le ha generate e incarnate. Le idee, i valori, le proposte, lo stile e gli atteggiamenti di questi due leader hanno sedotto gli elettori, impregnando la società italiana come quella francese; e tutto ciò non scomparirà con un colpo di bacchetta magica.
È questa, peraltro, la sfida che la sinistra francese sta affrontando. François Hollande ha vinto le elezioni presidenziali, ma la sua politica è già criticata da una maggioranza di francesi e al momento il presidente si sta dimostrando incapace di costruire un altro progetto, di proporre un’altra narrazione. Stessa sfida per il Pd, oggi impegnato nelle sue primarie, che non deve illudersi di poter vincere meccanicamente le elezioni la primavera prossima, qualunque sia la legge elettorale prescelta.
Nel teatro della politica francese e di quella italiana, due dei principali attori sono usciti di scena; ma nessuno sa come andrà avanti il copione: è ancora tutto da scrivere. Un programma di vasta portata.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

l’Unità 8.11.12
La dittatura della tecnologia
Un’egemonia che deforma gli affetti, «uccide» il prossimo e ci fa male
di Luigi Zoja


Due le cause alla base dell’estraneazione contemporanea: l’anonimato della civiltà di massa e la tecnologia che rende gli esseri umani dipendenti, riducendo la loro capacità di comunicare

ATTRAVERSO UN PERCORSO SOTTERRANEO, UNIVERSALE E TRASVERSALE, CHE INVESTE OGNI POPOLO CON LA IPERMODERNIZZAZIONE, si è imposta a noi una nuova «dittatura»: una egemonia autoritaria non di certe forme politiche, ma di un universo economico e tecnologico che non ha precedenti in tutta la storia umana. Esso sconvolge e deforma i nostri affetti e le nostre relazioni con gli altri, le nostre emozioni e il controllo del nostro sistema neuronale.
La critica al consumismo esasperato ci dice da tempo che acquistando oggetti e progresso, la nostra attenzione è distolta dagli uomini, quindi riversata sugli acquisti e sulle cose. Negli ultimi anni, però, abbiamo anche appreso che la tecnica genera (ad esempio attraverso internet o i telefoni cellulari) rapporti prima inesistenti con chi è lontano, ma in cambio si porta via l’affetto per chi è vicino e ci svincola dalle responsabilità che esso comportava.
Due sono dunque le cause profonde e irreversibili che concorrono alla attuale estraneazione. La prima è l’anonimato della civiltà di massa.
Fino ad un secolo fa, la stragrande maggioranza della popolazione mondiale (ben più del 90%) era agricola: una condizione dominante anche nei paesi già allora più ricchi, in Nordamerica e in Europa centro-settentrionale. L’economia e la società erano fortemente locali: la maggioranza della gente viveva nello stesso luogo per tutta la vita (il fascino ambiguo del servizio militare stava in gran parte nell’essere uno dei pochi eventi che potevano portare lontano). E la maggior parte della popolazione conosceva solo 200, al massimo 300 persone in tutta la vita. L’animale uomo, del resto, si è evoluto durante gran parte della sua storia come nomade che vagava in piccole bande su territori quasi vuoti. Il suo sistema nervoso è dunque predisposto per riconoscere, memorizzare e accogliere positivamente un numero ben ristretto di volti.
VITA IN CITTÀ
Ma dal 2008, hanno detto le Nazioni Unite, più della metà della popolazione terrestre vive in città. È una svolta senza precedenti, più importante del passaggio dell’egemonia mondiale dagli Stati Uniti alla Cina. Anche la Cina sarà una breve comparsa sul palcoscenico delle epoche: altri protagonisti vi saliranno e scenderanno come è capitato all’Impero persiano e a quello di Alessandro, a Roma, alla Spagna e all’Inghilterra. La città, invece, dice l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite non cederà più il primato alla campagna.
Nelle città, l’individuo medio, che esce in strada, usa mezzi pubblici, visita uffici e supermercati, vede migliaia di nuovi volti anonimi: non durante la vita, ma ogni giorno. Il suo sistema nervoso, i suoi meccanismi (animali e naturali) di allarme di fronte agli sconosciuti, sono costantemente mobilitati: non se ne accorge solo perché si tratta di una condizione che non è particolare, ma permanente. Vive in un stato (strisciante, inconscio) di stress e diffidenza continui. Non sorride più riconoscendo i volti, come facevano i suoi antenati nel villaggio. Per riconoscere volti, accende la televisione. I sorrisi, artificiali e anonimi, di attori e presentatori che non ha mai incontrato, gli sono noti: sono la sua famiglia, tecnologica e preconfezionata.
Il secondo fattore di distanza e perdita del prossimo è infatti la tecnologia.
La tecnologia ha fatto cose meravigliose che moltiplicano le possibilità di interagire con gli altri. Già da tempo, però, è stato lanciato l’allarme: gli uomini non sono capaci di usarla, ne divengono dipendenti come da una droga e perdono la capacità di comunicare anziché arricchirla. A questo fenomeno è stato dato il nome di «Paradosso di internet». Più recentemente, pubblicazioni scientifiche ci hanno fornito dati concreti. Nel ventennio 19872007 le ore quotidiane che il cittadino inglese medio trascorre davanti a mezzi di comunicazione elettronici sono passate da 4 a circa 8. Nello stesso periodo, quelle trascorse comunicando con persone reali sono scese da 6 a poco più di due.
Tutto questo è morboso in ogni senso. È ingiusto, ci suggerisce istintivamente ogni morale laica o religiosa. È dannoso psicologicamente, come ho cercato di argomentare in un breve saggio sulla Morte del prossimo. Ma è anche così innaturale per il nostro corpo da costituire un grave fattore patogeno: la sostituzione dei contatti sociali con quelli elettronici può, per esempio, favorire alterazioni nei leucociti e diminuire la resistenza ai tumori.
Secondo la Scuola di Medicina di Harvard, nelle persone di oltre 50 anni socialmente isolate la perdita di memoria avanza a velocità doppia rispetto a quelle integrate. E così via.
In simili condizioni, ci abituiamo sempre più a recitare le relazioni umane e affettive, così come ce le propongono già confezionate i mass media, anziché relazionarci veramente. Avendo osservato l’accelerarsi di questi fenomeni negli ultimi decenni, avendone misurato le conseguenze devastanti sui propri pazienti, uno psicoanalista quale sono di professione si è permesso di uscire dal suo ambito e rivolgere una domanda a teologi e filosofi.
Per millenni, un doppio comandamento ha retto la morale ebraico-cristiana: ama Dio e ama il prossimo tuo come te stesso. Alla fine dell’ottocento, Nietzsche ha annunciato: Dio è morto.
Passato anche il Novecento, non è tempo di completare quella affermazione? È morto anche il prossimo. Abbiamo perso anche la seconda parte del comandamento perché non abbiamo più esperienza di una verità che ci era trasmessa dalla tradizione giudeo-cristiana. Tanto in ebraico nel Levitico, quanto in greco nei Vangeli, prossimo significava: il tuo vicino, quello che vedi, senti, puoi toccare. Nella complessità delle tecniche e della società urbana l’esperienza della vicinanza sembra sparire per sempre.

Chi è l’autore
Psicoanalista e scrittore di fama internazionale

Luigi Zoja è uno psicoanalista di fama mondiale, ha studiato al Carl Gustav Jung Institute di Zurigo. È stato presidente dell'International Association for Analytical Psychology e presidente dell'Associazione Internazionale di Psicologia Analitica. Ha vinto due Gradiva Award. Scrittore prolifico, ha pubblicato numerosi saggi: «Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre» (2000), «Storia dell'arroganza» (2003), «Giustizia e Bellezza» (2007), «Contro Ismene. Considerazioni sulla violenza» (Bollati Boringhieri 2009), «La morte del prossimo» (Einaudi, 2009), «Centauri. Mito e violenza» (Laterza 2010), «Paranoia. La follia che fa la storia» (Bollati Boringhieri 2011), «Al di là delle intenzioni. Etica e analisi» (Bollati Boringhieri 2011)

«Il tramonto dell’Occidente» Un forum a Cagliari
Da venerdì a domenica Cagliari sarà teatro del «Tramonto dell’Occidente. Leggere la crisi nel confronto tra letterature», forum realizzato dai Presìdi del Libro della Sardegna che si propone di riflettere sul momento storico che stiamo attraversando per confrontarsi sulla crisi economica e di pensiero, morale e sulle alternative possibili. A partire dell’idea che non viviamo solo una crisi, ma forse la fine di un mondo. Il forum si apre con la sezione «Identità in viaggio»: l’Occidente visto dall’Altrove raccontato da scrittrici e scrittori. Seguiranno «Il tramonto del paesaggio»: a partire da una riflessione di Pier Paolo Pasolini, addetti ai lavori parleranno del paesaggio in quanto specchio della contemporaneità e «Società e individui nella crisi: miti dei nostri giorni» dedicato all’evoluzione delle relazioni e dei miti propri nell’era del Villaggio Globale. Il forum si chiude con il tema «Strategie per sopravvivere»: per passare dagli approcci più pragmatici che ci consentono di decifrare economie enigmatiche, alle alternative energetiche, fino a toccare temi urgenti come gli scenari politici globali e il rapporto tra imprese e lavoratori. Numerosi gli ospiti, tra i quali Giulietto Chiesa, Mauro Covacich, Paolo Di Paolo, Ugo Mattei, Marino Niola, Roberta Torre, Giorgio Vasta, Massimo Venturi Ferriolo, Ornela Vorpsi, Luigi Zoja, del quale pubblichiamo in questa pagina un brano del suo intervento.

Repubblica 8.11.12
L’anima della finanza
Il provocatorio saggio di Shiller in difesa dei banchieri ha creato molte discussioni
I paradossi dell’economia dalla parte di Wall Street
di Maurizio Ferraris


Per Schiller (con la c) l’uomo è veramente uomo solo quando gioca, per Shiller (senza c) solo quando gioca in borsa. In Finanza e società giusta (il Mulino) Robert J. Shiller, che insegna economia a Yale, difende la moralità della finanza in un mondo che non l’ha mai amata, e che ora la ama meno che mai.
L’impresa è importante: una finanza screditata non è mai una buona cosa, come si è potuto verificare nella crisi del ’29, quando la rivolta contro i “Banksters” (Bankers + Gangsters) fu una delle origini dei movimenti di estrema destra che culminarono nel nazismo. Tuttavia Shiller, già autore degli Spiriti animali, adotta una strategia quasi provocatoria: la finanza non persegue il profitto, è una attività artistica che «permette di sfogare l’aggressività in modo sostanzialmente costruttivo e senza perdite di vite umane». Di colpo invece che in un saggio, ci si sente subito nel duetto tra Zerlina e Don Giovanni: “Io so che raro / colle donne voi altri cavalieri / siete onesti e sinceri”. “È un’impostura / della gente plebea! La nobilità /ha dipinta negli occhi l’onestà”. E proprio questo rende la lettura sorprendente: si scopre l’altro lato del mondo. Di chi lo guarda dall’alto e pensa che tanto più si rischia e si fa rischiare, tanto più l’economia ne trarrà vantaggio.
La fenomenologia delle figure economiche incomincia con gli amministratori delegati e si conclude con i filantropi, non a caso perché l’assunto è che la finanza sia essenzialmente filantropia: «Si trae piacere dal realizzare un prodotto pregevole o dall’aiutare i clienti, dal dare un lavoro ai dipendenti». Ma allora perché gli amministratori delegati sono pagati così tanto? Shiller risponde: «Gli amministratori delegati di solito non sono particolarmente amati o popo-lari, con poche eccezioni. Quindi, una remunerazione elevata è il miglior modo di attrarre candidati qualificati per questo compito».
Perché sono così impopolari?
Per via delle calunnie dei media. E comunque la crescita dei compensi dipende dal «miglioramento del nostro sistema capitalistico, che è giunto a riconoscere l’importanza di leader qualificati». Che dunque la sproporzione tra il pagamento degli operai e quello degli amministratori delegati sia infinitamente superiore a decenni fa deve essere visto non come un inaccettabile aumento delle disuguaglianze ma come un progresso dell’umanità nel suo insieme. E, chiosa Shiller, questo è il motivo per cui un gruppo di consulenza di cui fa parte «ha ammonito il governo a non emanare regole in materia di remunerazione degli ammini-stratori delegati».
Ma come avrà fatto questa casta di maschi alfa a sbagliare così di grosso, per esempio in tema di mutui? «Perché hanno operato sulla base della congettura errata che le agenzie di rating fossero infallibili». Ora, pensare che una qualsiasi istituzione umana sia infallibile non è proprio sensato, ma aiuta a vedere come i ragionamenti possano essere ribaltati. Infine ci sono i Trader che «suscitano il risentimento maggiore, dal momento che essi non si presentano come operatori che aiutano la società in modo diretto». Eppure, prosegue Shiller, il loro operato «rende i mercati finanziari più rappresentativi delle nostre esigenze », permettendo con ciò di «far avanzare gli obiettivi principali del movimento Occupy Wall Street». Per parte loro, i market designer «umanizzano la finanza e la rendono più rilevante per il benessere umano».
Ora è evidente che queste, dati i risultati degli ultimi anni, sono tutte affermazioni difficili da condividere: si tratta di una sorta di utopismo finanziario che ha creato molto dibattito negli Usa, poiché come ha scritto il New York Times, ecensendo il libro, «Shiller non pensa di dover contenere la finanza, ma di realizzarla». E questo è il punto chiave. Nell’antropologia tratteggiata dal volume, il solo genere nocivo sono i professori, su cui grava una buona fetta di responsabilità della crisi: «Gli errori commessi dai docenti nei decenni passati sembrano avere svolto un ruolo importante nella grave crisi finanziaria». La nocività cresce in maniera proporzionale all’allontanarsi dal centro della finanza, culminando forse nelle vittime della crisi economica, perché ovviamente senza quelle vittime nessuno sarebbe autorizzato a criticare la finanza. E qui si arriva all’ultimo punto delle tesi estremistiche di Shiller: all’inizio del ’900 alcuni credettero che la guerra avrebbe portato ricchezza e, soggiacendo a questa illusione fatale, si è andati incontro a una catastrofe; all’inizio del 2000 altri si sono illusi che fosse conveniente truffare le persone, per esempio concedendo mutui insolvibili o inducendole a comprare titoli spazzatura, ed è stata un’altra catastrofe.
L’analogia con la guerra fa pensare. Perché è indubbio che le illusioni danneggiano, ma intanto è più responsabile chi queste decisioni le prende, cioè i generali e i banchieri, e non chi le subisce, magari consapevolmente ingannato, cioè i soldati e i clienti. E soprattutto il rischio di chi prende le decisioni è minimo rispetto a quello di chi le subisce: come il generale difficilmente morirà in battaglia, così il banchiere difficilmente finirà sotto un ponte. Ed è forse questo il lato più debole del libro. Perché se è vero che ci rivela cose che conosciamo pochissimo (da quanti avvocati ci sono nel mondo, al profilo degli assicuratori fino a una storia dei mutui) è anche vero che nella necessità di giustificare la finanza l’autore passa dal ragionamento alla visione. Fino a incitare i giovani idealisti a fare carriera nell’ambito dei derivati.

Repubblica 8.11.12
La filosofia risponde
Da domani con “Repubblica” la collana a cura di Maurizio Ferraris
Le parole chiave spiegate dai classici del pensiero


Ha scritto Musil in L’uomo senza qualità: «Oggi solo i criminali osano nuocere al prossimo senza filosofia». L’obiettivo di questi volumi a cura di Maurizio Ferraris è più modesto e sperabilmente meno nefasto: scegliere alcune domande ricorrenti nella vita di tutti, e cercare di mostrare come sono state articolate dai filosofi, sia attraverso una ricostruzione tematica e argomentativa (dovuta a Lauro Colasanti, Mario De Caro, Piergiorgio Donatelli, Paolo Fait, Maria Laura Lanzillo, Massimo Marraffa, Stefano Velotti e grazie a Laterza editore), sia attraverso una scelta antologica (con il sostegno di Alex Cambiaghi e Silvia Margaroli) che spazia tra filosofia e letteratura, ovviamente intendendo “letteratura” in senso estensivo, ossia con documenti storici e politici, oltre che con versi e opere di finzione.
Con questo lavoro abbiamo cercato di far sì che la filosofia mostrasse almeno due dei suoi volti. Quello – per esprimersi con i termini della psicologia settecentesca – di una disciplina di ragionamento che cerca di sviluppare l’acumen, la capacità di vedere le differenze in cose apparentemente uguali, e quella di una prospettiva culturale che cerca di promuovere l’ingenium, la capacità di cogliere somiglianze in cose, epoche, fenomeni e problemi apparentemente diversi o addirittura antitetici.
Perché la filosofia è molte cose ma, come si ricorda nel volume conclusivo, richiamandosi a un celebre passo di Hegel, la filosofia è anzitutto un lavoro, nel senso che non è una illuminazione soprannaturale o geniale (nessun filosofo di buon senso inizierebbe un suo saggio con “Cantami o diva”), bensì un manufatto artigianale o quantomeno una pratica che si acquista con l’esercizio, come avviene con qualunque altra pratica o abilità.
Al tempo stesso, come diceva questa volta Borges, la filosofia è un ramo della letteratura fantastica. Sembra una boutade ma è vero. La filosofia deve necessariamente confrontarsi con il reale, ma inserisce questo reale in un grande universo di possibili. Questa, se vogliamo, è la sua vera differenza rispetto alla scienza. Ma anche la sua grande vicinanza alla vita, in cui, magari senza accorgercene, ci misuriamo continuamente con il possibile, in particolare quando facciamo valutazioni o, se va male, recriminazioni («avrei potuto agire altrimenti»).
E proprio perché ci misuriamo ogni giorno con questi problemi è meglio non affrontarli a mani nude: la logica che ci insegna come ragionare, l’etica che ci suggerisce come agire, la storia che ci racconta come sono andate le cose nel mondo reale, la letteratura che immagina come andrebbero in mondi di finzione, e la filosofia che è un po’ di tutto questo.

Repubblica 8.11.12
Secondo i dati Ads di settembre, il quotidiano è in testa e sfonda il tetto delle 400 mila copie in abbinamento con il Venerdì
Repubblica conferma il primato in edicola


ROMA — Repubblica conferma il suo primato in edicola. Anche nel mese di settembre, il quotidiano diretto da Ezio Mauro è in testa alla classifica dell’Ads (Accertamenti Diffusione Stampa) con 348 mila 40 copie vendute in media ogni giorno in edicola. Sono oltre 11 mila copie in più del diretto concorrente, il Corriere della Sera, che a settembre si ferma a 336 mila 822 copie (sempre nel canale distributivo delle edicole). In abbinamento con il settimanale Il Venerdì, il quotidiano Repubblica sfonda il tetto delle 400 mila copie e si attesta, in edicola, a 406 mila 531. Sul fronte dei giornali sportivi, la Gazzetta dello Sport (nella edizione del lunedì) è a 290 mila 584 copie, mentre il Corriere dello Sport (stesso giorno) è a 209 mila 445 di venduto. Al terzo posto, il quotidiano torinese Tuttosport che supera il tetto delle 108 mila copie. Nell’informazione politica generale, la Stampa è a quota 211 mila 258, seguito dal Sole 24 Ore, organo della Confindustria, che è 127 mila 335 copie in edicola e supera il Resto del Carlino (121 mila 041). A seguire, la Nazione con 101 mila 041 copie. Tra gli organi della destra, Libero ha un venduto di 54 mila 830 copie, mentre il Giornale gira a 107 mila 779. Nella galassia del Gruppo Editoriale l’Espresso, si registra la performance del quotidiano Il Tirreno che vende 63 mila 863 copie ogni giorno in edicola (è sempre un valore medio). Segue La Nuova Sardegna, a quota 51 mila 031. Ecco poi il Messaggero Veneto, con 44 mila 990 copie; il Piccolo di Trieste con 30 mila 11; il mattino di Padova con 23 mila 956; infine la Gazzetta di Mantova con 22 mila 130.

mercoledì 7 novembre 2012

Si “ringrazia” il catto-radicale “cicciobello” ex piddì Rutelli...
l’Unità 7.11.12
Legge trappola, blitz Pdl-Udc in Senato
Bersani: ci temono, vogliono fermarci
Premio solo a chi supera il 42,5% e tre preferenze che penalizzano le donne
L’ultima possibilità
di Claudio Sardo


In commissione al Senato ieri è accaduto il peggio. Il Pdl, sostenuto da Lega e Udc,ha votato emendamenti al Porcellum che hanno il senso di una provocazione, se non di un disprezzo verso le istituzioni.
Ha fissato, con una forzatura, al 42,5% la soglia oltre la quale far scattare il premio di maggioranza alla coalizione più votata, e si è ben guardato dal prevedere istituti capaci di evitare un’ulteriore spinta alla frammentazione politica. Il Pdl non è apparso minimamente interessato a ragioni di sistema: l’obiettivo è mettere ostacoli, se non rendere proibitivo, un governo a guida Pd. Non pago di aver fatto tutto questo in spregio di ogni possibile intesa, non pago neppure delle sue colpe passate (perché è bene ricordarlo il Porcellum che umilia l’Italia venne approvato sei anni fa dalla stessa maggioranza che ieri lo ha corretto peggiorandolo), il Pdl ha pure deciso di aumentare il numero delle preferenze in modo da vanificare la norma sull’uguaglianza di genere, e colpire così la rappresentanza delle donne in Parlamento.
Il voto in commissione ora va riparato in aula. La correzione è assolutamente necessaria, sulla base di un consenso ampio. Perché non si può votare con il Porcellum. E non si può accettare una violenza come quella perpetrata ieri a Palazzo Madama. Ma occorre che la macchina dello sfascio si fermi. E che si fermi subito. Perché se la riforma elettorale dovesse essere approvata in questo modo, sarebbe la vittoria del «tanto peggio tanto meglio». Il Pdl ucciderebbe la riforma elettorale come già ha ucciso quella costituzionale, imponendo a colpi di maggioranza il suo semi-presidenzialismo che aveva il solo scopo di impedire un rafforzamento del ruolo del Parlamento e una maggiore efficacia dell’azione di governo.
Chi scherza col fuoco non si rende conto che il fallimento di questa riforma per quanto distante dai sentimenti dei cittadini, visto l’estremo tecnicismo di alcune norme rischia di essere la goccia che fa traboccare il vaso della sfiducia verso la politica, e verso la stessa democrazia. Chi pensa di trarre vantaggio dal permanere del Porcellum, la legge più screditata e invisa agli italiani, non comprende che l’onda del discredito può travolgere la stessa speranza di riscatto del Paese.
Una soluzione è stata posta sul tavolo: è il cosiddetto lodo D’Alimonte. Si fissi pure la soglia per la coalizione al 42,5% ma, nel caso il premio di maggioranza non dovesse scattare, si attribuisca al partito più votato un premio limitato in seggi (il 10% netto) in modo da favorire una coalizione parlamentare attorno al leader che gli elettori hanno comunque preferito. Accade così in tutti i sistemi parlamentari dell’Europa, qualunque sia il concreto meccanismo elettorale. Perché non deve accadere anche da noi? Perché dobbiamo restare in questa condizione di inferiorità che ci siamo inflitti? Benché il Pdl sembri agitarlo solo per ragioni strumentali (avendo sempre sostenuto il contrario), si può accogliere l’argomento in base al quale l’attuale premio di maggioranza va delimitato. Nei sistemi fondati sull’uninominale-maggioritario (come la Gran Bretagna e la Francia) il premio «di fatto» può addirittura raddoppiare il consenso del partito vincitore: ma in un sistema come il nostro, dove la rappresentanza proporzionale resta comunque un valore (basti pensare alle nomine parlamentari degli uffici di garanzia, a cominciare da quello supremo, il Capo dello Stato), è ragionevole cercare una misura condivisa. Se però si stabilisce che possa godere di una maggioranza del 55% dei seggi solo chi riceve almeno il 42,5% dei consensi, allora bisogna prevedere altri istituti che favoriscano la formazione di governi coerenti ed efficaci (e non paralizzati da coalizioni lunghe e litigiose).
Se restasse solo la soglia minima per il premio di maggioranza, la legge diventerebbe ancora più mostruosa: la disaggregazione e la frantumazione verrebbero addirittura incentivate, perché tutti coloro che non possono vincere punterebbero sul successivo negoziato parlamentare, ovvero sul trasformismo e sull’instabilità. Sarebbe peggio della prima Repubblica. Un premio misurato, ma non marginale, al primo partito invece fornirebbe una spinta contraria. Premierebbe l’aggregazione. Creare un partito grande diventerebbe per la prima volta dopo vent’anni un vantaggio, e non una penalizzazione. Tutti sarebbero spinti a comportamenti trasparenti, perché l’obiettivo elettorale resta la conquista della maggioranza. Ma gli elettori avrebbero finalmente il potere decisionale anche sulle coalizioni di governo. In ogni caso, se la soglia del 42,5% non si raggiunge, toccherà al leader del partito più grande formare il governo con chi gli è più vicino. E le grandi ammucchiate non converranno mai al primo partito.
Abbiamo poco tempo. E, forse, una sola soluzione disponibile. Se il Pdl prosegue sulla strada della rottura, compirà un delitto ai danni del Paese. E chi lo asseconda ne sarà corresponsabile.

La Stampa 7.11.12
L’ira di Bersani “Casini non vuole farci vincere”
D’Alema a Montecitorio: niente colpi di mano se no si rischia di lasciare il sistema attuale
di Carlo Bertini


«Se non si raddrizza la situazione, vuol dire che voteremo con il sistema attuale, non credano di cambiarlo così con un colpo di mano... ». Malgrado la legge dei numeri in entrambi i rami del Parlamento fotografi una realtà diversa, il gelido avvertimento pronunciato in Transatlantico da Massimo D’Alema rende bene l’idea di quale sia la posta in gioco dopo il blitz di ieri. Che per Bersani porta dritto dritto ad un sistema che porta al pareggio e «impedisce la governabilità». E l’umore nei confronti di Casini di tutto il vertice del Pd si può ben intuire dal pensiero espresso a voce alta da un altro dei pezzi grossi, «è chiaro che Pier non vuole farci vincere, questo è un atto contro di noi». Condiviso a quanto pare dal leader Pd che a questo punto si aspetta «tanti altri sgambetti da qui alle elezioni... ». Va da sè che anche la Bindi non sia affatto tenera, «se nessuno conquista la maggioranza dei seggi, “loro” ci sguazzano. Ma si illudono, perché noi Vendola non lo possiamo lasciare a spasso». Nei capannelli alla Camera tutti si interrogano sulle intenzioni del leader Udc e la Velina Rossa vicina agli ex Ds mette nero su bianco il sospetto che Casini voglia far tornare Monti al governo, «altrimenti sarebbe il principale concorrente nella corsa al Quirinale».
Tenendo a freno la lingua, Bersani prima dice che «così non va, noi non ci stiamo, il paese va governato» e poi ricorre a twitter per lanciare un siluro contro quel «qualcuno» che «teme che governiamo noi... ». Concetto forse riferito non solo a Casini, anche se i protagonisti del tranello sono gli stessi che ordirono nel 2005 la trappola del porcellum: «Fatta apposta - ricorda la Bindi - per costringerci all’Unione di 12 partiti che finì come si è visto, non vogliono farci governare». Uno dei colonnelli Pd con più voce in capitolo, fa notare che «c’è un larghissimo arco di forze che per motivi diversi non vuole farci vincere. Pdl e Lega per limitare i danni non vogliono che venga assegnato il premio, l’Udc e i centristi lo stesso perché vogliono arrivare al Monti bis». Ma sono sterili le considerazioni sul fatto che «loro hanno forzato perché sanno di avere le spalle coperte dal Colle sulla soglia per avere il premio» e che «questo è solo un voto in commissione e non è la legge definitiva». Perché anche alla Camera la vecchia maggioranza i numeri li ha e se cadessero nel voto segreto le preferenze si rischierebbe «la beffa che a quel punto restino le liste bloccate senza che nessuno ottenga il premio di maggioranza, l’unica cosa buona del Porcellum». E per capire quale sia la portata di questa norma appena votata, ci pensa D’Alema a spiegare che fissare una soglia per il premio rende il sistema ancora più proporzionale: perché le liste minori sono invogliate a non coalizzarsi andando per conto proprio. Per questo il Pd sposa il «lodo D’Alimonte» per concedere un «premietto» del 10% al partito maggiore che invogli all’aggregazione. Ieri mattina dopo un vertice ai massimi livelli con Bersani, il Pd aveva lanciato un amo per trattare sulla soglia al 40% e introdurre il «premietto» al primo partito. Ma la rottura inaspettata fa suonare solo i tamburi di guerra. Anzi, «guerra totale»: per far capire che il Porcellum ai centristi non conviene visto che sarebbero poi costretti a dividersi i 270 seggi alla Camera con Lega, Pdl, Idv, Grillo...

il Fatto 7.11.12
Legge elettorale. Urlano contro Grillo per fermare Bersani
Accordo Pdl-Lega-Udc e volata lanciata a Monti: premio a chi supera il 42,5%
I Democratici non ci stanno
di C.Pe.


L’attacco è arrivato da lontano, dall’estremo Oriente. Ha aspettato di atterrare dall’altra parte del mondo, Mario Monti, per richiamare all’ordine i senatori sulla legge elettorale, dopo aver a lungo conversato con il Quirinale, fin qui inascoltato dal Parlamento. E come ogni buon maestro che si rispetti, ha dato un aut aut ai suoi allievi: o la legge la cambiate voi, o la cambio io, con un decreto. “Tecnicamente – ha detto Monti – il governo potrebbe intervenire, ma è auspicabile che siano i partiti a cambiare l’attuale sistema di voto”.
É BASTATA mezza giornata perché, fiutata l’aria, i partiti si riorganizzassero. In commissione Affari costituzionali a Palazzo Madama, dove la bozza di riforma si era arenata, Pdl, Lega e Udc hanno approvato con un blitz un emendamento proposto da Francesco Rutelli: soglia del 42,5% perché la coalizione vincente possa incassare il premio di maggioranza del 12,5%. Il Pd è stato preso alla sprovvista ed è l’unico che ha qualcosa da perderci. Un’alleanza tra i democratici e Sel è stimata al 35-37%. Nella migliore delle ipotesi può raggiungere il 40%, mentre la soglia più alta è un’utopia per chiunque. Ma se nessuno raggiunge il premio, nessuno può governare il Paese. Tranne uno, ovviamente: Ma-rio Monti. Lo stesso che ieri mattina ha chiesto una modifica urgente della legge, salvo farla lui stesso. “Sia chiaro – ha risposto il segretario Pier Luigi Bersani – che se ci si ferma a oggi noi non ci stiamo. Non per noi ma per l’Italia. Questo impianto va profondamente aggiustato”. Nessuno pensi, è l’avvertimento del Pd, di introdurre arbitrariamente un metodo che porti al pareggio come viatico al Monti bis. Il premier in carica è l’unico che potrebbe provare a guidare un paese senza maggioranza. Ed è l’unico vero sfidante di Bersani, senza bisogno di fare primarie o presentarsi alle elezioni.
Ma la scusa addotta dai promotori della modifica è un’altra: abbiamo paura di Beppe Grillo. Fino a qualche giorno fa nessuno l’avrebbe confessato, nel timore degli attacchi da parte del comico genovese. Ma se i nemici da battere diventano due, allora meglio attaccare quello sulla carta più debole (Grillo) per uccidere anche l’altro (Bersani). “Una soglia significativa è la condizione base per evitare avventure – ha dichiarato Rutelli – in Sicilia il primo partito è stato quello di Grillo e la prima coalizione quella di centrosinistra. Occorre una soglia alta per avere un premio di maggioranza per governare, altrimenti il rischio è che il primo partito che ottiene il premio è Grillo. Ed è un rischio molto alto”. Insomma, guai far governare chi vince le elezioni. Meglio approvare un proporzionale corretto (con premio alla coalizione del 12,5% vincolato al raggiungimento del 42,5%, preferenze e soglia di sbarramento al 5%) per frammentare a dovere l’offerta politica e restituire ai centristi il loro ruolo di ago della bilancia, scippato dal sistema bipolare. L’Idv si è allineata al no del Pd, quasi a voler tendere la mano nella speranza che si riapra la possibilità di un’alleanza. Per Pier Ferdinando Casini “il testo è migliorabile. Bisognava trovare un punto, altrimenti non se ne usciva”. E a proposito della contrarietà del Pd osserva: “Ci sono reazioni di facciata e altre di sostanza. A me interessano le seconde”. Poi aggiunge che la decisione non ha nulla a che vedere con il Monti-Bis: “Cosa c’entra questo? ” chiede.
A RISPONDERGLI ci pensa Arturo Parisi: “Se di fronte alla reazione del Pd, Casini, che di Bersani e D’Alema è da sempre il principale alleato, dice che ‘ci sono reazioni di facciata e reazioni di sostanza’ è perchè ha le sue ragioni. Ho tuttavia paura che la vicenda della legge elettorale che Casini descrive come una commedia vada volgendo pian piano verso la tragedia. Quello che ancora non è chiaro è se ci si è alleati con l’Udc per tornare al passato, o se si torna al passato per allearsi con l’Udc”. L’unico punto di contatto tra Pd e Pdl è l’ipotesi che il relatore Lucio Malan presenti a suo nome una modifica come quella proposta da Roberto D’Alimonte, ovvero l’aggiunta alla soglia già votata del 42,5% un “premietto” di aggregazione al primo partito. Ma manca ancora l’accordo sulla percentuale. E le possibilità di dialogo si assottigliano sempre di più allungando la vita al Porcellum.

il Fatto 7.11.12
L’intervista: Matteo Orfini
“Con Casini c’è un problema”


Risponde al telefono dall’automobile. “Un attimo che accosto, ero a un incontro a Narni, ora sto andando a Umbertide, il novantesimo appuntamento pubblico in centodieci giorni”. Non si risparmia Matteo Orfini, responsabile Cultura e informazione del Partito democratico, nella sua campagna elettorale a favore di Pier Luigi Bersani. Ma la corsa verso Palazzo Chigi del segretario potrebbe subire uno stop se modificassero la legge elettorale.
Orfini, c’è un accordo per far fuori Bersani?
Di certo c’è un netto segno di irresponsabilità. Nel momento di massimo distacco dei cittadini dalla politica, invece di riconoscere l’esigenza di cambiare la legge partendo dagli interessi del Paese si fanno interessi di parte.
Quale parte?
Quella di chi, ogni volta che rischia di perdere, cerca di limitare la sconfitta.
Questa volta l’iniziativa non è guidata solo da Pdl e Lega, ma anche dai potenziali alleati dell’Udc.
È evidente che c’è un vulnus politico. Non solo nei confronti del Pdl da cui ci aspettiamo un passo indietro per continuare a dialogare, ma l’Udc sta facendo un grave errore.
Bersani ha detto basta dialogo sulla legge. È uno stop anche all’alleanza con Casini?
Anteporre gli interessi di parte a quelli del paese non fa onore a Casini. Siamo tutti chiamati alla responsabilità e alla soluzione della crisi con un dialogo tra progressisti e moderati, ma se si dimenticano di esserlo, per fare accordi con i “genitori” del Porcellum, si crea un grave problema.
Con questa legge vi conviene fare una nuova Unione per andare al governo, recuperando quel che resterà dell’Idv e dei movimenti?
Se fosse approvata chiederemo agli elettori di darci la forza di raggiungere quota 42,5% con la coalizione con cui ci siamo impegnati programmaticamente, quella che sta facendo le primarie, senza costruire baracconi inutili.
E l’Api, promotrice dell’emendamento, presente alle primarie con Bruno Tabacci?
Tabacci si presenta come personalità indipendente del centrosinistra, non esiste nessuna alleanza con il partito di Rutelli. Il Pd non è un hotel con le porte girevoli. Chi ha fatto scelte diverse sia coerente.
Rutelli ha detto che non ce l’ha con Bersani, l’innalzamento del premio è contro Beppe Grillo.
Sono comportamenti che non fanno altro che amplificare la forza del messaggio di Grillo. Lucrare vantaggi senza avere consensi crea solo frammentazione e ingovernabilità.
Non sarà una legge “ad personam” per Mario Monti?
Se il paese è ingovernabile lo è per chiunque, anche per lui. Non gli serve una maggioranza che metta veti su tutto. Con questa ipotesi si produce un proporzionale puro, senza i correttivi che esistono in tutti i paesi moderni, che darà solo frammentazione e proliferazione di liste e partiti per evitare che qualcuno raggiunga il premio.
La legge è ancora al Senato, è possibile che la Camera l’affossi?
Noi speriamo di no e auspichiamo un passo indietro di Pdl e Udc e la riapertura della discussione sulla base di un ragionamento serio e di un premio che garantisca la governabilità.
Il deputato democratico Roberto Giachetti, dall’alto dei suoi 65 giorni di sciopero della fame, è convinto che si rivoterà con il Porcellum.
Qualora ci fosse ancora quella legge sarà necessario fare le primarie per scegliere i candidati senza nominarli dall’alto. Il Pd è l’unico partito che ha deciso di farlo, neanche Grillo, che si riempie la bocca di democrazia diretta, l’ha ancora annunciato.
Ci sarà il Porcellum se si voterà anticipatamente. Lei non è mai stato contrario.
Ho detto che non è un’eresia, ma spero che questo governo arrivi a fine legislatura.
Chi sarà il prossimo presidente del Consiglio?
Bersani, naturalmente.

Repubblica 7.11.12
E Pierluigi ora si sente sotto assedio “Pier ha fatto partire il treno del Monti-bis”
Il capo centrista: sarò determinante. Ipotesi soglia al 40% e premio al 10
di Francesco Bei


ROMA — Dopo la rottura di ieri un nuovo accordo è in vista tra centristi e Pd. Si tratta di far scendere al 40% la soglia oltre la quale scatta il premio di maggioranza, garantendo comunque un “premiolino” del 10 per cento al primo partito in caso la coalizione non vinca il “premione”. Tradotto, l’alleanza fra il Pd (30%) e Sel (5%) non potrebbe governare da sola, non raggiungerebbe il premio e avrebbe comunque bisogno dell’apporto della “Lista per l’Italia” di Casini e Fini per formare una maggioranza. Spalancando così le porte a un Monti-bis. Grazie al “premiolino” la coalizione dei progressisti potrebbe però consolarsi alla Camera con il 45% dei seggi (35%+10% regalati ope legis).
Se questo è il compromesso che si profila, per capire cosa è successo ieri a palazzo Madama — la prima vera frattura strategica fra Casini e Bersani — bisogna tuttavia fare un passo indietro. Illuminando il patto segreto che Massimo D’Alema e Pierluigi Bersani avrebbero proposto nei giorni scorsi in alcuni colloqui riservati con i principali leader politici. Un patto per garantire i numeri della maggioranza futura e gli assetti di vertice della Repubblica. Anche il capo dello Stato ne sarebbe stato informato, così come il premier. La sostanza dell’accordo, naufragato ieri, ruotava su due cardini: mantenere il premio di maggioranza così com’è congegnato nell’attuale legge elettorale e, in
cambio, assicurare il sostegno del Pd all’elezione di Mario Monti al Quirinale. Mentre la presidenza della Camera sarebbe andata a Pier Ferdinando Casini
e quella del Senato ad Anna Finocchiaro. «Al posto di un pastrocchio che ci farebbe perdere l’unica cosa positiva dell’attuale legge, ovvero la garanzia della governabilità, forse — è stata la sostanza del ragionamento fatto a Casini e agli altri dal leader Pd — tanto varrebbe tenere in piedi l’attuale impianto».
C’è questo dietro la baraonda di ieri in commissione affari costituzionali al Senato. Perché la possibilità di mantenere in vita il Porcellum — con l’autosufficienza della futura maggioranza Pd-Sel — ha allarmato non poco tutti gli altri protagonisti. Provocando una reazione immediata di rigetto. Senza contare che Mario Monti, che nel disegno
del Pd dovrebbe traslocare al Quirinale per lasciare il posto a Bersani, non è affatto entusiasta della prospettiva. «Non so se quello è il posto dove posso essere utile — aveva spiegato il premier nei giorni scorsi — non so se sono adatto». Insomma, il corto circuito è stato totale e i sospetti reciproci hanno provocato l’isolamento in cui si è trovato ieri il Pd. La rottura infatti è stata vera e inaspettata. Dario Franceschini, che ha partecipato alla riunione mattutina con Bersani, Zanda e Violante per definire le ultime mosse, racconta così la doccia fredda: «Avevamo fatto sapere a Udc e Pdl che eravamo disposti a trattare su una soglia minima oltre la quale far scattare il premio di maggioranza, ma loro sono andati avanti lo stesso imponendo il 42,5%. Quella soglia è impossibile da raggiungere per chiunque, significa semplicemente che il premio non esiste e la legge è un proporzionale puro». Una legge fatta apposta per arrivare al Monti-bis. E dunque inaccettabile. «Pier ha fatto partire il treno del Montibis », si è sfogato il leader democratico.
Nella maggioranza di Bersani ieri la freddezza verso il capo dello Stato era palese. Proprio il capo dello Stato, al di là degli omaggi formali, è visto come il principale regista dell’operazione per riportare Monti a palazzo Chigi d’intesa con Casini e con la complicità di una parte del Pd. I veleni sono sul punto di tracimare, l’irritazione verso il Quirinale per il pressing sulla legge elettorale sta montando sempre più forte. Come rivela un dirigente del Nazareno «sono mesi che i rapporti tra Napolitano e Bersani sono ridotti al minimo sindacale». Così, quando la scorsa settimana il segretario del Pd, richiesto di un commento sull’ultima uscita del capo dello Stato, ha dettato un laconico «noi siamo sempre d’accordo con il presidente della Repubblica », a molti è sembrata nient’altro che la conferma del muro di incomprensione che si è alzato tra i due.

Corriere 7.11.12
Passo avanti traumatico che lascia una scia di pericolose tensioni
di Massimo Franco


Un passo avanti verso la riforma elettorale è stato compiuto, ma in modo traumatico. Il «sì» del centrodestra, allargato all'Udc, alla soglia del 42,5 per cento per far scattare il premio di maggioranza, viene registrato dalla sinistra come un segnale di rottura. Il voto di ieri al Senato si lascia dietro una coda di tensioni che promettono nuove sorprese di qui al passaggio alle aule parlamentari. Pier Luigi Bersani vede nell'intesa in commissione fra Pdl, Lega e centristi di Pier Ferdinando Casini il tentativo di impedire al Pd di governare. La sua tesi è che una legge del genere sia l'anticamera dell'instabilità: servirebbe a rendere inevitabile il governo di Mario Monti.
Alla base c'è la sensazione che Pd più Sel non siano in grado di toccare quella percentuale; e dunque che i partiti saranno costretti a mettersi d'accordo solo dopo sulla maggioranza della prossima legislatura. All'accusa velenosa di Nichi Vendola di seguire «il richiamo della foresta», l'Udc replica che una decisione era obbligata. Dopo la sentenza della Corte costituzionale, perplessa sulla configurazione del premio di maggioranza, bisognava intervenire. E proprio ieri il presidente del Consiglio aveva chiesto alle forze politiche di dare un segnale, per non spingere palazzo Chigi a decidere con un decreto.
Può darsi che una misura del genere sia un'ipotesi di scuola e non una prospettiva inevitabile. Ma certamente la Consulta offre un motivo o un pretesto in più per evitare che si voti con il sistema di oggi. Peraltro, una riforma è quanto chiede da mesi ai partiti il capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Rompere lo status quo con uno strappo forse è un azzardo. Bersani avverte: «lo sgambetto» dell'Udc ne provocherà altri, perché «la strada è lunga». Eppure, la decisione di ieri toglie alibi a chi accusava il Pdl di non volere la riforma; e mette a nudo la tentazione di chi, nel Pd ma non solo, sembra rassegnato al nulla di fatto.
Casini sostiene che il testo è «migliorabile». In Parlamento «si troverà un'intesa. Ci sono reazioni di facciata e altre di sostanza», aggiunge allusivo. E assicura che la soluzione approvata ieri non ha niente a che vedere con la voglia di imporre un Monti bis. Ma il Pd lo accusa di dare una lettura strumentale del responso della Consulta. E Bersani vede «un colpo di mano» compiuto da una «maggioranza spuria». L'obiettivo è consegnare un Paese «nel quale nessuno vince e nessuno perde», accusa Anna Finocchiaro, presidente dei senatori del Pd: un'ipotesi che a suo avviso favorirebbe solo il centrodestra.
Con simili premesse, la legge elettorale rischia una traiettoria paradossale: da simbolo di un'intesa che concilia e sublima interessi diversi, a specchio di un sistema frantumato. Significherebbe perpetuare non tanto la coalizione montiana ma la delegittimazione reciproca; e certificare ancora una volta che nessuno vuole o è capace di rinunciare a qualcosa per fondare una Terza Repubblica su principi condivisi da tutti, o quasi. A meno che la votazione di ieri non imprima un'accelerazione ad una discussione rimasta a lungo sterile e inconcludente; e costringa entro pochi giorni i partiti a cambiare marcia, nel tentativo arduo di recuperare un briciolo di credibilità.

Repubblica 7.11.12
Il Porcellum ingrassato
di Gianluigi Pellegrino


PER quanto ripugnante sia il porcellum, si sta riuscendo a fare di peggio. E per mano degli stessi autori di quel delitto. Recidivi incalliti. Le regole sulla formazione delle leggi, in democrazia sono tutto. E in materia elettorale, alla vigilia del voto, lo sono ancor di più.
Ed infatti il Consiglio d’Europa in uno specifico “Codice della buona condotta elettorale” ha stabilito che “gli elementi fondamentali del sistema elettorale, non devono essere modificati nell’anno che precede l'elezione” o dovrebbero essere legittimati da un consenso ampio di livello costituzionale.
È qui a ben vedere la principale ferita inflitta dalla “legge porcata”. A questo si riferiva Calderoli nella sua pubblica confessione. Fu una porcheria costituzionale infatti quella ordita dalla maggioranza berlusconiana, di approvare una legge dolosamente volta ad azzoppare la prevista vittoria del centrosinistra nelle elezioni del 2006. L’attentato andò a segno. Due furono le armi letali. Lo scippo del rapporto tra elettori ed eletti che il Mattarellum garantiva con il sistema dei collegi e che in quel momento avrebbe premiato nettamente la coalizione di Romano Prodi; e il mostro giuridico del “premio a perdere” concepito per il Senato con il correttivo maggioritario a scapito della coalizione vittoriosa.
Il combinato delle due aberranti misure ridusse a mera apparenza la vittoria del centrosinistra che infatti al Senato venne a reggersi su appena un voto e, grazie anche a non pochi errori, ebbe vita più breve di una farfalla.
Ma la porcata prima che nel merito era appunto nel metodo e cioè nella clamorosa violazione della regola che esclude nell’immediato ridosso del voto, modifiche al sistema elettorale che non siano garantite da una maggioranza assai ampia.
Quando le elezioni sono alle porte e gli schieramenti in gran parte formati, vi è solo un’alternativa che risponde a minime regole di civiltà costituzionale: o vi è ampia condivisione per approvare un nuovo sistema, oppure le norme elettorali restano quelle in vigore per insoddisfacenti che siano. Sarà compito del nuovo Parlamento novellarle e nel frattempo onere dei partiti applicarle nel modo più conforme alla sensibilità degli elettori (mediante selezioni primarie anche dei candidati nelle liste bloccate).
Invece si sta facendo l’esatto opposto. Si è aspettato che il partito democratico optasse per una coalizione meno larga ma più omogenea, per concepire l’imboscata che confeziona una norma cucita apposta per impedire che quella coalizione possa vincere e governare, se mai poi allargandosi in sede parlamentare, ma dalla posizione di forza che spetta a chi vince.
La volontà esplicita è di escludere la governabilità e l’alternanza tradendo quel poco di buono che la seconda repubblica partita con la stagione referendaria sembrava aver fatto conquistare.
La prova del nove è che mentre si dice di voler correggere l’anomalia del 55 per cento dei seggi che potrebbero andare anche ad un partito con appena il 25 per cento dei voti, si alza la soglia all’irraggiungibile 42 e mezzo per cento e ci si guarda bene dal rimediare all’oscenità del Senato dove il premio opera al contrario proprio in favore del caos.
Piuttosto che superare il porcellum lo si ingrassa; e si completa l’opera scippando definitivamente gli elettori anche della indicazione di una coalizione di governo.
Del resto basterebbe domandare a Casini o a Berlusconi se farebbero mai lo stesso ove per ipotesi i sondaggi li dessero in testa.
È questa la ragione della fondamentale regola europea che bandisce colpi di mano in zona cesarini in materia elettorale. Anche il Capo dello Stato lo ha più volte evidenziato. L’approssimarsi del voto se rende stringente l’opportunità di un sistema elettorale che ridia la scelta ai cittadini, allo stesso tempo impone la più ampia condivisione, che ovviamente non vi può essere su norme dolosamente contra partem, perfetto pendant di quelle ad personam.
Lo stesso Monti dovrebbe diffidare di un’operazione così smaccata concepita non da chi davvero lo vuole alla guida del Paese, ma da chi piuttosto che perdere preferisce mandare la palla nella tribuna del caos, per poi chiamarlo come foglia di fico di un governo e di una maggioranza sempre più contraddittori e quindi inconcludenti, privi di un leggibile percorso politico di crescita oltre la crisi.
Le regole ci sono per evitare anche questo. Per il loro rispetto è quindi legittimo attendersi un fermo monito del Quirinale non meno vibrato di quello che più volte ha giustamente rivolto contro il porcellum. Prima che sia troppo tardi e prima che la terza repubblica nasca su un nuovo sbrego alla condotta costituzionale di un paese europeo.

l’Unità 7.11.12
Paolo Flores da Galvano Della Volpe a Grillo
di Bruno Gravagnuolo


PARTITO D’AZIONE? NO PARTITO DELLA DEVASTAZIONE. Già, il  senso della provocazione lanciata da Paolo Flores D’Arcais sul Fatto e sul Corsera è questo: distruggere tutto per rigenerare tutto. Roba da far sembrare Bordiga un’educanda. Ecco la proposta del fondatore di Micromega: votiamo Renzi alle primarie per mandare in frantumi il centrosinistra. E poi Grillo, per fare a pezzi la partitocrazia. Scenario da incubo. Che produrrebbe ingovernabilità, e tecnici in sella per sempre. Come ha notato Asor Rosa. Tra tumulti plebei e spettro del default. Ma a Flores tutto ciò non importa. Sembra il Diario di un pazzo gogoliano, con pezzi di corpo e pensieri che se ne vanno in giro ciascuno per suo conto. Come nel Naso del celebre scrittore. Dalla catastrofe poi, nascerebbe un miracolo, lo stesso forse che Paolo Flores sognava in gioventù e che risogna, sotto mutate spoglie: la crisi generale del capitalismo e la rivoluzione permanente... Finì diversamente: controrivoluzione permanente, stalinismo, New Deal, fascismi. Ma questi son dettagli.
A Flores sta a cuore il sogno. La molla onnipotente che lo spinge a sognare a quel modo, mutatis mutandis. E il sogno viene da lontano. Prima c’è il Flores trotzkista espulso dal Pci. Poi il Flores settario del Soviet. E il Flores libertario sedotto dal primo Craxi (ripudiato). Segue l’occhettiano «clubista», prodiano e veltroniano radicale, che ripudia l’idea stessa di partito. Infine, ri-deluso e dopo i girotondi, fa asse diretta con Di Pietro e Travaglio, fino alla folgorazione per Grillo. Il tarlo di Paolo Flores in viaggio da Della Volpe a Grillo? È il movimentismo nuovista di cittadinanza che pensato contro i partiti, fatalmente favorisce partiti personali della democrazia diretta e carismatica. È il famoso «partito che non c’è». E che infine genera mostri populisti (a destra). Rosselli? C’entra zero. Era socialista e voleva giustizia e libertà, con stato di diritto, partiti e un blocco sociale fatto di classe operaia e ceto medio produttivo. Altro che Di Pietro Grillo.

Corriere 7.11.12
«Io, first gentleman»
Ed non si nasconde più Il compagno di Vendola: avevo scelto la privacy Ora ogni volta che potrò starò con Nichi
di A. F.


MILANO — Discreto, silenzioso, sempre un passo indietro rispetto al governatore pugliese. Lo si è visto anche al processo per abuso di ufficio dove ha scelto, per la prima volta, di stargli pubblicamente accanto. E all'indomani dell'assoluzione Ed Testa, compagno italocanadese del governatore della Puglia Nichi Vendola, ha deciso dopo anni di silenzio di venire allo scoperto. E di presentarsi per quello che è: il compagno del presidente della Regione Puglia Nichi Vendola. Lo ha fatto con un'intervista al settimanale Vanity Fair, in edicola oggi: «Come mi sono sentito al processo? Nel ruolo di first lady? Preferisco l'espressione first gentleman. In passato, ho sempre preteso il rispetto più assoluto della mia riservatezza e della mia privacy. Ora non ho più intenzione di nascondermi. Ogni volta che potrò e vorrò, sarò accanto a Nichi».
Ed detto Eddy ha 33 anni, è italocanadese, e ha studiato come graphic designer and creative consultant presso la Concordia University di Montreal, alla Ottawa University e poi a Urbino, design e comunicazione. Ha seguito ad esempio con affetto la vicenda di Vincenzo Deluci, trombettista e compositore jazz pugliese, trentenne, distrutto da un incidente stradale, che riesce ancora a suonare con un puntatore ottico. Con Vendola si sono conosciuti per caso: «In un bar della Capitale in una caldissima serata di inizio settembre. Abbiamo cominciato a chiacchierare, Nichi si è offerto di accompagnarmi a scoprire alcuni angoli incantati della vecchia Roma. Davvero una bella passeggiata, non è mai più finita. Per me è sempre lo stesso Nichi. Spesso intona delle canzoncine che inventa lì per lì, facendomi credere che si tratti di vecchie canzoni d'amore. E io ci casco».
D'altronde, proprio Vendola in un'intervista di qualche tempo fa al settimanale «Chi» ha confessato di aver ricevuto un nuovo orecchino di brillanti dal «suo amore», per i suoi 50 anni. E ha aggiunto che vivono a Terlizzi (Bari), da anni, che sono una coppia morigerata e tranquilla, e ricevono amici a cena: «Che altro potremmo fare con la vita che conduco?».
Versione confermata anche da Testa: «Oggi viviamo nel borgo antico di Terlizzi. Tutti sanno di noi, ma mai un episodio spiacevole: siamo sempre accolti con grande cordialità. Il Sud Italia è molto, molto più aperto di quanto non si immagini».
Di se stesso e della sua omosessualità Vendola ha sempre detto: «Confessare che ero omosessuale non è stato facile. Da quel momento ho dovuto lavorare il doppio. Per fare in modo che la gente dicesse: vedi, è gay, ma è bravo». E ultimamente ha avuto un battibecco pubblico con Rosy Bindi: «A 54 anni voglio dire che mi voglio sposare con il mio compagno. Rivendico questo. Come cittadino, come persona e come cristiano». Stessa opinione per Eddy Testa, che a Vanity spiega: «Io e Nichi ci sentiamo piuttosto discriminati da uno Stato che non riconosce i nostri diritti, che quasi non ci vede, e che sembra troppo condizionato da una classe dirigente ipocrita e arretrata. I matrimoni gay? Parliamo di stessi diritti per tutti. Figli? Noi ne vorremmo più di uno».

Corriere 7.11.12
Sui fondi (dichiarati) il rottamatore batte tutti


FIRENZE — Se le donazioni contassero più dei voti, Matteo Renzi sarebbe già il trionfatore assoluto delle primarie e il leader incontrastato del centrosinistra. Il rottamatore ha infatti già incassato più di 120 mila euro di contributi volontari surclassando Bersani (2.100 euro) e Vendola con 3.780 euro. Almeno queste sono le indicazioni che saltano fuori dagli elenchi dei sostenitori che hanno accettato di rendere pubbliche le loro generalità nei siti degli sfidanti. A sbirciare i website dei candidati, sorprende non solo la trasparenza del sindaco di Firenze, ma anche una bonaria ostentazione dei «doni» ricevuti con tanto di grafici sulle cinque città più generose (in ordine Firenze, Roma, Milano, Bologna e Torino), l'importo della donazione media (32,24 euro) e un'infografica sulla percentuale dell'elargizione divisa per importo. Così si scopre che il 44,37% dei sostenitori di Matteo ha sborsato dai 6 ai 10 euro, il 27,55% da 11 a 50 euro. E solo lo 0,80% ha versato più di 250 euro. Pochi, ma buoni, i generosissimi. Tra i nomi (omonimie permettendo) appaiono, infatti, Sebastiano Cossia Castiglioni, proprietario (con residenza in Svizzera) della tenuta vinicola di Querciabella (5 mila euro), l'imprenditore Gianfelice Rocca (1.000 euro), il radiologo fiorentino Andrea Stiatti (1.000 euro), l'ex amministratore delegato di Mediaset e oggi nel gruppo De Agostini-Planeta, Maurizio Carlotti (1.000 euro) e il vicepresidente della sezione farmaceutica della Confindustria, Giorgio Sismondi. Gli amici di Bersani non hanno tirato fuori più di 100 euro e l'unico nome celebre nella lista di Vendola è un tale Luigi De Magistris (500 euro). Il sindaco di Napoli? No, un omonimo.
Marco Gasperetti

Repubblica 7.11.12
Il senso delle primarie del Pd
di Piero Ignazi


Il nostro sistema politico è entrato di nuovo in una dinamica “rivoluzionaria”. Per fortuna il comitato di salute pubblica presieduto da Mario Monti non induce preoccupazione alcuna. Solo Berlusconi poteva straparlare di “terrore fiscale”. Nessuno intravede ghigliottine dietro la grisaglia e l’understatement del professore. Del resto, Robespierre non ha mai trovato imitatori nel paese dove crescono i limoni. Eppure la vita della nostra repubblica non scorre tranquilla. Siamo in uno stato di flusso, di indeterminatezza, di tensione. Il nostro futuro politico e istituzionale (per non dire di quello economico) è incerto. Così come vent’anni fa. Allora, dopo Mani Pulite, il sistema dei partiti, immobile per quarant’anni con le sue 7 stelle fisse (per i giovani: Msi, Pli, Dc, Psdi, Pri, Psi, Pci), crollò di schianto e ne emerse uno nuovo di zecca. Tanto nuovo da aver fatto parlare di una seconda Repubblica che invece non ha preso forma perché nessuna riforma costituzionale è mai stata approvata. Silvio Berlusconi, insieme all’amico Umberto, incarnò il “nuovo”. In effetti Forza Italia fu un unicum nel panorama europeo. Un partito senza iscritti, proprietà personale del fondatore, telecomandato dagli studi televisivi, retto da un nucleo di dipendenti aziendali.
Quella novità si è consunta con gli anni, come lo stesso Cavaliere arrivato a fine corsa con una maschera da Petrolini tragico. E con lui si sfaldano gli altri partiti. Il logoramento è sistemico, con la sola eccezione, forse, del Pd (sante primarie!) perché dopo vent’anni si è chiuso un ciclo. Potrà sembrare paradossale, ma il ciclo che arriva al capolinea è quello dell’antipolitica, iniettata a dosi mortali nel corpo politico nazionale proprio da Berlusconi e dal forzaleghismo di complemento. Chi ha parlato per anni di “teatrino della politica” o chi ha definito Roma una “ladrona” se non i campioni del centro- destra? Dall’altra parte, il centro- sinistra non è stato in grado di reggere e rispondere a quella visione. Non ha messo in campo nulla di altrettanto forte e coinvolgente sulla dignità e bellezza della politica. Solo i movimenti hanno fornito spinte vitali ma è nella loro natura accendersi e spegnersi. Il movimento della pace con tutte quelle bandiere appese alle finestre, una delle più diffuse espressioni di partecipazione politica della nostra storia repubblicana, oppure i girotondi, o ancora la mobilitazione femminista del “se non ora quando” sono state le sole risposte politiche al dilagare della disaffezione, dell’apatia, del disgusto. Con un crescendo rossiniano la lontananza dalla politica, sollecitata in maniera subliminale dal presidente operaio e imprenditore, operoso e libertino — ghe pensi mi, non preoccupatevi, divertitevi come faccio io tra calciatori e veline — si è trasformata in rabbia. La crisi economica ha fatto da acceleratore all’ostilità fomentata da una classe politica in gran parte autoreferenziale, inetta e corrotta. Da quanto tempo fosse in incubazione questo sentimento lo dimostra l’irruzione spettacolare di Beppe Grillo cinque anni fa, con quei “vaffa-day” che riempirono le piazze, a incominciare da quella di Bologna, tradizionalmente la più partecipativa e politicizzata. Grillo esprime,
dà sfogo, incanala questo rancore o lo alimenta? L’uno e l’altro. Ma rispetto a Berlusconi, l’antipolitico per antonomasia, Grillo non è emerso all’improvviso, calato dall’alto degli studi televisivi. Il suo blog è attivo da anni ed è uno dei più visitati al mondo. Non si occupa di interessi settoriali o di categoria mentre il Cavaliere si voleva rappresentante del mondo aziendale e delle partite Iva. Grillo affronta(va) temi specifici ma di portata generale, dai diritti degli azionisti al riscaldamento globale. E soprattutto schiuma di rabbia contro i partiti, le istituzioni, il sistema. È un mugugno incattivito ed elevato al cubo. Che rappresenta senza mediazioni quanto ribolle nella società. Attraverso la (sua) rete arriva in superficie quanto è stato alimentato per un ventennio dal berlusconismo. Grillo ora si muove su un crinale: può alimentare un disprezzo devastante nei confronti della politica tout court scadendo nel populismo (e certe sue tirate contro l’Unione Europea vanno in questo senso) o convogliare la domanda di una politica migliore, più rispondente e più pulita attraverso buone pratiche istituzionali, come già fanno molti suoi rappresentanti locali. Di fronte ad una ondata di “consenso disperato” che forse lo stesso Grillo non sa più come gestire, l’unico argine viene dal Pd e dalle sue primarie che costituiscono il solo momento aperto, partecipativo, di base in cui la politica risuona con accenti veri, nonostante l’eccessiva mediasettizazione di Renzi. Per questo, il partito di Bersani ha sulle sue spalle una responsabilità sistemica.

l’Unità 7.11.12
Perché la sinistra europea tifa per i Democratici
Dalla presidenza di John Kennedy un rapporto sempre più stretto lega la sinistra italiana al partito dell’Asinello
di Giuseppe Vacca


Dalle mie parti, nei primi anni Sessanta, era piuttosto frequente trovare affiancate nei bar, nei circoli ricreativi o nelle abitazioni private, le immagini di Papa Giovanni, Kennedy e Chruscev. Parlo dei Paesi della provincia di Bari, di luoghi di ritrovo popolare o di povere case dall’arredo contadino e operaio. Questi ritratti erano il simbolo di una nuova speranza, la speranza della pace mondiale accesa dalla distensione internazionale e dal Concilio. E quando Papa Giovanni morì, Kennedy venne assassinato e Chruscev fu destituito, molto spesso sotto quelle immagini si accendevano piccole illuminazioni, in segno di devozione e di auspicio che quella speranza non tramontasse.
Il consiglio comunale della mia città commemorò solennemente John Fitgerald Kennedy subito dopo il suo assassinio e anche il gruppo comunista si associò alla commemorazione, ma un consigliere, eminente figura di intellettuale, si rifiutò di levarsi dal suo banco. Kennedy era stato il Presidente dell’invasione della Baia dei Porci e dell’intervento in Vietnam, e per quell’illustre professore restava il simbolo dell’imperialismo americano: il nemico.
Il buon senso dei ceti popolari guardava più lontano di settori consistenti delle classi colte; percepiva l’unità del mondo al di là delle divisioni della guerra fredda; l’interdipendenza era più forte delle artificiose costruzioni dell’immagine del nemico. E di questo parlava la crescente attenzione di tutto il mondo per le elezioni presidenziali americane. Un’attenzione che negli anni Ottanta, periodo di nuova guerra fredda, faceva dire a Norberto Bobbio che le elezioni americane avevano una rilevanza internazionale così grande che tutti i cittadini dell’Occidente avrebbero dovuto avere il diritto di parteciparvi.
Qualcosa del genere è avvenuto dopo la fine del mondo bipolare. Negli ultimi venti anni l’attenzione dei media per le elezioni americane è cresciuta in modo esponenziale in tutto il mondo e accompagna in crescendo le campagne elettorali per settimane e mesi, accende le passioni e genera reazioni che si ripercuotono sull’agenda dei candidati e sulla formazione del loro consenso. È un buon segno. Nell’ultima campagna presidenziale i media hanno abbondato di paragoni fra il programma di Obama e quello di Romney cercando di dimostrare che non differivano granché. Ma chi potrebbe sensatamente pensare in Europa che, vinca l’uno o l’altro, non cambierà nulla?
Nel 2003 George Bush jr. piazzò una guerra nel Mediterraneo che spaccò l’Europa e ne inceppò l’unificazione. Quattro anni fa, appena eletto presidente, Obama volò a Berlino e vi tenne un grande discorso per invertire la rotta delle relazioni transatlantiche. Negli ultimi due anni si è adoperato alacremente per promuovere una convergenza fra Usa e Ue, premessa necessaria al varo di efficaci politiche anticrisi alla scala che oggi esige il mondo globale e interdipendente. Come potrebbero i cittadini che credono nell’Europa non essere con lui?
L’Unità di ieri ha titolato: «Siamo tutti democratici». Non è un titolo ad effetto. Se il principale discrimine tra le forze politiche italiane è l’opzione europea, non può sorprendere che il giornale che ha come principale riferimento politico l’Europa si schieri calorosamente per Obama . Ma non può sorprendere neppure che inclini verso i democratici americani quasi tutta la sinistra italiana. Essa è composita, ha storie e radici diverse. Ma da trent’anni la destra ha assunto sempre più la figura della «rivoluzione neoconservatrice» pensata e guidata dalla destra repubblicana americana.
È quindi naturale che la sinistra si sia venuta rimodulando in crescente intelligenza e sintonia con i democratici di quel Paese.

l’Unità 7.11.12
Fabrizio Barca: «I cittadini devono sapere perché le opere non si fanno»
Secondo round di verifiche sull’attuazione dei progetti finanziati dall’Ue. «Le opere non si realizzano se non è la gente a chiederle Serve più democrazia»
intervista di Bianca Di Giovanni


Poco prima di Natale sapremo a che punto sono una quarantina di opere in via di realizzazione in Campania e in Sicilia finanziate con fondi comunitari per circa un miliardo. È appena partito infatti il secondo ciclo di sopralluoghi attivati da Fabrizio Barca. Per il ministro della Coesione territoriale è quasi un’ossessione. «Non basta fare decreti, bisogna vigilare sulla loro attuazione», va ripetendo ormai da tempo. Ma stavolta c’è un passo in più. Non basta neanche solo vigilare, bisogna anche far conoscere, attivare una rete di informazioni. «La gente deve sapere se una cosa funziona, o perché non funziona spiega E deve diventare furibonda se un’opera finanziata non viene realizzata. Perché le cose accadano serve partecipazione, serve democrazia, serve la spinta dei cittadini». Il rischio è che nessuno sappia nulla, e che tutti credano che non funzioni nulla e che così va il mondo.
Invece? Non va tutto male? Qual è il bilancio del primo round di sopralluoghi fatto a settembre?
«Quello era un caso diverso, si trattava di prevenire eventuali ritardi di attuazione e riguardava opere finanziate con fondi della coesione (cioè italiani, ndr). Si sono segnalate criticità per circa un quarto dei progetti, ma anche cose che funzionano. Che so, succede anche che una scuola inizia a spendere di tasca propria prima che arrivino i fondi, mentre un’altra non inizia mai». Quali criticità si sono evidenziate?
«Ce ne sono di tre tipi. In alcuni casi c’è una insufficiente capacità attuativa. In altri casi, come quelli in cui si sono nominati commissari, c’è il mancato coordinamento tra la struttura commissariale e quella ordinaria. Ma nella maggior parte dei casi c’è la mancata identificazione di chiare responsabilità». Spesso gli italiani pensano alla corruzione, al malcostume...
«Non c’è stato nulla di tutto questo. E in un certo senso il risultato è ancora più preoccupante, perché non si tratta di casi di malcostume, ma di una macchina con fisiologici elementi di ritardo. Io sono convinto che uno dei fattori determinanti è la circolazione delle informazioni. Ci sono alcuni casi in cui i soggetti interessati non sanno neanche che i fondi sono stati stanziati. Per questa ragione ho fatto leva sul contributo attivo delle associazioni di categoria. L’Ance (associazione costruttori, ndr) si è mossa in tutte le Regioni del Sud con molta efficacia. Bisogna capire che le cose avvengono perché qualcuno le richiede, se c’è democrazia e ci sono soggetti che ne hanno bisogno».
Il team che effettua i sopralluoghi ha avuto i problemi? È una squadra nuova? «Non ha avuto nessun problema, c’è stata collaborazione delle strutture locali. La squadra non è nuova, addirittura risale ai tempi di Ciampi all’Economia. Si è fatta già molta strada».
E in tutto questo tempo non si è riusciti a incidere?
«Molto si è fatto, ma quello che è mancato è stata per l’appunto l’informazione. Serve una rete che colleghi le attività con i cittadini e gli attori dell’economia locale. E questo manca ancora». Secondo Lei questa verifica fattuale delle decisioni politiche vale in tutti i campi?
«Credo che i problemi del nostro Paese non si risolvono normando, ma attuando. In Italia si lavora molto nella fase ascendente (cioè creazione delle leggi, ndr) e poco in quella discendente».
Veramente questa è la critica che si fa al governo Monti: Confindustria non perde occasione di ricordare quanti decreti attuativi mancano ancora...
«Vorrei ricordare che una parte rilevante dei provvedimenti sono auto-attuativi, cioè hanno efficacia senza norme secondarie. Si pensi al fisco e alla previdenza. L’attenzione di Confindustria si è appuntata su altri profili, ma quello che sostengo io è un’altra cosa, sta ancora più a valle. Io non parlo di decreti, ma proprio di realizzazione delle decisioni prese. Dobbiamo andare molto più in là, perchè anche i decreti attuativi sono qello che gli inglesi chiamano “paperwork”, lavoro di carta. Prendiamo il caso di Pompei non mi interessa lo stanziamento di 100 milioni, e neanche il varo di 6 bandi: mi interessa portare a casa risultati. Il problema dell’Italia è l’iperattenzione alle fasi cartolari e alle procedure».
A proposito di efficacia, come valuta il cambio di rotta della legge di Stabilità, il passaggio da meno Irpef e più Iva, a meno cuneo e meno Iva. Quale formula è più efficace per la crescita?
«A parità di saldi si possono fare infinite combinazioni di interventi. Quello che mi interessa qui è il metodo: per la prima volta le forze di maggioranza stanno costruendo delle soluzioni condivise, su cui possono convergere. Questo non è poco. Sono molto interessato al segno finale che acquisterà la manovra».
I problemi però restano molto gravi: poca occupazione, bassa crescita. L’Europa sta creando preoccupazioni in tutto il mondo. Pensa ancora che la formula di Bruxelles sia quella giusta?
«L’Europa non ha ancora adottato quelle misure per la crescita già approvate, grazie alla spinta di Hollande e al contributo di Monti. Non ha ancora attuato la decisione di escludere gli investimenti dal computo del patto di stabilità, e ancora non ha varato il bilancio qualitativamente più efficace per la crescita. Mancano ancora questi due passaggi, che devono arrivare al più presto».
Lei oggi ha già detto su twitter quello che pensa dei ministri tecnici che hanno intenzione di presentarsi alle elezioni... Può commentare la frase detta da Monti sull’opportunità di presentarsi in diverse formazioni per evitare dubbi sulle loro scelte «tecniche»?
«Credo che la preoccupazione di monti può essere fugata in un altro modo, molto più sicuro: che non si presenti nessuno di noi alle prossime elezioni».

Repubblica 7.11.12
Diffamazione, bavaglio più vicino
Senato, oggi voto finale in aula. Sospensione dall’Ordine, si spacca il Pd
di Liana Milella


ROMA — Il bavaglio per la stampa si avvicina pericolosamente. Multe e risarcimenti per migliaia di euro, editori colpiti, giornalisti sospesi per un anno dall’Ordine dalla terza condanna per una diffamazione. La commissione Giustizia, pure con i voti di una parte del Pd, licenzia il testo, anziché fare l’ostruzionismo promesso. E stamane la partita si trasferisce in aula. Perde quota l’ipotesi — cui pure si è lavorato alla Camera con contatti tra Pd e Pdl — di un emendamento al ddl sulle misure alternative al carcere del Guardasigilli Severino in cui inserire una sola norma asciutta mirata ad evitare il carcere al direttore del Giornale Sallusti. Che peraltro la procura di Milano non vuole assolutamente spedire in cella, ma semmai mettere agli arresti domiciliari con tanto di permesso giornaliero per lavorare. A Montecitorio, dov’è stato riscritto il meccanismo della “messa in prova” — lavori socialmente utili, in luogo del processo, per condanne fino a 4 anni — hanno atteso l’esito delle trattative al Senato per non sovrapporsi con una norma fotocopia. Voci discordanti sull’ammissibilità di un simile emendamento, contrari qualificati tecnici del palazzo per via dell’estraneità di materia, favorevole il Pdl. «Sempre di alternative al carcere si parla» dice Costa.
Per ora prevalgono i tre articoli del Senato. «Una legge pessima, se ne fermi l’iter, la democrazia è in pericolo» dice il segretario della Fnsi Siddi, e i direttori delle testate italiane sottoscrivono a decine l’appello «sui rischi per l’informazione». Il Pdl non vuole fermare quel treno e non resta che sperare in un deragliamento per le manifeste divisioni nel gruppo. Le ammette il presidente della commissione Giustizia Berselli, un pidiellino doc, quando dice che «una parte dei senatori è molto sensibile alla tutela del diffamato, poi ci sono i portatori delle istanze dei giornalisti che vogliono sanzioni più lievi». Berselli non elenca una terza categoria, chi vuole mantenere il carcere.
Frangia forte nel Pdl, presente pure nella Lega dove un esponente di rilievo come Mazzatorta dice: «Di fronte al danno arrecato alla reputazione della persona, che è un bene superiore, non si può cancellare la sanzione del carcere».
Oggi in aula si va allo sbando. Può accadere di tutto. Le divisioni sono trasversali. Il voto segreto, già chiesto da Rutelli sul primo articolo, potrebbe essere confermato. «Vediamo» dichiarava lui ieri. Sulla carta il Pdl dovrebbe votare sì, no Pd e Idv, no anche l’Udc, no la Lega (ma non è detto). Ma da Pdl e Pd arrivano le sorprese. Come quelle dei democratici che in commissione Giustizia si sono spaccati in tre pezzi. Si votava l’ennesima versione dell’emendamento Balboni-Mugnai sulla sospensione dall’albo. Sul tavolo quello che la toglie per la prima condanna, ne prevede una facoltativa fino a sei mesi per la seconda, la impone dalla terza in avanti per un intero anno. Votano a favore, con Pdl, Udc, Api e Lega, il capogruppo Pd Della Monica e Maritati, due ex pm, si astiene l’ex procuratore D’Ambrosio, deciso no da Casson e Vita. È lite tra loro. Dirà Della Monica che l’ha fatto «per garantire la riduzione del danno». La rimbrotta Casson «Le ho consigliato di non votare, è un errore politico, stavamo facendo ostruzionismo e invece abbiamo mollato». Vita è angosciato: «Mi sveglio con gli incubi, stanotte sono stato male, non posso credere che stiamo approvando una legge così, domani il mio e quello di tanti altri colleghi sarà un no fermo ». D’Ambrosio se ne va con l’aria disgustata: «Non si può fare una legge così...». Oggi il Pd promette ufficialmente di votare no, ma nel segreto dell’urna c’è chi, anche tra di loro, vuole colpire la troppo libera stampa.

l’Unità 7.11.12
Scuola e ricerca si può fare di più
di Margherita Hack

DA QUESTO GOVERNO DI PROFESSORI CI SI ASPETTAVA UNA MAGGIORE ATTENZIONE ALLA SCUOLA E ALLA RICERCA e invece sono stati prese iniziative discutibili, anche se in molti casi si è fatto marcia indietro.
La prima è il concorsone per docenti di scuola media. Gli insegnanti precari anche da decenni sono stati messi alla pari con chi si presenta a un concorso per la prima volta. Questo non mi sembra giusto e credo che si dovrebbe fare come si è fatto per gli incarichi all’univerisità, ovvero bandire un concorso riservato. Il che non vuol dire far entrare cani e porci, ma permettere a chi ha già guadagnato sul campo il diritto di insegnare di avere concorsi meno affollati.
La seconda è la proposta di accorpamento degli istituti di ricerca. Accorpare istituti piccoli ed efficienti per farne un carrozzone vorrebbe dire aumentare la burocrazia, diminuire l’efficienza e mettere insieme interessi spesso contrastanti. Per fortuna mi sembra che la proposta sia caduta. Infine, la proposta di aumentare le ore d’insegnamento dei docenti delle scuole medie senza toccare gli stipendi già scandalosamente bassi. Bisogna tener conto del fatto che il lavoro degli insegnanti non si esaurisce nelle ore di lezione, ma prevede le ore di preparazione della lezione, la correzione dei compiti e quindi è molto maggiore di quello che appare. Anche su questo mi pare si sia fatta marcia indietro.
Intanto, le ruberie vanno avanti, ma almeno abbiamo avuto la soddisfazione di vedere Fiorito in galera e Berlusconi condannato per un’evasione fiscale colossale. C’è poi stato il caso Di Pietro, accusato di avere oltre 50 appartamenti. Mi auguro si tratti di un errore: Di Pietro mi sembrava onestamente scandalizzato dalla disonestà. Spero di non essermi sbagliata.
L’Inps sta chiedendo ai pensionati la restituzione ogni mese di una piccola somma per una quattordicesima che l’Inps stesso avrebbe erroneamente dato. Mi meraviglia un po’ che i pensionati debbano pagare gli errori dell’Inps. Infine, si sta facendo un gran pasticcio con l’accorpamento di alcune province. Io penso che porterà grandi litigi, campanilismi e un aumento di spese perché una volta che due province saranno messe insieme bisognerà trovare una nuova sede più grande, ristrutturarla con costi notevoli. Meglio sarebbe abolire tutte le province, suddividendo il personale a esaurimento tra comuni e regioni. Risparmiare in altro modo si può: perché dobbiamo acquistare gli F35? A chi dobbiamo fare guerra? C’è poi la proposta dei radicali di risparmiare sulle Frecce Tricolori e utilizzare i soldi dello spettacolo aereo per i malati gravi. Qualcuno ha protestato, ma io credo che sia una proposta saggia. I piloti delle Frecce tricolori sono bravissimi e lo spettacolo è molto bello. Ma è uno spettacolo per il quale in pochi secondi si bruciano moltissimi soldi. È davvero necessario in tempi di ristrettezze economiche?

Corriere 7.11.12
L'assalto al concorso per i professori
La stima: 280 mila domande per 11 mila posti. Il ministero: no, meno
di Mariolina Iossa


ROMA — Sono almeno 280 mila, secondo una stima della rivista specializzata Tecnica della scuola, le domande arrivate al sito del Miur per partecipare al «concorsone» voluto dal ministro Francesco Profumo. La presentazione delle domande al concorso, che bandisce 11.542 posti per professori, quindi cattedre «vere e proprie» e la certezza di una sistemazione definitiva per altrettanti attuali precari, scade oggi improrogabilmente alle due.
È possibile farla soltanto attraverso il click sul sito Internet del ministero. Poi, si potrà aspettare fino al 21 novembre, sempre alle ore 14, per inserire o modificare i «titoli valutabili». Ma dal ministero respingono le cifre: non si andrebbe oltre le 160 mila domande, 280 mila è un numero «sballato». Dal ministero fanno sapere anche che il ministro è comunque «molto soddisfatto per l'andamento del concorso, sia per il numero sia per la qualità delle domande finora arrivate». Si tratta a questo punto di aspettare qualche ora per sapere la cifra esatta e comunque non si dovrebbe essere lontani dalla verità se si dice che per ogni posto a disposizione ci saranno circa 20 candidati. La stima di Tecnica della scuola comprende infatti le 60 mila domande non ancora perfezionate ma la cui gran parte certamente è stata poi conclusa in queste ore; comprende anche un certo quantitativo di candidati che non rientreranno nei criteri del bando ma le 280 mila domande sono state «contate a occhio», diciamo così, 36 ore prima della chiusura del bando e in questo giorno e mezzo è certo che migliaia di altre domande arriveranno al sito del Miur «Istanze on line».
Dal ministero fanno sapere che c'è un forte afflusso di domande che rallenta un po' l'inserimento online della richiesta da parte dei candidati professori.
Quanto l'aver ritardato, e aspettato fino all'ultimo, possa essersi rivelato dannoso lo saprà solo chi non è riuscito in tempo a cliccare la sua domanda ma una cosa è certa: sono moltissimi i candidati rispetto ai posti, e non poteva che essere. La domanda di partecipazione al concorso, che può essere fatta per una sola Regione, consente l'accesso alle prove preselettive che dovrebbero svolgersi a dicembre.
In alcuni casi, nelle Regioni con maggiori richieste, si potrà arrivare a ridosso di Natale: ciascun candidato avrà i suoi 50 test da risolvere su 3.500 resi pubblici 20 giorni prima. Si tratta di 50 quesiti a risposta multipla a cui rispondere in 50 minuti (18 quiz di comprensione del testo, 18 di logica, 7 di informatica e 7 di lingua straniera).
Una volta superata la preselezione si accederà alla prova scritta, domande a risposta aperta per valutare la padronanza delle competenze professionali e delle discipline oggetto di insegnamento, anche attraverso riferimenti interdisciplinari.
Allo scritto farà seguito una prova orale, ovvero una lezione simulata, della durata massima di 30 minuti, su un argomento estratto dal candidato 24 ore prima e da un colloquio immediatamente successivo alla lezione di una mezz'ora durante la quale verranno approfonditi i contenuti, le scelte didattiche e metodologiche della lezione simulata.
Ma il vero scoglio da superare è proprio quello iniziale, delle domande: secondo quanto riporta Tecnica della scuola più di un candidato potrebbe non essere ammesso allo scritto perché il Miur richiede il conseguimento della laurea da almeno 8-10 anni, a seconda degli anni di corso, e qualcuno potrebbe comunque volerci provare, anche senza avere i requisiti giusti. Questi aspiranti prof dovrebbero in ogni caso partecipare ai test preselettivi, e solo dopo, prima della prova scritta, verrebbero esclusi.

Corriere 7.11.12
L'esordio di Battiato: Tao e fisica quantistica io non farò politica
«In Regione senza stipendio e con la mia auto»
di Felice Cavallaro


CATANIA — La gag potrebbe diventare materia prima per l'imitazione di Fiorello perché la conversazione con Franco Battiato, al debutto da assessore di Rosario Crocetta, inciampa se lo chiami come non gradisce. «Assessore a me?». Va bene, Maestro. «Maestro, no no». Problemi di identità? «Non mi piacciono gli appellativi». E se azzardi che comunque, da assessore a Turismo e spettacoli, il cantautore amato anche come regista e scrittore, pittore, filosofo e poeta, scopre la politica, ecco la reazione: «Ma cosa dice? Sono affittato. Non faccio politica e non mi interessa avere a che fare con i politici».
Considerato da Crocetta il pezzo forte di una giunta che il governatore vorrebbe trasformare nella vetrina di una Sicilia presentabile, Battiato è chiamato a organizzare grandi eventi. Ma lui corre sempre dove lo porta il cuore. Offrendosi alle manifestazioni minori dove arriva senza prendere un centesimo, dal poverissimo Festival di Marzamemi, appena un proiettore nella piazza dove si girano i film del commissario Montalbano, al Festival di Salina perché si parla dei Sud del mondo. E ora, invece, «grandi eventi» per l'autore del vecchio refrain che per «direttori artistici e addetti alla cultura» proponeva la soluzione finale: «Mandiamoli in pensione». Erano solo canzonette? «Intanto, cambiare idea fa bene», sorride. Poi fissa i paletti: «Non sarò l'assessore alla Cultura. Mi occuperò di eventi speciali per mettere in contatto la Sicilia con il resto del mondo, dalla Cina all'America». Lo ripete anche nella bolgia della conferenza stampa di Catania implorando i cronisti: «Vi assittati ppi favuri?».
Non s'era mai visto così ironico e sereno Battiato, quasi riappacificato con la Catania dove nel 2005, quando vinse Lombardo sostenendo Scapagnini sindaco, tuonò il suo dissenso minacciando di espatriare. «Me ne andai davvero da Catania. Vendendo una casa stupenda in pieno centro per quell'aria irrespirabile di destra», precisa, anche se si trasferì a pochi chilometri, a Milo, sotto l'Etna. «E mica è Catania. A Milo ho trovato una pace fantastica. Senza i problemi che sfioro, quando parto, per arrivare in aeroporto». Problemi nei quali da assessore dovrà immergersi. Ma su questo il Battiato riappacificato sgancia un po' del suo pessimismo cosmico: «Tanti siciliani credono nel progetto di Crocetta. E, chiamato in causa, mi sono sentito in dovere di dire di sì». Però? «Però ho messo le cose in chiaro con Rosario: se mi fanno vedere qualcuno che non mi piace mollo. Non voglio assolutamente nessun tipo di contaminazione». Refrattario alla regola di tanti politici: «Non sopporto lo scambio: io ti do un pezzo di Rai, tu prendi quell'ente...». Nei patti invece non c'è niente per lui, così battendo i grillini che si riducono lo stipendio: «Non un euro. E nemmeno l'auto blu. A Palermo andrò con la mia. Anche questo è un fatto di libertà per non avere condizionamenti».
Sa che la politica è anche mediazione, ma la cosa non lo riguarda. Intransigente. Proprio come appare, con i suoi no a raffica, Crocetta, al quale dentro la maggioranza sussurrano di essere «ingrato», pronto com'è a dialogare con i «grillini». Termine sgradito non solo a Grillo, ma anche a Battiato, soddisfatto da una informazione di prima mano: «Mi hanno detto che, sapendo della mia partecipazione, avrebbero deciso di votare a favore della giunta». Che consideri positiva la spinta del gran capo delle Cinque Stelle contro la vecchia politica lo ammette: «Un attacco duro, sgradevole è quello che ci vuole per certa gente». Ma quando viene il dubbio che Battiato abbia votato Grillo e non Crocetta un sorriso azzera la domanda: «Non si dicono queste cose». Restano dubbi, mentre presto voterà Bersani, come dice in tv alla Gruber: «Andrò alle primarie per battere Renzi»..
Che fare subito? «Ho preso la mia vita sul serio da tempo. I miei interessi sono innanzitutto spirituali. Un fanatico dei mistici che hanno attraversato culture e religioni, ebraismo, taoismo, induismo... Troveremo pure questo negli eventi, oltre fisica quantistica, musica classica, anche leggera, ma di alto livello, danza, mostre...». E i compagni di viaggio di Crocetta? Dal Pd all'Udc? «Se un mio amico sposa una che non mi piace, che faccio, non vado al matrimonio?». L'«amico» in questo caso non piace a Fava che l'attacca sulla mafia, ma Battiato sceglie il campo: «Fava sbaglia». E Ingroia? «Un magistrato deve sempre poter dire quel che pensa». La valigia per il Guatemala è già imbarcata. «Gliel'avrei disfatta».

Repubblica 7.11.12
Senza esito il confronto con i sindacati
Licenziamenti confermati la Fiat non cede sui 19 di Pomigliano
di Paolo Griseri


TORINO — La Fiat mantiene i licenziamenti. I dirigenti di Pomigliano si presentano all’incontro con i sindacati senza modificare di una virgola l’impostazione annunciata: il Lingotto intende licenziare 19 tra gli attuali dipendenti impiegati sulla linea della Panda per far posto ad altrettanti cassintegrati della Fiom che il tribunale di Roma ha imposto di reintegrare perché discriminati dall’azienda. Dunque a nulla sono valsi gli appelli dei giorni scorsi da parte dei sindacati e degli stessi ministri del governo Monti che avevano invitato l’azienda a fare un passo indietro per evitare di esasperare il conflitto.
«L’incontro si è svolto in un clima di preoccupazione - racconta il segretario della Fim di Napoli, Giuseppe Terracciano - legato alle strumentalizzazioni della sentenza dalla Corte d’appello di Roma. Abbiamo chiesto alla Fiat il ritiro della procedura». Ma il Lingotto non ha accettato. La riunione è stata dunque aggiornata a data da destinarsi mentre all’esterno dell’edificio un gruppo di militanti dei Cobas contestava sindacalisti e azienda. Se i sindacati (Fim, Uilm, Fismic e Associazione quadri) non firmeranno la mobilità entro il 3 dicembre, le parti avranno ancora 30 giorni di tempo per trovare un accordo. Poi partiranno le lettere di licenziamento. Si arriverà così a gennaio, quando però la Fiat potrà dire di avere nuove esigenze produttive per la chiusura della produzione
della Panda in Polonia. Il responsabile auto della Fim, Ferdinando Uliano, ha chiesto «alla Fiat di ritirare i licenziamenti e alla Fiom di firmare gli accordi come hanno fatto i suoi delegati alla Maserati di Grugliasco, dove quel sindacato è in maggioranza ». Ma non sembra questa una strada semplice da percorrere. Le posizioni sembrano anzi divaricarsi ulteriormente mentre i sindacati del «sì» si aggiornano al 19 novembre per andare verso la firma del nuovo accordo di gruppo. Proprio ieri sera, presentando il suo libro «La solitudine dei lavoratori», il segretario della Fiom Giorgio Airaudo ha sostenuto che «a maggior ragione oggi quegli accordi sono inutili perché pensati per un piano, Fabbrica Italia, che non c’è più». Alla presentazione è intervenuto il sindaco di Torino, Piero Fassino: «Non è con atteggiamenti ideologici che si convince la Fiat a investire
», ha dichiarato attaccando poi le scelte di Marchionne a Pomigliano: «Le sentenze si applicano senza ritorsioni».
Le polemiche sullo stabilimento campano dividono anche i leader dei sindacali. Dopo l’uscita di Susanna Camusso su Marchionne che, a suo dire, sarebbe «il peggior ambasciatore dell’Italia nel mondo», Raffaele Bonanni ha proseguito il battibecco a distanza sostenendo che Camusso sta con Romney. La Cgil ha replicato con un tweet accusando Bonanni di copiare le battute dai giornali. Il ping pong si è spento in serata.

Corriere 7.11.12
La scelta dell'America né bianchi, né operai: i nuovi americani
Le minoranze ispaniche e asiatiche verso il sorpasso Demografia chiave del duello repubblicani-democratici
di Marilisa Palumbo


C'erano anche il cubano americano Marco Rubio, senatore della Florida, e l'indiano americano Bobby Jindal, governatore della Louisiana, nel comizio delle star repubblicane che hanno tirato la volata a Romney qualche giorno fa a Cincinnati, Ohio. Sono i volti della nuova America cui i repubblicani devono cominciare ad affidarsi: pena la marginalizzazione per anni a venire, non possono più permettersi di essere il partito di una classe bianca che invecchia mentre giovani istruiti, donne (specialmente non sposate), abitanti delle città e minoranze (che da sole formano già un quarto dell'elettorato) trovano la propria voce nel partito democratico. Nel 2008 furono questi gruppi di elettori a far vincere Obama, ma anche i liberal devono chiedersi se un altro candidato possa avere il suo stesso appeal e riconquistare la sua coalizione multi-colore.
Le minoranze
I demografi dicono che l'America è vicina a un «tipping point», un punto di svolta. Secondo William Frey, della Brookings Institution, queste elezioni sono state «l'ultimo hurrah per i bianchi». D'ora in poi i repubblicani non potranno più contare sulla cosiddetta «southern strategy», ossia puntare quasi esclusivamente su elettori «sudisti», evangelici e rurali.
Per la prima volta nella storia l'anno scorso i bambini nati da coppie miste o appartenenti alle minoranze — 2,02 milioni — hanno sorpassato le nascite dei bianchi non ispanici: 50,5% (erano il 37% nel 90) contro il 49,5%. Un dato premonitore di quello che accadrà tra un paio di decenni, quando l'America potrà dire addio alla sua maggioranza bianca: l'aumento esplosivo (anche se frenato nell'ultimo paio d'anni dalla crisi economica) dell'immigrazione e la crescita costante della popolazione latina e asiatica dovrebbero condurre al sorpasso attorno al 2040.
La campagna del 2008 è stata in qualche modo il racconto di un Paese che questa trasformazione la guardava con speranza e fiducia, materializzandola nel volto di quell'uomo dal nome improbabile, metà africano metà americano del Kansas, con una famiglia che, come lui stesso ama ripetere, «quando si riunisce sembra un'assemblea delle Nazioni Unite». Ma questa campagna, e prima ancora i quattro anni di Obama al governo, con il fallimento del suo sogno bipartisan e l'esplosione dei Tea Party, hanno raccontato invece un'America che davanti al cambiamento punta i piedi. Di mezzo c'è stata una crisi economica, e i limiti di un uomo caricato di aspettative messianiche, ma le trasformazioni che attraversano l'America non si possono fermare.
Se in una situazione economica ancora traballante e con una disoccupazione così alta il presidente è stato in testa ai sondaggi per quasi tutta la campagna, nonostante un misero 37% di sostegno da parte dell'elettorato bianco, è perché è sempre rimasto fortissimo tra gli elettori delle minoranze. Soprattutto tra i latinos, che quattro anni fa gli avevano accordato il 67% delle preferenze e che sono decisivi in molti stati chiave. Il New Mexico, dove gli ispanici sono ormai il 46,7 per cento della popolazione, non è neanche più comparso nella colonnina degli Stati indecisi. E pensare che nel 2004 Karl Rove, il «cervello» di Bush, considerava i latinos un gruppo di elettori in bilico: in fondo George W. aveva ottenuto il 44% delle loro preferenze. Peccato che poi sia arrivato il pugno duro sull'immigrazione. Il «Dream act», che garantirebbe la residenza e un percorso verso la cittadinanza ai giovani entrati illegalmente nel paese con i loro genitori, è fermo al Congresso per l'opposizione repubblicana. Ma c'è da scommettere che se ne tornerà a discutere. Ci sono voci pesanti nel partito, come quella di Jeb Bush, che da tempo suonano l'allarme: senza il voto ispanico il Grand Old Party è destinato a diventare una forza di minoranza. Dominare le preferenze dell'elettorato bianco, come Romney ha fatto per tutta la durata della campagna, non è più sufficiente.
L'elettore post-industriale
Ma non è solo la composizione razziale ed etnica dell'America a cambiare. Il passaggio, in molte aree del Paese, a un'economia post-industriale basata sulla produzione di idee più che di beni, ha aumentato il peso di un tipo di elettorato fatto di professionisti urbanizzati, che tende a votare democratico. Di più: che ha sostituito il «blue collar voter», l'operaio, come spina dorsale della coalizione democratica. Ne parlavano, descrivendo un'economia che ha la sua base nelle aree urbane e suburbane ribattezzate «ideopolis», John Judis e Ruy Teixeira in un famoso libro di ormai dieci anni fa, The Emerging Democratic Majority. Molte di queste aree sono dentro i famosi stati indecisi: Charlotte, il triangolo della ricerca in North Carolina, i sobborghi della Virginia settentrionale, la regione attorno a Denver, Colorado, Orlando e il sud della Florida. E poi ci sono gli spostamenti interni di popolazione, come quelli dei californiani liberal che hanno scelto di andare a vivere nell'area di Reno, in Nevada, di Albuquerque in New Mexico e in Colorado.
La religione
E infine, per quanto ancora le campagne elettorali si combatteranno su temi sociali come aborto e matrimoni omosessuali, su cui spingono soprattutto i repubblicani, davanti a un elettorato che vede crescere i non credenti (un americano su cinque, uno su tre tra gli under 30)? Un altro gruppo, i non affiliati, che secondo una recente indagine del Pew sono molto liberali sui temi sociali, meno sul ruolo del governo, ma comunque votano a larga maggioranza progressista. E sono quindi un gruppo solidamente democratico almeno quanto gli evangelici bianchi (anche loro il 19% della popolazione) possono essere considerati solidamente repubblicani.
Non è detto, anzi molto probabilmente non è vero che la demografia è destino. La sicurezza nazionale - come è accaduto dopo l'11 settembre, o l'economia come quest'anno - possono risultare più importanti di qualsiasi divisione razziale, di censo e di istruzione. Soprattutto, i partiti possono ridefinire la loro identità. È questa la sfida che attende i repubblicani nei prossimi quattro anni.

il Fatto 7.11.12
La Corte dei Conti francese: “TAV costoso e inutile”
Bocciatura alla vigilia del vertice di Lione
I giudici: “Spese lievitate da 12 a 26 miliardi e previsioni sul traffico merci sballate”
di Stefano Caselli


Torino Costi cresciuti a dismisura difficilmente sostenibili, convenienza economica assai dubbia e processi decisionali oscuri. Se l’ultima parola fosse quella della magistratura contabile francese, il progetto del Tav Torino-Lione sarebbe da tempo un ricordo. Questo almeno è quanto si deduce con sufficiente chiarezza dalle otto pagine indirizzate dalla Court de Comptes al primo ministro francese Jean Marc Ayrault.
Un parere redatto lo scorso 3 agosto pubblicato ieri in cui la Corte dei Conti di Parigi - pur avendo cura di non oltrepassare mai i limiti della propria competenza contabile - smonta la Grande Opera, ricorrendo peraltro ad argomentazioni ben note a chi in Italia segue da tempo la vicenda. Il tutto, peraltro, alla vigilia di un nuovo vertice italo-francese, in programma a Lione il prossimo 3 dicembre.
I GIUDICI definiscono il Tav Torino-Lione “un progetto molto ambizioso” concepito “in un contesto di forte crescita del traffico attraverso i valichi alpini”, ma immediatamente rilevano come “vi sia la sensazione che tutte le soluzioni meno costose siano state scartate senza essere adeguatamente approfondite”.
Particolare attenzione, com’è ovvio che sia, viene riservata al “forte aumento” dei costi preliminari (ossia quelli relativi ad opere come il tunnel esplorativo di Chiomonte in Valle di Su-sa): “Il budget del programma di studi e lavori preliminari - si legge nel parere - è stato inizialmente stimato in 320 milioni di euro, poi 371, quindi 524, 628, fino alle ultime stime fornite dalla conferenza intergovernativa franco-italiana che parlano di 921 milioni di euro”. Una lievitazioni che la Corte imputa alle problematiche caratteristiche geologiche del terreno ma, soprattutto, al blocco dei cantieri e al cambio di tracciato da parte italiana.
QUANTO al costo complessivo dell’opera, la maggiorazione è ancora più evidente: dai 12 miliardi di euro del 2002 ai 26,1 miliardi “secondo le ultime comunicazioni della direzione generale del Tesoro”. Costi elevatissimi che, sempre secondo la Court, non sembrano trovare copertura finanziaria certa: “L’accordo del 30 gennaio 2012 prevede una ripartizione dei costi (per la parte comune del tracciato, ndr) della prima fase di realizzazione per il 42,1% a carico della Francia e per il 57,9% a carico dell’Italia”, ma per il resto regna l’incertezza, soprattutto riguardo al contributo dell’Unione europea successivo alla fase di programmazione e di lavori preliminari (coperta per la metà dall’Ue), su cui non vi è “alcuna certezza”. Quanto alle risorse disponibili in Francia, la Corte indica gli stanziamenti dello Sistema nazionale delle infrastrutture e dei trasporti, ma evidenzia come “la ricerca di copertura finanziaria [sia] ancor più difficile dato l’attuale contesto”.
Le critiche più significative, tuttavia, riguardano l’utilità del progetto e la sua eventuale redditività futura. I giudici contabili francesi ripropongono ciò che in Italia si dice da oltre un decennio, ossia che le previsioni di aumento del traffico merci lungo i valichi alpini (e la conseguente saturazione delle infrastrutture esistenti) sulla base delle quali era stato concepito il progetto Tav (il rapporto Lagarde del 1991 dava per certa la triplicazione dei volumi entro il 2010) si sono rivelate clamorosamente sovrastimate: “Di fatto - si legge nel parere - il traffico merci è in calo dal 1999”, con la sola eccezione del valico di Ventimiglia “che continua a crescere” (e a qualcuno tornerà in mente il progetto alternativo lungo l’asse Torino-Cuneo-Nizza firmato anni fa dall’ingegnere torinese Gabriele Manfredi e mai preso in considerazione).
Sull’utilità economica del Tav in caso di realizzazione, il responso della magistratura contabile francese è impietoso: “Tutti gli studi socioeconomici realizzati sono negativi, quale che sia lo scenario preso in considerazione”. I giudici, quindi, concludono che “la complessità dell’opera rende difficile un parere”, tuttavia raccomandano “di non scartare l’alternativa di migliorare la linea esistente e, qualora il progetto dovesse comunque proseguire, di studiare misure per trasferire il traffico dalla gomma alla rotaia”.
Con buona pace degli onorevoli Stefano Esposito (Pd) e Agostino Ghiglia (Pdl), volati ieri a Parigi per firmare un appello pro Tav assieme ad alcuni senatori francesi, sembra difficile pensare che il parere della Court non influisca almeno un po’ sul vertice del 3 dicembre.

Repubblica 7.11.12
Parigi, vignetta choc contro la Chiesa cattolica
Nuova provocazione di “Charlie Hebdo”: un’immagine blasfema per le posizioni sui gay
di Anais Ginori


PARIGI — Una nuova copertina “blasfema” che farà discutere. Il settimanale satirico
Charlie Hebdo pubblica oggi in prima pagina una vignetta nel quale ironizza sulle gerarchie cattoliche che si oppongono al matrimonio per le coppie gay. Dopo che l'arcivescovo di Parigi André Vingt-Trois ha criticato il progetto di legge che sarà presentato oggi dal governo, Charlie Hebdo titola nel numero in uscita: «Vingt-Trois ha tre papà». Nella vignetta è rappresentato un amplesso tra Dio e Gesù, a sua volta sodomizzato dallo Spirito Santo.
Ancora prima di uscire in edicola, la copertina del giornale francese ha suscitato molte reazioni sui social network, con critiche indignate di alcuni cattolici. Nessun commento ufficiale, invece, da parte dei rappresentanti della Chiesa. Ma in un momento in cui è forte lo scontro sul rispetto della laicità dello Stato la mossa di Charlie Hebdo può diventare benzina sul fuoco. I giornalisti si difendono dagli attacchi rivendicando una tradizione di satira, consolidata nella storia della stampa francese. Le ironie sul Vaticano non sono mai mancate sulle pagine di Charlie Hebdo, anche se negli ultimi anni il giornale ha conquistato una notorietà soprattutto per lo sberleffo contro gli integralisti islamici.
Charlie Hebdo ha affrontato, e vinto, un processo per aver diffuso nel 2006 le controverse vignette su Maometto di disegnatori danesi, poi minacciati di morte. Un anno fa, la redazione parigina del settimanale è stata distrutta da un incendio doloso, alla vigilia della pubblicazione di un numero speciale intitolato “Charia Hebdo”. A settembre l'uscita di nuove vignette sul Profeta. Un numero che ha scatenato reazioni in tutto il mondo, e una timida difesa dal parte del governo socialista.
La copertina che fa ironia sul massimo rappresentante della Chiesa cattolica francese viene presentata come una forma di par condicio. «La libertà d'espressione non è una provocazione » ripete Charb, il direttore. Questa posizione ha suscitato molti dubbi, anche all'interno degli intellettuali di sinistra e strenui difensori della laicità. Al di là del dibattito su un eventuale limite alla satira, per il settimanale si tratta di un ottimo affare. Il numero ha venduto oltre 200mila copie, rispetto alla media di 45mila. Non è detto che il successo in edicola ci sia con la copertina di oggi sull'arcivescovo di Parigi. «I cattolici integralisti - osserva il direttore Charb - non hanno la stessa cassa di risonanza degli islamici integralisti. Con alcune copertine sul Papa, anche molto violente, non abbiamo avuto gli stessi aumenti di diffusione».

Repubblica 7.11.12
“Cristiani i più perseguitati” è bufera sulla Merkel


Ha suscitato forti polemiche la dichiarazione della cancelliera tedesca Angela Merkel: “Il cristianesimo è la religione più perseguitata del mondo” Lo ha detto durante un meeting della Chiesa tedesca protestante, sottolineando che la Germania ha bisogno di proteggere le minoranze cristiane nell’ambito della sua politica estera.

La Stampa 7.11.12
La legge era entrata in vigore nel 2005, votata dal governo socialista di Zapatero
Spagna, Rajoy sconfitto ”Le nozze gay sono legali”
La Corte Costituzionale respinge il ricorso del Pp
di Gian Antonio Orighi


Via libera definitiva ai matrimoni gay. Con una decisione che si è fatta aspettare più di sette anni, il Tribunale Costituzionale ha respinto ieri sera il ricorso presentato dal partito popolare (Pp, centro-destra) del premier Rajoy contro la legge sui matrimoni omosessuali approvata nel luglio 2005 da capo del governo di allora, il socialista e agnostico Zapatero.
Una bruciante sconfitta per i conservatori e per la Chiesa, che ha fatto fuoco e fiamme (persino una manifestazione, con la presenza in piazza di 19 vescovi, prima della luce verde parlamentare) per bloccare una legge di cui hanno usufruito, secondo i dati ufficiali dell’Istat spagnolo, 22.442 famiglie rosa. E una rivincita, postuma per Zapatero, ormai fuori dalla politica.
Il pp, allora all’opposizione (e unico partito di tutto l’arco parlamentare a votare contro, insieme a quattro deputati del centro-destra indipedentista catalano di CiU), sosteneva che la legge sui diritti civili per i gay infrangeva sette articoli della Magna Carta post-franchista del 1978, tra cui quello, il 32º, secondo cui «l’uomo e la donna hanno diritto a contrarre matrimonio con piena uguaglianza giuridica».
«Abbiamo presentato ricorso non tanto per gli effetti giuridici, che non ci importavano, quanto piuttosto per il nome di queste unioni, matrimonio - sottolineava, ieri mattina alla radio, Rajoy -. Adesso studieremo il da farsi».
Per gli undici magistrati del Tribunale Costituzionale, l’ultima istanza che poteva frenare la riforma del codice civile che per Zapatero significava «Costruire un Paese decente che non umilia i suoi membri», la legge zapaterista del 2005 è perfettamente legale. La sentenza non è stata unanime: su undici membri della Alta Corte (sette progressisti, quattro conservatori), i sì sono stati otto, i no solo tre. La decisione è stata presa in appena un’ora.
Ma anche tra i popolari i pareri contro quello che i fondamentalisti cattolici di Hazteoir ribattezzano «gaymonio», non erano univoci. L’attuale ministro alla Giustizia, Gallardón, sosteneva nello scorso febbraio che, secondo lui, le nozze omosessuali non erano affatto incostituzionali. E prima del dicembre scorso, quando era sindaco di Madrid, il Guardasigilli ha celebrato il matrimonio di molti mariti e marite (anche del Pp).
Il verdetto la dice lunga sulla laicità delle Spagna, che da molto tempo non è più la Riserva Spirituale dell’Occidente come durante la cattolicissima dittatura di Franco. I matrimoni dei gay (quattro milioni, quasi un decimo della popolazione, per il governo Zapatero) sono diventati così normali da non finire più neppure nelle brevi dei giornali. E sono approvati, stando ai sondaggi, dalla maggioranza degli spagnoli.
Segno dei tempi, nel giugno scorso le nozze gay sono entrate nel vocabolario ufficiale della Real Academia de la Lengua, la Crusca iberica. Grande festa, dunque, ieri sera tra le famiglie rosa, per le quali è finito l’incubo di perdere il loro status giuridico e i loro diritti civili.

Corriere 7.11.12
Era una spia l'inglese ucciso dalla «Lady Macbeth» cinese
di M. D. C.


PECHINO — L'unica certezza del caso Bo Xilai è che la storia non è chiusa. Non è bastata la condanna a morte, con sospensione della pena, per Gu Kailai, moglie di Bo, l'ex segretario del Partito di Chongqing, giudicata colpevole di aver assassinato l'inglese Neil Heywood il 14 novembre 2011. Non basta neanche la condanna a 15 anni per l'ex capo della polizia di Chongqing, Wang Lijun, già braccio destro di Bo. E neppure l'espulsione di Bo per corruzione e altro da tutte le sue cariche e dal Partito comunista, da domani a congresso. Alle ombre il Wall Street Journal aggiunge un suo tassello. Secondo il quotidiano, Heywood lavorava per l'MI6, i servizi segreti britannici. Il Journal aggiunge che, dopo essere scappato il 6 febbraio al consolato americano di Chengdu, Wang Lijun riferì che Gu Kailai gli avesse confessato: «Ho ucciso una spia».
L'ipotesi che Heywood lo fosse circolava da tempo. La circostanza, se vera, fornirebbe un movente più di sostanza rispetto a quello emerso dai processi a Gu e a Wang: che Heywood, per anni amico di famiglia di Bo, avesse minacciato il figlio della coppia, Guagua. Il ministro William Hague ha assicurato: «Heywood non era un impiegato del governo» inglese.

Repubblica 7.11.12
Il buon giornalismo e la censura cinese
di Moisè Naìm


David Barboza dirige la redazione di Shanghai del New York Times.
Ha appena pubblicato un articolo di straordinaria importanza, che potrebbe addirittura avere conseguenze dirette sulla vostra vita. Barboza ha raccontato la corruzione dei familiari di Wen Jiabao, il primo ministro cinese. In teoria non c’è nulla di nuovo: non passa giorno senza che in qualche parte del mondo scoppi uno scandalo di corruzione che coinvolge politici, uomini di governo e loro complici all’interno del settore privato. E dire che in Cina c’è corruzione è svelare un’ovvietà. Però questo articolo, e questo scandalo, sono diversi.
Come parlare della corruzione? I reportage su scandali di questo tipo di solito suscitano molto clamore, ma in molti casi non sono ben documentati e non approdano a nulla. Le denunce che rimangono prive di conseguenze creano grande frustrazione fra i cittadini e corrompono la lotta contro la corruzione. Ma non è il caso dell’articolo di Barboza, che ha realizzato un’inchiesta giornalistica fra le più documentate e rigorose che abbia mai letto sul tema della corruzione ai massimi livelli del potere. Il giornalista del New York Times si basa su dati confermati da diverse fonti, su prove impossibili da confutare, su complesse analisi finanziarie convalidate da revisori indipendenti incaricati di garantire l’accuratezza dell’articolo, e su un lungo, arduo ed evidentemente costoso lavoro di indagine giornalistica.
È ovvio che un articolo pubblicato all’estero non farà piazza pulita della corruzione in Cina. Ma è altrettanto ovvio che i dirigenti di Pechino, che fino a questo momento si credevano protetti dal sistema politico, ora sanno che ormai l’impunità e l’invisibilità della corruzione non sono più qualcosa di garantito.
Il buon giornalismo vale… e costa. L’eccezionale articolo di Barboza non avrebbe potuto essere scritto da un blogger, o da un’organizzazione giornalistica che si limita ad «aggregare» — vale a dire a riprodurre sulla Rete — i contenuti di altri. I social network, neanche a parlarne. Per fare questo articolo ci sono voluti l’organizzazione, le risorse finanziarie e gli elevati standard professionali del New York Times, tutte cose che hanno un costo elevato. Ma sono questi gli elementi che producono un giornalismo con un valore sociale, e a livello mondiale. Internet e le tendenze che stanno mettendo a rischio la sostenibilità finanziaria dei grandi mezzi di informazione sono per molti versi un fenomeno inarrestabile, ma articoli come quelli del New York Times dimostrano in modo eclatante quanto diventeremmo più poveri, come umanità, se scomparissero le organizzazioni capaci di produrre contenuti oggettivi, indipendenti e di alta qualità.
La Grande Muraglia cinese ormai non protegge più. Nell’antichità, la Grande Muraglia non fu in grado di impedire le periodiche invasioni dei mongoli. E oggi succede lo stesso: neanche la grande cybermuraglia che il governo di Pechino ha eretto per censurare i contenuti che viaggiano su Internet potrà impedire che i cinesi vengano a sapere delle rivelazioni fatte dal New York Times.
Il governo ha bloccato la pagina in inglese e in cinese del giornale americano e ha impedito di accedervi attraverso motori di ricerca come Google e social network come Weibo, l’equivalente cinese di Twitter. Le migliaia di censori al soldo delle autorità sono occupatissimi a monitorare e bloccare la diffusione di queste informazioni. Ma la storia è già riportata da tutti i mezzi di informazione del mondo e gira su Internet, sui social network e sulla bocca di tante persone in Cina. Tecnologie medievali come la censura fanno grande fatica a misurarsi con le tecnologie dell’informazione nell’era della globalizzazione. Sicuramente riusciranno a fare in modo che centinaia di milioni di cinesi non sappiano mai che la famiglia del loro primo ministro ha accumulato una fortuna di 2,7 miliardi di dollari, ma molti milioni di cinesi già lo sanno, e prima, da quelle parti, questo non succedeva.
Le conseguenze per voi. La Cina sta attraversando un periodo difficile: la crescita economica sta rallentando, le proteste di piazza, per rivendicazioni di ogni tipo, si moltiplicano. Domani comincerà il congresso del Partito comunista cinese, guidato dal nuovo leader Xi Jinping, che a marzo sarà nominato presidente. Il trasferimento dei poteri è stato ricco di tensioni e scontri fra fazioni rivali, che hanno visto, fra le altre cose, la defenestrazione di Bo Xilai, uno dei leader più potenti. Le rivelazioni dell’articolo del New York Times alimenteranno ulteriormente questi scontri. Per ora nulla lascia pensare che il cambio al vertice del potere possa influenzare in modo rilevante la stabilità politica della Cina. Ma se dovesse succedere l’economia cinese ne risentirebbe, e questo a sua volta aggraverebbe la crisi europea e penalizzerebbe i tanti Paesi la cui salute economica è legata a quella della seconda economia del pianeta.
Traduzione di Fabio Galimberti

Corriere 7.11.12
Nafisa, morta per «onore»
di Cecilia Zecchinelli


L'Afghanistan dimenticato, o che torna sui media quando l'ennesimo soldato occidentale viene ucciso, quando i nostri governi annunciano nuove strategie per le loro missioni. L'Afghanistan della gente normale, di cui non si parla, soprattutto delle sue donne e bambine, la parte più debole di una società devastata da decenni di guerra e violenza. Ieri il quotidiano locale Khaama ha ricordato che ci sono anche loro: Nafisa, 25 anni è stata ammazzata a colpi di fucile dal fratello a Shindand, nella provincia di Herat dove ha sede tra l'altro il comando italiano. Era scappata di casa, arrivata fino a Jalalabad nel lontano Est del Paese. Ma la polizia l'aveva trovata e arrestata, riconsegnata alla famiglia. Che non l'ha perdonata: l'onore prima di tutto, poco importa se il fratello è poi stato arrestato. Pochi giorni prima una 18enne di un villaggio vicino era morta nello stesso modo. I «crimini d'onore», diffusi e tollerati anche in altri Paesi, in Afghanistan sono ancora la norma. Non se ne parla, ma in silenzio quasi ogni giorno c'è una Nafisa che muore per mano di un uomo della sua famiglia.

La Stampa 7.11.12
Primo Levi: io non perdono
«Quando una violenza, un’offesa è stata commessa, è irreparabile per sempre»
di Jacopo Iacoboni


Al liceo Amaldi di Orbassano il critico Domenico Scarpa risponde alle domande degli studenti con un testo dimenticato dello scrittore scampato ad Auschwitz Primo Levi (Torino 1919 - 1987) in un disegno di Paolo Galetto. In basso internati al lavoro nel sottocampo di Monowitz, a Auschwitz: qui Levi fu detenuto per un anno (registrato con il numero 174.517), fino alla liberazione da parte dell’Armata Rossa il 27 gennaio 1945
No, Primo Levi non li perdonò mai. Ma il punto è: perché un diciottenne di oggi - e dopo aver letto più cose di Levi - si persuade del contrario, che l’autore di Se questo è un uomo abbia alla fine perdonato il boia, concedendo così almeno una Tregua al Male che ci attanaglia?
È mattina, siamo a Orbassano, cintura torinese, liceo scientifico Amaldi. Siamo venuti qui, sullo sfondo le montagne già innevate in una giornata ventosa e col cielo pulito come solo certe giornate piemontesi possono essere, per partecipare a un incontro organizzato, a venticinque anni dalla morte di Levi, dal Salone del Libro in collaborazione col Centro Primo Levi e il liceo, per il quale ha coordinato la cosa la professoressa Paola Albertetti. L’incontro è pensato così: tre classi, settanta ragazzi - uno spaccato imperdibile di mondo che uno non si rassegna a osservare solo scrutando nei trend topics incomprensibili di Twitter ascoltano il critico letterario Domenico Scarpa, a cui hanno preparato una serie di domande davvero interroganti, non banali, e una lettera aperta intitolata «Noi crediamo a Primo Levi», esattamente come la Lezione Primo Levi einaudiana che domani terrà Mario Barenghi. Il punto però, come sempre, è capire cosa crediamo, quando crediamo a Levi.
Così, parlando con Scarpa e i ragazzi mettiamo subito, piatto, il dito nella piaga. Il critico chiede come mai una delle loro domande sia centrata sul presupposto che Levi abbia perdonato i carnefici. Antonio, seduto in prima fila sul lato sinistro, spiega perché l’hanno pensato: «Levi nei racconti usa un tono molto distaccato, non ci fa intendere una condanna inappellabile... ». E la ragazza che è seduta all’altro capo dell’Auditorium, timidamente: «Anche in Se questo è un uomo, Levi non giudica, mai... ». È invece possibile, con Scarpa, argomentare il contrario; nel suo libro più famoso, Levi giudica eccome, almeno tre volte (per esempio nel «Se io fossi Dio sputerei a terra la preghiera di Kuhn», il personaggio che ringrazia l’Onnipotente perché è stato prescelto per la camera a gas il suo vicino, e non lui; nell’invettiva contro «l’innocente bruto» Alex e il suo gesto di scrollarsi la spalla alla fine dell’esame di chimica; o ancora nel verso «meditate se questo è un uomo, o vi si sfaccia la casa»). Ma ora riappare dagli archivi anche una chicca decisiva, una delle duecento pagine di testi ritrovati che verranno inseriti nella nuova edizione, dopo quella del ’97, degli scritti di Levi (curata da Marco Belpoliti, in collaborazione con il Centro Levi, uscirà per l’editore Einaudi).
C’è un libro del 1970 di Simon Wiesenthal, Il girasole (pubblicato da Garzanti e oggi introvabile), in cui il grande cacciatore di nazisti racconta un episodio che farà da diapason alla sua esistenza successiva. Leopoli, 1942, Wiesenthal si trova a raccogliere, nel campo di concentramento, la richiesta di un giovane SS in punto di morte: «Perdonami, ti prego». «Voleva morire in pace», scriverà Wiesenthal, che però gli nega il perdono. L’episodio lo tormenterà per tutta la vita. Quasi trent’anni dopo interroga artisti, scrittori, intellettuali ebrei chiedendo loro: voi cosa avreste fatto? Uno di loro è Levi, che risponde alla Levi, cesellando le parole, distaccato e chirurgico: «Quando una violenza, un’offesa è stata commessa, è irreparabile per sempre; può accadere che l’opinione pubblica richieda una sanzione, una punizione, un “prezzo” del dolore; può anche darsi che questo prezzo sia utile, in quanto indennizza, o scoraggia una nuova offesa, ma l’offesa prima resta, e il prezzo (anche se è “giusto”) è pur sempre un’offesa a sua volta, ed una nuova sorgente di dolore». Davanti a questa complicazione inaspettata del tema, vedi che i ragazzi di queste classi ormai magnificamente multietniche sospirano, pensano che, appunto, Levi stia per dire: ecco, sì, è inutile far pagare un prezzo, niente potrebbe ripagare il dolore.
Invece Levi scrive a Wiesenthal: «Premesso questo, credo di poter affermare che, in quella situazione, lei ha avuto ragione nel rifiutare al morente il suo perdono. Ha avuto ragione perché era il male minore: lei non avrebbe potuto perdonargli se non mentendo, o infliggendo a lei stesso una terribile violenza morale. È chiaro, tuttavia, che il suo rifiuto non risolve tutto, e si capisce abbastanza bene che lei abbia conservato dei dubbi: in casi come questo, il sì e il no non si possono separare con un taglio netto, e qualcosa resta sempre dall’altra parte». Qualcosa, come i convincimenti dei diciottenni, resta dall’altra parte. Levi scrive freddo perché opera, sul dolore e il male, qualcosa di simmetrico all’esperimento distaccato dei nazisti sull’uomo, quella che Scarpa non esita a definire «una rappresaglia della parola». Quando il suo capolavoro verrà infine tradotto, nel ’70, in Germania, lo scrittore osserverà che quel testo, che prima era solo «un’arma puntata» contro quel popolo, ora era anche «un’arma carica».
Qualcosa però, attenzione, resta dall’altra parte anche in Levi. Nonostante ne I sommersi e i salvati il nonperdono giunga a vette radicali, che però non attribuiscono alla Shoah il carattere di irripetibilità. «Non ho tendenza a perdonare, né a loro [i nazisti], né ai loro imitatori successivi, in Algeria, Vietnam, Unione Sovietica, Cile, Cambogia, Sudafrica». Il male, il paradosso è questo, è a un tempo sovrastorico eppure politico. Levi racconta Scarpa agli studenti - rispondeva a Jean Améry, il filosofo ebreo che scrisse Intellettuale a Auschwitz (Bollati Boringhieri), morto anche lui suicida dieci anni prima del grande torinese, che l’aveva chiamato «il perdonatore». I ragazzi ascoltano, stavolta muti. Hanno scritto «noi crediamo a Levi», ma in questo preciso istante ognuno di loro è un piccolo «io» gettato e solo, «solo come un ebreo», scrive Vladimir Jankélévitch ( Perdonare?, Giuntina). Si è partiti da una falsa idea buonista, ne usciamo con la Bibbia ribaltata di Levi, e Jankélévitch, «non perdonare loro, perché sanno quello che fanno».

La Stampa 7.11.12
Parigi, a Yehoshua il premio Médicis


Lo scrittore e drammaturgo israeliano Avraham B. Yehoshua (foto) si è aggiudicato a Parigi il Prix Médicis per il romanzo straniero con Retrospective (Grasset), un’opera malinconica sui misteri della creazione artistica. Nato a Gerusalemme nel 1936 in una famiglia d’origine sefardita, Yehoshua vive oggi a Haifa nella cui università insegna Letteratura comparata e Letteratura ebraica. Il Prix Médicis 2012 è stato attribuito a Emmanuelle Pireyre per Féerie generale (Editions de l’Olivier), il premio per la saggistica a David Van Reybrouck con Congo, une histoire (Actes Sud).

La Stampa TuttoScienze 7.11.12
Quando un’amigdala era meglio di pc e iPad
Com’è nato l’homo technologicus?
Un’avventura che inizia prima di megaliti e piramidi
di Gabriele Beccaria


Dalle pietre scolpite alla macchina a vapore: un lungo filo rosso di intelligenza e creatività
Prima dei megaliti di Stonehenge, degli zigurrat di Ur e delle piramidi di Giza l’«homo technologicus» era già al lavoro da tempi immemorabili.
Scolpiva amigdale, inventava punteruoli e asce, scopriva le forze del moto, mentre imparava a cacciare, a coltivare le piante, ad addomesticare gli animali. Aveva cominciato a lavorare elementi come pietra, ossa e legno e si avventurava nel mondo della metallurgia.

E’ con il racconto delle nostre origini di inventori che si apre la monumentale «Storia della Tecnologia» di Singer, Holmyard, Hall e Williams: un classico, che ritorna in una nuova edizione, con il primo volume che dalla preistoria si allarga al 500 a. C., con «la caduta degli antichi imperi». Professor Gian Arturo Ferra­ ri, lei ha curato l’opera per Bollati Boringhieri: perché così tanta attenzione per le tecniche degli albori, tra scalpelli e punteruoli, se poi ci si ferma alla metà del XX secolo, ignorando l’era del silicio e della virtualità? «E’ fondamentale ricordare che i quattro curatori e gli studiosi che scrissero gli articoli dei sette volumi erano per lo più anglosassoni, influenzati per un verso dall’antropologia britannica, e coloniale, dell’Otto-Novecento, e per l’altro dal legittimo orgoglio di essere stati la culla della rivoluzione industriale». Quindi la soglia del 1950 fu aggiunta solo in un secondo tempo. «Sì. I curatori erano convinti che il passato è una realtà di continua acquisizione di conoscenze e, perciò, se la fase iniziale della tecnologia si colloca all’inizio della storia universale, il punto d’arrivo non può che essere il trionfo della prima e della seconda rivoluzione industriale, Proseguire avrebbe significato affrontare una sfida senza soluzione, un vero e proprio incubo».
Perché un incubo? «Pensiamo all’impianto dell’opera. Poteva reggere fino al momento in cui la tecnica è ancora la traduzione concreta della scienza e il progresso scientifico e i successi tecnologici corrono su linee convergenti, ma ben distinte. Poi, nel XX secolo, tutto cambia: la tecnologia diventa ricerca applicata e la scienza, compresa quella più teoretica, si incarna in mostruosi apparati tecnologici. Basta pensare agli acceleratori di particelle e al bosone di Higgs. Raccontare la tecnologia della seconda metà del 900 è così difficile che finora nessuno l’ha fatto. Siamo in attesa che qualcuno ci provi». Torniamo al passato: è nata prima la tecnica o la scienza? «Secondo gli autori, si tratta di evoluzioni parallele, che rispondono a un quesito conoscitivo: sapere come stanno le cose. Di conseguenza gli strumenti scientifici sono il prototipo di quelli tecnici. Questo è evidente proprio nel primo volume dedicato a preistoria e storia preclassica». Ma quanto conta la «scintilla creativa»? «Molto. Agli autori interessa scoprire e analizzare il momento in cui un oggetto o una tecnica è stato realizzato per la prima volta: scintilla creativa e scintilla conoscitiva coincidono. Quella che fa capire, appunto, come stanno le cose e che permette di “fare”, dall’osservazione dei moti delle stelle all’ideazione del moto rotatorio per costruire vasi». E’ una forma di pensiero in­ credibilmente «lungo», che regge millenni. «Sì. E infatti nei primi due volumi ci si concentra tanto sulle tecniche più “basiche” e primitive, come quelle per realizzare i trapani o accendere il fuoco, quanto sugli strumenti più sofisticati del mondo greco-romano, come il famoso orologio astronomico di Antikitera». Ma come nasce un’idea? Dal genio individuale a da una condizione storica? «I curatori avevano in testa il mondo industriale classico. Considerano le invenzioni come il risultato di una collettività, tranne che in casi più rari, in cui è protagonista il singolo. Un esempio è la macchina a vapore, che ha un nome e un cognome, James Watt. E’ interessante che lui la brevettò più volte e che tra i detentori del brevetto ci fosse il nonno di Charles Darwin, Erasmus: ecco un caso in cui storia della tecnica e storia della scienza tornano a intrecciarsi».

Gian Arturo Ferrari Storico : EX PROFESSORE DI STORIA DELLA SCIENZA ALL’UNIVERSITÀ DI PAVIA, È PRESIDENTE DEL CENTRO PER IL LIBRO E LA PROMOZIONE DELLA LETTURA IL LIBRO : «STORIA DELLA TECNOLOGIA» ­ BOLLATI BORINGHIERI"

La Stampa TuttoScienze 7.11.12
È nascosto nel Dna il libro di storia più grande di sempre
Adesso è facile scoprire le proprie origini
di Spencer Wells
, Cornell University

La genetica sta rivoluzionando lo studio della biologia umana. Nel prossimo secolo la comprensione delle nostre origini, della longevità e delle malattie sarà trasformata. E se c’è un enorme interesse per questa nuova strada, il Genoma ci permette anche di scrutare nel passato. Poiché abbiamo ereditato i geni dai genitori e loro dai nonni, il nostro Dna contiene quello che è un «libro di storia», che svela aspetti inediti del passato più remoto.
Immaginate di prendere un aereo al centro del globo cartesiano, a 0° di longitudine e 0° di latitudine, a circa 1000 km a Ovest di Libreville, nel Gabon, nell’Africa centro-occidentale. Se volassimo verso Est e ci regalassimo il trucco fantascientifico di esplorare il terreno, punto per punto, dal nostro privilegiato punto di osservazione, avremo un significativo campione della varietà umana.
I primi che incontreremmo sono i centroafricani, che parlano lingue bantu. Più a Est vedremmo ancora individui di pelle scura, ma con un aspetto leggermente diverso. Sono i popoli nilotici dell’Africa orientale, slanciati e di alta statura. Vivono nella savane e dipendono quasi completamente dal bestiame. Sparsi tra questi gruppi, ci sono individui che parlano un’altra lingua, gli Hadza.
Proseguendo l’odissea verso Est, incontriamo un’enorme massa di acqua prima di raggiungere un arcipelago noto come Maldive. Qui la gente appare ancora diversa. Se la pelle è piuttosto scura, i volti sono differenti, dalla forma del naso al tipo di capelli. Troviamo poi una grande isola. Abbiamo raggiunto Sumatra e incontriamo un altro tipo umano - un po’ più piccolo - con altre sembianze. E, continuando, ecco i melanesiani. Sono per molti aspetti dissimili dagli africani e quindi la loro pelle scura è una caratteristica che si è evoluta in questa regione? O indica un legame con l’Africa?
Continuando il viaggio incontriamo i polinesiani, che vivono in piccoli atolli. Sembrano simili a chi popola Sumatra, ma sono allo stesso tempo differenti. Il grande interrogativo è: perché siano arrivati in luoghi tanto remoti? E come ci sono arrivati?
A questo punto ci si imbatte nella costa dell’Ecuador, in Sud America. Nella capitale, Quito, c’è uno strano miscuglio di persone. Sembra che ci siano due tipi principali: quelli che per certi aspetti assomigliano ai popoli delle Maldive, ma con la pelle più chiara, e quelli per molti versi simili ai nativi di Sumatra e della Polinesia. È strano trovare «campioni» così diversi di umanità nello stesso luogo. Le altre località che abbiamo visitato, infatti, tendevano a essere più omogenee. Perché l’Ecuador è diverso? Un mix eterogeneo si trova più a Est del continente: qui, sulla costa nord-orientale del Brasile, incontriamo di nuovo degli africani, ma molto lontano dall’Africa! E così, nel lungo viaggio di ritorno verso il nostro punto di partenza, ci interroghiamo sugli intrecci che abbiamo appena visto e cerchiamo di formulare una spiegazione.
Il nostro breve giro del mondo, infatti, era un esperimento mentale, con cui immaginare ciò che devono avere incontrato gli esploratori europei, centinaia di anni fa, durante i primi «viaggi di scoperta». Ostentando un po’ di ignoranza, possiamo porre domande semplici che oggi ci sembrano banali. Ma l’aspetto interessante è che, fino a poco tempo fa, tranne che per gli africani e gli europei incontrati in Sud America, non c’era alcuna spiegazione per le realtà che abbiamo visto.
Spiegare i modelli globali della diversità umana è l’obiettivo del «Progetto Genographic», l’iniziativa internazionale sostenuta dalla National Geographic Society. Utilizzando gli strumenti d’avanguardia della genetica molecolare, stiamo decifrando la storia codificata nel Dna. Il progetto, da poco rilanciato, invita tutti a partecipare: sul sito www.genographic.com si può saperne di più e poi, acquistando un kit «Geno 2.0», si scoprono i dettagli delle proprie origini. Insieme, possiamo ricostruire la vostra storia - la nostra storia - la storia umana.

Spencer Wells Genetista: È PROFESSORE DI GENETICA UMANA ALLA CORNELL UNIVERSITY (USA) E DIRETTORE DEL «GENOGRAPHIC PROJECT»
IL SITO : HTTPS://GENOGRAPHIC. NATIONALGEOGRAPHIC.COM/"

l’Unità 7.11.12
Elettroshock la scossa violenta che ancora resiste
La pratica usata in 90 strutture: è ora di abolirla
In Italia 90 strutture sanitarie lo praticano ancora:
per alcuni è una brutalità ottocentesca per niente scientifica, per altri salva la vita
di Gioia Salvatori


In quel manicomio esistevano gli orrori degli elettroshock. «Ogni tanto ci assiepavano dentro una stanza e ci facevano quelle orribili fatture. Io le chiamavo fatture perché non servivano che ad abbrutire il nostro spirito e le nostre menti». Non tutti sono in grado di raccontarlo come Alda Merini, ma sono centinaia le persone che vivono vite in lotta contro depressione, manie, schizofrenie. La malattia mentale riempie il tempo e lo spazio di case e anime, quelle dei malati, quelle dei loro congiunti. Per chi ne sta fuori spesso è ancora un male scandaloso, di quelli di cui è sconveniente parlare, quelli per cui è meglio non chiedere «come sta». Anche l’elettroshock è un argomento tabù e non tutti sanno che in decine di ospedali pubblici e privati del nostro Paese, viene praticata legalmente, ogni giorno, la T.e.c., la terapia elettroconvulsivante volgarmente detta elettroshock. Non sono solo spettri di poeti a poter raccontare quella scossa, ma anche la casalinga pescarese, il dirigente scolastico sardo, la ragazza triestina, il quarantacinquenne sudtirolese e il suo conterraneo che ora lavora in un’associazione per il sostegno ai malati di mente.
1.400 TRATTAMENTI NEGLI ULTIMI TRE ANNI
La T.e.c. non è una pratica scomparsa con la riforma Basaglia, con l’apertura delle porte dei reparti psichiatrici e con la chiusura dei manicomi. Tra il 2008 e il 2010 in Italia sono stati fatti 1400 elettroshock in novanta strutture sanitarie pubbliche e private tutte elencate in una tabella del ministero della salute. In genere i pazienti si sottopongono alla terapia per cicli, col ricovero e un’anestesia di cinque minuti che consente a una leggera scossa di due/otto secondi di attraversare il cervello. I picchi della pratica si rilevano nei reparti guidati da “elettroshockisti” convinti: medici che hanno anche una associazione, l’Aitec, e che hanno chiesto ufficialmente a ministri della sanità, in anni recenti, di incrementare i mezzi utili a diffondere la T.e.c. Una terapia «salvavita nei casi gravi di catatonia maligna e guaritrice nel 50 per cento dei casi di depressione maggiore», dice il primario del reparto psichiatrico dell’ospedale di Brunico, Roger Pycha. Una «terapia ascientifica, ottocentesca e abbrutente, che spegne le persone senza curarle», dice il segretario di Psichiatria democratica Emilio Lupo. Gli fa eco il collega basagliano Ernesto Venturini «Negli anni 50 e 60 praticai la T.e.c. con convinzione, da assistente universitario, poi vidi cosa accadeva ai malati che venivano curati con assistenza 24 ore su 24 a Gorizia da Basaglia e capì che l’elettroshock non solo è un trattamento umiliante ma che i miglioramenti sono solo legati alla perdita temporanea della memoria: ci si dimentica dell’elemento ossessivo salvo poi avere peggiori ricadute legate anche alla distruzione dell’autostima».
Ma la vexata questio è la scientificità della terapia elettroconvulsionante. L’elettroshock è una pratica empirica non scientificamente provata, dicono i detrattori, tesi che i fautori negano dicendo che all’estero c’è fior di letteratura sulla T.e.c.. L’argomento infervora: Psichiatria democratica ha pronta una campagna contro: «No elettroshock» è lo slogan, con la vignetta di Staino, il sostegno di altre cinque associazioni tra cui Libera e Cittadinanzattiva e di alcuni parlamentari. Obiettivo? Arrivare al divieto di elettroshock in Italia, uno dei paesi d’occidente dove, comunque, è meno diffuso: la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, la Danimarca hanno numeri superiori.
A maggio anche la commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema sanitario nazionale presieduta dal senatore Ignazio Marino si è occupata di T.e.c., tra l’altro con una ispezione all’ospedale di Brunico e una audizione del ministro della salute Balduzzi. Nei verbali dell’ispezione a Brunico si legge di un reparto psichiatrico con le porte chiuse a chiave in buone condizioni ma con dentro un paziente che chiedeva l’elettroshock perché gli dava ‘gioia’, come egli stesso ha riferito ai parlamentari, aggiungendo che non gli era stata proposta terapia farmacologica prima del trattamento elettrico (fattibile, ex lege, solo se cicli di farmaci sono stati inefficaci). Non si deve immaginare l’elettroshock come un trattamento disumano, una tortura per poveri pazzi, fa capire il senatore Marino, ma, considerando la delicatezza della materia «bisogna vigilare affinché i protocolli vengano rispettati». Non solo: i parlamentari a lavoro sul tema hanno anche incontrato un uomo che, pur avendo problemi psichici gravi tanto da aver subito T.e.c., aveva un fucile e con esso cacciava. Un caso che ha colpito tutti e che è finito nei verbali di una delle sedute della commissione d’inchiesta sul sistema sanitario dedicate all’elettroshock. Lo stesso mese è stato audito il ministro della salute Balduzzi che ha fornito i dati sulla terapia elettroconvulsionante in Italia e ricordato quali sono i confini entro i quali può essere praticata.
IL PARADOSSO TOSCANO
Ma quali sono le regole? Le linee guida sono state dettate dal ministero della sanità ai tempi di Rosy Bindi e dicono che l’elettroshock può essere somministrato solo dopo che per più volte sia stata tentata la via farmacologica e previo esame del soggetto da curare da parte di un terzetto di esperti esterni alla struttura psichiatrica in cui si affaccia il paziente per la T.e.c. Le stesse linee guida del 1999 rilevano che è tutta da dimostrare la superiorità della T.e.c. rispetto ad alcune cure farmacologiche e che frequenti sono i rischi di ricadute. Proprio per questo si incrementano i controlli e si richiedono consensi informati, affinché la T.e.c. sia l’ultima spiaggia dopo i farmaci e solo in casi di gravi pazienti (depressione maggiore, ipertermia maligna, sindrome maligna da neurolettici).Alcune regioni (Toscana, Piemonte, Marche) hanno provato a vietare l’elettroshock ma hanno incontrato la bocciatura della Corte Costituzionale poiché il divieto di una terapia medica non rientra nei poteri di un ente locale, nonostante la riforma del 2001. Capita così che la Toscana, il cui consiglio regionale si era schierato con una legge all’unanimità contro la T. e.c., sia oggi una delle regioni in cui è praticata con numeri record all’ospedale di Pisa che, insieme a Brunico e Oristano, e uno dei poli pubblici di questa terapia.

l’Unità 7.11.12
Si praticava al mattatoio sui maiali
di G.S.


ROMA L’elettroshock è nato all’Università di Roma nel 1938, per mano del dottor Ugo Cerletti. La prima persona ad esservi sottoposta fu un uomo che, fermato dalle forze dell’ordine alla stazione Termini: si agitava troppo per una crisi psicotica acuta. Così su di lui venne sperimentata la tecnica di impulsi elettrici in testa, fino ad allora si usava al mattatoio di Testaccio per addolcire i maiali furenti, quando sentivano imminente il massacro.
Erano gli anni bui della dittatura, i Trenta e i Quaranta, quelli in cui della T.e.c., a detta degli stessi fautori, in Italia si abusò. I pazienti vi venivano sottoposti numerosi e senza anestesia. «Era la psichiatria biologica oggettivante spiega lo psichiatra basagliano triestino Peppe Dell’Acqua la stessa delle contenzioni e della lobotomia. Pratiche a cui in America furono sottoposti anche pazienti eccellenti come Rosemary Kennedy, sorella di John, lobotomizzata a 23 anni perché troppo vivace». Poi arrivò Franco Basaglia che ai pazienti psichiatrici negli anni 60 e 70 diede libertà e tolse le divise, inserendoli in una serie di relazioni, opportunità e cure che duravano l’intera giornata, secondo una concezione esistenzialista e fenomenologica della malattia mentale. Concezione per cui il malato, l’uomo, non può corrispondere a una serie di sintomi. Così la T.e.c. finì il suo momento di gloria, salvo restare molto praticata, ancora oggi, nei reparti psichiatrici guidati da fautori di questa tecnica. Nella tabella del ministero della salute che elenca i ‘dimessi’ dopo T.e.c., spiccano i numeri dell’azienda ospedaliera di Montichiari con 421 elettroshock fatti nel triennio 2008-2010; i dati del policlinico universitario di Pisa con 163 T.e.c. nel triennio e le 195 del polo ospedaliero San Martino di Oristano. Poi ci sono l’ospedale di Brunico con 102 trattamenti e la casa di cura privata di Verona ‘Villa Santa Chiara’ con 254 in un triennio in cui in tutta Italia ne sono state praticate 1400.
Alla terapia tutti vengono sottoposti. Dai dipartimenti di salute mentale raccontano che tra i pazienti ci sono molte donne, malati per cui i congiunti non sanno più che pesci prendere e che si rivolgono a cliniche private alla ricerca di un beneficio considerato subitaneo e facile, ’insospettabili’ uomini di mezza età e anziani. Proprio contro l’applicazione della terapia agli ultra-settantacinquenni si schiera con più forza il segretario di Psichiatria democratica Emilio Lupo, sottolineando tra l’altro i rischi di morte legati all’anestesia oltre che il non senso di un intervento tardivo su un malato cronico.