martedì 13 novembre 2012

l’Unità 13.11.12
I sondaggi: Bersani in testa Renzi punta al ballottaggio
Le rilevazioni Tecnè danno al leader Pd un vantaggio di 14 punti che cala a 12 se al voto vanno oltre 2 milioni e mezzo di elettori
Vendola è terzo
Buttaroni: «C’è un tasso di corrispondenza molto alto con gli elettori delle politiche»
di Marcella Ciarnelli


ROMA C’è un dato di fatto verificato a risultati acquisiti al termine di numerose consultazioni primarie. E cioè, conferma Carlo Buttaroni presidente dall’istituto di ricerca Tecnè, che «c’è un tasso di corrispondenza molto elevato tra gli elettori delle politiche e quelli delle primarie» e che «circa un elettore su quattro partecipa, presumibilmente, ad entrambe le consultazioni con un voto coerente».
Di conseguenza è particolarmente interessante il sondaggio condotto da Tecné che fornisce i dati su quale candidato si accingono a scegliere gli elettori che in questi giorni stanno richiedendo il certificato elettorale. Il campione, raccolto su tutto il territorio nazionale e composto da soggetti maggiorenni, è rappresentativo per sesso, classi di età, area geografica ed è stato estratto in modo casuale dagli elenchi telefonici. Le interviste realizzate dal 6 al 9 novembre hanno riguardato duemila soggetti più un sovracampionamento di mille elettori di centrosinistra.
FOTOGRAFIA DI UN FENOMENO
«L’indagine fotografa il fenomeno» dice Carlo Buttaroni. Per farlo i riflettori sono stati puntati su quel 5,2 per cento che «sicuramente» o «molto probabilmente» si recheranno al seggio per partecipare alle primarie. C’è anche un «probabilmente sì» al 2,1 per cento e un «più si che no» all’1,8.
Gli altri sono «meno analizzabili» perché il loro livello di mobilitazione è destinato a cambiare nell’avvicinarsi della scadenza e gli attuali «incerti» potrebbero andare a rendere più pesante la dote di voti di ogni singolo candidato. Gli incerti sono infatti una variabile e aumentano con il crescere dei votanti. Se alle urne si recheranno 1 milione e quattrocentomila elettori Bersani dovrebbero incassare il 40 per cento dei voti, Renzi il 26 per cento, Vendola il 19, Puppato il 3 e Tabacci l’1 con gli indecisi all’11 per cento. Scende di due punti il segretario Pd se al voto vanno in 2,5 milioni, Renzi sale di un punto, scende Vendola di due mentre Puppato resta fissa così come Tabacci e gli incerti passano al 14 per cento. Se cresce la partecipazione (consulta la scheda) Bersani registra uin calo e Renzi aumenta i consensi. Crescono anche gli indecisi.
La stima con due milione e mezzo di votanti, facendo una distribuzione in prercentuale degli incerti, porterebbe Bersani al 44 per cento, Renzi al 31, Vendola al 20 per cento, Puppato al 4 e Tabacci all’ uno.
Rispetto ad altri sondaggi condotti nei giorni precedenti a quest’ultimo c’è da registrare, man mano che ci si avvicina al voto, un maggiore impegno dell’elettorato di centrosinistra, innanzitutto del Pd, mentre si allontanano gli elettori di centrodestra, pur interessati in precedenza ad esprimere la loro opinione. Questo avviene perché le primarie sono viste dall’elettore, comunque si collochi, come uno strumento positivo di partecipazione collettiva. Questa volta poi a incoraggiare un già verificato atteggiamento di distacco c’è anche la possibilità, per ora confermata, di possibili primarie nel centrodestra.
Questo per quanto riguarda il primo turno. Se nessuno dei candidati supererà il 51 per cento si andrà al ballottaggio. Presumendo anche sulla base delle risposte al sondaggio, che si svolgerà tra Bersani e Renzi e limitandosi sempre a quel 5,2 per cento di campione, il segretario del Pd dovrebbe arrivare al 42 per cento mentre il sindaco di Firenze è accreditato di un 30 per cento. Gli incerti sono molti: il 28 per cento.

l’Unità 13.11.12
D’Alema: «Solo una mente malata può licenziare i 19»
Ieri l’ex premier a Pomigliano. Affollata assemblea alla sede del Pd
Per la prima volta dopo il referendum del 2010 si sono confrontati i segretari dei sindacati divisi da quel voto
di Massimo Franchi


«Solo una mente malata può aver pensato che per attuare la sentenza della Corte d'Appello di Roma si dovevano licenziare altri lavoratori per assumere quelli discriminati». Da Pomigliano Massimo D’Alema attacca Sergio Marchionne. A quasi due anni e mezzo dal traumatico referendum che divise in due i lavoratori della fabbrica e il mondo sindacale (un referendum in cui lo stesso D’Alema sostenne che «la priorità è la difesa del lavoro» e il salvataggio di «una realtà produttiva»), l’ex premier è tornato nella cittadina campana e ha incontrato i lavoratori dello stabilimento che produce la Panda. Proprio ieri sono tornati al lavoro i 2.146 riassunti della newco Fabbrica Italia Pomigliano dopo lo stop per la cassa integrazione (che tornerà comunque dal 26 novembre al 9 dicembre).
Un piccolo miracolo la visita di Massimo D’Alema a Pomigliano l’ha prodotto. Nella sala strapiena della ex Casa del Popolo, ora sede del Pd, invitato dal giovanissimo segretario cittadino Michele Tufano, per la prima volta dai giorni del referendum che ha diviso la città, in un incontro pubblico non televisivo sono tornati a confrontarsi i sindacalisti di parti avverse. Se nei giorni scorsi la sede della Uilm è stata oggetto di due diversi attacchi (sabato scorso durante la manifestazione di studenti e Cobas è stata imbrattata di scritte con spray rosso), ieri pomeriggio sono intervenuti il segretario Uilm della Campania Giovanni Sgambati, il responsabile Mezzogiorno della Fiom Massimo Brancato e il segretario della Cisl Napoli Giampiero Tibaldi. Le posizioni sono ancora lontanissime, ma già il fatto di essersi confrontati con rispetto è un passo avanti rispetto al clima di grande tensione che si vive in città.
«SERVE L’UNITÀ SINDACALE»
E proprio all’unità sindacale D’Alema ha dedicato un passaggio del suo intervento. «Auspico che si ritrovi perché le sfide cui si va incontro, richiedono l’unità sindacale e dei lavoratori per incalzare l’azienda in attesa della scadenza di luglio della cassa integrazione per i lavoratori dello stabilimento Fiat». Tornando ai giorni del referendum, D’Alema ha detto: «Sia chi ha firmato l’accordo, sia chi non l’ha fatto, ha agito in buona fede, nell'interesse dei lavoratori», ma «solo uniti si può affrontare il futuro pieno di sfide». Per il futuro «la Fiat deve dire cosa vuole fare: non si può interferire con gli investimenti di un'azienda privata, ma il Lingotto ha un debito di riconoscenza verso questo Paese». , mentre sulla situazione industriale del Sud, D’Alema ha rilanciato: «Quanto si investe nel Mezzogiorno è un tema essenziale, abbiamo un apparato industriale da salvare. O c’è capacità di promuovere nuovi investimenti, non solo pubblici e non solo nei settori industriali oppure i dati della disoccupazione saliranno e dovremo cercare solo di difenderci».
Il deputato del Pd è il primo politico sceso a Pomigliano. «Non sono qui per le primarie ma per i lavoratori. Ho già incontrato i lavoratori della Fincantieri, dell'Irisbus ha aggiunto è da quando faccio politica che incontro i lavoratori. Per me ha concluso è una cosa normale».
Domani invece a Pomigliano è prevista la manifestazione della Fiom in occasione dello sciopero generale nell’ambito della protesta del sindacato europeo. Diversa, ma non in contrapposizione con quella fissata in precedenza a Napoli con la segretaria conferale Elena Lattuada, davanti allo stabilimento Giambattista Vico si ritroveranno Maurizio Landini, Nichi Vendola, Antonio Di Pietro, Stefano Fassina e il professor Stefano Rodotà, che dopo il corteo, parlerà dal palco in piazza Primavera, nel centro città.

l’Unità 13.11.12
Cattolici e sinistra nel dna democratico
di stefano Fassina


Come Francesco Garofani e Antonello Giacomelli (l’Unità, 9 novembre), anche il sottoscritto è «profondamente convinto che senza l’apporto della cultura politica dei cattolici democratici, senza la loro attitudine riformatrice, il Pd non sarebbe mai nato».
Come loro, anche il sottoscritto è convinto che «il Pd che abbiamo costruito è ancora troppo lontano dall’ambizione che lo ha fatto nascere». Come loro è convinto che il cattolicesimo democratico e la sua distintiva lettura della dottrina sociale della Chiesa, lo ha ricordato bene Massimo D’Antoni in un recente commento per Leftwing, siano fonte preziosa di pensiero critico verso il paradigma economico ancora oggi dominante, sebbene non più egemone dati gli evidenti fallimenti. Infine, come loro, il sottoscritto è preoccupato dei tentativi, interni e esterni, di rappresentare attratta da una irresistibile deriva socialdemocratica una parte del Pd impegnata, certamente con limiti e errori, in una ricerca di autonomia culturale e politica per il nostro partito. Pertanto, vorrei provare a dare un contributo ad «accelerare il lavoro di consolidamento del progetto democratico». Per il bene del Pd e per il bene dell’Italia.
Sempre più spesso ho la sensazione che con lo sbrigativo richiamo alla socialdemocrazia si intenda liberarsi della critica a quello che viene considerato l’unico paradigma possibile, nonostante l’aggravamento della malattia delle economie e delle democrazie europee e la storica sconfitta subita nelle elezioni presidenziali degli Stati Uniti. Il problema di fondo è di ordine filosofico (se non fosse un termine rischioso, diremmo ideologico). Ma ha poco a che vedere con la socialdemocrazia. Il paradigma dominante può essere criticato? La critica implica, inevitabilmente, la ricaduta nel Novecento? Nell’euro-zona e nell’Unione europea, la Commissione, la Bce e il Consiglio definiscono specificazioni tecniche, articolazione deterministica dell’unico paradigma possibile, oppure fanno scelte politiche? A volte è evidente il fastidio intellettuale di fronte alla pretesa di dare il nome alle cose: il paradigma dominante non va battezzato. È oggettivo, assoluto. Definire «liberista» la visione prevalente e le policy da essa prescritte rompe l’incantesimo. Il battesimo la de-oggettivizza e rende il re nudo: espressione di interessi di parte. Legittimi, certo, ma di parte. La parte degli interessi più forti.
E poi, che vuol dire socialdemocrazia? I manuali di scienza della politica e di storia ne offrono esempi variegati nello spazio e nel tempo. Qual è il denominatore comune dell’universo socialdemocratico? La visione della società quale organismo semplice, strutturato in poche classi sociali rigide e omogenee, definite sul piano economico, della condizione lavorativa, del connesso reddito e della collocazione urbana? L’antagonismo capitale-lavoro? L’identificazione della persona, dei suoi valori, dei suoi interessi, dei suoi desideri, delle sue aspettative, con la sua condizione professionale? L’ancoraggio di una forza politica a riferimenti sociali esclusivi, in particolare, per quanto riguarda le forze della sinistra, al lavoro dipendente delle grandi imprese? L’organizzazione della politica attraverso partiti strutturati?
È evidente che l’universo socialdemocratico è irriproducibile. Per una ragione intuitiva: mancano i presupposti economici, sociali, culturali e istituzionali per la sua riproduzione. È finita la centralità del modo di produzione fordista (tra l’altro mai prevalente nell’Italia delle micro imprese e dei distretti), è in crisi la sovranità dello Stato-nazione, la dimensione sociale della persone è molto più articolata. Quindi, liberiamoci da equivoci fuorvianti. Oggi il segno della grande transizione in corso è la regressione, avvenuta e prospettica, delle classi medie sul terreno del lavoro. Oggi compito distintivo delle forze progressiste europee e occidentali della cultura, della politica, della società non è riconquistare quote di valore aggiunto per il lavoro dipendente, sebbene sia stato il più penalizzato dalla redistribuzione degli ultimi tre decenni. Oggi la priorità è definire e costruire, attraverso un’alleanza tra produttori, una regolazione dell’economia, almeno a scala dell’euro-zona, in grado di evitare lo schiacciamento delle democrazie delle classi medie tra populismi e tecnocrazie. Siamo attenti ai «moderati» perché siamo attenti al lavoro, in tutte le sue forme, subordinate e autonome, quale fondamento della democrazia.
Per contribuire a costruire una cultura politica progressista adeguata alle sfide del XXI secolo dobbiamo identificare chi vogliamo rappresentare e per quali obiettivi. A me pare che nostro distintivo compito sia rappresentare la persona che lavora. La persona che lavora in tutte le articolazioni dell’attività creativa. Senza, tuttavia, perdere di vista le asimmetrie di potere, quindi di libertà, di possibilità di affermare la propria irriducibile individualità, tra le persone nella dimensione della produzione e le differenze di interessi (da portare a incontrarsi, non a confliggere). La persona che lavora, non il lavoratore, perché «la condizione per una nuova stagione del lavoro è che esso superi la pretesa di esaurire la totalità dell’umano e si metta al servizio della fioritura dell’intera persona», come abbiamo affermato con le parole di Franco Totaro sin dalla prima Conferenza nazionale per il lavoro del Pd. L’obiettivo di fondo della nostra sfida ambiziosa è ridefinire i connotati dello sviluppo, quale condizione per rispondere all’«emergenza antropologica» segnalata da osservatori dislocati su un ampio spettro culturale. Quindi, uno «sviluppo umano integrale» che ricomprenda e vada oltre la «semplice» riconversione ecologica dell’economia. È una ricerca difficile, a rischio di sbandamenti. Per il sottoscritto, come tutti prigioniero del proprio linguaggio, è una ricerca avviata grazie all’aiuto di alcuni testimoni della dottrina sociale della Chiesa: nel confronto quotidiano con Emilio Gabaglio, negli incontri ricorrenti con Franco Marini, nelle rarefatte, ma sempre illuminati, conversazioni con Pierre Carniti.
Sono sicuro che tra chi ha radici nel groviglio socialdemocratico e chi ha respirato la declinazione progressista della dottrina sociale della Chiesa, come Garofani e Giacomelli, vi sono straordinarie potenzialità di sintonia innovativa. Se non ci fosse, il Pd lo dovremmo inventare per rispondere alle sfide, drammatiche ma affascinanti, del presente.

l’Unità 13.11.12
Bersani: «Primo, mai più condoni»
Scontro Vendola-Renzi
Un minuto e mezzo a risposta, i cinque candidati uno accanto all’altro
Tutti d’accordo sull’euro, divisi sui finanziamenti ai partiti, alleanze e diritti civili
di Maria Zegarelli


All’inizio un po’ tesi, poi sempre più sciolti. Scintille fra Matteo Renzi e Nichi Vendola, pragmatico e conciso Pier Luigi Bersani, sobria e critica con il governo Monti Laura Puppato nel suo completo nero bordato di bianco, disinvolto Bruno Tabacci. Rossa la cravatta del leader Pd, viola quella del sindaco fiorentino, grigia quelle del governatore pugliese e dell’ex assessore milanese. I «fantastici cinque», candidati alla leadership del centrosinistra si schierano dietro i podi trasparenti, un format da quiz alla Mike Bongiorno calato in una scenografia da «X factor» con uno sguardo al rigore degli States. Bianco rosso e verde (predominanza di rosso Sky) lo sfondo, un minuto e mezzo per ogni risposta, con il timer che scorre sullo schermo. Si inizia da tasse e euro, si finisce con l’appello agli elettori, passando per il Pantheon del centrosinistra. A sorpresa un Papa e un cardinale per i candidati più di «sinistra»: Bersani ci mette Papa Giovanni XXIII, Vendola il cardinal Carlo Maria Martini, mentre Renzi sceglie Nelson Mandela e la blogger tunisina Lina Ben Mhenni; Laura Puppato due donne, Tina Anselmi e Nilde Iotti. Tabacci sceglie Alcide De Gasperi e Giovanni Marcora.
Si parte dalle tasse: non si possono più alzare, spiega Renzi, bisogna stringere l’accordo con la Svizzera per i capitali esportati e l’Imu va tenuta così come è; vanno abbassate ai redditi medio-bassi per Bersani che insiste sugli incentivi alle imprese che investono su giovani e donne nel Mezzogiorno, sulla tracciabilità e la tassazione i grandi patrimoni immobiliari e finanziari. Un secco no, invece, per il segretario Pd, agli accordi con la Svizzera perché «così come sono non possiamo accettarli», ma soprattutto «mai più con i condoni». Vendola come il leader Pd insiste su tracciabilità e lotta all’evasione ma propone l’eliminazione dell’Imu sulla prima casa. Altro tema caldo è il patto di stabilità: toccarlo vorrebbe dire far male al Paese per il sindaco; per Bersani bisogna «aggiungere» qualcosa come misure per la crescita e un allentamento del rigore in cambio di investimenti per far ripartire l’economia nella zona Ue; Vendola propone un’Europa più forte a partire dal sistema di welfare, Tabacci non esclude un ritocco del patto di stabilità purché ci sia l’accordo tutti i partner. Ecco che si sta passando alla domanda successiva quando Laura Puppato fa notare al conduttore che tocca a lei, è il suo turno. È la prima gaffe di questa sfida tv in stile Usa.
La domanda su Marchionne è l’occasione per Renzi di «riscattarsi» per quel «con Marchionne senza se e senza ma». : «Caro ingegner Marchionne», mi hai deluso, la sintesi. Sassolino dalla scarpa: lo invita ad andare a Firenze, un «città che non è né piccola né povera». Nichi Vendola sembra ribattere polemicamente più al sindaco che all’Ad Fiat: «Caro ingegner Marchionne io non le ho mai creduto...». Applausi.
Sorride Bersani: «Guardi ingegnere che lei non sta parlando a qualcuno a cui si può raccontare di tutto... voglio sapere l’anno prossimo cosa succede per le politiche produttive dell’automobile». Aggiunge: «Osè» il piano aziendale. Un confronto che sembra soprattutto un botta e risposta tra Renzi e Vendola. Differenze sulla riforma del lavoro della Fornero: drastico Vendola per il quale «è uno sfregio alla civiltà del lavoro del Paese»; più morbido Bersani che tuttavia dice che «qualcosa va ritoccato: vanno bene le regole ma se non si dà una possibilità vera al lavoro con le regole si va avanti poco». Distanze sui diritti gay. «Tra massimalismo e minimalismo bisogna trovare la strada». Si piazza qui Bersani, tra Vendola e Tabacci. Indica la via tedesca come soluzione, dal riconoscimento delle coppie di fatto ai diritti dei bambini che vivono in coppie omosessuali. Tabacci cita l’Albo delle unioni civili decise dal sindaco di Milano, invita alla prudenza sul matrimonio tra coppie gay, Renzi propone la civil parternship e dice che il «problema ancora non è sciolto nel nostro programma» mentre Vendola non fa mistero: matrimonio e adozione anche per le coppie omosessuali. Laura Puppato è sulla stessa linea. Tutti d’accordo sul fatto che sia uno scandalo che l’Italia ancora non si sia dotata di una legge. A citare la legge contro l’omofobia, invece, è soltanto il segretario Pd, ricordando che per la terza volta è stata affossata. Guarda agli Usa Renzi per il finanziamento ai partiti: sì ma solo da privati; invita a non fare «demagogia» Tabacci; Bersani cita le proposte di legge del Pd al riguardo, dal dimezzamento del numero dei parlamentari alla diminuzione del finanziamento ai partiti. Piccolo colpo di scena: Vendola alla domanda di una sostenitrice di Puppato, sull’ordine di preferenza alla primarie se non fosse lui candidato, esordisce con un «ma siamo alla crudeltà». Ammette: «Non ce la faccio, non posso rispondere». Bersani, a cui viene chiesto se proseguirà con le lenzuolate risponde che sì: a partire da quella sulla moralità, il segnale più forte reintrodurre il falso in bilancio. Sintonia tra Bersani, Tabacci e Puppato sulle alleanze: progressisti e moderati. Vendola chiude a Casini, Renzi dice che segue lo «schema di Nichi». Annuncia 10 ministri, metà donne. Esclude Casini. Anche lui. Tabacci e Puppato replicano: demogogico dire che si governa l’Italia con 10 ministri. Chi ha vinto? Sul web arriva la prima risposta sicura: il centrosinistra.

La Stampa 13.11.12
Renzi: no all’alleanza con Casini
Bersani: allargare la coalizione progressista. Ma dopo Vendola anche il sindaco di Firenze chiude all’Udc
di Carlo Bertini


Nelle ore della vigilia del «Confronto» tengono banco le polemiche, ma durante il match non si può dire che i contendenti se le diano di santa ragione, anzi a tratti il rischio è un eccesso di fair play. Ma le regole ferree, un minuto e mezzo a testa e solo tre occasioni a testa di controbattere l’avversario, fanno piombare in casa nostra un format all’americana che evita i battibecchi e consente di far chiarezza sui contenuti di ognuno. E anche se la sfida su cui sono puntati i riflettori è quella tra i primi due favoriti alle primarie, Bersani e Renzi, alla fine ne esce una partita in cui tutti hanno il loro Xfactor: i «livepoll» di Demopolis vedono il sindaco in testa per la chiarezza del linguaggio, Vendola primeggiare come il «più coinvolgente» (secondo Renzi, terza la Puppato) e Bersani come quello con «il programma più concreto», seguito da Renzi e Tabacci.
Sul governo che verrà, c’è chi vuole Casini e chi no, come Vendola e Renzi; tutti d’accordo a cambiare la riforma del lavoro della Fornero; sull’Europa qualche screzio tra Renzi e Vendola; e sui costi della politica, tutti per tagliarli ma con ricette diverse.
Tasse Il primo a rispondere dal podietto è Tabacci: «Il peso fiscale è insopportabile per quelli che le tasse le pagano. E se le pagano tutti, si possono abbassare». La Puppato vuole «redistribuire il reddito con una corretta riduzione fiscale sui quelli medi e bassi». E’ il turno di Renzi: «Non si possono più alzare le tasse. E l’Imu resta così com’è». Vendola vuole una rimodulazione dell’Irpef, far pagare meno ai ceti medi e bassi, e rilancia la ricetta di Hollande, 75% di tasse per i redditi da 1 milione in su. Tira le fila del primo round Bersani, «abbassare le tasse sui redditi medio-bassi e sul lavoro e chi investe sull’occupazione. Nuove tasse? Per alleggerire l’Imu, ci vuole un’imposta personale sui grandi patrimoni immobiliari. E su quelli finanziari mi accontenterei di farli emergere, con una vera tracciabilità». Renzi sull’evasione propone il modello americano che fa recuperare 50 miliardi di dollari. E dà la prima botta, «a Nichi dico ok alla patrimoniale a chi ha più di 1 milione di euro, ma sono in tutto 796 oggi in Italia, o allarghiamo la base o è una barzelletta». «E’ ovvio - replica Vendola - che va allargata, ma penso all’incrocio di banche dati per un’anagrafe della ricchezza. Il problema, caro Renzi, è stanare la ricchezza e la patrimoniale, diceva Einaudi, è uno strumento di coesione sociale. E la tracciabilità di contante deve scendere a 300 euro». Concorda Bersani, che vorrebbe «una lotta europea ai paradisi fiscali, mai più un condono in Italia», e si guadagna il primo applauso a scena aperta.
Europa Renzi, come si comporterà con la Germania con la crisi dell’Euro?, chiede il moderatore di Sky, Semprini: «Soffriamo di provincialismo con la Germania. Ma vorrei gli stati uniti d’Europa, con l’elezione diretta del presidente», applauso a scena aperta. Vendola è apocalittico, «il progetto di Ue sta deflagrando, le ambizioni di Spinelli stanno finendo in un buco nero, l’Europa non c’è se non difende il suo welfare, ma la lotta contro il debito mina le fondamenta di socialità».
Bersani invece direbbe «alla signora Merkel di non litigare. Noi non abbiamo approfittato del calo dei tassi dopo l’euro ma la Germania ha preso il comando nell’economia reale. Mettiamoci d’accordo, controlliamo i bilanci, ma in cambio di un allentamento della stretta di austerità. Non c’è bisogno di toccare il patto di stabilità, ma di aggiungere alcune scelte».
Occupazione Quando tocca a Renzi, battuta ad effetto «questo è un paese dove troverai lavoro se conosci qualcosa, non se conosci qualcuno». E se Renzi propone il contratto unico sul lavoro di Ichino, investire sulla green economy, su internet e cultura, Vendola contesta la riforma della Fornero «uno sfregio alla civiltà del lavoro». E tutti chiedono a Marchionne di fare chiarezza sui progetti della Fiat, con qualche scintilla tra i candidati, quando Bersani e Vendola rinfacciano a Renzi di aver creduto in Fabbrica Italia e appoggiato il referendum su Pomigliano.
Diritti Si ai matrimoni gay e alle adozioni, dice Puppato. Renzi e Bersani propugnano il modello tedesco di diritti ai gay, ma no alle adozioni, per Vendola «è il momento di chiedere diritti interi e uguali per tutti, anche adottare un figlio».
Casta Cosa pensate di tagliare, stipendi, deputati, vitalizi? Renzi abolirebbe il finanziamento pubblico sostituendolo con il modello americano, gli altri no. Vendola metterebbe un tetto di spesa per le campagne elettorali; sul dimezzare i parlamentari tutti concordano. Bersani non vuole eliminare il finanziamento pubblico perché le banche d’affari finanziano le campagne negli Usa. Replica Renzi: «Se il referendum dice di abolire il finanziamento pubblico, si prendono in giro i cittadini se il giorno dopo fai una legge che lo reintroduce».
Coalizione Un governo per metà di donne lo vogliono tutti, «ma fatico a vedere Casini alleato», dice Vendola. La coalizione ideale di Bersani è «quelli che sono qui e liste civiche, ma senza essere settari, restiamo aperti ai moderati». Anche Renzi segue lo schema di Nichi, «parità di genere, con un governo di 10 persone, nella nostra alleanza non ci deve stare Casini, penso che ci voglia chiarezza, si dice all’inizio e non alla fine da che parte si sta. Di Casini ne abbiamo già abbastanza di nostri». "Posizioni diverse anche sull’adozione di figli per le coppie omosessuali Contestata la riforma Fornero del lavoro scambio di battute su Marchionne"

La Stampa 13.11.12
Nel nuovo format Nichi e Matteo all’assalto di Bersani
Sfidanti all’attacco, il segretario del Pd educato ma nervoso
di Michele Brambilla


Atteso e annunciato come un grande evento della storia, e quindi forse con enfasi eccessiva, il confronto di ieri sera su Sky probabilmente non sarà determinante per scegliere il candidato premier del centrosinistra.
Ma difficilmente si potrà più tornare indietro da un modo di fare politica, o meglio propaganda politica, che ieri sera ha avuto una sorta di battesimo nel nostro Paese. Quanto sono sembrati già vecchi, al confronto della sfida all’Ok Corral di ieri, i confronti tra Prodi e Berlusconi da Vespa.
Su questo nuovo ring gli sfidanti più a loro agio sono sembrati i più giovani, Matteo Renzi e Nichi Vendola, anche se Vendola ha 54 anni. Come cambierà il sistema fiscale? Come garantirà un posto di lavoro ai giovani? Mi dica la sua visione del mondo in un minuto e mezzo; per quella dell’Europa invece ha solo sessanta secondi. Mah, devono aver pensato Bersani e Tabacci, che vengono da altre scuole, Piazza del Gesù e Botteghe Oscure, riunioni notturne in nuvole di fumo, centralismo democratico e convergenze parallele. Quando la politica era fatta di dettagli, di distinguo. Difficile valutare i cinque sfidanti di ieri sera sui contenuti, quando i tempi di risposta erano più stretti che a «Chi vuol essere milionario».
Quanto interesse suscita un dibattito così fatto? Scendendo dal ponte della metropolitana di Assago, avevamo avuto l’impressione che tanta aspettativa fosse motivata. Una grande folla era infatti in coda. Solo avvicinandoci abbiamo visto, sulla testa di alcune ragazzine, il berretto dedicato a Gigi D’Alessio, in concerto lì al Mediolanum Forum, a fianco del Teatro della Luna dov’era in programma il confronto sulle primarie. Per il quale il vero pubblico, ovviamente, era a casa propria davanti alla tv.
I cinque sfidanti - anzi, «competitor» - si presentano sul palco alle 20,25, appena cinque minuti prima dell’inizio della diretta. Matteo Renzi è in mezzo: il sorteggio gli ha assegnato il terzo posto nel giro di risposte. Ha rinunciato alle maniche di camicia: meglio dare un segnale di rispetto che di diversità o, peggio, di giovanilismo (o, peggio ancora, di americanismo). È in giacca e cravatta come tutti gli altri maschi; Laura Puppato ha un abito scuro. Renzi pare quello più a suo agio. È anche il più alto, cosa che non guasta, specie se sei al centro. È anche quello che prende più applausi, anche se i supporter in sala sono stati divisi con il bilancino. Bersani sembra il più nervoso. Muove le gambe, cerca una posizione. Gianluca Semprini, il conduttore, sta seduto in fronte a loro. Quando alle 20,30 scatta la diretta, Renzi si mette le mani in tasca.
La prima domanda è per Tabacci, vecchio democristiano cui non par vero di non poter cominciare con un preambolo. Poi c’è Laura Puppato, quindi ecco lui, Renzi, il più atteso. Quando parte la domanda, allarga un po’ le gambe facendo pensare che le mani in tasca se le è messe per prendere i revolver. D’altra parte tra tutti i duellanti il più duellante è lui. È del Pd, ma gioca fuori casa. Ha il pregio di essere se stesso. Se Tabacci aveva appena invocato la patrimoniale, lui attacca la burocrazia, «non pensiamo di aumentare le tasse», insomma dice cose che piacciono tanto a molti del centrodestra ma pochissimo alla maggioranza del suo partito. Però tutti sono se stessi: lo è Vendola quando invoca Hollande e «più tasse per i ricchi», lo è Bersani quando accetta di essere il più lento nelle risposte, parla come ha sempre parlato, per qualcuno può sembrare un po’ il Ferrini di «Quelli della notte» ma è pulito, educato, finisce addirittura quasi sempre con qualche secondo di anticipo.
Sono tutti loro stessi anche quando si toccano i tasti più delicati, come il matrimonio gay. Non si nasconde Vendola, che cita Oscar Wilde, e non c’è da stupirsi. Ma sono coraggiosi anche Tabacci, Renzi e Bersani che non cercano l’applauso politically correct: non dicono di sì alle adozioni alle coppie gay e distinguono fra coppie di fatto e matrimonio.
Non è forse troppo lungo, questo confronto? Non c’è contrasto fra le risposte lampo e la trasmissione fiume? Perfino le pause per gli spot sono solo dei flash. I «fantastici cinque» (copyright sito del Pd) hanno solo il tempo di andare dietro le quinte a bere un bicchier d’acqua e a farsi consigliere dai propri spin doctor. Difficile restare compressi tanto a lungo. I più carichi di energia, Renzi e Vendola, a volte non si trattengono. Renzi qualche battuta sui vecchi (Tabacci e Bersani) che hanno fatto il loro tempo se la lascia scappare. Vendola cede un po’ al vendolese («La precarietà è il buco nero in cui è precipitata un’intera generazione»; «La cultura berlusconiana per la quale tutto ha un prezzo e niente ha un valore») e cerca di sforare sui tempi. Renzi gli dà una pacca affettuosa. Ieri sera hanno vinto loro due. Ma Bersani sa che la partita si giocherà su un altro terreno, che gli è più congeniale.

Corriere 13.11.12
Alleati, gay, Fornero. La sfida dei cinque
I candidati pd uniti sui no al ministro e a Marchionne. Divisi sui diritti e sull'asse con Casini Nel Pantheon Papa Giovanni (Bersani), il cardinal Martini (Vendola) e una blogger tunisina (Renzi)
di Maurizio Giannattasio


MILANO — Si muovono sulle gambe. Schivano. Prendono in giro l'avversario come Mohammed Ali. Ma il colpo del knock out non arriva. Nella formalizzazione estrema delle regole scelta da Sky, i «Fantastici 5» partono al rallentatore. Pier Luigi Bersani, Matteo Renzi, Nichi Vendola, Bruno Tabacci e Laura Puppato affrontano i 15 round del primo (e per ora unico) confronto delle primarie del centrosinistra con qualche apprensione. Lo si vede dai primi interventi: sparare 300 parole nel giro di 90 secondi, per rispettare i tempi. Un record che potrebbe spaventare anche «mitraglietta» Mentana.
Signori, si prepara il futuro governo del Paese. E allora andiamo a vedere che Italia hanno in testa i cinque contendenti. La coalizione. Il gruppo che dovrà affrontare la sfida elettorale. «Non dobbiamo essere settari — attacca Bersani — La mia coalizione è questa qua — dice il segretario del Pd, indicando i suoi colleghi sul palco — Ma sono pronto ad aprire la discussione anche con le forze moderate». Leggi Udc. Il rottamatore, che ormai ha lasciato la rottamazione nel dimenticatoio, replica: «Il mio governo deve essere fatto di dieci ministri. Metà uomini e metà donne — dice Renzi — Nella nostra alleanza non ci dovrebbe stare Casini perché credo alla libertà di dire le cose prima, riconosco a Bersani la fatica e il lavoro per tenere assieme tutto, ma credo che serva chiarezza, si dice all'inizio non alla fine con chi si sta e di Casini ne abbiamo già abbastanza di nostri». Ecco Vendola: «Non ho pregiudizi su Casini, ma faccio fatica a vederlo come mio alleato». «Poco serio — replica Tabacci in funzione anti Renzi — dieci ministri non esistono. Servono almeno 18 e 36 sottosegretari». Insiste la Puppato: «Non si possono fare promesse che poi non saranno mantenute, 10 ministri sono pochi».
Sono lì. Ognuno su un piccolo podio. Si capiscono alcune cose. Non dai contenuti, ma dallo stile discorsivo. «Caro Nichi» ripete due volte Bersani. Al «rottamatore» si rivolge con più formalità: «Come ha detto Matteo...». Anche Beppe Grillo è sottoposto a esorcismi. Bersani parla di populismo avanzante. Lo nominano solo Renzi e Tabacci: «Così si rischia di consegnare il Paese a Beppe Grillo». Ognuno cita i propri punti di riferimento. Per Bersani c'è papa Giovanni XXIII, «cambiava nel profondo senza spaventare; Alcide De Gasperi e Giovanni Marcora per l'ex democristiano Bruno Tabacci; Renzi sceglie Nelson Mandela e Lina, la blogger tunisina di 29 anni, testimone della Primavera araba; Nichi Vendola sente la mancanza del cardinale Carlo Maria Martini; pensa al femminile Laura Puppato: Tina Anselmi e Nilde Iotti.
Si evitano i colpi bassi. Forse troppo. E allora fa notizia la sostenitrice di Vendola, Serena Bramante, che si confonde e chiama il promotore di «Fermare il declino» Oscar Giannetto. Giannino, su Facebook, ci scherza sopra: «No! Oscar Giannetto no!». C'è grande sintonia su molti temi. Tutti pronti a condannare la riforma del lavoro firmata Elsa Fornero, idem sentire sull'amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne. «Mi sento deluso e tradito» dice Renzi, sostenitore della prima ora. Si avvertono differenze su un tema sensibile come i matrimoni gay e le adozioni da parte di coppie omosessuali. Sì al matrimonio gay e alle adozioni da parte di Laura Puppato e Nichi Vendola. Renzi propone la civil partnership, Bersani il modello tedesco. Entrambi concordi su un punto: «Sulle adozioni avrei ancora un supplemento di precauzione» dice Bersani. «Rifacciamo la legge sulle adozioni. Ma per gli omosessuali il problema ancora non l'abbiamo sciolto nel nostro programma» dice il sindaco di Firenze.
Chi ha vinto? Gli analisti si sono già scatenati: «Renzi il più chiaro, Vendola il più coinvolgente, Bersani il più concreto» dicono i primi dati dell'Istituto Demopolis. Ma la corona dei massimi è ancora in palio.

Corriere 13.11.12
Una sfida accesa, intensa, forse inutile
di Maria Teresa Meli


Primarie perché? Se (vista la materia, questo se occorre sottolinearlo e ripeterlo) la riforma del Porcellum di cui si discute in questi giorni al Senato dovesse veramente vedere la luce, non si capisce a che pro bisognerebbe chiamare i cittadini a scegliere il loro candidato premier.
La nuova legge, infatti, produrrebbe un sistema simil-proporzionale che, alle condizioni date, non consentirebbe a nessuno di vincere.
Nemmeno a Pier Luigi Bersani, il cui partito risulta il primo in tutti i sondaggi. Impossibile per il Pd raggiungere la soglia necessaria per ottenere il premio di maggioranza, anche mettendo in piedi un'alleanza ingestibile che vada dall'Udc ai comunisti italiani di Oliviero Diliberto.
Già può apparire un'anomalia la pratica delle primarie in un Paese dove non c'è l'elezione diretta nè del capo dello Stato nè del Presidente del Consiglio, ma utilizzare questo strumento quando si ha un sistema elettorale che non consente ai cittadini di scegliere governo e premier appare quanto meno paradossale. Se con la nuova legge, qualsiasi sia l'esito delle elezioni, i partiti saranno costretti a una piccola o grande coalizione da costruire a tavolino dopo il voto, potrebbe sembrare una presa in giro degli elettori convocarli per le primarie. Difficile dire, come pure fa qualcuno, sia a destra che a sinistra, che comunque con questo tipo di consultazioni si riavvicinano gli italiani alla politica. Semmai è vero il contrario: il cittadino si sentirebbe turlupinato a essere chiamato a esprimere un voto inutile.
Eppure, nel Pd come nel Pdl nessuno, o quasi, sembra nutrire dubbi di sorta. Le primarie si hanno da fare, quale che sia la legge elettorale che verrà. Il leader del Partito democratico Pier Luigi Bersani, che le vuole, sostiene che sono utili perché il candidato premier dell'alleanza o del partito vincente sarà poi il presidente del Consiglio anche di un eventuale governo di coalizione. Ma nessuno può assicurare che vada a finire veramente così e che le altre forze politiche si acconcino a fare da comprimarie del vincitore. Il segretario del Pdl Angelino Alfano ne ha bisogno come il pane: le primarie gli servono per affrancarsi definitivamente da Silvio Berlusconi. Questa è una valida ragione. Per lui, non per il cittadino elettore che aspirerebbe a poter decidere almeno il proprio candidato premier, visto che da qualche anno in qua, grazie all'attuale sistema elettorale, gli è stata negata la possibilità di scegliere chi mandare in Parlamento. Non tutti hanno la libertà di Matteo Renzi, che, archiviando per un momento l'amato dialetto fiorentino e utilizzando il più efficace romanesco, afferma: «E allora "tenemose" il Porcellum».
Scherza, ma fino a un certo punto, il sindaco di Firenze. Lui però non ha un partito da dirigere e può consentirsi il lusso di dire certe cose. Gli altri possono solo pensarle.
Il vero rischio, comunque, è che si finisca per modificare la legge elettorale cambiando solo le norme che regolano il premio di maggioranza e lasciando invece le liste bloccate. Per il povero cittadino elettore sarebbe una doppia beffa. Potrebbe partecipare alle primarie per dare un voto — inutile — al candidato premier, ma non a quelle per scegliere chi mettere in lista, onde evitare di avere per l'ennesima volta un Parlamento di nominati.

Repubblica 13.11.12
Due ore di confronto su Sky. Vendola: sì all’adozione tra gay. Tabacci: Monti sul Colle. Puppato: pensioni, riforma ingiusta
Primarie, sfida in diretta tv
Sfida a cinque senza colpi bassi tutti contro Fornero e Marchionne e solo Bersani apre a Casini
I modelli: per Bersani Papa Giovanni, per Renzi Mandela
di Giovanna Casadio


ROMA — A Vendola chiedono «Se non vince, chi voterebbe poi al ballottaggio? ». E il leader “rosso” dice «no, non ce la faccio, è una domanda cattiva, siamo alla crudeltà», e non indica nessuno degli altri sfidanti, suscitando le risate di Renzi. Il clima è tranquillo, non sono volati gli stracci ma neppure ha trionfato la noia, come qualcuno temeva. Il conduttore Gianluca Semprini incalza, i candidati sforano tutti il tempo di ogni risposta che è di un minuto e 30 secondi. La “csxfactor” - la sfida tv su Skytg24 nello studio di X Factor - di Bersani, Renzi, Tabacci, Puppato e Vendola è un successo, quantomeno su twitter. Il piatto forte arriva alle fine quando dalle scaramucce e dalle ricette non lontane su fisco, anti evasione e lotta alla precarietà - si passa allo scontro. È sul finanziamento ai partiti e poi sulle alleanze. Bersani difende il patto con Casini, insieme a Tabacci. Gli altri tre, a cominciare da Renzi, non ne voglio sapere.
Il “rottamatore” sui soldi alle forze politiche cala l’asso, attaccando «chi pur avendo governato», non ha varato la norma contro il conflitto di interessi e «ha preso in giro gli italiani con una legge sul finanziamento pubblico ai partiti». È un punto per il sindaco, che però di “rottamazione” questa volta non parla. Bersani
rimonta sulle ricette concrete. Quando dice: «Mai più paradisi fiscali, perché la ricchezza sa dove scappare ... e poi in Italia serve una parola chiara, mai più condoni, mai più». Serve piuttosto una patrimoniale per alleggerire l’Imu. Via l’Imu sulla prima casa - anche per Vendola - e una tassa sui redditi del 75% «da un milione in su». Subito Renzi rimbrotta: «La patrimoniale per chi ha più di un milione di euro va bene, ma in Italia sono solo 786». La massima distanza è tra Vendola e Renzi e, in subordine, tra Vendola e Tabacci. Però le differenze tra i candidati si accorciano quando si parla delle riforme Fornero e di Marchionne. I 5 sfidanti per la premiership
del centrosinistra esprimono sostanzialmente 5 no. Certo, la riforma delle pensioni piace a Renzi. Vendola va all’attacco sulla riforma del lavoro: «È uno sfregio alla civiltà
». Bersani condivide con Renzi il fatto che «bisogna scrostare, rinnovare la società» e aggiunge che comunque «la riforma Fornero non basta».
Puppato difende i giovani, altro che choosy o bamboccioni come «li definiva Brunetta». Renzi la corregge: «Bamboccione l’ha detto Padoa-Schioppa». Bersani replica: «Dammi un occhio e poi giudicami tra due anni perché in 48 ore non si risolve la precarietà». Su Marchionne, il sindaco “rottamatore” fa autocritica: «Io che le avevo creduto...». «Io che non le avevo mai creduto», incalza Vendola. E Bersani: «Caro ingegnere, lei sta parlando con qualcuno che non le beve, lei Marchionne è un po’ osè». Tensione tra Renzi e Tabacci su alleanze, Monti-bis e costi della politica: Il “rottamatore” denuncia: «Rispetto Tabacci e la sua storia, che ora gli ha permesso di distribuire poltrone con Monti di qua, e Casini di là. Ma così si consegna il paese a Grillo». Tabacci contro la demagogia di Renzi: «Un governo con dieci ministri non sta in piedi». Bersani bacchetta Renzi e Vendola sul no a Casini: «Non siate settari».
Sui diritti gay. Per Renzi ci vuole la civil partnership. Vendola non ricorre alla sua esperienza personale, però afferma che gli omosessuali non possono accontentarsi di spicchi di diritto: «Sì all’adozione per le coppie omosex». Bersani media: «Tra massimalismo e minimalismo bisogna trovare la strada, sono per la legislazione tedesca, ma sull’adozione sono per un principio di precauzione». Infine appelli e il pantheon. «Serve il cambiamento e un governo forte», per Bersani che cita papa Giovanni XXIII come suo punto di riferimento. Mentre Vendola (la sua bussola è il Cardinal Martini) invita al riscatto dall’era berlusconianiana: «Io un acchiappanuvole per un’Italia migliore». Renzi (Mandela il suo idolo) ironizza: «Sento dire se vince Renzi, finisce il centrosinistra, c’è chi crede alle profezie Maya e chi a D’Alema». In conclusione? Soddisfatti. Foto di gruppo e battuta di Renzi : «Io mi metto a sinistra di Vendola». Bersani twitta: «Bel confronto, siamo forti».

Repubblica 13.11.12
Centrosinistra all’americana
di Concita De Gregorio


CHE bello spettacolo, la politica che parla delle cose, i candidati che non si insultano, nessuno che grida, qualcuno che si alza dal pubblico e fa domande vere, dirette.
DOMANDE tipo: Vendola, se lei non fosse candidato chi voterebbe? Vendola che risponde: non ce la faccio, scusate, e ride. Ridono tutti. La sostenitrice di Vendola che chiede a Renzi del nucleare e si emoziona, Renzi che le risponde chiamandola per nome – “Vedi, Serena…” – e lo stile dell’uomo è già tutto qui. Aveva torto chi aveva paura di questo confronto e ha fatto di tutto perché andasse in onda su un canale dove lo vedono in pochi, sia detto per il futuro: sbaglia sempre chi ha paura.
Dalle otto e mezza di ieri sera per due ore si è visto su Sky un confronto serrato e civile, costruttivo e istruttivo fra candidati di un centrosinistra che finalmente torna ad esistere anche fra leader così come esiste fra gli elettori: persone diverse ma affini, preparate, serie, appassionate, con punti di vista diversi ma con un orizzonte comune, in grado di discutere dei destini del Paese e non solo di se stesse. L’idea geniale e feroce di chi ha organizzato il confronto fra i cinque candidati alle primarie del centrosinistra negli studi di X Factor poteva essere l’anticamera della definitiva resa della politica alla grammatica della tv, è stata invece una riscossa. Bersani, Renzi, Puppato, Vendola, Tabacci sono entrati proprio come fanno Simona Ventura e Morgan, Elio e Arisa, persino con la possibilità di confonderli. I giudici-professori universitari che giudicano la veridicità delle loro parole, l’intervento del pubblico. Tutto secondo format. Invece le parole della politica hanno vinto, seppure costrette nel minuto e mezzo a testa di cui ciascuno aveva disponibilità e dunque poco, certo, molto poco ma abbastanza invece per capire di cosa stiamo parlando, di chi. Nel confronto all’americana, tutti in piedi davanti al leggio trasparente, naturalmente il favorito era Renzi: uomo televisivo per eccellenza, bravissimo nel tempo breve, capace di usare il corpo e lo sguardo diretto in camera “all’americana”. E difatti di Renzi sono state forse le battute più efficaci, una per tutte: «dobbiamo dire ai giovani: troverai lavoro se conosci qualcosa, non se conosci qualcuno». Il sindaco aveva una cravatta viola come la sua Fiorentina, una pettinatura da bambino per bene, una bella giacca. Bersani ha fatto la parte del fratello maggiore, ha chiamato tutti i suoi avversari per nome come fossero vecchi amici e chi segue la politica sa che non tutti sono amici davvero, ha scelto di mostrarsi affidabile e rassicurante, ha parlato con calma usando il suo linguaggio – «è farina del diavolo», tipo – e sorridendo parecchio ogni volta che era il turno di Renzi. Vendola è arrivato da Vendola, presentato nella bio come “compagno di Eddy”: chi dubitava della sua convinzione ha dovuto ricredersi. Era appassionato e sincero, citava Spinelli, è riuscito persino ad essere sintetico. Laura Puppato, nuova per la grandissima parte del pubblico e fin qui completamente oscurata come un’improbabile outsider, ha mostrato di essere – lei pure – quel che è: una donna autentica, francescana come lei stessa si è definita, portatrice di valori e di proposte importanti e profondamente radicate nella sua esperienza di amministratrice. Ha parlato di tutela del suolo, di sprechi, di economia, di donne e di gay, di lavoro facendo riferimento sempre alla sua storia di sindaco, con un linguaggio desueto come quello del veneto contadino, quello di chi dice veicoli anziché macchine quando parla di auto. Tina Anselmi e Nilde Iotti, ha detto, i suoi riferimenti politici. «La mia storia parla per me – dice alla fine – ed è una storia di coraggio e concretezza». Tabacci ha scelto come “padrini” De Gasperi e Marcora, uomo della vecchia Dc capace ancora di parlare in modo convincente di «crisi morale ed etica». Sanguigno, competente, “montiano prima di Monti”, orfano.
Bersani, alla fine, ha detto che nel suo Pantheon c’è Papa Giovanni, perché «cambiava le cose rassicurando». Vendola ha scelto Carlo Maria Martini. Renzi ha chiuso quasi con un rap, «ho 37 anni sono un ragazzo fortunato». A Marchionne ha quasi scritto una lettera: «Mi hai deluso». Ha parlato ai bambini: «La politica è una cosa bella per la quale vale la pena di impiegare del tempo». Vendola: «Vedo il mio paese sprofondare nel fango, anche in quello del cinismo. Penso ai disabili, ai carcerati, al femminicidio delle donne uccise dai maschi proprietari», ha parlato di solitudine. «Vorrei un’Italia più gentile», quasi una poesia per me che sono un’«acchiappa nuvole». Bersani: «Ho creduto e credo in queste primarie che fanno bene a noi e al Paese. Riavviciniamo i cittadini alla politica. Con la rabbia sola e con l’indignazione non si risolvono i problemi. Ci vuole un cambiamento». Aveva una cravatta rossa come la sua storia. «Non vi chiedo di piacervi, vi chiedo di credermi», ha detto.
È difficile che le due cose vadano separate in questa Italia, in questa politica, in questa tv. Ma il dibattito di ieri sera – due ore in cui si è parlato di tasse, di casta, di lavoro, di privilegi, di diritti – è stato forse il primo atto di un modo nuovo di parlare agli elettori. Di un linguaggio nuovo, di un nuovo stile. Per sconfiggere la disillusione di chi non va a votare o ci va solo per protesta è questo che serve. Il confronto gentile, direbbe Vendola. La serietà, la competenza, il coraggio. Una bella squadra di persone diverse. Quel che non aiuta è la paura.


il Fatto 13.11.12
Casini contro Bersani “Piccolo uomo”


Sono amico di tutti e anche di Bersani, ma chi non sa distinguere tra i rapporti di amicizia e il resto è un piccolo uomo”. Se è vero che chi trova un amico trova un tesoro, il segretario democratico può stare tranquillo. Ma se Bersani cercava in Casini un alleato, ha più di un problema. La bozza della nuova legge elettorale ha portato il Pd e l’Udc su fronti opposti. Questione di sopravvivenza, ma ormai i due leader sono arrivati agli insulti. Eppure sembra sempre più lontana la possibilità di sostituire il Porcellum. La leader radicale Emma Bonino spiega che “il tempo per evitare una sanzione all’Europa è scaduto” e che “spiace dirlo, ma tutta questa pressione dal Quirinale per cambiare la legge è a livello di stalking”.

La Stampa 13.11.12
Il rischio della sindrome democristiana
di Marcello Sorgi


Se nel centrodestra temono che le primarie si risolvano in un flop, forse anche nel centrosinistra farebbero bene a cominciare a preoccuparsi: almeno dopo il dibattito di ieri sera. Doveva essere un confronto all’americana, quello su Sky, ma alla fine s’è risolto in una specie di congresso democristiano. Renzi ha cercato in ogni modo di ravvivarlo, giocando con la tattica dell’uno contro quattro. Gli altri hanno fatto spallucce, lasciandolo a sciorinare il solito campionario di battute, e continuando ognuno per conto proprio. Nel contesto, Tabacci è stato la rivelazione: l’usato sicuro che si impone per esperienza e capacità. Vendola, invece, la delusione (alla fine lui stesso ha ammesso di essere «un acchiappanuvole»). Quanto a Bersani, dall’alto della sua responsabilità, ha mostrato un distacco che gli impone posizioni sfumate.
Renzi è un contemporaneo che si sforza (e qualche volta ci riesce) di mostrarsi già collocato nel futuro, guarda tutto come se fosse alle sue spalle. Il suo pezzo forte resta D’Alema: quando ha detto che le previsioni del «líder máximo» sono come le profezie dei Maya, il pubblico si spellava le mani per gli applausi. E tuttavia non è riuscito a intaccare la calma inossidabile del segretario.
Bersani in certi momenti sembrava il notaio di un telequiz, in cui i concorrenti si affrontavano sotto i suoi occhi, ben sapendo che se alla fine il centrosinistra riuscirà a governare, il premier sarà lui. Se si scatenavano contro Casini, e tutti lo hanno fatto, con più o meno enfasi, il segretario sorrideva bonario, come se pensasse: «Divertitevi pure, che tanto poi ricucire tocca a me». Non ha mai attaccato nessuno, neppure Renzi, e in conclusione ha apprezzato che alla prima uscita pubblica in tv, la coalizione sia apparsa più unita che in passato: in fondo le primarie servono anche a questo.
Così che l’unico colpo basso lo ha giocato una sostenitrice di Renzi contro Laura Puppato, accusata di aver lasciato il posto di sindaco di Montebelluna per andare in consiglio regionale, e adesso, di lì, di volersi trasferire in Parlamento e forse al governo. Puppato ha incassato male, ma non malissimo, consapevole che essere l’unica candidata donna giocherà a suo favore, anche se la sua performance tv non è stata brillante.
Se Renzi s’è mosso da solo contro tutti gli altri è perché - il confronto di ieri sera lo ha dimostrato - difficilmente potrà vincere al primo turno. Chi per una ragione, chi per l’altra, Tabacci, Puppato e Vendola nelle urne delle primarie giocheranno contro di lui e a favore di Bersani. E non perché si siano messi d’accordo con il segretario, anche se si sono ben guardati dal criticarlo. Ma perché nessuno di loro, con evidenza, corre per arrivare al secondo turno, ma solo per presidiare una fetta precisa di elettorato di centrosinistra. In questo senso, ma solo apparentemente, dato che le primarie appartengono a un’altra epoca, il confronto tra i cinque riecheggiava i vecchi congressi della Dc: dove tutti fingevano di darsele di santa ragione dalla tribuna per due o tre giorni, salvo poi ritrovarsi uniti al momento di fare il governo e spartirsi le poltrone.

l’Unità 13.11.12
Legge elettorale, Pd e Pdl si parlano ma l’intesa è lontana
di Simone Collini


Resta alta la tensione sulla riforma del sistema di voto. Casini: «Possibile compromesso sul premio al 10%». Ma i berlusconiani fanno muro.
E’ ancora alta tensione sulla legge elettorale. Le distanze tra Pd e Pdl restano anche dopo gli ultimi contatti tra gli sherpa dei due partiti (Maurizio Migliavacca e Denis Verdini) e a meno che questa mattina non si riesca a trovare un’intesa in extremis, oggi pomeriggio la riunione della commissione Affari costituzionali del Senato farà registrare una nuova spaccatura che non sarebbe certo di buon auspicio in vista del passaggio in aula della discussione.
L’Udc, dopo che all’ultima seduta ha votato insieme a Pdl e Lega l’introduzione della soglia minima del 42,5% per poter accedere al premio di governabilità, ha aperto al cosiddetto lodo D’Alimonte (rilanciato per primo dal Pd) e sta lavorando affinché i due principali partiti che sostengono Monti trovino un accordo su questo terreno. Il problema è che il Pdl non ne vuole sapere di prevedere un premio da assegnare al primo partito nel caso nessuna coalizione riesca a raggiungere la soglia minima, se non di misura assai ridotta.
Il Pd, appoggiato in questo dall’Udc, sostiene che per garantire la governabilità sia necessario abbassare al 40% l'asticella e, se il premio non scattasse, assegnare un 10% di seggi aggiuntivi alla lista più votata. Il Pdl ha fatto sapere di essere disponibile a votare l’abbassamento di 2,5 punti percentuali della soglia, ma non a dare il via libera a un premio di quelle dimensioni al primo partito nel caso non venisse raggiunta.
Angelino Alfano si limita a sottolineare che sarebbe «un’anomalia» se il prossimo governo fosse sostenuto da una coalizione che ha incassato il 35% dei voti (a tanto viene data nei sondaggi l’alleanza dei progressisti), evitando di confrontarsi nel merito della questione, che in questa fase della discussione prevede la soglia (accettata dal Pd) e un premio di governabilità del 12,5% (il Pd voleva il 15). Ed evitando, anche, di confrontarsi col fatto che nel suo partito c’è già chi, come Daniela Santanchè, definisce il Porcellum un sistema migliore della bozza in discussione e chi, come Sandro Bondi, annuncia che voterà no in caso vengano mantenute le preferenze.
Gli equilibri tra le forze politiche, rispetto alla scorsa settimana, si sono modificati dopo l’apertura dell’Udc al lodo D’Alimonte. E potrebbero esserlo anche in misura maggiore se al Pd riuscirà di lavorare sulle contraddizioni che agitano Pdl e Lega, magari rilanciando sula proposta Calderoli, che prevede un premietto al primo partito pari al 25% dei seggi presi con proporzionale (il Pd potrebbe essere interessato se si ragionasse sul 30%). Ma i falchi, nel partito di Berlusconi, sembrano ancora prevalere e un’intesa appare dunque lontana.
NORMA ANTI CAMBIO DI CASACCA
In questa situazione un buon segnale arriva da Gaetano Quagliariello (nel Pdl è tra quanti lavorano per arrivare a un accordo col Pd) che insieme al vicecapogruppo del Pd Luigi Zanda ha presentato un emendamento che prevede possano essere costituiti nuovi gruppi parlamentari «solo se risultanti dalla fusione di gruppi preesistenti». Una norma anti-casacca, insomma, sulla quale il Pd si batte da tempo. Sul resto però le distanze rimangono, tanto da spingere Pier Ferdinando Casini a lanciare questo appello: «Non possiamo darla vinta all’antipolitica e a coloro che sperano solo, e stanno facendo danze propiziatorie in questo momento, che la politica non si metta d’accordo». Per il leader dell’Udc un’intesa si può e si deve trovare, altrimenti «saremo spazzati via». E se al Pd assicura che «nessuno vuole metterlo in minoranza», e che «il compromesso su un premio di maggioranza del 10% può essere benissimo accettato», al Pdl fa notare che il rischio è che rimanga in vigore il Porcellum: «Se lasciamo la legge così nulla di più facile che chi ha il 30% nelle urne prenda il 55% dei seggi. Un conto è un premio del 6 o 7%, un conto del 25%».
Anche Enrico Letta fa notare che «ogni momento che si aspetta è un aiuto al Movimento 5 Stelle e all’antipolitica». Però spiega anche che quella approvata «sarà una legge di compromesso», che quindi come tale «sarà transitoria».

l’Unità 13.11.12
Social Forum, via al primo sciopero europeo
di Rachele Gonnelli


Si contano le ore per il primo sciopero generale europeo, che sarà domani, rilanciato e fatto proprio dai movimenti, da Occupy agli Indignados, e dalle reti di associazioni, di economisti, di studenti che si sono riunite fino a ieri, proveniendo da tutta Europa, nel forum sociale a Firenze per il meeting di seminari e conferenze «Firenze10+10».
L’idea dello sciopero europeo contro le politiche di austerity imposte ai governi e pagate a caro prezzo dalle fasce sociali più deboli e dai lavoratori è stata lanciata dai sindacati portoghesi e subito raccolta dalla Cgt, la principale confederazione sindacale spagnola, quindi è stata fatta propria dalla Confederazione dei sindacati europei, la Ces. In Italia tra i tre sindacati confederali aderenti alla Ces solo la Cgil ha aderito, insieme alla Fiom, e non Cisl e Uil mentre ha aderito e anche qui si tratta della prima volta per una mobilitazione indetta dalla Ces il sindacalismo di base, in particolare i Cobas. «Abbiamo iniziato a tessere un rapporto con i movimenti, le associazioni di intellettuali europee e il sindacalismo locale spiega Sergio Bassoli del Dipartimento internazionale della Cgil che andrà avanti su questi temi per l’organizzazione dell’AlterSummit ad Atene, insieme ai sindacati greci, in concomitanza con lo Spring summit dei ministri finanziari ed economici a fine marzo e poi nel Social Forum mondiale che si svolgerà a Tunisi dal 26 al 30 marzo per fondare un nuovo partenariato e una nuova cittadinanza mediterranea». Lo sciopero pan-europeo di domani è dunque solo il primo «storico» passo verso una confluenza di percorsi e piattaforme di mobilitazione che superino i confini nazionali, e quindi siano in grado di rispondere a logiche e diktat che sono già sovranazionali.
In questo primo passo la confluenza è ancora da perfezionare. Così lo sciopero generale riguarda solo Portogallo, Spagna, Grecia, Italia, Cipro e Malta. Ma ci saranno iniziative e presidi anche nell’Europa del Nord, a cominciare da una «manif» studentesca a Parigi. In Italia lo sciopero della Cgil è di quattro ore per tutte le categorie, tranne scuola e pubblico impiego che si fermano per otto ore e alcune Regioni come Umbria e Abruzzo che pure scioperano per l’intera giornata. L’iniziativa clou per la Cgil è a Terni, con comizio del segretario generale Susanna Camusso a mettere in risalto il problema della deindustrializzazione di siti importanti come le acciaierie Thyssen. Il segretario Fiom Maurizio Landini sarà invece a Pomigliano. Manifestazioni e presidi sono organizzati nella stragrande maggioranza dei capoluoghi d’Italia. In alcune realtà con manifestazioni studentesche, in gran parte organizzate dalla Rete della Conoscenza e in altre dai Cobas tra cui quella a Roma in piazza della Repubblica alle 10.

l’Unità 13.11.12
Blitz di Forza Nuova alla festa per i bimbi immigrati
Hanno fatto irruzione a Pontedera durante la cerimonia organizzata per 603 bambini
di Massimo Solani


Non hanno avuto rispetto neanche per i bambini o per la festa che era stata preparata proprio per loro. Per farli sentire italiani davvero, loro che in Italia sono nati e cresciuti. Che hanno imparato la nostra lingua prima ancora di quelle dei paesi di provenienza dei genitori, che hanno studiato la nostra storia a scuola e che, nonostante questo, sono costretti da una legge assurda ad essere italiani di serie B. Sabato pomeriggio erano 603 quelli riuniti insieme alle proprie famiglie al teatro Era di Pontedera, in provincia di Pisa, per ricevere dal Comune la cittadinanza italiana. Una festa, appunto, rovinata da una decina di militanti di Forza Nuova che hanno fatto irruzione in sala gridando slogan contro l’immigrazione e lanciando in aria volantini che riportavano una frase di Platone: «Quando il cittadino accetta che chiunque gli capiti in casa, da qualunque parte venga, possa acquisirvi gli stessi diritti di chi l’ha costruita e c’è nato c’era scritto quando i capi tollerano tutto questo per guadagnare voti e consensi in nome di una libertà che divora e corrompe ogni regola ed ordine: così muore la democrazia, per abuso di se stessa e, prima che nel san- gue, nel ridicolo».
Qualche minuto di scompiglio, poi è stata la sicurezza e alcune delle persone presenti in platea, fra cui i genitori di alcuni bambini e l’ex sindaco di Pontedera Paolo Marconcini, a respingere il gruppetto di neofascisti e a costringerli a lasciare il teatro assieme ai loro striscioni. Pochi minuti di gazzarra che hanno lasciato però una ferita profonda alla città e l’indignazione di una intera comunità. In lacrime il sindaco Simone Millozzi che ha stigmatizzato «l’atteggiamento squadrista e nazista di pochi idioti contro una cerimonia che, riunendo italiani e stranieri, adulti e bambini, dava un forte senso di comunità». Solidarietà al sindaco è stata espressa dal collega di Pisa Marco Filippeschi: «si è voluto sporcare una cerimonia che celebrava il sacrosanto diritto di questi bambini a sentirsi ed essere italiani ha commentato Ma queste azioni non devono intimidire, bensì spingere ad andare avanti nella tutela dei diritti». Da parte sua, travolta dalle polemiche, Forza Nuova ha provato a spiegare il senso della propria iniziativa parlando di una protesta «assolutamente platonica e non violenta» non diretta contro gli immigrati «e men che meno contro dei bambini» ma rivolta ad una «classe politica che sta portando l’Italia alla rovina sociale». «Nessuno spiegava la nota è stato minimamente aggredito dai militanti di Fn nonostante i patetici e isterici tentativi di provocazione da parte di alcuni presenti. Abbiamo la coscienza a posto». Parole che non spostano di un millimetro la questione relativa alle scorribande neofasciste che si ripetono sempre più spesso in Italia. Per Gianluca Mengozzi, presidente di Arci Toscana, e Paolo Beni, presidente nazionale dell’Arci, è infatti arrivata «l’ora di affermare senza reticenze che Forza Nuova è un’organizzazione fascista, agli antipodi della democrazia», e che «va contrastata l’agibilità politica di forze che si ispirano a parole e messaggi di chiara marca fascista».
Ieri intanto il sindaco di Pontedera Simone Millozzi, che per domani ha indetto un consiglio comunale aperto su quanto accaduto, ha presentato una denuncia al commissariato di polizia per i fatti di sabato. «L'iniziativa bellissima di sabato pomeriggio ci dice che il percorso è quello giusto. Si tratta di una grande battaglia di civiltà e di dignità che deve provare unito tutto il Paese», ha commentato il primo cittadino. Che ha invitato tutti i sindaci a seguire l’esempio di Pontedera e ad organizzare iniziative analoghe. Un invito condiviso anche dal presidente dell’Arci, e sindaco di Reggio Emilia, Graziano Del Rio. «Quanto avvenuto sabato scorso è un attacco alla convivenza pacifica, all’idea stessa di futuro dell’Italia ha spiegato Lo dico come cittadino, come sindaco e presidente dell’Anci, ma anche in nome della campagna “L’Italia sono anch’io”, di cui ho l’onore di presiedere il Comitato promotore». «Manifestare in forma violenta la propria chiusura di fronte ad una società che cambia, e farlo coinvolgendo i bambini, è semplicemente vergognoso aggiunge Delrio sono segnali che non vanno in alcun modo sottovalutati, e ai quali le istituzioni devono saper rispondere con determinazione, coraggio e tempestività».

l’Unità 13.11.12
Roma. Frasi antisemite e svastiche sui muri di due licei


«Viva Hitler», «Noi la partigiana la sodomizziamo» e «Collettivo ve lamamo» (cioè vi accoltelliamo). Il tutto firmato con due croci uncinate. Sono le scritte comparse sui muri esterni del liceo Manara a Monteverde, a Roma, dove sono molti gli iscritti di religione ebraica e per il prossimo 19 novembre, giorno della promulgazione delle leggi razziali, è in programma un incontro sul negazionismo. «Non è la prima volta che subiamo minacce», hanno raccontato i ragazzi del Manara, che
hanno indetto una colletta per comprare la vernice che servirà a cancellare le scritte. Scritte simili, poi, ieri sono apparse anche sui muri del Mamiani, a Prati. «Frasi in due colori, il che significa che sono state fatte da un gruppo organizzato, che inneggiano all'Olocausto con espressioni tremende oppure minacce come “Il Mamiani brucerà”», hanno raccontato gli studenti che già sabato scorso avevano provveduto a cancellare inni al Duce scritti nel cortile interno della scuola.

l’Unità 13.11.12
Polverini, il Tar dà 5 giorni per convocare le elezioni
I giudici: «In caso contrario si commissari la Regione»
L’ex governatrice ricorre al Consiglio di Stato
Zingaretti: basta alibi
di Fed Fan.


Il Tar del Lazio boccia i tentennamenti di Renata Polverini: la governatrice uscente del Lazio deve «indire entro 5 giorni le elezioni». Che dovranno svolgersi entro 90 giorni dallo scioglimento del Consiglio regionale, avvenuto il 28 settembre. Urne, quindi, entro fine dicembre.
In caso di inadempienza, proseguono i giudici amministrativi che hanno accolto l’esposto del Movimento Difesa del Cittadino, dovrà muoversi il ministro Anna Maria Cancellieri commissariando la Regione. Il Viminale è nominato sin d’ora commissario ad acta, nella persona del ministro o di un suo delegato.
La reazione della Polverini è il ricorso al Consiglio di Stato, lamentando che questa pronuncia «non è in linea con le precedenti del 2010». La giurisprudenza insomma si sarebbe capovolta a sue spese. L’intenzione sembra quella di salire sulle barricate: «Devo rispettare lo statuto regionale. Resta la mia volontà di assecondare un indirizzo del governo per unificare la data del voto a quella delle altre regioni e di ridurre a 50 il numero dei consiglieri». I quali, per il momento, continuano a percepire gli emolumenti mentre la presidente prosegue a varare delibere e provvedimenti come se la legislatura regionale fosse ancora salda in sella.
La pronuncia è un duro colpo per le strategie del Pdl. L’obiettivo dichiarato del partito di Alfano e Berlusconi è abbinare in un election day le difficili regionali Lazio, Lombardia e Molise per evitare che la prima (molto probabile) sconfitta riverberi gli strascichi sulle altre competizioni. Ma lo schema al quale molti nell’ex centrodestra (compresa la Lega di Maroni) lavorano dietro le quinte è l’abbinamento ad aprile con il voto politico. Un “o la va o la spacca” che potrebbe se non altro ridurre lo svantaggio. Un’ipotesi che è sul tavolo del governo. E sulla quale Monti che però descrivono come non favorevole sta esaminando sotto il profilo del risparmio per le casse dell’erario.
Intanto però la sentenza costringe a una brusca accelerazione sulla questione laziale. Gioisce il centrosinistra: «È una straordinaria vittoria per i cittadini del Lazio che hanno atteso per 46 giorni dice il candidato del Pd Zingaretti In questi mesi una destra irresponsabile e arroccata al potere e ai privilegi ha cercato in tutti i modi di calpestare il loro diritto al voto. Ora basta alibi». Enrico Gasbarra, segretario del Pd regionale nel toto-nomi per la corsa al Campidoglio: «Si chiude una ferita alla democrazia, ora Polverini smetta di calpestare le istituzioni».
Di avviso opposto Francesco Storace, tra i principali sponsor della Polverini (nonché fiero avversario delle sue dimissioni): «Hanno fatto un pasticcio tra Palazzo Chigi e Viminale. Un decreto scritto male e che il Parlamento sta correggendo in peggio ha complicato le procedure. Ora Monti si svegli ed eviti di provocare un astensionismo enorme facendoci votare col panettone in mano». Assolto per la vicenda Laziogate, il leader della Destra non esclude di tornare a correre per la Pisana. Protesta anche lo stato maggiore del Pdl. Cicchitto, Gasparri e Quagliariello all’unisono: «Inevitabile il ricorso in secondo grado».
E adesso? La Polverini non vuole cedere. Aveva appena ribadito la sua linea: «Ho dato la mia disponibilità al governo per votare insieme a Lombardia e Molise, per 50 consiglieri e senza listino». No al diverso trattamento prospettato dal Viminale, con il Lazio al voto con 70 consiglieri, senza rendere operativo il taglio previsto dalla normativa.
Occhi puntati, adesso, su Palazzo Chigi. Che nei giorni scorsi era salito alla ribalta per una polemica legata proprio ai legali della Polverini. Francesco Saverio Marini, avvocato della governatrice presso il Tar, era anche capo della segreteria del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Antonio Catricalà. Poi quest’ultimo ha diffuso la lettera di dimissioni di Marini: «Già in data 2 novembre 2012 il professor Marini si era dimesso, per motivi personali, dall’incarico di capo della segreteria tecnica del sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio e il sottosegretario in data 5 novembre aveva comunicato agli uffici l'accettazione delle dimissioni».

Corriere 13.11.12
La patrimoniale
Si paga già in Francia e Svizzera Berlino punta a quota 2 milioni
di Giuditta Marvelli


MILANO — Francia e Svizzera ce l'hanno da sempre. La Spagna l'ha resuscitata per far fronte alla crisi. La Germania l'ha dismessa nel 1997, ma alcune forze politiche vorrebbero rimetterla in pista, come accade anche in Austria. La Gran Bretagna non l'ha mai avuta: e ora ci pensa. La patrimoniale è tornata di gran moda e fa capolino nei dibattiti politici di molti Paesi europei. L'accenno («nessun annuncio», ha precisato il premier) fatto ieri da Mario Monti a una tassa sul valore complessivo della ricchezza posseduta dagli italiani si inserisce quindi in un filone internazionale assai prolifico.
In realtà l'Italia — che non figura tra gli Stati titolari di una vera e propria patrimoniale sistematica — ha adottato per il momento uno «spezzatino» di genere. Nell'ultimo anno, infatti, oltre all'Imu (la patrimoniale sugli immobili che ha sostituito l'Ici), è arrivata anche la «patrimonialina» sui rendiconti degli investimenti finanziari, pari allo 0,1% nel 2012 e allo 0,15% a partire dal 2013, con un minimo di 34,2 euro.
Ma come sono quelle degli altri? Nell'euro brilla il caso francese. Con un nome che sembra uscito da un romanzo di Honoré de Balzac, impôt de solidarieté sur la fortune, si chiede di più ai contribuenti benestanti con beni mobili e immobili da 1,3 milioni di euro in su. Nell'imponibile case, investimenti, polizze sulla vita, barche, aerei da turismo, cavalli da corsa e gioielli, non le opere d'arte e i beni produttivi. L'imposta, introdotta nel 1981 da François Mitterrand e addolcita da Nicolas Sarkozy, è stata appena rinvigorita da François Hollande, con un'aliquota dello 0,55% per i possedimenti compresi tra 1,3 e 3 milioni di euro e dell'1,8% per chi va oltre i 3 milioni. Nel 2011 ha messo nelle casse del Fisco 4,4 miliardi di euro. Ora, se il piano di Hollande funziona, dovrebbe rendere di più. L'applicazione è complessa e prevede delle franchigie per chi supera di poco le soglie minime che fanno scattare le diverse aliquote.
Di un meccanismo simile si è discusso negli ultimi mesi anche sul tavolo politico della Germania. Alcuni deputati della Spd (il partito social democratico tedesco) vorrebbero reintrodurre dal 2014 la tassazione sui patrimoni superiori a 2 milioni di euro, con un'aliquota dell'1%. Anche in questo caso ci sarebbero delle franchigie per rendere meno duro l'impatto della tassa. «Per i tedeschi si tratterebbe di un revival — spiega Giuseppe Corasaniti, professore associato di diritto tributario nell'Università di Brescia — . La patrimoniale, Vermögensteuer, che colpiva immobili e attività finanziarie fu infatti bocciata dalla Corte costituzionale tedesca nel giugno del 1995». In seguito allo stop, dovuto alla disparità di trattamento nella valutazione di beni immobili, più favorevole rispetto alle attività finanziarie ai fini della determinazione dell'imponibile, l'imposta non fu più prelevata a decorrere dal 1997. Nel piano della Spd si tasserebbero si persone fisiche che società, con una previsione di gettito pari a 11,5 miliardi, l'1,8% del Pil tedesco.
Anche gli svizzeri e i norvegesi pagano una patrimoniale sulla ricchezza: nella Confederazione ogni cantone decide aliquote e franchigie. In Norvegia si paga a partire da 700 mila corone (circa 100 mila euro): una tassazione ad ampio raggio rispetto al modello francese, giustificata dal fatto che il prelievo sui redditi è piuttosto basso (28%). «Tra gli Stati che hanno provvisoriamente stabilito una patrimoniale per fra fronte alla crisi del debito c'è la Spagna», spiega uno studio a cura dello studio associato Bernoni di Milano. Si versa oltre i 700 mila euro con aliquote comprese tra lo 0,2% e il 2,5%. A mitigare il tutto, un'esenzione sul valore della prima casa.

Corriere 13.11.12
Il Consiglio di Stato sull'Imu per la Chiesa I dubbi sul «no profit»
di M. Antonietta Calabrò


ROMA — Potrebbe essere parzialmente negativo il parere che oggi o al massimo domani sarà depositato dal Consiglio di Stato in relazione al nuovo Regolamento (un decreto del Ministero dell'Economia) sull'applicazione dell'Imu per gli immobili ad uso misto (commerciale e non commerciale) degli enti no profit, compresi quelli della Chiesa cattolica. Se da un lato — grazie ad una nuova norma contenuta nel comma 6 dell'articolo 9 del decreto legge sugli enti locali, che oggi la Camera convertirà in legge — il Governo ha il potere di emanare il nuovo Regolamento (è stato così superato un primo parere negativo del Consiglio di Stato dovuto appunto alla carenza di delega dell'esecutivo nell'emetterlo), dall'altra, il contenuto del Regolamento non è stato giudicato soddisfacente rispetto ai parametri europei. La decisione (presa nel corso dell'adunanza della sezione consultiva di Palazzo Spada, giovedì scorso) è già stata scritta dal relatore Roberto Chieppa, e ora è all'esame e alla firma del Presidente del Consiglio di Stato, Giancarlo Coraggio. Infatti con la prima decisione del 4 ottobre, il Consiglio non era entrato nel merito del Regolamento (che peraltro è stato riproposto sotto forma di decreto ministeriale senza cambiamenti rispetto alla prima versione). Ma essendo ormai stato superato l'ostacolo della carenza di potere del governo dal momento stesso in cui è entrato in vigore il decreto legge sugli enti locali, il nuovo esame del Consiglio di Stato è entrato nel dettaglio. E mentre, secondo il governo, la disposizione è «in linea con gli orientamenti più volte espressi dal Governo e con le richieste dell'Unione europea, e essa non è stata modificata in alcuna parte dall'esecutivo durante l'esame alla Camera». Non altrettanto positivo sembra essere il giudizio del Consiglio. Una parte del Regolamento sotto esame è diretta a definire i requisiti, generali e di settore, per qualificare le diverse attività come svolte con modalità non commerciali. Essi — secondo il giudizio del Consiglio di Stato — non sarebbero in grado di superare le obiezioni europee nel corso della procedura d'infrazione alle regole di concorrenza, già aperta. Anche in caso di bocciatura del Consiglio, il governo in ogni caso può riproporre tal quale il Regolamento motivando le sue scelte. Per il direttore del giornale dei vescovi, Avvenire, Marco Tarquinio, non c'è nessuna opposizione da parte della Chiesa alla linea del rigore perseguita dal governo Monti: «Il cardinale Bagnasco su questo è stato chiarissimo a suo tempo ed inoltre le norme erano già chiare. E si smetta di stare dietro a leggende nere come quella che circola ancora della cappellina piazzata negli enti commerciali per non pagare le tasse».

Repubblica 13.11.12
Imu-Chiesa, ecco l’offensiva pro-esenzione
Il governo cambia idea su emendamento Pdl: “Nessun blitz”. Ma potrà ancora fare sconti
di Valentina Conte


Il 4 ottobre il Consiglio di Stato boccia con un parere obbligatorio ma non vincolante il regolamento sull’Imu alla Chiesa e agli enti no profit
Il governo corre ai ripari e amplia la sua delega infilando nel decreto Enti locali il comma 6 all’art. 9, tenendo sconti e istruzioni di calcolo
In commissione alla Camera, però, l’emendamento Lupi-Toccafondi (a sinistra) amplia le esenzioni. Il governo dà l’ok, poi fa retromarcia

ROMA — «Nessun blitz, nessun arretramento». Ma conferma della linea di «assoluto rigore e trasparenza». Il governo affida le sue «precisazioni» a un comunicato pomeridiano. E risponde così a Repubblica, che ieri è tornata a parlare di Imu sugli immobili di Chiesa e no profit, laddove si utilizzano per fare utili. Dopo la bocciatura del regolamento da parte del Consiglio di Stato, il 4 ottobre scorso - di forma, per un eccesso di delega, ma anche di sostanza, per la presenza di “sconti” che ridefiniscono nell’ordinamento italiano ciò che è o non è commerciale - il governo si allarga la delega. Poteva invece stralciare gli “sconti”, come suggerito dai giudici, e teneta re solo il regolamento, dunque le istruzioni su come calcolare la porzione “profit” degli immobili ad uso misto (volontariato, culto, attività politica o sindacale non pagano né pagheranno). Invece no. Tiene assieme istruzioni e sconti. Ma prima appunto si allarga la delega (che gli deriva dalla legge sulle liberalizzazioni). E dove lo fa? Nel primo strumento normativo a disposizione: il decreto sugli Enti locali, allora in commissione alla Camera. Lì viene inserito il comma 6 all’articolo 9. Norma che ieri Palazzo Chigi, nel suo comunicato, difende a spada tratta. Dicendo non solo che la disposizione è in linea «con le richieste dell’Unione europea», ma anche rivelando di aver «ripristinato il testo originario». Da cosa e da chi? Premesso che qui ciò che conta è il testo in sé e non il suo iter, scopriamo però che una storia quel testo in effetti ce l’ha. Venerdì 2 novembre, il dl Enti locali è all’esame delle commissioni congiunte di Montecitorio, Affari costituzionali e Bilancio. Poi, arriva un emendamento, proprio al comma 6 articolo 9. E cosa dice? Aggiunge poche paroline: «in via diretta o indiretta». Cioè: le attività senza fine di lucro, che permettono l’esenzione dall’Imu, possono essere svolte in via diretta «o indiretta». Per paradosso, dunque, se la Caritas (no profit) possedesse una banca o una Spa quotata in Borsa (profit), la banca e la società non pagherebbero Imu (perché “indirettamente” no profit). Clamoroso. Ancor di più le firme in calce all’emendamento, Gabriele Toccafondi e Maurizio Lupi, entrambi pdl e ciellini. Il più noto Lupi è di fatto il numero uno di Comunione e liberazione in Lombardia, dopo la “caduta” di Formigoni. E anche la sua “propaggine” parlamentare, a Roma. Ebbene, ancor più clamorosamente, l’emendamento ha il parere favorevole del governo. Il via libera arriva venerdì 2 dal sottosegretario all’Economia, Polillo. Poi, nel fine settimana, si scatena la bufera politica. Insorge il Pd, pare che anche il Vaticano freni. Così, lunedì 5 novembre il governo cambia parere, sempre con Polillo, spiegando la retromarcia con il rischio di un’altra infrazione europea. Dunque è questo che voleva dire ieri Palazzo Chigi: poteva andare peggio. Sul merito degli “sconti” però neanche un cenno.

Repubblica 13.11.12
Il bluff sull’Imu alla Chiesa
di Gianluigi Pellegrino


MENTRE Mario Monti ribadisce la religione del rigore, il suo esecutivo cerca di confezionare un regalo miliardario per gli enti ecclesiastici. Un buco finanziario, ma soprattutto una voragine di ingiustizia e disuguaglianza. E il rischio di una figuraccia in Europa. E prima ancora in Italia visto che gli atti dicono l’esatto opposto del comunicato di Palazzo Chigi. Ma andiamo con ordine. Era stato il governo Berlusconi a scatenare la reazione della Commissione Europea, concependo una circolare del gennaio 2009. In questa si determinavano mille escamotage per garantire le gerarchie ecclesiastiche che poco o nulla sarebbe stato pagato.
Arrivò Monti e solenne fu l'impegno: niente sconti, né privilegi. E così per evitare la sanzione europea il Parlamento approvò una disciplina chiara quanto banale. La Chiesa avrebbe pagato per tutti gli immobili in cui svolge attività commerciale, come definita nel nostro ordinamento in conformità alle direttive europee.
Ma il diavolo è nei dettagli. Il governo si riserva di emettere un regolamento, apparentemente relativo alla disciplina di ipotesi marginali e residuali.
E però con questa scusa ritorna sulla decisione del Parlamento per introdurre criteri grazie ai quali l’esenzione Imu per la Chiesa anche dove svolge attività commerciali diventerebbe amplissima: un rosario di eccezioni idonee quasi ad azzerare quello che il Parlamento aveva dovuto approvare per evitare la sanzione europea.
Fortunatamente i primi di ottobre il Consiglio di Stato investito dall'obbligatoria richiesta di parere ha bocciato in tronco il colpo di mano governativo, ammonendo l'esecutivo sulla procedura di infrazione europea e sui limiti delle delega che aveva ricevuto.
Per tutta risposta l'esecutivo anziché fare ammenda dello scivolone, si costruisce una legge ad hoc con un codicillo inserito nel Decreto Legge sugli enti locali. E torna a confezionare un regolamento che se venisse definitivamente approvato consentirebbe alla Chiesa rilevantissime esenzioni per la gran parte della sua attività commerciale: alberghi, sanità e scuole.
Il tentativo è sempre il medesimo di Tremonti; introdurre criteri di definizione dell’attività non commerciale diversi e ben più ampi di quelli dettati dall’ordinamento comunitario e nazionale; per farli valere soltanto per la Chiesa e per gli altri enti non profit, che invece ai fini della tassa immobiliare quando svolgono attività commerciale devono essere ovviamente trattati come chiunque altro; in difetto si avrebbe un clamoroso aiuto di stato a danno delle pubbliche casse e della corretta concorrenza.
Basti pensare che per le attività sanitarie il regolamento predisposto dall'attuale Governo proprio con le stesse parole utilizzate nella circolare Tremonti afferma che l’esenzione scatterebbe per il solo fatto della presenza di un accreditatamento con il servizio sanitario; il che però è semplicemente un modo per essere pagati dal pubblico anziché dal privato e certo non esclude ma anzi conferma la natura commerciale dell’attività. O ancora per le scuole si prevede l’esenzione se solo i costi di gestione non risultino “interamente” coperti dalle rette. Basta quindi che non lo siano per lo 0,1 per cento per far passare in cavalleria l’intera imposta; anche qui con sostanziale ripetizione di quel che aveva scritto Berlusconi.
Misure e balletti che la commissione europea ha già contestato come abusivo aiuto di stato in danno di conti pubblici, aziende e cittadini e che ora invece proprio il governo del rigore vuole riproporre in spregio agli impegni solenni di Monti e alla stessa legge approvata dal Parlamento.
Per fortuna la questione è di nuovo tornata in Consiglio di Stato che almeno su questi aspetti eclatanti non potrà non rilevare il contrasto con principi elementari che lo stesso atto del governo declama nelle sue premesse, salvo tradirli nello specifico dei criteri relativi ai campi principali dove si gioca la partita Chiesa-Imu (sanità, scuole, attività ricettiva). I giudici pur nei limiti della loro funzione che in questo caso è solo consultiva non potranno che evidenziare la necessità che quei criteri per essere ammissibili dovranno necessariamente essere ricondotti ai parametri comunitari di definizione dell’attività commerciale da chiunque effettuata. Solo attività veramente gratuita può essere esclusa. Altrimenti la sanzione europea sarebbe alle porte e sicuramente spietata, come la relativa figuraccia internazionale e l'inaccettabile ingiustizia verso il resto del Paese, cittadini cattolici compresi.
Per non dire che le Camere con un rigurgito di dignità (ma c'è poco da sperarci) dovrebbero negare la conversione in legge di quel colpo di mano con cui il governo con un codicillo al Decreto Legge sugli enti locali si è arrogato il potere di rimettere
in discussione ciò che era stato finalmente deciso. Nel comunicato di ieri di Palazzo Chigi c’è insomma, spiace dirlo, tanto bluff nel metodo e nel merito. Nel metodo perché è stato proprio un blitz quello con cui l’esecutivo si è auto ampliato la delega per poter rimettere in discussione ciò che il Parlamento aveva finalmente deciso. Nel merito perché basta leggere lo schema di regolamento che l'esecutivo ha confezionato per verificare che nei tre settori fondamentali la volontà del governo è proprio quella di ampliare a dismisura l’ambito di esenzione Imu in favore della Chiesa. Il documento è lì, basta leggerlo. É un fatto e contro i fatti è inutile polemizzare.

Corriere 13.11.12
Il tesoro a rischio dei Salesiani
L'ammissione di Bertone: io truffato sui Salesiani
di Fiorenza Sarzanini


Salesiani sull'orlo del fallimento. Oggi la decisione sul blocco dei beni. E, proprio per scongiurare le conseguenze di un sequestro stimato in 130 milioni che annienterebbe l'Ordine religioso fondato da don Giovanni Bosco, interviene in giudizio il segretario di Stato del Vaticano Tarcisio Bertone.

ROMA — I Salesiani rischiano il fallimento. Il blocco dei beni potrebbe scattare questa mattina, al termine dell'udienza fissata davanti al tribunale di Roma. E proprio per scongiurare le conseguenze di un sequestro da 130 milioni di euro che annienterebbe l'Ordine religioso fondato da don Giovanni Bosco interviene in giudizio il segretario di Stato del Vaticano Tarcisio Bertone. Lo fa con un'iniziativa clamorosa: una lettera già depositata agli atti nella quale il cardinale ammette di essere stato truffato e chiede al giudice Adele Rando di tenere aperta l'indagine contro le persone che «hanno provocato un danno ad una delle più grandi istituzioni educative della Chiesa cattolica e si sono comportati nei miei confronti in un modo riprovevole». La Santa Sede torna dunque al centro di una vicenda giudiziaria dai retroscena controversi e a tratti incredibili. La questione va avanti da ben 22 anni e negli ultimi cinque è stata segnata da un negoziato segreto che ha avuto tra i protagonisti principali proprio Bertone. Quanto basta per riaccendere quello scontro interno al Vaticano già emerso in maniera eclatante con l'inchiesta sui «corvi» e il processo contro il maggiordomo del Papa, Paolo Gabriele.
L'eredità contesa
Si deve tornare al 5 giugno 1990 quando a Roma muore Alessandro Gerini, conosciuto come il «marchese di Dio». Il suo immenso patrimonio fatto di immobili, terreni, denaro contante, preziose opere d'arte viene lasciato in eredità alla «Fondazione Gerini» ente ecclesiastico riconosciuto dal Pontefice Paolo VI nel 1967 e posto sotto il controllo della Congregazione Salesiana. I nipoti del nobiluomo decidono però di impugnare il testamento e avviano cause in sede civile, amministrativa e canonica che si trascinano per anni.
Sono svariati i mediatori che in questo lungo periodo si affacciano sulla scena e tra gli altri spicca Carlo Moisè Silvera, faccendiere di 68 anni nato ad Aleppo in Siria e coinvolto in alcune inchieste della magistratura italiana legate proprio a dissesti finanziari. L'uomo si accredita come emissario degli eredi e propone una transazione alla Fondazione e all'economo dei Salesiani don Giovanni Battista Mazzali. Sia pur tra mille difficoltà e ostacoli viene avviata una trattativa e nel 2007 il patto tra le parti sembra essere vicino. Si ipotizza infatti la vendita di alcuni beni e arbitro della contesa diventa l'avvocato milanese Renato Zanfagna, legale della società «Gbh spa» che ottiene l'opzione di acquisto dei terreni.
I 16 milioni di euro
Ufficialmente il legale e il faccendiere non si conoscono, anzi rappresentano parti avverse. Ma in alcune circostanze sembrano marciare di pari passo. Con il trascorrere dei mesi Zanfaglia diventa il più ascoltato consigliere di don Mazzali. Assume un ruolo tanto predominante da riuscire ad accedere persino alla segreteria di Stato e ottenere colloqui privati con il cardinal Bertone. E così viene di fatto nominato mediatore unico del negoziato.
L'8 giugno 2007, esattamente 17 anni dopo l'apertura del testamento del marchese Gerini viene siglato l'accordo in sede civile: per chiudere ogni controversia la Fondazione versa 16 milioni. Cinque milioni vanno ai nipoti del nobiluomo, ben 11 milioni e mezzo a Silvera che li ha rappresentati. E non è finita. Si stabilisce che la percentuale per il faccendiere debba essere aumentata quando sarà effettuata la stima complessiva dell'intero patrimonio. La commissione di periti — presieduta proprio dall'avvocato Zanfaglia — stabilisce che il patrimonio equivale a circa 658 milioni di euro, dunque la «provvigione» per Silvera sale fino a 99 milioni di euro.
La denuncia di truffa
La Fondazione non paga e nel 2009 Silvera chiede il sequestro dei beni. Lo ottiene il 18 marzo 2010. Il tribunale di Milano mette i «sigilli» a mobili e immobili per 130 milioni di euro, interessi compresi. In particolare la sede della direzione generale dei Salesiani in via della Pisana a Roma e il fondo Polaris aperto in Lussemburgo per il deposito dei contanti. La contesa questa volta mette a rischio la stessa sopravvivenza della Congregazione. E così, l'1 febbraio 2012 la Fondazione, assistita dall'avvocato Michele Gentiloni Silveri, denuncia per truffa Silveri, Zanfagna e altri professionisti che si sono occupati della vicenda. L'atto è firmato dal presidente don Orlando Dalle Pezze che specifica come il vero truffato sia l'economo don Mazzali.
«L'accordo — è scritto nell'esposto — è nullo perché alla Fondazione e ai Salesiani è stato taciuto che la Corte di Cassazione aveva già dichiarato esclusi dall'eredità gli eredi. L'avvocato Zanfagna ha raggirato gli ecclesiastici convincendoli a firmare un patto che favorisce soltanto lui e Silvera». La procura di Roma avvia l'indagine, mette sotto accusa i protagonisti, li interroga. Ma l'11 giugno scorso chiede che il fascicolo sia archiviato. «Non c'è stato alcun raggiro, la transazione è valida», sostiene il pubblico ministero.
La lettera di Bertone
Due mesi fa il Segretario di Stato tenta l'ultima e disperata mossa. Affida all'avvocato Gentiloni Silveri una lettera da consegnare al giudice. Scrive Bertone: «Ho dato il consenso alla soluzione negoziale, ma ho scoperto soltanto dopo che il valore del patrimonio era stato gonfiato a dismisura per aumentare la somma destinata a Silvera, depauperando e umiliando l'attività benefica della Congregazione».
Il verdetto del giudice arriverà questa mattina. Se l'inchiesta sarà archiviato, il sequestro dei beni diventerà operativo. E per i Salesiani si aprirà la strada del fallimento.

Corriere 13.11.12
«La Palestina all'Onu come Stato non membro»


IL CAIRO — Il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha dichiarato ieri sera al Cairo ai ministri degli Esteri della Lega Araba riuniti nella capitale egiziana che la domanda di ammissione della Palestina come Stato non membro dell'Onu verrà presentato all'Assemblea Generale dell'organismo il prossimo 29 novembre. Abbas, che la settimana scorsa aveva parlato di questo tema con il segretario generale della Lega Araba, Nabil Al Araby, ha chiesto l'appoggio delle nazioni arabe: «Non vogliamo scontrarci con gli Stati Uniti né con Israele. Se sarà possibile iniziare un dialogo o dei negoziati il giorno seguente al voto, noi la faremo — ha aggiunto —. Vogliamo però che il mondo comprenda che i territori palestinesi sono sotto occupazione». Attualmente l'unico rappresentante dei palestinesi all'Onu è l'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) che ha ottenuto lo status di osservatore nel 1974. La campagna per ottenere un seggio per l'Autorità palestinese era iniziata lo scorso anno.

Corriere 13.11.12
Hollande, la sinistra di governo e il difficile lavoro dell'equilibrista
di Massimo Nava

In teoria, la sinistra francese avrebbe eccezionali opportunità di governare e trasformare il proprio Paese. Il presidente socialista François Hollande dispone di ampi poteri d'indirizzo, di scelta e di nomina. È il dettato della Quinta Repubblica, cui si somma l'ampio sostegno elettorale al suo governo. Nel maggio scorso, il partito socialista, con alleati comunisti, radicali e verdi ha conquistato la maggioranza assoluta all'Assemblea e al Senato e, con rare eccezioni, è al comando delle regioni e nelle maggiori città. Il sindacato — almeno finora — è stato spettatore benevolo, nonostante il livello record di disoccupati e di chiusura d'imprese. La destra è lacerata e minoritaria.
Ogni sinistra, e ovviamente ogni forza politica, sognerebbe una condizione del genere, che tuttavia, almeno in Francia, non basta né a mantenere il consenso né a facilitare l'azione di governo. Verdi ed estrema sinistra tengono un piede nella maggioranza e uno all'opposizione, soprattutto quando si tratta di contestare misure ritenute «liberali» (per quanto abbastanza lontane dalle riforme strutturali di cui la Francia avrebbe urgente bisogno) o quando il governo rinvia impegni e promesse, quali ad esempio la fiscalità ecologica, la discussione sul nucleare e sulle fonti alternative, l'idea d'introdurre un'ampia quota proporzionale, molto più del 10 per cento di cui si discute oggi.
Le diverse correnti e anime del partito socialista — alcune con un rapporto culturale problematico nei confronti dell'impresa, del ruolo dello Stato e del mercato — costringono Hollande e il suo governo a un lavoro da equilibrista. I propositi di riforme — dai tagli della spesa pubblica al risanamento di bilancio, dal costo del lavoro alle misure per la competitività — vengono negoziati al ribasso, con concessioni ideologiche (le intoccabili 35 ore) e senza aggredire le distorsioni del sistema di protezione sociale. Anzi, le nuove tasse, che colpiscono anche i ceti medi, servono a preservarlo. Il risultato paradossale, nonostante la maggioranza democraticamente «sovietica», sono la caduta di consenso, la delusione degli economisti e della sinistra liberale e le critiche abbastanza generalizzate della stampa. Sei mesi dopo il trionfo, la prospettiva ideale di cambiamento non si è ancora vista. La «conservazione» del sistema accontenta la base elettorale tradizionale, l'impiego pubblico e il popolo dei funzionari, gli assistiti e gli intellettuali, ma non soddisfa il bisogno di rinnovamento della maggioranza dei francesi, anche di sinistra. Quel bisogno di cambiamento e di modernità compreso a suo tempo, ma sperperato, dall'ex presidente Sarkozy. Può essere che Hollande, oggi considerato titubante e inadeguato da diversi osservatori, riesca con la sua «flemmatica determinazione» a non ripetere le contraddizioni dell'epoca Mitterrand e a risparmiare alla sinistra le successive sconfitte in serie che hanno consegnato per 17 anni l'Eliseo alla destra. La crisi europea, che colpisce duramente anche la Francia, di certo non lo aiuta. Le auspicate prospettive di crescita potrebbero tuttavia accompagnare la seconda parte del suo mandato. Nei primi sei mesi, la nota positiva riguarda la politica europea: l'essere riuscito a costruire nuove alleanze, più ampie rispetto alla rigidità dell'asse franco-tedesco e a modulare in parte l'intransigenza di Berlino sui conti pubblici. Ma il rispetto degli impegni europei presi anche dalla Francia verrà raggiunto aumentando le imposte, più che con il «dimagrimento» dello Stato.
Il caso francese racconta dunque quanto sia complicato per una sinistra di governo tenere insieme efficacia economica, solidarietà e sostenibilità dei conti pubblici senza rinunciare alle conquiste sociali, ma adattandole alle nuove sfide dei mercati globali. Alleanze e promesse elettorali possono portare alla vittoria, ma non sono condizioni sufficienti per mantenere il consenso. La visione interclassista della società, su cui si esercita la capacità di attrazione dei partiti, appare superata rispetto a una più larga alleanza di segmenti sociali attratti dalla prospettiva di cambiamento, ma con interessi talvolta divergenti. L'opinione pubblica è volatile. Molti osservatori ricordano a Hollande la ricetta di Gerhard Schroeder che riformò in profondità il welfare e il costo del lavoro in Germania, ma sembrano dimenticare che l'ex cancelliere perse le elezioni. I meriti di un leader valgono per la storia, un po' meno per la strategia del consenso politico.
Negli Usa, si è visto come la maggioranza vincente sia anche una somma di minoranze (sociali, etniche, culturali, religiose, sessuali, anagrafiche) che si sono riconosciute in un progetto, oltre l'adesione al partito democratico.
Prima di sapere se andrà con Vendola o con Casini, anche il Pd dovrebbe porsi il problema di costruire il consenso nell'Italia di oggi. Oltre le alleanze elettorali e le possibili vittorie di domani che, come i sogni, possono svanire all'alba.

Repubblica 13.11.12
Hollande, il presidente dimezzato
Scialbo, poco carismatico e troppo timido a sei mesi dalla elezione perde consensi ma proverà a riconquistare i francesi E Berlino prende le distanze da Parigi
di Bernardo Valli


La legge di bilancio punta a ridurre il deficit che quest'anno ha toccato il 4,5% del Pil a 83 miliardi di euro
La manovra di rilancio prevista da Parigi è di 30 miliardi: 20 di nuove tasse, 10 dal taglio della spesa pubblica (pari al 56% del Pil)

PARIGI François Hollande cercherà oggi di riconquistare i francesi che gli hanno girato le spalle dopo averlo votato sei mesi fa. Sono tanti. Soltanto un cittadino su tre si dice soddisfatto, e senza entusiasmo, per quel che fa o per quel che non fa. L’impresa è dunque ardua. Vasto è il programma. E a cambiare gli umori dei cittadini della Quinta Repubblica, in questo autunno francese sempre più inquieto, non basterà certo l’odierna conferenza stampa: che era già stata programmata durante la campagna elettorale di primavera; e che sarà trasmessa nel tardo pomeriggio in diretta per due ore filate da vari canali televisivi; con quattrocento giornalisti radunati in un salone del Palazzo dell’Eliseo.
Il presidente che parla troppo sottovoce, troppo timido per appagare l’ansiosa curiosità dei suoi concittadini, troppo poco carismatico per la civiltà delle immagini, tanto qualunque da far apparire un’esibita virtuosa normalità come un handicap, insomma il presidente silenzioso in questa occasione dovrebbe far risuonare la grancassa. Ma c’è da dubitare che lo faccia. Non è nel suo stile. Lui cammina in punta di piedi. Bisbiglia. Non fa rumore. E i suoi connazionali, non solo quelli sanguigni, rischiano di restare inchiodati in un profondo scetticismo e sempre più preoccupati. Perché si pongono alcuni interrogativi essenziali. Il presidente fa il necessario per affrontare la crisi?
Ne ha valutato l’ampiezza?
I severi giudizi degli economisti tedeschi, che considerano la Francia «il principale problema dell’Europa », sono giustificati? Annunciano un inevitabile disastro? Sono gli interrogativi di un paese che, a torto o a ragione, in preda all’incertezza, alla sfiducia, non si sente governato da una mano abbastanza ferma.
Di solito appena arrivata al potere la sinistra accende passioni, esalta o inquieta, suscita speranza o apprensione. La delusione e il bilancio negativo arrivano alla fine. Con Hollande, secondo presidente socialista eletto al suffragio universale (dopo François Mitterrand nell’81) accade il contrario. Lui non ha neppure usufruito di quella che i cronisti amanti dei luoghi comuni chiamano luna di miele. Il paese ha salutato il suo ingresso nel Palazzo dell’Eliseo senza troppi applausi. Lui dice che non si aspettava di più. Sostiene che l’importante è il bilancio finale. Gli restano ancora quattro anni e mezzo: quindi ha tutto il tempo per concludere bene quel che è in apparenza cominciato male. Meglio rovesciare una sciagurata tradizione.
Intanto però, da una più accurata analisi del voto che l’ha portato all’Eliseo, emerge che egli è stato eletto in una Francia in cui la destra è maggioritaria. Basti ricordare che i due milioni di voti bianchi o nulli al secondo turno erano in larga parte di elettori di destra scontenti di Nicolas Sarkozy, e che sono stati sufficienti per determinare il risultato finale. François Hollande ha infatti vinto con solo un milione di voti in più. A decidere la gara è stata l’inquietudine identitaria. Il rigetto di Nicolas Sarkozy ha condotto il candidato socialista alla presidenza.
Quel Nicolas Sarkozy rifiutato resta nei paraggi un po’ come un fantasma, non come un leader rimpianto, ma come elemento di paragone. Si dice di Hollande «che fa come Sarkozy», oppure «che fa di tutto per apparire il contrario di Sarkozy», oppure «che è ossessionato dai continui richiami a Sarkozy». Lo stesso Hollande, nei suoi interventi pubblici, o nei colloqui privati, si riferisce spesso al suo predecessore per mettere in chiaro che il suo stile è diverso.
Molti simpatizzanti di destra (il 64 per cento) si augurano che Sarkozy si presenti alle presidenziali del 2017, ma Roland Cayrol, politologo di lungo corso, pensa che questo desiderio riguardi unicamente i suoi vecchi elettori, non la maggioranza dell’opinione. Non è mai accaduto, nella Quinta Repubblica, che un ex presidente riproponesse
la propria candidatura. Sarkozy dovrebbe rifarsi una verginità politica. Un presidente sconfitto non può essere rieletto. E comunque non è mai avvenuto. Evocare il nome di Sarkozy non significa insinuare la possibilità di un suo ritorno; è rammentare piuttosto che è stato lui il protagonista delle elezioni di primavera. I francesi hanno voluto sconfiggerlo. La vittoria di Hollande è stata la conseguenza del rigetto di un presidente che abusava dei mezzi di comunicazione, che inondava il paese di annunci senza seguito, contraddittori, e scandiva la sua funzione suscitando emozioni collettive, al ritmo dell’attualità.
François Hollande è e vuole essere il contrario. Lo vuole essere a tal punto da apparire un personaggio scialbo. Lui che prima di diventare presidente era un uomo spiritoso, conviviale, al punto da esercitare un certo fascino più nella società femminile che in quella maschile, è diventato impenetrabile. È diventato un presidente classico. Immerso fino al collo nella carica. Anche in questo il contrario di Sarkozy, che amava le trasgressioni. «All’inizio, quando entravo nell’ufficio del presidente, mi aspettavo di trovare qualcuno seduto al mio posto», diceva Hollande. Poi il peso delle responsabilità ha spento la sua giovialità.
Ma non del tutto. Durante le frequenti visite, nell’ufficio affacciato sul parco in cui si spengono i rumori del traffico dell’agitato quartiere dei Campi Elisi, il presidente accoglie con il sorriso, comunque con serenità, le domande in cui si annidano le critiche alla lentezza del suo governo. L’opposizione ne denuncia l’inazione, la sinistra si spazientisce, l’opinione pubblica si impenna ed esprime giudizi negativi.
Lui reagisce difendendo il primo ministro Jean-Marc Ayrault, al quale si rimproverano la passività e le numerose gaffes. Ayrault, dice Hollande, è il bersaglio di rimproveri in realtà rivolti a lui, il presidente. La destra pensa che la sinistra abbia vinto le elezioni per effrazione e che la sua occupazione del potere sia illegale.
Ma lui è presidente per cinque anni. Lo sottolinea con insistenza. E a chi si pronuncia per un’azione rapida, immediata, una specie di New Deal francese, risponde di voler procedere a tappe.
In un paese in cui le spese pubbliche, ereditate da Sarkozy, arrivano al 56 per cento, un livello non raggiunto neppure in Svezia, il margine d’azione del governo socialdemocratico è risultato assai limitato. Hollande ha fatto male a non offrire subito all’opinione pubblica una visione realistica della situazione economica, e a minimizzare con i suoi silenzi l’importanza della crisi subita dalla Francia. Si è comunque ben guardato dal ridurre drasticamente le spese pubbliche, per avvicinarle al livello tedesco (46 per cento), e dall’attenuare la rigidità del mercato del lavoro. Ha invece scelto di aumentare le tasse, con il rischio di degradare la competitività delle imprese. Questo ha fatto inorridire gli economisti tedeschi e messo in allarme il governo di Berlino, preoccupato dalla prospettiva di vedere la Francia affiancata ai paesi del Sud Europa, dei quali non ha finora condiviso la situazione, pur non presentando conti esemplari, come i paesi del Nord. A tranquillizzare un po’ i tedeschi è stata la recente decisione di aumentare di circa mezzo punto l’Iva e di accordare un credito di venti miliardi alle imprese, al fine appunto di migliorare la loro competitività. Oggi François Hollande dovrà infine uscire dalla proverbiale riserva. La vivace cordialità riservata ai visitatori dell’Eliseo dovrà estenderla ai quattrocento giornalisti presenti alla conferenza stampa, e alla Francia in ascolto. L’impopolarità, lo scetticismo dei francesi, i numerosi punti oscuri della sua politica economica, peseranno su domande e risposte. Alcune promesse fatte durante la campagna elettorale sono state mantenute, altre no. Non ancora. Il presidente dovrà giustificarsi. Spiegare. Ecco qualche esempio. Il candidato Hollande aveva promesso di non aumentare l’Iva, ma l’ha aumentata. Sia pure di poco. Aveva promesso di rinegoziare il trattato budgetario europeo firmato da Sarkozy, e si è accontentato di un capitolo annesso chiamato “patto per la crescita”. In quanto alla fiducia che il candidato si impegnava di suscitare nel paese, manca all’appello, visti i pessimi sondaggi. Il personaggio Hollande affronta un esame non facile.

Repubblica 13.11.12
Dopo il tandem “Merkozy”, cresce la sfiducia nella politica di Parigi
“Troppo indeciso e dirigista” ora Berlino prende le distanze
di Andrea Tarquini


BERLINO «Ci preoccupa in Europa la situazione a sud delle Alpi, ma anche quella a ovest del Reno». Le poche parole del grand-patron di Volkswagen, Herr Professor Doktor Ferdinand Piech, in una lunga intervista a Bild am Sonntag, domenica l’hanno detta tutta sull’allerta e il pessimismo tedeschi per la situazione francese. Equiparata per la prima volta a quella dell’Europa meridionale. A livello ufficiale, ovviamente, cogli solo confessioni rigorosamente off-the-record, ma il sentimento c’è tutto. Mai come oggi, Berlino vive con disagio il rapporto privilegiato con la Francia. E mai come oggi s’interroga senza certezze sul futuro della Quinta Repubblica, sul forte rischio di declino che Parigi corre, e quindi sull’avvenire del tandem, che fino ad oggi ha guidato l’Europa.
È un sentimento nuovo e in parte scomodo, quello che l’establishment tedesco vive in questi giorni verso l’alleato francese. Proprio mentre attende chiarimenti, dalla conferenza stampa annunciata del presidente Hollande e dalla visita qui del primo ministro Ayrault. Al fondo, fanno capire ambienti molto vicini alla cancelliera Angela Merkel, è il modo dell’alleato di porsi verso il mondo contemporaneo. Troppe difese di una vecchia, insostenibile abitudine al dirigismo statalista e al ruolo di monopolista delle grandi aziende statali, sentiamo dire, sono problemi profondi. Aggravati dall’apparente indecisione del nuovo presidente, e dalla sua tendenza a punire aziende e ricchi. Non è rimpianto di Sarkozy, avvertono subito le fonti dell’establishment. Solo su un piano di facciata, il predecessore di Hollande garantiva più immagine d’intesa con Angela
Merkel. Nel midollo, era un leader francese vecchio stile anche lui. Stato, monopoli pubblici, ben poca voglia di cedere sovranità all’Europa. Adesso, secondo il centrodestra tedesco, la nuova maggioranza francese sembra senza bussola. Mentre l’economia è in recessione, il debito pubblico francese vola attorno al 90 per cento del prodotto interno lordo, e la competitività del made in France appare debole e a rischio. «Il grande difetto di Sarkozy», dice Sascha Lenartz, editorialista della Welt, «era decidere sempre senza riflettere o ascoltare consigli; il difetto di Hollande, visto da Berlino, è ascoltare troppi consigli prima di non decidere nulla».
È una svolta epocale. Mai, nemmeno nel 1989 quando Mitterrand sembrò ostile alla riunificazione tedesca accelerata da Kohl, si sono sentiti qui tanti pareri negativi sulla Francia. Fino alla sfiducia verso la sua realtà economica: 12 fabbriche di auto a ovest del Reno, dicono qui i potenti delle quattro ruote made in Germany, sono troppe. Persino nelle eccellenze (aerospaziale, difesa) la cooperazione bilaterale perde colpi. Infine, il nuovo ruolo di Hollande forte alleato dell’Italia di Monti o della Spagna di Rajoy. «Non ha ancora deciso se essere il partner di Berlino o il leader del “Club Méditerranée” », dice Michael Stuermer, ex consigliere di Kohl.
Una rottura resta impossibile, un tandem com’era fino a ieri appare sempre più problematico. A Parigi è l’ora degli esitanti temporeggiatori, nota Braunberger sulla
Frankfurter Allgemeine, «e anche Chirac e Sarkozy non toccavano i vecchi privilegi e strutture del modello francese». Tra una Germania più forte anche nella recessione e la Francia indebolita, qui il matrimonio lo vedono sempre più a due velocità, per non dire in crisi.

il Fatto 13.11.12
Eugenio Scalfari, “l’incontestabile”
di Silvia Truzzi


Con affettuosa premura Angelo Cannatà – curatore del Meridiano scalfariano e autore di Eugenio Scalfari e il suo tempo (Mimesis edizioni, 2010) – ha spiegato con un intervento sul Fatto di sabato, la “verità” sulla rottura Scalfari-Pannunzio, “perché nessun lettore ingenuo pensi che ci sia la volontà di demolire l'immagine del fondatore di Repubblica”. Certi della gratitudine di quelli che, tra i lettori, si siano riconosciuti nella definizione di ingenui, ci si prende qui la libertà di rispondere.
Il “dubbio” di Cannatà è che presentando il carteggio tra Mario Pannunzio e Leo Valliani (in due lettere il fondatore del Mondo si occupa di Scalfari, “un pasticcione e libertino, politico, economico, un instabile”), non si sia provveduto a contestualizzare la rottura tra i due giornalisti. Nel paese in cui i monsignori contestualizzano le bestemmie, l’articolo “Quell’instabile di Eugenio”, è certamente apparso blasfemo.
Il giornalista non è uno storico, eppure corre l’obbligo di far notare che le due lettere in cui Pannunzio parla del fondatore di Repubblica, sono datate una 1962 e l’altra 1965: segno che le opinioni espresse si erano ben radicate in Pannunzio. E si fatica a pensare che quelle che Cannatà chiama pericolosamente “verità” siano tali: le sue conclusioni sono tratte dalle lunghe conversazioni con Scalfari (che ci riporta con tanto di convenevoli: “Fu uno scontro duro, caro Angelo”). Visto che si contesta il metodo, pare giusto sottolineare che l’esegesi si dovrebbe fare sulle fonti, testimoniali certo, ma anche documentali. Come avverte Scalfari, “La sola storia possibile è quella che si ricostruisce da dentro, attraverso la memoria di sè”. Quanto alle questioni più attinenti a noi artigiani dell’informazione, la pubblicazione di un epistolario inedito, come è quello tra Pannunzio e Leo Valiani (Democrazia laica, Aragno editore), valeva la pena di una recensione. Anche se il Corriere della Sera se n’era occupato qualche giorno prima del Fatto, senza notare le epistole scalfariane: forse il professor Galli della Loggia non ci ha fatto caso. Una distrazione? Forse, comunque più sgarbata che gratificante. Non so come Cannatà possa dire con tanta sicurezza quali parti ho letto e quali no de La sera andavamo in via Veneto: nel dare conto dei dissidi tra le anime del Mondo mi pare di aver fatto ampiamente capire quale fosse il contesto (“Gli anni Sessanta albeggiano e gli screzi tra il Mondo e il Partito radicale, che tante firme del giornale avevano contribuito a far nascere, cominciano a diventare scontri: sulla politica estera e su quella interna, soprattutto in merito ai rapporti con quel Psi che Scalfari avrebbe poi sposato, diventando deputato nel 1968”). Ho cercato di trasmettere il punto di vista del fondatore di Repubblica, citando più volte e testualmente il famoso memoir. Pannunzio rende partecipe Valiani di un giudizio sulla persona di Scalfari, non sulle scelte politiche. Lo dice ambizioso e arrivista: come si è formato questo convincimento in Mario Pannunzio? Cannatà è sicuro: “Non si tratta, qui, di discutere della validità o meno delle ragioni di Pannunzio: c'è una visione culturale, una certa idea (elitaria) della politica all'origine dello scontro. Questo conta”. Sarà la “verità”?
Assodato che il carteggio ci era parso degno di un articolo di giornale (e sperando di aver illuminato lettori, scaltri e ingenui, e amletici curatori) resta da chiarire l’aspetto più fastidioso che sta nelle ultime – licet? non elegantissime – righe dell’articolo di Cannatà. Dove affondano le ragioni di questa risposta, sulla quale si sarebbe altrimenti volentieri sorvolato. S’insinua che ci siano motivi occulti: “La diversità d'opinione – sulla trattativa stato-mafia – va bene. Altro non è lecito nemmeno pensarlo”. Visto che non è lecito pensarlo, figuriamoci quanto è lecito scriverlo. Perché negando, l’intenzione è chiaramente quella di affermare. E questo no, caro Cannatà, non è consentito. La posizione che questo giornale ha avuto e ha - manifestamente, senza nascondimenti - sulle vicende della trattativa è assai nota. Non impedisce di raccontare una storia che nulla ha a che fare con le posizioni di Scalfari o di Repubblica sul processo di Palermo. Suggerire, come fa Cannatà, che ci sia un legame è davvero una dolosa inferenza. Non c’era, in nessuna parte dell’articolo “pannunziano”, nè insolenza nè allusione che giustifichi l’insinuazione. Per il mercante anche l’onestà è speculazione? Citarsi è un gran brutto esercizio, ma qui è utile: sembra che Cannatà non abbia letto la recensione al Meridiano da lui curato, apparsa sul Fatto e da me firmata. Il severo maestro l’aveva trovata “oggettiva”, aggettivo che verosimilmente si può interpretare come “priva di pregiudizi”. Scalfari ha rotto il tabù della sua gioventù fascista (“sono stato fascista finché non sono stato espulso dal partito”) e perfino quello della sua complessa vicenda sentimentale, a fianco di due compagne di vita.
Ho intervistato Eugenio Scalfari quando uscìScuote l’anima mia Eros: ribadì in quell’occasione tutto quello che pensava (e non erano carezze) del Fatto. L’ho scritto, senza modificare una virgola del suo pensiero, senza inseguire forzature. Soprattutto trattandolo da maestro quale è, senza venerazioni che fanno torto all’intelligenza dei venerati e all’integrità dei veneratori. Tentando la strada di una laicità di cui ci sarebbe parecchio bisogno in un Paese incapace di pensiero critico, instupidito dalle personalizzazioni e anestetizzato dagli slogan. E dove può capitare che un Vasari zelante arrechi più danni che vantaggi.

l’Unità 13.11.12
Psicoanalisi anti crisi
A Milano un Centro Musatti offre assistenza gratuita
Il presidente Giuseppe Pellizzari «In questa epoca di incertezza e smarrimento vogliamo fare la nostra parte e ritrovare la vocazione sociale del nostro lavoro»
di Stefania Scateni


LA PSICOANALISI SI FA CARICO DELLA CRISI E RIVENDICA IL SUO IMPEGNO E LA SUA VOCAZIONE SOCIALE. NON SOLO SUL PIANO CLINICO MA ANCHE SU QUELLO DELLA VITA QUOTIDIANA. Così il Centro Milanese di Psicoanalisi Cesare Musatti (Cmp) ha deciso di offrire assistenza gratuita ad adolescenti, bambini e adulti in difficoltà economiche. Gruppi di psicoanalisti si sono già messi a disposizione per consulenze «free» o a prezzi sociali nella sede di via Corridoni 38.
Succede in tempi come questi, precari e oscuri per l’animo e la carne, epoca «delle crisi»: economica, politica, spirituale... D’altronde la crisi è «il mestiere» della psicoanalisi: strada maestra verso il cambiamento, la crepa è un momento di verità che porta alla trasformazione, passaggio, attraversamento verso qualcosa di ignoto, nuovo. Oggi l’angoscia che permea il vissuto soggettivo è impalpabile e incombente, difficilmente identificabile, subita e imprendibile come le ombre scure dei film dell’orrore. L’angoscia che accompagna le vicissitudini del nostro mondo è senza prospettiva, è angoscia allo scoperto. Uno stato dell’anima ancora tutto da esplorare e conoscere radicalmente diverso dai disturbi del passato anche recente.
In mancanza di chiarezza analitica, di questa congiuntura odierna si fa la conta in percentuali di disagio: in Grecia, dal 2008 al 2011, le persone tra i 25 e i 34 anni con problemi di ansia o di depressione sono passati dal 3,8% al 13,6%. La psicoanalisi stessa soffre della crisi e registra, negli ultimi tre anni, un crollo dei pazienti del 20%. Ma persino questo «disfacimento» può essere letto come un’indicazione al cambiamento. «Oggi viviamo la scomparsa dei grandi contenitori ideologici e simbolici, sperimentiamo una grande sfiducia nelle istituzioni e nei partiti, ci sentiamo derubati del futuro ci dice il presidente del Cmp Giuseppe Pellizzari -. La crisi ha acuito questo senso di smarrimento e incertezza. La decisione di proporre il nostro servizio clinico nasce dall’esigenza di fare la nostra parte: per la psicoanalisi questo è un ritorno alle origini, quando nel 1919 nacque, in un momento di grave crisi post bellica, l’Istituto Psicoanalitico di Berlino, con chiari intenti sociali. Per un decennio funzionò benissimo e nell’istituto lavorarono i migliori analisti di quegli anni». Il loro intento sociale era ispirato a ciò che Freud disse durante il Congresso di Budapest del 1918: la gente ha diritto di essere curata non solo per la tubercolosi, ma anche per le malattie nervose, e lo Stato dovrebbe andare incontro a queste esigenze.
L’iniziativa milanese non è solamente e semplicemente un andare incontro ai cittadini. «Le difficoltà contemporanee non sono soltanto economiche spiega Pellizzari -, la crisi interessa anche i valori, i fondamenti simbolici della vita delle persone. E questo ci interessa, interessa la psicoanalisi. Non possiamo guardare questo fenomeno dall’esterno, perché anch’essa vive una crisi dei suoi fondamenti. Ed è un momento di grande fecondità. Il servizio che vogliamo offrire al territorio ha anche uno scopo formativo per chi ci lavora e uno scopo di ricerca per noi. I “nuovi” pazienti hanno caratteristiche nuove e poco conosciute e per questo possono rappresentare un’occasione importante per imparare cose nuove e sollecitare la psicoanalisi a funzionare in modo nuovo rispetto ai canoni classici».
Oggi le nevrosi classiche, le sindromi ossessive, le isterie e le perversioni, non sono le più diffuse come lo erano un tempo; ad esse si sostituiscono sindromi narcisistiche, disagio, insoddisfazione, vuoto, apatia diffusa, disturbi difficili da trattare perché quasi incosistenti, senza un sintomo predominante e urgente. Quelle più profondamente mutate nel più breve tempo sono le problematiche adolescenziali: non ci sono più i ragazzi ribelli che si scontrano con la cultura dei genitori e vogliono cambiare il mondo. Moltissimi adolescenti oggi non sanno cosa piace loro, non sanno cosa fare, non sanno chi sono, non studiano e non lavorano, non fanno niente.
E infine, la domanda dalle cento pistole: ci avete sempre detto che pagare il trattamento è essenziale e indispensabile per la pulizia e l’efficacia della terapia. Come la mettiamo con il vostro trattamento gratuito? «Ci sono sempre stati analisti che hanno trattato gratuitamente qualche paziente, ma questo ha sempre posto dei problemi nella conduzione tecnica dell’analisi, cioè nell’ambito del transfert e controtransfert, perché il paziente potrebbe sentirsi diverso, speciale, oppure un povero oggetto di elemosina. Ci siamo resi conto che è molto importante il fatto che la nostra è un’iniziativa istituzionale, del Centro Milanese di Psicoanalisi, non del singolo analista che è tanto buono. La mediazione istituzionale consente una gestione più libera». Miracoli della crisi.

l’Unità 13.11.12
La «sinistra nuova» che guarda al capitalismo liberale
Le proposte all’interno del volume degli economisti Pietro Reichlin e Aldo Rustichini
di Bruno Gravagnuolo


VERSO LA FINE DEGLI ANNI SETTANTA CI SI ACCAPIGLIAVA ATTORNO A SLOGAN TIPO «PIÙ STATO, MENO MERCATO», O «PIÙ MERCATO MENO STATO». POI QUALCUNO CONIÒ LA FORMULA: «MEGLIO STATO, MEGLIO MERCATO». Sembrava la quadratura del cerchio, ma non lo era. Perché la rivoluzione tatcheriana e reaganiana era decollata e lo spazio per un compromesso fra i due termini venne ridotto sempre più, con gli «animal spirit» e la distruzione progressiva di garanzie e protezioni per salariati e dipendenti, accusati di corporativismo ed egoismo a svantaggio dei giovani. Una polemica che ha sfondato anche a sinistra, nella cosiddetta sinistra «third way» di Antony Giddens. Che non è un patto tra capitalismo e democrazia. Ma una scelta precisa: capitalismo e mercato «responsabili» e regolati. Con il primato etico dell’impresa privata e annessa antropologia individualista. Il tutto ben temperato da «ammortizzatori sociali» e formazione continua.
Ecco, il volume degli economisti Pietro Reichlin e Aldo Rustichini Pensare la sinistra. Tra equità e libertà (Laterza, pp. 279, Euro 18) libro a più voci e frutto di un dibattito laterziano del 22 febbraio 2012 va inquadrato in queste premesse. E in due sensi. Innanzitutto gli «autori-introduttori» si riconoscono in qualche modo nella «terza via» di cui sopra, con particolare accento su «parità di chance», giustizia distributiva, innovazione e competizione. E in secondo luogo essi paiono condividere uno dei tre slogan da cui siamo partiti, cioè «meglio Stato e meglio mercato».
UN’IDEA COERENTE
Perché alla fine è questa la loro proposta: regole equitative e propulsive a favore di un capitalismo diffuso e innovativo. Un capitalismo liberale per tutti. Discorso coerente e ben svolto, se si vuole. Con venature pragmatiche anche condivisibili. Ad esempio, «privatizzare» per la sinistra non deve essere un dogma negativo. Se un’industria pubblica è decotta la si può rilanciare
cercando acquirenti privati, purché non finisca in spezzatini, in monopoli o in «hedge found». E purché occupazione e ambiente siano salvaguardati. Tuttavia quel che sfugge ai due autori e alla «loro» sinistra è un dato che nella loro analisi risulta troppo sfumato. Cioè: l’egemonia della finanza e del capitalismo delocalizzante su scala globale.
L’EGEMONIA DELLA FINANZA
Due fenomeni per un medesimo meccanismo. Che va molto al di là delle astrazioni teoriche su concorrenza e reciprocità etica di individui creativi. Che meccanismo? È quello che Giorgio Ruffolo chiama «capitalismo monetario manageriale». Che lavora a debito, rivendendo debito e scommettendo su di esso. Oggi il volume di titoli e derivati è pari a 14 volte il Pil mondiale. Significa bassi salari e credito finanziario al consumo di massa, per sostenere i consumi. Fino al crollo e al default delle piramidi costruite sul debito. Con gli Stati nazionali indeboliti dalla crisi fiscale causata dagli sgravi liberisti e costretti a indebitarsi di continuo. Nonché indeboliti dalla necessità di «sdebitarsi», con reiterati tagli di spesa per remunerare i prestatori. Un enorme pasticcio recessivo, frutto del capitalismo «post-industriale», sempre in fuga e teso ad «esternalizzare». Sicché, l’area euro-americana esporta posti di lavoro e capitali. E reimporta, nei confini d’origine, ciò che ha generato fuori. Nelle vaste praterie sottopagate del mondo.
Insomma, «it is capitalism, stupid!», direbbe Clinton, che oggi è «auto-critico» sul liberismo finanziario che lui stesso promosse, consentendo alle banche di fare credito, impresa e finanza. Con infiniti incentivi. E proprio qui va a sbattere la «sinistra nuova» invocata da Reichlin e Rustichini. Contro il muro della distruzione creatrice finanziaria. Figlia del capitalismo senza frontire e vera responsabile della crisi dei debiti sovrani. L’Italia ci ha messo del suo con i costi della politica e la corruzione? Sì, tutto ciò è stato un moltiplicatore intollerabile. Ma è la sostanza strutturale di «questo» capitalismo, ad aver generato paralisi e recessione. Non già la spesa sociale o gli «scarsi controlli», come pensano Reichlin e Rustichelli. Sottaccerlo o negarlo è come perdere il vero filo del discorso ed equivale a non pensare la sinistra. Che, senza la critica del capitalismo, semplicemente non esiste, né può progettare alcunchè.

l’Unità 13.11.12
«La morte? L’unico evento collettivo»
Intervista a Daniel Pennac
che s’interroga sugli effetti del tempo
Un diario corporeo e un viaggio del narratore che attraverso le fasi
della vita racconta le trasformazioni fisiche e interiori di sé e dei suoi personaggi. «Mi fanno orrore gli interventi di lifting»
di Roberto Lorenzetti


SI INTITOLA STORIA DI UN CORPO ED È PUBBLICATO DA FELTRINELLI L’ULTIMO ROMANZO DI DANIEL PENNAC. IL LIBRO PRENDE LE MOSSE DA UN FUNERALE, QUELLO DEL PADRE DI LISON, MORTO A 87 ANNI. Tornata a casa dopo la cerimonia, la donna si vede recapitare un pacco, un regalo post mortem del genitore.
Si tratta di un singolare diario incentrato sul tema del corpo, un diario che l’uomo ha tenuto dall’età di dodici anni fino agli ultimi giorni di vita. Nelle sue pagine regna, con tutta la sua fisicità, il corpo dell’io narrante, che accompagna il lettore nel mondo, facendoglielo scoprire attraverso i sensi: la voce stridula di una madre anaffettiva, l’odore dell’amata tata Violette, il sapore di caffè di cicoria degli anni di guerra, il profumo asprigno della merenda povera a base di pane e mosto d’uva.
Giorno dopo giorno, con poche righe asciutte o ampie frasi a coprire svariate pagine, il narratore racconta un viaggio straordinario, quello della sua vita, con tutte le sue scoperte, le grandezze e le miserie, quelle della nostra vita di tutti i giorni. Nel diario si colloca così un’indagine di tutto ciò che è corporeo: dalle manifestazioni della sessualità alle malattie, dalle funzioni corporali ai sintomi psicosomatici, dallo sport praticato in età giovanile alla decadenza fisica della vecchiaia. Il tutto organizzato in un indice analitico in rigoroso ordine alfabetico: Acufeni, Diarrea, Masturbazione, Orgasmo, Prurito, Trasfusione, Vomitare ecc.
Storia di un corpo è un libro intenso e originale, poiché tenta un’operazione che in letteratura non ha una grande tradizione, cioè quella di narrare la materialità dell’esistenza, argomento in genere tenuto ai margini del romanzo. Qui invece il corpo è l’argomento primo e unico delle osservazioni del protagonista. Pennac si cimenta nell’argomento con acribia e insieme con delicatezza, in un testo avvincente e suggestivo.
Intanto lo scrittore francese, oltre che al lancio del suo libro, è impegnato anche a teatro, con uno spettacolo, dal titolo Il sesto continente (sua la sceneggiatura, mentre la regia è della svizzera Lilo Baur), messo in scena per denunciare i danni – come si esprime l’autore – «dell’ideologia profilattica dell’imballaggio». Un lavoro coprodotto con il Teatro Stabile di Torino, che lo ospiterà a partire da domani. Pennac, quello della corporeità è un tema in genere refrattario al romanzo. Come mai ha deciso di affrontarlo in maniera così diretta?
«In passato alcuni scrittori hanno toccato l’argomento, penso a Montaigne, Rabelais o Bataille, ma l’hanno fatto in maniera incidentale oppure in una chiave apertamente provocatoria. Quello che mancava era un approccio di tipo realistico. È un tema su cui mi interrogavo da tempo. Nel 1979, durante un soggiorno in Brasile, scrissi un saggio di trecento pagine su questo argomento, un testo che però poi distrussi perché non lo trovavo soddisfacente. Nel mio libro Monsieur Malaussène avevo introdotto il personaggio di un uomo che fa un figlio per poterlo filmare, seguendolo nelle fasi della sua crescita e dei cambiamenti corporei: un’attività a dire il vero un po’ perversa. Cinque anni fa, poi, ho deciso di isolare il tema in un libro apposito, quello che ora presento».
Quali problemi le si sono posti?
«La stesura non è stata facile. Ci ho messo cinque anni a scrivere il romanzo, alternando momenti di euforia ad altri di dubbio, incertezze e ripensamenti. Poi però la struttura del libro ha preso forma e alla fine mi sembra che funzioni. Ho ribaltato il genere del “diario intimo”, basato sui sentimenti, sulla psicologia, in quella di un “diario corporeo”, basato sulle manifestazioni del corpo, comprese quelle considerate meno nobili. La difficoltà maggiore è stata quella di vivacizzare la materia. Ho trovato la soluzione in un secondo tempo, inserendo il personaggio di Lison e i commenti che nel suo diario il padre le rivolge».
Nella società di oggi il corpo deve essere perfetto (questi i modelli offerti dalla tv e dalla pubblicità), la malattia e la morte sono rimosse. Lei invece ha deciso di andare controcorrente...
«I corpi proposti dai media sono spesso corpi irreali, sognati o idealizzati. Si tratta in ogni caso di rappresentazioni spettacolari di corpi finti. Il corpo vero, invece, ci crea ancora pudore e imbarazzo, esattamente come accadeva cent’anni fa. A me, però, non interessava tanto infrangere dei tabù, quanto piuttosto rompere il silenzio attorno a un’esperienza, quella della corporeità, che riguarda tutti. Mi fa sorridere e insieme mi preoccupa l’idea di questa perfezione consumistica, per cui ogni cinque anni bisogna farsi fare un lifting e ogni dieci andare dal chirurgo plastico».
Per parlare del corpo del protagonista, lei è partito dalla sua esperienza autobiografica? «Inevitabilmente. Ma penso che quanto ho scritto abbia poi una portata più generale. Anche se è vero che ciascuno vive una stessa esperienza in maniera diversa. Nel mio libro parlo, ad esempio, di acufeni o di epistassi. Diversi lettori mi hanno detto di aver trovato, attraverso le mie parole, la possibilità di decodificare esperienze che anch’essi hanno vissuto ma che non sapevano razionalizzare nei loro vari aspetti».
Le fa paura la morte?
«Come tutti, probabilmente tendo a non pensarci o a ritenere che la cosa non mi riguardi. Anche se, osservando la cosa con lucidità, bisogna riconoscere che la morte è davvero l’unica esperienza che accomuni fino in fondo gli esseri umani. Eppure continua a essere ciò che ci preoccupa di più».
Ci vuole parlare del suo spettacolo, Il sesto continente?
«È una pièce sul tema degli imballaggi e dei danni ambientali che essi producono. Il sesto continente è una sorta di pattumiera galleggiante nel cuore dell’Oceano Pacifico, formata da una enorme massa di rifiuti, grande cinque o sei volte la Francia. Anche questo ha a che fare con il corpo e con quella che io chiamo «ipocondria suicidaria». Imballiamo ogni alimento per proteggere la nostra salute, ma poi questi imballaggi vengono gettati nel mare, nei fiumi, nella natura. Così inquinano e tornano nel ciclo alimentare attraverso gli animali. Sembra un paradosso, ma le cose stanno esattamente in questi termini: un eccesso di preoccupazione per la salute produce un danno incalcolabile per la salute. Nel mio spettacolo metto in scena la storia di una famiglia maniacalmente ossessionata dalla pulizia e dall’igiene, una famiglia che, dopo tre generazioni, si ritrova ad essere una delle cause principali dell’inquinamento planetario».

La Stampa 13.11.12
Quando Buddha era un santo cristiano
La storia bizantina di Ioasaf, bestseller del Medioevo che anticipa il Siddharta di Hesse e avvia la lunga marcia dell’Illuminato in Occidente
di Silvia Ronchey


Una nuova traduzione La Storia di Barlaam e Ioasaf , testo bizantino composto intorno all’anno Mille da Eutimio di Iviron, racconta di un principe indiano che, seguendo gli insegnamenti di un anacoreta, fugge dal palazzo dove il padre l’ha rinchiuso per proteggerlo dai mali del mondo e avvia il suo percorso mistico-eremitico. Che la storia ricalcasse quella del Buddha lo avevano capito già gli studiosi di fine ’800, ma la matassa delle mediazioni è stata dipanata solo di recente, anche grazie all’edizione critica pubblicata da Robert Volk nel 2009. Il testo, con il sottotitolo La vita bizantina del Buddha , esce oggi da Einaudi in una nuova traduzione a cura di Paolo Cesaretti e Silvia Ronchey, che firma anche un’introduzione leggibile come un avvincente «romanzo di filologia». In questa pagina la studiosa racconta per i lettori della Stampa la storia del «Buddha bizantino».

Le avventure del testo dal greco al russo, all’arabo, all’ebraico, all’etiopico, al siriaco e a tutte le lingue occidentali
La sua influenza si risente nelle chanson de geste, in Caterina da Siena, Boccaccio, Shakespeare, Calderón de la Barca

«Perché non possiamo non dirci cristiani», scriveva il laico Croce, riflettendo sulle radici comuni dell’Europa. Con altrettanta obiettività dovremmo oggi seriamente riflettere sul «perché non possiamo non dirci buddisti». Più di una filosofia e meno di una religione, il buddismo è forse la dottrina più condivisa del mondo contemporaneo. Ne è pervasa, ben più che dal cristianesimo, la filosofia moderna, esistenzialista e non. Un silenzioso bestseller, il Siddharta di Hesse, ha orientato spontaneamente la formazione delle due ultime generazioni. Ratificata dalla New Age, ma già anticipata da pionieri del modernismo cattolico come Thomas Merton, l’accoglienza culturale e cultuale del buddismo ha prodotto un’ibridazione confessionale, in cui lo yoga cristiano e le forme di meditazione miste sono ormai consuetudine pacifica.
In genere si fa risalire l’influsso del buddismo nel pensiero, nella cultura e nel modo di sentire dell’Occidente allo slancio degli studi di orientalistica, da cui si dice fosse influenzato fin da ragazzo Schopenhauer. Ma in realtà il buddismo era già penetrato da secoli in Occidente, ne aveva permeato la psiche collettiva e si era innestato nel suo Dna culturale, predisponendo subliminalmente il terreno alla definitiva svolta ottocentesca. Fin dall’XI secolo il Buddha era diventato un santo della Chiesa cristiana. Il suo nome era stato solo lievemente mascherato: Ioasaf, da bodhisattva - budasaf - iudasaf, attraverso le varie versioni che avevano portato la sequenza di fatti, circostanze, archetipi e simboli, per così dire la stringa originaria della vita del Buddha, fino a Bisanzio.
Mai prima coagulata in un testo sacro, lì si era fatta libro. Il buddismo non aveva mai avuto una Scrittura, non essendo un’ortodossia ma un’ortoprassi dove ciò che importa è l’armonia del comportamento e non quella delle dottrine: fatto per adattarsi alle diverse culture, si rispecchiava diversamente nelle loro scritture. Ma la forza plasmatrice di Bisanzio, civiltà del libro per eccellenza, generò un nuovo testo originale: la Storia di Barlaam e Ioasaf, composta tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo da Eutimio di Iviron, un aristocratico ostaggio circasso educato all’alta cultura dei palazzi di Costantinopoli e diventato poi monaco sul Monte Athos. È a partire da questo primo decalcarsi dell’impronta buddista nello stampo bizantino che la sequenza narrativa della vita del Buddha si moltiplicherà in progressione geometrica nella letteratura occidentale e Buddha estenderà la sua predicazione in Occidente en travesti, sotto forma di santo cristiano.
La storia del bodhisattva Ioasaf sarà uno dei libri più diffusi del Medioevo globale, un Siddharta ante litteram elevato a potenza. Dal testo greco passerà allo slavo ecclesiastico, di qui al russo e al serbo. Nell’Est del mondo la versione di Eutimio sarà tradotta, oltre che in arabo, in etiopico, armeno, ebraico, siriaco. Detti e fatti dell’alias cristiano di Siddharta risuoneranno in ogni lingua occidentale con una diffusione mai raggiunta da nessun’altra leggenda. Attraverso il latino, ma con l’influenza del manicheismo, la sua storia raggiungerà la Provenza dei catari e degli albigesi. Si trasmetterà alle prime chanson de geste, ai poemi epici medievali in langue d’oïl, a quelli medio-alto-tedeschi, fino al Barlaam und Josaphat di Rudolf von Ems. Sedurrà l’Italia più mistica, il Trecento senese di Caterina, e attraverso il Novellino si trasmetterà al Decameron di Boccaccio. Si affrancherà dal latino nei fabliaux, nei sunti dei Leggendari, nei misteri popolari, nelle ballate e nei ludi medievali del Maggio. Stupirà il pubblico nelle piazze e nelle sacre rappresentazioni. Attraverserà i confini settentrionali dell’Europa e arriverà fino al teatro di Shakespeare. Nel Seicento vedrà la sua massima fortuna, da Port-Royal alla Spagna, dove Lope de Vega ne trarrà il suo Barlán y Josafá, per il cui tramite il giovane principe isolato dal mondo e assorbito nel sogno troverà il più completo ritratto occidentale in La vida es sueño di Calderón de la Barca. Sarà attraverso Calderón che la trama della vita del Buddha - questa leggenda dalle mille facce, questo punto dello spazio letterario che contiene tutti gli altri punti, proprio come l’Aleph di Borges - si trasmetterà alla letteratura otto e novecentesca e troverà ancora interpreti in Hugo von Hofmannsthal e in Marcel Schwob.
Intanto repertori come lo Speculum di Vincenzo di Beauvais e la Legenda aurea di Jacopo da Varazze avevano riflesso e nebulizzato nel loro perdurante raggio di influenza non solo la storia del Gautama Sâkyamuni, ma anche il lucente pulviscolo leggendario e sapienziale delle dieci fiabe o parabole che la scandiscono, la più famosa delle quali, l’apologo del Viandante e dell’Unicorno, oggi nota soprattutto nella sua versione zen, proprio attraverso il Barlaam e Ioasaf è dilagata in tutte le letterature del mondo. Un uomo è inseguito da un unicorno imbizzarrito. Nella fuga inciampa e cade in un burrone. Mentre precipita riesce ad aggrapparsi a un arbusto. Guardando in giù però si accorge che due topi, uno bianco e uno nero, ne stanno rosicchiando le radici. In fondo al burrone vede un drago che lo aspetta a fauci spalancate. Esaminando il punto in cui appoggia i piedi vede quattro teste di serpenti che spuntano dalla parete di roccia. Alza gli occhi al cielo e vede che dai rami dell’arbusto sta colando del miele. Smette di pensare a tutto il resto e si concentra sulla dolcezza di quella piccola goccia di miele.
Avere portato in Occidente questa parabola, di origine forse giainista, è uno dei più squisiti meriti di Bisanzio. Quell’eco mistica arrivò a Baudelaire, per insinuarsi in Mon coeur mis à nu, e a Tolstoj, la cui Confessione è forse la più chiara enunciazione del buddismo cristiano: conosciuto mediante la tradizione ortodossa dei Menei, il Buddha bizantino, scrive, «gli rivelò il senso della vita».

La Stampa 13.11.12
Nella semplicità l’eleganza della scienza
di Piero Bianucci


Nella scienza, ma anche in politica e persino nei rapporti amorosi, quando ci sono due spiegazioni, di solito quella giusta è la più semplice. È una regola di buon senso che ha radici nel «rasoio di Occam». Frate francescano vissuto nel Trecento, William Occam con il suo rasoio mentale proponeva di scartare le ipotesi complesse a favore delle più elementari. Spesso nella ricerca scientifica, e in generale nella vita, semplicità è sinonimo di eleganza. Ian Glynn, professore di fisiologia all’Università di Cambridge, ne ha cavato un libro, La scienza elegante (Ed. Dedalo, 270 pagine, 16 euro), dove riporta casi esemplari di grandi scoperte fatte grazie all’estetica della semplicità.
Elegante fu l’intuizione di Archimede quando immerse in un recipiente la corona del re di Siracusa e dal volume di acqua spostato dedusse che l’orafo aveva barato mescolando l’oro con un metallo vile. Maestro di eleganza fu Galileo in ogni sua ricerca, e in particolare quando con un esperimento concettuale liquidò l’errato insegnamento di Aristotele secondo il quale gli oggetti più pesanti cadono più velocemente di quelli leggeri. Immaginò di lasciar cadere due corpi di peso molto diverso legati con una corda. Se avesse ragione Aristotele, il più pesante contribuirebbe ad accelerare il più leggero, mentre quest’ultimo dovrebbe rallentare il corpo più pesante. La velocità di caduta dei due corpi legati tra loro dovrebbe quindi avere un valore intermedio. Ma, sempre stando alla fisica aristotelica, poiché i due corpi insieme hanno un peso maggiore del singolo corpo più massiccio, dovremmo invece aspettarci che la loro velocità di caduta sia la più elevata, e non la media delle due. Dunque Aristotele dà torto ad Aristotele.
Sorprendenti per semplicità sono altri casi riportati da Glynn: con un ago magnetico Helmholtz scoprì che nei nervi i segnali elettrici viaggiano 10 volte più lentamente del suono; incrociando due specie di piselli Mendel mise le basi della genetica. Nasce una domanda: la big science contemporanea può ancora essere elegante o è condannata alla cafonaggine dei frequentatori del Billionaire?

Repubblica 13.11.12
Croce e delizia
Sessant’anni fa moriva l’autore dell’“Estetica” che influenzò tutto il pensiero del Novecento
Lo ricorda il nipote Piero Craveri, storico a capo della Fondazione intitolata al nonno
Idealismo di famiglia, ecco la vita intima di un grande filosofo
di Nello Ajello


Aveva quattordici anni quel 20 novembre del 1952, quando morì Benedetto Croce. Oggi il settantaquattrenne Piero Craveri, nipote del filosofo, professore emerito di storia contemporanea e presidente della Fondazione Croce, ha accettato di rievocare la personalità del nonno, nel sessantesimo anniversario della scomparsa. I suoi sono, insieme, ricordi di vita familiare e rilievi culturali di prima mano.
Qual è stata, Piero, la prima circostanza che, da bambino, ti fece pensare: il nonno è un grand’uomo?
«Fu nel 1942, o l’anno successivo. Io andavo per i cinque anni. C’era la guerra. Eravamo sfollati con i nonni materni in un piccolo paese del Piemonte, Colleretto Giacosa. Si temeva, in famiglia, una ritorsione da parte dei fascisti, proprio per la parentela che ci distingueva. Nessuno ci aveva prospettato quell’ipotesi in maniera netta. Ma era un timore ingombrante che ci aleggiava intorno. Nacque così in me la certezza che mio nonno fosse una personalità eminente. Si sa che i bambini vanno in cerca di un’identità. A me accadde di trovarla così».
Che nonno era, Benedetto Croce?
«La sua autorità domestica era indiscussa. Benché così assorto negli studi, e anche nella politica, non si lasciava sfuggire alcun particolare riguardante ciascuno dei suoi familiari. Era così nel rapporto con noi nipoti. Lo sentivamo, come dire?, distante ma presente. Il momento che più familiarmente si viveva con il nonno erano i pasti, durante i quali il suo ruolo non poteva che essere patriarcale. Tutti avevano a tavola un posto fisso. Noi bambini sedevamo alla fine del lungo desco, dopo gli ospiti. I quali cambiavano di giorno in giorno, ed erano sempre numerosi».
Ne ricordi qualcuno?
«Fausto Nicolini, Gino Doria, Giovanni Pugliese Carratelli, qualche volta Federico Chabod. Erano, in larga prevalenza, esponenti della vecchia civiltà napoletana. Sapevano individuare i pregi e i difetti di ciascuno, ma avevano la particolarità di non fare sfoggio di cultura. Tranne quando la conversazione verteva in maniera irresistibile sulle tante cose che sapevano».
Si parlava di politica, in famiglia?
«Di politica no. A volte, dei politici. Quando il nonno veniva a Roma, ospite di un amico napoletano, Antonio Sarno, che abitava vicino alla Minerva, di politici in anticamera se ne vedevano molti. Ne ricordo uno, De Gasperi. Stava per entrare nello studio che, in quell’appartamento, era riservato a Croce. Si fermò con spontanea gentilezza di fronte a me, unico bambino presente. Non potrò dimenticarne lo sguardo malinconico ».
Anche per questo, forse, saresti stato vari decenni più tardi uno dei massimi biografi del premier democristiano. Quel volume s’intitola semplicemente De Gasperi.
«Mentre lo scrivevo quel libro, il piccolo episodio di casa Sarno mi è tornato alla mente con naturale prepotenza».
Craveri, che cosa resta, oggi, di tuo nonno?
«La lettura di Croce è passata per tre diverse stagioni. Il primo Novecento ha visto l’affermarsi dell’idealismo. Poi c’è stata l’opposizione del filosofo al fascismo. In questi due momenti egli ha segnato nel profondo la cultura italiana. Ma non c’è stata mai una “dittatura crociana”. È un’invenzione escogitata in una terza ed ultima stagione, quella che, dopo il 1945, venne influenzata dalla contrapposizione comunista e neo-marxista. Oggi la valutazione dell’opera di Croce è sempre più sgombra da pregiudizi».
Chi sono, adesso, i crociani?
«Anche l’ultimo mezzo secolo ha visto in Italia una schiera di insigni studiosi che si sono rifatti a lui, da Nicola Matteucci a Rosario Romeo, da Giuseppe Galasso a Gennaro Sasso, e ancora Emma Giammattei e Michele Maggi. Cito solo questi fra i tanti. E fuori d’Italia sono usciti negli Stati Uniti gli importanti lavori di Hayden White e di David D. Roberts. In Germania la sua presenza è viva e attuale con Karl Egon Lönne. In Inghilterra la scuola di Collingwood ha tessuto un filo costante con l’intera opera del nonno».
Quali sono i libri di Croce che andrebbero letti e che non tutti leggono?
«Partirei dall’Estetica e dalla Storia d’Europa.
Ci sono poi le opere del Croce “moralista”, come Etica e politica e Cultura e vita morale.
Una scelta ampia delle opere di Croce figura nel catalogo della Adelphi, e l’edizione nazionale dell’“opera omnia” è in corso di stampa presso l’editore Del Franco».
E all’estero?
«Dell’Estetica abbiamo una traduzione inglese del 1992. Ne stanno preparando una in Russia e una in Francia. Altri suoi libri sono presenti in Spagna e in Argentina. In Cina è prevista la pubblicazione delle opere storiche».
Che ruolo svolgono le istituzioni a lui intestate?
«Partiamo dall’Istituto di Studi Storici, che Croce fondò a Napoli nel ’47. Ha accanto, a palazzo Filomarino, la Biblioteca (insieme, l’uno e l’altra raggruppano oltre 300 mila volumi). L’Archivio crociano raccoglie le lettere del filosofo: i suoi corrispondenti sono circa 10 mila. È in via di preparazione il carteggio Croce-Gentile in un unico volume».
Ma torniamo al personaggio privato. A “nonno Croce”. Inseguiamolo in villeggiatura.
«D’estate si andava a Pollone, vicino a Biella».
Un napoletano in periodica trasferta al Nord?
«Il legame del nonno con il Piemonte trovava forza nella frequentazione dei personaggi dell’antifascismo locale. Al fondo, c’era anche un’indubbia valenza risorgimentale».
Nei Taccuini di lavoro di Croce, cinque volumi pubblicati senza fine di lucro dall’“Arte Tipografica” di Napoli, ho trovato un episodio che riguarda tua sorella Benedetta. Data, 27 aprile 1948. La nipotina ha sei anni. Il filosofo depreca il fatto che «la bella bambina che reca il mio nome, istruita da una governante o istitutrice comunista che ha in casa», pronunzi «parole acclamative all’indirizzo di Stalin e per l’avvento del bolscevismo in Italia”. E aggiunge: «Alla prima occasione, porrò rimedio a questo». Come andò a finire? Croce fece licenziare la nurse?
«Non so e non credo. Di fatto, quella governante, livornese, professava una ferrea fede comunista. Probabilmente il nonno pensò che, per imitare quella ragazza, ci sarebbero stati motivi meno molesti di un inno a Stalin».

Repubblica 13.11.12
Tempi moderni
La studiosa Myriam Revault d’Allonnes ha scritto un saggio su questo tema che ha aperto la discussione in Francia
“L’idea di crisi infinita sta cancellando il passato e il futuro”
di Fabio Gambaro


PARIGI «Oggi abbiamo tutti la sensazione di vivere una crisi senza fine. Ma una crisi che non finisce mai non è più una crisi. Diventa il sintomo di qualcos’altro». Proprio a questa crisi onnipresente e inamovibile che sembra diventata “la trama della nostra esistenza”, la filosofa Myriam Revault d’Allonnes ha appena dedicato un corposo saggio, La crise sans fin (Seuil, pagg. 197, euro 19,50), che in Francia sta suscitando moltissimo interesse. Ripercorrendo storicamente l’idea di crisi, la studiosa francese ne propone una lettura originale in relazione con la nostra percezione del tempo e del futuro. Una prospettiva che le permette di affrontare la questione, sfuggendo ad ogni disfattismo rinunciatario. «La società occidentale vive da tempo al ritmo di una crisi globale che colpisce l’economia e la cultura, l’ambiente e l’educazione», spiega Myriam Revault d’Allonnes, che insegna filosofia politica a Parigi, all’Ecole Pratique des Hautes Etudes e a Sciences Po. «Ma se oggi ne percepiamo tutta la vastità e l’oppressione è perché siamo particolarmente sensibili a una crisi economica che si prolunga nel tempo. Proprio perché valutiamo tutto attraverso le categorie dell’economia, abbiamo l’impressione di una crisi acuta e generalizzata. Da anni si parla della crisi della famiglia o della coppia, ma ciò non ha mai fatto presa sulla sensibilità collettiva».
Lei però sottolinea che si usa la parola crisi in modo improprio. Perché?
«C’è stato un vero e proprio rovesciamento del suo significato originario. I greci utilizzavano la parola krisis soprattutto in ambito medico per indicare una situazione estrema limitata nel tempo. Nella crisi è implicito il suo superamento. Alla fase acuta della malattia segue la guarigione o la morte. Inoltre, grazie alla crisi si esce dall’incertezza, si decide una strategia e s’individua una via d’uscita. Oggi però la crisi ci sembra permanente. E’ onnipresente, invasiva e continua. E si è incapaci di decidere una strategia d’uscita. A forza di parlarne, è venuto meno ogni esercizio critico sul suo statuto e sulle sue caratteristiche. Insomma, quella che era un’eccezione è diventata la norma».
Una crisi senza fine è ancora una crisi o diventa qualcos’altro?
«Questa impressione di crisi diffusa a cui non sappiamo sottrarci, è una metafora della condizione dell’uomo contemporaneo che rivela soprattutto la trasformazione della nostra relazione con il tempo e la nostra incapacità di pensare il futuro. Nella modernità, la crisi era una tappa nella realizzazione di un divenire caratterizzato dall’idea di progresso. Per Hegel, Marx e i teorici della economia politica, è una fase critica da superare in direzione di un futuro migliore. Oggi, se la crisi è percepita come insuperabile è perché è venuta meno l’idea di futuro. La nostra visione dell’avvenire è infatti incerta, non prefigurabile. Fino agli anni Ottanta avevamo ancora una prospettiva. La fine del lungo boom economico del dopoguerra e il crollo del muro di Berlino hanno però segnato la fine delle speranze secolari. Simbolicamente, per l’uomo occidentale è emerso come ha scritto Lévinas - un tempo senza promesse. Secondo me, questa è la chiave per capire la nostra situazione».
Un tempo senza futuro modifica anche la relazione con il presente?
«Il presente appare come dilatato all’infinito, invade tutto. Oltre al futuro, scompare anche il passato, dato che sembra impossibile fare ricorso alla tradizione. Ma oltre ad essere dilatato all’infinito, il presente non ha più significato, sembra non dirci più nulla e soprattutto ci sembra immobile».
Le trasformazioni tecnologiche non sembrano indicare un movimento continuo?
«E’ solo un effetto ottico. In realtà, questa accelerazione frenetica gira a vuoto senza produrre cambiamenti reali nelle nostre vite. Per Virilio ci troviamo in una situazione d’immobilità folgorante. La famosa frase del Gattopardo, occorre che tutto cambi perché tutto rimanga com’è, riassume molto bene la percezione che abbiamo della situazione.»
All’epoca dell’Illuminismo, l’idea di crisi era legata al cambiamento. Oggi non è più così. Perché?
«L’inquietudine della modernità fa da sfondo all’attuale situazione di crisi. L’uomo senza più le garanzie offerte dalle trascendenze del passato, cerca di costruirsi delle nuove prospettive, che però non hanno più nulla di definitivo e certo. Da qui la situazione d’incertezza che alimenta la sensazione di una minaccia incombente. L’inquietudine e l’incertezza naturalmente possono alimentare lo spirito critico, ma anche - come avviene oggi – un sentimento di abbandono e d’impotenza di fronte alla catastrofe imminente. Come se né gli individui né le società avessero più le risorse per tentare di resistere al declino».
Lei riprende la metafora dell’uomo in gabbia proposta da Max Weber...
«In effetti, una gabbia d’acciaio, che però non è solo il risultato delle costrizioni esterne che pesano sull’uomo, ma anche delle costrizioni che ciascuno impone a se stesso per adattarsi a tale situazione. Più o meno consciamente ogni individuo partecipa alla costruzione della gabbia in cui sta chiuso».
Per alcuni questa condizione d’imprigionamento senza futuro rappresenta la fine della storia e della politica. Anche per lei?
«No. Il leitmotiv della fine secondo me è controproducente. Preferisco ricordare Hannah Arendt che, alla metafora della gabbia, contrappone la metafora della breccia. E’ un approccio non necessariamente più confortevole, ma certamente più produttivo. La breccia, oltre a indicare la rottura con la tradizione, spiega la condizione esistenziale e antropologica di un uomo che, anche quando smarrisce i propri punti di riferimento, non perde la facoltà di pensare e la capacità d’iniziativa. In questa prospettiva, la crisi può spingere a proiettarci in avanti alla ricerca di un nuovo inizio. Ritrovando il suo significato originario, la crisi diventa allora occasione di cambiamento».
Nella pratica, di fronte alla crisi, cosa si può fare?
«Innanzitutto, recuperare il senso critico per sottrarci alla gabbia che noi stessi abbiamo contribuito a costruire. Dobbiamo fare un lavoro critico su noi stessi, ma anche valorizzare le capacità della società democratica di sottrarsi all’immobilismo. Nella dinamica democratica c’è sempre qualcosa che ci permette di non considerarci condannati alla sconfitta».
Sul piano individuale, cosa può significare la metafora della breccia?
«Significa che l’individuo deve saper reinventare la propria relazione con il tempo, il futuro e l’incertezza. Naturalmente è molto difficile, specie nell’attuale situazione economica. Non è facile domandare a un lavoratore precario di ripensare il suo rapporto con un avvenire incerto. E non si tratta di vantare il fascino della precarietà o della flessibilità. E’ però necessario che il futuro sia pensato in modo diverso. Per gli individui come per le società occorre sapersi orientare nell’azione anche senza garanzie. Una società non deve per forza sapere quale sarà il suo avvenire per cercare di costruirlo. Lo stesso vale per gli individui, che dovrebbero riuscire a conquistare quella che Kundera chiama la saggezza dell’incertezza. Accettare l’incertezza non significa rassegnarsi alla precarietà, ma provare ad affrontare in modo diverso la realtà. Insomma, la crisi infinita non è la fine di tutto, ma un compito infinito che rifiuta la fatalità».