lunedì 12 novembre 2012

l’Unità 12.11.12
Osservatorio elettorale
Il Pd supera il 30% Grillo davanti al Pdl
Positivo l’effetto primarie
Solo 5 partiti supererebbero la soglia del 5%
Casini apre sulla legge elettorale: «Sì al 10% per il primo partito»
Molti elettori sono ancora incerti se recarsi alle urne oppure no
La variabile della partecipazione può incidere sull’esito finale
Bersani: «In caso di parità si rivota, altro che Monti bis»
di Carlo Buttaroni
Presidente Tecnè


Il clima delle primarie fa bene al Pd: nelle intenzioni di voto il Partito democratico supera il 30%. Al secondo posto il Movimento 5 Stelle che con il 15% supera il Pdl. Intanto alla vigilia di una settimana decisiva per la legge elettorale Casini smorza i toni delle polemiche e apre alle richieste del leader democratico. Sul fronte del Pdl il segretario Alfano chiude all’ipotesi di un Monti-bis e alle avances di Fini: «La sua storia con il centrodestra è finita».
Il Partito democratico è ormai l’unica grande forza politica in campo. Non solo perché raccoglie quasi un terzo dei consensi ma perché tra il partito di Bersani e gli altri, compreso il movimento di Grillo, c’è una distanza abissale. Le primarie hanno contribuito a restituire al Pd un’identità forte e riconoscibile. Il processo di selezione del leader è una competizione vera, aspra, ma iscritta indubbiamente nel campo riformista. E questo l’opinione pubblica lo avverte. La forza dei democratici non deriva più dalla debolezza degli altri partiti o dall’essere la sponda opposta al berlusconismo, ma da posizioni non equivoche sul futuro del Paese e da idee che se ancora non sono un programma politico, sembrano somigliargli molto.
Anche il Movimento 5 Stelle aumenta i consensi, ma su un terreno diverso: si nutre della crisi dei partiti e si colloca all’interno della frattura del sistema politico. Una frattura che, invece, il Pd cerca di colmare, offrendo un’alternativa sia al governo dei tecnici che alla deriva astensionista.
Un astensionismo mai così alto. Nelle elezioni del ’48 i voti che ottennero i partiti rappresentavano il 90,8% degli aventi diritto, nel ’53 arrivarono al 91,1%. Dopo il terremoto di Tangentopoli i voti validi scesero all’80,5%, calando ulteriormente due anni dopo, per arrivare al minimo storico delle politiche 2001 con il 75,4%.
LA RICHIESTA DI NAPOLITANO
Se si votasse oggi la partecipazione rischierebbe di fermarsi sotto il 50%. Una soglia da codice rosso, come hanno dimostrato le recenti elezioni siciliane, dove solo il 47% degli elettori si è recato alle urne. Servirebbe un’iniezione di buona politica e di senso di responsabilità. Ciò che chiede, da mesi, il presidente Napolitano. Purtroppo senza risultati apprezzabili, come dimostra la vicenda della riforma elettorale, impantanata tra le sabbie mobili della convenienza dei singoli partiti. Il dibattito intorno alla soglia minima per far scattare il premio di governabilità che porterebbe il partito o la coalizione vincente a ottenere almeno il 55% dei seggi è paradossale. Il principio che per governare il Paese occorre una maggioranza qualificata di voti è giusto. E sicuramente andava definito quando fu varato il Porcellum. Ma stabilire oggi, a pochi mesi dalle elezioni, una soglia così alta, come propongono Udc e Pdl, rischia di impedire al sistema di adeguarsi in tempo con un’offerta politica. E soprattutto significa non aver capito la crisi in cui è precipitato il Paese.
Nelle prime elezioni del dopoguerra più di sette elettori su dieci votarono per le due principali formazioni. Nel ’94, dopo il crollo dei partiti successivo alle inchieste di Mani pulite, il tasso di polarizzazione scese a tre elettori su dieci. La crisi non solo portò a una riduzione della partecipazione elettorale ma provocò anche una proliferazione di liste (nel ’94 furono 67, più del doppio rispetto al ’92). Nonostante questo, e in forza del sistema maggioritario, Berlusconi divenne presidente del Consiglio, non perché conquistò la grande maggioranza di voti ma perché ottenne la maggioranza dei seggi. Se ci fosse stata una soglia minima di consensi per accedere al governo, il Paese sarebbe rimasto incagliato nella crisi dei partiti della prima Repubblica. Dal ’94 in poi il sistema ha ridefinito le sue coordinate polarizzandosi intorno ai principali partiti dei due poli: nel 2001 Ds e Fi ottengono il 34,7% dei consensi, nel 2006 il 44,5%, nel 2008 il Pd e il Pdl il 54,7%.
Se l’obiettivo del Pdl e dell’Udc, come ha denunciato Bersani, è quello di impedire al centro-sinistra di andare al governo, puntando su un prolungamento dell’esperienza tecnica, è gravissimo per due ragioni. La prima è di principio giuridico: la legge elettorale non deve essere uno strumento di una parte contro un’altra e non deve predeterminare maggioranze politiche. Introdurre soltanto una soglia di governabilità al 42,5% (senza accedere al cosiddetto lodo d’Alimonte, che prevede un premio del 10% al partito più votato) significa, oggi, impedire a qualsiasi partito o coalizione di vincere le elezioni, creando di fatto le condizioni per una sola via d’uscita: un governo tecnico sostenuto dalla stessa maggioranza che appoggia Monti.
La seconda ragione è politica e riguarda l’uscita dell’Italia dalla crisi. Il Paese ha bisogno di scelte tragiche di ampio respiro, che traccino un modello di sviluppo economico e sociale. Scelte che hanno bisogno di un alto tasso di condivisione da parte dei cittadini. Il merito di Monti è stato quello di dare risposte autorevoli e immediate dopo la fine del governo Berlusconi. Ma non poteva e non può fare altro. Un Monti-bis, dopo le elezioni, sarebbe incomprensibile, tanto più se figlio di una riforma elettorale che ha come punto di ricaduta l’impossibilità di esprimere un governo nel pieno dei suoi presupposti politici.
Se il governo in carica rappresenta per alcuni un’opzione politica, allora la questione è diversa. Questi sostenitori del Monti-bis dovrebbero presentarsi agli elettori in modo chiaro, con Mario Monti (o un altro ministro) candidato premier e con un programma ispirato all’agenda dell’attuale esecutivo. Puntare, invece, sui rimbalzi tecnici di una legge elettorale pensata per non dare alcun risultato, significa sottrarre quote di sovranità ai cittadini e dare meno forza al prossimo governo, qualunque esso sia. Il contrario di ciò di cui ha bisogno l’Italia per uscire dalla crisi.
LA RESPONSABILITÀ POLITICA
D’altronde persino i mercati richiedono governi politici, forti del sostegno dei cittadini. In Francia il presidente Hollande ha vinto con un programma che, secondo le tesi economiche prevalenti nel nostro Paese, avrebbe dovuto far crollare le borse e alzare i tassi d’interesse. Non solo ciò non è avvenuto, ma la distanza tra gli indicatori economici francesi e quelli italiani si è ampliata. Segno che l’economia si governa con la politica, non il contrario.
In questo panorama il Pd appare un gigante. È in campo con idee che, piacciano o no, rappresentano un’alternativa al governo dei tecnici e alla Grillo-ribellione, mentre il deficit di leadership e di politica del centrodestra rischia di diventare una frana. Cercare espedienti tecnici, come si sta cercando di fare, per rendere inefficace il processo elettorale rappresenta un pericoloso smottamento democratico, che allontana l’Italia da quegli standard europei cui il Paese aspira.
Bisogna varare presto, come chiede Napolitano, una legge elettorale che consenta agli elettori di scegliere un governo politico, dando un mandato pieno. E non perché altrimenti il partito di Grillo rischia di arrivare all’80%, come teme il presidente del Senato Schifani, ma perché il Paese ha bisogno di risolvere la crisi politica prima di poter uscire dalla crisi economica, con un governo politico che abbia la sua forza nella legittimazione popolare.

Corriere 12.11.12
Le Camere «sbriciolate» e la carica delle nuove liste per il 2013
di Monica Guerzoni


ROMA — La storia della Terza Repubblica è ancora tutta da scrivere e la legge elettorale è la sola palla di vetro a cui ci si possa affidare per azzardare previsioni. Ma nell'attesa che dal Parlamento esca un nuovo sistema di voto — oppure la conferma del famigerato Porcellum — i partiti vivono una profonda e turbolenta rivoluzione. Le forze politiche della XVI legislatura si presenteranno agli elettori, nel 2013, sotto una veste completamente nuova. L'assalto dei grillini è certo e una buona rappresentanza sperano di conquistare centristi vecchi e nuovi, che hanno scelto il «montismo» come bandiera.
Ma chi può dire, oggi, se il Pdl riuscirà a evitare implosioni e scissioni? E se Berlusconi farà una lista ispirata alla Forza Italia che fu? Dal maggiore partito del centrodestra, che nel 2008 vinse con il 37,38 per cento, potrebbero nascere liste più o meno amiche, come quelle a cui pensano Tremonti o Santanché. Ma anche le nuove formazioni avranno il problema dello sbarramento. Le alleanze sono ancora un enigma. E il bipolarismo come lo abbiamo conosciuto ha visto, negli ultimi cinque anni, lo sbriciolamento progressivo dei due blocchi avversari. L'altra grande incognita si chiama Beppe Grillo. Il Movimento 5 Stelle non si ferma e il comico punta a entrare in Parlamento da primo partito, superando in corsa anche il Pd che ora, stando ai sondaggi, lo stacca di diversi punti. Il centrosinistra parte favorito e con il Porcellum potrebbe vincere. Ma se passasse la legge elettorale allo studio Bersani rischia di dover lasciare il campo a Mario Monti, pronto a continuare il suo lavoro a Palazzo Chigi. Il segretario del Pd punta però a essere «l'azionista di riferimento» del futuro governo e sta tentando di aggregare l'alleanza più ampia possibile. A seconda della legge elettorale il segretario del Pd e Nichi Vendola decideranno se formare un listone unico oppure correre ciascuno con il rispettivo simbolo, ma col vento di antipolitica che soffia impetuoso l'unione delle due forze non può bastare, nemmeno in alleanza con l'Udc. Per questo il leader democratico ha dato il via libera a liste di rinforzo. Alla sinistra del Pd sta nascendo un movimento civico ispirato da Luigi De Magistris: un contenitore «arancione» in grado di aggregare sindaci, partiti rimasti fuori dal Parlamento come i Verdi di Angelo Bonelli e nuove formazioni, a cominciare da «Cambiare si può». Il Pd ha siglato il patto con il Psi di Riccardo Nencini e i Moderati per il Piemonte di Giacomo Portas e potrebbe aprirsi anche al Pdci di Oliviero Diliberto, il cui obiettivo è «riportare i comunisti in Parlamento». Il leader del Prc, Paolo Ferrero, percorre invece la via di una «Lista unitaria di sinistra» che dialoghi con movimenti radicalmente antimontiani. Alla destra del Pd può nascere una aggregazione di moderati e non è escluso che gli ex Popolari di Beppe Fioroni lascino il partito per la lista di centro. Intanto i fuoriusciti dell'Idv, Donadi e Formisano, studiano un nuovo nome e un nuovo simbolo... È il caos. Il tempo stringe e quasi ogni giorno nascono nuove liste. E se il ritorno di «Cicciolina» con il D.N.A. non fa quasi notizia, c'è attesa per la convention di Italia futura il 17 novembre. Un appuntamento cruciale per capire se il nome di Monti agirà da calamita per mettere insieme Montezemolo, Casini e Fini. A una ipotetica lista Monti guardano, tra gli altri, i cattolici di Todi2, gli Indipendenti per l'Italia di Ernesto Auci e i liberali di Enrico Musso. Dal cantiere del centro si è invece sganciato Francesco Rutelli, tornato nella collocazione per lui fisiologica: «La situazione è aperta, ma l'Api è una realtà... Appoggiamo Tabacci alle primarie e sosteniamo il centrosinistra, sperando che il Pd non si radicalizzi a sinistra su posizioni antimontiane».

Corriere 12.11.12
Bersani è pronto alla svolta: liste rinnovate, niente eccezioni
Da Bindi a Fioroni, costretto a chiedere la deroga chi ha più di tre mandati
di Maria Teresa Meli


ROMA — Matteo Renzi. Ovvero, sotto la rottamazione niente. Almeno questo è quello che vogliono far credere tutti quelli che nel Pd sono stati — o saranno — costretti alla pensione anzitempo. Non è un caso che Massimo D'Alema accusi il sindaco di Firenze di non avere nient'altro da dire. E non è una coincidenza che dica lo stesso Rosy Bindi, la quale pensa di essersi salvata, ma teme che la questione della rottamazione prima o poi rifarà capolino nel partito.
E sarà più prima che poi, a dire il vero. Già perché Renzi, da che era fermo nei sondaggi, che lo davano abbondantemente sotto al segretario Pier Luigi Bersani, in queste ultime due settimane ha recuperato otto punti in percentuale. E il leader del Partito democratico non vuole certo perdere per tenere in piedi una nomenklatura che non ritiene sua. Così, mentre l'avversario Renzi cerca di allargare la platea delle primarie, ottenendo le dichiarazioni di voto di Paolo Bonolis e Antonella Clerici, Bersani non sente le sirene dei sondaggi e lavora duro per il partito che verrà dopo le elezioni.
Il leader del Pd non vuole farsi cogliere alla sprovvista, in mezzo alla campagna per le primarie: non vuole sentirsi rinfacciare che dopo D'Alema e Veltroni non c'è stato nessun ricambio. Perciò la sua parola d'ordine è una sola: «La ruota gira». E non guarda in faccia a nessuno, aggiungono gli uomini dello staff bersaniano. Tradotto: D'Alema e Veltroni non saranno gli unici pensionati del Parlamento. Del resto Bersani su questo punto è stato chiaro: «Non farò eccezioni, chi ha più di tre mandati alle spalle dovrà chiedere la deroga personalmente, non sarò io a sollecitarla». Il che significa che Rosy Bindi, la prima esponente della nomenklatura contro cui Renzi si scagliò, dovrà decidere se fare la cattiva figura di chiedere un altro mandato, o se vorrà, piuttosto, unirsi alla pattuglia dei pensionati, essendo giunta alla sesta legislatura. Lo stesso dicasi per Anna Finocchiaro, la quale, peraltro, ha già annunciato che non chiederà la deroga. L'attuale capogruppo del Pd al Senato è «amareggiata» per essere stata presa di mira da Renzi, ma l'immagine di lei che fa la spesa all'Ikea con la scorta è difficile da cancellare.
E che dire di Beppe Fioroni, che è alla quarta legislatura? Il capo degli ex ppi risolverà il problema da par suo: insieme a una pattuglia di parlamentari a lui fedeli lascerà i gruppi parlamentari del Pd per imbarcarsi nell'avventura centrista, sponsor il segretario della Cisl Raffaele Bonanni.
Dunque, la strada del prepensionamento è aperta per molti, anche perché Bersani ha seriamente intenzione di rinnovare le liste elettorali del Pd. Il segretario ha già in mente dei nomi per le candidature della legislatura che verrà: il responsabile organizzativo Nico Stumpo, l'economista Stefano Fassina, l'ex dalemiano Matteo Orfini, il suo portavoce Stefano Di Traglia e le due pasdaran Alessandra Moretti e Chiara Geloni, direttora di You dem, la tv via web del Pd. I maligni dicono che Geloni e Moretti sono in competizione e attribuiscono a questo motivo la loro totale adesione al verbo del segretario. Ma non è così: entrambe avranno un seggio. Sono il volto nuovo dell'universo femminile del Pd. Come lo è — e lo sarà — Laura Puppato, un'altra esponente chiamata a rappresentare il profilo del neo Partito democratico che dice addio a Bindi, Finocchiaro, Livia Turco, e anche ad Anna Serafini, moglie del sindaco di Torino Piero Fassino.
Insomma, Bersani pensa già alla squadra del futuro, dando per scontata la vittoria su Renzi, anche se i sondaggi danno come inevitabile il ballottaggio tra i due. A questo proposito quello di oggi, su Sky tv, sarà un appuntamento importante, sebbene non decisivo. Il sindaco di Firenze lo aspetta con trepidazione: «Tutti i candidati delle primarie saranno contro di me, devo scegliere se attaccare o fare la vittima», celia. Ma Bersani non vuole concedergli questo vantaggio: sa che se Renzi figurerà come l'uomo nuovo contro tutti, la partita rischia di essere persa in partenza. Per questo calibrerà le sue parole in tv. Per questo procederà al rinnovamento delle liste prima ancora che il sindaco di Firenze glielo chieda.

Corriere 12.11.12
Primarie, ancora scintille: oggi la sfida nell'arena di X Factor
I renziani scrivono a Fabio Fazio: perché non da te il faccia a faccia?
di Elisabetta Soglio


MILANO — Non sarà una Tribuna politica con quel vecchio stile, un po' ingessato; ma neppure un talk show gridato. Il confronto fra i cinque candidati alle primarie del centrosinistra che questa sera Sky manda in onda alle 20.30, e che potrebbe segnare una nuova via della comunicazione elettorale, si ispira semmai al modello americano. Regole ferree, scenografia ad effetto, puntare sui contenuti. «Vogliamo garantire a tutti e cinque i candidati la stessa opportunità di parlare agli elettori», spiega Sarah Varetto, direttore del canale All news, che già sta cercando di organizzare analogo confronto per le primarie del centrodestra.
La cornice è quella del Teatro della Luna che a Milano ospita la trasmissione X Factor: ma le analogie con il programma musicale finiscono qui. I candidati saranno in piedi, avranno un leggio trasparente per i propri appunti e potranno muoversi verso il pubblico. Un orologio segnerà il count down, perché per ogni domanda si avrà a disposizione un minuto e mezzo; in caso di replica, il tempo concesso è invece di un minuto e c'è la possibilità di chiedere tre sole repliche. Previsto anche l'appello finale, proprio come nei faccia a faccia americani, durante il quale non si potranno fare riferimenti agli avversari.
Le regole sono state riviste con i rappresentanti dei cinque candidati, che si sono riuniti giovedì negli studi di Sky con Varetto e con il conduttore del confronto di questa sera, Gianluca Semprini. «Sarà difficile riuscire a parlare in modo efficace di contenuti, con regole così tassative e tempi così stretti», temono nello staff di Renzi. Lo stesso sindaco di Firenze, ieri mattina a Milano, lamentava che «io che sono accusato di parlare per slogan, poi però vado sui giornali solo se parlo di Bersani, della zia di Bersani e della pompa di benzina. E quando spiego i contenuti, niente..». Le polemiche della vigilia, insomma, non sono mancate. A partire dalla scelta di Sky, mentre i renziani pare avrebbero preferito Fabio Fazio. Simona Bonafè, del comitato elettorale del sindaco, ha inviato una lettera aperta al conduttore di «Che tempo che fa»: «Trovo singolare che un protagonista come te della tv pubblica intesa anche come esperimento civico possa essere considerato inadeguato a ospitare il confronto televisivo delle primarie di centrosinistra». Replicano i bersaniani: «Scelta fatta insieme». E proprio Stefano Di Traglia, dallo staff del leader pd, è convinto che «questo appuntamento tivù rappresenterà comunque un fatto storico». Piace anche il fatto che il confronto sarà lanciato su tutte le piattaforme: satellite, digitale, social e rete: «Solo così riusciremo a far circolare le idee e arginare le polemiche». Bruno Tabacci, un altro dei candidati, pensa che «questo importante appuntamento costringerà anche la Rai, cioè il servizio pubblico, a proporre dibattiti di questo genere».
Ma come si ci prepara allo scontro? «Ci auguriamo che Renzi riesca a farsi un bel sonno, visto le ore che sta perdendo in queste giornate così frenetiche». Ieri, intanto, per allenarsi, il «rottamatore» ha dovuto ingaggiare un nuovo duello con D'Alema, il quale ha commentato lapidario: «Nulla dietro la rottamazione». Replica: «Per noi ambiente, cultura e Internet sono tutto».
Per Bersani vigilia casalinga: «Il suo stile — garantiscono i suoi — sarà sempre il solito, sobrio, sicuro e rassicurante. Di certo non staremo a discutere il colore della cravatta». Così Nichi Vendola, che ha passato la domenica a fare comizi in Toscana: «Il confronto è una opportunità cui aderiamo volentieri — assicurano i suoi collaboratori — e sicuramente punteremo soprattutto su alcuni contenuti che vogliamo far passare per spiegare il nostro modello di governo. L'abbigliamento? Decide Nichi, come sempre». La candidata Laura Puppato è soddisfatta di questa «che sarà da affrontare come una sperimentazione»: «Non so quanto riusciremo a far capire in tempi così contingentati, ma sicuramente questo tipo di format sarà utile perché riscuoterà un forte interesse popolare visto che le persone hanno forte bisogno di capire e conoscere». Unica donna su un palco tutto maschile, Puppato non è assillata dall'immagine: «Mi presento per quello che sono. Certo, un po' di emozione va messa in conto e comunque non ho ancora neppure pensato a come vestirmi. Ci ragionerò all'ultimo momento, ma so che saranno più importanti le cose che dirò degli abiti o del modo di gesticolare».

La Stampa 12.11.12
Primarie. Stasera il confronto in tv
Bersani-Renzi, duello sulla tv
Dopo la scelta di Sky preferita a Fazio. Il segretario: servizio pubblico non è solo la Rai
di Jacopo Iacoboni


Ospiti nello studio di X-Factor Il dibattito televisivo tra i candidati alle primarie sarà ospitato dallo studio di X-Factor, il popolare talent show musicale
Su Sky Il confronto tv andrà in onda questa sera a partire dalle 20,30 sul canale satellitare Durata prevista: un paio d’ore circa
Su Cielo Il dibattito sarà visibile sulla piattaforma del digitale terrestre, sul canale in chiaro «Cielo», alla stessa ora
Arbitro Gianluca Semprini

Perché Sky? «Non è che scegliendo Sky spiega Stefano Di Traglia, da anni più che portavoce, spin doctor di Bersani diamo un giudizio negativo su altri. Voglio ricordare che la scelta, su cui c’era una disponibilità iniziale di alcuni, è stata poi condivisa da tutti, non c’è stata opposizione, nè abbiamo imposto alcunché». Insomma, se Renzi preferiva Fazio avrebbe potuto dirlo al tavolo, ma non l’ha fatto.
Nel giorno del confronto tv per le primarie stasera su Sky Cielo il ragionamento dell’uomo più vicino al segretario del Pd inquadra la storia senza tirarsi indietro, anzi, dinanzi alle parole di Fabio Fazio alla Stampa («avrei trovato più istituzionale, e forse anche più coerente, che il confronto avvenisse sul servizio pubblico»). «Il fatto che sei servizio pubblico osserva non significa che tu debba pretendere che i partiti vengano da te. Essere parte di un contratto con lo Stato non obbliga i partiti». Le parole sono ferme, su questo: «Bisogna anche esserlo, servizio pubblico, esercitarlo». Il ragionamento esprime anche un piccolo paradosso: «Diciamo sempre “fuori i partiti dalla Rai”, ma allora bisogna anche dire “fuori la Rai dai partiti”». Ciò non toglie è l’esempio che in Inghilterra tra i candidati alle elezioni, Cameron, Clegg e Brown, ci siano stati tre confronti, di cui uno su Sky e un altro sulla Bbc. Vuol dire che, in caso di ballottaggio Bersani-Renzi, la porta non è chiusa a un secondo dibattito, e magari sarà possibile farlo in Rai? «Non è escluso; bisognerà vedere se faremo in tempo, cosa che non credo. Ma non è escluso». In sostanza il no alla Rai non è definitivo, né lo è quello a Fazio, «non ho mai pensato che fosse leggerino, è uno dei più importanti conduttori della tv nazionale. Le primarie, le abbiamo volute noi. Il confronto tv si farà per la prima volta, ai tempi di Prodi non si fece, e l’abbiamo voluto noi. Ma il dibattito in tv è un servizio ai cittadini; dove a prevalere dovranno essere i candidati e i loro programmi, non il conduttore». Ieri Simona Bonafè, portavoce del Comitato Renzi, aveva scritto una lettera alla Stampa in cui giudicava «singolare che un protagonista della tv fosse considerato inadeguato», ricordava la circostanza che fu Fazio a chiamare Enzo Biagi in tv dopo l’editto di Sofia del Cavaliere, infine chiedeva al conduttore di «Che tempo che fa»: «Ripensaci, vieni a votare alle primarie». Ma è stata anche una giornata di preparazione al dibattito. Bersani ha passato il weekend a studiare le regole, soprattutto come adeguare i temi ai tempi delle risposte. Il suo gruppo stretto, oltre che da Di Traglia, è composto da Miguel Gotor e Roberto Speranza. Sono stati sabato a pranzo a Roma a fare l’ultimo punto. Dà una mano, da esterna, Simona Ercolani, specialmente sulla tv. La strategia ha un leit motiv, spiega Di Traglia: «Il messaggio centrale è che Bersani è rassicurante, competente, è già un possibile premier. Lo slogan è un po’ “A chi affideresti le chiavi di casa? ”, nel momento in cui il palazzo, l’Italia, scricchiola».
Nichi Vendola studia invece in Toscana, girando racconta il consigliere Paolo Fedeli tra gli operai di Piombino, i disabili, i sordi. Il leader di Sel lavora sulla sintesi, sul «riportare la realtà dentro il dibattito», sul sottrarlo a «trabocchetti e battute». Su questo troverà intesa con Laura Puppato e Bruno Tabacci, che punteranno molto su temi come i costi della politica o l’ambiente.
E poi c’è Matteo Renzi, lo sfidante. Non ha fatto granché anche perché ieri era a Milano, a un paio di incontri e poi in tv a «Quelli che il calcio». Giorgio Gori ha twittato che i consigli Matteo se li faceva dare dai ragazzi che sono andati ad ascoltarlo. In realtà riceve di continuo suggestioni da tanti, sull’immancabile smart phone, soprattutto da Gigi De Siervo (sulla tv), da Giuliano Da Empoli, da Luigi Zingales (sull’economia), da Francesco Clementi (su riforme e costi della politica). Li vaglierà in treno, oggi, nell’ora e 45 minuti da Firenze a Milano, assieme a Marco Agnoletti e Simona Bonafè, lo zoccolo duro della sua squadra. Sui tempi c’è poco da insegnargli; sui temi, punterà molto su cultura, wi-fi, innovazione, merito. Cose che ha ripetuto in questi giorni, a dispetto delle accuse di D’Alema (che però gli fanno puntualmente guadagnare simpatie). Il sindaco di Firenze non deve smettere di attaccare, questo è chiaro, ma senza dar l’idea di eccesso di attacco (buona in questo caso la performance dalla Gruber l’altra sera). Piccola nota sentimentale: ieri ha perso del tempo che tornava buono per studiare perché... era il compleanno di sua moglie, Agnese. Ci mancava solo che non l’invitasse a cena, con la pazienza che sta avendo con lui.

La Stampa 12.11.12
Pd, pesano più i rancori che lo share
di Federico Geremicca


Il pericolo numero uno? Non è quello di un confronto a cinque che, alla fine, si riveli noioso (non che il rischio non ci sia: ma con la politica in tv ci siamo abituati...). Il pericolo numero uno, forse, è quello in cui si incappa di solito quando si decide di lavare i panni sporchi in piazza invece che in famiglia: rivelando una tale quantità di rancori, diffidenze e differenze da spaventare i vicini (in questo caso gli elettori di centrosinistra) che di tutto quel bailamme poco o nulla sospettavano. E il pericolo numero due? Il pericolo numero due è quello che in gergo tecnico viene di solito definito «flop»: un pericolo concreto, considerate le regole fissate per il confronto tra gli aspiranti candidati-premier del centrosinistra, il numero stesso dei partecipanti e perfino la tv scelta (Sky) per l’inedita sfida. Ma è considerato davvero un pericolo un basso livello di ascolti? O meglio: è considerato davvero un pericolo da tutti?
La domanda non è retorica (e naturalmente non può esser ritenuta offensiva) considerato che non c’è sondaggio che non faccia dipendere l’esito delle primarie del 25 novembre dalla quantità di elettori che si recheranno alle urne: un’alta affluenza favorirebbe Renzi, una partecipazione più contenuta significherebbe vittoria per Bersani.
Tutto questo è noto da settimane, e non è dunque scandaloso immaginare che lo staff del segretario abbia tenuto conto di questi sondaggi, regolandosi di conseguenza anche a proposito della sfida tv: audience alta buona per Renzi, più bassa invece meglio per Bersani.
Da questo punto di vista, la scelta di sfidarsi su Sky (fortemente voluta dallo staff del leader Pd) garantisce certo qualità e regolarità nel dibattito, ma anche una platea di ascoltatori e dunque potenziali elettori assai più ridotta rispetto ad altre possibilità ed altre offerte (da Vespa a Fazio fino a Enrico Mentana). Si può naturalmente osservare come tale scelta faccia seguito ad analoghe decisioni in materia di regole per il voto alle primarie (a doppio turno per la prima volta e assai più complesse rispetto al passato). Ma resta la circostanza, comunque, che se primarie, sfide tv e tutto il resto sono in campo, lo si deve anche alla «generosità politica» di Bersani: e che se è riuscito senza molti sforzi, pare a convincere i suoi contendenti a sfidarlo su Sky, vuol dire che va bene così e la questione si può chiudere qui. Quindi, domattina, a dati di ascolto noti, avrà poco senso parlare di «flop» e di share basso, perchè la circostanza era nel conto e non potrà esser dunque presa a testimonianza, per esempio, di un cattivo stato di salute del centrosinistra (che magari esiste, ma si manifesta in altri modi...) oppure del fatto che le primarie hanno stufato prima ancora di andare in scena. Avrà più senso, invece, riflettere su quel che emergerà dal confronto: e soprattutto su quanti danni avrà provocato se li avrà provocati la decisione di «lavare i panni sporchi in piazza».
Il pericolo maggiore è senz’altro quello che da tempo, ormai, viene definito «rischio Unione»: e cioè una tale eterogeneità di proposte e posizioni da render assai preoccupante la prospettiva che a governare siano forze politiche i cui esponenti alle primarie potranno essere considerati magari bravi a duellare ma assolutamente inadatti a governare assieme, considerate le enormi differenze che esistono tra loro. Ecco, se alla fine del dibattito il commento della maggioranza dei telespettatori dovesse essere «ma tu lo metteresti il Paese di nuovo in mano a questi qui, che non sono d’accordo su niente? » allora il rischio boomerang sarebbe enorme. Qui in Italia si guarda e si fa spesso riferimento alle primarie americane spesso però confondendo anzi sovrapponendo le sfide tv tra i candidati alla presidenza e le primarie che le hanno precedute. Assumere i duelli tra Romney e Obama come traccia da seguire, per esempio, può portare fuori stradaed esporre a un pericolo mortale gli stati maggiori del centrosinistra: Obama e Romney, infatti, si sono duramente sfidati proponendo agli elettori però politiche e governi totalmente diversi. Bersani e Renzi, Tabacci, Puppato e Vendola, invece, dovrebbero stare o almeno sostenere lo stesso governo. E stasera, allora, questa è una delle prime cose che farebbero bene a non dimenticare...

Repubblica 12.11.12
Primarie, sfida a cinque oggi in tv il centrosinistra alla volata finale
Il 25 in palio la premiership. Bersani: badiamo al concreto
di Giovanna Casadio


ROMA — I consigli si sprecano. Ma c’è poco “american style” nell’allenamento degli sfidanti per l’X Factor del centrosinistra. Niente sparring partner, i cinque i candidati alle primarie hanno trascorso la vigilia macinando chilometri, mantenendo gli appuntamenti di campagna elettorale, i dibattiti. Gli outsider Laura Puppato e Bruno Tabacci sanno di non doversi fare intimidire dal confronto tv stasera ore 20.30 su SkyTg24 nel teatro milanese dove appunto si registra “X Factor”. A concedersi qualche ora di “ritiro”( a casa, a Piacenza) è il favorito, Pierluigi Bersani. Favorito e ideatore di quello che sta accadendo nel centrosinistra. Perché le primarie aperte di coalizione le ha volute lui, il segretario del Pd. E del duello tv dice: «È un altro elemento di attenzione, di calamita verso il centrosinistra». Un pranzo con il portavoce, Stefano Di Traglia, per fare il punto; i suggerimenti dello storico Miguel Gotor. La strategia di Bersani mantiene due bussole:
puntare sui temi concreti, fisco, occupazione, costi della politica, moralità e diritti. Sapendo che la posta in gioco sta in una domanda-clou: «A chi affideresti le chiavi di una casa pericolante, l’Italia, che va rimessa in sesto?».
Avrà però di fronte un inedito Matteo Renzi, al quale è stato consigliato di rottamare la “rottamazione”. Lo sfidante Renzi parlerà di rinnovamento, sta pensando di presentarsi in giacca e cravatta, non obamianamente in maniche di camicia. Prenderà il treno oggi da Firenze a Milano, dopo una sosta nel suo ufficio di sindaco. E in treno connesso con Marco Agnoletti, Luigi De Siervo, Giuliano da Empoli e lo staff studierà le mosse d’attacco. Con Bersani si sentono spesso. Tutti i candidati sono d’accordo su un fatto: niente colpi bassi, liti da cortile. Perché è la prima volta che il centrosinistra gioca per candidarsi al governo offrendo lo spettacolo delle sue diverse “anime” a confronto in tv. Renzi per la verità avrebbe preferito la Rai (da Fazio), ma Bersani ha insistito per Sky.
Nichi Vendola, il “leader rosso”, ne avrebbe voluto più d’uno di confronto, pur convinto che «rischia sempre di essere un po’ civettuola» la performance tv. I vendoliani attaccano: «I renziani si rammaricano di un solo confronto? Lacrime di coccodrillo». Con chi si è allenato Nichi? «Con gli operai delle acciaierie di Piombino, con la coop di disabili di Sanremo...». Poi riunioni con i comunicatori di Proforma; con Paolo Fedeli, con Nicola
Fratojanni. Alle 7,45 all’autogrill tra Empoli e Pisa ieri, discussione con alcuni impiegati e un piccolo imprenditore. Ecco, l’allenamento.
Lo stesso di Laura Puppato, che si è concessa solo una sosta a Bologna per una festa in famiglia, e poi via con gli appuntamenti. «Sono un po’ stanca, forse la tensione. Sarà quel che Dio vorrà». Cattolica, ha nei diritti civili e nell’ambiente le sue parole d’ordine. Così come del tutto disinvolto davanti alla tv, è Bruno Tabacci, politico di lungo corso. La novità è che ci sarà un pre-partita (nel programma della Saluzzi) e un post partita, un “fact checking”, cioé il giudizio sul duello. Ciascun candidato porterà 70 sostenitori. Farà le domande Gianluca Semprini (più cinque domande incrociate); parterre anche di ospiti illustri (ci sarà il sindaco Pisapia). Due ore in tutto. Ultimo sms ai candidati da Sky: muoversi per tempo, perché c’è Gigi D’Alessio in concerto lì vicino.

Repubblica 12.11.12
Geloni, direttore di Youdem
“Tutti vorranno battere Pierluigi confido nella cravatta-portafortuna”
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Niente trucchi. Niente effetti speciali. Chiara Geloni direttore di Youdemè certa che «Bersani farà Bersani». E che per questo, risulterà vincente. La televisione dei democratici non è più sul satellite, è passata sul web per il dimezzamento dei fondi ai partiti. «Un sacrificio che abbiamo fatto volentieri. Anche se, certo, sarebbe stato bello ospitarlo, questo confronto».
Lei è una sua sostenitrice della prima ora. Che armi userà Bersani?
«Sarà se stesso. Dimostrerà ancora una volta di essere il più capace, di saper fare e saper unire. Non è uno che deve prepararsi le risposte».
Un po’ di allenamento lo avrà fatto.
«Per come lo conosco, è una persona che ha bisogno di concentrarsi. Si è preso un giorno e mezzo di non-campagna elettorale per pensare un po’. Non è il tipo che fa riunioni dello staff alla West Wing (il telefilm americano su un presidente democratico alla Casa Bianca, ndr).
Alcune persone gli hanno mandato delle idee, lui ascolta tutti e decide».
Le metafore in stile «non è che siamo qui a smacchiare i giaguari», gliele consiglia?
«Dipende se gli vengono. Non è una tecnica studiata a tavolino. È un modo di parlare, di spiegare le cose».
Da cosa lo metterebbe in guardia?
«Può rischiare che tutti gli altri lo attacchino perché è il candidato considerato più forte, più centrale. Rischia che siano portati a essere aggressivi, ma il contesto che Sky ha messo in piedi un confronto all’americana molto regolato mi mette al riparo da questa preoccupazione. È che l’aggressività non fa parte del suo carattere ».
Di quello di Renzi, invece?
«Non penso solo a lui, ma a tutti quelli che vorranno segnare il punto. Anche se Renzi ha uno stile più aggressivo in generale».
Il fatto che Bersani sia quello che in questo momento si deve “sporcare le mani” sulle leggi da approvare, sulla riforma elettorale, lo svantaggia?
«Noi dobbiamo scegliere un premier, una persona che guidi questo Paese e a cui l’Italia si possa affidare. Per questo, essere quello che sta costruendo la coalizione di centrosinistra, che sta tirando avanti la casa comune, non è detto sia un limite. Anzi, credo che gli italiani lo apprezzeranno. Che come negli Stati Uniti, non stiano cercando favole irrealizzabili».
Conquisterà con il realismo?
«Per il realismo e per aver già dimostrato delle capacità di costruttore, di amministratore. Di innovatore anche. Non è mica uno che non ha cambiato le cose».
E quindi, cravatta rossa?
«Ah, io spero di sì!».

Repubblica 12.11.12
D’Alema: dietro la rottamazione di Renzi c’è il nulla


NUOVA polemica tra Renzi e D’Alema. Il lìder Massimo attacca: «Renzi? Dietro la rottamazione c’è il nulla». Contrattacca Giuliano da Empoli, uno dei consiglieri del sindaco “rottamatore”: «Stupisce che D’Alema continui a dire che non abbiamo programma, è online». Si offre di mandarglielo in cartaceo se «è poco comodo per lui aprire il sito internet». Renzi precisa: «È lui, D’Alema, che comincia per primo».
DAL comitato elettorale di Matteo Renzi polemica soft con Fabio Fazio che ha detto non andrà a votare alle primarie. Simona Bonafè lo critica in una lettera aperta. Antefatto: proprio a “Che tempo che fa”, il programma di Fazio su Rai3, Renzi voleva si tenesse il duello tv tra i cinque candidati. ha stoppato.
fa man bassa di circoli. Con un sms da Cosenza allo staff viene comunicato che di circoli per Bersani ne sono sorti 70 nella città calabrese. In tutta Italia i comitati pro Bersani sono arrivati a quota 4.200.

l’Unità 12.11.12
L’appello
Gli esponenti del centrosinistra più legati all’esperienza sindacale e al lavoro a sostegno della candidatura del leader Pd alle primarie
«Il mondo del lavoro con Bersani per la buona politica»


Alle primarie del centro-sinistra sosteniamo Pier Luigi Bersani. Con una triplice motivazione.
Primo, perché la questione del lavoro, che coinvolge milioni di persone, non può più essere ulteriormente liquidata con inchini rituali a cui corrispondono regolarmente rifiuti sostanziali. Essa deve essere invece affrontata, con l’umiltà, la pazienza, ma anche la determinazione necessarie. Con risposte comprensibili e persuasive: al lavoro che manca; al lavoro che diventa precario; al lavoro che per molti non è più in grado di garantire mobilità sociale e per tanti, purtroppo, non riesce più nemmeno ad essere una alternativa alla povertà. Non basta evocare la crescita, che pure bisogna favorire per creare nuova occupazione per i giovani e per le donne, ma vanno sostenute tutte le opportunità per ripartire il lavoro che c’è e che ci sarà.
Secondo, la distribuzione dei costi di aggiustamento della crisi e antiche tolleranze dell’evasione fiscale hanno accresciuto in modo grave le diseguaglianze ed insidiato un sistema di protezione sociale che, per decenni, era stato considerato una conquista irreversibile. Occorre dunque affrontare con decisione il problema di una più equa redistribuzione dei redditi, del carico fiscale, del lavoro. In questo senso, un intervento di discontinuità con il passato corrisponde non solo ad un bisogno imprescindibile di equità sociale, ma soprattutto ad una inderogabile esigenza economica e alla necessità di contribuire all’affermazione di un’Europa più unita e più progressista. In difetto, la tanto invocata fuoriuscita dalla crisi rimarrebbe un irraggiungibile miraggio.
Terzo, le mode politiche che hanno tenuto il campo negli ultimi venti anni hanno prodotto guasti rilevanti. Basti pensare ad idee delle quali stiamo ancora pagando il conto esoso. Come: il ritiro della politica a favore dell’autoregolazione del mercato; il ritornello «meno Stato, più mercato»; l’inattendibile scambio «meno ai padri, più ai figli»; l’essere europeisti senza alimentare una coscienza europea; la rincorsa al leaderismo mediatico che ha provocato una crescente disaffezione verso la politica. A tutto ciò, va contrapposta la «buona politica», riducendone significativamente i costi, favorendo i ricambi generazionali, assicurando una totale trasparenza delle scelte e dei comportamenti, privilegiando la partecipazione dei cittadini.
Pier Luigi Bersani, per la sua storia, la sua sensibilità, i suoi valori non è ascrivibile (né direttamente, né indirettamente) alla pseudo cultura politica che ha dilagato nella passata, lunga fase, che ora, finalmente può giungere al suo epilogo. È quindi in grado di contribuire sia all’avvio di un percorso di rinnovamento autentico della classe politica, sia di guidare il Paese e le nuove generazioni nella fiducia verso il lavoro e nella ricostruzione della speranza.
Primi firmatari
Giorgio Benvenuto, Pierre Carniti, Franco Marini, Sergio D’Antoni, Sergio Cofferati, Guglielmo Epifani, Pier Paolo Baretta, Mario Colombo, Fulvio Fammoni, Emilio Gabaglio, Carlo Ghezzi, Franco Lotito, Enzo Mattina, Raffaele Minelli, Silvano Miniati, Raffaele Morese, Silvano Veronese

l’Unità 12.11.12
La battaglia decisiva delle primarie
di Cesare Salvi

Movimento per il Partito del lavoro

LE PRIMARIE DEL CENTROSINISTRA STANNO ASSUMENDO UN RILIEVO crescente per il futuro dell’Italia. Se nel prossimo Parlamento questa alleanza avrà la maggioranza per governare, sarà possibile almeno il tentativo di dare alla crisi italiana una via d’uscita diversa rispetto alle alternative concretamente in campo: la pur suggestiva contestazione populista del Movimento 5 Stelle, da un lato, e dall’altro le ipotesi di continuità con il governo attuale, i cui risultati non solo sul piano sociale ma anche su quello della crescita, del debito pubblico e dello spread sono purtroppo sotto gli occhi di tutti. Per questo il Movimento per il partito del lavoro ha aderito alla Carta di intenti e intende concorrere alla costruzione della alleanza, e ha deciso di sostenere alle primarie la candidatura di Pier Luigi Bersani.
Le ragioni di queste scelte possono così sintetizzarsi. In primo luogo, il segretario del Pd ha tenuto fermo il punto della costruzione di una alleanza dei progressisti, senza cedere ai diktat e alle lusinghe dell’Udc. In secondo luogo, nella Carta di intenti si ritrovano valori e proposte programmatiche che indicano con chiarezza una via più avanzata non solo, come è ovvio, rispetto alla destra, ma anche rispetto all’attuale esperienza di governo. Importanti sono, in particolare, le affermazioni per la centralità del lavoro e per il ripristino della legalità. È necessario che questi due temi siano posti al centro della proposta dei progressisti, anche individuando concrete proposte che vogliamo concorrere a formulare.
Inoltre, il segretario del Pd si è mostrato consapevole del fatto che, per avviare in Italia una prospettiva diversa rispetto alle politiche imposte dalle tecnocrazie internazionali e dalla destra politica guidata dalla cancelliera Merkel, è necessario che cambino le politiche europee. E per far questo, i punti di riferimento sono quelli con i quali il confronto è stato avviato, il governo Hollande in Francia e la Spd in Germania, che si candida a governare alle elezioni del prossimo anno. L’impresa non sarà affatto facile, ma non ci sono alternative in campo.
Per la riuscita del progetto è però necessaria l’affermazione nelle primarie del segretario del Pd, l’unico in grado di tenere insieme l’alleanza.
È evidente che molti operano per impedire il successo di questo progetto. Quanto sta accadendo sulla legge elettorale lo dimostra con evidenza. In proposito vorrei aggiungere un elemento di riflessione. Mancano tre mesi alla presentazione delle liste elettorali, se la legislatura andrà a scadenza naturale. Eppure gli italiani non sanno ancora con quale legge voteranno. Il Consiglio d’Europa, in una dichiarazione del 13 maggio del 2004, ha affermato che per considerare le elezioni corrette e democratiche, «gli elementi fondamentali del diritto elettorale, ed in particolare del sistema elettorale propriamente detto, non devono poter essere modificati nell’anno che precede le elezioni». Le articolate motivazioni addotte a sostegno di questa posizione si attagliano perfettamente all’attuale situazione italiana, come vedrà chiunque vorrà leggere quel testo.
Quando l’Europa chiede di tagliare le pensioni o di ridurre i diritti dei lavoratori, ci si precipita ad acconsentire. Quando l’Europa richiama al rispetto dei principi democratici, ci si gira dall’altra parte.

l’Unità 12.11.12
È tra Bersani e Monti la vera partita per il governo
La dilatazione delle elezioni regionali ad aprile è una manovra per non giungere al voto col Pd lanciato
Michele Prospero


Bersani o Monti a Palazzo Chigi, questo è il senso del conflitto odierno. Da come si chiuderà la legislatura dipenderà il tratto specifico del sistema politico destinato a prendere il posto della seconda Repubblica. Per questo risvolto che riveste la gestione della fuoriuscita dal ventennio berlusconiano, la tattica distruttiva ha spesso il sopravvento sulle scelte ponderate e si infittiscono le mosse per impedire che il Pd goda il suo plusvalore politico.
Potenze economiche e attori dei media concentrano da tempo il fuoco contro il Pd per ostacolare una normale evoluzione della crisi politica verso un ricambio di classi dirigenti. L’antipolitica si muove come una immensa forza materiale che progetta misure estreme per determinare una caduta drastica di tutto il sistema politico e consentire ai poteri più influenti di riorganizzare le loro ambizioni di comando nel quadro di una democrazia minimale sprovvista di argini di partito.
Allo scopo di orchestrare una esplicita rivoluzione passiva serve la categoria di «casta» che diffonde un senso comune ostile, cosparge una ideologia negativa utile per coinvolgere anche l’opposizione nella irreparabile caduta di discredito dell’intero ceto politico e impedire così il pendolo dell’alternativa tra destra e sinistra. Le grandi potenze che maneggiano media e denaro hanno percepito che l’ultima carta da spendere contro la conquista dell’esecutivo da parte del Pd è quella di un Monti bis evocato come inevitabile sbocco salvifico di un Parlamento reso ingestibile.
L’idea che il Pd prepari una coalizione di governo in grado di coniugare risanamento e equità sociale semina scompiglio. La follia che accompagna una pretesa spregiudicatezza tattica, come quella vantata da certi ambienti moderati, è quella di innalzare barriere d’ogni genere per ostruire le porte di Palazzo Chigi alla sinistra.
La politica realista, quella vera però, non la caricatura della tattica senza respiro storico, sa bene che la tregua, lo stallo, l’equilibrio non sono situazioni che si producono a discrezione degli attori, che a tavolino costruiscono di proposito i rapporti numerici per annullarsi a vicenda. Questo gracile orizzonte di una tregua artificialmente indotta con la sospensione pilotata della politica non è realismo, è soltanto una insana vocazione all’annientamento che suppone che il Pd sia una creatura fragile e disponibile al martirio. L’emergenza però si impone come un destino, non è un evento da propiziare con trucchi elettorali.
La dilatazione delle elezioni regionali ad aprile è una manovra ostile di chi fa di tutto perché non si giunga al voto politico con un Pd lanciato anche dai successi mietuti nelle amministrative. Qui però la provocazione sfacciata sconfina nella spudoratezza. Certe sortite di Monti sono anch’esse tipiche di un aspirante leader politico che misura il suo gradimento nei sondaggi e lo contrappone a quello dei partiti (non valuta però che sul sostegno che riceve incide la mancanza di ogni opposizione contro l’esecutivo).
L’illusionismo analitico di chi pensa di confezionare una nuova legge elettorale solo per agevolare la frantumazione dei seggi e impedire l’alternativa rischia di provocare dei guasti duraturi per il sistema politico e per la società. Non si può mettere mano alla legge elettorale (per la terza volta in vent’anni a scadenza di legislatura!) senza alcun’altra preoccupazione che quella di ostacolare il prevedibile ingresso di Bersani a Palazzo Chigi. La conquista di un sistema a funzionamento bipolare va depurata dalle degenerazioni connesse al leaderismo sfrenato sorretto in questi anni da coalizioni insincere, ma non può certo essere lasciata cadere per immergersi nella abitudine di larghe coalizioni che preparano la rovina comune dei contendenti.
Il sistema politico deve conservare il suo tratto bipolare, che va affinato semmai ma non certo abbattuto in vista di paludi pericolose soprattutto in tempi di crisi. Se il congegno alla francese, o anche una più celere riedizione del sistema Mattarella corretto magari con i collegi a doppio turno, non incontrano un ampio consenso, allora il solo modo per garantire un intreccio di rappresentanza e governabilità è il ricorso a un ragionevole premio di maggioranza.
Superata una clausola incostituzionale scritta nel Porcellum, l’assenza di una soglia minimale per la concessione del premio, l’altra preoccupazione della riforma deve essere quella di incentivare la governabilità con congrui premi in seggi per la stabilizzazione degli esecutivi. Se ogni respiro sistemico è precluso, e il significato della riforma è solo quello di prefigurare gli scenari delle prossime elezioni secondo un calcolo anti Bersani, è meglio lasciar perdere. Gli architetti della riforma ad personam, escogitata solo in vista di un pareggio, se ne assumeranno per intero la responsabilità.

l’Unità 12.11.12
Casini apre al 10% ma il Pd non si fida del Pdl
Si riapre la trattativa sul lodo D’Alimonte e sul premio di «aggregazione» al partito che ottiene più voti
Martedì la prima commissione del Senato tornerà a votare sulle modifiche alla legge elettorale
Bersani: se si vuole l’intesa noi ci siamo. Ma chi votò il Porcellum non renda ingovernabile l’Italia
di Ninni Andriolo


ROMA «Bersani vuole una soglia del 10%. Eravamo d’accordo prima, oggi e domani....». Alla vigilia di una settimana decisiva per il destino della riforma elettorale tema all’ordine del giorno della commissione Affari costituzionali che si riunirà martedì al Senato Casini apre alle richieste del segretario democratico. E al lodo D’Alimonte, dal nome del professore che propone di assegnare un bonus di «aggregazione» al partito che ottiene più voti, nel caso in cui nessuna coalizione riesca a incamerare il premio di maggioranza (il testo base varato da Udc, Pdl e Lega fissa la soglia minima del 42,5%).
L’apertura di Casini giunge all’indomani del duro botta e risposta con il segretario democratico. E anche per questo, seppur contrappuntata da frasi che riecheggiano le polemiche «Si vuole un centro vassallo della sinistra...» -, la dichiarazione del leader Udc assegna rilievo politico a una disponibilità già manifestata in privato. «Sono convinto che al di là dei giochi tattici Casini, alla fine, sia disponibile su questa linea», aveva previsto Bersani. La linea è quella tracciata da D’Alimonte. Intervistato ieri da Repubblica, il professore ha ripetuto che senza premio «di consolazione», con un «42,5% impossibile da raggiungere», si tornerebbe al proporzionale puro, che «in questa situazione di frammentazione sarebbe una follia».
Un «premietto» del 10%, quindi. Casini apre, ma il Pd non si fida del Pdl. Le contrapposizioni che agitano più complessivamente quel partito si riflettono anche sulla legge elettorale. Sembrano confezionate apposta per le componenti più oltranziste pidielline le parole del senatore Quagliariello, che mette in guardia (anche i suoi) da «intese che ci escludano». «C'è un’esigenza di governabilità che interessa il Paese e a questa si risponde assicurando al partito o alla coalizione che raggiunga un
numero minimo di voti una maggioranza di seggi sufficiente a garantire la stabilità spiega Quagliariello Sull’ampiezza della soglia minima si può discutere...». Nel caso in cui nessuno la raggiunga, però, «il partito che arriva primo può essere premiato per stabilire una sorta di convenzione costituzionale, in altri Paesi scontata, in base alla quale tocca a lui formare il governo. In questo caso però l’ampiezza del premio non ha nulla a che fare con la governabilità. Per questo, per quanto ci riguarda non consentiremo premi truffa».
I LUPI E GLI AGNELLI
È del «premietto» proposto da D’Alimonte, e della sua ampiezza, quindi, che si discute. Per il Pd non dovrà essere inferiore al 10% netto, ma le posizioni più oltranziste Pdl concedono percentuali decisamente più basse (per neutralizzare in partenza una possibile vittoria elettorale dei democratici).
Ed è rivolgendosi di fatto anche all’ala trattativista del Pdl, che Gasparri mette in guardia da un «Parlamento che si trasforma in una sartoria dove il Pd pensa di farsi tagliare un abito su misura». Bersani? «Strepita perché non vuol cambiare legge», avverte il vice presidente dei senatori pidiellini. La tesi secondo cui il Pd vorrebbe tenersi il Porcellum rilanciata anche ieri da Alfano trova proseliti nel centrodestra e preoccupa non poco gli ispiratori dell’intesa Pdl, Lega, Udc sul testo base in discussione al Senato. Questi, convinti in un primo tempo di aver smosso le acque e messo all’angolo il Pd, temono adesso di finire nel pantano.
E a Casini che rinfacciava a Bersani di puntare le carte sull’attuale legge, Rosy Bindi ricorda «che lui il Porcellum l’ha votato, mentre noi no». Fino al tardo pomeriggio di ieri, tra l’altro, non era stata nemmeno convocata la riunione degli ambasciatori di Pd, Pdl e Udc che avrebbe dovuto precedere, oggi, la seduta della commissione in Senato.
«Se si vuole trovare un accordo noi ci siamo spiega Bersani Quello che non accettiamo è di mettere l'Italia all’avventura togliendole ogni possibile governabilità, magari da parte di quelle stesse forze che ci consegnarono il Porcellum». E ancora alludendo all’intesa delle scorse settimane tra Pdl, Udc e Lega «Siamo al lupo e l’agnello in salsa elettorale. Veniamo accusati di arroganza da coloro che hanno pensato di procedere a colpi di mano parlamentari». E sempre ieri, intervistato da La Stampa, il leader Pd ha inviato un messaggio chiaro «a quelli che lavorano per produrre un pareggio». «In quel caso si torna a votare e lo dico sulla base di un ragionamento non solo politico, ma anche squisitamente matematico. Forse pensano che tra sei mesi, quando alla Camera ci saranno cento e passa deputati di Grillo, si potrebbe replicare la maggioranza che c’è ora? Non esiste».

l’Unità 12.11.12
Due condizioni oltre il lodo D’Alimonte
di Cristoforo Boni


Il cosiddetto lodo D’Alimonte canovaccio di una possibile intesa sulla legge elettorale prevede due soglie. La prima al 40%: il premio di maggioranza (che porta fino al 55% dei seggi) scatta solo se la coalizione più votata supera quell’asticella. Se portata senza inganni, la ragione è comprensibile.
Una coalizione sprovvista di congrui consensi non può acquisire i titoli, oltre che per governare, anche per eleggere il Capo dello Stato e nominare tutti i principali organi di garanzia. Ma senza alcun altro premio il sistema rischia di essere condannato all’assoluta ingovernabilità. Ecco il perché della seconda soglia, che D’Alimonte fissa al 10%: qualora non scatti il premio di maggioranza alla coalizione, il partito più votato riceve comunque un bonus in seggi (del 10% appunto) al fine di formare attorno al proprio leader un governo politico, il più possibile coerente ed efficace. Questo secondo premio, per ovvie ragioni, non può essere distribuito tra i partiti di una coalizione (si rischierebbe di incentivare ulteriormente il trasformismo parlamentare) ma deve essere concentrato su un partito, che a quel punto diventa il perno e il garante della nuova alleanza di governo.
In questo ore si fanno molti tatticismi. Ma è chiaro che le soglie sono tra loro strettamente legate: se manca la seconda, la prima assumerebbe il significato di una trappola, di un imbroglio. Le due soglie, tuttavia, non bastano a completare la riforma. Ci altri «rilevanti» dettagli da definire. Ad esempio, la soglia di sbarramento per l’ingresso in Parlamento.
Il Porcellum prevede soglie variabili (più alte per chi non si coalizza, più basse per chi si coalizza) fino al punto che, nella legisltaura in corso, il Mpa ha ottenuto deputati con meno dell’1% dei consensi. Anche questo imbroglio dovrebbe finire. Si parla tanto di clausola di sbarramento al 5%. Bene, la si approvi. E la si applichi senza eccezioni. Sarebbe peraltro una misura di equità: è ingiustificabile che un outsider debba scavalcare un’asticella maggiore di un partito nuovo tuttavia aggragato ad una delle coalizioni già esistenti. Sarebbe anch’esso un antitodo al trasformismo, che rappresenta una delle malattie più gravi della seconda Repubblica. Ancora a proposito di trasformismo, l’intesa sulla legge elettorale auspicabilmente centrata sulle tre soglie, 40, 10 e 5 dovrebbe essere completata da una modifica dei regolamenti parlamentari. Bisogna fissare finalmente la regola in base alla quale i gruppi di Camera e Senato devono corrispondere alle liste presentate agli elettori e da essi votate. Nessun gruppo può formarsi in Parlamento senza passare dal vaglio elettorale. Il singolo deputato o senatore che proprio desidera trasmigrare in astratto il passaggio non può essere vietato, visto che le Costituzioni democratiche si fondano sul mandato senza vincoli deve approdare al gruppo Misto. Un conto è la libertà dei singoli, un conto è la piaga trasformista, che ha avuto in questi mesi il volto-simbolo di Scilipoti. Tuttavia, bisogna essere giusti con Scilipoti: oltre 180 parlamentari sono migrati al pari suo da un gruppo all’altro.

l’Unità 12.11.12
L’imbroglio dell’election day
Il candidato Pd del Lazio: «C’è in ballo un’enorme questione democratica»
Zingaretti: si voti presto, la destra abusa del potere
Intervista a l’Unità: «L’argomento del risparmio non regge: il consiglio dimissionario costa 350 mila euro al giorno»
di Jolanda Bufalini


Spostare le elezioni regionali per accorparle alle politiche non porta risparmi e apre una questione democratica. Lo dice il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti, candidato del Pd alla Regione Lazio: «Renata Polverini sta abusando del proprio potere e il governo sbaglia a prendere tempo. In ballo non c’è solo il costo della consultazione elettorale ma anche il destino dei fondi europei. Si è già perso troppo tempo, bisogna andare al voto prima possibile».
Sono 46 giorni che stiamo immersi nel gran pasticciaccio delle elezioni nel Lazio, quando Renata Polverini si dimise sibilando «questi li mando a casa io» nessuno si aspettava che questo significasse diventare ostaggi di un presidente che non fissa la data del voto.
Nicola Zingaretti, quali sono gli ostacoli che si frappongono al voto?
«Quello che sembra un pasticciaccio è in realtà una cosa semplicissima, non ci sono ostacoli né economici né giuridici per andare al voto subito. C’è solo un ostacolo partitico ed è il terrore di una parte del Pdl di affrontare i cittadini, per la crisi politica gravissima, per la difficoltà a individuare le candidature. Ma il costo di questo comportamento ostruzionistico è insopportabile. Il consiglio dimissionario, fermo, costa ogni giorno 350.000 euro. Questo vedono i cittadini. Solo il voto democratico è la risposta alla rabbia che, altrimenti, prenderà la strada del populismo e dell’astensionismo, come, abbiamo visto, è già avvenuto altrove».
350 mila euro al giorno sono circa 70 milioni fino ad aprile, più del doppio di quanto costerebbe la consultazione nel solo Lazio?
«Non c’è solo il costo della consultazione, Lazio e Lombardia insieme rappresentano il 32 per cento del Pil italiano. Il Lazio da solo ha un prodotto interno lordo maggiore di quello del Portogallo, siamo alla disperata ricerca di segnali di ripresa ed è una follia teorizzare che due aree così importanti del paese possano rimanere bloccate per quasi un anno. Turismo, commercio, piano rifiuti non possono aspettare. Ci sono 180 milioni di fondi per l’innovazione che rischiano di polverizzarsi insieme a 350 milioni di fondi europei per lo sviluppo regionale, rurale, sociale, ci sono i fondi del Miur per la ricerca e l’innovazione tecnologica. Senza governo tutto questo rischia di restare fermo o addirittura di perdersi. È pazzesco ed infatti tutta l’imprenditoria, da Confindustria a FederLazio, all’associazione dei costruttori, ai sindacati, si sono espressi per votare al più presto».
Il governo sembra aver cambiato orientamento, dal voto al più presto all’Election Day. Addirittura il capo segreteria di Antonio Catricalà ha fatto l’avvocato difensore di Renata Polverini di fronte al Tar.
«Su questo condivido ciò che ha detto il sindaco di Milano Giuliano Pisapia nella sua veste istituzionale: il governo deve assumersi la propria responsabilità. Qui è in ballo una questione democratica enorme e vi è la necessità di dare segnali inequivocabili e ancora più chiari. Se si vuole votare si può, il ministero degli Interni ha chiesto un parere alla Avvocatura dello Stato e la risposta è stata chiarissima: la legge dice che si deve votare entro 90 giorni dalle dimissioni. Va bene il dibattito ma bisogna mettere fine ad un ostruzionismo scandaloso, io faccio un appello perché prevalga il bene comune e la Regione sia messa nelle condizioni di lavorare a pieno, al di là delle diverse collocazioni politiche».
Resta però che il compito di indire le elezioni spetta al presidente della Regione
«Non c’è alcun dubbio, ma avere un potere non significa abusarne, la presidente Polverini sta commettendo un errore molto grave, il suo è un comportamento contrario al bene comune».
Non è stato però risolto il problema se si debbano eleggere 70 o 50 consiglieri.
«Renata Polverini si è dimessa il 27 settembre, questo argomento poteva valere nella prima settimana ma ora sono passati 45 giorni e la presidente non ha fatto nulla, non ha messo in moto alcun processo per superare queste difficoltà, le ha solo agitate per fare melina. I cittadini vedono tagliare migliaia di posti letto negli ospedali, i lavoratori dell’Idi, di Alitalia, quelli in cassa integrazione, quelli che hanno paura di essere licenziati o che lo sono già stati, vedono che ogni giorno si spendono 350.000 euro per pagare stipendi inutili».
Quegli stessi cittadini hanno anche visto sciogliere l’assemblea regionale a causa del malaffare dilagante. «Proprio per questo io sono convinto che per chiudere questa brutta pagina ci vuole un processo democratico, ci vogliono le elezioni che consentano di ricostruire il rapporto di fiducia con i cittadini e di aprire una fase radicalmente nuova. L’alternativa è l’implosione, il muro di gomma che una parte della destra sta opponendo è ciò che alimenta l’antipolitica. Il prolungarsi di questa situazione non è più giustificabile e, chi piega la decisione sulla data del voto a esigenze partitiche, rischia di consegnare al declino una regione che, al contrario, ha la possibilità di ripartire e necessità di riforme e di sviluppo»
Quando ha compiuto la sua scelta non era ancora scoppiato il caso dell’Idv nel Lazio. Si è pentito di essersi candidato alla Regione lasciando il Campidoglio?
«Niente affatto, con quella scelta il centro sinistra ha assunto un ruolo da protagonista investendo in una proposta di forte discontinuità. Il Lazio ha bisogno di una nuova classe dirigente, la politica si deve rinnovare radicalmente investendo nelle energie migliori del territorio, nei movimenti civici».
Con quali alleanze?
«Sono 45 giorni che incontro i cittadini in strada e non è questo il loro problema, i loro problemi sono il lavoro, i treni dei pendolari, la speranza di avere ancora lo stipendio il 27 del mese, i tempi di attesa per la Tac. Non ci dobbiamo preoccupare di alchimie politiciste ma lavorare a un radicale rinnovamento con lo sguardo al futuro».

l’Unità 12.11.12
Grillo. Il capo ora scomoda Giordano Bruno
di Toni jop


Ieri Grillo deve aver pensato di essere più figo di Casaleggio e così nel suo blog ha imposto ai suoi ormai titubanti fedeli una riflessione «di alto profilo» a sua difesa. Doveva diluire la sgradevolezza, sofferta da molti, da lui provocata nei giorni scorsi quando ha accusato la consigliere comunale a Cinque Stelle, Salsi, di aver ceduto al suo punto G presentandosi nello studio tv di Floris. A dispetto delle sue precise indicazioni.
Intanto, c'è da dire che vederlo armeggiare per parare un colpo è stata una novità e anche magari il segno di una nuova fragilità. Bossi, per esempio, che del linguaggio aspro e forte, maschilista e violento, aveva fatto un must dei nostri tempi, non si era mai sbracciato alla ricerca di fondali linguistici e semantici in grado di giustificarne la coraggiosa legittimità. Men che meno il leader della Lega aveva provato a rivoltare l'accusa di aver violentato il «politicamente corretto» verso chi l'aveva formulata, come invece tenta di fare Grillo lamentando che questa sensibilità, il giudizio che ne discende sono, sarebbero «una minaccia alla libertà di parola».
Quindi, eccoci ad una presa di posizione che copre, certamente al di fuori di ogni intenzione, i titolari del linguaggio politicamente scorretto che ha fatto la storia recente del nostro paese, l'ha governato e messo in ginocchio; e cioè, oltre a Bossi padre e figlio, anche Berlusconi. Una modesta platea sul viale del tramonto ringrazia, quindi, che il Grande Megafono del Movimento dei grillini, spenda pensiero e letture appropriate per additare e criminalizzare i «castratori» interpreti del «neo puritanesimo», quelli che metterebbero le mutande alle statue della «verità» e il reggiseno a quelle della libertà. Tanto per restare in tema. Comunque, è un intervento sofferto, si intuisce, dettato dalla necessità di uscire da un angolo che evidentemente nemmeno noi, nella nostra “cattiveria”, siamo riusciti a registrare in tutta la sua angustia in coda alle reazioni prodotte dalla storia del punto G. Grillo denuncia con vigore laicissimo «la Lourdes linguistica che edulcora e trasforma le parole, sostituisce la realtà....» e già si intuisce che il nostro sta per scegliersi i «santi» ai quali attaccare il suo carretto.
Fatto: è Giordano Bruno il prescelto, e già si immagina la folta chioma e la ricca barba sale e pepe dell'addolorato politico avvolte nelle fiamme di Campo dei Fiori. Non prima di aver pronunciato parole fortissime che certamente qualche storico non asservito annoterà: «La verità nella sua semplice e brutale esposizione è diventata un oltraggio al pudore...». Gli sfugge del tutto quanto il linguaggio, «corretto» o «scorretto», sia comunque vettore, gendarme, contrabbandiere di potere; e che ovviamente non basta dire «merda» per affermare di aver difeso una verità scomoda. Così, ingenuamente, Grillo dice proprio «merda». Di «merda decennale che non puzza», sarebbe uno dei pilastri a difesa del «sistema». Per questo, per desiderio di verità e di libertà Grillo ha urlato «busone» a Nichi Vendola da un palco in piazza, ha definito «vecchia troia» Rita Levi Montalcini, ha accusato una sua consigliera che lui trattava da serva di avere un punto G troppo sensibile. Semplice metafora, spiega. Of course: metà fora e metà dentro.

Repubblica 12.11.12
Palazzo Chigi dribbla le obiezioni del Consiglio di Stato e insiste: per i religiosi “addolcito” il Codice civile
Per ampliare il margine di intervento nel decreto Enti locali è stata inserita una norma “segreta”
La definizione di ente no profit favorirà le realtà ecclesiastiche
 Blitz del governo alla Camera imposta più leggera per la Chiesa
di Valentina Conte


IL GOVERNO, costretto ad accelerare il varo del regolamento che imponga anche alla Chiesa e agli enti no profit, laddove producono utili, di pagare nel 2013 l’Imu, tenta un colpo di mano. Far passare una definizione ad hoc di ciò che non è attività commerciale. Che vale per questi enti, ma non per il resto degli italiani. E che li solleverebbe dal versamento dell’imposta sulle porzioni di immobili ad uso “misto” da cui traggono profitti (cliniche, alberghi, ostelli, mense, sedi varie), con una semplice modifica del loro statuto, da apportare in corsa entro dicembre. Un rischio grosso, avverte il Consiglio di Stato, perché l’Europa guarda. E la Commissione di Bruxelles potrebbe multare l’Italia per aiuti di Stato illegali e recuperare tali somme “condonate”, a partire dal 2006. Un danno che può valere fino a 3 miliardi, considerati gli incassi stimati dal governo (300-500 milioni l’anno).
GLI SCONTI
In base alla nuova definizione, ecco gli sconti possibili. Non c’è attività commerciale, dunque non si paga l’Imu, se nello statuto dell’ente no profit si prevede il divieto di distribuire utili o l’obbligo di reinvestirli esclusivamente a fini di solidarietà sociale. O ancora se si inserisce l’obbligo di devolvere il patrimonio, quando l’ente si scioglie, ad altro ente no profit con attività analoga. E ancora, cliniche e ospedali sono fuori dall’Imu se accreditate o convenzionate con Stato ed enti locali, le loro attività assistenziali svolte «in maniera complementare o integrativa rispetto al servizio pubblico», a titolo gratuito o e qui viene il bello dietro pagamento di rette «di importo simbolico». Scuole e convitti esentati se l’attività è “paritaria” rispetto a quella statale e non “discrimina” gli alunni. Le strutture ricettive, se la ricettività è «sociale ». E infine, per le attività culturali, ricreative e sportive fa fede ancora il compenso. Se «simbolico », zero Imu. Con tutto ciò che “simbolico” possa voler dire. E il rischio di esentare molto, se non tutto.
LA BOCCIATURA
Il pasticcio parte dalla bocciatura, il 4 ottobre scorso, del regolamento del ministero dell’Economia (arrivato, tra l’altro, in ritardo di tre mesi) da parte del Consiglio di Stato, tenuto a un parere obbligatorio ma non vincolante. Il regolamento doveva spiegare come compilare la dichiarazione (entro dicembre). Una sorta di autocertificazione, che l’ente no profit fa, dei metri quadri dell’immobile di proprietà riservati agli affari. Ma c’era bisogno di un decreto ministeriale per un’operazione tutto sommato semplice? Evidentemente sì, visto che la delega in tal senso al governo viene dal Parlamento. I giudici del Consiglio di Stato, tuttavia, bocciano il regolamento. Proprio perché quella delega è stata travalicata e il governo ha inserito anche gli “sconti”, corpi del tutto estranei che mutano l’ordinamento italiano.
AZIONE LAMPO
Che cosa fa allora il governo per superare le obiezioni del Consiglio di Stato? Prima allarga la delega concessa dal Parlamento. E lo fa con tre righe inserite nel decreto Enti locali (che si occupa di tutt’altro, ovvero di costi della politica), passato alla Camera. Poi tenta il blitz. La tentazione originaria è di pubblicare lo stesso testo con gli sconti – quello “bacchettato” dai giudici amministrativi in Gazzetta ufficiale.
Poi si ferma. Annulla la pubblicazione e spedisce, secondo la prassi, il testo per un secondo parere ai giudici, che lo (ri)esaminano giovedì 8 novembre. Le righe che sbloccano l’empasse sono nel decreto Enti locali: il numero 174, all’articolo 9, comma 6. Poche parole che ampliano la delega modificando l’articolo 91 bis, della legge liberalizzazioni di febbraio. Quello che introduceva l’Imu anche per la Chiesa e il no profit (altre religioni, partiti, sindacati, onlus). Così il governo conferma gli “sconti”. Nonostante i moniti del Consiglio di Stato.

il Fatto 12.11.12
Il 14 novembre lo sciopero è generale ma anche europeo
a cura di Salvatore Cannavò


Lo sciopero generale della Cgil, collegato allo sciopero europeo promosso dalla Confederazione europea dei sindacati, è l’iniziativa principale della settimana. Il sindacato di Susanna Camusso ha proclamato per mercoledì 14 novembre 4 ore di sciopero dal titolo “Per il lavoro e la solidarietà contro l’austerità”. Si tratta di “una giornata di protesta”, scrive la Cgil, “ per cambiare le politiche europee e quelle nazionali a partire dalle legge di stabilità varata dal governo Monti”. L’iniziativa assume particolare valore soprattutto per il suo inserimento in una dimensione europea: “L'austerità non funziona” si legge infatti nellanota della Ces che chiede “un patto sociale per l'Europa”, con un “vero dialogo sociale”, una politica economica che stimoli un'occupazione di qualità, un'ambiziosa politica industriale europea orientata verso un'economia verde.
A scioperare, però, sono anche i Cobas che per la stessa giornata hanno indetto 8 ore di fermata generale nelle scuole con manifestazioni nelle principali città. In particolare a Roma si svolgerà una manifestazione davanti a Montecitorio chiamato a discutere contemporaneamente della Legge di Stabilità. Nella giornata sono coinvolti gli studenti che, con le loro varie organizzazioni, stanno organizzando la protesta
Sciopera anche la Fiom, nell’ambito della protesta Cgil, ma il sindacato metalmeccanico punta tutto su Pomigliano dove si terrà la manifestazione campana della Cgil e dove ci sarà la contestazione alla Fiat per il licenziamento dei 19 operai messi in mobilità ma anche per chiedere di applicare la sentenza del Tribunale di Roma e garantire il rientro in fabbrica di tutti i dipendenti come previsto dagli accordi.

il Fatto 12.11.12
Berlinguer, comunista di buona famiglia


L’europarlamentare Luigi Berlinguer, cugino di Enrico e Giovanni, parente di Francesco Cossiga, sardo di Sassari, è proprio un ragazzo del secolo scorso. Perché al secolo odierno ci è arrivato attraverso preliminari e procedure che sono fuori tempo e fuori moda.
HA POSATO buona cultura e buona accademia nei cilindri di una carriera non rapida ma costante, poi il resto è sembrato naturale: sindaco di un paesino, segretario giovanile del Partito comunista, consigliere provinciale, Rettore di un’università, deputato e senatore, banchiere tecnico al Monte dei Paschi, ministro dell'Istruzione, laico nel Consiglio superiore della magistratura. E infine, mentre la lista va tagliata per rientrare in questa rubrica, a Bruxelles con le insegne del Partito democratico e poi la guida del Comitato dei Garanti. Quelli che dettano e scrivono regole, spulciano breviari introvabili, studiano cavilli cervellotici, assestano un favore a Pier Luigi Bersani e uno schiaffetto a Matteo Renzi. Berlinguer è ricomparso venerdì mattina ad Agorà portando con sé quel suo essere fuori tempo e fuori moda: ironico, e non sprezzante; professorale, e non lezioso. Il garante supremo, molto rispettabile, ha mostrato la scheda elettorale per le primarie: un sorteggio ha decretato Bersani in testa e Renzi in coda, perché, spiega, non andava bene l'ordine alfabetico.
MEGLIO provare con la sorte che poi si sposa con l'ordine alfabetico. Può sembrare un discorso su prezzemolo e basilico nel ragù domenicale, ma la rigidità con cui queste primarie sono state allestite può rievocare la rigidità morale di un Berlinguer atipico, e pur sempre comunista, che i suoi 80 anni gli consentono di vivere e sopravvivere con l’ennesima generazione del Pci.
Quando un commercialista ha vomitato il suo disprezzo per la politica dividendo i buoni dai cattivi con il criterio anagrafico, Berlinguer si è infastidito. Non per i suoi 80 anni sotto accusa, ma perché il giovane commercialista, in verità non tanto giovane in assoluto, dichiarava di voler partecipare alle primarie del centrosinistra e del centrodestra. Un peccato mortale per Berlinguer, che pensava di aver lasciato la politica così com’era, e invece si accorge che il secolo scorso è finito e quello odierno è ancora lungo.

La Stampa 12.11.12
L’Avanti! prima di Lavitola fucina di idee moderne
di Amedeo Lamattina


L’ultima volta che gli italiani hanno sentito parlare dell’ Avanti! era per il faccendiere Lavitola. Un pugno nello stomaco di quei socialisti, come Ugo Intini, che non si sono piegati al berlusconismo e sono convinti che radici e orizzonte della sinistra di oggi, anche di Vendola, sia il socialismo europeo. Il vero Avanti! collassa nel 1993, insieme al Psi per il quale era nato nel Natale del 1896. Se ne va «senza un necrologio», scrive nel suo nuovo libro Intini, che è stato punta di lancia del craxismo. Non stupiscono quindi certi accostamenti forti (il giornale muore sotto il maglio di Mani Pulite, come nel ’26 per mano fascista) e l’azzardo nell’indicare una direttrice di innovatori, combattuti dal massimalismo di sinistra e di destra, che si sono aiutati a vicenda. «Come Turati ha il suo Giolitti, Nenni avrà il suo Moro, Craxi i suoi Cossiga e Forlani».
L’orgoglio del politico Intini, per sette anni direttore dell’ Avanti!, poi deputato socialista, sottosegretario e viceministro agli Esteri con D’Alema e Prodi, si scioglie in una ricostruzione appassionata della fucina delle idee più moderne del ’900, quale è stato l’ Avanti!, ma anche delle sue distorsioni. Uno dei suoi direttori è stato Mussolini (alla guida della fazione massimalista del Psi nel 1912, mise in minoranza il riformista Turati). L’ Avanti! di Gramsci a Torino contestava da sinistra la linea rivoluzionaria di Serrati. Erano gli anni del «biennio rosso». Con gli stabilimenti della Fiat occupati, per calmare gli animi, il cavalier Agnelli immaginava tatticamente di trasformare l’azienda in una cooperativa. Alla fine il vento cambiò e si intravide il Ventennio.
Il libro di Intini ( Avanti! Un giornale un’epoca, ed. Ponte Sisto, pp. 750, € 30) è punteggiato da molte curiosità storiche. Eccezionale quella che gli ha raccontato Pertini. Churchill, terrorizzato che l’Italia finisse in mano alle sinistre, inventò un piano per salvare i Savoia. Il principe Umberto doveva essere paracadutato al Nord e diventare formalmente il capo della Resistenza. «Se fosse accaduto ridacchiava Pertini -, il 25 aprile 1945, alla testa dei partigiani per le vie di Milano sarebbe sfilato lui al posto mio e oggi avremmo ancora il re».

La Stampa 12.11.12
L’anonimato e i diritti dei neonati
di Vladimiro Zagrebelsky


La legge sulla fecondazione medicalmente assistita esclude la possibilità della madre di dichiarare di voler rimanere anonima e persino stabilisce che, nel caso di inseminazione eterologa, il coniuge o il convivente che ha consentito non può esercitare l’azione di disconoscimento della paternità.
La volontà di generare un figlio non può dunque essere revocata. Questa la legge vigente. Ma ora alla Camera dei Deputati è stata approvata (ancora in Commissione) una modifica, che ammette il «parto anonimo»: la madre vuole rimanere anonima e per il figlio si apre la procedura di adozione.
Ma tutti hanno diritto al rispetto dell’identità personale. I limiti che la legge impone alla possibilità di conoscere l’identità dei genitori e la propria ascendenza devono quindi essere mantenuti nello stretto necessario, quando essa confligga con la tutela di altri diritti fondamentali. In tal senso si è da tempo pronunciata la Corte europea dei diritti dell’uomo. Essa ha esaminato recentemente il caso italiano e la legge che vieta che venga svelata al figlio l’identità della madre, che partorendo abbia dichiarato di voler mantenere l’anonimato. La violazione del diritto del figlio a conoscere le proprie origini biologiche è stata vista nel fatto che – a differenza delle regole vigenti negli altri Paesi europei che permettono il parto anonimo la legge italiana non ammette eccezioni o limiti temporali. Il diritto del figlio è annullato dalla decisione della madre di abbandonarlo e di rimanere per sempre inconoscibile.
L’esigenza di trovare una disciplina che riesca a contemperare l’interesse della madre e il diritto del figlio, con procedure e valutazioni che permettano di superare l’anonimato, deve ora trovare riscontro nella legge italiana. Rimane superata la diversa posizione assunta nel 2005 dalla Corte Costituzionale, che aveva ritenuto che la possibilità di vincere l’anonimato della madre avrebbe comunque impedito di «assicurare che il parto avvenga in condizioni ottimali, sia per la madre che per il figlio, e … distogliere la donna da decisioni irreparabili, per quest’ultimo ben più gravi». La Corte si riferiva all’intenzione della legge di evitare parti clandestini, aborti clandestini, infanticidi. Così decidendo però la Corte metteva nel nulla il diritto del figlio alla propria identità (persino quando esistano motivi di salute che richiedano la conoscenza dell’identità dei genitori). E lo faceva richiamando le «situazioni particolarmente difficili dal punto di vista personale, economico o sociale» in cui la madre sceglieva l’anonimato e l’abbandono del figlio. Ora quando la madre si trovi in condizioni drammatiche, tanto gravi da indurla a rinunciare al figlio, si può capire che la legge ammetta il parto anonimo. Ma la legge non richiede che vi siano motivi gravi per la scelta dell’anonimato e la madre può rifiutare il figlio solo perché concepito fuori del matrimonio o non desiderato. In tal modo essa semplicemente si sottrae ai doveri di genitore.
L’anonimità della madre, tanto più se unita all’impossibilità assoluta di superarla, dovrebbe essere riservata a situazioni estreme. E’ incomprensibile quindi che la si ammetta anche nel caso di donna che partorisca a seguito di fecondazione medicalmente assistita: dopo quindi una scelta consapevole, una volontà di generare fermamente manifestata nella lunga e gravosa procedura medica. Proprio per questo è probabile che questa nuova possibile scelta non venga mai esercitata. La riforma assume allora un più che discutibile valore di principio: un generale diritto di rifiutare il figlio al momento del parto. E’ stato detto in proposito che «tutte le madri sono eguali». Vero, ma le condizioni in cui si diventa madri non lo sono. E i figli hanno diritti.

Repubblica 12.11.12
Botte e coltellate, è caccia all’immigrato in Abruzzo le “ronde dei giustizieri”
Nell’ultimo raid feriti due marocchini, sospetti sul figlio del sindaco
di Attilio Bolzoni


SONO inseguiti, braccati. Spacciatori e contadini, clandestini o regolari. Ronde, coltellate, pestaggi. In un paese dell’Abruzzo sono arrivati i giustizieri della notte contro gli immigrati. È la legge fai da te a Luco dei Marsi. In prima linea la famiglia del sindaco. A meno di un’ora da Roma capitale c’è un’Italia degli schiavi sopraffatta dalle violenze e ricattata dal racket dei padroni degli orti, botte e pizzo, imboscate e un obolo di 7 o 10 mila euro per intascare un falso contratto di lavoro e ottenere un permesso di soggiorno. Un inferno nascosto fra Avezzano e i confini della Ciociaria, in quella conca del Fucino che una volta era un lago e oggi è distesa di campi dove si spaccano la schiena magrebini, macedoni, rumeni, bulgari, albanesi. Lì i raid sono cominciati a fine settembre, ma dopo l’ultimo “pattugliamento” e quattro ferimenti in pochi giorni — tra le vittime anche un italiano, Ennio Tommasi, che s’intratteneva con alcuni extracomunitari — due marocchini hanno riconosciuto i loro aggressori. Uno è il
figlio poliziotto del sindaco di Luco dei Marsi, l’altro sarebbe un suo nipote.
Il paese ha 6mila abitanti e quasi 900 immigrati, la provincia è quella dell’Aquila, patate, carote, barbabietole e un esercito di disperati che lavorano tre mesi l’anno e per il resto sopravvivono con lavoretti in nero o — alcuni, solo alcuni — vendendo coca. Troppi stranieri e troppe tensioni. A Luco dei Marsi è così cominciato a montare in quest’autunno un risentimento contro tutti gli immigrati, senza differenza fra buoni e cattivi, onesti e disonesti. E poi sono cominciate le ronde. E la caccia all’uomo.
L’altra notte — quella di venerdì — l’ultima scorribanda.
Non è ancora l’una, due agricoltori marocchini cercano un passaggio per tornare nella cascina dove dormono con altri trenta connazionali. Sono al centro del paese, si avvicinano a una tabaccheria per acquistare sigarette in un distributore automatico. Qualcuno li segue. I due vengono circondati. Uno degli immigrati riesce a fuggire, l’altro si risveglia il giorno dopo. Racconta Almiraia Halderaha: «Mi sono venuti addosso in tre, mi hanno massacrato, ho ripreso i sensi in ospedale e non avevo più i 210 euro nel portafoglio. Il mio amico che è scappato mi ha detto che uno dei picchiatori lo conosceva: è un poliziotto di Luco».
Almiraia ha presentato denuncia. E anche l’amico che è fuggito e poi è andato al commissariato di Avezzano. È Rashid El Dovhali, che ora dice: «Ho riconosciuto il figlio poliziotto del sindaco di Luco dei Marsi quella sera e poi l’ho detto ai poliziotti che mi hanno mostrato le sue foto».
C’è qualcun altro che ha visto tutto quella notte. Anche lui è un marocchino, che dalla sua casa ha assistito al pestaggio. Anche lui è pronto a testimoniare.
E c’è ancora un altro marocchino assalito il 25 settembre che ha avuto lo stesso destino di Almiraia. Si chiama Hicham Ouguandar. Ricorda: «Mi è venuto incontro un uomo dicendo: “Fermo polizia” e ha tirato fuori il tesserino. Poi sono arrivati altri tre, mi hanno messo al muro e picchiato con stanghe di ferro. Mi hanno rubato 170 euro. Uno è un poliziotto, è il figlio del sindaco di Luco». Hicham dice che di avere saputo di molti amici pestati in paese dai giustizieri delle ronde.
I drammatici racconti — quelli di venerdì scorso e quello del 25 settembre (che potete vedere integralmente sul sito di Repubblica. it) sono stati raccolti da Angelo Venti, che è il direttore del giornale online Site. it., referente regionale di Libera e soprattutto è quel cronista che per primo ha scoperto nei mesi successivi al terremoto abruzzese del 2009 le infiltrazioni mafiose negli appalti per la ricostruzione e gli imbrogli sui bagni chimici e sugli “isolatori sismici” nelle case delle new town dell’Aquila.
Sono tre testimonianze dettagliate contro Luigi Palma, figlio del sindaco di centrodestra di Luco dei Marsi Domenico Palma, un ex commissario di pubblica sicurezza. Le indagini stanno accertando anche il ruolo che avrebbe avuto nei raid un nipote del sindaco, un ragazzo di 21 anni svelto di mano e — sussurrano in paese — anche di coltello.
È una polveriera i questi giorni il paese di Luco dei Marsi. L’altra settimana i consiglieri di opposizione avevano già sollevato il caso delle scorribande razziste parlando «di squadre di aspiranti giustizieri che pensano di agire al di sopra delle leggi», Domenico Palma ha reagito parlando di «pettegolezzi e dicerie». Risponde oggi a Repubblica il sindaco di Luco: «La magistratura sta indagando, vedremo cosa accerterà ».
In paese ormai non si parla d’altro. Nei prossimi giorni o nelle prossime ore a Luco dei Marsi tutto sarà più chiaro e si conosceranno i nomi di tutti i giustizieri, quelli che vanno a caccia di immigrati nelle campagne d’Abruzzo.

La Stampa 12.11.12
Omosessuali, se la società supera la legge
di Carlo Rimini


Il ministero dell’Interno, con una circolare del 5 novembre resa nota ieri, ha dato il via libera al riconoscimento del permesso di soggiorno a favore dello straniero che abbia contratto un matrimonio omosessuale all’estero con un cittadino italiano. La vicenda ha origine da un quesito sottoposto al Ministero dalla Questura di Pordenone a cui si era rivolto per ottenere il permesso di soggiorno un uomo extracomunitario sposato in Spagna con un altro uomo italiano. La Questura ha chiesto al Ministero se il matrimonio omosessuale straniero permetta di considerare il cittadino extracomunitario come coniuge del cittadino italiano ai fini del rilascio del permesso di soggiorno. Il Ministero ha risposto affermativamente, seppure con un testo chiaramente ispirato alla massima prudenza, nella consapevolezza di quanto sia politicamente sensibile il tema della rilevanza giuridica delle unioni fra persone dello stesso sesso. Gli stranieri extracomunitari sposati all’estero con un cittadino italiano del medesimo sesso residente in Italia potranno dunque, d’ora innanzi, ottenere il permesso di soggiorno.
Le considerazioni svolte dal Ministero sono sicuramente giuste. Se uno straniero ha diritto a vivere in Italia per il fatto di essere sposato a un italiano di sesso diverso, negare lo stesso diritto allo straniero omosessuale che convive con un italiano, in un’unione a tal punto stabile da essere riconosciuta all’estero come matrimonio, sarebbe una irragionevole discriminazione basata sugli orientamenti sessuali. Una risposta diversa da parte del Ministero avrebbe dunque esposto la legge sul rilascio del permesso di soggiorno ad una eccezione di incostituzionalità.
Questa vicenda però è solo un aspetto di un problema molto più ampio. È ormai inammissibile nella società contemporanea che la nostra legge non consenta alle coppie omosessuali di formalizzare la loro unione in un vincolo che abbia rilevanza per l’ordinamento giuridico. Spetta alla politica decidere se l’unione omosessuale può chiamarsi matrimonio come avviene ormai in molti Stati, oppure se – per rispetto al significato anche religioso che la parola matrimonio ha per una larga parte della nostra società – è opportuno scegliere un lessico diverso, come avviene ad esempio in Germania. Spetta anche alla politica affrontare la questione del rapporto fra l’unione omosessuale e la genitorialità, con particolare riferimento al problema della possibilità per le coppie omosessuali di adottare figli (negata in molti ordinamenti stranieri). Ma la politica non può continuare a fare finta che le coppie omosessuali non esistano, che non esistano famiglie costituite da persone dello stesso sesso. Dimostrerebbe così la propria incapacità di affrontare i cambiamenti sociali, ratificando una situazione ormai insostenibile, nella quale lo Stato, con le proprie leggi, discrimina le persone negando diritti irrinunciabili sulla base degli orientamenti sessuali.
*Ordinario di diritto privato nell’Università di Milano

l’Unità 12.11.12
Israele minaccia Damasco e lancia missili contro il Golan
di U. D. G.


Venti di guerra sul Golan. Sinistri presagi di una preoccupante escalation della guerra siriana. Israele ha esploso ieri «colpi di avvertimento» contro la Siria. Ad annunciarlo è Tsahal, l’esercito dello Stato ebraico. È la prima volta, dalla guerra del 1973, che Israele apre il fuoco contro le postazioni siriane.
«Poco fa (tarda mattinata, ndr) un colpo di mortaio ha colpito una postazione militare sulle Alture del Golan, nei pressi del confine tra Israele e Siria, nell’ambito del conflitto interno alla Siria. I soldati israeliani hanno risposto esplodendo colpi di avvertimento verso aree siriane», ha dichiarato l'esercito in un comunicato. Si tratta, conferma la radio siriana, del primo coinvolgimento diretto dell’esercito israeliano sulle Alture del Golan dalla guerra del 1973. Il ministro della Difesa, Ehud Barack, ha intimato al regime di Damasco (ma di fatto senza escludere i ribelli) che Israele è pronta a «risposte più dure» se saranno sparati nuovi colpi dalla Siria verso il proprio territorio.
Una fonte della sicurezza israeliana ha indicato che l’esercito ha fatto fuoco nella direzione di una postazione di mortaio che aveva lanciato un colpo caduto vicino a un insediamento ebraico senza provocare vittime. Le Forze di difesa israeliane hanno «depositato una denuncia attraverso le forze Onu attive nell’area, affermando che il fuoco proveniente della Siria verso Israele non sarà tollerato e troverà una severa risposta». Sempre in giornata il premier israeliano Benjamin Netanyahu aveva fatto sapere che lo Stato ebraico «sta monitorando attentamente quello che sta succedendo al confine con la Siria» aggiungendo di essere «pronto per ogni tipo di sviluppo». La tensione è altissima. Israele rafforza le sue postazioni nel Golan. Nella notte l’allarme è suonato nelle città frontaliere israeliane. «Israele ritiene responsabile di quanto è accaduto e potrà accadere il governo di Damasco – ribadisce in serata un portavoce del ministero della Difesa di Tel Aviv – Spetta al presidente Assad garantire la sicurezza dell’area di frontiera in territorio siriano. Intervenga, se è ancora in grado di farlo». Sono segnali che rafforzano i timori della comunità internazionale che la guerra civile in Siria possa sfociare in un più ampio conflitto regionale.

La Stampa 12.11.12
Peng e le altre Pechino nasconde le sue “first lady”
La moglie del neoleader Xi è una famosa cantante Ma non va più in scena per non fare ombra al marito
di Ilaria Maria Sala


Immaginate con un po’ di sforzo di essere Presidente della Cina: a capo di 1,3 miliardi di persone, corteggiato da capi di Stato e grossi gruppi industriali, uno dei volti più noti sulla scena internazionale. E pensate cosa debba essere aver sposato qualcuno molto, molto più famoso di voi, non all’estero ma certamente in patria: questa la situazione in cui sta per trovarsi Xi Jinping, il quasi certo prossimo presidente cinese, che dovrebbe essere nominato alla fine del 18esimo Congresso del Partito Comunista.
La star al fianco di Xi è la cantante Peng Liyuan, che è anche generale maggiore nell’esercito cinese, nel corpo artistico militare. Peng, 49 anni, è un volto fra i più noti nel Paese, dato che per anni ha anche preso parte al gala televisivo del Capodanno cinese, una maratona che dura un giorno intero, in un tripudio di canzoni patriottiche, effetti speciali, tulle e taffetà, nonché innumerevoli militari-cantanti che si sgolano sulle meraviglie della Cina e del Partito.
Da quando Xi è in odore di presidenza, però, dopo il Congresso del 2007, è stato gentilmente chiesto a Peng Liyuan di farsi da parte, per non fare ombra al consorte. La politica cinese non ha spazio per una Carlà, anche se quest’anno, fra le rivelazioni sulla fortuna accumulata dai familiari del premier Wen Jiabao e lo scandalo che ha travolto l’intera famiglia di Bo Xilai, i parenti dei potenti sono stati molto più discussi del solito. Ma certe cose in Cina non si fanno, i dirigenti non finiscono sui tabloid in una nuvola di pettegolezzi, e la fama canora di Peng crea problemi alla propaganda.
Nella politica cinese non c’è una tradizione di «First Ladies». Se fin dall’antichità i sovrani europei si pavoneggiavano con le loro regine, gli imperatori avevano decine di mogli e concubine e nessuno s’interessava di quelle che non erano la madre dell’erede al trono. Cercando fra le compassate mogli dei leader cinesi i precedenti sono pochi. Unica eccezione maestra di Jiang Qing, la famosa Madame Mao, passata dall’essere una bellezza imbronciata dei film in bianco e nero della Shanghai d’anteguerra a una delle più temute figure della rovinosa Rivoluzione Culturale, a capo della Banda dei Quattro. Con buona misoginia, tutti i peggiori eccessi del marito e tutta la follia della Rivoluzione Culturale sono stati imputati a lei, e se Mao è morto nel suo letto e continua ad essere imbalsamato nel centro di Tiananmen, Jiang Qing venne arrestata e condannata a morte poco dopo la scomparsa del Grande Timoniere (pena commutata in ergastolo).
Dopo di lei, alla voce «consorti» non si è trovato nulla di vistoso: Zhuo Lin, moglie di Deng Xiaoping, era una veterana della Lunga Marcia, entrata nel Partito quando questo era appena stato creato. Jiang Zemin era a volte visto nei viaggi di Stato con Wang Yeping a fianco, ma lei aveva l’aria di chiedersi per quale motivo non poteva starsene a casa. La moglie di Hu Jintao, Liu Yongqing, sembra aver accettato un po’ di più l’esigenza contemporanea del fare la First Lady, ma se poco si sa del Presidente cinese uscente, pochissimo si sa di sua moglie.
Ecco dunque che l’irrompere della bella Peng sulla scena cinese è tutt’altra cosa: lei, per prepararsi al nuovo ruolo, ha smesso gli abiti di raso gonfi come torte alla crema, e va in giro in divisa da generale. Ormai ha smesso di cantare, e si dedica alla beneficenza, come ambasciatrice per l’Oms contro l’Aids e la tubercolosi. Lo stesso, quando il Ministero della Cultura ha deciso lo scorso anno di istituire il Premio Cinese per le Arti, fra le teste coronate c’era anche quella della bella Peng: perché cosa può esserci di meglio che onorare la moglie del futuro presidente?

Corriere 12.11.12
Tutti gli amici italiani di Xi, il futuro leader cinese
di Danilo Taino


Giulio Tremonti dice che Xi Jinping «è un politico e intellettuale straordinario, non comune: tra i leader che ho incontrato quello che più mi ha impressionato». Xi — che giovedì dovrebbe essere eletto segretario del Partito comunista cinese dal 18° Congresso in corso a Pechino e a marzo nominato presidente della Repubblica popolare — è poco conosciuto in Europa. Un pò di più negli Stati Uniti, ma in Occidente si sa poco dell'uomo che nei prossimi dieci anni giocherà un ruolo centrale nella politica mondiale. Se dobbiamo seguire la consuetudine diplomatica secondo la quale «quando due leader si sono incontrati tre volte sono da considerare amici», c'è da ritenere che l'ex ministro dell'Economia italiano sia tra i maggiori suoi conoscitori: negli scorsi tre anni l'ha incontrato tre volte. Interessante, dal momento che nel mondo oggi tutti si chiedono chi sia il nuovo leader Xi Jinping.
È noto che i maggiori rapporti tra Cina ed Europa passano per la Germania di Angela Merkel. L'interesse della politica e dell'accademia cinesi per l'Italia, però, è altissimo, soprattutto per l'importanza che a Pechino si dà alla storia: Marco Polo, Matteo Ricci e la storia bi-millenaria della Penisola sono considerati legami e tratti comuni che non possono essere trascurati. Lo hanno sperimentato negli anni scorsi Cesare Romiti, il pioniere italiano alla scoperta della Cina del Ventunesimo Secolo; Romano Prodi, in politica e, negli ultimi anni, anche sul versante commerciale; e, seppur meno di recente, Gianni De Michelis. E' probabilmente per questa attenzione all'Italia e per i libri controcorrente che Tremonti aveva dedicato al rapporto tra Occidente e Cina che l'allora ministro dell'Economia nel novembre 2009 fu invitato a tenere una lezione alla Scuola centrale del Partito comunista a Pechino (come intellettuale, non in rappresentanza del governo). A dirigere la Scuola era proprio Xi (allora già designato a succedere a Hu Jintao), che il giorno dopo volle, inaspettatamente, incontrare Tremonti per un lungo colloquio nella sede centrale del Pcc, sulla Piazza Tienanmen.
Di quel colloquio, Tremonti sottolinea l'interesse di Xi per l'Europa. «Fu molto apprezzato il mio insistere sull'immagine del tavolo che con due gambe non può stare in piedi — dice Tremonti —. Il rapporto forte, nel mondo, non può essere solo tra Pechino e Washington ma deve comprendere l'Europa. I cinesi sono estremamente sensibili a questa argomentazione». E alla conseguenza che ne deriva: che cioè serve «una rotazione dell'attenzione dell'Europa dalla relazione atlantica verso una relazione anche con l'Asia, la terza gamba».
Dall'incontro tra Xi e Tremonti è poi nato l'Aspen China-Europe-Us Trialogue, un forum trilaterale degli istituti Aspen di America ed Europa e della Scuola centrale del Partito comunista cinese, del quale una forza trainante è stata l'italiana Marta Dassù, oggi sottosegretario agli Esteri, e che funziona con la collaborazione della Fondazione Italia-Cina presieduta da Romiti. Dopo di allora, Tremonti ha ricevuto Xi a Fiumicino, in arrivo per una visita a Roma il 2 giugno 2011, e il giorno dopo lo ha accompagnato a Milano.
Il nuovo leader cinese assume la guida del partito in una fase delicatissima, in politica come in economia. Gli stessi dati positivi sulla crescita pubblicati nei giorni scorsi non possono nascondere la preoccupazione — secondo numerosi osservatori il «terrore» — di Pechino per le sfide che il cambiamento dei modelli economico e politico, necessari, comporteranno nei prossimi anni. Xi, che ha una lunga esperienza di rapporti con gli investitori internazionali, è probabilmente una delle figure più preparate — e con il miglior network interno al partito — per muovere la rotta dell'enorme transatlantico cinese. Anche con un interesse particolare verso l'Europa. Tremonti non esclude che ce la possa fare. «Al di là della corruzione e dei privilegi — dice — l'idea dominante ai vertici di Pechino ruota attorno alla missione: fare il bene comune, il vero elemento che in Cina tiene tutto assieme». Xi, la faccia buona della dittatura?

La Stampa 12.11.12
Cile, lo stadio delle torture decide il voto
Perché Maya Allende ha perso le comunali?
di Paolo Manzo

I corsi e i ricorsi storici sono una costante nella vita dei cileni, che hanno di fronte da un lato l’immensità dell’Oceano Pacifico, dall’altro l’arcigna barriera delle Ande. Un contrasto geografico, quello tra mare e alta montagna, che si ripete con ancora maggior forza nella storia politica moderna del Cile, incarnata da un lato dal socialista Salvador Allende, dall’altro dal dittatore Augusto Pinochet Ugarte. Maya Fernandez Allende è la nipote dell’ex presidente cileno deposto con un golpe l’11 settembre l 1973 ed è riuscita a riportare per l’ennesima volta agli onori delle cronache il passato del suo Paese. La sua storia ha un carico simbolico incredibile. Alle amministrative del 28 ottobre scorso Maya è riuscita a farsi eleggere sindaco di Ñuñoa, un comune residenziale che fa parte della Grande Santiago, tradizionale feudo delle destre perché i suoi 170mila abitanti sono quasi tutti di classe medioalta. Un’impresa incredibile, a detta della stampa cilena, cui si aggiungeva il fatto che, dopo oltre due decenni di esilio a Cuba, finalmente un membro della famiglia di Allende tornava a fare politica in Cile, riuscendo a convincere una piazza «di destra». L’evento è stato ripreso da tutti i giornali del mondo. Felicità da parte di Maya, un po’ di commozione e molte interviste. Questo sino a ieri, quando è arrivata l’ennesima beffa del destino per la famiglia Allende: in seguito al ricorso del candidato delle destre e dopo avere fatto le verifiche del caso, il Tribunale elettorale cileno ha ribaltato il verdetto, attribuendo l’incarico di sindaco a Pedro Sabat, un conservatore duro e puro. Ma ancora più atroce è stata la motivazione del ribaltamento del risultato: nel primo conteggio dei voti, infatti, non era stato considerato un seggio che si trovava nello Stadio Nazionale di Santiago, tristemente noto come il «campo di concentramento a cielo aperto» della dittatura di Pinochet. Lo stadio i cui spalti inghiottirono centinaia di cileni innocenti e, con loro, anche due reporter statunitensi la cui tragica fine è stata narrata da CostaGravas nel film «Missing». Le lacrime di Maya Fernandez Allende, ieri, hanno commosso il Cile e il mondo intero. Lei, testarda come il nonno, ha già fatto sapere che non vuole arrendersi e il Partito Socialista, al quale iscritta, ha già annunciato di volere presentare un controricorso. In Cile, per l’ennesima volta, la storia si ripete.


il Fatto 10.11.12
Dopo Renzi (cfr. qui di seguito venerdì scorso) il nostro forum sulle primarie del centrosinistra incontra il leader di Sel. Dall’Ilva a don Verzé, dal sindaco di Firenze a Bersani passando per Grillo: Vendola ha risposto al direttore del “Fatto” Antonio Padellaro, al direttore del “Fattoquotidiano.it” Peter Gomez, ad Antonello Caporale, Ferruccio Sansa e Alessandro Ferrucci.
“Renzi è un bluff dice cose di sinistra”
“Bersani è tutto un vorrei ma non posso”
“Sulla sanità in Puglia non ho fatto nessun regalo a don Verzè”
a cura di Carlo Tecce


Facciamo una proiezione: primo Bersani, secondo Renzi, terzo Vendola. Lei cosa fa al secondo turno? (Padellaro)
È una domanda a cui non posso rispondere, sarebbe un segno di debolezza. In questo momento sono alternativo a Renzi per ragioni evidentissime che riguardano persino l'iconografia, gli ambienti sociali a cui si riferisce. Lui piace alla buona borghesia. E ha bisogno che tanti fuochi d'artificio diano la rappresentazione di un salto nel mondo nuovo nel quale la vecchia borghesia non perda nessun privilegio. Di Renzi non mi piace il tratto liberalista del suo programma economico e anche il suo essere costruito e artificiale.
È una novità molto pensata, molto da studio televisivo. Renzi è il figlio legittimo della crisi della sinistra. Bersani è una persona perbene, non è malato di cinismo, questo nel mio modo di vedere la vita pubblica è un fatto raro e importante. Ma Bersani è il segretario di un partito che sostiene il governo Monti e tante scelte inique e inefficaci come la riforma previdenziale e del lavoro. Bersani è la retorica del 'vorrei ma non posso': vorrei mettere il lavoro al centro, ma non posso che votare lo sfregio all'articolo 18. (Sansa) Come può affrontare la questione morale con Bersani o nel Pd? E non sarebbe necessaria un po' di rottamazione?
Io sono rimasto molto deluso dalla legge anti-corruzione: è stata l'ennesima occasione perduta. La questione morale non indica più una patologia, ma la fisiologia della vita pubblica. Quando la politica rinuncia alla propria autonomia e si mette in ginocchio nei confronti della finanza e dice che “diranno i mercati” e non che “diranno i cittadini”, allora la questione morale oggi per me non è la ricerca di un galateo, ma è rimettere sul trono la politica. La politica è corrotta perché debole. Se mettiamo il mercato al centro, anche la politica si organizza come un mercato. Il mio problema con il Pd è recuperare insieme un punto di vista del centrosinistra che non ci faccia essere equidistante tra gli operai di Pomigliano e Sergio Marchionne. Stesso discorso per il rapporto con le banche.
(Ferrucci) Le chiedono i nostri elettori: cosa farà quando ci sarà da rifinanziare la missione in Afghanistan? Sel propone l'incandidabilità di tutti i condannati e indagati a prescindere dal reato? Prima la seconda. Non ci si può candidare con una condanna in primo grado, questo è diciamo il codice Vendola. Noi siamo garantiste, però. Forse al primo grado bisogna distinguere i reati: una condanna per associazione mafiosa è sufficiente per farsi da parte. Quanto all'Afghanistan, bisogna uscire da quel pantano e proporsi un tema di politica di pace con termini nuovi. Perché abbiamo bombardato la Libia e non la Siria? I diritti umani valgono di più se sono situati nei pressi dei giacimenti di petrolio? (Caporale) Ho notato una cosa nello sviluppo di Sel: prima a sinistra con una radice forte, poi un riflusso e infine adesso la voglia di accartocciare questo partito e infilarlo nel grande cesto del Pd costruendo attraverso Vendola una corrente del Pd.
Bisogna avere il senso delle proporzioni. Noi siamo nati nell'ottobre 2010, non abbiamo un parlamentare e abbiamo una condizione francescana. Ci sosteniamo con l'autofinanziamento e con i pochi quattrini che derivano dalla presenza dei nostri eletti nei vari consigli locali. Siamo nati come una grande domanda di rinnovamento nella sinistra, non per mettere in campo un altro cespuglio. Mi interessa avere i sindaci che abbiamo aiutato a far eleggere. Il tema non è diventare una corrente del Pd. Il tema è l'inadeguatezza del Pd, di Sel, dell'Idv che devono avere il coraggio di lanciare il cuore oltre l'ostacolo e di porsi il problema non solo dell'unità possibile per dare speranza all'Italia, ma anche del soggetto politico che nel futuro dovrà essere in grado di incarnare una sinistra plurale e post ideologica.
(Padellaro) Ci sono tante risposte inadeguate dei partiti. E più sono inadeguate e più il M5S acquista argomenti. Perché?
Il mio campo di gioco è il centrosinistra, la possibilità di ricostruirlo come una coalizione che risponda alle domande sociali. Il mio ingresso nelle primarie chiede l'abolizione della pratica Monti e la fuoriuscita dal liberismo. In Sicilia le condizione oggettive tra Udc e Pd non ci hanno consentito di creare il centrosinistra e siamo andati in contro a una sconfitta scontata. Non potevamo perdere l'anima. Beppe Grillo catalizza il disincanto di una sinistra appannata. Quando la gente normale dice ‘siete tutti una razza’, destra e sinistra si confondono, lì la crisi non è anche della sinistra. Piuttosto che demonizzare Grillo, bisogna cercare di intenderlo perché le parole che adopera sono le parole chiave di qualunque vocabolario della sinistra. Lui non costruisce un progetto politico, ma fa un progetto populista su quella parole chiave, dobbiamo capire per quale motivo guadagna consenso.
(Gomez) A Milano si candida Umberto Ambrosoli con una grande lista civica che direbbe di no a Sel e all'Idv e forse apre all'Udc. Voi ci state senza primarie per la Regione Lombardia?
Io non sono il leader che gestisce tutto. É giusto che si discuta nel territorio. Io considero un vantaggio la disponibilità di Ambrosoli, credo che la più grande regione d'Italia non possa essere giocata ai dadi. Il nostro Giulio Cavalli è un'espressione bellissima delle battaglie di legalità, ma considero Ambrosoli una proposta di primo piano.
(Gomez) A me ha colpito l'impressione che lei, nella faccenda dell'Ilva, si sia fatto fregare da Riva. Nel senso che a suo tempo ci furono delle dichiarazioni molto positive rispetto al controllo dell’inquinamento. Poi abbiamo letto delle intercettazioni in cui emergeva palesemente l'intento truffaldino. Perché noi elettori dobbiamo fidarci di un candidato premier che si fa fregare da un grande industriale come Riva?
Non so cosa intende per farsi fregare da Riva. Io l'ho conosciuto nel 2005, e gli ho detto che tra noi il rapporto sarebbe stato abbastanza duro perché gli avrei sottoposto quotidianamente un tema che è il diritto alla vita degli operai e della comunità tarantina. Per decenni e decenni era rimasto un sarcofago chiuso quello del più grande siderurgico d'Europa. Ho raddoppiato gli organici dell'Arpa, ho consentito che fossero comperato le macchine per i monitoraggi e poi nella primavera del 2008 abbiamo avuto le evidenze scientifiche sulla diossina e nell'autunno del 2008 abbiamo varato, unica regione in Italia e di fronte all’assenza completa del legislatore nazionale, l'unica normativa che esiste che obbliga le grandi aziende a un abbassamento delle soglia di emissione. Abbiamo fatto la guerra in solitudine perché in quel momento nessun grande giornale e nessun inviato ci ha accompagnato. Eppure il ministro dell'ambiente dell'epoca, Stefania Prestigiacomo, disse chiedendo quella normativa così avanguardista sulle diossina mettevo a rischio la fabbrica e ventimila posti di lavoro. Ma io l'ho fatto.
(Sansa) Lei è stato toccato dagli scandali sanitari pugliesi ed è stato assolto, restano dubbi legati alla vicenda del senatore Tedesco. Ci si chiede: Vendola ha accettato il compromesso di prendere in squadra persone che avevano un conflitto d'interessi evidente o non se ne è accorto?
La modalità con la quale ho reagito alle inchieste è stata molto differente da quella che normalmente è andata in scena. C'è un problema: il mal costume bussa anche a casa del centrosinistra, non è una prerogativa del centrodestra. Con questa premessa io ho reagito non soltanto da quel lato, ma anche dal lato della sanità perché ho imposto un modello di selezione e formazione del management che oggi l'unico modello che c'è in Italia assunto dal ministro Balduzzi e citato dal premier Monti come modello impermeabilizzazione delle Usl rispetto all'invadenza della politica. Poi ho commesso degli errori di valutazione e li ho riconosciuti. (Ferrucci) Lei ha rivendicato un accordo con don Verzé per il San Raffaele.
Io ho rivendicato un accordo con il primo Irccs d'Italia secondo la valutazione dell'organizzazione mondiale della salute. Per una città devastata come Taranto. In questa storia non c’era nessun regalo a don Verzé. Anche perché la proprietà degli ospedali e dei campus era pubblica, quello che si consentiva era una gestione sperimentale di tre anni al San Raffaele. (Padellaro) Al centro del suo programma, per le primarie, lei intende mettere i due temi affrontati nei referendum americani: i matrimoni gay e la liberalizzazione dell’uso della marijuana?
Sono per l'abrogazione della legge Giovanardi e per un passo in avanti secco dal punto di vista della legalizzazione dell'uso personale delle droghe leggere. Sul secondo punto, ho parlato di me. Del diritto di avere diritti, non diritti dimezzati, allusioni, acronimi.
Se nel mondo progressista con Obama e Hollande e nel mondo conservatore con Cameron si può parlare di matrimoni gay, se un avanzamento sui diritti delle coppie gay può guadagnarsi in Sud Africa o in Argentina, non capisco perché l'Italia debba continuare a persistere in questa condizione di fanalino di coda dei paesi d'occidente.
(Ferrucci) Ci dica due idee per l'Italia.
Parità di genere, la restituzione minima al mondo femminile che deve capovolgere il maschilismo e la volgarità di regime. Nel prossimo governo ci dovranno essere metà donne e metà uomini. Dobbiamo copiare le cose migliori dall'Europa. Dovremmo copiare il reddito minimo garantito per gli inoccupati. Intorno agli 800 euro al mese.
(Padellaro) Diventa il primo ministro, quali ministri sceglie?
Dicevo, durante le primarie precedenti, mi piacerebbe avere Carlin Petrini per l'agroalimentare oppure che la legalità girasse intorno a don Luigi Ciotti e la sanità pensata come Emergency. Il mio ministro dell'Economia potrebbe essere Pier Luigi Bersani.

il Fatto 10.11.12
Pannunzio-Scalfari, il perché di uno strappo
di Angelo Cannatà


Innanzitutto la cronologia e il contesto: è buona regola non perderli di vista prima di raccontare un fatto, un evento, una presa di posizione, un giudizio. Pannunzio scrive di Scalfari: “Non ha veri legami o affinità ideali e morali con nessuno. Tutto è strumentale, utilitario; tutto deve servire alla sua ‘splendida’ carriera”. È una lettera a Leo Valiani, del 29 gennaio 1962. Non contestualizzarla è qualcosa di più di un errore di prospettiva, si rischia – va detto per amore della verità – di portare il lettore fuori strada. È quanto accade con l’articolo di Silvia Truzzi (Quell’instabile di Eugenio, il Fatto Quotidiano, 3 novembre 2012). È scritto bene. C’è stile. E il racconto – sull’epistolario Pannunzio-Valiani – procede scorrevole; alla fine però i conti non tornano.
PERCHÉ quel giudizio duro di Pannunzio su Scalfari? C’è un vuoto sulle ragioni, le cause, l’antefatto. Si accenna, è vero, agli “screzi tra il Mondo e il Partito radicale” (di cui Scalfari è vicesegretario), ma si sorvola, come fosse fatto marginale. È un errore. Si capisce poco dello scontro Pannunzio/Scalfari trascurando il tentativo del direttore del Mondo di utilizzare “il caso Piccardi”. Truzzi ha letto la seconda parte (XII capitolo) de La sera andavamo in via Veneto, ma non si è accorta, è strano, di un passaggio importante: col caso Piccardi, Pannunzio “colse al volo l’occasione per bloccare la marcia d’avvicinamento del Partito radicale al Psi e il suo progressivo autonomizzarsi rispetto all’originario gruppo del Mondo”. Scalfari non poteva essere più chiaro: lo scontro con Pannunzio è politico: la segreteria del Partito radicale “composta da Piccardi, Libonati, Arrigo Olivetti – e da me vicesegretario, si presentò dimissionaria (...) la direzione, a sua volta, si dimise in blocco e convocò il Consiglio nazionale. Questi fatti accadevano tra ottobre e novembre del 1961”. La cronologia, dicevamo. E il contesto. Ci furono mediazioni per evitare la possibile rottura con Pannunzio? Infinite. “Una mattina del gennaio ’62, poiché i tentativi fin lì esperiti non avevano dato alcun risultato, andai direttamente – racconta Scalfari – a casa di Pannunzio, preavvisando con una telefonata, nella speranza di convincerlo. (...) Fidavo nella ragion politica e nei sentimenti di amicizia. Ma fui deluso nell’un campo e, soprattutto, nell’altro. Trovai un uomo chiuso in difesa, amaro, ironico, presuntuoso come mai l’avevo conosciuto (...) Mi rispose con poche parole, dalle quali capii che ogni affetto e progetto comune erano scomparsi per sempre. (...) Disse che era stanco di riunioni, di direzioni, di segreterie, di sezioni, di ordini del giorno, di consiglieri comunali (...) Disse che l’occasione era buona per riportare il partito ad essere il club come l’avevamo pensato agli inizi oppure per spegnerlo senza rimpianti”. Non si tratta, qui, di discutere della validità o meno delle ragioni di Pannunzio: c’è una visione culturale, una certa idea (elitaria) della politica all’origine dello scontro. Questo conta. Scalfari è più realista. Il 20 gennaio del ’62 si riunisce il Consiglio nazionale del Partito radicale.
TENTA nuove mediazioni (“Tentai tutte le strade”, scrive). Racconta di una lettera a Leo Valiani (4 gennaio 1962): “Caro Leo, (...) penso che l’uscita dei nostri amici del Mondo dal partito sia il fatale preludio alla dissoluzione...”. Leo Valiani risponde (6 gennaio 1962): “Caro Eugenio, (...) se il Partito radicale non si allinea sulle posizioni politiche del Mondo Pannunzio se ne andrà dal partito”. La rottura fu inevitabile. Politica ed esistenziale. Sono questi fatti, e molto altro ancora (l’invidia di Pannunzio per il successo dell’Espresso) a “spiegare” – forse è meglio dire: a collocare nella giusta luce – il giudizio di Pannunzio del 29 gennaio 1962. Se si saltano o si minimizzano questi passaggi i conti non tornano, e Scalfari rischia di apparire – di essere presentato – come ciò che non è. Nel duro scontro politico e culturale di quegli anni saltarono anche i rapporti d’amicizia e “volarono parole forti”: assolutizzarle, senza un adeguato riferimento al contesto, significa fare un cattivo servizio ai lettori e alla verità storica. Infine.
QUANDO Scalfari parla del cupio dissolvi che prese Pannunzio, e del “complesso del padre” – cara Truzzi – utilizza senz’altro una chiave ermeneutica presa dalla psicanalisi; ma perché far credere ai lettori che sia l’unica interpretazione della rottura fornita dal fondatore di Repubblica? Non va bene. Ho chiesto più volte a Scalfari, negli anni di preparazione del Meridiano Mondadori, notizie sul suo rapporto con Pannunzio. Mi ha sempre risposto con parole piene di rispetto, quasi di devozione. “Fu uno scontro duro – caro Angelo – con tutto ciò che ne consegue in termini di dichiarazioni a caldo; saltò una splendida amicizia. Ma a distanza di molti anni porto ancora nel cuore l’insegnamento di Mario Pannunzio e Arrigo Benedetti, i miei maestri”. Ecco, anche questi aspetti – del rapporto Scalfari-Pannunzio – è bene che conoscano i lettori del Fatto. Per una visione più completa. E perché nessun lettore ingenuo pensi che ci sia la volontà di demolire l’immagine del fondatore di Repubblica, attraverso la presentazione, non ben contestualizzata, di un epistolario. Sono certo che le cose stiano così: è solo una “questione di metodo”. Di approccio sbagliato a un tema complesso. La diversità d’opinione – sulla trattativa Stato-mafia – va bene. Altro non è lecito nemmeno pensarlo

l’articolo che segue cita Massimo Fagioli
AgoraVox 12.11.12
Un "pensiero nuovo" di uguaglianza e libertà
di Fabio Della Pergola

qui