venerdì 9 novembre 2012


l’Unità 9.11.12
Il Pd con Schulz: «Guidi governo progressista dell’Ue»
Il presidente del Parlamento Ue incontra Bersani
Napolitano: apprezzamento per la coerenza europeista
di Umberto De Giovannangeli

MILANO L’Europa dei progressisti passa per Roma. E per il sostegno del Pd alla candidatura di Martin Schulz a presidente della Commissione europea. Contenuti e squadra di governo. Un governo europeo di segno progressista. Il rigore va bene e anche un controllo europeo più incisivo sui conti pubblici ma questa non sarà mai una risposta sufficiente a superare la crisi se non si favoriscono lavoro e crescita. È l’analisi condivisa da Pier Luigi Bersani e Martin Schulz, nel corso di un incontro che si è svolto ieri mattina nella sede del Pd.
Il segretario democratico ha ricevuto il presidente del Parlamento europeo per discutere della crisi europea ma anche delle prossime sfide elettorali dei progressisti. È Giacomo Filibech, coordinatore del dipartimento affari esteri del Pd, a riferire del colloquio, al quale era presente anche il responsabile Esteri, Lapo Pistelli.
«C’è stata un’analisi comune sulla crisi europea spiega Filibeck sul fatto che il nostro Paese sconta, a differenza della Germania, un ritardo nelle riforme strutturali all’indomani dell’ingresso nell’euro». E oggi oltre alle politiche di rigore occorrono strumenti per favorire la crescita, strumenti come la Tobin tax, un’arma utile anche contro il populismo dilagante in Europa. La sfida per tutta l’area progressista è vincere in Italia, poi in Germania e poi alle elezioni europee del 2014 alle quali il campo progressista si deve presentare con una piattaforma unica e un candidato unico alla presidenza della Commissione europea, è il ragionamento svolto da Bersani. E in questa ottica, per il segretario del Pd il candidato migliore alla successione di Josè Manuel Barroso è Martin Schulz. Nell’incontro al Nazareno, dismesso il ruolo di presidente del Parlamento europeo, Schulz ha poi indossato i panni del socialista, sostenendo con Bersani l’obiettivo della vittoria in Europa dell’area progressista, a partire dall’Italia e poi in Germania per poi concentrarsi nelle elezioni europee, proprio per riuscire a realizzare la ricetta progressista per far uscire l’Europa dalla crisi.
Il «gioco di squadra» dei progressisti che vede una convergenza di vedute tra il Ps francese, la Spd tedesca, il Pd italiano e i socialisti spagnoli del Psoe prevede anche una proiezione europea, in ruoli di primo piano, di personalità politiche italiane che in passato hanno ricoperto importanti ruoli di governo. Il rafforzamento del peso politico delle istituzioni europee è l’analisi condivisa dai leader progressisti europei passa anche per una Commissione di caratura, a partire da alcuni ruoli di punta, come quello di Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Un passaggio importante nella definizione di un programma condiviso per le elezioni europee del 2014 che sviluppi e arricchisca il «Manifesto di Parigi» sarà il meeting organizzato a Roma l’8 e il 9 febbraio prossimi dalla Fondazione dei progressisti europei (Fesp) presieduta da Massimo D’Alema.
Altro momento particolarmente significativo della intensa giornata romana di Martin Schulz è stato l’incontro al Quirinale con il capo dello Stato, in occasione del quale Giorgio Napolitano ha conferito a Schulz l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana come presidente del Parlamento, personalità della democrazia europea e amico dell’Italia. «L’ho apprezzato molto ha detto il capo dello Stato nell’occasione quando abbiamo collaborato per anni nel Parlamento europeo, per il suo impegno, la sua coerenza e la sua energia europeistica. Sappiamo che in questo momento, anche in particolare il governo italiano e il Presidente del Consiglio Monti possono contare sul contributo del Presidente del Parlamento europeo per far avanzare la causa dell’integrazione e per riaffermare i principi fondamentali del processo di integrazione europea come quello di solidarietà che è un principio purtroppo alquanto appannatosi negli ultimi anni».
Il presidente Napolitano ha anche ricordato di aver scritto a Schulz dopo il discorso pronunciato quest’estate a Sant’Anna di Stazzema, «perché il Presidente Schulz appartiene anche ad una schiera, per fortuna numerosa, di antifascisti e democratici italiani e tedeschi che hanno saputo e che abbiamo saputo assumerci la responsabilità e il coraggio del peso della storia.

La Stampa 9.11.12
Le idee a confronto a Roma
“L’Europa scelga il rigore ragionevole”
La ricetta socialdemocratica per ricostruire l’Unione dopo la crisi guardando agli Usa di Obama
intervista di Francesco Sforza con Pier Luigi Bersani e Martin Schulz

«Se un giorno mi avessero detto che sarei diventato Cavaliere, proprio io…». Sorride Martin Schulz, presidente del Parlamento Europeo, al pensiero di quando il Cav lo apostrofò con il termine kapo creando incidenti diplomatici a catena e un discreto subbuglio internazionale. Ieri Schulz è andato al Quirinale per ricevere da Giorgio Napolitano l’onorificenza della Gran Croce e ha riservato la mattinata a un lungo incontro con Pierluigi Bersani. Tra i due c’è una conoscenza di lunga data, e spesso durante il colloquio che hanno poi aperto ai giornalisti di due testate, La Stampa e la Faz, si sono scambiati pacche sulle spalle e occhiate di amicizia. Matteo Renzi? «Non lo conosco – ci preciserà Schulz al termine dell’incontro –. Forse l’ho incrociato una volta durante un passaggio a Firenze, ma niente di ufficiale».
Obama vince le elezioni in America, Merkel va a Bruxelles a richiamare il Parlamento sulla necessità di armonizzare le politiche fiscali e di bilancio, e la Grecia nel frattempo sperimenta un vero e proprio inferno sociale. L’urgenza di riflettere su un futuro più solidale viene da più direzioni, voi che ne pensate?
Onorevole Bersani, nel 2014 ci saranno le elezioni europee, ed è davvero tanto tempo che l’Italia ha una rappresentanza piuttosto limitata. In un’ipotesi di premiership democratica, ci fa una road map delle energie italiane che intende liberare per l’Europa?
In quel momento - una tappa cruciale per il rinnovamento delle linee politiche che disegneranno l’architettura del Vecchio Continente negli anni a venire - pensa che assisteremo a un maggiore compattamento delle forze progressiste in Europa?
B. «Io mi auguro che dopo la conferma di Obama, che ci ha mostrato un’America preoccupata per le tematiche sociali, ma allo stesso tempo decisa a proseguire nella strada intrapresa, questo tema venga affrontato in chiave mondiale: l’Europa è ancora il continente più forte del mondo, non può essere un problema per il mondo. Abbiamo anche questa responsabilità. Allo stesso tempo, venendo al confronto GermaniaGrecia, non credo che si tratti di due scenari opposti. C’è un treno con dei vagoni più comodi, dei vagoni meno comodi, alcuni vagoni che somigliano a carri bestiame, ma il treno è agganciato e va nella stessa direzione, che è di segno negativo. Chi è sul vagone più comodo se ne accorge dopo, ma prima o poi se ne accorge, perché siamo inestricabilmente agganciati. Che fare? Le proposte ci sono. Il problema sono i tempi, la crisi è molto veloce, le risposte sono ancora lentissime».
S. «Non ci sarà alcun recupero economico in Europa senza un risanamento fiscale e con investimenti massicci. Il Consiglio europeo ha varato 12 miliardi di euro di investimenti ma fino ad ora non è successo niente, e noi al Parlamento diciamo che bisogna agire al più presto. Muoviamo la stessa critica, sia come Parlamento europeo sia come socialdemocratici: il rigore va bene, ma va abbinato con gli investimenti. Secondo: la tassa sulle transazioni finanziarie, è un contributo che deve essere dato dalle banche e dai fondi perché loro hanno in gran parte causato questa crisi. Terzo: la crisi dei tassi di interesse che abbiamo in Europa. In Germania si paga quasi lo 0% in Italia il 6%, è uno squilibrio che va assolutamente eliminato. Gli eurobond sono morti, anche se io sono sempre a favore. Però bisogna parlare della licenza bancaria per rifinanziare gli investimenti. Quindi dico: la stabilità va bene, ma senza investimenti non c’è crescita».
B. «Se toccherà a me non ne farò una questione di posti o posticini, ma di nuovo una questione politica: per esempio sul piano politico mi piacerebbe che si affacciasse un soggetto politico che andasse oltre le antiche famiglie e fosse il luogo dei progressisti, dei socialisti, dei democratici europei. Mi piacerebbe che dentro questo processo l’Italia avesse prima di tutto una buona credibilità. La cosa che a noi preme di più è arrivare alla campagna elettorale delle europee con un solo candidato alla presidenza per tutti i progressisti. Io ce l’ho un nome, ed è Schulz, ma non sono il solo a decidere, vedremo. Politica e progetti al primo posto, non stiamo lì a giocare con le figurine».
S. «La domanda mostra come molti pensano alle elezioni europee come elezioni che riguardano il proprio paese. Uno degli obiettivi del partito socialdemocratico e anche dei partiti liberali è europeizzare le prossime elezioni. Non è tanto importante di che nazionalità uno è, ma in quale direzione politica si va. E qui ci sarà un effetto sorpresa molto interessante: facciamo un esempio, i cristiano democratici nominano un polacco e i socialdemocratici uno spagnolo e allora il partito democratico italiano deve sostenere lo spagnolo e i cristiano democratici francesi magari un polacco. Interessante no? ». B. «Sì, e non solo in Europa. A dicembre Pd e Spd daranno vita a un grandissimo appuntamento: un network dei progressisti qui a Roma, che raccoglierà non solo socialisti e socialdemocratici, ma anche liberali e democratici di tutto il mondo. L’obiettivo è aprire una nuova fase politica nell’arco di due-tre anni. La cultura delle destre ha tolto all’Europa la sua materia prima, cioè la solidarietà, e bisogna recuperarla. L’alternativa è il disastro. E con l’Spd ragioniamo in un modo veramente fraterno, come si diceva una volta…».

Il Fatto incontra nella sua redazione i candidati alle primarie del centrosinistra. Oggi Matteo Renzi. La trasmissione integrale, con servizi e interviste, su ilfattoquotidiano.it
Domani sul “Fatto” il forum con Nichi Vendola Presidente della Regione Puglia e leader di Sel 

il Fatto 9.11.12
Forum
Renzi “Basta con Monti ma anche con Bersani”
Renzi sfida Bersani e Vendola: ”Pubblicate le fatture di Pd e Sel”
Se la prende pure con i “tecniconi”
“Un governo di burocrati che non vuol riformare la burocrazia”

Il sindaco di Firenze al Forum del “Fatto”: “Il governo dei tecniconi è espressione di quella burocrazia che dovrebbe combattere. Ci vuole la rottamazione per spazzare via i troppi apparati della politica”. E sulle spese dice: “Io ho messo on line tutto. Mi piacerebbe che il segretario e Vendola rendessero pubbliche le fatture di Pd e Sel”
Si comincia con Matteo Renzi, il sindaco di Firenze rottamatore. Nella redazione del Fatto Quotidiano, a Roma, si confronteranno i candidati alle primarie del centrosinistra nel programma-evento “Il risiko delle primarie”. Uno per volta. Con servizi, le domande dei lettori via Internet e le voci degli elettori raccolti da Piero Ricca. E soprattutto con le domande dei giornalisti del Fatto, nei nuovi studi della web tv del FattoQuotidiano.it. Per oltre un’ora, ieri pomeriggio, Renzi ha risposto al direttore del Fatto, Antonio Padellaro, al direttore del FattoQuotidiano.it Peter Gomez, a Marco Lillo che ha realizzato le inchieste sulle spese del sindaco di Firenze e sugli appalti ai suoi parenti, a Stefano Feltri e a Paola Zanca, che ha organizzato e condotto il dibattito. Il video integrale del confronto è disponibile da questa mattina sul nostro sito, www.ilfattoquotidiano.it . Domani si prosegue con il secondo appuntamento: negli studi del Fatto ci sarà il leader di Sel Nichi Vendola. Il 16 novembre, in allegato con il Fatto Quotidiano, uscirà in edicola anche il libro Il risiko delle primarie (160 pagine, 1,8 euro): la raccolta delle principali inchieste del giornale sui candidati e molti articoli inediti per arrivare preparati al primo turno delle primarie, il 25 novembre.
I bersaniani sostengono di aver già vinto le primarie, la danno in svantaggio di 7-8 punti. Lei si sente già sconfitto o crede di poter tirare fuori nel rush finale la carta decisiva per vincere? (Padellaro) Io intanto sono felice che le primarie si stiano facendo. Non era scontato fino a qualche tempo fa. Per me la partita è aperta. Noi non abbiamo carte segrete da tirar fuori all'ultimo minuto, non c’è nessun coup de théâtre finale. È chiaro che Bersani è il favorito, sarebbe assurdo il contrario: è il segretario del partito, appoggiato dal 95% dei dirigenti. Rispetto a chi fino a un anno fa diceva: ‘Renzi non riuscirà a prendere un voto a sinistra’, però, i risultati di più di 30 feste dell'Unità che ho fatto quest'estate e i risultati della campagna fatta in tutte e 108 le province italiane, dimostrano che c'è un largo settore della sinistra che invece voterà anche per me. Il mio appello è che la gente vada a votare, per chiunque: l’importante è che si voti.
(Padellaro) È nobile, e non lo dico ironicamente, dire che l'importante è andare a votare e poi chi vince, vince. Posso dire che non ci credo?
Per me il tema dell'appello al voto non è un fatto formale. Non riesco a capacitarmi che si sia tentato di restringere la partecipazione. Non è per fare il piacione che dico ‘Votate chi vi pare’. Certo, c’è anche un elemento personale: più si alza il livello di partecipazione, più chance ho di vincere. (Padellaro) Ecco. Io credo che lei abbia già chiaro nella testa che cosa farà nel momento in cui dovesse vincere le primarie e cosa farà nel momento in cui dovesse perdere. Quale sarà il primo atto di Renzi vincitore e quale il primo atto di Renzi sconfitto alle primarie del centrosinistra?
Il giorno dopo le primarie, se perdo, per me finisce la corsa nazionale. Io non sono interessato a premi di consolazione. Non voglio fare né il ministro, né il parlamentare, né il sottosegretario. Darò una mano a Bersani.
(Padellaro) In che modo?
Farò campagna elettorale per lui e con lui. Spero che a quel punto Bersani abbia la ragionevolezza, che credo non gli manchi, per tentare di prendere quell’area di persone che ha lavorato insieme a me e coinvolgerla nell’organizzazione.
(Padellaro) E i voti che lei ha ricevuto restano orfani?
Io immagino che il giorno dopo si lavori insieme. Non che ci sia una specie di punizione corporale per quelli che hanno perduto la partita.
(Padellaro) Io non parlo del gruppo dirigente. Parlo dei suoi elettori.
In questi anni quelli che hanno perso hanno sempre avuto la seggiola garantita. Fausto Bertinotti, presidente della Camera. Clemente Mastella, ministro della Giustizia. Di Pietro ai Lavori Pubblici, Pecoraro Scanio all’Ambiente. Devo continuare? Mi accusano di essere il rampante, l'arrivista. Più chiaro di così!
(Padellaro) La prima cosa che fa se vince?
Non disperdo il patrimonio pazzesco che abbiamo raccolto: bisogna esprimere quella domanda di cambiamento anche nella campagna elettorale.
(Padellaro) Chiederà a Bersani di dimettersi da leader del Pd?
Il punto non è chi fa il segretario del Pd. Chiederemo che tutti quelli che hanno fatto più di tre mandati vadano a casa.
(Feltri) Quindi chiederà a Bersani di non ricandidarsi in Parlamento?
C’è una deroga allo Statuto per gli eletti nel 2001. Chiederemo di fare un passo indietro a chi è stato eletto prima. Mi sembra già una gran cosa. Bersani è arrivato nel 2001, gli è andata bene.
(Zanca) Qualcuno sostiene che la sua vittoria sfascerà il Pd. Anche perché lei ha dichiarato di voler conquistare i voti degli ex elettori del Pdl.
I voti del centrodestra vanno ripresi, è anche grazie a quei voti che governiamo. Parto dal presupposto che ci siano tanti delusi dal Pdl e che in Italia ci sono 14 milioni di elettori indipendenti, che scelgono di volta in volta chi votare. Il punto è cosa significa essere di sinistra oggi?
(Gomez) Caratterizza la sinistra il tema dei diritti civili. Lei cosa pensa del matrimonio e dell'adozione per le coppie gay? E cosa intende fare, al di là degli imbarazzi della Chiesa cattolica?
Io che sono cristiano cattolico quando faccio politica non rispondo in virtù della mia convinzione religiosa ma degli impegni che prendo con i cittadini. Noi abbiamo già detto che nei primi 100 giorni faremo la civil partnership, ovvero lo strumento giuridico che esiste in Inghilterra e Germania e che segna un punto di non ritorno sull'acquisizione dei diritti civili. Restano aperte tre questioni: primo, serve una legge contro l'omofobia; secondo la questione “matrimonio”: chiamarlo così, significa intervenire sul dettato costituzionale, servono maggioranze diverse e tempi molto più lunghi. Terzo, il tema dell'adozione. Io sono scettico, nella civil partnership non ci sarà. Ma le ‘famiglie arcobaleno’ esistono, bisogna pensare a una disciplina giuridica.
(Gomez) È su queste risposte che si misura in parte se è di destra o di sinistra. Per esempio gli si può anche chiedere: in Colorado hanno appena votato per la legalizzazione della marijuana. In Italia per detenzione di piccole sostanze stupefacenti si va ancora in galera. Lei cosa intende fare?
Usiamo anche qui un metodo pragmatico: se suo figlio viene trovato con uno spinello, ha una procedura complessa di natura penale. Se va al supermercato e si carica uno scatolone di superalcolici non subisce conseguenze. È un problema, ma non si affronta partendo dall'ultimo referendum del Colorado.
(Lillo) Quindi, depenalizzazione o no?
Siccome mi accusano di superficialità, io non dico sì o no su un argomento sulla base dell'ultimo referendum americano. Nel mio programma non c'è. Ma non è da questo che si giudica se sono di sinistra o no.
(Lillo) Parliamo di soldi. La politica è fatta anche di questi. Ed è importante capire qual è il livello di trasparenza. Le faccio un esempio concreto. Su La7, Piazzapulita ha intervistato alcuni esponenti del mondo della finanza che uscivano da una cena di raccolta fondi in una chiesa sconsacrata. Tra loro c'era Guido Roberto Vitale – che tra l'altro è azionista di un azionista del Fatto – che ha dichiarato di averla finanziata. Ma a distanza di 20 giorni questo finanziamento non compare sul suo sito e neppure su quello della fondazione Big Bang. Poi lei ha promesso che entro il 16 novembre metterà tutto on line. Ci garantisce che sapremo nomi e cifre?
Io sono per l'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. E quindi devo trovare altri modi di raccogliere fondi. Ci sono due strutture: una per la campagna elettorale, l'altra è la fondazione. La parte del comitato elettorale ha come budget massimo spendibile 200mila euro, come deciso dai garanti delle primarie. Ad oggi ne ho raccolti 127mila.
(Lillo) Ma a noi interessa l'altro contenitore, quello della Fondazione, dove ci sono i soldi veri, quelli della chiesa sconsacrata...
La Fondazione ha organizzato alcuni eventi, come il Big Bang e la cena di Milano. E come per il Big Bang, che costò circa 120 mila euro e tutto fu messo on line, anche nel caso della cena verranno resi noti i nomi dei finanziatori.
(Lillo) Tutti?
A me risulta che sia obbligatorio per lo statuto della Fondazione, di cui io non faccio parte anche se è chiaro che partecipo alle iniziative che organizza. A me sembra di ricordare che ci sia un tempo di 30 giorni, ma devo verificare, per permettere on line, cioè ci siamo auto-obbligati a mettere on line e mi pare che sia obbligatorio per tutti. E mi pare anche che in quella serata ci fosse una sorta di liberatoria a pubblicare nome e cognome di chi dà i quattrini. Posso fare un appello a Bersani e Vendola: io ho messo on line tutte le fatture del Comune di Firenze e questo mi ha creato una serie di polemiche, come la famosa vicenda del tortino di aragosta, che in realtà era un tortino di granchio da 16 euro anche se i giornali, incluso il Fatto, hanno scritto “Renzi viaggia a aragoste e champagne”. Lo champagne non c'era. Comunque: io ho messo on line tutte le sante fatture del Comune di Firenze. Mi piacerebbe che Pd e Sel mettessero on line le fatture del Pd e Sel degli ultimi tre anni. E poi vorrei aggiungere una cosa. Se passa il principio della trasparenza, non è che se uno poi mi dà 100 mila euro poi non può più lavorare con il pubblico se no poi arrivano i giornali e dicono che mi ha dato soldi in cambio di qualcosa. Qui c'è un eccesso di puritanesimo scandalistico...
(Padellaro) C'è un eccesso perchè in Italia abbiamo i Fiorito..
Sì ma Fiorito usava i soldi pubblici, come Lusi, come Belsito, come quello dell'Idv.
(Feltri) Insomma, ma lei lo sa quanti soldi ha raccolto alla famosa cena milanese?
Mi dicono che dovrebbe essere attorno ai 100mila euro.
(Lillo) Un po’ tirchi questi della chiesa sconsacrata.. Diciamo una cosa: lo strumento delle fondazioni è stato usato dalla politica per scavalcare l'obbligo di rendicontazione. Volevo capire se lei è diverso da D'Alema che i bilanci di ItalianiEuropei non ce li ha voluti dare. Tra dieci giorni sapremo tutto?
Penso proprio di sì.
(Zanca) Il messaggio dell’aragosta però è passato. I lettori ci scrivono: come fa uno che prende voli privati e mangia aragosta a capire chi vive con 1000 euro al mese?
Ho preso un volo privato da Firenze a Pescara perché era l'unico modo che avevo per partecipare al funerale del procuratore Pier Luigi Vigna. Lo rifarei domani mattina, se necessario. Per il resto nella campagna ho viaggiato con il camper, con voli low cost. A Catania ci sono andato con Alitalia. Poi certo, sono un privilegiato, guadagno 4000 euro netti per 12 mensilità. Non vivo con 1000 euro al mese, ma facendo il sindaco conosco il loro disagio, e quello dei precari o dei cinquantenni a cui si dice che sono troppo vecchi per lavorare e troppo giovani per la pensione.
(Feltri) Renzi, mettiamo che lei vinca le primarie e poi le politiche. Nell'aprile 2013 arriva a palazzo Chigi e si trova con una recessione che nel 2012 ha affondato il Pil del 2,5 per cento e che continua. Che fa per mantenere il pareggio di bilancio: vende azioni di Eni e Finmeccanica, una manovra lacrime e sangue o va in Europa a rinegoziare i vincoli?
Rinegoziare il pareggio di bilancio ci farebbe perdere la credibilità ritrovata con il governo Monti. Questa possibilità la escludo in partenza. Ma anche i tagli lacrime e sangue non si possono più fare: significherebbe ammazzare il Paese.
(Feltri) E quindi?
L'unica possibilità è avviare una massiccia operazione. Nel programma ci concentriamo soprattutto sulla vendita del patrimonio pubblico.
(Feltri) È lo stesso ragionamento del governo Monti. Ma stiamo vedendo quanto è difficile.
Iniziamo a ragionare su quello che hanno fatto davvero. Quando sento i “tecniconi” che dicono “facciamo un fondo per metterci gli immobili pubblici”, non sono credibili. Se vuoi vendere una caserma e poi non hai un sindaco che cambia la destinazione d'uso, il valore di quella caserma è una frazione. E quindi non sei credibile quando stimi l'incasso. Quindi il primo passaggio è la riforma della burocrazia, non dell'economia. O fai un incontro con la Conferenza Stato Regioni e con la conferenza Stato Città, o una legge speciale, ma lì c'è il problema del Titolo Quinto della Costituzione.
(Feltri) Ma se io sono l'investitore di un fondo sovrano e devo decidere se comprare Btp e lei mi parla del titolo quinto, può immaginare la reazione.
A Firenze ho perso l'investimento di un fondo d'investimento da 120 milioni e 600 posti di lavoro non certo per colpa dell'articolo 18, di cui non interessava nulla, o di assenza di sussidi. Neppure per colpa delle infrastrutture. Ma per altre due ragioni: la burocrazia e la lentezza della giustizia civile. Serve una riforma. Ma il governo Monti non ha fatto alcuna riforma della burocrazia perché è espressione di quella burocrazia che dovrebbe combattere. In alcuni settori chiave ha quei burocrati che sono responsabili della situazione in cui siamo.
(Feltri) E come si risolve?
Ci vuole la rottamazione anche lì, non si può intervenire col fioretto. Prendiamo il caso delle Province: perché Pisa e Livorno devono stare insieme e avere comunque una Provincia? Non hanno avuto il coraggio di spazzare via il ceto politico delle province: capi segreteria, presidenti, addetti stampa... Nella prossima legislatura bisognerà dimezzare il numero dei parlamentari entro il 2013 e riformare il Senato, modificato in Camera delle autonomie composto dai presidenti delle Regioni e dai sindaci di capoluogo, senza indennità aggiuntive. O lo fai subito o non lo fai subito.
(Feltri) L'economista Luigi Zingales, che è stato anche un suo consulente, propone di espropriare le fondazioni bancarie: prendiamo da lì 40 miliardi e li mettiamo sulla scuola.
Quello delle fondazioni è un problema che va affrontato, forse non coi toni tranchant di Zingales ma va fatto. Fondazioni e Cassa depositi e prestiti.
(Feltri) Vuole rottamare anche Giuseppe Guzzetti, presidente dell'Acri (l'associazione delle fondazioni e delle casse di risparmio)?
Questa è la sua versione sintetica
(Padellaro) Per essere un premier credibile avrebbe bisogno di un grande ministro dell'Economia.
Ma pensate che ve lo vengo a dire qua? Comunque deve essere una persona che abbia uno standing e un'autorevolezza per parlare al mondo. E in Italia ce ne sono 10-15. E alcuni di questi voi giornalisti non li avete mai citati.

La Stampa 9.11.12
Lo strappo di Renzi “Non tratterò con Vendola e Casini”
Il sindaco di Firenze spinge sul modello Usa poi frena “L’alleanza si rifarà alla carta d’intenti dei progressisti”
Ironico il leader di Sel: «Perché si candida?»
E Bersani: «Dice così? È solo un’impressione»
di Carlo Bertini

Va bene la personalizzazione estrema, va bene il piglio presidenzialista, ma se perderà le primarie, no, non correrà alle politiche con una lista col suo nome, pure se quotata al 12% stando ai sondaggi Demopolis svelati ieri sera a Otto e mezzo. «Non ci penso neppure - è la reazione di Matteo Renzi di fronte a questi numeri - a maggior ragione se uno perde le primarie deve dimostrare lealtà e serietà. Non sono un arrivista rampantino che cerca di prendere una seggiola e di partiti ce ne sono già troppi». Invece a Renzi piacerebbe «un sistema all’americana con due partiti, dove i cittadini possono scegliere di volta in volta».
Ecco, che «l’americano» Renzi, dopo Veltroni, sia riconosciuto come il più «obamiano» dei leader Pd, non è un mistero: proprio lui, non Bersani, aveva fatto in modo di guadagnarsi un invito alla convention democratica. E l’onda lunga della vittoria di Obama arriva a frangersi sulle primarie dei progressisti di casa nostra. Renzi prova a evocare «il sogno» di un mega-partito dove tutte le anime, le più radicali e le più moderate, convivano e riescano a rappresentare un intero Paese. E il suo messaggio, consegnato ieri ad «Avvenire» e in serata a «La7», riecheggia quello della «vocazione maggioritaria» di veltroniana memoria. Prima ad «Avvenire»: se vincesse le primarie il «suo» Pd non si siederà con Vendola e Casini per trattare alleanze di governo. «Perché il Pd di Renzi può correre e vincere da solo, senza i partiti, con gli italiani. Questa volta è concreta la possibilità di farcela, ma la nuova stagione non passa dagli accordi di potere, non prende forma dietro un’estenuante ricerca di equilibri e infinite trattative. La sola stella cometa è la governabilità».
Altra musica rispetto a quella che è costretto a suonare il Pd di Bersani, impelagato in alchimie per superare il fatidico 40% della ipotetica nuova legge elettorale, inanellando sfilze di alleati, non solo Vendola e i socialisti, ma anche ex dipietristi, liste arancioni dei sindaci, o rinnovate intese con Radicali e Verdi.
Ed è la stoccata al segretario la più dura di Renzi, perché il modello di legge elettorale allo studio «riesce nel miracolo di essere un porcellum al quadrato e non capisco la sua ira, non si è comportato in modo trasparente, troppe tattiche... ». Insomma l’ultimo miglio delle primarie fa mettere in soffitta il fair play, è l’ora della battaglia finale per vincere la guerra. Ed è bastato l’annuncio di un Renzi che corre da solo per far scattare ironie sui social network e acidi rimbrotti: tutti gravitanti sull’accusa che «allora così si candida a perdere le elezioni» e che «forse non si è accorto che le primarie sono già di coalizione». Vendola il più duro, «Allora perché si candida? ». Bersani ironico, «Dice così? È solo un’impressione». E lui, lo sfidante, piomba nella capitale per inaugurare il suo «comitato nazionale», in un simbolico crocevia dei Palazzi romani, a piazza delle Cinque Lune, cento metri dal Senato e da Montecitorio. Poi nello studio della Gruber è costretto a frenare, «se vinco le primarie, l’alleanza è quella della cornice della carta d’intenti dei progressisti», quindi Vendola e i socialisti. «Nessuno mette in discussione l’alleanza, ma chi vince le primarie decide il programma dentro la cornice della carta d’intenti. E chi perde deve sostenere quel programma: Vendola se perde deve sostenere quel programma... ». Tradotto, sarà lui il primo a non voler stare con me. 

l’Unità 9.11.12
Noi cattolici coerenti nel Pd
Noi cattolici che scommettiamo sul Partito democratico
Non siamo approdati qui per convertirci alla socialdemocrazia. Questo è un argomento usato contro di noi da Berlusconi
Per noi il Pd è qualcosa di più dell’incontro tra culture diverse Perciò siamo impegnati
a sostenere Bersani alle primarie
di Francesco Saverio Garofani e Antonello Giacomelli

Per noi il Pd è qualcosa di più dell’incontro tra culture diverse. È, come diceva Pietro Scoppola, l’ultimo, decisivo atto fondativo della democrazia italiana.

MERITANO ATTENZIONE E INCORAGGIAMENTO LE INIZIATIVE CHE ALCUNE AUTOREVOLI PERSONALITÀ HANNO PROMOSSO PER CERCARE DI DISINCAGLIARE UNA PARTE IMPORTANTE DEL CONSENSO CATTOLICO DALLE SECCHE DEL FALLIMENTO BERLUSCONIANO. Il quindicennio che ora ci siamo messi alle spalle ha visto, infatti, una profonda divisione dell’elettorato cattolico che ha sostanzialmente seguito le faglie di un bipolarismo che si è progressivamente solidificato non soltanto sul piano politico, ma anche su quello culturale, fino ad assumere i contorni di una incomunicabilità antropologica.
Inutile negare che in questa stagione lunga e tormentata, che ha prodotto incomprensioni e tensioni anche a livello ecclesiale, anche il cattolicesimo politico ha vissuto una profonda divaricazione, tale da far rivivere fratture che si pensavano definitivamente superate: è tornata a farsi radicale l’alternativa tra cultura della mediazione e cultura della presenza. Si è fatta acuta la disputa attorno al principio e al contenuto della laicità. Ci si è divisi attorno al tema della non negoziabilità di alcuni valori. I cattolici democratici si sono opposti alla deriva berlusconiana che pure aveva prodotto la rottura e la fine della breve stagione del nuovo popolarismo, travolto dal vento bipolarista.
Questa resistenza non è stata infeconda. Da quella battaglia è nato il nuovo centrosinistra. La stagione dell’Ulivo, con Romano Prodi. E infine il progetto e la costruzione del Partito democratico. I cattolici democratici hanno attraversato quello che a qualcuno è parso un deserto. Hanno sfidato incomprensioni e contraddizioni. Hanno affrontato incertezze e dubbi. Hanno sofferto solitudine e subìto critiche, spesso ingiuste, come quelle che imputavano loro irrilevanza e opportunismo, piegati e rassegnati ad una presunta egemonia della sinistra. Mentre si celebrava il protagonismo ed il rilievo dei cattolici berlusconiani. Noi, cattolici democratici, siamo stati gli avversari più intransigenti e radicali non di Silvio Berlusconi ma del berlusconismo. Abbiamo creduto alle nostre ragioni: la difesa dei principi fondativi della Repubblica scritti nella Costituzione, la centralità dell’Europa, la dignità della persona, di ogni persona. Abbiamo investito ogni nostra energia e ogni nostra speranza nel Partito democratico come ultimo, decisivo atto fondativo – come diceva Pietro Scoppola – della democrazia italiana.
Siamo profondamente convinti che senza l’apporto della cultura politica dei cattolici democratici, senza la loro attitudine riformatrice, il partito democratico non sarebbe mai nato. E rivendichiamo questo contributo decisivo, sapendo bene che non si tratta di ritagliare all’interno di un contenitore più vasto una sorta di oasi protetta dove conservare e far vivere i nostri valori. Il pluralismo per noi non è questo. Il Partito democratico è per noi qualcosa di più del dialogo tra culture diverse: è il luogo di un incontro in cui nasce una novità vera, che supera le tradizioni precedenti e le invera in un pensiero autenticamente e radicalmente nuovo, all’altezza delle domande inedite e drammatiche di questo tempo. Sappiamo che avremmo dovuto e potuto fare di più. Che il Partito democratico che abbiamo costruito è ancora troppo lontano dall’ambizione che lo ha fatto nascere. Che ci sono ritardi e vizi inaccettabili che ne indeboliscono il profilo e ne minano la credibilità in tante realtà del Paese. Assieme ai nostri limiti e alle nostre inadempienze avvertiamo anche le ricorrenti tentazioni di chi vorrebbe ripiegare nella normalità delle appartenenze originarie. Nell’ordinaria amministrazione di un partito «tradizionale». Riconosciamo il sapore di vecchie nostalgie identitarie, la voglia di restaurare apparati che non funzionano più. Attraversando il guado di questa difficile transizione c’è chi vorrebbe tornare al punto di partenza, magari appiccicando etichette nuovi a culture vecchie.
Noi cattolici democratici non siamo approdati nel Pd per convertirci alla socialdemocrazia e questo deve essere chiaro a tutti: è un argomento che è stato usato contro di noi da Berlusconi e che dunque non può avere diritto di cittadinanza tra di noi. E tuttavia sappiamo che c’è solo un modo per spazzare via dal dibattito contro il Partito democratico questo argomento: accelerare il lavoro di consolidamento del progetto democratico.
Con queste convinzioni siamo fortemente impegnati a sostenere la candidatura di Pier Luigi Bersani alle primarie per la premiership come l’espressione più convincente e autorevole di un partito che fa della cultura di governo e della sua forza riformatrice la garanzia di quel profondo cambiamento che l’Italia attende. E, per quello che ci compete, sappiamo che ciò sarà possibile tanto più riusciremo a rendere più incisiva, visibile e percepibile l’iniziativa e la nostra cultura riformista, per rendere più forte e attrattiva la vocazione maggioritaria che è e resta la cifra distintiva di un partito che ha senso solo se è davvero capace di rappresentare in sé tutta la società italiana, la sua ricchezza, la sua pluralità, la sua complessità.
Questa è la condizione fondamentale per costruire un’alternativa forte e credibile. Questa è anche la missione dei cattolici democratici, soprattutto di una nuova generazione di cattolici democratici, che vuol ripensare stili, linguaggi e modi di essere in politica per aprire una nuova stagione. Ed è una missione dentro il Pd, perché anche solo il pensare di appaltare all’esterno la rappresentanza delle istanze e dei valori della cultura cattolico democratica vorrebbe dire rinnegare l’idea stessa del Partito democratico e dunque decretarne la fine. Tra le personalità che ora, al centro, lavorano per un disgelo, che disarticoli il vecchio e inadeguato bipolarismo, alcune avrebbero potuto essere con noi, per storia personale e affinità culturale. Siamo all’inizio di un cammino e sappiamo che con loro ci reincontreremo, quando sarà finalmente compiuto il passaggio ad un bipolarismo più maturo e civile..
Altri, la maggior parte di loro, hanno matrici culturali diverse, riferibili al filone nobile e minoritario del pensiero liberale: si tratta di personalità ed esperienze talvolta molto distanti dalla nostra tradizione e dalla nostra matrice popolare, soprattutto per quanto riguarda la sensibilità sociale. È, tuttavia, un bene che questo ramo della cultura politica italiana cresca e, anche sulla scorta dell’esperienza avviata da Mario Monti e dal suo governo, si rafforzi. Pensiamo che questo possa e debba avvenire in una leale e proficua collaborazione con il centrosinistra e con il Partito democratico.
Ed anzi siamo convinti che soltanto da questa collaborazione potrà prendere vita quella stagione costituente e di ricostruzione morale e civile di cui il Paese ha bisogno. A quanti condividono lo spirito di queste riflessioni chiediamo un impegno vero, a partire dalle primarie, per dare forza, concretezza e futuro ad una nuova stagione dei cattolici democratici nel Pd.

il Fatto 9.11.12
D’Alema tifa Bersani: “Valgo sempre 800 mila voti”
di Martina Castigliani

È la nota stonata, il familiare scomodo che si fatica a portare alle feste e mostrare in pubblico.
Massimo D’Alema, presidente del Copasir, continua nel suo viaggio per l’Italia a fare campagna elettorale per il segretario del Pd Pier Luigi Bersani, ma gli effetti non sono quelli desiderati. L’ultimo banco di prova ieri sera, al centro sociale Croce del Biacco di Bologna, dove di solito si trovano gli anziani del quartiere tra partite di carte e un caffè o al massimo un “bianchino”, il bicchiere di vino prima di andare a mangiare.
D’Alema è arrivato per parlare di rinnovamento, là dove la platea è di settantenni e a stento i giovani relatori riescono a risollevare la situazione. Guai a farglielo notare all’onorevole: “Faccio campagna elettorale perché la politica non la fanno solo quelli che stanno in parlamento. Ovunque vado si riunisce tanta gente. L’ultima volta che mi sono presentato alle elezioni regionali 838 mila elettori hanno scritto il nome D’Alema”.
E rincara poi la dose verso la troupe del Fattoquotidiano.it : “Non so quanti telespettatori o lettori abbiate voi, ma di sicuro sono di meno di quanti consensi ho io”. Ma tra i proclami e la realtà, c’è qualcosa che non torna. Facce anziane, giovani invecchiati tra i ranghi di partiti locali in difficoltà e tante polemiche: è il seguito che Massimo D’Alema si trascina per l’Italia, ad ogni tappa e ad ogni fermata della sua carovana. È l’assist più facile al nemico Matteo Renzi, il punto debole di uno schieramento che dice di voler cambiare e che ancora si trova una patata bollente in casa. “Ritirarmi in riflessione? Non non credo proprio, il mio impegno in questa campagna può sicuramente rafforzare la posizione di Bersani in tanta parte del paese. Penso di sapere di cosa parlo. Noi il rinnovamento lo stiamo facendo e non lo stiamo proponendo. E questo si fa anche grazie a una generazione che è stata protagonista in questi anni e che lo accompagna come in tutti i partiti seri. I rottamatori volevano togliere di mezzo i maggiori esponenti della sinistra, non certo rinnovare. Questo era il loro unico obiettivo”.
È sempre il solito D’Alema, quello che fa comizi in piedi, parla di esperienza e racconta di una politica lontana anni luce da quella che deve ingoiare oggi. E nessuno ha il coraggio di dirglielo, nemmeno i militanti, nemmeno quelli che al suo fianco ci sono da una vita. Ed è il caso di Bologna, dove c’è una gerarchia che attende da anni una chance, giovani diventati vecchi mentre si spartiscono poltrone e piccoli incarichi locali.
Persone di partito, sempre e comunque, cresciuti tra la sezione e il circolo Arci. Da maniche rimboccate e tessere ai banchetti. Ma che ha atteso per troppo tempo che venisse il loro momento e che rischia ancora una volta di veder sfumare tutto e che oggi sono disincantati. Sono ragazzi pronti a sacrificarsi, che nella politica ci credono ancora, ma che non hanno mai avuto una buona chance.
“Vedremo quello che decideranno gli elettori il 25 novembre”, conclude l’onorevole, “voi giornalisti avete troppe certezze. In realtà”.

Repubblica 9.11.12
Le primarie
Gli sfidanti preparano il duello tv Renzi convoca gli spin doctor Bersani: “Io punterò sui contenuti”
L’occasione degli outsider Vendola, Puppato e Tabacci
di Goffredo De Marchis

ROMA — La grande occasione per gli outsider: Bruno Tabacci e Laura Puppato. La scommessa di Pier Luigi Bersani che, come tutti i candidati in testa nei sondaggi, deve stare attento soprattutto agli scivoloni. La prova da sfruttare per Matteo Renzi che cerca l’allungo della sua rincorsa. Il rilancio di Nichi Vendola che è partito dopo gli altri in attesa dell’assoluzione nell’inchiesta di Bari. È il confronto televisivo tra i candidati alle primarie del centrosinistra, in onda lunedì su SkyTg24 a partire dalle 20,30. Regole di ferro, tempi contingentati, domande e inquadrature saranno uguali per tutti. La preparazione è molto diversa.
Bersani ha detto al suo staff: «Mi alleno da solo». Lo farà domenica al termine di un giro elettorale. Ma i suoi collaboratori hanno appuntamento oggi per studiare i temi e i punti critici del confronto. Si vedranno il capo della comunicazione Stefano Di Traglia, lo storico Miguel Gotor per poi comunicare via mail con il segretario suggerimenti, proposte, frasi-chiave. Bersani non farà prove particolari, non avrà sparring partner per misurare l’efficacia del suo discorso. «Non cercherò di piacere ma di essere ascoltato», è la sua linea. È convinto comunque di aver già fatto qualcosa di buono promuovendo
il dibattito. «Servirà a mettere il Pd al centro dell’attenzione, così com’è successo con le primarie. Ci farà bene, lo vedremo dai sondaggi». Certo, il problema è uscirne vittorioso. Ma il campo di gioco regolato, permetterà di confrontarsi sui contenuti, sui programmi, «il centrosinistra offrirà un’immagine seria di sé al Paese».
La pensa così anche Vendola. «Finalmente usciamo dal teatrino e entriamo nei problemi della gente», dice il governatore pugliese. Che è atteso da un tour de force di incontri pubblici, 5 appuntamenti in giro per l’Italia. Ma il lunedì mattina sarà dedicato alle strategie del dibattito. Vendola sarà aiutato dalla solita squadra: i bravissimi
comunicatori di Proforma, l’agenzia di Bari che cura la sua immagine, l’assessore Nicola Fratojanni, il capo ufficio stampa di Sel Paolo Fedeli. Non servono altri consiglieri, dicono. Non ne servono molti neanche a Matteo Renzi. Il quale, anzi, da parecchi giorni fa a meno di uno dei massimi esperti televisivi italiani. Giorgio Gori infatti ha ormai un ruolo secondario nel comitato renziano. «C’è stata una rottura », ammettono gli uomini del sindaco. E il vero esperto, garantiscono, è «Matteo», studioso di comunicazione, fanatico non a caso di Tony Blair e Bill Clinton, leader carismatici e affabulatori. Ma non rinuncerà a una riunione con lo staff del suo comitato guidato da
Antonella Madeo. E a un ultimo scambio con i fedelissimi Marco Agnoletti, portavoce al Comune, e Luigi De Siervo, direttore commerciale della Rai e amico di infanzia. Come il mito Blair la camicia bianca, anche lunedì sera, sarà il suo marchio di fabbrica.
Laura Puppato è reduce da una buona prova a Ballarò, martedì scorso. È l’unica donna e risalterà tra i quattro uomini nello studio di X Factor. Il dibattito le servirà soprattutto a rompere il muro della conoscenza, del contatto con gli elettori. Non ha avuto molto spazio mediatico. Dalla sua prova, lunedì, dipendono anche i futuri inviti televisivi fino alla data del 25 novembre. A Tabacci fa sorridere l’idea di avere uno sparring partner con cui simulare l’appuntamento del confronto. Da anni è uno degli ospiti preferiti di tutte le trasmissioni politiche. Competente, stile british, puntuto ma non polemico. «Ho una certa confidenza con il mezzo», dice. E senza falsa modestia vanta «una predisposizione naturale». Sa che i suoi punti di forza sono gli argomenti “alti” e non il corpo a corpo. «Mi terrò alla larga dai litigi personali, questo è sicuro. Sono lontano anni luce da parole come rottamazione ». Ancora tre giorni di allenamento. Poi si accende la luce rossa delle telecamere. In onda.

Repubblica 9.11.12
Sarah Varetto, direttore di SkyTg24, spiega come sarà il confronto
“L’unica cosa che conta è informare bene gli spettatori”
“Prima regola, niente risse. Non sarà un talk show”

ROMA — «Quello che non vogliamo, quello che non vedranno i telespettatori è la rissa». Sarah Varetto, 40enne, direttore di SkyTg24, tiene molto a organizzare un confronto tra i candidati alle primarie lontanissimo dai talk show che vanno in onda ogni giorno. Per questo sono state fissate regole ferree, per questo il duello diventerà un dibattito a 5, ossia tutti i concorrenti alla sfida del 25 novembre. E lo share? E la dura legge del marketing televisivo? «L’importante è informare bene lo spettatore». Allo spettacolo sarà concesso ben poco. Per una scelta editoriale precisa.
Perché hanno scelto voi? Più insistenti degli altri o più bravi?
«Diciamo che abbiamo sempre creduto molto al confronto televisivo. È un valore fondamentale nelle democrazie. Poi penso che la scelta di SkyTg24 sia quella di un telegiornale equidistante e imparziale. Che infatti garantisce regole chiare, trasparenza e la vera parità. È un bell’aiuto ai più deboli, a quelli che hanno avuto meno spazio mediatico».
Le regole non renderanno il tutto un po’ ingessato?
«L’unica vera regola che ci interessa è evitare la rissa. Come faremo? Portando i partecipanti a parlare dei problemi reali, cominciando dalla crisi».
Non vi sarebbe piaciuto di più ospitare un faccia tra i due favoriti, Bersani e Renzi?
«In qualsiasi democrazia il confronto si fa con tutti i concorrenti. Noi vogliamo che l’elettore abbia gli elementi necessari per fare un scelta libera, informata e consapevole. Questo ci preme. Ci sarà anche lo spettacolo televisivo comunque. Lo studio verrà allestito al Teatro della Luna a Milano, lo stesso dove si registra X Factor. Ma vengono prima i contenuti, più importanti di qualsiasi battuta».
È uno smacco che date alla Rai?
«No. C’è solo la soddisfazione per la nostra storia. Abbiamo mandato in onda tutti i dibattiti americani con la traduzione in simultanea anche alle 4 di notte quando il pubblico, come dire, scarseggia. Ma ci crediamo, siamo pervicaci».
Grillo ha detto che l’unica tv dove si può andare è Sky. Non si capisce allora se siete meno liberi o più liberi di altri.
«Spero che l’abbia detto perché ci considera più indipendenti. L’invito a venire da noi Grillo ce l’ha da molto tempo. Lo aspettiamo».
(g. d. m.)

La Stampa 9.11.12
Gli alieni alla prova del voto
di Elisabetta Gualmini

La politica italiana pare si appresti a mandare in scena, alle prossime elezioni, uno dei suoi più vistosi paradossi.
Al punto più basso di legittimazione delle istituzioni e di fronte alla crisi economica più acuta dal dopoguerra, lo scenario potrebbe infittirsi di soggetti «alieni». Cioè di soggetti privi di esperienza nell’arte del governo, che è fatta di norma, e in eguale misura, della capacità di suscitare speranze e raccogliere consenso, da un lato, e di adottare decisioni tecnicamente robuste, dall’altro. La politica italiana promette invece d’essere sempre di più popolata da un lato da “tecnici” inadatti a cercare consenso (molti degli attuali ministri hanno spesso rivendicato questa attitudine), dall’altro dai “dilettanti” del Movimento 5 stelle, ancora non contaminati dall’usura del potere, ma pure mai messi veramente alla prova nell’attività di governo. In mezzo, poco. Nel centro-destra, partiti politici che camminano sulle sabbie mobili e che stentano a ritrovare l’identità smarrita, nel centro-sinistra un Pd che si è salvato per ora in calcio d’angolo, grazie alle primarie.
Non vi è nulla di male né nel tecnico né nel dilettante. Tutti e due il prodotto di una politica debole. E tutti e due pronti a sferrarle l’attacco finale, dalla zona Centro per i ministri di Monti e dalla trincea anti-antiestablishment per gli attivisti 5 stelle. I primi sono abituati a risolvere problemi complessi, nei loro studi. Sono spesso professori universitari, visto che manca nel nostro Paese una qualunque altra istituzione dedicata alla selezione della classe dirigente. I professori arrivati al capezzale della politica hanno potuto decidere fino ad ora senza dover raccogliere consenso tra gli elettori né sottostare ai veti dei partiti. Non sarà sempre così, anzi. Dovranno vedersela, alle elezioni e in Parlamento, con il loro diretto contraltare: i dilettanti a 5 stelle.
Avendone intervistati diversi, ogni volta torno convintamente sull’impressione originaria. Lontanissimi dall’immagine del leader-padrone, volenterosi ed educati, hanno un po’ tutti l’aria del geometra trentenne che sa come si aggiustano le mensole di casa senza sporcare. Nessuna spocchia da professore, nessuno sproloquio da funzionario giovane vecchio che replica le dottrine dei tempi che furono. Ci fanno vedere uno spicchio di società che da tempo era rimasto inascoltato e che ha trovato un veicolo agibile su cui salire. Alcuni lo raccontano senza giri di parole: “Sono andato a un’assemblea del Pd ed erano tutti vecchi. Non decidevano niente e si chiamavano “compagni”. A me dava fastidio”.
D’altro canto Grillo non ha mai nascosto di preferire l’inesperienza tra i suoi sottoposti. La giustificazione pubblica è che chiunque sia in grado di fare meglio del politico navigato. Un argomento già sentito: da Andrew Jackson negli Stati Uniti (le funzioni pubbliche sono talmente semplici che chiunque è in grado di svolgerle) alla cuoca di Lenin (che avrebbe potuto diventare Capo dello Stato), al Qualunquismo di casa nostra (per Giannini ai cittadini servivano solo ragionieri e non politici per essere amministrati). Con Grillo il dilettantismo è eretto a sistema, se si considera il criterio annunciato per le candidature nazionali. Entreranno nelle liste solo gli attivisti già candidati in elezioni locali che non sono stati eletti. Insomma, i “trombati”, come i grillini avrebbero detto per candidati di un altro partito non eletti e poi nominati in qualche ente pubblico. Una selezione alla rovescia che però garantisce al capo-popolo esecutori disciplinati e fedeli.
Tra i professori e i dilettanti, la politica annaspa. Quella grande, alta ed efficace, che collega visione, decisione e consenso fa fatica ad emergere. La politica alta richiede conoscenza ed esperienza, passione e abitudine a sviscerare questioni complesse, oltre che la capacità di comunicare un progetto. Come ha dimostrato Obama. Lo ha detto nel discorso successivo alla vittoria. L’aspetto più affascinante della competizione politica è ispirare e unire larghe fasce di una società divisa intorno a un progetto di cambiamento. “È questo ciò che la politica può fare ed ecco perché le sfide elettorali contano. It’s not small, it’s big. It’s important”. Quella politica che a noi ancora manca.

Corriere 9.11.12
Quando c'erano Bertinotti e Mastella Il Pd, le alleanze e il fantasma Unione
di Monica Guerzoni


ROMA — A volte ritornano, per dirla con l'abusato titolo di un film. E questa, per il centrosinistra, potrebbe essere una di quelle volte. Bersani ha solennemente giurato che l'Unione di Prodi è morta e sepolta e che non sarà certo lui a riesumarla. Ma se la legge elettorale dovesse fissare al 40 per cento la soglia per far scattare il premio di maggioranza, il segretario del Pd potrebbe vedersi costretto ad allargare l'alleanza, sul fianco destro e su quello sinistro. Con il rischio di mettere su un rassemblement poco omogeneo, che riesumi il fantasma della coalizione che fu.
In tempi di antipolitica feroce, l'istantanea di quella stagione, aperta nel 2005 e chiusa traumaticamente nel 2008 con la caduta del governo, risulta sbiadita come un dagherrotipo. Virtualmente insieme sullo stesso palco Prodi, Fassino, Rutelli, Di Pietro, Bertinotti, Ferrero, Mastella, Boselli, Bonino, Diliberto, Pecoraro Scanio, Sbarbati... Un «caravanserraglio» che lungo il breve e accidentato percorso ha tirato a bordo tredici forze politiche, alcune in formato mignon. Declinata per simboli: la quercia e la margherita, l'edera e la rosa, il gabbiano e il campanile, la falce, il martello e il sole che ride. Oppure, sul piano delle idee: progressismo, socialismo e socialdemocrazia, marxismo ed eurocomunismo, cattolicesimo popolare, cristianesimo sociale e liberalismo radicale.
«C'era l'incomunicabilità totale, come tra l'elefante e la balena» ricorda Clemente Mastella, l'ex Guardasigilli che staccò la spina e che non ha dimenticato le riunioni fiume di Palazzo Chigi in cui Paolo Ferrero, leader del Prc, «si intestardiva sulle questioni economiche paralizzando il Consiglio dei ministri». Il leader dell'Udeur non si è mai pentito di aver affossato il governo e si è presto riaccasato nel centrodestra, come eurodeputato del Pdl: «Era un po' come quelle coppie che dormono nello stesso letto, ma non fanno gli stessi sogni». Un altro che ha cambiato letto è il socialista Enrico Boselli. Nel dicembre del 2010 il già presidente dello Sdi è entrato nell'Api di Francesco Rutelli — altro padre fondatore — ed ora è vicepresidente. Ma c'è anche chi si è ritirato dalla vita politica. L'ex ministro Alfonso Pecoraro Scanio, anima ecologista della defunta alleanza, ha messo su la fondazione Univerde il cui sito rimanda alla «PecoraroScanioTv», che trasmette solo su Youtube. I Verdi di cui era presidente si sono spaccati e ora a guidarli è Angelo Bonelli, che lavora a una lista civica ecologista. L'allora sottosegretario Paolo Cento, arruolato da Vendola al vertice di Sel, spera che l'Unione non risorga: «L'episodio più clamoroso fu quando Prodi mi intimò di non andare alla manifestazione contro la Base Usa di Vicenza...». E lei non andò, giusto? «Tra spinta ideale e disciplina di maggioranza scelsi la seconda, ma i ministri della sinistra radicale scesero in piazza a protestare contro il loro governo e fu un profondo errore politico».
Per Ferrero (tornato nel 2010 a fare l'impiegato alla Regione Piemonte) fu invece una «giornata molto felice» quella che vide centomila persone gridare slogan per abbattere un esecutivo che lo vedeva responsabile della Solidarietà sociale. E se allora voleva correggere il prodismo, oggi lotta per sovvertire il montismo: «Stiamo costruendo una lista di centrosinistra che faccia opposizione radicale alle politiche di austerità». Ferrero dice di non volersi alleare con Bersani, Oliviero Diliberto invece ci sta seriamente pensando. Insinuare che abbia già un posto in lista con il Pd è «una calunnia», ma dopo la direzione del Pdci di domani il professore di Diritto romano aprirà il dialogo: «Cinque anni fuori dal Parlamento sono duri. Io però non ambisco a entrare al governo, perché sono schivo e non sgomito per i posti».
E Luciana Sbarbati, che fine ha fatto? La pasionaria dei Repubblicani europei è sempre lì, assisa al suo scranno di senatrice. A lei l'Unione ha lasciato «l'amaro in bocca» e non solo perché Prodi la «tradì» non chiamandola al governo: «Era come la tela di Penelope... Nei vertici il premier trovava la quadra, ma poi, davanti ai giornalisti, trionfava sempre l'individualismo di partito».
 

l’Unità 9.11.12
In fila al concorso: 321mila domande
Sono il doppio di quelle previste dal ministero La stragrande maggioranza sono donne. Una richiesta su due per una cattedra al Sud
Il 66 % non proviene dalle graduatorie ad esaurimento
Soddisfazione al Miur. Cgil: in gran parte sono disoccupati che aspirano a un lavoro qualsiasi
di Roberto Rossi

ROMA In fondo se uno lo guarda con attenzione il concorso sulla scuola, il primo dopo tredici anni di attesa, è come uno specchio: riflette una larga fetta dell’Italia di oggi, qualche sua aspirazione, alcune delle sue paure, ma anche molte delle speranze. Nei dati forniti dal ministero dell’Istruzione ieri si chiudevano le iscrizioni anche se fino al 21 novembre c’è tempo per completare, compilare ex novo o modificare la sezione “titoli valutabili” c’è una parte di Paese che cerca le certezze di un lavoro fisso, vedendo nella prova l’occasione che non si presentava da anni, ma c’è anche il dramma di chi in questi anni ha scommesso o è stato costretto a scommettere in un percorso diverso, come i precari, e che oggi si sente defraudato.
Nello specchio del concorso il primo numero che brilla è quello che riguarda la mole di domande arrivate al Miur. Se ne aspettavano circa 160mila, stima fatta dallo stesso ministero, ne sono pervenute esattamente il doppio: 321mila. Secondo il dicastero le richieste (a fronte degli 11.542 posti disponibili) dimostrerebbero «quanto sia sentita nel mondo della scuola la necessità di avviare una procedura di reclutamento anche per via concorsuale». Secondo la Cgil, per bocca del suo segretario confederale Mimmo Pantaleo, invece, «l’alto numero delle domande dipende esclusivamente dall’alto numero di disoccupati che aspirano legittimamente a un lavoro qualsiasi». Forse. È vero che quando si parla di insegnamento si parla sempre di un mestiere non asettico dove conta anche l’empatia e l’esperienza, come quella maturata da chi ha lavorato, spesso precariamente, per anni, ma, dopo tanto tempo, per la prima volta, i candidati laureati, istruiti e formati è bene ricordarlo hanno nella prova una via nella quale misurare, nel bene e nel male, il proprio valore.
Ma chi sono? La stragrande maggioranza (oltre 258mila) sono donne. Due candidati su tre, poi, non proviene dalle graduatorie ad esaurimento e, come ha spiegato una fonte Miur, «si tratta di persone che spesso non hanno insegnato, che non insegnano, che fanno altre professioni e che sognano il posto fisso».
L’età media dei candidati è di 38,4 anni. Di poco più alta è quella degli uomini (40 anni) rispetto a quella delle candidate donne (38 anni). Nello specifico, la maggior parte dei candidati (oltre 158mila) ha un’età compresa tra 36 e 45 anni. Seguono gli aspiranti insegnanti (113.924) con un’età pari o inferiore ai 35 anni e quelli (45mila) con un’età compresa tra i 46 e i 55 anni. I candidati con un’età superiore a 55 anni sono invece una ristretta minoranza: 2.812.
Circa la metà delle domande di partecipazione al concorso riguarda posti disponibili nel sud: sono 164.827, il 51,3%. Percentuali minori riguardano invece le domande per regioni del nord (29,3%) e del centro (19,4%). La regione con il maggior numero di domande è la Campania: 56.773. La richiesta, comunque, non è legata alla residenza.
Il 23 novembre sarà pubblicata in Gazzetta Ufficiale la data della prova preselettiva e della banca dati dei quiz sui quali ci si potrà esercitare. La prova preselettiva si svolgerà a dicembre, prima di Natale, in due o massimo 3 giorni. Si terrà nelle aule di scuole e atenei. Ed è basata su 50 quesiti, da risolvere in 50 minuti, così suddivisi: 7 di informatica, 7 di linguistica, 18+18 di carattere logico e deduttivo. Ogni candidato avrà una batteria diversa di domande sorteggiata da un «esercitatore» di circa 3.500 quiz.
Gli aspiranti insegnanti che avranno superato questo primo gradino, potranno vedere il 15 gennaio sulla Gazzetta Ufficiale la data e le sedi della prova scritta, che si svolgerà entro febbraio. Si tratta di una serie di quesiti a risposta aperta, finalizzati a valutare la padronanza delle competenze professionali e delle discipline oggetto di insegnamento. Per l'insegnamento alla scuola primaria andrà accertata anche la conoscenza dell'inglese, mentre nelle discipline scientifiche e tecnico-pratiche sarà prevista anche una prova di laboratorio. Successivamente, si terranno gli orali. I tempi sono a questo punto legati alle procedure di correzione.
Se tutto questo possa servire a formare una classe di insegnanti preparata lo si saprà solo alla fine di un percorso tortuoso. Forse si poteva seguire una via più soft, magari, come suggerisce la responsabile del Pd per la Scuola Framncesca Puglisi si poteva «fare un bando solo per le classi di concorso esaurite o in via di esaurimento». Eppure questo concorso, con tutti i suoi limiti, torna ad indicare una strada, quella del merito, e a dare una speranza anche, ma non solo, ai più giovani. E questo Paese ne ha davvero bisogno. Sperando che quello che brilla nello specchio non sia solo un abbaglio.

l’Unità 9.11.12
La scuola ha anche bisogno di rinnovarsi radicalmente
di Benedetto Vertecchi

CREDO CHE NESSUNO SI LASCI INGANNARE DALLE CENTINAIA DI MIGLIAIA DI DOMANDE PER LA PARTECIPAZIONE AL CONCORSO per il reclutamento degli insegnanti per trarne la conclusione che fra i nostri giovani sia diffuso un forte orientamento nei confronti dell’impegno nella scuola. Sarebbe una conclusione ben strana se si considera che quella degli insegnanti è una professione mal pagata, che si svolge in condizioni spesso penose, che sono incerti gli intenti per i quali si lavora e che, per tutto ciò che non soddisfa nell’educazione di bambini e ragazzi, ci si deve abituare a subire atteggiamenti critici che sarebbe meglio rivolgere nei confronti di chi, avendo la possibilità di assumere decisioni, evita di farlo o, al più, solleva cortine fumogene proponendo alle scuole innovazioni di
facciata. Ci si deve chiedere, quindi, per quale ragione una tale folla di candidati si contenda il numero modesto di cattedre a disposizione (che poi non si sa bene neanche quante siano realmente, perché è probabile che una frazione più o meno consistente dei posti a disposizione sarà utilizzata per il cambiamento dello stato giuridico di personale già in servizio). La prima ragione, e la più semplice, è che coi livelli di disoccupazione raggiunti nelle fasce d’età giovanili quella che si sta aprendo nelle scuole appaia come una fessura nella quale si può ancora sperare di inserirsi. Questa spiegazione sarebbe anche più convincente se gli aspiranti all’insegnamento fossero distribuiti fra i diversi settori di competenza. Invece, non è così. La crisi sta coprendo un vuoto di personale nei settori matematico-scientifici che non tarderà a manifestarsi di nuovo non appena appaiano segnali di ripresa del sistema economico. Purtroppo, la ripresa non aiuterà in alcun modo a migliorare il quadro dell’occupazione nei settori in cui l’offerta è più consistente, ossia in quelli umanistici.
Se, invece di continuare nella politica delle toppe (destinate, come si sa, ad accrescere gli strappi in un tessuto così mal ridotto com’è il nostro sistema scolastico) sarebbe possibile comporre in un’interpretazione coerente i troppi fattori di disagio che colpiscono sia gli insegnanti in servizio, sia quelli che vorrebbero intraprendere tale professione. Per cominciare, c’è bisogno di rinnovare in misura ben più radicale, nell’ambito di un ridisegno delle condizioni di funzionamento delle scuola, l’organico del personale. L’età media degli insegnanti è troppo elevata. Sia chiaro: non si tratta di fare operazioni di ricambio generazionale forzato. Gli insegnanti con lunga esperienza di servizio sono una risorsa. Non ci sarebbe nulla da eccepire, e anzi sarebbe un vantaggio, se insegnanti con maggiore esperienza potessero interagire con insegnanti da poco inseriti negli organici o che sono ancora ai primi passi. In secondo luogo, per
quel che riguarda il profilo delle competenze professionali non si può continuare a far finta che nelle nostre università esistano risorse conoscitive e tecniche che è sufficiente distribuire per assicurare agli aspiranti all’insegnamento la competenza professionale di cui hanno bisogno. È vero, invece, che tutti i limiti che si riscontrano nelle pratiche educative delle scuole potrebbero, in maggior misura, essere rilevati nelle università. In breve, queste ultime dovrebbero insegnare ad altri ciò che hanno dimostrato, ad abundantiam, di non saper fare in proprio. Terzo punto, prima ancora di pensare a questioni di profilo professionale, c’è bisogno di accrescere i repertori culturali disponibili fra i candidati all’insegnamento. Se invece di pensare a ridicoli corsi in inglese per improbabili studenti, ci si impegnasse in un progetto serio di ricostruzione delle competenze linguistiche, della capacità di scrivere, di leggere pubblicamente, di sviluppare l’argomentazione, di approfondire interpretazioni e significati, di collegare fra loro i diversi campi della cultura non avremmo ancora gli insegnanti che tutti speriamo, ma saremmo sulla buona strada.
Infine (ma solo perché si tratta di un problema contingente, almeno in apparenza), bisognerebbe evitare che quello del concorso per gli insegnanti diventasse solo un’occasione di arricchimento per chi è fin troppo interessato (persone e organizzazioni) a trar profitto dall’ansia e dal disagio dei candidati per offrire ovviamente a caro prezzo la competenza, in genere supposta e autoaccreditata, di cui dispongono. Non sarebbe un segnale di moralizzazione se, almeno in questo caso e per far fronte all’emergenza in cui ci si trova, la tecnologia fosse usata in modo meno ideologico di quanto finora è avvenuto, e si offrisse gratuitamente ai candidati al concorso una gamma di opportunità per ridefinire il loro profilo culturale nelle direzioni che prima si indicavano?

Repubblica 9.11.12
Ho ascoltato il discorso di Obama. Per sette volte ha detto che serve una scuola migliore
Anche per noi la strada è segnata
“L’istruzione è una priorità so che i problemi sono grandi interverremo al più presto”
Il ministro Profumo: investire sul futuro del Paese
intervista di Corrado Zunino

ROMA — «Dobbiamo individuare le priorità del paese, e la scuola è la priorità. È il miglior investimento sul futuro per costruire un paese più moderno. Ho appena ascoltato il discorso presidenziale di Barack Obama, lo ha detto sette volte: una scuola migliore. La strada è segnata. Le priorità vanno individuate ora, in questo momento di difficoltà».
Ministro Profumo, una scuola di qualità non si può fare al freddo. Alcuni presidenti delle province italiane minacciano di spegnere le caldaie e anticipare le vacanze di Natale ai ragazzi.
«Affronteremo la questione al più presto, ma dobbiamo farlo con serenità e un piano programmatico sul tema scuola. Dobbiamo valutare lo stato generale e far sì che il sistema scolastico trovi un nuovo equilibrio di qualità».
La scuola sarà una priorità per Obama, non sembra per il governo Monti: in Italia subisce tagli come tutto il resto.
«La scuola è una priorità per il governo Monti».
Ministro, lo stato degli edifici scolastici italiani è pessimo, in molti casi rischioso. Una scuola su cinque non è sicura, solo una su quattro ha i certificati in regola, una su dieci denuncia lesioni strutturali.
«La questione è in cima alla mia agenda dai primi giorni di governo e sulla sicurezza in questi undici mesi abbiamo speso un miliardo. Nelle ultime settimane abbiamo sbloccato 116 milioni deliberati dal governo precedente, nell’area del terremoto emiliano ne abbiamo spesi 120 e altri 50 sono arrivati dai comuni».
Antonio Saitta, il presidente della Provincia di Torino e dell’Upi che ha minacciato la chiusura dei riscaldamenti in classe, nei giorni scorsi le aveva scritto: «La mancanza di fondi potrebbe portare a soluzioni drastiche tra cui la chiusura di molte scuole».
«Ho visto il suo rapporto e non ho mai nascosto la situazione: il patrimonio scolastico italiano, in mano ai comuni e alle province, è vetusto. Ora dobbiamo partire con l’anagrafe del sistema edilizio e una programmazione che duri nel tempo».
Lei aveva indicato nella legge di stabilità i modi per trovare fondi per l’edilizia scolastica: il piano dell’innalzamento dell’orario di lavoro degli insegnanti è saltato, quei denari non ci sono più e mancano ancora 183 milioni da girare al Tesoro.
«Della legge di stabilità parlerò alla fine del percorso parlamentare, al massimo domenica».
Ministro, i tagli alla scuola sono finiti? Sono sette anni che i governi italiani tagliano.
«Ne parliamo con la legge di stabilità approvata».
Dopo undici mesi ha portato a compimento un processo importante: mercoledì scorso si è chiusa l’iscrizione al concorso per docenti, 321 mila partecipanti per 11.542 posti.
«Sono soddisfatto, non c’erano concorsi per l’insegnamento dal 1999 e siamo riusciti ad avviarne uno nuovo in una fase così difficile. Posso dire che ora possiamo selezionare gli insegnanti dei prossimi trent’anni con metodi moderni. Il concorso pubblico per docenti è un buon esempio di come lo Stato possa gestire una partita importante, dare fiducia ai cittadini: è un modello, il nostro, da trasferire a tutta la pubblica amministrazione».
I test di preselezione saranno svolti in alcune scuole e università nella settimana che precede le feste di Natale.
«Sì e la seconda prova, lo scritto, sarà tra fine gennaio e inizio
febbraio, poi l’orale. Servirà per valutare le capacità dei candidati a stare in aula: un buon scienziato non è detto sia un buon insegnante».
State lavorando alle regole dei nuovi concorsi.
«Li stiamo semplificando, vogliamo ridurre il numero delle classi di concorso ipotizzando una cadenza di processi stabili nel tempo. Le persone devono poter programmare la loro vita».

il Fatto 9.11.12
Il lavoro nero in casa Fornero
Ispezione al centro ricerca controllato dal Ministero del lavoro:
Co. Co. Co. irregolari per anni
di Marco Palombi

Questa è una cosa che può capitare solo in Italia: il ministero che fa le leggi sul lavoro le viola per vent’anni, poi è costretto ad accorgersi che qualcosa non va e la reazione è quella di metterci una pezza scaricando, se possibile, il costo sui lavoratori. Questa è la storia che verrà raccontata stamattina nell’assemblea dei lavoratori Isfol a Roma chiamata “Lavoro nero a casa Fornero” e organizzata da tutte le sigle sindacali interne con l’unica eccezione della Cisl.
I FATTI. L’Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori nasce nel 1974 e si occupa non tanto di fare ricerca pura, quanto di trasformare ricerche, analisi e sondaggi sul mercato del lavoro in dati e pratiche applicabili dalla Pubblica amministrazione tanto a livello nazionale che regionale: il suo status è quello di un ente di ricerca pubblico con finanziamenti autonomi, ma sotto la vigilanza del ministero del Lavoro, che ne nomina anche i vertici. Insomma, l’Isfol lavora sotto il controllo e in stretto contatto col dicastero oggi guidato da Elsa Fornero. Per questo sono bizzarre quanto paradigmatiche le conclusioni a cui sono giunti gli ispettori provinciali di Roma dello stesso ministero del Lavoro dopo un lavoro durato dal 2007 al 2010: “L’Isfol ha utilizzato gli ex collaboratori come veri e propri lavoratori dipendenti. I contratti utilizzati da questo Istituto (contratti di collaborazione coordinata e continuativa) sono risultati essere non genuini in quanto hanno celato veri e propri rapporti di lavoro subordinato”. Erano contro la legge, insomma. E non si parla di una decina di co.co.co. falsi, ma della quasi totalità dell’attuale pianta organica dell’Istituto: su circa 630 dipendenti ce ne sono poco più di 350 a tempo indeterminato (292 dei quali stabilizzati nel 2009, quindi ex precari pure loro) e il resto a tempo determinato dal 2008, tutti o quasi già co.co.co. in Isfol dagli anni Novanta.
Solo che adesso, invece di vedere l’agognato traguardo dell’assunzione definitiva, questo 40% dei dipendenti dell’Istituto rischia assai di perderlo del tutto il lavoro: un po’ perché i contratti a tempo determinato non possono essere rinnovati all’infinito e soldi per assumerli non se ne vedono, un po’ perché sono almeno due anni che i governi Berlusconi prima e Monti poi provano a chiudere l’istituto (in questo caso gli “indeterminati” verrebbero riassegnati, i “temporanei” a casa). La cosa curiosa, tornando alle conclusioni degli ispettori, è che il ministero del Lavoro (sia con Sacconi che ora con Fornero) non ha mai pensato di dare ragione ai propri stessi inviati: prima ha inoltrato ricorso alla commissione regionale – che però l’ha considerato irricevibile – e ora è in causa contro i duecento e passa dipendenti dell’Isfol che chiedono al giudice del Lavoro di veder riconosciuto il loro “vero e proprio rapporto di lavoro subordinato” ultradecennale. “È il caso più emblematico e contraddittorio della lotta alla precarietà condotta dal ministro Fornero – spiega Enrico Mari, rappresentante Usb nell’istituto – un evidente caso di ‘cattiva flessibilità’, per dirla con le parole della stessa ministro, di cui sono stati vittime ben oltre 200 lavoratori precari. Da tempo siamo in attesa di una soluzione politica da parte del nostro ministero vigilante: un’attesa senza fine, densa solo di silenzi e contrapposizioni”. In realtà, come detto, la soluzione politica è stata già individuata e tentata in almeno tre occasioni: la chiusura di Isfol, commissariata da oltre un anno, messa nero su bianco nel 2010 da Tremonti e a maggio da Fornero, più il recente tentativo del super-Cnr in cui far confluire tutti gli enti di ricerca pubblici cassato dalla legge di Stabilità per incompatibilità di materia. Il progetto più accarezzato, al ministero, è però quello della fusione tra l’istituto di ricerca e Italia Lavoro, una spa pubblica che opera come agenzia del dicastero: “Dà fastidio la nostra autonomia e la nostra indipendenza – dicono però gli interessati – perché un’agenzia è il braccio operativo del dicastero, per cui chi applica le politiche del governo poi dovrebbe pure valutarle”.

Repubblica 9.11.12
Dallo champagne alle case a un euro tutti i privilegi della casta dei generali
Superpensioni e auto blu: i benefit risparmiati dai tagli alle Forze armate
di Fabio Tonacci

LE MANDORLE salate dell’ammiraglio Giuseppe De Giorgi non si toccano. I benefit dei generali nemmeno. Le pensioni devono rimanere dorate, anche se calcolate in base a logiche risalenti ai tempi della Guerra Fredda. La spending review delle forze armate faccia pure il suo sporco lavoro, ma da un’altra parte. Si riduca la truppa, se serve, o si taglino i marescialli, però i privilegi delle alte sfere militari devono rimanere. In tempi di austerity c’è ancora qualcuno che lucida le maniglie d’oro degli sfarzosi appartamenti di rappresentanza. Chi sono oggi i privilegiati della Difesa italiana? Quali sono i benefit arcaici ancora concessi?
IL BUFFET DELL’AMMIRAGLIO
Bisogna leggerla tutta la mail che il Capitano di Vascello Liborio Francesco Palombella spedisce ai suoi sottoposti, il 3 maggio 2012, alla vigilia della visita dell’ammiraglio Giusppe De Giorgi sulla “Caio Duilio” ormeggiata a La Spezia. «All’arrivo del Cinc (Comandante in capo della squadra italiana, ndr)
prevedere in quadrato l’aperitivo con vino bianco ghiacciato, mandorle salate, grana, olive verdi, pizzette, rustici, tartine. Prepararsi a servire caffè d’orzo o tè verde». In un’altra mail, un ufficiale ricorda a tutti i gusti dell’ammiraglio, guai a sbagliare: «Il caffè con orzo in tazza grande, senza zucchero, macchiato caldo. Il tè verde, senza zucchero».
Quell’accoglienza da impero borbonico riservatagli a Taranto l’8 settembre scorso a bordo dell’incrociatore Mambella (camerieri, tartine, champagne e ovviamente mandorle), di cui hanno dato conto i giornali, non era dunque un caso. E mentre a la Spezia si domandano se l’ammiraglio gradisca il caffè in tazza grande o piccola, a Kabul ai soldati italiani non è più concesso di andare a mangiare alla mensa americana, più abbondante e costosa. Stona, in tempi di crisi, qualsiasi forma di sperpero di denaro pubblico. E quella dell’ammiraglio De Giorgi è solo una delle 400 e passa casi di benefit e favori goduti da chi ha il grado di generale.
COMANDANTI E COMANDATI
Parlano i numeri. Tra Esercito, Marina e Aeronautica ci sono 425 generali per 178 mila militari. Negli Stati Uniti sono 900, ma guidano un comparto che con 1.408.000 uomini è quasi dieci volte quello italiano. Per dire, noi abbiamo più generali di Corpo D’Armata, 64, che Corpi d’armata, circa una trentina. «A essere generosi, in Italia basterebbero 150 generali per svolgere gli stessi compiti — scrive Andrea Nativi nel rapporto 2011 della Fondazione Icsa, che si occupa di Difesa e intelligence — gli esuberi concentrati nei gradi apicali degli ufficiali devono essere smaltiti in fretta attraverso provvedimenti straordinari, altrimenti rimarranno una zavorra costosa e penalizzante».
Siamo arrivati al paradosso che i comandanti sono più dei comandati: 94 mila ufficiali e sottoufficiali, 83.400 uomini e donne della truppa. Nei prossimi due anni il personale, civile e militare sarà tagliato di 8.571 unità. Entro il 2024, si legge nel ddl di revisione appena approvato dal Senato, i 178 mila scenderanno a 150 mila. Ma i generali no, loro non si toccano. Perché avere la greca sulla spallina significa godere di uno status privilegiato. Un generale di Corpo d’armata (il grado più alto, tre stellette) percepisce in servizio uno stipendio annuale di 120 mila euro, circa 7 mila euro netti al mese. Non ha limitazione alle ore di straordinario che può fare. Ha diritto all’alloggio di servizio a canone agevolato nelle zone migliori della città, al telefonino, in alcuni casi all’autista (l’anno scorso sono state acquistate dalla Difesa 19 Maserati per gli alti ufficiali), a soggiorni low cost nelle decine di foresterie della Difesa, alcune in località turistiche di pregio come Bardonecchia o Milano Marittima. E quando raggiunge la pensione, per effetto di indennità varie, del sistema retributivo ancora in vigore per gli anziani e della cessazione del versamento dei contributi all’Inpdap, si ritrova con un mensile superiore a quello in servizio.
IL SUPERSTIPENDIO DEL VICE
Si chiama Sip l’eldorado dei generali. Speciale indennità pensionabile, un emolumento ad personam che fa schizzare lo stipendio dei dirigenti in alto. Molto in alto. Spetta al Capo di stato maggiore della Difesa, il generale Biagio Abrate, (482.019 euro all’anno), ai tre Capi di stato maggiore di Esercito, Aeronautica e Marina (481.006 euro), al comandante generale dell’Arma dei Carabinieri Leonardo Gallitelli (462.642 euro) e al segretario generale della Difesa Claudio De Bertolis (451.072). Cifre che superano ampiamente i 294 mila euro annuali (il trattamento riservato al Primo presidente di Cassazione) indicati dal “decreto salva-Italia” come tetto per gli stipendi dei manager pubblici. In sei costano al ministero 2,8 milioni di euro. Gli stessi soggetti, quando lasciano, ricevono una liquidazione che sfiora il milione di euro e una pensione da 15 mila euro netti al mese.
Una Sip, anche se ridotta nel valore, viene misteriosamente concessa anche al vice comandante dei Carabinieri. «Ciò aveva un senso fino a quando c’era un generale dell’Esercito a ricoprire il ruolo di vertice dell’Arma, non ancora promossa a forza armata — spiega una fonte qualificata del Cocer, l’organismo di rappresentanza militare interna — era un modo per gratificare il carabiniere più alto in grado. Dal 2000 però c’è un Comandante carabiniere ma la Sip al suo vice è rimasta». E non è un caso che per quel ruolo si siano avvicendati, dall’inizio del 2012 ad oggi, già tre ufficiali e di media non si rimane in carica più di un anno.
LE PROMOZIONI DI CARTA
Si scopre poi che la carriera della dirigenza militare, e solo quella, è un moto inarrestabile verso l’alto. Nelle amministrazioni pubbliche si viene promossi quando si libera un posto. Qualcuno esce, qualcuno entra, elementare principio di contenimento degli sprechi. Sotto le armi no. I generali vengono promossi a prescindere dall’esistenza di un posto vacante. La commissione Difesa della Camera l’ha messo nero su bianco, prevedendo che il generale di Divisione (2 stellette) con almeno un anno di permanenza in quella posizione possa avanzare al grado superiore anche se in soprannumero.
Altro regalo che ha resistito ai tagli è la promozione automatica immediatamente prima del congedo. Il giorno antecedente alla pensione si sale di grado. Più stelle sulle spalline, più benefit.
Il sistema delle “promozioni di carta” riesce anche ad aggirare il blocco delle buste paga imposto alle amministrazioni pubbliche fino al 2014 grazie all’istituto della omogeneizzazione stipendiale: gli ufficiali dopo 23 anni in servizio senza demerito ottengono, a prescindere dal grado ricoperto, la retribuzione fissa del generale di brigata, circa 3.100 euro netti. «Certo, gli stipendi medi dei soldati italiani sono nel complesso inferiori rispetto a quelli dei colleghi inglesi o francesi — sostiene Emilio Ammiraglia, segretario nazionale di Assodipro, associazione di militari in pensione che punta a introdurre nelle forze armate un sindacato con una vera autonomia operativa — ma quando si parla dei capi, il discorso cambia». E più guadagnano, meno devono spendere.
GLI APPARTAMENTI EXTRALUSSO
A oggi sono 44 i generali e gli ammiragli a cui è stato concesso l’alloggio di servizio e rappresentanza, il famoso Asir, l’extralusso del parco immobiliare della Difesa. Per mantenerli tutti, lo stato spende 4 milioni di euro all’anno. Del resto si devono lucidare appartamenti con 400 metri quadri di parquet, 143 mq di marmo, 188 mq di maioliche, ascensore con moquette e terrazzo di 275 mq, come nel caso della residenza riservata al Capo di stato maggiore dell’Aeronautica in via del Pretoriano a Roma.
Nessuno mette in dubbio che il ministro, i quattro Capi di stato maggiore, i sottocapi, gli alti comandanti abbiano diritto agli Asir, anche perché devono ricevere ambasciatori e cariche estere. Ma andando a sfogliare l’elenco di chi li occupa, qualche perplessità sorge.
Ad esempio, non si capisce quale siano i compiti di rappresentanza del comandante della 1° Regione aerea dell’Aeronautica, che pure vive in via Gaio a Milano in un alloggio di 450 mq rivestito in parquet, leggermente più ampio del collega delle Operazioni aeree, che ne ha uno di 445 mq in via Cavour a Ferrara. A Firenze il Comandante dell’Isma si deve stringere in 233 mq, ma può sfruttare un balcone da 158 mq. A Pozzuoli il direttore dell’Accademia aeronautica ha un alloggio di 189 mq, con un terrazzo faraonico da 287 mq. «La metà dei 44 Asir concessi — sostiene la stessa fonte del Cocer — rappresentano oggi un retaggio superfluo del passato».
Chi li occupa si difende sostenendo di pagare regolarmente l’affitto mensile sulla parte residenziale, cioè le camere, la cucina, il soggiorno e i bagni. Verissimo. Ma a canoni più che vantaggiosi: 1 euro a metro quadrato. Che sia in centro a Roma o a Pozzuoli o nella strada più in di Firenze, sempre quello è il prezzo.
UFFICIALE E CAPPELLANO
Equiparato per grado e stipendio al generale di corpo d’armata è anche l’ordinario militare, ruolo attualmente coperto da monsignor Vincenzo Pelvi, che è a capo di un’arcidiocesi speciale composta dai 182 cappellani militari, tutti inquadrati come ufficiali che svolgono l’attività pastorale nelle caserme. Il vicario equivale a un generale di brigata (6000 euro al mese lordi), il vicario episcopale, il cancelliere e l’economo sono equiparati al tenenti colonnello. Alla Difesa nel complesso costano 10 milioni di euro in buste paga annuali, più altri 7 milioni per la liquidazione di 160 pensioni, che mediamente ammontano a 43 mila euro all’anno ciascuno, tranne quella dell’ordinario a cui vanno 4 mila euro al mese. L’attuale presidente della Conferenza episcopale italiana, Angelo Bagnasco, nei fatti è un baby-pensionato. È stato arcivescovo ordinario militare dal 2003 al 2006, a 63 anni ha ottenuto il vitalizio dalla Difesa, un po’ meno di 4 mila euro, con appena tre anni di contributi. Il suo successore, monsignor Pelvi, ha mandato una lettera al presidente della Repubblica, a cui spetta la nomina, e a Papa Ratzinger per chiedere una proroga fino al 2014, così da maturare gli anni necessari per la pensione da generale.
I Radicali qualche giorno fa hanno provato a sganciare questi compensi dal bilancio della Difesa con un emendamento al ddl di revisione. Respinto.
L’EREDITÀ DELLA GUERRA FREDDA
Discorso a parte merita l’indennità di ausiliaria. Una volta in congedo per il raggiungimento dei limiti di età (tra i 60 e i 65 anni), ufficiali e sottoufficiali possono chiedere di restare per 5 anni a disposizione della Difesa, nell’eventualità di essere richiamati in servizio in caso di necessità. «È un’eredità della Guerra Fredda - sostiene Luca Comellini, ex maresciallo dell’Aeronautica ora segretario del Partito per la tutela dei diritti per i militari - quando lo scoppio di un conflitto rientrava nel ventaglio delle ipotesi. Ma che senso ha oggi, per chi ha già ha una pensione cospicua da 7000 mila euro netti al mese?» Il “disturbo” di restare a casa, ma a disposizione, viene comunque pagato. L’ausiliaria, introdotta per il fatto che i militari escono dal servizio per limiti di età prima degli altri dipendenti statali, è pari al 70 per cento della differenza tra il trattamento percepito in pensione e quello spettante nel tempo al pari grado in servizio. Un calcolo complesso. E con il blocco delle retribuzioni per l’impiego pubblico, non è nemmeno più vantaggiosa per gli ufficiali intermedi. Per un generale di corpo d’armata invece può raggiungere 700 euro al mese alla pensione. Inizialmente c’era un bacino relativamente stretto di 35 ufficiali e 500 sottoufficiali a cui spettava. Oggi in deroga viene concessa a centinaia di militari.
Nel 2011 la Difesa ha speso per l’ausiliaria 326 milioni, quest’anno 355. «Ma i casi di richiamo in servizio sono rarissimi », sottolinea Comellini. Qualche generale ha partecipato alle commissioni di concorso interno, qualcun altro è stato richiamato durante l’emergenza rifiuti a Napoli. E quando un pezzo grosso torna al lavoro, lo fa con tutti i crismi. Stipendio pre-congedo, macchina con l’autista, alloggio, spese di diaria, straordinari. Che uno torni in servizio o rimanga a casa, i cinque anni di ausiliaria vengono comunque conteggiati ai fini del trattamento pensionistico e della liquidazione. La casta dei generali non sventola mai bandiera bianca.

l’Unità 9.11.12
L’inno di Mameli si studierà a scuola per legge
«Bene l’approvazione» per la capogruppo Pd nella commissione Cultura della Camera, Maria Coscia dopo il sì definitivo alla sua proposta di legge
di Marcella Ciarnielli

ROMA L’Inno di Mameli si studierà a scuola. Per legge. E il 17 marzo sarà dal prossimo anno «giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’inno e della bandiera», non un giorno festivo per un nuovo ponte, ma di studio sui valori dell’identità nazionale.
Il Senato ha approvato, con 204 sì, 14 no e due astenuti il disegno di legge che «colma una lacuna che durava da 66 anni» ha commentato soddisfatto il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio che ha parlato di «un giorno importante, il degno e solenne compimento delle celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, del loro successo tra i cittadini, della loro vasta diffusione sul territorio nazionale, sotto l’indirizzo del presidente della Repubblica.
La sola Lega si è esibita da par suo nella contestazione della legge. I senatori del Carroccio hanno sfoderato tutto il repertorio di luoghi comuni che da un po’ di tempo erano stati relegati in soffitta, loro malgrado, dimenticando che nell’inno viene citato anche il “loro” Alberto da Giussano. Da ora in poi si troveranno a fare i conti con l’obbligo per i giovani padani di misurarsi con le note dell’inno di un’Italia da cui loro, potendo, si staccherebbero volentieri. Testimonianze colte al volo. «La retorica mi ha sempre dato fastidio. Forse è per questo che poi, diventando grande, ho maturato sentimenti legati più alla mia terra che non alla penisola italiana. Io sono sempre stato convinto che Metternich avesse ragione». Così il senatore Roberto Castelli che pure quando si è trattato di fare il ministro non ci ha pensato due volte a giurare sulla Costituzione, italiana appunto. «Con questa legge si risveglia lo spirito “balilla”» ha detto il senatore Alessandro Vedani che, in continuità ha parlato di «discorsi patriottardi che potevano ben essere imputati a un tal Benito». «Un’aula di silenti e ignavi pecoroni» per Irene Ardenti mentre Mario Pittoni, come se stesse votando al Festival di Sanremo, ha invitato ad una sorta di referendum tra Mameli e Verdi, autore del più amato coro del Nabucco. Il commento del segretario Maroni ha ridimensionato il contrasto: «Purchè non si sia stonati...quando si canta per me va sempre bene».
«Bene l’approvazione» per la capogruppo Pd nella commissione Cultura della Camera, Maria Coscia dopo il sì definitivo alla sua proposta di legge.

Repubblica 9.11.12
Se la crescita non basta più
di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini

Oggi vi è un consenso molto ampio sul fatto che per superare la crisi sia necessario rilanciare la crescita dell’economia. Qualunque critica si possa muovere alla crescita, in nome di qualunque principio, è destinata a suscitare anatemi. La crescita non è una scelta ma una condizione obbligata per la sopravvivenza del sistema capitalistico: venuta meno questa condizione, la sua rapida ripresa è diventata un’invocazione corale.
Ma esistono dei forti dubbi che la crescita possa rappresentare l’unica soluzione dei nostri problemi in quanto un’espansione quantitativa senza limiti così come l’abbiamo conosciuta dalla rivoluzione industriale non appare sostenibile. Ricordiamo che prima dell’attuale crisi l’economia mondiale si sviluppava a un tasso medio che, se estrapolato fino al 2050, l’avrebbe moltiplicata per 15 volte; se prolungato fino alla fine del secolo, di 40 volte. E sappiamo che la crescita comporta un incremento della popolazione, che oggi è pari a circa 6,5 miliardi di persone e nel 2050 dovrebbe toccare i 9 miliardi.
Riproponiamo dunque la domanda: è concepibile un’economia capace di una crescita continua? Per noi la risposta è senza alcun dubbio negativa perché la crescita sta determinando un’imponente distruzione di risorse naturali. Ne deriva che il rilancio della crescita può rappresentare una fase, non uno stato permanente dell’economia, e che agli economisti toccherebbe il compito di rispondere alla domanda: esistono altre forme di economia che possano fare a meno della crescita senza farci ricadere nella povertà? È possibile “una prosperità senza crescita” come si afferma nel titolo di un recente libro di Tim Jackson?
Da tempo economisti e scienziati si sono impegnati nel compito di immaginare quali dovrebbero essere le linee portanti di un nuovo modello di sviluppo dell’economia in senso ecologico e, soprattutto, di un nuovo modello ideologico. Crediamo che sia giunto il momento di passare dall’economia della competizione a una nuova economia della cooperazione: la competizione sempre più spinta ha prodotto un’età della crescita che è oramai degenerata in un’età della distruzione. Nuove forme di cooperazione potrebbero, invece, condurci verso un’età di rinnovato benessere.
In concreto, si tratta di promuovere un formidabile progresso tecnologico e una decisa svolta morale per modificare sia l’evoluzione della tecnica sia la psicologia del consumatore il quale dovrebbe acquisire maggiore consapevolezza delle sue azioni e dell’impatto che esse provocano nella società e nell’ambiente naturale. Ciò significa passare dalla quantità alla qualità, da un concetto di “maggiore” a uno di “migliore”, dall’espansione illimitata all’equilibrio dinamico.
Uno degli aspetti fondamentali riguarda la riconversione ecologica dell’economia e implica il cambiamento del modello di sviluppo basato sui combustibili fossili, sull’automobile a benzina e sulle materie plastiche. Un modello che si è affermato da circa duecento anni e che, nonostante innovazioni come l’elettricità, l’informatica e le telecomunicazioni, continua ad essere dominante.
Un processo di riconversione ecologica dell’economia richiede nuovi indicatori e nuovi strumenti di misura delle performance economiche, sociali e ambientali. Occorre superare il Pil che rappresenta il valore monetario dei beni e servizi scambiati sul mercato. Il prodotto interno lordo si è rivelato molto utile nel misurare la crescita quantitativa, ma ha via via perso di efficacia nelle economie postindustriali dove è cresciuto il peso dei servizi immateriali e delle attività di carattere sociale, dove la qualità del prodotto e la produzione di nuovi prodotti hanno assunto maggiore importanza e dove le tematiche relative all’ambiente sono diventate sempre più centrali nelle scelte di vita di un gran numero di persone. Inoltre, il Pil ignora completamente il fatto che la crescita dell’economia è strettamente associata con il consumo delle risorse che quindi tendono ad esaurirsi. Non solo i combustibili fossili, ma anche le foreste, il suolo coltivabile, i metalli ed altre materie prime. Infine, il Pil non conteggia la produzione di rifiuti, l’inquinamento, le emissioni di anidride carbonica, la disponibilità di acqua dolce, il livello di istruzione. Se tutto ciò venisse incluso nella stima del Pil constateremmo che le nostre società non si stanno più arricchendo ma si sono incamminate lungo un percorso di impoverimento sociale, economico e ambientale.
Per uscire dalla crisi, dunque non basta semplicemente rilanciare la crescita, ma è necessario concepire un nuovo modello di sviluppo ecologico e cooperativo ed elaborare nuovi indicatori che siano in grado di misurare realmente la ricchezza prodotta e le risorse consumate a livello globale.

l’Unità 9.11.12
La battaglia di Luca per la libertà di ricerca
di Maria Antonietta Farina Coscioni

QUANDO AL CONGRESSO DA POCO CONCLUSOSI A ROMA, DI «RADICALI ITALIANI», È STATA RESPINTA UNA MOZIONE PARTICOLARE CHE IMPEGNAVA a operare per sottrarre fondi alla ricerca scientifica, alla sperimentazione che si basa sul modello animale, ho gioito, ho pensato a Luca, Luca Coscioni che ha guidato proprio questo Movimento dal 2001 al 2006 anno della sua morte, impegnato come era proprio sul fronte dell’antiproibizionismo sulla scienza e sulla ricerca e della laicità dello Stato.
Ho pensato al 5 novembre di dieci anni fa, quando insieme a lui e ad altri compagne e compagni, fondavo l’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica. Credo si possa dire che l’impegno di Luca fino al suo ultimo momento di vita, e l’Associazione, da lui fortissimamente voluta e creata, sono stati importanti per questo Paese. Prima di Luca, la condizione terribile di disabili e malati affetti da malattie neuro-degenerative tra le quali la sclerosi laterale amiotrofica, il calvario vissuto da loro e dalle loro famiglie, erano cosa conosciuta in ambiti ristretti.
La stesura di un manifesto per la libertà della ricerca scientifica ha costituito il cuore pulsante della associazione con la scelta di affiancare il destino personale a quello politico, nella volontà di saperlo urgenza e diritto. Perché è questo quello che è accaduto: nell’agenda politica italiana certo, con grande fatica sono stati inseriti temi e questioni che prima erano assenti. Quei temi e quelle questioni che oggi vengono qualificati come «temi eticamente sensibili»; e certo possono essere laceranti e fanno esplodere contraddizioni, come lacerante e contraddittoria è la vita stessa, e ogni questione importante che ad essa è legata.
Ma sono lacerazioni e contraddizioni benefiche che provocano riflessione, dibattito, costringono ognuno di noi a interrogarsi sulla qualità della vita, sul suo significato. E a fare delle scelte, che non possono valere per tutti. Per tutti, semmai, può valere la facoltà di esercitare un diritto. Così in passato andava garantita la facoltà per una coppia che riteneva il suo rapporto infranto in modo irrimediabile, di potersi separare e formare un nuovo nucleo familiare; non un obbligo, ma un diritto che si può esercitare, se si vuole e si crede. E così per il resto.
Con l’Associazione Coscioni, Luca vivo e ora con Luca che non c’è più, ci si è battuti per la libertà della ricerca scientifica, per la libertà di scienza, ancora oggi in Italia prigioniera di mille laccioli e pregiudizi ideologici, anche da parte di chi questi laccioli e pregiudizi dovrebbe aiutarci a superarli. La lotta e l’impegno di Luca e dell’Associazione che porta il suo nome incarnano quello che chiamava «approccio scientificamente e metodologicamente aperto ai temi della bioetica, che deriva lui scriveva dalla mia formazione culturale, dal mio essere scienziato sociale; un pensiero e una prassi liberale; e il fatto scriveva ancora che porto sul mio corpo e nel mio spirito i segni di ciò che potrebbe significare per centinaia di milioni di persone in tutto il mondo, la bioetica, quando dal laboratorio si passerà alle applicazioni cliniche» (...)
Ci si è battuti in ogni sede contro l’infame legge 40 sulla cosiddetta procreazione assistita, un assurdo castello di divieti che non ha pari nel mondo civile, e il cui unico scopo sembra essere quello di punire la coppia che vuole un figlio sano; e per il diritto a porre la parola fine a un’esistenza quando non si ritiene abbia più dignità, senso e scopo, senza essere costretti a seguire l’esempio di un Mario Monicelli o un Lucio Magri... Per tutto questo Luca si è battuto allo spasimo, pur imprigionato su una sedia a rotelle, con ferrea volontà e la voce metallica del computer che prima di allora nessuno aveva ascoltato in televisione, e che rendeva pienamente la situazione in cui erano costretti a vivere centinaia, migliaia di malati come lui.
La libertà della ricerca scientifica, la libertà di scelta delle persone non sono un problema bioetico, come si vorrebbe far credere. Gli ostacoli che vengono frapposti sono di natura politica, ben calcolati e progettati. Le ricordate le parole del premio Nobel José Saramago: «Attendevamo da molto tempo che si facesse giorno, eravamo sfiancati dall’attesa, ma ad un tratto il coraggio di un uomo reso muto da una malattia terribile ci ha restituito una nuova forza».
Questo è stato ed ha rappresentato Luca. La sua storia ci è di esempio: lotta irriducibile, contro gli azzeccagarbugli di questo Paese; una speranza per scienziati, ricercatori, medici troppe volte costretti a emigrare, a causa di leggi assurdamente limitatrici e tagli dei fondi e delle risorse destinate alla ricerca. Grazie all’esempio di Luca, e all’associazione che porta il suo nome gli anelli «deboli», i malati, i disabili, gli anziani diventano anelli «forti» di tenuta, consapevolezza e assicurazione per il bene di questo Paese.

Repubblica 9.11.12
“Così abbiamo perso la casa” spagnoli sempre più disperati e il suicidio diventa epidemia
Già 350 mila sfrattati per colpa della crisi
di Adriano Sofri

MADRID LE FAMIGLIE cui è già avvenuto sono oltre 350 mila, quelle su cui incombe lo stesso destino altre centinaia di migliaia. La legislazione spagnola, come ormai denunciano gli stessi magistrati tenuti ad applicarla con pena e vergogna, è letteralmente sadica nel fare gli interessi delle banche e calpestare diritti e umanità dei debitori. Il meccanismo è complicato ma la sostanza è questa: i debitori morosi che hanno dato in garanzia l’ipoteca sulla propria casa — istigati, ricordate, dalla speculazione edilizia e bancaria — o, tragedia nella tragedia, case dei propri genitori o nonni, vengono espulsi alla svelta con un ampio e manesco dispiego della forza pubblica. La casa passa alla banca, e la banca o chi per lei la ricompra all’asta, a un prezzo fortemente inferiore; ma il sequestro della casa, e la speculazione sul prezzo che consente, non bastano a estinguere il debito: il proprietario espropriato deve pagare la differenza con la valutazione iniziale del valore della casa, più gli interessi che continuano a correre.
Una rapina a vita, difficile da credere. E però a lungo questi sgomberi —
desahucios — si sono perpetrati furiosamente nella vana resistenza delle famiglie e dei vicini, o nel silenzio di altre famiglie che si vergognavano della propria disgrazia, finché… Finché un movimento spontaneo, civico, di solidarietà con gli sgomberati è via via cresciuto, e finché alcuni gesti di quelli che si definiscono disperati hanno strappato la cortina. Mentre ero qui, a distanza di due giorni due persone si sono preparate all’appuntamento con le truppe degli sgomberanti: uno viveva solo, si è fatto trovare impiccato, alle dieci di mattina; l’altro ha dato un bacio al bambino e si è buttato giù dalla finestra. (Permettetemi un’osservazione sui suicidi e la crisi, perché si è obiettato che alla fine nelle statistiche sui suicidi i conti tornano, senza variazioni sostanziali fra stagioni grasse e magre. Dubito delle statistiche su un tema così impervio, ma le persone che si ammazzano nella propria casa nel momento in cui ne vengono sradicate non lasciano dubbi sulla causa del proprio gesto. E bisogna, perché i conti tornino, che altri due candidati al suicidio per misteriose ragioni loro cambino idea). La questione è finalmente esplosa nei telegiornali e nei giornali, El Paìs e, a Barcellona, El Periódico, ne fanno una campagna. Questione infame, e per giunta la grandissima parte degli spagnoli, di sinistra e anche di destra, indipendentisti o federalisti o unionisti, non sono contenti della differenza fra il rescate delle banche a tasso zero e i desahuciosdegli impoveriti ad alzo zero. Non sono affatto contenti. Ma questa era una questione di umanità, veniamo all’economia e finanza. Abbiamo imparato che i poveri vanno in rovina mentre gli Stati o le banche fanno default.
Non è solo una riverenza lessicale, come ammonisce la sentenza: «Se la merda avesse valore, i poveri nascerebbero senza il culo». E’ un altro affare. Che il fallimento delle banche o dei paesi costi carissimo a chi è già con l’acqua alla gola l’abbiamo capito: è un ricatto, i ricatti funzionano. Il problema è il debito. I poveri falliscono, e i loro beni vanno all’asta, alla subastadi Bankia, o — catenine dei bambini, orecchini della nonna, fedi matrimoniali — al Monte dei Pegni. Viaggiando nella periferia d’Europa mi sono fatto l’occhio, avvisto subito le file ai banchi delle lotterie e le insegne dei “Compro oro”: non occorre lo sguardo aguzzo, alla Puerta del Sol, a Madrid, la piazza degli indignados e degli innamorati, c’è un “Compro oro” di tre piani, con mezza dozzina di suoi adescatori fra i passanti. E annunciano di stare aperti 24 ore su 24. Case e cose passano di mano, materialmente. Economia reale. Negli Stati Uniti si calcola che undici milioni di case siano state perdute per la bolla immobiliare: 11 milioni! Un servizio fotografico speciale ospitato da Le Monde, che si intitola appunto “Un pays aux enchères”, ricorda che una parte di quelle case tolte ai proprietari indebitati viene rivenduta a prezzi di speculazione, un’altra parte, semplicemente, va in malora, in quartieri derelitti e deprezzati. Se si fossero lasciati i loro abitatori, non sarebbero andate in malora. Ora la doppia domanda è questa: a che punto — a che cifra, diciamo — il “salvataggio” diventa conveniente o necessario? E non è possibile che anche i paesi vadano (e vengano fatti andare) all’asta o in malora? Un paese, e anche una grande banca, coinvolge quantità ingenti, e non può, morale a parte, essere trattato alla stregua di una persona o una famiglia sloggiata. Troppo piccola per non fallire. Però: 350 mila famiglie? E 5 milioni di disoccupati (per restare alla cifra spagnola)? Questa finanza, ammesso che ce ne sia un’altra, non è una specie di colossale Monte dei Pegni, una “Compro oro” all’ingrosso globale?
Capita a proposito la notizia su una multinazionale mineraria canadese che è riuscita a vincere le resistenze degli abitanti di una regione della Grecia e a riaprire delle miniere, in particolare di oro: si chiama proprio così, Eldorado Gold! E chi comprerà il petrolio greco di cui si favoleggia da sempre? E’ l’ultramodernità che permette di maneggiare i paesi del mondo ricco come un tempo (e ancora, del resto, guarda la Cina in Africa) le colonie, compresa la classe politica compradora.
Pagano i poveri, pagano gli impoveriti: si spogliano di case, di risparmi, di piccoli patrimoni di famiglia, di progetti per i figli e di figli progettati. Vanno all’asta anche i paesi: l’aveva capito quel cordiale ministro finlandese che aveva chiesto in pegno il Partenone. Forse intendeva questo Bersani, quando avvertì chi dalle Cayman o altri paradisi pensasse di comprare l’Italia. Succederà davvero: il Foro romano, la Tour Eiffel, Las Meninas, il tram di Lisbona e il tram sotto il quale morì Gaudì. Forse è già successo.

La Stampa 9.11.12
Nuove banconote
Se l’euro sceglie la Grecia come simbolo
di Maurizio Assalto

Certo è un bel paradosso, nel momento in cui Atene brucia e la Grecia è quasi fuori dell’Eurozona, trattata come un paria della Ue, un appestato da tenere a debita distanza per non finire tutti contagiati. Ebbene, proprio adesso, dal cuore della ostile Germania, i severi custodi dell’ortodossia finanziaria della Bce si affidano a un mito greco - sia pure al mito eponimo del continente - per rifare il look degli euro. Come poteva immaginare, la figlia di Agenore, mentre volava sul mare in groppa al rapitore Zeus in sembiante di toro bianco, che quello dalla natia Tiro fino a Creta sarebbe stato soltanto l’inizio del suo peregrinare? X-mila anni dopo, Europa riprende il viaggio, trasformata in un ologramma che ne restituirà il ritratto nelle banconote da 5 euro che dall’anno prossimo cominceranno la loro odissea nello spazio della moneta comune.
L’inesauribile vitalità del mito, verrebbe da dire con Joseph Campbell. L’ineludibilità delle radici. Ma anche uno scherzo del fato, tanto più se si considera che il vaso da cui è tratta l’immagine, un’anfora di tipo panatenaico a figure rosse, ora al Louvre, è stato ritrovato nell’Italia meridionale, quella Magna Graecia accomunata all’antica madrepatria nell’esecrazione degli eurovirtuosi. Insomma, il Sud insulare e peninsulare affonda l’economia del resto d’Europa, e l’Europa non trova di meglio che stampare sulle sue banconote un’icona di quel mondo economicamente vizioso e vocato al suicidio? Non sarà di cattivo auspicio?
Una speranza, forse, viene dall’etimologia: Europa significa letteralmente «ampio sguardo», un epiteto della luna, e ci vuole davvero una notevole ampiezza di vedute, con questi chiari di luna, per districarsi nelle strettoie della crisi senza impelagarsi nelle questioni contabili. E poi diciamolo: mettere sui 5 euro la faccia di Gudrun o Brunilde non sarebbe stata la stessa cosa, neppure l’inflessibile Angela Merkel e il suo ancor più inflessibile ministro Schäuble avrebbero osato tanto.

il Fatto 9.11.12
Finita l’era dei bianchi: alle urne non bastano più
Nonostante siano il 72 per cento, la vittoria è decisa da donne, ispanici e afroamericani
In continuo aumento
di Beatrice Borromeo

I bianchi in America? Ormai possono contare solo su se stessi”. Questo, scritto in lettere maiuscole, è stato il top tweet di ieri, quello più condiviso in rete, quello della presa di coscienza: le minoranze sono (e saranno) sempre più decisive per le elezioni presidenziali. Un esempio per tutti: nella contea di Prince William, in Virginia, che nel 2000 era stata la roccaforte di George W. Bush contro Al Gore, Obama ha vinto con uno scarto di 15 punti. E ha vinto grazie a giovani, agli asiatici-americani e agli ispanici, che negli ultimi dieci anni sono triplicati, capovolgendo i risultati elettorali e aiutando a consegnare la Virginia ai Democratici. Mai così pochi dal 1972: eppure i bianchi costituiscono ancora il 72 per cento dell’elettorato statunitense. La maggioranza di loro (59 per cento) ha scelto il candidato Repubblicano Mitt Romney. Non è bastato: l’era Wasp è finita. La vittoria di Obama nel 2008 non è stata solo l’esperimento di un Paese che crede ancora fortemente nell’American dream; e quella del 6 novembre scorso ha segnato il debutto della nuova era demografica. E ora che l’elettorato bianco costituisce meno della metà del caucus democratico, la torta che ha consentito a Obama di aggiudicarsi 303 grandi elettori (per vincere ne bastavano 270) è più variegata che mai.
Donne
Partiamo dalle donne, cioè la seconda fetta più ghiotta, essendo il 53 per cento dell’elettorato. Poco più della metà (55 per cento) ha scelto Obama, contro il 44 per cento che ha optato per Romney. Tra i temi che più hanno convinto le elettrici ci sono la riforma della sanità e la parità di salario tra uomini e donne (il primo atto dell’Amministrazione Obama fu proprio il Lilly Ledbetter Fair Pay Act). Mentre Romney ha pagato le numerose gaffes degli ultimi mesi, dalla proposta del suo vice Paul Ryan di “ridefinire lo stupro” a quella (spalleggiata dal candidato mormone) di vietare l’aborto anche in caso di violenza sessuale o incesto.
“Il problema di Romney ha le radici nelle primarie repubblicane”, dice Thomas Edsall, professore di Politica americana alla Columbia University e firma di punta del Washington Post per 25 anni. Che spiega: “Per tenere testa a Gingrich e Santorum, Romney ha dovuto convincere il partito di essere un conservatore ‘hardcore’ e ha finito per prendere posizioni che non si è potuto rimangiare durante la campagna elettorale, per esempio contro i contraccettivi, l’aborto e soprattutto contro la riforma dell’immigrazione”.
Gli ispanici
I voti dei latinos – 10 per cento dell’elettorato – sono stati determinanti (anche perché grazie a loro i democratici hanno vinto pure il voto cattolico): oltre il 70 per cento ha scelto Obama. E non poteva che essere così: da un lato il presidente che toglie l’ombra della deportazione dai giovani immigrati, arrivati negli Usa da bambini, cosicché possano studiare e trovare lavoro (oltre alla promessa di riformare completamente un sistema che lui stesso definisce “rotto”). Dall’altra Romney che minacciava il veto sul Dream Act, la proposta legislativa che di fatto regolarizza quei clandestini che si diplomano in scuole americane o contribuiscono alla comunità. “Credo scoppierà una guerra civile, perché sono molti i re-pubblicani che vogliono lasciare le cose così come sono. Ma se il partito vuole restare competitivo, dovrà certamente cambiare. L’ostracismo dei conservatori verso gli immigrati senza documenti, che sono 11 milioni, non può durare”, dice Edsall.
Afroamericani
Lo zoccolo duro del presidente è rimasto però quello degli afroamericani, che alle urne pesano persino più degli ispanici (sono il 13 per cento dell’elettorato): solo il 6 per cento ha votato Romney, mentre la quasi totalità – il 93 per cento – ha confermato di non essere stata delusa da Obama. Anzi: in Ohio, per esempio, il voto dei neri è stato persino superiore a quello del 2008.
Solo alcuni di questi risultati erano prevedibili. Di certo i re-pubblicani hanno sottovalutato l’affluenza alle urne delle minoranze, basandosi su quella (molto minore) dei mid-term del 2010. Ma non erano le presidenziali, che motivano molto di più certe fasce di elettori, rimasti in coda per ore pur di votare.
Le sorprese però non riguardano solo le minoranze: per Edsall, “il Colorado, che ha legalizzato la marijuana, è uno Stato che resta prevalentemente bianco. Così come il Maine, che ha approvato i matrimoni gay: i bianchi stanno diventando molto liberali sui temi sociali”. Tutte novità che stanno profondamente cambiando la fisionomia della politica americana. Anche perché le minoranze, latinos in testa, sono in continuo aumento. Che i Repubblicani si adeguino oppure no.

l’Unità 9.11.12
Saeb Erekat: «Obama dica sì a un posto all’Onu per la Palestina»
Capo negoziatore dell’Autorità nazionale palestinese (Anp)
È la memoria storica del lungo processo negoziale in Terrasanta
di Umberto De Giovannangeli

«Una vittoria di Romney sarebbe stata la pietra tombale per la pace in Medio Oriente. La nostra speranza è che la seconda presidenza di Barack Obama sia una presidenza di pace, stabilità e democrazia nel corso della quale venga realizzato il principio dei “due Stati” ed Israele si ritiri lungo le linee antecedenti la guerra del 1967». Da una speranza a una richiesta: «Chiediamo al presidente Obama di non opporsi alla richiesta avanzata dal presidente Abbas (Abu Mazen, ndr) di essere riconosciuti come “Stato non membro” all’Assemblea generale delle Nazioni Unite». Così è vista la rielezione di Barack Obama dal campo palestinese e da uno dei suoi più autorevoli esponenti: Saeb Erekat, 57 anni, capo negoziatore dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), memoria storica del lungo e tortuoso processo negoziale in Terrasanta. Quanto al presente, Erekat non si fa soverchie illusioni sulla disponibilità al dialogo della controparte israeliana: «Netanyahu e Lieberman dice a l’Unità Erekat hanno rigettato anche le ultime aperture del presidente Abbas. Se Obama vuole davvero imprimere una svolta in Medio Oriente, deve riporre al centro della sua agenda internazionale la questione palestinese e non avallare più la politica unilateralista e colonizzatrice dei falchi israeliani».
All’inizio del suo primo mandato presidenziale, Barack Obama aveva manifestato la volontà di riportare la questione israelo-palestinese ai primi posti della sua agenda internazionale, sostenendo apertamente la soluzione “due Stati”.
Cosa si aspetta ora con la sua rielezione?
«Parole importanti che, però, in questi quattro anni non si sono trasformate in fatti. Al momento della sua prima elezione, il presidente Obama aveva suscitato grandi speranze ed aspettative tra i palestinesi e nel mondo arabo. Obama aveva parlato di un “Nuovo Inizio”, di un dialogo alla pari tra l’Occidente e il mondo arabo e musulmano ed aveva affermato il diritto del popolo palestinese a vivere in uno Stato indipendente a fianco d’Israele. Ma le sue buone intenzioni si sono scontrate con l’intransigenza dei governanti israeliani che hanno proseguito nella colonizzazione della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, rendendo impossibile un vero dialogo e un serio compromesso. Se Obama vuole determinare una svolta in Medio Oriente deve incrinare il “Muro” dell’intransigenza edificato da Netanyahu e Lieberman. D’altro canto, non è un caso che i falchi israeliani abbiano tifato per Romney...».
Lei parla di atti concreti di Obama che segnalino un “nuovo inizio”. Ne può indicare uno in particolare?
«Il sostegno alla richiesta, in discussione nelle prossime settimane all’Onu, di un nostro riconoscimento come “Stato non membro” all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Vogliamo che la Palestina torni sulla mappa, entro i confini del 1967, con Gerusalemme Est come capitale. Ben 150 nazioni su 170 l’hanno riconosciuta. Speriamo che il presidente Usa sia dalla nostra parte. Obama deve fermare la politica degli insediamenti e le altre violazioni israeliane e non la richiesta palestinese all’Onu. Appoggi la nostra richiesta che certo non mette in pericolo l’esistenza d’Israele: un suo sostegno, questo sì che sarebbe un grande segnale di speranza per quanti, in campo palestinese ma anche in quello israeliano, credono ancora nel dialogo e in una pace fondata sul principio “due popoli, due Stati”».
Più volte, la leadership palestinese ha affermato la sua disponibilità a tornare al tavolo delle trattative ponendo come condizione il blocco degli insediamenti. C’è chi sostiene, anche in Europa, che questa richiesta è in contrasto con l’appello, rilanciato di recente dal presidente francese Francois Hollande, ad una ripresa “senza condizioni” dei negoziati. «Noi non poniamo condizioni alla ripresa dei negoziati, e Netanyahu come il presidente Hollande sanno bene che il congelamento della colonizzazione non è una condizione palestinese, ma un impegno israeliano. Quello che poniamo non sono condizioni, ciò che chiediamo è l’applicazione da parte di Israele dei suoi impegni, a cominciare dalla cessazione della colonizzazione e dalla liberazione dei prigionieri palestinesi. Mi lasci aggiungere che un negoziato non può durare in eterno, altrimenti non di negoziato si tratta, ma di una farsa che nessun dirigente palestinese, neanche il più disposto al compromesso sarà mai disposto ad avallare».

Repubblica 9.11.12
Giallo a Ramallah
A fine mese in Palestina gli inquirenti francesi riesumeranno la salma dell’ex leader dell’Anp
Per provare a risolvere il mistero della sua morte
di Fabio Scuto

RAMALLAH Una bella luce autunnale filtra dalle grandi vetrate del Mausoleo di Yasser Arafat. Una corona di fiori poggiata a terra davanti alla semplice lastra di marmo che copre le spoglie del raìs palestinese, diffonde un odore dolciastro che avvolge l’aria dentro questo grande cubo di vetro e cemento, essenziale, senza nessun decoro. Fa talmente caldo che i due soldati della Guardia d’onore palestinese si alzano e si infilano il cappello solo quando entrano i visitatori. Sotto questa la lapide con delle semplici iscrizioni in arabo, che turisti giapponesi ignari fotografano con accanimento anche stamattina, si potrebbe nascondere uno dei grandi misteri del Medio Oriente, terra di complotti e tradimenti più d’ogni altra. Otto anni dopo la sua morte in un ospedale militare di Parigi per una malattia non diagnosticabile, i misteri e i dubbi sulla fine del presidente palestinese tornano a galla, trascinati dalle rivelazioni di Al Jazeera di questa estate sul suo avvelenamento con il polonio 210.
Ma chi si aspettava che il mistero che avvolge la morte di Arafat si dipanasse con l’apertura della sua tomba il prossimo 26 novembre rischia di restare deluso. Il giallo sulla malattia che uccise nel 2004 l’anziano raìs in meno di un mese potrebbe restare, senza una risposta certa, senza nessuna verità. Rischia di rientrare nella vasta categoria dei misteri mediorientali destinati a rimanere tali, una spy-story senza nessuna “pistola fumante”.
Da giorni sono già a Ramallah due esperti dell’Istitut de Radiophysique di Losanna, il laboratorio svizzero presso il quale la vedova di Yasser Arafat ha fatto recapitare alcuni effetti personali del raìs — la sua kefia, lo spazzolino da denti e un pigiama — per le analisi che poi hanno rivelato tracce evidenti di polonio 210; la stessa sostanza con la quale venne avvelenato a Londra l’ex spia russa Aleksandr Litvinienko nel 2006. Arriveranno invece a fine settimana gli inquirenti francesi — Suha, la vedova è cittadina francese ed è lei ad aver sporto denuncia — incaricati dell’inchiesta. L’Anp e il presidente Abu Mazen hanno già annunciato a luglio che nessuna difficoltà sarebbe stata posta ad una eventuale esumazione della salma. Ma l’operazione, prevista per il prossimo 26 novembre, potrebbe slittare. Perché l’Anp, spiega a Repubblica uno dei funzionari palestinesi coinvolti nel caso, «vuole prima di tutto la stesura di un protocollo di accordo con la giustizia francese» e poi i francesi, per ora, hanno respinto l’ipotesi di una inchiesta congiunta con la sicurezza palestinese. Dopo aver sbandierato per mesi che lo zio Yasser era stato avvelenato, adesso anche il nipote Nasser Al Qidwa — già ambasciatore palestinese all’Onu — si dice contrario all’apertura della tomba per diverse ragioni, non ultima quella che dopo anni di interramento le tracce potrebbero non dare più la certezza che Yasser Arafat è stato avvelenato con il polonio. «L’apertura del Mausoleo profanerebbe il carattere simbolico di Yasser Arafat», dice Al Qidwa, «e poi l’inchiesta deve essere congiunta, un’inchiesta fatta da un paese straniero sulla morte del nostro presidente sarebbe una sorta di attentato alla sovranità palestinese ». Misteri indecifrabili della Palestina, ciò che solo 4 mesi fa era di fondamentale importanza accertare, adesso diventa una questione di protocollo.
Certo la tesi dell’avvelenamento è molto seducente per i palestinesi e l’uomo della strada a Ramallah, a Jenin, a Hebron ha già scelto: il 72% è convinto che Arafat sia stato assassinato e che dietro quella misteriosa malattia che l’ha ucciso in 4 settimane ci sia la mano di Israele. Eppure nelle cento pagine della cartella clinica del paziente Etienne Louvet — nome con il quale Arafat venne registrato al suo arrivo all’ospedale militare di Percy a Parigi il 29 ottobre — ci sono analisi di ogni genere. Nelle carte i medici citano i nomi di diversi veleni che cercarono di individuare nel sangue, ma senza esito. Gli esami furono ripetuti anche presso il laboratorio della polizia scientifica di Parigi e in un altro ospedale militare. Ma nessuno pensò a un avvelenamento con altre sostanze, come appunto il polonio, isotopo che non emette radiazioni gamma — assorbite dalla pelle — ma solo particelle alfa, incapaci di penetrare la pelle umana: quindi se Arafat è stato avvelenato col polonio lo ha dovuto ingerire con una bibita o con un alimento.
La tesi dell’avvelenamento e del coinvolgimento di qualche suo servizio segreto, è seccamente smentita da Israele. Dice Avi Dichter, allora capo dello Shin Bet, che «c’era una esplicita richiesta degli Stati Uniti di non eliminare Arafat». E poi la tesi dell’avvelenamento da polonio per molti esperti israeliani suscita molti dubbi. Il professor Ely Karmon — cattedra al Centro studi strategici interdisciplinari dell’Università di Herzilya — prova a metterli in fila. «Il polonio ha un tempo di dimezzamento di 138 giorni, cioè metà della sostanza decade ogni 4 mesi mezzo, e il livelli riscontrati sui vestiti di Arafat erano molto elevati, tali che all’epoca avrebbero dovuto contaminare tutto il suo entourage, i medici, gli infermieri che l’hanno curato, i locali dove ha soggiornato». L’unica spiegazione per Karmon è che “il materiale”, cioè il polonio 210, sia stato messo «recentemente» negli effetti del raìs palestinese.
Effettivamente su dove sia stati questi “effetti personali” fino alla passata estate, quando vengono portati nei laboratori di uno specialissimo istituto di ricerca svizzero, nessuno è in grado di dirlo. Così come resta un mistero il cambia- mento di atteggiamento di Suha Arafat, che a Parigi subito la morte del raìs si oppose all’autopsia e adesso — sostenuta da Al Jazeera che sta finanziando le ricerche — 8 anni dopo chiede di riaprire la sua tomba. Lo scetticismo sul polonio domina anche il corridoio del secondo piano alla Muqata, dove c’è lo studio del presidente Abu Mazen. Le relazioni fra l’Anp e la signora Suha Tawil sono pessime. L’affetto che circonda ancora la figura del leader palestinese non si estende alla sua vedova, definita spregiudicata, avida e anche di dubbia morale dopo la morte del raìs.
E poi c’è ancora aperta la questione dei soldi, milioni e milioni di dollari in contanti e titoli esteri al portatore scomparsi dopo la morte di Arafat a cui la polizia palestinese da la caccia, sospettando un ruolo attivo della signora.
Ma il dubbio che dietro quel rapido degradamento delle condizioni fisiche di Arafat ci stato un qualche tipo di veleno per i palestinesi resta. A Ramallah ricordano che anche contro Khaled Meshaal a Amman nel 1994 venne spruzzato per la strada un veleno — da due agenti del Mossad poi arrestati — che lo stava uccidendo, e che i medici giordani non riuscirono mai a identificare. Lo scambio fra le spie arrestate e l’antidoto salvò la vita al leader di Hamas. Secondo il professor Marcel Francis Kahn, eminente accademico francese che ha studiato il “dossier Arafat”, l’ipotesi del polonio non regge: «L’avvelenamento da materiale radioattivo non dà i sintomi manifestati da Arafat; il suo stato di malattia si adattava bene invece all’avvelenamento da tossine fungine, magari geneticamente modificate». Maneggiare la tossina velenosa di un fungo è più facile che non mettere le mani su una sostanza come il polonio.
Naturalmente la tossina deve poi arrivare attraverso gli alimenti o l’acqua fin dentro la Muqata; molti altri leader arabi — tuttora — dispongono nella loro cerchia di sicurezza dell’assaggiatore per cibi e bevande, ma non Arafat che pure era già sfuggito a 7 attentati. Il raìs palestinese non beveva, non fumava, mangiava pochissimo e rifiutava il cibo cucinato nella mensa della Muqata. Per questo una volta al giorno due suoi bodyguards andavano a prendere il kebab in un popolare ristorante di Ramallah. Una debolezza di gola però Arafat l’aveva: per la cioccolata e i marron glaces. E le scatole che gli venivano portate da mezzo mondo, le nascondeva nei cassetti nella scrivania alla Muqata.
Il mistero sulla morte di Arafat è davvero lontano dall’essere risolto. Il generale Tawfik Tirawi, capo dei servizi segreti palestinesi e della commissione d’inchiesta che ha indagato in questi anni, dice: «Siamo certi che nessuna mano palestinese è coinvolta nella morte del presidente». Forse. Ma certo anche a queste latitudini “la verità non è mai pura e quasi mai semplice”.

Repubblica 9.11.12
Parla l’avvocato che rappresenta Suha, la vedova del presidente palestinese
“Ne siamo certi: fu ucciso è ora che il mondo lo sappia”
di Daniele Mastrogiacomo

Suha Arafat non parla. Per il momento. La vedova del fondatore ed ex presidente dell’Olp preferisce attendere i primi risultati. Questione di opportunità politica. Ogni dichiarazione e valutazione, anche una semplice parola, potrebbe essere sfruttata e usata per condizionare un’inchiesta che si annuncia ricca di colpi di scena. Meglio il silenzio. Ma i suoi avvocati sanno bene cosa pensa: «Conosciamo le posizioni della signora Arafat», spiega Jessica Finell, il legale dello studio Pierre- Olivier Sur a cui si è rivolta la vedova del leader palestinese per denunciare i sospetti sulla morte del marito. Una morte, ritiene la signora, provocata da avvelenamento da polonio 210.
Cosa vi aspettate di trovare, avvocato?
«La verità. E’ ciò che ci auguriamo. Ci siamo impegnati su questo obiettivo e intendiamo raggiungerlo».
E quale verità?
«La verità è unica. Certo, ci possono essere sfumature, delle variabili. Ma in questo caso le prove da raccogliere e i risultati ottenuti saranno chiari: uno spartiacque decisivo».
La denuncia di Suha Arafat parla di avvelenamento da polonio 210. Un’accusa precisa.
«La denuncia presentata al Tribunale di Nanterre e poi trasferita alla Corte d’appello di Parigi si basa su una serie di argomentazioni proposte dalla dirigenza dell’Anp. C’è poi il referto tecnico del laboratorio di Losanna nel quale si rileva una quantità anormale di polonio 210 tra i vestiti e alcuni effetti personali dell’ex leader palestinese. Saranno i periti, di parte e del Tribunale, a stendere una relazione con le loro conclusioni».
All’atto della riesumazione del corpo di Yasser Arafat saranno presenti anche i tecnici svizzeri del Laboratorio dell’Istituto di radio fisica di Vaud?
«Noi saremo presenti con i nostri periti. Assieme a quelli nominati dalla Corte d’appello.
Credo che ci saranno anche i tecnici incaricati dalla dirigenza dell’Anp. Gli esperti del ChuV hanno già in mano il loro reperto e i risultati».
Non vi siete coordinati?
«L’autonomia di ogni singola parte è condizione necessaria per un verdetto cristallino. A noi non interessa confermare una tesi precostituita. Interessa stabilire una verità: se Yasser Arafat è morto per cause provocate da un agente esterno».
Il mondo scientifico si divide sul fatto che sia possibile trovare tracce di polonio 210 dopo tanto tempo.
«Sono passati 8 anni. I nostri esperti assicurano che se ci sono tracce di polonio saranno scoperte. Certo, più passa il tempo più queste possibilità diminuiscono. Bisogna agire subito. E’ quello che è stato deciso di fare».
Dove e su cosa verranno cercate le tracce?
«Sulle ossa, sui resti umani che verranno riesumati. E’ un lavoro da specialisti. Ma sul posto ci saranno i massimi esperti del campo».
Non c’è il rischio di un condizionamento?
«Escluso. Anche i periti nominati dalla Corte d’appello di Parigi sono indipendenti. Non hanno mai avuto accesso al dossier, non hanno letto carte, visto prove, ascoltato testimoni o protagonisti. Il nostro ufficio ha la massima fiducia nei loro confronti: una fiducia sulla loro imparzialità».
Quali saranno i passi successivi?
«Li decideremo sulla base dei risultati. Un passo alla volta. Non abbiamo preconcetti e preclusioni. Noi agiamo sulla base di un sospetto della nostra cliente. Sospetto motivato da molti elementi. Solo la verità rafforzerà o chiarirà questi sospetti».
All’atto delle riesumazione si conosceranno i primi risultati?
«No. Occorrerà del tempo. Ci potranno essere indicazioni. Ma solo generiche. Porteremo le nostre conclusioni al processo. Allora sapremo se Arafat è morto per avvelenamento».

l’Unità 9.11.12
Cina, Hu Jintao: «La corruzione ci minaccia
Apre il XVIII congresso del Partito comunista
Cambio ai vertici, salgono i riformisti Xi Jinping e Li Keqiang
Le autorità preoccupate per i fenomeni di disgregazione e per le proteste sociali
Gli obiettivi: raddoppiare il Pil e i redditi
di Gabriel Bertinetto

In piazza Tiananmen una donna grida contro l’arresto di un familiare. La protesta dura pochi secondi, soffocata dall’immediato intervento degli uomini in divisa. Un piccolo neo nella maschera di ordine assoluto calata su Pechino nel giorno in cui prende il via il 18° Congresso del Partito Comunista. Strade chiuse al traffico. Spariti i venditori ambulanti. Centotrenta dissidenti prelevati in casa e rinchiusi precauzionalmente in cella, caso mai avessero intenzione di manifestare.
Nella grande sala del Palazzo del popolo, domina il colore rosso e gli oltre duemila delegati siedono in disciplinatissimo allineamento per ascoltare la voce del capo. Hu Jintao, 69 anni, si rivolge loro per l’ultima volta in quelle vesti. Fra pochi giorni il congresso designerà alla successione l’attuale numero due Xi Jinping. Già deciso, così come lo è l’insediamento di Li Keqiang sulla poltrona che sarà lasciata libera da Xi. Restano incertezze solo sulla composizione del Comitato permanente del Politburo, di cui faranno parte, oltre a Xi Jinping e Li Keqiang, non meno di cinque e non più di sette altri dirigenti. Circolano alcuni nomi: i vicepremier Wang Qishan e Zhang Dejiang, il responsabile della propaganda Liu Yunshan, il capo dell’organizzazione Li Yuanchao. La scelta finale sarà frutto di un attento dosaggio del peso delle correnti, di cui nessuno ammette ufficialmente l’esistenza, perché la liturgia e l’ideologia esigono che il partito sia unito.
Hu esce di scena così come vi era entrato dieci anni fa, prendendo il posto di Jiang Zemin. Senza squilli. Lo stile di un leader che ha fatto della cautela uno scudo per tenersi al riparo dagli attacchi. Non a caso gli unici importanti dirigenti che prima del congresso hanno avuto problemi sono quelli che cantavano fuori dal coro. Uno, Bo Xilai, leader della tendenza neomaoista, è stato espulso dal partito e sarà processato per corruzione e altri reati, ma forse la sua colpa principale è di natura politica. L’altro, il premier Wen Jiabao, è sotto inchiesta (l’ha chiesto lui stesso) per i presunti arricchimenti illeciti di cui sono sospettati i familiari. Anche nel suo caso resta il dubbio che stia pagando per i suoi ripetuti appelli in favore delle riforme democratiche. Rispetto alle quali, Hu Jintao mette in chiaro che la linea ufficiale rimane quella di «sforzi di cambiamento attivi e prudenti». Niente che abbia a che fare con il pluralismo dei Paesi occidentali. L’interesse principale del partito rimane concentrato sul progresso economico. Hu lo dice ricorrendo a formule rituali: «Dobbiamo puntare più in alto, lavorare più duro, perseguire lo sviluppo in maniera scientifica, promuovendo l’armonia sociale, migliorando il tenore di vita del popolo». Programmi generici, ma fra una riga e l’altra dello slogan affiorano affermazioni meno scontate. Il riferimento all’obiettivo dell’armonia sociale è ricorrente nei discorsi di Hu e rivela la preoccupazione delle autorità per i fenomeni di disgregazione e scontro che la crescita economica in Cina sta innescando. La modernizzazione, gli investimenti stranieri, l’apertura al mercato hanno attirato masse di contadini verso le aree urbane. Stipendi più alti non hanno sempre corrisposto a migliori condizioni di vita e di lavoro. Nelle città come nelle campagne sono sempre più frequenti le proteste popolari per gli abusi commessi in nome del progresso, a cominciare dagli espropri di case e terreni. L’armonia sociale è tutta da costruire nella Repubblica popolare.
Hu indica l’obiettivo: raddoppiare entro il 2020 il prodotto interno lordo e i redditi individuali. Ma dovrà essere una «crescita equilibrata e sostenibile». Segno che le autorità sono sempre più consapevoli del disastro ambientale in corso, soprattutto nelle grandi città dove l’aria è diventata irrespirabile. Poi un monito severo contro la corruzione, che rappresenta una «seria sfida». Un problema che, «se non viene contrastato, rischia di risultare fatale per il partito, e può persino provocarne il crollo, insieme alla rovina dello Stato». Alcuni delegati ricordano che nel discorso di addio del 2002, Jiang Zemin, il predecessore di Hu Jintao, pronunciò parole del tutto simili. Sono passati dieci anni, le cose non sono cambiate granché da questo punto di vista. Semmai la corruzione si è estesa.

il Fatto 9.11.12
Il 18° Congresso del Pcc
Hu: “Il partito rischia di morire”
Cina, si apre il mea culpa del presidente sulla corruzionedi Simone Pieranni

Pechino Corruzione. Il diciottesimo congresso del Partito comunista cinese comincia con questo spettro che aleggia sulla Grande sala del popolo di Pechino. “Se non riusciamo a gestire questo problema, ha detto, esso potrebbe rivelarsi fatale per il partito”, ha ammesso il presidente Hu Jintao, nel suo discorso di un’ora e mezza, che sa anche di commiato: la Cina rinnova i suoi vertici, il capo della Repubblica popolare e il premier Wen Jiabao passeranno la mano, usciranno di scena, scompariranno dietro i tendoni rossi sovrastati dalla grande falce e martello. Il congresso è cominciato, con i suoi riti e i suoi misteri. Al pubblico è concesso il lungo monologo di Hu Jintao, trasmesso in diretta televisiva, tv accese in ogni angolo di strada di pechino e non solo. Nelle metro, sulle piazze, nei negozi. E Hu, per certi versi, ha toccato corde molto care ai cinesi: la corruzione, appunto. “Dobbiamo tenere a mente – ha poi aggiunto – la fiducia che il popolo ha riposto in noi e le grandi aspettative che hanno nei nostri confronti”. Chi si aspettava accenni alle riforme, invece, è rimasto deluso: “Non dobbiamo prendere il vecchio sentiero che è chiuso e rigido, né dobbiamo prendere la strada sbagliata di cambiare bandiere e striscioni”.
NÉ NOSTALGIA maoista, quindi, con altro chiaro riferimento a Bo Xilai e la sua cricca di neo maoisti, né modelli occidentali: Hu ha difeso il suo decennio di grande progresso economico e zero riforme politiche. Del resto, sotto il suo impero, nel 2011 in occasione di quelle che furono le tentate rivolte del gelsomino in Cina, la repressione fu la più violenta dal 1989. E per i cinesi è una bella frustrazione in generale, questo congresso: da giorni i media martellano con le procedure per la sicurezza per shibada, “il grande 18”. I volontari si aggirano per strade e hutong, i vecchi vicoli pechinesi, controllando tutto. Divieti di spedizioni, niente elicotteri giocattolo in aria, divieto di volo anche per i piccioni: per il congresso appunto. Peccato che poi, dicono in molti, la maggioranza della popolazione sarà all’oscuro di quanto verrà detto nelle riunioni chiuse del partito. Del resto, si decide la transizione politica, una delle più cruente e farraginose, nella ormai longeva vita della Repubblica popolare. Il congresso che si è aperto ieri infatti, deciderà il futuro politico ed economico della Cina, determinando anche potenziali assetti per l’occidente, sia europeo, sia americano. Innanzitutto la successione politica: nel cuore del potere cinese si animano ormai fazioni che, a partire dall’epurazione di Bo Xilai, ex leader di chongqing prossimo al processo, con rischio di pena capitale per corruzione e abuso d’ufficio, hanno dato fiato ad ogni tipo di congiura. Dalle voci di un tentato colpo di Stato, al diramarsi di gruppi e di scandali a sfondo economico: il vero scontro è quello tra la cricca di Shanghai, ancora comandata dal vecchio e potente ex presidente Jiang Zemin, e i riformatori, o presunti tali come il premier uscente Wen Jiabao. E per Xi Jinaping, futuro successore di Hu alla presidenza, un arco politico difficile da gestire.
DA TEMPO si parla di riforme, ma tutte riferenti all’interno del partito, ovvero la cosiddetta “intra party democracy”. Per il resto, che siano sette o nove i membri del comitato permanente, dal punto di vista politico la Cina non cambierà, almeno a breve. Ci sono poi i nodi economici e sociali. Pechino rallenta, al 7,4, rispetto all’8,5 previsto: pesa la crisi economica europea e uno strambo modello, quello dello sviluppo cinese, focalizzato sulle esportazioni e su un mercato interno che non decolla, almeno secondo le aspettative. La Cina dovrà quindi pensare a una pesante riforma di se stessa in termini di proposizione: puntare sull’innovazione e tentare di sviluppare le energie creative della sua popolazione, riuscendo però a contenerne le complessità sociali. Il Paese, infatti, appare di fronte a un baratro sociale. La guerra nascosta tra frange politiche riguarda anche gli anfratti economici: è in atto uno scontro tra élite.

La Stampa 9.11.12
Hu gela l’Occidente “La vostra democrazia da noi non funziona”
Il Presidente apre il XVIII Congresso del partito comunista
di Ilaria Maria Sala

Non copieremo mai un sistema politico occidentale»: pur denunciando il divario fra i ricchi e i poveri e la crescita ormai soffocante della corruzione in Cina, il bisogno di riforme e il deterioramento ambientale nel Paese, il Presidente uscente Hu Jintao, 69 anni, nel corso di un lungo discorso d’apertura del XVIII Congresso del Partito Comunista, ha ancora spento una volta ogni speranza che il Paese possa muoversi verso riforme politiche democratiche.
Finisce così la presidenza, durata dieci anni, di un uomo che era stato accolto ai suoi esordi come un potenziale riformatore. Hu Jintao invece ha portato il Paese a una crescita economica impressionante, che ha visto l’economia cinese quadruplicare e diventare la seconda economia al mondo, dopo gli Stati Uniti.
Non solo: sotto di lui, la Cina ha acquisito anche un’importanza politica e militare di tutto rilievo, le esplorazioni spaziali hanno fatto mostra delle grandi ambizioni cinesi, e il Paese si è affermato sulla scena internazionale in modo significativo, malgrado pericolose derive nazionaliste.
Allo stesso tempo, il Paese è rimasto praticamente immobile per quanto riguarda le riforme politiche. Le tensioni sociali si sono inasprite con manifestazioni e proteste quotidiane, mentre l’apparato di sicurezza interna si è andato espandendo – per non parlare dell’aperta crisi in Tibet, dove in questi anni più di settanta persone si sono auto-immolate in segno di protesta contro i controlli imposti da Pechino, e dell’acuirsi delle tensioni con il Giappone e gli altri Paesi con cui la Cina ha in comune frontiere marittime e contese territoriali.
A tutte le contraddizioni messe in luce dallo stesso discorso del Presidente cinese all’apertura del Congresso, questi ha risposto avanzando la sua teoria dello Sviluppo Scientifico, una teoria che viene riassunta con la «necessità di abbracciare uno sviluppo sostenibile, una società umana che tenga conto di una rete d’assistenza sociale, maggiore apertura per portare all’obiettivo di una società armoniosa». Malgrado questo, Hu ha ribadito più volte nel corso del suo discorso che la Cina continuerà sulla strade «delle riforme e dell’apertura», riferendosi però a tematiche di natura economica e non politica.
Non è la prima volta che un leader cinese pronuncia un lungo discorso in un momento importante del calendario politico nazionale mettendo gli astanti in guardia, e nei termini più severi, dalla corruzione, descritta come un pericolo «che potrebbe essere fatale per il Partito e perfino portare alla distruzione del Partito», e lanciando appelli affinché sia combattuta con la massima serietà. Ma gli stessi appelli sono stati lanciati nel corso degli anni con scarsi risultati anche da Wen Jiabao, il premier cinese, anch’egli uscente, che però non è certo riuscito a limitare il diffondersi della corruzione.
Ora Hu Jintao lascia il posto al suo più probabile successore, Xi Jinping, che dovrà riuscire a rendere realtà alcuni degli slogan, finora senza eccessiva sostanza, pronunciati dal suo predecessore: ambiente, maggiore apertura e riforme, corruzione, disuguaglianze, tensioni sociali… una lista non certo delle più facili.

Repubblica 9.11.12
Il grido d’allarme di Hu Jintao “Combattere la corruzione o per la Cina sarà il crollo”
Al Congresso del Pcc requisitoria del leader uscente
di Giampaolo Visetti

PECHINO LA MALATTIA è nota: dopo trent’anni di «successi epici», se non cambia, la Cina «rischia il fallimento del partito e dello Stato». Anche la medicina è conosciuta: sono necessari «una graduale riforma del sistema politico che assicuri ai cittadini elezioni democratiche e processi decisionali trasparenti». E «un nuovo modello di crescita economica, che garantisca uno sviluppo basato sulla qualità». Restano due problemi: il dottore e il paziente. Ossia: chi avrà il coraggio di somministrare il farmaco, quando potrà farlo e quale sarà la reazione del malato più grande del mondo. L’ultimo discorso del segretario generale del partito comunista cinese, Hu Jintao, più che un mandato ha chiuso ieri un’epoca. Tra le bandiere rosse della Grande sala del popolo, affacciata su una piazza Tienanmen nuovamente blindata, il presidente ha aperto il 18° Congresso con un bilancio e un programma di un’ora e mezza, in diretta tivù. È stato chiaro che con il decennale passaggio del potere, sancito mercoledì 14, non vanno in pensione Hu Jintao, il premier Wen Jiabao e la quarta generazione dei leader educati da Deng Xiaoping.
Vanno in archivio il prodigio del trentennio cinese, il «decennio d’oro» della crescita a doppia cifra e l’idea che nell’era dei social media un autoritarismo, se pure capitalista, possa auto-legittimarsi a colpi di censura, propaganda e repressione. Per questo, quello di Hu Jintao è apparso a tutti, più che il discorso dell’orgoglio nel momento nel congedo, un vero e proprio grido d’allarme sulla tenuta della seconda economia del pianeta. Ricette e obiettivi vaghi, ma quello che a tratti è suonato come l’attacco di un oppositore di se stesso, portato quale monito per chi resta, non ha evitato le ferite aperte di una nazione che avverte i sintomi di un imminente declino. Aspri i messaggi interni agli oltre duemila delegati del partito: «Se non superiamo la corruzione, l’abuso del potere, la trasparenza dei leader e dei loro parenti — ha detto — questo sistema è destinato a crollare». Di qui l’urgenza di «iniziative positive e prudenti per la riforma della struttura politica».
Scontato, ma grigio, come dal 2002, al punto che lo stesso popolo del web si è permesso di prenderlo in giro. Hu Jintao si è lasciato scappare che «non possiamo restare sul vecchio sentiero, ma nemmeno imboccare la strada sbagliata». Sul Twitter cinese ha spopolato la battuta: «Vorrà dire che marceremo sulla stessa piastrella fino alla morte». Il dileggio non censurato verso l’Imperatore è il segnale del distacco senza precedenti tra i cinesi e le autorità, della pericolosa rabbia popolare contro abusi e disparità, precipitati da mesi negli scandali di corruzione tra i leader, nelle epurazioni politiche, nello scontro tra riformisti e conservatori e nella guerra in corso per il controllo del Comitato permanente del Politburo. Lo statalista Hu Jintao, sconfitto nel braccio di ferro contro il redivivo ex presidente liberista Jiang Zemin, dato invano due volte per deceduto, ha però spento sul nascere le illusioni di una prossima «Cina democratica ». «Non copieremo mai — ha detto — il modello dei sistemi politici occidentali, che già hanno fallito nell’ex Urss, in Africa e in America Latina. Un’imitazione servile della democrazia porta al disordine: la Cina perseguirà una modernizzazione socialista». Partito unico in eterno, un macigno sulla speranza di aperture rapide e sostanziali del regime, bilanciati però dall’accelerata economica. Di fronte ad una nazione che in due anni ha perso oltre tre punti di Pil, con l’export in affanno, il leader uscente ha cercato di rassicurare sia le masse del nuovo ceto medio che i mercati internazionali. «I cambiamenti economici — ha detto — ci impongono la creazione di un nuovo modello di crescita, orientato alla promozione di una cultura del consumo». Mao in archivio, ma obbiettivo esplicito: «Raddoppiare Pil e reddito pro capite entro il 2020, mantenendo una crescita media superiore al 7%». Per i successori è un traguardo decisamente ambizioso, tanto che alcuni delegati l’hanno definito «l’eredità avvelenata di Hu». «Rivoluzionare pacificamente la Cina — hanno commentato — e rimetterla in moto per rendere tutti ricchi: bene, ma negli ultimi dieci anni il presidente che mestiere ha fatto?». Prima dell’addio, un messaggio ruvido anche alla comunità internazionale: Pechino rafforzerà la presenza militare nel Pacifico, aumenterà gli investimenti sulle forze armate, insisterà nella riunificazione con Taiwan e non cederà sulle dispute territoriali, come quelle in corso con Giappone e altri vicini del Sudest asiatico. Tentazioni imperialistiche della crescita, ma ora tocca alla quinta generazione, la prima cresciuta nel boom del «made in China». Xi Jinping, il mistero del compromesso tra le fazioni, gigantografia di Mao Zedong e soprattutto marito di Peng Liyuan, popolarissima star del folk, entra papa in conclave. «Principe rosso» protetto dagli affari di Shanghai, da marzo sarà il primo leader cinese a regnare con due predecessori in vita. Premier al posto di un Wen Jiabao travolto da parentopoli, sarà l’avvocato Li Keqiang, protetto di Hu con fama di riformista. A contare, nell’autoritarismo collegiale della Città Proibita, è però tutto il resto: i conservatori che stanno prevalendo nel Comitato centrale e quelli promossi tra i nove, o forse sette, intoccabili del Comitato permanente. Il neo-maoismo di Bo Xilai è stato epurato, il riformismo di «nonno Wen» stoppato in extremis. Per salvare la Cina dal mondo esterno non restano che altri dieci anni di «terza via», la «stagnazione armoniosa » e lo «sviluppo scientifico» dello sconfitto Hu Jintao. Ma nessuno sa se l’»americano» Xi Jinping, principe indecifrabile che prima di diventare imperatore ha conosciuto l’afrore di un porcile, riuscirà a trasformare la potenza del secolo in un modello globale sostenibile: non solo a ritardare il tramonto dell’unico comunismo di successo, eletto a rifugio per gli affari di vecchi e nuovi ricchi.

Corriere 9.11.12
La bolla del Dragone
di Danilo Taino


«La Cina ci sorprende in positivo da trent'anni: continuerà a farlo per molto tempo». Fino a pochi mesi fa, questa era la frase-poster ripetuta in tutta l'Asia. Non è più così. Il 18° Congresso del Partito comunista cinese che si è aperto ieri a Pechino non si limiterà a scegliere la nuova leadership che guiderà il Paese per il prossimo decennio. Deve soprattutto prendere atto che il ciclo aperto da Deng Xiaoping nel 1978 — bassi salari, esportazioni e diritto di arricchirsi — si è concluso. Con un successo economico senza precedenti nella storia, ma è finito. Gli ostacoli e le tensioni che si trovano ad affrontare Xi Jinping e Li Keqiang — che la settimana prossima dovrebbero essere nominati segretario del partito e primo ministro — dicono che gli anni migliori della Cina sono passati. Lo slogan che circola ora nelle università recita che «i frutti pendenti dagli alberi sono stati tutti raccolti».
Le elezioni americane di martedì scorso hanno oscurato l'importanza del Congresso di Pechino. L'evento è invece di importanza eccezionale, per il peso che la Cina ha nel mondo e per le ripercussioni che un rallentamento della sua crescita può per esempio avere su settori come la moda, il design e i beni di lusso, punti di forza dell'export italiano. Capire dove andranno Xi e Li non è in fondo meno importante dell'immaginare le prossime politiche di Barack Obama.
Dietro al calo della crescita del Prodotto interno lordo cinese (Pil) — al 7,4 per cento nel terzo trimestre di quest'anno — c'è un'economia che rischia il collasso. Investimenti pari al 50 per cento del Pil, il doppio del livello fisiologico, creano bolle e distorsioni. Infatti, si calcola che ci siano almeno cento milioni di case sfitte. Che nei settori di acciaio, alluminio, pannelli solari, vetro ci sia già ampia sovracapacità produttiva. E che anche nella produzione di auto ci si arrivi tra non molto. I magazzini si riempiono di borse, giocattoli, gadget invenduti. In questa situazione, lo Stato e le sue banche non sanno ormai dove investire: le nuove e inutili autostrade sono spesso vuote e nei campi da golf si cercano quadrifogli. Ieri, il segretario uscente Hu Jintao ha ribadito che occorre rilanciare la domanda interna: lo sostiene da cinque anni ma i consumi sono scesi a causa delle lobby immobiliari, locali e delle imprese di Stato che si accaparrano gli investimenti pubblici.
Sul versante politico, le proteste contro ingiustizie sociali e corruzione sono all'ordine del giorno. E i cittadini sono sempre più connessi al resto del mondo in barba ai tentativi di censura. Il risultato è che l'autorità del partito declina e che la domanda di partecipazione pubblica cresce. La «superpotenza prematura» — economicamente forte ma lontana dal diventare ricca — sarà dunque costretta a grandi cambiamenti. Ma tre decenni dopo non è detto che le sorprese siano sempre positive.

Morto a 92 anni Luciano Barca
l’Unità 9.11.12
Luciano Barca, la sua passione ci mancherà
Veniva da un mondo lontano dal mio, quello dei comunisti cattolici Era stato anche un eroico ufficiale della Marina. E credeva nella politica
Togliatti affidò a noi giovanissimi la direzione de l’Unità. Lui a Torino si occupava di tutto 
di Alfredo Reichlin

Anche Luciano Barca se n’è andato. Non so ricordarlo senza dire perché la sua scomparsa tanto mi colpisce e mi addolora.
Certo, Luciano era un vecchio amico. Ma non solo.
Era tra i pochi che hanno contato nella formazione della mia identità oltre che della mia memoria. Enrico Berlinguer, Luciano Barca, Pietro Ingrao, Tonino Tatò, Franco Rodano, Fernando Di Giulio e pochi altri che non sto a ricordare e che si confondono nella mia memoria. Erano molto diversi tra loro ma ciò che nella mia mente li accomuna è la straordinaria passione per le idee, era l’enorme fiducia che la politica potesse cambiare il mondo. E la prova stava lì, sotto i loro occhi. Stava nel fatto che l’Italia in quegli anni cambiava come mai da secoli. Finiva l’antica arretratezza, la povertà assoluta, l’analfabetismo.
I sudditi diventavano cittadini e scrivevano la più avanzata Costituzione democratica, i contadini attraverso lotte anche sanguinose facevano saltare il vecchio blocco agrario, i sindacati conquistavano un potere mai avuto prima, gli artigiani diventavano piccoli industriali, la legge, i diritti e i doveri erano certi e uguali. E gli intellettuali italiani inventavano un nuovo cinema, scrivevano romanzi e dipingevano quadri e si chiamavano Rossellini, Fellini, Moravia, Calvino, Guttuso. Diventavano l’avanguardia d’Europa.
GIOVANI DIRETTORI
È con uomini come Luciano Barca che io ho vissuto quel tempo. Togliatti affidò a noi giovanissimi la direzione de l’Unità (io a Roma e lui a Torino). E poi dovrei aggiungere tante cose ma so dire solo che Barca si occupava di tutto. Cercò addirittura di definire un nuovo modello di capitalismo («afferrare Proteo») e faceva la spola tra Botteghe Oscure e le segrete stanze della Banca d’Italia, si faceva messaggero riservato verso Aldo Moro e Ugo La Malfa. Troppo pochi hanno letto quel documento straordinario che sono i suoi diari.
La sua casa fu la mia casa. Gli amici tra loro diventarono i nostri figli: Lucrezia, Fabrizio, Pietro.
Vorrei abbracciare Fabrizio e dirgli di custodire bene quel patrimonio. Che è il meglio dell’Italia. Il “furetto rosso” come Franco Rodano chiamava Luciano era un personaggio straordinario. Veniva da un mondo lontano dal mio. Il mondo dei comunisti cattolici. E con enorme meraviglia appresi che era stato anche un eroico ufficiale della Marina, il quale aveva partecipato alla missione segreta della Decima Mas, cioè dei sommergibili italiani che violarono la baia di Alessandria d’Egitto e fecero saltare la corazzata inglese.
Addio Luciano. Il mio abbraccio è per Fabrizio.

l’Unità 9.11.12
La storia di rigore e di coraggio dell’ecomista partigiano

«Luciano Barca è stato tra i protagonisti del dibattito politico e del confronto parlamentare in special modo sui temi della politica economica in decenni cruciali della vita repubblicana come gli anni Settanta. Dalle sue giovanili scelte ideali al ruolo assunto in età più matura nel Partito comunista italiano, in stretta collaborazione con Enrico Berlinguer, dette prova della sua coerenza e della sua apertura al dialogo con altre forze politiche operando a lungo e intensamente in Parlamento». È questo il ricordo del dirigente del Pci scomparso da parte del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Nel messaggio di cordoglio inviato alla famiglia e al figlio Fabrizio, ora ministro del governo Monti, il Capo dello Stato ricorda «l’impegno comune» condiviso «anche in momenti difficili e l'amicizia che ci legò». Iscritto al Pci dal 1945, Luciano Barca è stato più volte deputato alla Camera e senatore, nonché direttore dell'Unità e di Rinascita. Stretto collaboratore di Berlinguer, negli anni dei governi dell’«unità nazionale» ha diretto la sezione Programmazione economica e riforme del Pci. Massimo D’Alema lo ricorda come «grande protagonista della storia del Pci e della vita democratica del paese» e ne sottolinea «l’ impegno a favore del Mezzogiorno». Walter Veltroni ne ricorda l’essere stato «uomo di idee forti e di studio», « La brillantezza del
pensiero, la lunga storia che va dalla Resistenza ai banchi del Parlamento, la sua profonda conoscenza dei meccanismi economici e anche la sua attenzione per il giornalismo». Anna Finocchiaro, presidente dei senatori del Pd, ne sottolinea l’«audacia del partigiano». Lo è stato anche da ufficiale di Marina durante la Seconda Guerra mondiale guadagnandosi la medaglia d’argento al valore militare. Lo ha ricordato il presidente della Camera, Fini. Contrario al modo in cui fu attuata la «svolta della Bolognina» nel 1997, Barca uscì dai Ds. Dal 1990 presiedeva l’associazione culturale «Etica ed Economia». Le esequie oggi alle ore 11 al Tempietto Egizio del Verano a Roma.

il Fatto 9.11.12
Il ricordo
Luciano Barca, quando la politica era passione
di Sandro Trento
professore di Economia all’Università di Trento 

È morto ieri Luciano Barca. Nato a Roma nel 1920, era il padre del ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca. Lo ricorda Sandro Trento, che con lui ha anche scritto un libro per Laterza nel 1994, L’economia della corruzione.

Ci ha lasciati una persona perbene: Luciano Barca. Lucia-no ha avuto molte vite: combattente per la libertà, giornalista, dirigente politico, parlamentare, saggista e uomo di cultura. Ma oggi mi sembra importante ricordare che era uomo “di altra tempra”. È oramai convinzione diffusa, soprattutto tra chi ha meno di trent’anni, che chi fa politica per professione lo faccia solo perché attratto dagli elevati stipendi e dai benefici della “casta”. Ogni giorno del resto ci arriva la notizia di un qualche leader politico che si è arricchito usando a fini personali soldi del finanziamento pubblico o di tangenti.
DIFFICILE SPIEGARE ai giovani che un tempo c’era chi decideva di dedicarsi a tempo pieno alla militanza come “una scelta di vita”. Luciano Barca apparteneva a quella categoria di persone che in gioventù aveva creduto che fosse un dovere civico impegnarsi nelle file di un partito.
Non si può riassumere, in poche righe, una vita lunga e così piena come quella di Luciano, non ci provo nemmeno. Voglio solo segnalare a chi, per ragioni anagrafiche non lo conosceva, qualche informazione.
Luciano Barca si laurea in Giurisprudenza con una tesi in Economia politica. Partecipa alla Seconda guerra mondiale come ufficiale della Marina e in particolare combatte nel Mediterraneo alla guida di un sommergibile. Aveva però già maturato sentimenti antifascisti e così dopo l’8 settembre decide di battersi al fianco degli alleati per la liberazione dell’Italia dai nazi-fascisti. Finita la guerra aderisce al Partito Comunista italiano. Nel 1946 lavora come giornalista presso la redazione romana dell’Unità e si occupa di temi economici. Nel 1953 assume la direzione della redazione torinese dell’Unità; passa poi all’Istituto Gramsci e diventa direttore, nel 1958, della rivista economica del partito: Politica ed Economia. Nel 1956 viene eletto nel Comitato Centrale e dal febbraio 1960 entra nella segreteria del Partito. Ha collaborato con Togliatti, poi con Longo e con Berlinguer. Nel 2005 ha pubblicato per Rubettino i suoi diari (“Cronache dall’interno del vertice del Pci”) che restano fra i documenti più interessanti e non agiografici scritti dall’interno del più importante Partito comunista dell’occidente. Era un politico e un economista. Studiava, si documentava, leggeva prima di prendere posizione. I suoi scritti erano sempre improntati all’analisi documentata e mai all’elencazione di principi preconfezionati.
HO SEMPRE PENSATO che per capire davvero cosa sia stato il Partito comunista italiano bisognasse incontrare e parlare con Luciano. O meglio, per comprendere fino a che punto quel partito – pur pieno di ideologismi – fosse aperto e ricco di persone pronte a misurarsi con la sfida di immaginare una società più giusta da realizzare in democrazia. Ciò che mi ha colpito di Luciano, fin dalla prima volta che lo conobbi nel 1991, era questo profondo senso delle istituzioni democratiche, questa reverenza verso la Repubblica, questa sua consapevolezza che non ci fossero scorciatoie, che lunga e faticosa sarebbe stata la strada verso un’Italia migliore.
Raccontava spesso, anche nel clima difficile dell’Italia degli anni Cinquanta, non aveva mai smesso di avere rapporti e amicizie anche al di fuori del partito, anche tra i non comunisti. I comunisti italiani erano, allora, un popolo separato, quasi un enorme convento. I dirigenti comunisti in particolare facevano una vita di chiusura verso l’esterno e frequentavano solo “compagni”. Luciano invece era capace di dialogare e di capire le ragioni degli altri.
Era vicino a Enrico Berlinguer; fu Barca a far incontrare Berlinguer e Moro. Il compromesso storico nella visione di Barca non era lo sbocco finale ma un passaggio necessario per ricomporre la rottura del 1947 e per legittimare reciprocamente le due grandi forze popolari: Pci e Dc; ma per poi avviare una competizione pienamente democratica.
Riteneva prioritaria per l’Italia di oggi la questione della legalità e della lotta alla corruzione e anche per questo gli siamo grati.

Quando dirigeva l’Unità di Torino Togliatti disse che quella redazione era “la marina del partito”
Corriere 9.11.12
Il partigiano con il sommergibile. Barca, una vita tra Pci e giornali
Addio a Luciano, 92 anni, un comunista «aperto»

di Paolo Franchi

Se ne è andato a quasi 92 anni, Luciano Barca: lucido, combattivo, curioso com'è stato per tutta la vita. Ha scritto molto di politica e di economia. Ma il suo libro più significativo è, per un comunista di lunghissimo corso, anche il più curioso. Si chiama «Buscando per mare con la X Mas», lo hanno pubblicato gli Editori Riuniti, e vi si narra del giovane ufficiale Barca Luciano, medaglia d'argento al valor militare, che a bordo del suo sommergibile ammutinato riguadagna l'Italia, dove si unirà alla lotta partigiana. Alla caduta di Mussolini, Barca ha chiesto a un sergente di sondare gli umori dei sommergibilisti, una settantina. La maggioranza si dichiara socialista, i fascisti sono 11, i democristiani è impossibile catalogarli.
Avrà presto modo di conoscerli, Barca. Con un giovanissimo Giulio Andreotti ha parlato di politica e giocato a ping pong, assieme a Franco Rodano, Marisa Cinciari, Adriano Ossicini, alla Scaletta, il circolo dei gesuiti frequentato dagli studenti del Visconti. Le strade si separano presto, Andreotti con Alcide De Gasperi e la Dc, lui prima con Rodano e gli altri (i famosi cattocomunisti) nella Sinistra cristiana, poi nel Pci: il rapporto personale rimarrà. Aldo Moro lo ha conosciuto più tardi, ma sarà lui, per conto di Enrico Berlinguer, a tenere con Moro, personalmente e tramite Tullio Ancora, i rapporti più stretti. Fino alla notte tra il 15 e il 16 marzo del 1978.
È uomo di partito ma anche di relazioni, Barca. Nel partito, dove, da quel berlingueriano sui generis che è, si colloca tra il centro e la sinistra, gli capita spesso di essere, seppure a modo suo, e quindi civilmente, settario. Specie con la destra interna, del cui padre nobile, Giorgio Amendola, dice che ha più fiuto politico di tutti, ma di economia sa solo quello che gli racconta Adolfo Tino. All'esterno, invece, è capace di aperture significative verso il mondo della finanza e dell'impresa, ed è tra i primi a sostenere che, sull'Europa, i comunisti devono cambiare posizione. Comincia presto, nel 1957, da direttore di Politica ed economia, la neonata rivista economica del Pci pensata, inizialmente, per affidarla ad Antonio Giolitti. E forse pure prima. Nell'immediato dopoguerra, Pasquale Saraceno lo chiama tra i suoi collaboratori, e inizia a vedersi regolarmente, a Milano, con un gruppo che comprende, tra gli altri, Adriano Olivetti, Ezio Vanoni, Giorgio Sebregondi. Una volta assunto all'Unità come redattore economico, chiede per correttezza a Saraceno se non sia il caso di sospendere gli incontri. Continueranno.
All'Unità si fa strada rapidamente: arriverà a dirigerne l'edizione torinese. Togliatti la considera, con viva soddisfazione del marinaio Barca, «la marina del partito». Ai brillanti ufficialetti di estrazione borghese che vi lavorano consente cose impensabili per un funzionario di partito. Persino quella di essere favorevoli al piano Marshall, e di consegnargli di persona un vibrante documento di protesta quando la Cecoslovacchia, su ordine di Mosca, si tira indietro. Solo 15 giorni dopo, durante una delle consuete visite al giornale, si chiuderà in una stanza con Barca, Alfredo Reichlin e il capo degli esteri, Gabriele De Rosa, per spiegare loro pazientemente che è cominciata la guerra fredda.
Seguono quarant'anni di milizia politica e giornalistica, e di alterne fortune. Fino alla Bolognina. Barca non ha cuore di seguire Achille Occhetto e il Pds. Continua, però, a stare a sinistra, a intervenire, a studiare: il sito della sua associazione culturale, Etica ed economia, ne testimonia l'impegno. I suoi diari dall'interno del Pci li ha affidati alla fondazione Giangiacomo Feltrinelli e Rubbettino li ha pubblicati qualche anno fa. Alcuni dei suoi appunti non corrispondono a quanto ricordano altri suoi autorevoli compagni. Non so chi abbia ragione. Per la parte (ovviamente minima) che mi riguarda, compreso il resoconto di un surreale pranzo a Zagorsk, pochi giorni prima dello strappo di Berlinguer, con un pope che voleva brindare con me alle rovine della Polonia, la precisione è assoluta e, devo aggiungere, l'affetto e la stima evidenti: nonostante vi si parli della mia uscita da Rinascita che lui dirigeva, e dal Pci (quindi, per un direttore e per un dirigente politico di una sconfitta). Gliene abbiamo fatte tante (io meno di altri) in quegli anni difficili. A ripensarci adesso, non me ne vanto neanche un po'.

Repubblica 9.11.12
Ecco perché Costantino non fu tollerante
risponde Corrado Augias

Caro Augias, vari quotidiani, dando notizia della mostra milanese su Costantino, hanno titolato sulla sua “tolleranza”. Vorrei ricordare che fu proprio Costantino il padre dell’antisemitismo. Egli emanò, l’11 dicembre 321, l’edito Codex Judaeis, prima legge penale antiebraica, segnando così l’inizio di una persecuzione e del tentativo di genocidio degli ebrei. L’editto definiva l’ebraismo: “secta nefaria, abominevole, feralis, mortale” e formalizzava l’accusa di deicidio. Da allora, il processo antisemitico non s’è più interrotto, ad eccezione del breve periodo di reggenza dell'imperatore Giuliano detto (a torto) l'Apostata. I successivi imperatori introdussero le Norme Canoniche dei Concili nel Codice Civile e Penale. Con Costantino II, Valentiniano e Graziano, dal 321 al 399 d.C., una serie spietata di leggi ha progressivamente e drasticamente ridotto i diritti degli ebrei. Si condannava ogni ebreo ad autoaccusarsi di esserlo: in caso contrario c’erano l'infamia e l'esilio. Proibito costruire sinagoghe. Leggi contro la circoncisione. Obbligo di sepoltura in luoghi lontani e separati da quelli cristiani. Altro che tolleranza, c’è un limite anche alla falsificazione della storia.
Arturo Schwarz

La mostra milanese celebra i 17 secoli che ci separano dalla promulgazione di quell’editto di Milano (313 e.v.) con il quale il grande imperatore rendeva il cristianesimo “religio licita”, dopo che per secoli i suoi seguaci erano stati perseguitati. Le ragioni del provvedimento, al di là delle letture agiografiche, furono ovviamente politiche: l’impero tendeva a spaccarsi, la nuova religione parve un “collante” più efficace dei vecchi culti. Costantino peraltro conservò per tutta la vita il titolo “pagano” di pontifex maximus e si convertì al cristianesimo solo in punto di morte. Né il suo comportamento personale ebbe nulla di veramente cristiano (fece uccidere moglie e figlio) anche se gli ortodossi lo hanno santificato. Quel che più conta, considerata la lettera del signor Schwarz, fu il suo fiero antigiudaismo. Arrivò a definire quella religione “superstitio hebraica” contrapponendola alla “venerabilis religio” dei cristiani. Presiedette, da imperatore, e diremmo da “papa”, il fondamentale Concilio di Nicea (325). Soprattutto aprì la strada all’unificazione dei due poteri, temporale e religioso, in uniche mani. All’inizio furono quelle dell’imperatore, cioè le sue, col passare degli anni diventarono quelle del pontefice romano. Alla fine di quello stesso IV secolo il percorso si concluse quando un altro imperatore, Teodosio I, proclamò il cristianesimo religione di Stato, unica ammessa, facendo così passare i cristiani dal ruolo di perseguitati a quello di persecutori di ogni altro culto, ebrei compresi.

Corriere 9.11.12
Topolino e Russell liberi pensatori
Fanno dello scetticismo la leva contro ogni superstizione

di Giulio Giorello

N el memorabile Mickey Mouse and the Seven Ghosts (da noi: Topolino nella casa dei fantasmi) di Floyd Gottfredson e Ted Osborne (1936), riportando una sua «intervista con lo spettro» Pippo afferma che per una persona sensata fantasmi e anime disincarnate non esistono, e ribadisce che «questo è proprio quel che dice anche lui», lo spettro medesimo! Dunque c'è un fantasma che dice che «i fantasmi non ci sono»: la cosa non sarebbe dispiaciuta a Bertrand Russell, specialista in meccanismi logici di questo tipo, tecnicamente noti come paradossi dell'autoriferimento: come «l'insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a sé stessi a sua volta appartiene o no a se stesso?». Provate a rispondere affermativamente o negativamente, e vedrete! Ma nel fumetto il malfidente Topolino ci tiene a ribadire che ci dev'essere un trucco e che una buona pallottola può mettere in fuga qualsiasi apparizione. Per dirla con le parole di Russell in Scienza e religione (1935), potremmo classificare il topo di Walt Disney come un libero pensatore che fa dello scetticismo nei confronti dei fantasmi la leva per scardinare l'edificio delle superstizioni consolidate, nonché la premessa per la spiegazione di pretesi miracoli in termini di leggi di natura.
La crescita della scienza cambia la percezione che gli esseri umani hanno del loro posto nel mondo e del loro destino. Tra il fumetto di Topolino e il libro di Russell, che sono quasi contemporanei, potremmo inserire anche le parole di un pensatore di circa due secoli e mezzo prima, quel Baruch Spinoza che il filosofo britannico considerava una delle figure «più amabili» della storia delle idee. Nel 1674 Hugo Boxel, funzionario della citta di Gorcum, aveva chiesto al filosofo dell'Etica un parere «circa le apparizioni degli spettri o spiriti notturni» e, viste le perplessità di quell'«acutissimo» personaggio, aveva insistito che si doveva ammettere almeno che «lo spazio incalcolabile che c'è tra noi e gli astri non è vuoto, ma pieno di spiriti che vi abitano, magari distinti» in quelli che abitano regioni «più elevate» e in quelli che frequentano invece zone «più basse» del cosmo. Al che Spinoza gli aveva seccamente ribattuto: «Ignoro quali siano quei luoghi più alti e più bassi che concepisci nella materia infinita, a meno che tu non asserisca che la Terra è il centro dell'Universo: se infatti il Sole o Saturno ne fossero il centro, il Sole o Saturno sarebbero la parte più bassa e non già la terra».
Spinoza si collocava nella grande tradizione dell'atomismo di Democrito, Lucrezio ed Epicuro, ma aveva in mente anche Copernico e Galileo, nonché il passaggio dal mondo chiuso aristotelico-tolemaico all'Universo infinito. Da parte sua, il Russell di Scienza e religione dedica non poche pagine alla costellazione d'idee, rompicapi, tecniche d'osservazione e di calcolo che oggi chiamiamo «rivoluzione copernicana», ma vi aggiunge la considerazione di due altre rivoluzioni scientifiche: quella di Charles Darwin nelle scienze della vita e quella di Freud e degli altri protagonisti della «psicologia del profondo» nel campo delle scienze umane.
La darwiniana Origine delle specie (1859) ha rimodellato la nostra immagine del rapporto tra il genere «Uomo» e gli altri organismi viventi; la psicoanalisi ci ha costretto a ripensare la stessa nozione di coscienza e l'idea di un libero arbitrio. Entrambe le concezioni sono entrate in conflitto con abitudini intellettuali spesso legate ai dogmi delle fedi religiose, come già era capitato a Copernico, Bruno e Galileo. In un Universo infinito la Terra non è il centro più di quanto lo sia Saturno o il Sole, e la dimora dell'uomo non gode più di una posizione privilegiata; allo stesso modo, nemmeno l'uomo sotto il profilo evolutivo è qualcosa di «speciale» rispetto al resto del vivente. Dunque niente fantasmi, niente anime immortali: per dirla col Darwin del Taccuino B (1837-1838): «Per consenso di tutti l'anima è aggiunta, gli animali non l'hanno, non guardano avanti; se decidiamo di lasciar correre libere le congetture, allora gli animali sono nostri compagni, fratelli in dolore, malattia, morte e sofferenza e fame; nostri schiavi nel lavoro più faticoso, nostri compagni negli svaghi; dalla nostra origine essi probabilmente condividono un comune antenato; potremmo esser tutti legati in un'unica rete». Come questa rete della vita sia oggi esplorata da una costellazione di programmi scientifici che vanno dalla fisica e dalla chimica alla neurofisiologia e al complesso delle scienze cognitive è uno dei lasciti migliori del secolo scorso, di cui Russell è stato testimone e protagonista: dalla riflessione sui fondamenti della matematica e la struttura della scienza all'impegno per il rinnovamento dei nostri presupposti etico-politici, per non dire dell'opposizione alle più diverse forme di oppressione.
Al contrario che in altri testi, in Scienza e religione Russell non mette tanto l'enfasi sul conflitto tra queste due forme di vita e di pensiero quanto sulla loro radicale distinzione. Scrive infatti nelle pagine iniziali del libro che «una fede religiosa si distingue da una teoria scientifica perché pretende d'incarnare una verità eterna e assolutamente certa, mentre la scienza è sempre sperimentale, pronta ad ammettere presto o tardi la necessità di mutamenti alle sue attuali teorie, e consapevole che il suo metodo è logicamente incapace di portare a una dimostrazione completa e definitiva». E avviandosi alla conclusione, sottolinea che «la mentalità scientifica è prudente, sperimentale ed empirica; non pretende né di conoscere l'intera verità né che la sua conoscenza sia interamente vera; sa che ogni dottrina ha bisogno di essere emendata presto o tardi e che il necessario emendamento richiede libertà d'indagine e libertà di discussione».

Repubblica 9.11.12
Reality Show
Esce un saggio che raccoglie gli interventi del dibattito sul “Nuovo realismo”
Da Eco a Putnam ecco come studiosi, filosofi e psicoanalisti declinano il tema
Fatti e interpretazioni oltre il post-moderno

Anticipiamo alcuni brani dei saggi che compongono Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione, a cura di Mario De Caro e Maurizio Ferraris (Einaudi Stile Libero), in questi giorni in libreria. Il volume dà conto del dibattito filosofico iniziato proprio su
Repubblica nell’agosto del 2011, che aveva come punto chiave l’idea di superare il post-moderno. Da allora molti sono stati i contributi, favorevoli e contrari, a un ritorno alla “realtà”. In questo libro vengono raccolti i saggi di vari nomi celebri, da Eco a Putnam, che mostrano come la posizione realista possa avere oggi più di una sfumatura. Tra i testi c’è anche un intervento critico dell’analista lacaniano Massimo Recalcati.
Il 19 e 20 novembre il volume sarà presentato a Roma all’Accademia dei Lincei insieme ad altre pubblicazioni (di Hilary Putnam, Markus Gabriel, Raffaella Scarpa, Luca Taddio) in un convegno dedicato alla dimensione cosmopo-litica del realismo, e la discussione proseguirà nei giorni successivi a Bonn nel quadro di un incontro con John Searle sull’ontologia sociale. Per informazioni segreteria@fondazionerosselli. it.

UMBERTO ECO
Certamente la nostra rappresentazione del mondo è prospettica, legata al modo in cui siamo biologicamente, etnicamente, psicologicamente e culturalmente radicati così da non ritenere mai che le nostre risposte, anche quando appaiono tutto sommato “buone”, debbano essere ritenute definitive. Ma esiste uno zoccolo duro dell’essere, tale che alcune cose che diciamo su di esso e per esso non possano e non debbano essere prese per buone. Ci sono dei momenti in cui il mondo, di fronte alle nostre interpretazioni, ci dice no. Noi elaboriamo leggi proprio come risposta a questa scoperta di limiti, che cosa siano questi limiti non sappiamo dire con certezza, se non appunto che sono dei “gesti di rifiuto”, delle negazioni che ogni tanto incontriamo. Potremmo persino pensare che il mondo sia capriccioso, e cambi queste sue linee di tendenza – ogni giorno o ogni milione di anni. Ciò non eliminerebbe il fatto che noi le incontriamo.
MAURIZIO FERRARIS
Se esistesse solo quello che viene conosciuto, allora ciò di cui si sono perse le tracce, fosse anche il peggiore dei delitti, non sarebbe mai esistito. Si potrebbe riprodurre questo ragionamento a proposito della percezione: se la percezione non contasse e contassero solo gli schemi concettuali, allora ogni evidenza potrebbe essere negata. Non si tratta in alcun modo di tornare alla percezione come verità, perché l’esperienza degli inganni sensibili, o del fatto che può essere vero anche ciò che non percepiamo, è troppo ovvia per chiunque. Ma di sapere che, per nostra disgrazia ma soprattutto per nostra fortuna c’è sempre qualcosa, lì fuori, che ci sorprecisazione prende e che resiste, eccedendo i nostri schemi concettuali e i nostri apparati percettivi, e ci assicura che il mondo vero non è diventato una favola, cioè anzitutto che il male e il bene non saranno dimenticati o confusi.
MASSIMO RECALCATI
Se la realtà è una continuità, il reale è la rottura di questa continuità; è una faglia nella realtà.
L’apparizione di un nodulo che minaccia una malattia mortale, la perdita di un lavoro che mette improvvisamente a repentaglio la mia vita e quella della mia famiglia, la durezza insensata di una agonia, l’insistenza sorda di un comportamento sintomatico che danneggia la mia vita e che nessuna interpretazione e nessun farmaco riesce a far regredire, un innamoramento che travolge l’ordinarietà della mia esistenza, un’esperienza mistica, l’incontro con un’opera d’arte, un’invenzione scientifica, una conquista collettiva, la rivolta di una generazione che non accetta il decorso stabilito della crisi. Insomma, tutto ciò che ci risveglia dal sonno della realtà è nell’ordine del reale. Con una fondamentale: diversamente dalla realtà, il reale non si lascia mai davvero plasmare, addomesticare, ridurre da nessuna interpretazione.
MARIO DE CARO
Per comprendere la cruciale rilevanza filosofica del problema del realismo, la prima cosa da notare è che, nonostante ciò che talora si legge, tale problema non ha la forma “tutto o niente”. Detto altrimenti: mai nessun filosofo è stato del tutto realista e mai nessuno del tutto antirealista. Prendiamo per esempio il cavalier Alexius Meinong, forse il più fervente tra i realisti: nemmeno per lui un quadrato rotondo poteva esistere. O, dall’altro lato, prendiamo il vescovo George Berkeley, un campione dell’antirealismo quando si trattava della materia, che diventava un realista convintissimo per quel che concerneva la mente. In realtà, tutti i filosofi, senza eccezioni, si collocano nell’intervallo tra un ipotetico realismo integrale e un altrettanto ipotetico antirealismo integrale. Il problema, allora, sta nel determinare quale sia la giusta dose di realismo da adot-
tare. E questo non è certo un compito semplice o irrilevante.
DIEGO MARCONI
Se niente è un dinosauro a meno che sia descritto così, allora la nostra descrizione è condizione necessaria dell’esistenza dei dinosauri, non solo del fatto che siano chiamati “dinosauri” o pensati come dinosauri. Di conseguenza, all’epoca in cui esistevano i dinosauri non esistevano dinosauri, perché non esistevano esseri umani capaci di descriverli. Sembra quindi che la distinzione di Rorty tra dipendenza causale e dipendenza rappresentazionale non regga. O la presunta dipendenza rappresentazionale implica la dipendenza causale, o non è autentica dipendenza: le cose hanno le proprietà che hanno indipendentemente da noi, anche se le nostre relazioni epistemiche con quelle proprietà richiedono necessariamente concetti, parole, o altri enti che ci verrebbe da chiamare “descrittivi”. O l’essere il sale NaCl non dipende da noi in nessun senso “serio”, oppure dipende da noi, ma la dipendenza è in ultima analisi causale, cosa che nemmeno i postmodernisti accettano.
MICHELE DI FRANCESCO
La grande sfida per ogni psicologia scientifica è rendere conto di due aspetti apparentemente così diversi come il livello mentale (pensieri, intenzioni, credenze) e quello neurale, dove riscontriamo una serie di processi causali che determinano le risposte del nostro corpo agli stimoli ambientali. La cosa non è facile: un processo causale non rappresenta niente, è solo quello che è, non ha intenzionalità (non verte su qualcosa), non può essere vero o falso; esso inoltre opera tipicamente a un livello subpersonale, inaccessibile alla coscienza del soggetto. Corrispettivamente, un contenuto mentale ha una descrizione concettuale, potenzialmente accessibile alla coscienza e svolge un ruolo nel fornire le ragioni di un’azione, ma non è chiaro come possa esercitare una influenza causale. È possibile continuare a parlare di realismo
mentale in un’epoca di crescente neurocentrismo? O la nozione ordinaria di mente va definitivamente bandita dalla visione scientifica del mondo?
HILARY PUTNAM
Contro l’idea, particolarmente diffusa nei circoli postmodernisti che la scienza altro non sia che un sistema di utili convenzioni, ho sviluppato, molti anni or sono, il cosiddetto “argomento del miracolo”. L’idea alla base di questo argomento è che il realismo scientifico è la sola filosofia della scienza che non considera i successi ottenuti in ambito scientifico come un miracolo. Se l’antirealismo scientifico fosse vero – se le entità teoriche postulate dalle nostre migliori teorie scientifiche non esistessero – come potremmo spiegare il fatto che esse funzionano così bene, che le loro spiegazioni e le loro previsioni sono così efficaci? Non si tratterebbe forse di una miracolosa coincidenza? Il tipo di realismo che sostengo può anche essere giustamente definito come “realismo scientifico”, nel senso che ciò che sostengo è che la scienza non soltanto formula delle previsioni attendibili, ma ci fornisce anche una descrizione approssimativamente corretta del mondo.
JOHN R. SEARLE
Nella vita mentale di un uomo, i limiti della ragione sono, per così dire, già inclusi negli stessi strumenti conoscitivi che la natura ci ha offerto – la percezione, il pensiero, il ragionamento. Proprio perché tali limiti vincolano la nostra condizione di esseri intenzionali, essi svolgono un ruolo speciale anche riguardo ai temi dell’etica, a quei rapporti tra persone che chiamano in causa questioni di vitale importanza. C’è una terribile ironia nell’idea secondo cui sarebbe impossibile far derivare il dover essere dall’essere: il solo fatto di rappresentarsi qualcosa come esistente chiama in causa la razionalità con tutti i suoi vincoli. Se abbiamo una nozione di essere, una pretesa riguardo a come le cose sono, abbiamo al contempo un’indicazione su una nostra possibile reazione. Se mi si assicura che qualcosa esiste, ne consegue che non si dovrebbe negare razionalmente la sua esistenza.