mercoledì 14 novembre 2012

Il Corriere della Sera oggi è in sciopero

l’Unità 14.11.12
Oggi lo sciopero CGIL
Camusso: «Il governo non capisce la sofferenza sociale»
Lo sciopero di oggi contiene una grande domanda di cambiamento.
«Cosa deve succedere ancora perché il lavoro diventi la priorità?»
Un proseguimento della stagione dei tecnici dopo il voto sarebbe una svolta autoritaria
La leader Cgil: il lavoro è l’emergenza dell’Italia
Giornata di lotta dei sindacati in tutta Europa contro la linea di austerità
intervista di Rinaldo Gianola


La sfida in diretta tv per le primarie del centrosinistra è stata un successo: su questo non mi pare che si possano avanzare dubbi.
«Questo è un Paese abbandonato, insicuro, che si frantuma e sacrifica vite umane all’incuria e al disinteresse. Viviamo una fase drammatica: i tre operai toscani morti ieri sono il tributo del lavoro all’emergenza, ma quante crisi, quanti tragedie, quanti lutti possiamo ancora sopportare? I contabili al governo non hanno ancora capito di aver sbagliato strada. Cosa deve ancora succedere affinchè il governo comprenda che è il lavoro la priorità del Paese, che è urgente un piano straordinario che offra speranza ai giovani, alle donne, ai disoccupati?»
Susanna Camusso rientra da un giro in Sicilia, uno dei tanti, disperati punti di crisi di quest’Italia indebolita e ingiusta, per guidare oggi lo sciopero generale di quattro ore indetto dalla Cgil in coincidenza con la giornata di lotta della Confederazione dei sindacati europei (Ces) contro le politiche di austerità che stanno mettendo in ginocchio il Vecchio Continente. Segretario Camusso, questa iniziativa sindacale europea forse arriva tardi, ma certo cade in un momento drammatico. Perchè avete chiamato i lavoratori allo sciopero?
«La Cgil aderisce alla protesta europea e rivendica sobriamente qualche merito, visto che la nostra analisi sulla natura e gli effetti della crisi, sui danni dell’austerità cieca e ideologica, ha trovato conferma nei fatti. L’Europa sociale dice oggi che bisogna smetterla con i tagli e basta, non possono pagare sempre e solo i lavoratori e i pensionati, ci vogliono risorse subito da investire per aiutare i redditi bassi, per creare un ciclo di investimenti produttivi, per creare lavoro. Le crisi si moltiplicano, i lavoratori sono buttati sulla strada, c’è un impoverimento generale. La Sardegna, la Sicilia sono una polveriera sociale, ci sono interi poli produttivi e settori industriali che stanno chiudendo. Il nostro sciopero chiede di cambiare strada, lo sciopero è la risposta giusta».
Eppure neanche l’appello europeo convince le confederazioni Cgil Cisl e Uil a fare un’iniziativa unitaria. Cosa deve succedere per tornare insieme in uno sciopero? «Neanche stavolta è stato possibile fare qualcosa insieme a Cisl e Uil, anche se ne avremmo tutti uno straordinario bisogno. Dobbiamo riflettere e agire lealmente per cambiare questa situazione perchè la divisione ci rende tutti più deboli. C’è un grande bisogno di sindacato, di un sindacato forte capace di contrattare, di proporre un nuovo modello di crescita, di intervenire sull’organizzazione e le condizioni del lavoro, sulla difesa dei diritti. Le forzature, gli strappi come l’esclusione della Fiom dal rinnovo del contratto dei metalmeccanici non aiutano. E ovviamente ribadisco la mia totale solidarietà a Cisl e Uil per gli attacchi squadristi contro le loro sedi». Quali sono i punti più delicati della crisi italiana in questo momento?
«Ho un grosso timore per quello che potrebbe succedere nel 2013, tra pochi mesi. Il presidente del Consiglio Mario Monti ci ha raccontato che le sue riforme faranno ripartire l’economia. Non è vero, non si vede nulla. Lo sfilacciamento del tessuto industriale, la caduta dei consumi, dei redditi dei lavoratori e dei pensionati, il disagio sociale sempre più largo sono tutti fattori che testimoniano la decadenza del Paese. Non sappiamo se ci saranno le risorse per gli ammortizzatori sociali, per la cassa integrazione in deroga, mentre cresce la domanda da parte di nuovi soggetti ad essere aiutati. Ci sono comuni in default, saltano i servizi minimi, sono stati tagliati i fondi agli enti locali, alla sanità, alla scuola e non c’è un intervento che abbia il segno della redistribuzione e dell’equità. Ogni provvedimento del governo ha il dna inequivocabile dell’ingiustizia, toglie speranze invece di crearne. Non si può pensare solo ai mercati, così si distrugge il Paese».
Ma l’azione dei tecnici trova consensi trasversali, c’è chi li vuole anche dopo il voto. «Il proseguimento di questa stagione tecnocratica sarebbe una svolta autoritaria. È chiaro per chi ha a cuore la nostra Costituzione che il governo dei tecnici, non eletti, privi del riconoscimento democratico dei cittadini, può essere solo un episodio limitato nel tempo, almeno di non voler alterare i fattori fondativi del nostro Stato. Ma forse avremo qualche ministro tecnico impegnato direttamente nella campagna elettorale. Invece di occuparsi della politica industriale, di restituire un po’ di soldi ai lavoratori, di cambiare i vertici di Finmeccanica prima che esploda un altro dramma occupazionale, si stanno preparando le elezioni».
I sindacati sono stati accusati di porre ostacoli agli investimenti stranieri... «Propaganda inutile. Hanno cambiato le pensioni, il mercato del lavoro, ne hanno combinate di tutti i colori e siamo ancora in una crisi spaventosa. Gli stranieri non investono perchè la corruzione è devastante, perchè la legalità è a rischio in larga parte del Paese, perchè la politica fiscale con possibili interventi retroattivi fa scappare tutti. Questi sono i fatti».
Cosa si aspetta dalla politica?
«La campagna elettorale infinita rischia di fare danni. Bisognerebbe usare questi sei mesi che ci portano al voto per decidere provvedimenti capaci di alleviare le sofferenze della gente, di fermare l’impoverimento del Paese. Se ci fosse poi una legge elettorale capace di ridare senso alla partecipazione dei cittadini sarebbe un gran successo».
Ha visto in tv i candidati alle primarie dei progressisti?
«Sì. È stata una bella prova, un’eccezione in questo scenario politico. Vuol dire che c’è spazio, che ci sono dirigenti politici capaci di parlare dei problemi della gente, di proporre soluzioni, di cercare il consenso attraverso azioni leali e trasparenti. Di questo abbiamo bisogno».

l’Unità 14.11.12
Giornata di lotta in Europa contro la crisi e l’austerità
di Massimo Franchi


ROMA L’Europa del lavoro tutta mobilitata contro le politiche di austerità. Per la prima volta nella storia del sindacato europeo in 23 Paesi sui 27 che compongono l’Unione sono state organizzate manifestazioni nello stesso giorno. La Confederazione europea dei sindacati (Ces in francese, Etuc in inglese) ha proclamato oggi come «giornata di azione per il lavoro e la solidarietà in Europa, contro l’austerità». In quattro Paesi, i più in difficoltà, si è deciso di scioperare. Se in Spagna e Grecia lo sciopero sarà unitario, in Portogallo e Italia invece una sola confederazione lo ha proclamato. Qui da noi è la Cgil ad aver indetto 4 ore di sciopero generale, dopo un lungo tira e molla con Cisl e Uil. Se la Cisl si limiterà «a iniziative di sensibilizzazione e sviluppo delle proposte del Patto Sociale approvato dalla Ces», la Uil ha deciso di tradurre «la mobilitazione europea in un’occasione per iniziare a costruire un progetto di sviluppo che trovi nei giovani i suoi principali artefici e che tenga conto del ruolo strategico che il Sud», come spiega la segretaria confederale Anna Rea che insieme a Luigi Angeletti sarà a Napoli per incontrare gli studenti e il personale della scuola secondaria superiore “Sannino”.
Solo la Cgil in piazza, dunque. Con manifestazioni in tutte le province, tranne quelle colpite dal maltempo. I lavoratori di Orvieto, Massa Carrara, Lucca, Pisa, Livorno, Grosseto e Siena sono stati esentati.
La manifestazione principale si tiene in Umbria, dove lo sciopero è di 8 ore, e precisamente a Terni, da dove parlerà Susanna Camusso. La città umbra è stata scelta proprio perché è teatro di una vertenza che ha molto di “europeo”. Le storiche acciaierie di Ast Terni sono state cedute da Thyssen ai finlandesi di Otukumpu. Ora però lo stabilimento è sul mercato perché, nell'ambito della fusione tra gli impianti di Outokumpu e ThyssenKrupp, il colosso finlandese dell’Inox ha deciso di liberarsi del sito di Terni per evitare una procedura d’infrazione da parte dell’Antitrust europeo che le contesta la soglia di concentrazione del settore Inox. In Umbria poi la necessità di una diversa politica industriale è improcrastinabile per dare risposte alle oltre 100 crisi aziendali aperte nella regione, dalla Antonio Merloni, alla Trafomec, alla crisi dell’edilizia, a quelle del polo chimico ternano e delle tante aziende metalmeccaniche in crisi. L’Umbria dunque sarà in piazza a Terni. La manifestazione si svolgerà con un corteo che partirà alle 9,30 dai cancelli della ThyssenKrupp Acciai Speciali Terni (Ast) di viale Brin per concludersi con i comizi finali, dalle 11.30 in poi, in piazza della Repubblica.
A Milano la manifestazione partirà alle ore 9,00 da Porta Venezia e arrivo in Piazza Duomo. Vi parteciperanno anche le Rsu Cgil della Rcs quotidiano che hanno deciso «di rinunciare all’esenzione dallo sciopero» prevista dalla loro federazione (Slc) mettendo a rischio l’uscita in edicola per domani di Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport. Gli altri segretari confederali della Cgil saranno sparsi per l’Italia. Ad Andria ci sarà Fabrizio Solari, a Bologna Danilo Barbi, a Cosenza Vincenzo Scudiere, a Napoli con Elena Lattuada, a Genova Serena Sorrentino, a Siracusa Vera Lamonica, a Trento con Nicola Nicolosi. In molte piazze gli studenti saranno accanto ai lavoratori.
Con un timore («infondato», sottolineano gli organizzatori) di incidenti per la presenza dei centri sociali napoletani, a Pomigliano la Fiom ha organizzato la sua manifestazione. Diversa, ma non in contrapposizione con quella fissata in precedenza a Napoli dalla Cgil. Davanti allo stabilimento Giambattista Vico si ritroveranno Maurizio Landini, Nichi Vendola, Antonio Di Pietro, Stefano Fassina, Luigi De Magistris e il professor Stefano Rodotà, che dopo il corteo, parlerà dal palco in piazza Primavera, nel centro città, ieri tappezzata dai manifesti dei sindacati del “Sì”.

l’Unità 14.11.12
Noi con la lotta dei lavoratori europei
di Emilio Gabaglio
Presidente Forum Lavoro Pd


RISPONDENDO ALL’APPELLO DELLA CONFEDERAZIONE EUROPEA DEI SINDACATI (CES), i lavoratori di tutti i Paesi dell’Unione saranno oggi, 14 novembre, protagonisti di una forte giornata di mobilitazione e di lotta. La diversità delle iniziative programmate, dagli scioperi alle assemblee nei luoghi di lavoro, ai presidi ed alle manifestazioni nelle capitali e in molte altre città europee, nulla toglie al significato unitario e corale di questa giornata che vuole dare voce alle rivendicazioni comuni del sindacalismo europeo. La convinzione è che l’uscita dalla perdurante e devastante crisi in cui siamo immersi non dipende solo da risposte nazionali, ma richiede che queste siano parte integrante di un disegno europeo condiviso, orientato alla ripresa della crescita dell’economia nell’ottica di uno sviluppo sostenibile e di una maggiore e migliore occupazione.
Tutto l’opposto di quanto sta avvenendo a causa delle politiche di austerità adottate dall’Unione europea che, come la Ces denuncia, inascoltata, da tempo, non solo sono socialmente ingiuste in quanto peggiorano le condizioni dei lavoratori e ne comprimono i diritti, ma si rivelano ogni giorno di più inefficaci dato che, producendo un avvitamento recessivo dell’economia e un pesante aggravamento della disoccupazione (che tocca ormai tocca 25 milioni di europei) rendono più difficile, se non aleatorio, l’obiettivo della riduzione del debito e del risanamento delle finanze pubbliche.
Una valutazione peraltro condivisa sia pure tardivamente dallo stesso Fondo monetario internazionale e che trova riscontro nelle più recenti previsioni economiche di Bruxelles. Nelle condizioni di oggi, insomma, non c’è nessuna luce in fondo al tunnel della crisi.
Muovono da qui le ragioni della rivendicazione della Ces per un netto cambiamento degli indirizzi della politica macroeconomica dell’Unione in modo da sostenere crescita ed occupazione, un obiettivo certo evocato anche dal Consiglio europeo del giugno scorso, tuttavia non suffragato da decisioni adeguate alla bisogna e in definitiva ben poca cosa a confronto dei vincoli stringenti, e ben più determinanti, derivanti dagli accordi sui bilanci pubblici, ultimo il Fiscal compact.
La critica dei sindacati nei confronti delle politiche dell’Unione è quindi serrata, ma sarebbe sbagliato leggerla come un atto di sfiducia nell’integrazione europea e l’avvisaglia del venir meno del consenso al «progetto europeo» di cui il movimento sindacale è stato storicamente tra i più convinti assertori. A ben vedere è vero il contrario, se si considera che proprio la realizzazione delle rivendicazioni sindacali comporta il completamento di questo «progetto», oltre lo stallo politico ed istituzionale in cui versa, per dar vita ad un vero «governo economico europeo», all’indispensabile armonizzazione fiscale, ad una strategia comune di politica industriale e alla riaffermazione, pur con tutte le riforme rese necessarie dai cambiamenti in atto, della centralità del «modello sociale europeo» e di quella «civiltà del lavoro» di cui l’Europa è stata antesignana e che ancora oggi ne definisce l’identità. Un completamento che comporta di necessità anche più avanzati livelli di unificazione politica e di democratizzazione delle istituzioni comuni.
È importante che queste rivendicazioni siano condivise e sostenute dai sindacati sia dei Paesi «più forti» che di quelli «più deboli» e che esse si esprimano in una fase in cui si è riaperta la discussione sul futuro dell’Unione europea, compresa una nuova e più ambiziosa scrittura dei Trattati in cui la Confederazione europea dei sindacati giustamente richiede di includere con chiarezza i presupposti dell’Europa sociale.
Sono tutti obiettivi che coincidono largamente con quelli sostenuti nel Parlamento europeo e nei singoli Paesi dalle forze politiche progressiste e che portano anche il Pd ad esprimere, pur nel rispetto dell’autonomia del sindacato, piena e solidale partecipazione alla giornata di mobilitazione e di lotta dei lavoratori italiani ed europei di oggi 14 novembre.

l’Unità 14.11.12
«La sfida del leader: una nuova alleanza tra etica e politica»
Carlo Galli: «Bersani fa benissimo a insistere sulla morale Un partito che ne è privo perde ogni credibilità e trascina a fondo la fiducia degli elettori»
di Bruno Gravagnuolo


ROMA «Una nuova alleanza tra etica e politica, tra movimenti civici e partiti che vogliono invertire il ciclo liberista. Il nocciolo della sfida di Bersani è questo». Ha scelto il segretario Pd come candidato premier Carlo Galli, storico delle dottrine politiche a Bologna. E lo ha fatto redigendo con altri studiosi il Manifesto degli intellettuali per Bersani, di cui è tra i maggiori ispiratori. Un scelta da filosofo politico, e sul filo di alcuni «concetti», tra i quali «moralità». L’asse del suo ragionamento niente affatto moralista ma iper-realistico è il seguente: l’etica e le etiche, sia pur conflittuali, sono forme di auto-riconioscimento dei cittadini, all’interno di una comunità. Senza questo cemento le identità si dissolvono, nel «bellum omnium contra omnes», guerra di tutti contro tutti, di cui parlava uno dei filosofi preferiti da Galli: Hobbes. Al culmine di quella guerra civile autodistruttiva arriva il famoso Leviatano. Mostro biblico assoluto che riceve forza dal conflitto e dal contratto. Solo che oggi quel Leviatano, sulle ceneri di partiti e appartenenze, rischia di assumere il volto del populismo, oppure quello dei tecnici-commissari. E l’uno e gli altri, come ben sappiamo e come ha scritto da ultimo anche Ilvo Diamanti non sono affatto in contrasto. Ecco perché occorre invertire il ciclo.
Professor Galli oltre che sul lavoro, le primarie di Bersani insistono sulla moralità. Retorica, o istanza vincente?
«Non è retorica, Bersani fa benissimo a privilegiare la morale, e nel prossimo numero di Italiani Europei ne parlo a fondo anche io. Va compreso che nella politica l’aspetto etico è irrinunciabile, anche se non è totalizzante. Del resto lo dice a chiare lettere la nostra Costituzione, che ruota attorno al tema della dignità della persona e del cittadino, dimensioni inseparabili. Una politica senza moralità distrugge ogni idea di politica e trascina a fondo la fiducia degli elettori».
Etica civile e non stato etico dunque? «L’etica civile non c’entra con lo stato etico, che pretende di dettare la morale ai singoli, inglobandoli. La prima è una base minima di valori condivisi, senza la quale lo stato si autodistrugge. Parlare oggi di morale è puro realismo e la pensava così anche Machiavelli» È dura però nella crisi di sfiducia attuale, non le pare?
«Dura, ma indispensabile. Bersani ha capito che, senza rimettere la morale civica al centro, si apre un baratro insanabile, nel quale torna l’arbitrio dello stato di natura. Dove prevalgono gli individui più cinici e amorali in una lotta di tutti contro tutti, con i più deboli che soccombono. Lo diceva anche Thomas Hobbes, il più realista tra i realisti. E oggi lo hanno capito a modo loro anche i neoliberali alla Mario Monti. Che puntano l’indice contro evasione e corruzione, ma soltanto per risollevare il Pil, non in nome della giustizia».
Che rapporto intravede tra a-moralismo e dilagare della spesa pubblica?
«La spesa pubblica c’entra, ma c’entra il giusto. Non è la chiave di tutto. A parte le variabili finanziarie mondiali, la corruzione e gli sprechi nascono da una società fatta di individui possessivi, incentivati all’illegalità. Liberismo e cinismo dell’economia, ma non solo dell’economia, hanno gravi responsabilità. E hanno prodotto la distruzione del capitale sociale. La dissoluzione della fiducia collettiva e della coesione. Il risultato è che stiamo tutti male, in una società dagli appetiti individuali scatenati»
Non teme che esaltare la morale possa dar forza ai discorsi populisti sulla «casta»?
«Sarei entusiasta se, su ogni dieci cittadini, vi fossero solo tre membri della casta sprecona. Il guaio è che ve ne sono molto di più e la filiera a-amorale è molto più vasta. Certo, l’esempio viene dall’alto. E le colpe sono diversificate. Per questo ci vuole un sussulto civico dal basso, e non antagonistico ai partiti, per prosciugare dal basso verso l’alto i cattivi modelli. Senza cadere nel populismo che azzera le colpe e neutralizza i conflitti sociali. Travolgendo nel discredito tutta la politica. A vantaggio dei più forti».
Allude a una «buona diversità»?
«Perché no? La sobrietà degli stili di vita e i buoni esempi, soprattutto in chi vuol cambiar le cose, sono uno stimolo formidabile a favore di una “buona diversità”, non per pochi ma per tutti».

Repubblica 14.11.12
La sfida tv non sposta i sondaggi e Bersani vuole vincere al primo turno “Il rischio ballottaggio va evitato”
E dietro le quinte scoppia la pace tra Pierluigi e Matteo
di Goffredo De Marchis


ROMA — Difficilissima, quasi impossibile. Eppure Pier Luigi Bersani gioca la partita della vittoria al primo turno. Ci prova soprattutto il suo comitato sperando che ci sia un’automatica (non richiesta) propensione al voto utile e una polarizzazione del confronto tra il segretario e Matteo Renzi che spinga il primo oltre la soglia del 50 per cento già il 25 novembre. Ma i sondaggi, anche i più favorevoli, remano contro. Dopo il confronto su Skytg24 gli spostamenti sono stati minimi. Nella più favorevole delle tabelle Bersani è avanti di 14 punti. Un ottimo margine ma non sufficiente: 45 per cento lui, 31 Renzi, 16 Vendola, le briciole a Laura Puppato e Bruno Tabacci. «Per sperare nel salto finale Renzi dovrebbe finire sotto al 30 e Vendola sotto al 15», dice uno dei consiglieri del leader. Ma i numeri parlano un’altra lingua.
Gli uomini di Bersani però vogliono evitare il rischio-ballottaggio. «Sono impegnato pancia a terra per la vittoria immediata », avverte il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, uno dei suoi principali sostenitori. Non è il solo. Una buona parte del gruppo dirigente considera la sconfitta al primo turno di Renzi il modo migliore per tenere il sindaco di Firenze lontano dalla stanza dei bottoni: quella delle candidature, quella degli organigrammi futuri. A Bersani certo non dispiacerebbe una legittimazione forte conquistata sul campo in un colpo solo. Ma per ora è molto soddisfatto dell’esito del confronto tv: «È stata una festa». E di una pace ritrovata con il suo principale
competitor che ha avuto lunedì sera il suggello dietro le quinte del teatro di posa milanese che ospita anche X factor. Bersani e Renzi, prima del dibattito, hanno scherzato a lungo. Il sindaco si è sorpreso di trovare l’”avversario” appassionato di calcio sebbene tifoso della squadra più odiata dai sostenitori viola: la Juventus. È stata l’occasione per scherzare con il portavoce di Renzi Marco Agnoletti, fan bianconero a dispetto delle origini fiorentine.
Bersani giocherà le sue carte per la sfida del 25 insistendo su giovani e donne puntando sul lavoro. È il bacino elettorale più sofferente, quello che secondo il segretario merita di essere rappresentato con forza. Renzi avvierà lo sprint questo week end convocando una nuova Leopolda, l’appuntamento dei rottamatori, rispolverando il contestato finanziere David Serra. Ma i giochi si stanno facendo negli “uffici elettorali” dove gli elettori di centrosinistra si iscrivono per partecipare alle primarie. Solo gli iscritti alla data di domenica 25 possono votare anche al ballottaggio. Con una finestra di 48 ore per iscrizioni volanti i lunedì e il martedì tra le due date. Non si dice pubblicamente ma questa è la garanzia che i bersaniani considerano fondamentale per il successo finale. «Metà dei voti della Puppato verranno da noi, quelli di Tabacci tutti», dicono al comitato. Lo si è capito anche in tv che il politico centrista ha una simpatia ricambiata
per il segretario. Il dubbio maggiore riguarda i consensi per Vendola. Sono di sinistra quindi dirottabili su Bersani. Ma sono anche favorevoli a una scomposizione del quadro, ossia sono rottamatori senza proclamarlo apertamente. E non è detto che in maggioranza si sposteranno dal governatore al segretario democratico. Anzi.
Bersani continua a essere comunque favorito. Ma la vittoria al primo turno ha molti vantaggi, il primo dei quali è in cima ai pensieri del leader: mantenere l’unità del centrosinistra mostrata lunedì ai telespettatori di Sky. Un testa a testa invece avrebbe per forza una dose di fair play molto inferiore a quello del confronto tv appena visto. E si aprirebbe per forza il capitolo di un’altra sfida davanti alle telecamere. L’aspetta Renzi e adesso la aspetta anche la Rai, scottata dopo aver perso l’appuntamento passato a Sky. È chiaro che in caso di nuova sfida il patto tra gentiluomini lascerebbe il posto a uno scontro. Con quali conseguenze per il centrosinistra? Per questo al comitato Bersani insistono per cercare la vittoria lampo.

il Fatto 14.11.12
“Sto con Bersani, basta con i pifferai”
Tabacci: “Renzi e Vendola con i piedi in due staffe. Papi e cardinali nel Pantheon? Citazioni strumentali. Il Monti bis? Spero che il nuovo Parlamento porti il Prof al Quirinale”
a cura di Stefano Feltri ed Edoardo Novella


Continuano i videoforum con i candidati alle primarie del centrosinistra nella redazione del Fatto Quotidiano: dopo Matteo Renzi e Nichi Vendola, ieri negli studi della web tv del Fatto è arrivato Bruno Tabacci che ha risposto alle domande del direttore Antonio Padellaro, del direttore del Fattoquotidiano.it  , Peter Gomez e dei giornalisti Edoardo Novella, Caterina Perniconi e Carlo Tecce, nel dibattito condotto da Stefano Feltri. Pubblichiamo qui le risposte principali. Il forum integrale, con i video e i servizi, lo trovate su www.ilfattoquotidiano.it  

In genere i politici – anche del centrosinistra – alle nostre domande preferiscono le loro risposte. Proviamo a evitare gli slalom: solo 2 candidati hanno chance di vittoria senza nulla togliere al confronto, Bersani e Renzi. Lei con chi sta? (Padellaro)
Rispetto alle cose che ho sentito ieri (lunedì) dico Bersani. Credo che tesi come quelle di Renzi su un governo formato solo di 10 ministri siano irriguardose per l'intelligenza di chi ascolta. Renzi ha dieci assessori al Comune di Firenze, ma già aver messo insieme il ministero dello Sviluppo economico e delle Infrastrutture ha determinato problemi nella gestione concreta, credo che con meno di 18 ministri non si possa avere un rapporto efficace con il Parlamento.
(Padellaro) Ipotizziamo due scenari: Bersani vince le elezioni e diventa premier. Oppure il risultato elettorale impone il Monti Bis. Qual è il più utile al Paese?
Il primo atto nuovo Parlamento sarà la nuova elezione Capo dello Stato. E mi auguro che si voti Monti. Molte cose tornerebbero a posto: il Professore assumerebbe quella veste di garante internazionale come fece Napolitano dal vertice di Cannes fino all'uscita di Berlusconi.
(Padellaro) Il generale spread mette meno paura?
Ad aprile saremo fuori dall'emergenza
Passare da 575 a 350 significa 2 punti di Pil in meno nel costo del debito. E non è cosa di poco conto. Ora si parla di patrimoniale: ma non è giusto che la si paghi sulla base di quanto dichiarato al fisco, visto che il 30% dell'economia è in nero. Serve prima una fotografia precisa della ricchezza, per esempio con l'Isee a livello locale e superando l'Irpef a livello nazionale. Coloro che detengono patrimoni importanti dovrebbero essere chiamati a sottoscrivere debito pubblico italiano al tasso di interesse dei bund tedeschi. È un investimento sul Paese: debito decennale al tasso tedesco e lo spread è azzerato.
(Feltri) Tabacci è alle primarie in quota dell'Api di Francesco Rutelli?
È un po' riduttivo. Ho una storia democristiana e sono stato in questi anni alla ricerca di un'area centrale che mi ha portato a lavorare con Casini e poi rompere per un eccesso di tatticismo. Poi ho guardato a una parte del Pd: Enrico Letta è stato molto tentato dal costruire una cosa insieme, quando andava in giro a presentare il suo libro “Costruiamo una cattedrale”. Alla fine il progetto l'abbiamo fatto con Francesco Rutelli.
(Novella) Siamo reduci da un confronto stile X Factor tra candidati-concorrenti. Lei rappresenta la componente centrista della coalizione, ma tra papi e cardinali citati nel pantheon dei suoi competitor, vuol dire lei qualcosa di sinistra?
Io ho indicato De Gasperi e Marcora, un inno alla laicità... I papi e i cardinali lasciamoli stare, credo siano state citazioni strumentali. Io in questo anno e mezzo con Pisapia ho concorso a definire i diritti delle coppie di fatto senza che ci fosse un problema di governabilità.
(Novella) Il registro delle coppie di fatto è un esperimento-guida su cui il nuovo governo si potrà impegnare?
Quella è una formula equilibrata, attorno al tema dei bambini però occorre grande prudenza
(Feltri) Coppie di fatto sì, adozioni no...
Certamente.
(Perniconi) A proposito di coalizione: Bersani ha detto “Tabacci sì, l’Api no”. Lei si sente un candidato individuale o dell'Api?
A marzo, all'assemblea dell'Api, ho proposto lo scioglimento dopo la vicenda Lusi. I fatti della politica sono in ritardo sulle mie elaborazioni: alle primarie mi sono presentato con l'etichetta “Italia concreta” che semmai ricomprende l'Api. Se dovessi essere rappresentato dall'Api che vale lo 0,4% avrei finito prima di cominciare.
(Perniconi) E sulle candidature?
Faremo una lista di centro, la sinistra vuole fare da sola come con la “gioiosa macchina da guerra”?
(Perniconi) Ma Casini e Vendola possono stare nella stessa coalizione?
Sì, se io sto con Pisapia significa che Vendola deve andare un po' a lezione da Pisapia e Casini un po' da Tabacci.
(Perniconi) Non pensa che per lei sia stato un boomerang mantenere il doppio incarico, deputato e assessore a Milano, pur avendo rinunciato al doppio stipendio?
Lo dovrebbe chiedere a Pisapia, se ritiene il mio contributo marginale. E in questi 18 mesi non c'è un rimborso di un solo euro riferito a una qualsiasi mia azione, tipo l'utilizzo dei taxi con cui mi sposto. Quando ho ricevuto i vertici dell'Edf, per esempio, ho pagato io la colazione. E comunque questo mese ho restituito le deleghe. Avete chiesto cosa hanno fatto Renzi e Vendola?
(Feltri) Quindi lei non sta più esercitando il suo ruolo di assessore ora?
Le deleghe le ha trattenute Pisapia, anche se può darsi che gli dia qualche consiglio. Ma in questo momento non sto esercitando il potere di un assessorato importante come quello al Bilancio. E vorrei che questo fosse riconosciuto come un gesto di correttezza istituzionale assoluta. Dopo il voto del 25 novembre, Pisapia deciderà che fare di quelle deleghe, tenendo presente che possono benissimo trasformarsi in mie dimissioni.
(Gomez) Lei ha fatto un appello a votare, non tanto se stesso ma la coalizione. Dopo le primarie cosa farà? Pensa di essersi guadagnato i galloni di ministro?
Sono pronto a tornare a fare l'assessore. Non sono smanioso di fare qualcosa per forza.
(Gomez) A proposito di Lombardia, mi ha colpito che in un'intervista ha detto che le primarie per la Regione non devono essere competitive, visto che c'è consenso sul nome di Giorgio Ambrosoli. Non è un bel messaggio per i cittadini.
Si è fatta una lunghissima ricerca per trovare un punto di equilibrio per arrivare al nome di Ambrosoli, che risponde a una richiesta che va oltre l'attuale sinistra.
(Gomez) Ma le primarie non sono un sistema per scegliere i candidati?
E lei avrebbe scomodato l'avvocato Ambrosoli per poi buttarlo nel tritacarne?
(Gomez) Che pensa della crescita del Movimento cinque stelle?
Non è la prima volta che l'Italia si affida a pifferai che poi la portano fuori strada. Nel 1987 la Lega elesse due deputati. Nel 1990 15 consiglieri regionali in Lombardia, nel 1992 80 deputati. Il meccanismo non è diverso.
(Gomez) Parlare solo del presunto populismo di Grillo non le pare riduttivo?
Ma mentre apprezzo il giovane Mattia Calise, consigliere a Milano di 21 anni, espressioni di Grillo come “Rigor Montis” mi sembrano di uno squallore assoluto. Quando poi Grillo dice che se avessimo avuto la lira in una notte si risolveva il problema, voleva dire che con lira avrebbe fatto sì che chi si addormentava con 100 lire, al mattino si risvegliasse con 20. Con una svalutazione. E poi, suggerisce, se il nostro debito è per metà in mano straniera, smettiamo di pagarlo. Ma le nostre aziende che esportano il made in Italy dovrebbero farlo con il marchio di un Paese insolvente?
(Tecce) Si metta nei panni di un elettore che deve scegliere tra Grillo e una classe politica che ha generato i Lusi, i Maruccio, le arcorine. E dall'altra parte ci sono quelli come lei che hanno attraversato la prima e la seconda Repubblica, che si ripresentano. Non pensa che sia Grillo a rappresentare davvero la novità?
Quando sono stato raggiunto da un avviso di garanzia durante Mani Pulite mi sono chiamato fuori fino alla fine dell'iter giudiziario. Sono più candidabile di Grillo: ho avuto due assoluzioni contro Di Pietro che era il mio accusatore. Nel 2001 sono rientrato in politica e ho venduto la mia attività, una società di consulenza. Guadagnando un terzo in meno che da professionista, a differenza di quegli avvocati che sono diventati parlamentari e poi hanno presentato i provvedimenti di legge come risultati nell'interesse dei loro assistiti.
(Tecce) Lei che ha fatto anche parte della coalizione di Berlusconi nel 2001, come può essere credibile per un elettore di centrosinistra?
Dopo appena 4 mesi di governo, sulle rogatorie svizzere io mi alzavo in parlamento e dicevo che quelle cose non le avrei votate. Ho fatto più opposizione io di tanti della sinistra che fingevano di farla.
(Feltri) Chi sarebbe il suo ministro dell'Economia se arrivasse a palazzo Chigi?
Bersani.

il Fatto 14.11.12
Format primarie, grande spot democratico
La sfida tv è stata vinta da Matteo Renzi, ma sul voto Bersani resta davanti e c’è chi pensa che il sindaco miri al Pd
di Wanda Marra


Gli italiani guardano una rarità: un dibattito televisivo”. Seppur non senza una certa sufficienza la sfida televisiva dei “fantastici 5” del centrosinistra un po’ X factor, un po’ Stelle e strisce, sfonda a livello mondiale, e si guadagna un titolo sul Wall Street Journal. A commentare il confronto, in onda lunedì sera su Sky Tg 24 e Cielo, ieri e l’altro ieri si sono misurati politici, giornalisti, esperti a vario titolo. Il primo dato certo è che a livello mediatico è stato un successo: 4 milioni 569 mila spettatori unici e 1.885.816 spettatori medi, con uno share del 6,22%. Un record per l’emittente. Ma la risposta più entusiasta forse è stata quella dei social network: su Twitter l’ hashtag ideato dal blog nomfup, #csxfactor, è diventato numero uno tra i trend twitter mondiali. L’altro - #confrontoskytg24 - è stato saldamente al secondo posto nel traffico mondiale.
IL SECONDO DATO è che il confronto è stato vissuto un po’ da tutti i candidati come positivo: uno spot per le elezioni.
Qualche polemica non manca. Laura Puppato accusa Renzi di essere stato “teleguidato” via sms, Casini si rinsalda nel suo credo montiano: “Dai toni e dagli accenti che ho sentito traggo motivi di preoccupazione e meditazione. C’è necessità che una forte Lista per l’Italia non vanifichi il lavoro fatto dal governo”. Bersani lo rassicura, Renzi lo definisce “inutile”. Si preoccupa pure Fioroni, perché “Renzi vira a sinistra”. Anche Berlusconi è stato davanti alla tv: promuove Renzi, e boccia Bersani (perché nonostante sia il capo del partito, non si è dimostrato tale). Anche nelle pagelle approntate da commentatori ed editorialisti sui vari quotidiani, la sfida tv la vince Renzi per Repubblica, Corriere della Sera, Stampa (secondo Bersani), Vendola per Il Fatto (secondo arriva Renzi), Tabacci per il Sole24ore (secondo Bersani) e Bersani per il Messaggero (secondi Renzi e Tabacci). In generale se Bersani viene considerato generalmente “solido”, Renzi come comunicato-re lo batte. Vincitore il sindaco di Firenze pure per i lettori. Secondo un instant poll condotto in diretta dall’istituto Quorum in collaborazione con Repubblica, per il 33% dei telespettatori il più convincente è stato il segretario del Pd, seguito dal sindaco di Firenze al 31%. Vendola conquista il 12% degli intervistati. Solo il 5% indica Tabacci e il 4% premia Laura Puppato. Tra i lettori del Corriere.it   ieri sera stravinceva Renzi (con il 43), seguito da Bersani (26%), Vendola (21), Puppato (5) e Tabacci (6). Vince Renzi - col 43 per cento - pure per La Stampa, seguito da Bersani (34), Vendola (15), Puppato (5) e Tabacci (4). Stravince Renzi (con il 57) per i lettori del Sole 24 ore, seguito da Bersani (24), Vendola, (8), Tabacci (4) e Puppato (4). Per il Fatto quotidiano, invece, a vincere è Vendola, quasi al 37 per cento, segue Renzi con il 28 per cento, poi Bersani (con il 19), Puppato (9) e Tabacci (5). Facendo una media, Renzi risulta in testa con il 40%, segue Bersani con il 27%, poi Vendola col 16%, Puppato col 6%, Tabacci col 5%.
MA LA SFIDA TV quanto influisce sul voto? Ieri l’istituto Pie-poli ha sondato proprio le intenzioni di voto: il segretario del Pd è dato al 40-41%, contro il 35-36% del sindaco di Firenze. Commenta Piepoli: “Mi sono piaciuti tutti, ma Bersani e Renzi sono stati nettamente superiori agli altri. Bersani ha evocato la forza tranquilla di Mitterrand, mentre Renzi è stato il ragazzo ‘divergente’”. Parla di “solidità” di Bersani pure Mannheimer. Mentre un sondaggio di Sky di ieri vede tutti in crescita: Bersani dal 43 al 45, Renzi dal 32 al 33, Vendola dal 13 al 14, Tabacci dal 3 al 4, Puppato, dal 2 al 3. Nonostante le dichiarazioni di entusiasmo, Bersani ribadisce il no a un altro dibattito: “Ora confronto nelle piazze”. Uno gli è bastato e negli ultimi tempi i sondaggi lo danno anche 9 punti avanti a Renzi (non abbastanza per evitare il ballottaggio, comunque). I renziani si rifugiano nelle loro rilevazioni riservate, secondo le quali con 4 milioni di votanti, Renzi sarebbe sotto solo di 2 punti. Ma - ammettono - questa settimana non c’è stata crescita. Toni singolarmente bassi quelli del numero 2, Reggi che riconosce una “solidità” a Bersani. Il giornalista Fabrizio Rondolino - dal primo giorno convinto sostenitore del Rottamatore - sul blog TheFrontpage lo dà già per sconfitto: da leader, “si è autoderubricato a Giovane Turco, “aspettando in buon ordine che venga il suo turno”.
A ottobre c’è il congresso del Pd. Che il giovane Matteo, in caso di sconfitta alle primarie, una volta rinunciato al premio di consolazione, si prepari a capitalizzare questa battaglia, combattendone una per prendersi il partito?

il Fatto 14.11.12
Vendola, pm e gup alla guerra delle cene
I giudici di accusa contro la collega che lo ha prosciolto: “E’ amica della sorella”
di Antonio Massari


Bari Per quanto imbarazzante possa apparire, nella querelle giudiziaria sulla sanità pugliese, adesso si dovrà stabilire chi partecipava alle cene organizzate da Patrizia Vendola, sorella del presidente della Regione Puglia. Dopo l’archiviazione – Nichi Vendola era accusato di concorso in abuso d’ufficio per la nomina di un primario – in procura è arrivato uno strascico che sfiora il surreale. Tutto ruota intorno a tre donne: Desireé Digeronimo (pm che ha sostenuto l’accusa contro Vendola), il gup Susanna De Felice (che ha prosciolto il governatore con formula piena) e Patrizia Vendola. Dopo il proscioglimento, infatti, Desireé Digeronimo e il pm Francesco Bretone (con il procuratore aggiunto Lino Bruno hanno condotto l’inchiesta sul presidente pugliese) hanno scritto ai vertici della procura, Antonio Pizzi e Antonio Laudati, rispettivamente procuratore generale e capo, affinché possano attivare, “ove lo ritengano, i loro poteri di vigilanza e controllo”. Ed ecco il motivo: c’è una presunta amicizia tra il giudice Susanna De Felice e Patrizia Vendola. I due pm scrivono: “Li lega sia un’amicizia diretta, sia la frequentazione di amici in comune”. In sintesi: Susanna De Felice avrebbe dovuto astenersi dal giudicare Vendola. E invece non l’ha fatto. “Non ha ritenuto di doversi astenere”, lamentano Bretone e Digeronimo, invocando il controllo dei superiori. E poi specificano: “Dopo l’assoluzione, che ha smentito in toto l’impianto accusatorio, siamo stati contattati da molti amici e colleghi, che ci hanno chiesto come fosse stato possibile che, a giudicare il governatore, fosse stata un’amica della sorella di Vendola”.
A giudicare dalla lettera inviata a Pizzi e Laudati, quindi, par di capire che la conoscenza tra Patrizia Vendola e Susanna De Felice, sia emersa – per i due pm – soltanto dopo l’assoluzione del governatore: “Ci sono arrivati messaggi sul telefonino, alcuni colleghi si sono meravigliati del fatto che non avessimo ritenuto di rilevare formalmente nel processo questa circostanza”. E il lato surreale è proprio qui: Susanna De Felice, prima della sentenza, ha raccontato al capo del suo ufficio, il giudice Antonio Diella, che era una conoscente di Patrizia Vendola, avendola incontrata in occasione di alcune cene. Non ritenendosi amica, ma una conoscente con frequentazioni sporadiche, riteneva di non doversi astenere ma – per sicurezza – chiedeva conferma al suo capo. E il suo capo concordava: nessuna astensione. Nella lettera – protocollata – c’è però un dettaglio in più: alcune delle cene, nelle quali aveva incontrato Patrizia Vendola, erano state organizzate proprio da Desireé Digeronimo. E per non farsi mancare nulla, in questa storia, ieri anche Facebook ha offerto il suo contributo, quando Patrizia Vendola ha pubblicato le foto che la ritraevano con Desireé Digeronimo, l’accusatrice di suo fratello. Salvo rimuoverle.

La Stampa 14.11.12
E i radicali pro-Renzi “rottamano” Pannella
di Andrea Rossi


Il presidente Viale guida i militanti che sostengono il sindaco disobbedendo al leader Carismatico Marco Pannella ha scritto una mail ad alcuni militanti annunciando che non rinnoverà la tessera dei Radicali
Chiamatelo come vi pare: parricidio o, poiché siamo in tema, rottamazione. Perché forse mai come ora anche tra i radicali i leader storici e le figure carismatiche vengono messe in discussione, i loro diktat allegramente ignorati.
I seguaci torinesi di Pannella&Bonino hanno deciso di schierarsi alle primarie e appoggiare Matteo Renzi. Scelta che ai cultori del laicismo farà venire i sudori freddi. Il guaio, oltretutto, è che Marco Pannella era stato chiaro: alle primarie non ci si schiera; di più, non si partecipa. In mezza Italia, invece, l’imposizione del padre padrone è stata disattesa: prima adesioni individuali, poi addirittura gruppi più o meno organizzati, infine associazioni. A cominciare da Torino, dove la Adelaide Aglietta ha appena annunciato il suo endorsement per il sindaco di Firenze. Scelta deflagrante, perché a guidare i ribelli è il presidente dei Radicali italiani, quel Silvio Viale vulcanico medico-militante, trent’anni a dar battaglia tra l’ospedale, le piazze e il palazzo: lo spinello libero, il crocefisso vietato, le nozze gay, l’eutanasia, la Ru486. Da qualche anno Viale è il peggior incubo del vecchio leader: l’hanno eletto per tre volte consecutive presidente dei Radicali, l’ultima qualche mese fa, e sempre contro il candidato sponsorizzato da Pannella. Adesso quest’ultimo “parricidio” che sta squassando la galassia radicale. Per di più a sostegno del meno laico - con Tabacci - tra i cinque candidati.
Pannella non l’ha presa bene. Ha scritto una mail a Viale e ad alcuni compagni, annunciando che non rinnoverà la tessera dei Radicali italiani, visto che il presidente è Viale. «Mi sorprende e mi addolora il sostegno a questa iniziativa chiaramente VialEsca (sic) pressoché unanime di tutta la Aglietta». A dargli manforte Angiolo Bandinelli, scrittore toscano, ex deputato radicale: «A nessuno sfugge il significato politico di quell’iniziativa: anni fa c’erano i “compagni di viaggio”, i cosiddetti indipendenti di sinistra. Fecero tutti la figura dei c. Per fortuna i torinesi non sono “indipendenti” di sinistra».
Il guaio è che non sono soli. All’ultima riunione dell’associazione Enzo Tortora di Milano molti militanti hanno annunciato di volersi schierare alle primarie. E così in altre città. È pure spuntato un gruppo, «Radicali per Renzi». Viale, che è anche consigliere comunale eletto nel Pd, tenta di smussare gli spigoli: «Il carisma e la storia di Pannella fanno sì che dove c’è lui ci sono i radicali. Prendo atto del suo dissenso, ma rivendico la coerenza di una posizione che ci vede collocati nel centrosinistra». Sì, ma proprio con Renzi? «Sui temi laici non si tratta di soppesare strumentalmente le posizioni personali, ma la disponibilità a permettere che il Paese e il Parlamento possano pronunciarsi. E su questo Renzi c’è».
Fine delle polemiche? No, c’è da starne certi. Anche perché Viale alla fine qualche sassolino se lo toglie. «Tanto alla fine gli accordi elettorali li sottoscrive Pannella con la sua lista, che è un’associazione chiusa».

Repubblica 14.11.12
Puppato e gli sms a Renzi nell’arena “Era teleguidato”. “Sospetto ridicolo”
di Massimo Vanni


FIRENZE — «Il ragazzo sembrava teleguidato». Per tutto il tempo del confronto tv Matteo Renzi compulsa l’inseparabile iPhone e la competitor Laura Puppato, il giorno dopo, lo accusa di aver usufruito dei suggerimenti remoti di qualche “spin-doctor”. «Nessuno di noi si era portato il cellulare», dice la consigliera veneta del Pd. «Renzi riceveva messaggi sul telefonino e li leggeva, sembrava teleguidato», scrive Puppato su Twitter. Quasi ad insinuare il sospetto di un confronto sleale. Ma il sindaco di Firenze neppure ribatte. Lo fa il suo portavoce Marco Agnoletti: «Accusa ridicola, ma ve l’immaginate Matteo che accetta indicazioni da qualche suggeritore esterno? Solo chi non lo conosce può pensarlo».
Forse era in contatto con Giorgio Gori? «Ma se era in prima fila, ospite di Sky, davanti alle telecamere, l’avrebbero visto». Il suo capo staff Roberto Reggi allora? «Sì, si è visto con la cravatta, gli aveva consigliato di non mettersela e si è presentato con quella viola Fiorentina». Non esiste, giurano dallo staff. È vero, Renzi non si separa mai dal suo iPhone con il retro «keep calm and rottama », stai calmo e rottama. Perfino la maratona l’ha corsa col telefonino in mano. Riceve centinaia di messaggini al giorno: sono la sua antenna, spiega un altro suo stretto collaboratore, il suo modo maniacale di avere sempre il polso di ciò che succede. Ma che si faccia suggerire le risposte proprio no. Quando si tratta di telecamere, si fida solo di se stesso: «Le domande non si sapevano prima e spesso doveva rispondere pochi istanti dopo: neppure la Spectre avrebbe potuto organizzare un sistema di raccolta e d’invio informazioni», incalza il portavoce. «Se poi davvero si fosse accorta di chissà quale astrusa struttura segreta per inviare suggerimenti avrebbe potuto, anzi avrebbe dovuto dirlo subito. le accuse del giorno dopo hanno il sapore della mancanza di coraggio», aggiunge Reggi.
Renzi è comunque uscito soddisfatto dal confronto tv, sicuro di aver giocato la partita giusta. Anche su quel no all’alleanza con l’Udc di Casini, convinto com’è che dai sondaggi s’intraveda adesso uno smottamento di voti da Vendola verso Bersani. «Ho detto meno di quello che volevo, i tempi stretti non aiutavano», dice Renzi. Che torna però ad attaccare la Rai: «Complimenti a Sky che ha raggiunto un bellissimo risultato e amarezza per la Rai invece. Dopo i dati che abbiamo fornito circa il conto dei minuti di visibilità a noi riservati, la Rai si conferma incapace di usare queste primarie per svolgere un servizio pubblico. Comandano i portavoce di partito nei Tg della Rai». Durante la registrazione di Porta a Porta ieri, le accuse di Puppato aleggiano tra Renzi e Alfano. Alcuni rumori disturbano e Renzi: «E’ Berlusconi che controlla». E Vespa: «Anche dalle tue parti però...». Conclude Alfano: «I vostri sono sistemi più sofisticati, è una tradizione antica».

La Stampa 14.11.12
“Vendola e Renzi non ci vogliono? Per me conta solo Bersani”
Casini: c’era “Squadra antimafia”, ho visto solo metà confronto
di Amedeo La Mattina


Casini non sembra preoccupato per le parole di Vendola e Renzi che lo escludono da una futura coalizione di governo. «Fatico a vederlo nostro alleato», ha detto il leader di Sel durante il dibattito su Sky. «Di “casini” ne abbiamo già abbastanza di nostri», ha rincarato la dose il sindaco di Firenze. Mano tesa invece di Bersani che invita a non essere settari. Ecco, il leader Udc rimanda alle parole di D’Alema perchè non è detto che la sinistra avrà la maggioranza. Quindi, calma e gesso, si vedrà quali saranno gli equilibri alla Camera e al Senato, e poi si capirà se i voti dei centristi saranno essenziali o no. Del resto, spiega Casini alla buvette della Camera mentre sorseggia un tè, «per me conta quello che dice Bersani, il resto è propaganda, campagna elettorale e le campagne elettorali le facciamo tutti». L’impressione è che a dargli più fastidio siano le affermazioni del «rottamatore» che considera sopravvalutato. Infatti Casini è convinto che se D’Alema avesse deciso prima di non candidarsi, il «fenomeno Renzi si sarebbe sgonfiato in partenza». «È quello che sta accadendo da quando D’Alema e Veltroni hanno fatto un passo indietro. Tra l’altro dò atto a D’Alema di aver fatto un gesto coraggioso incredibile».
Nel confronto su Sky questo sgonfiamento è stato plasticamente rappresentato. «Il più bravo è stato Tabacci, ma Bersani è apparso il leader. Renzi poteva dare il colpo del ko, aveva puntato tutto sul dualismo con Bersani e invece su Sky è sembrato uno dei 4 sfidanti di Bersani». Casini racconta di avere visto solo la seconda parte del confronto tv perchè non poteva perdersi la serie «Squadra antimafia» su Canale 5. «Come vedi, caro Paolino, non taglio mai i “canali” con voi», dice sornione a Paolo Bonaiuti, portavoce di Berlusconi. Ma quello che ha visto gli è bastato per trarre «motivi anche di preoccupazione e meditazione», confermando la necessità di far crescere una forte lista per l’Italia dei moderati. Ma se le primarie stanno servendo al Pd per confermare il loro trend crescente, lastessa cosa non sarà così scontata per il Pdl. Il rischio di un flop è in agguato, ma il segretario del Pdl è costretto a seguire questa via. «Hanno ragione tutti e due. Alfano perché deve legittimare la sua leadership. Berlusconi perché teme l’insuccesso. Comunque sostiene Casini mentre mangia un biscottino - le primarie del Pdl non sono paragonabili a quelle del Pd». Detto questo, Alfano è coraggioso: la sua situazione è molto complicata. «Io lo capisco, non è facile muoversi con Berlusconi che incombe. Spesso vengono chiesti atti di coraggio agli altri, ma pochi li fanno. Per quanto mi riguarda, ho dimostrato di aver caratterizzato la mia azione politica con atti di coraggio, rischiando l’osso del collo».
E Alfano esclude il Monti bis, che è il leitmotiv dell’Udc? Anche in questo caso, secondo Casini, si tratta di campagna elettorale: «Lui non esclude un Monti bis, ci crede. Deve però compiacere quelli che lo sostengono, ma deve stare attento all’abbraccio troppo stretto di quelli di An. Mi è sembrato molto sgradevole invece, anche nei modi, come Alfano abbia reagito a Fini. L’apertura di Gianfranco non era fatta in cattiva fede».
Infine la legge elettorale. «A luglio era fatta, con l’intesa che sarebbe stata approvata a settembre. Poi quello che è successo non lo so». Per Casini la soglia per avere il premio di coalizione è una richiesta della Consulta. Averla poi stabilità al 42,5% è un altro discorso. Ma se viene abbassataal 40, il Pd e i suoi alleati potrebbero raggiungerla? Chissà, osserva Casini. Fosse dipeso da lui, avrebbe previsto un premio del 10% al partito vincente. «E il 10% non è poco, fatevelo dire da uno ha fatto tante campagne elettorali». Secondo Casini il premio lo prenderebbe il Pd. «Prevedo che dopo le primarie ci sarà una lista unica che comprenderà da Tabacci a Vendola».


La Stampa 14.11.12
Dì qualcuno di sinistra
di Massimo Gramellini


Alla domanda del conduttore di Sky su quale fosse la loro figura storica di riferimento, i candidati alle primarie del centrosinistra hanno risposto: De Gasperi, Papa Giovanni, Tina Anselmi, Carlo Maria Martini e Nelson Mandela. Tutti democristiani tranne forse Mandela, indicato da Renzi che, essendo già democristiano di suo, non ha sentito il bisogno di associarne uno in spirito.
Scelte nobili e ineccepibili, intendiamoci, come lo sarebbero state quelle di altri cattolici democratici, da Aldo Moro a don Milani, evidentemente passati di moda. Ma ciò che davvero stupisce è che a nessuno dei pretendenti al trono rosé sia venuto in mente di inserire nel campionario un poster di sinistra. Berlinguer, Kennedy, Bobbio, Foa. Mica dei pericolosi estremisti, ma i depositari riconosciuti di quella che dovrebbe essere la formula originaria del Pd: diritti civili, questione morale, uguaglianza nella libertà. Almeno Puppato, pencolando verso l’estremismo più duro, ha annunciato come seconda «nomination» Nilde Iotti. Dalle altre bocche non è uscito neppure uno straccio di socialdemocratico scandinavo alla Olof Palme.
Forse i candidati di sinistra hanno ignorato le icone della sinistra perché temevano di spaventare gli elettori potenziali. Così però hanno spaventato gli elettori reali. Quelli che non possono sentirsi rappresentati da chi volta le spalle alla parte della propria storia di cui dovrebbe andare più orgoglioso.

l’Unità 14.11.12
Il senso di Roncalli e di Martini
Si tratta di esempi di una apertura al nuovo e all’essenziale, rispetto a una tradizione inaridita
di Carlo Sini


La sfida in diretta tv per le primarie del centrosinistra è stata un successo: su questo non mi pare che si possano avanzare dubbi.
Si è trattato, oltre al resto, di una grande lezione di stile di cui la politica tutta aveva bisogno: ne siamo ugualmente grati ai cinque protagonisti. Si è avuta altresì la sensazione della presenza, dietro ai loro interventi, di una grande forza politica accomunante sulla quale contare, pur nelle differenti opzioni strategiche o forse anche proprio per quelle. La cultura monolitica non giova alla politica, che è sempre mediazione in atto tra il reale e l’ideale, il possibile e l’attuale. Ovviamente la presentazione dei candidati leader secondo una logica televisiva, oggi indispensabile per tutti noi che siamo la gran massa degli elettori, è in grado di offrire informazioni preziose sulla personalità di ognuno, sui tratti caratteriali e sui riferimenti programmatici essenziali; sappiamo benissimo però, o dovrebbero sapere tutti, che la politica reale è poi tutt’altra faccenda, anzitutto perché i propositi e le intenzioni sono una cosa, la loro realizzazione un’altra. Qui l’azione del singolo leader è certamente importante, ma la sua efficacia e le sue possibilità di successo sono affidate a molte altre componenti complesse e anche problematiche.
C’è per esempio bisogno di una cultura politica di fondo capace di analisi efficaci; c’è bisogno, proprio per ciò, di un intero gruppo dirigente che, sebbene diviso in molti particolari, sia coeso e collaborante nelle strategie
essenziali; c’è bisogno di vedute ampie e generose di lungo percorso e di capacità tattiche per interventi ravvicinati e di immediata comprensione. Le forze che si oppongono al cambiamento, spesso nascoste dietro la facciata della saggia moderazione, sono enormi, molto più radicate e potenti, e disposte a difendersi con ogni mezzo, di quanto l’opinione pubblica possa sapere e immaginare: una politica realmente riformista, aperta a un futuro di maggiore giustizia e di profonda rinascita economica e morale, non trarrà molto vantaggio dagli slogan e dalla incarnazione di modelli di facile presa spettacolare. Ben altra, ben altrimenti dura e complicata sarà la partita e ogni tentazione semplificatoria esibita con populistica baldanza, come accade oggi con l’antipolitica da strada, è sostanzialmente un inganno perpetrato contro il popolo degli elettori.
Proprio per questo una politica degna di questo nome dovrà coniugare la tenacia coerente e intransigente degli interventi capillari con dei modelli di governo di alto profilo e di profonda portata. In questo senso molto mi ha colpito il riferimento di Bersani a papa Giovanni XXIII e di Vendola al cardinale Martini. Il fatto che due massimi esponenti di una forza di grandi tradizioni laiche e di sinistra abbiano ravvisato un modello ispiratore in due figure della chiesa cattolica non va però equivocato. Non si tratta, a mio avviso, di sottolineare il riferimento alla istituzione ecclesiastica o a un generico cristianesimo. Al contrario, proprio le due figure prese a riferimento incarnano agli occhi di tutti momenti di rottura con una istituzione immobilista e reazionaria, esempi di una quotidiana apertura al nuovo e all’essenziale rispetto a una tradizione inaridita, nonché il sogno di un ritorno alle origini rivoluzionarie di quella tradizione stessa.
In questi riferimenti leggo l’esigenza di riportare la politica sui binari di una visione universalmente terrena e umana della vita sociale, di riconsegnarla a un ideale che ne giustifichi l’impegno, le fatiche e i pericoli reali, quando quegli ideali si traducano in azioni concrete. È la nobiltà della politica, ben oltre le sue pur necessarie espressioni pragmatiche, a essere invocata, è la sua dedizione alla liberazione e alla tutela dei più deboli, è la sua capacità di credere in una giustizia che superi la condizione attuale, interpretando in questa luce ideale ciò che ha caratterizzato e caratterizza l’umanità tutta intera nella sua storia.
Diceva Rousseau che mentre le forze della conservazione si prodigano per convincerci che il cambiamento è impossibile, l’azione politica trasformatrice ha sempre dimostrato il contrario. Tutti i modelli che aiutino a riconquistare e a confermare questa fede siano benvenuti.

La Stampa 14.11.12
Addio Berlinguer e Gramsci Ora il pantheon è pop
I padri della sinistra “dimenticati” dai candidati che preferiscono cattolici
La svolta ideologica: Dai pensatori comunisti si è passati a quelli liberali sdoganati da Tony Blair
di Massimiliano Panarari


Dimmi a che pantheon ti rifai, e ti dirò che sei; quanto meno «a spanne». L’albero genealogico dei pensatori di riferimento, a sinistra, vale come la carta d’identità. E ad ascoltare i «magnifici cinque» protagonisti del dibattito di lunedì sera a proposito delle figure ideali cui si ispirano – De Gasperi, Giovanni Marcora, Tina Anselmi, il Cardinal Martini, Papa Giovanni – l’impressione parrebbe quella di una «grande Chiesa – copyright Jovanotti – che parte da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa». Solo che il Che non c’è più, e pure Malcolm X non si sente molto bene, mentre rimane Mandela. E ritornano i «fondamentali del compromesso storico» (Aldo Moro ed Enrico Berlinguer), come ha voluto precisare ieri D’Alema, segnalandone la vistosa assenza dalle dichiarazioni dei candidati alle primarie.
A pagare di più, dunque, nei termini della mancata inclusione nelle gallerie culturali uscite dalla trasmissione di Sky Tg24, sono i protagonisti della «via italiana» al comunismo e al socialismo (anch’esso, da Turati a Pertini, da annoverare decisamente tra i dispersi).
Do you remember, per esempio, Antonio Gramsci? Mentre furoreggia all’estero, sembrano essersene perse le tracce nel Pd, a eccezione delle sue sparute «guardie rosse» Beppe Vacca e il gruppo dei «giovani turchi».
I duellanti della stagione postcomunista, Massimo D’Alema e Walter Veltroni, in disaccordo su tutto (o quasi), si ritrovarono, infatti, sulla rimozione del passato divenuto ingombrante. E, così, il filosofo dei Quaderni del carcere finì per uscire dai radar dell’elaborazione partitica, a parte qualche omaggio formale. Fuori il pensiero comunista, dentro il liberalismo, declinato in ogni forma e salsa possibile (ma chissà quanto davvero metabolizzato…), con filosofi come John Rawls e Jürgen Habermas, e un dibattito alimentato, tra gli altri, da Michele Salvati (oggi direttore de il Mulino) e dagli intellettuali riuniti intorno alla rivista Reset.
All’epoca del cosiddetto «Ulivo mondiale», a fine Anni Novanta, quando imperversava la Terza via di Clinton e Blair e si susseguivano i meeting sulla «Progressive Governance», brillavano le stelle del nuovo guru Tony Giddens (il cui livre de chevet venne prefato, nell’edizione italiana, da Romano Prodi) e, in misura minore, di Ulrich Beck. Prendeva avvio l’esternalizzazione della cultura politica, sull’onda di quanto avvenuto nel mondo anglosassone; e, così, anche nel vocabolario politico italiano faceva il suo ingresso la parola think tank: visto che i partiti della Seconda Repubblica, in tutt’altre faccende affaccendati, snobbavano la produzione di idee, ci pensavano pensatoi e fondazioni come la dalemian-amatiana Italianieuropei.
Cambiano i tempi e va sempre forte nel pantheon progressista, depurato degli accenti più «antagonistici», don Lorenzo Milani, mentre rimangono stabili, ma in un pacchetto inesorabilmente di minoranza, le azioni del socialismo liberale. A parole si omaggiano gli illustri esponenti di una tradizione che vanta Piero Gobetti e i fratelli Rosselli, via via fino a Norberto Bobbio. Ma qualcuno continua a ritenere che siano troppo «torinesi» ed elitari, roba da salotti buoni e da borghesia illuminata, che mal si sposa con un partitone «dalle solide radici popolari». Ci aveva allora pensato Walter Veltroni, nel suo mix postmoderno, a ospitarli, insieme ai suoi must importati dagli States, i Kennedy (JFK, ma soprattutto Bob) e Martin Luther King.
E, oggi, se due esponenti di spicco della componente liberal, Enrico Morando e Giorgio Tonini, chiedono di farla finita con Gramsci e Dossetti, il blocco neo-socialdemocratico che sostiene Bersani (autore di una tesi di laurea, ormai divenuta proverbiale, su Gregorio Magno) appare percorso da tendenze differenti. Così, dalle parti dei supporter del segretario può capitare di sentire un’incredibile apologia del «Migliore» (a volte ritornano…) nel nome del «primato del Partito», e, al tempo stesso, di assistere ai convegni di filosofi del Centro studi Pd presieduto dal deputato Gianni Cuperlo (già organizzatore, l’anno passato, di un ciclo di iniziative sul Centocinquantesimo dell’Unità d’Italia).

l’Unità 14.11.12
Bruno Tabacci: «Volevo citare Gramsci, poi ci ho ripensato»
di Susanna Turco


Si è divertito moltissimo nel confronto in diretta su Sky («costringeva a fare sintesi estreme, bisognava aver molto riflettuto prima, perché le domande non ce le avevano mica dette»), così come a vedersi dipinto tra i «Fantastici 5» nei panni dell'alieno Silver Surfer sul sito del Pd («immagine magnifica»). Bruno Tabacci, 66 anni, il più anziano tra i candidati alle primarie, si compiace nell'incarnare il ruolo di uomo di centro nella competizione del centrosinistra del 25 novembre. Sia per via del senso politico che ciò rappresenta («senza di me le primarie sarebbero state monche, sarebbe rimasto solo il tentativo successivo di stringere un accordo coi centristi di Casini dopo il voto»), sia per la ribalta mediatica che comporta («in attesa di nuovi confronti, andrò comunque a Porta a porta, da Santoro, eccetera, vedrete»). Del risultato in termini percentuali gli importa poco («e dietro di me non ho mica la macchina organizzativa degli altri, non ho mica la Cgil»): il senso simbolico, piuttosto. L'intuizione, la sfida. L'essere una spina nel fianco, come ai tempi di Berlusconi regnante: ma stavolta sull' altro fianco, quello vitale. L'aver distinto in modo netto il sì alle unioni civili anche tra persone dello stesso sesso – avendo peraltro appoggiato da assessore il sindaco Pisapia nell'istituire il registro a Milano dal no al matrimonio «che è un'altra cosa». L'aver indicato, lui, democristiano, due idoli laici del suo pantheon, mentre Bersani e Vendola parlavano di papi e cardinali («una cosa incredibile»). Confessa, peraltro, Tabacci, di essere stato sfiorato l'idea di citare Antonio Gramsci: «Ci ho pensato, a fare effetti speciali, ma poi ho preferito dire la verità. Del resto io con Alcide De Gasperi e Giovanni Marcora ho avuto realmente a che fare», dice. Certo, con gli «effetti speciali» avrebbe fatto felice un gruppo di suoi sostenitori: i «marxisti per Tabacci», che producono manifesti virtuali inserendo la sua faccia sui corpi di Lenin, Stalin, eccetera. «Li ho incontrati a un dibattito a Cagliari», racconta Tabacci, «mi hanno ascoltato attentamente e alla fine hanno detto: sei tu il nostro interprete».

La Stampa 14.11.12
La rabbia del circolo Sel “Che errore dimenticare il nostro passato”
Nella roccaforte rossa di Torino: “Senza parole”
di Maurizio Tropeano


Il ritratto di Enrico Berlinguer. Le bandiere rosse. Le foto di Di Vittorio. E una domanda: perché nessuno dei leader del centrosinistra si è ricordato di loro nel confronto in Tv?. Via Cervino 0. L’insegna luminosa segnala che in quelle vetrine d’angolo nel cuore di Barriera di Milano, roccaforte storica del pci torinese c’è il circolo culturale Antonio Banfo, l’operaio con la Bibbia in mano ucciso dai repubblichini nell’aprile del 1945, la stagione degli scioperi delle Officine Grandi Motori. Il circolo è una sorta di casa del Popolo moderna dove entrando a sinistra si accede al circolo di Sel. Svoltando a destra si entra nella sezione del Pd. Le sedi hanno entrate proprie ma anche uno spazio con in mezzo un tavolo dove Franco Gritti (vendoliano) e il democratico Enzo Gravato stanno raccogliendo le iscrizioni per l’albo delle primarie. Come va? «Bene, quaranta iscrizioni in tre ore», risponde il secondo. Bene nonostante una memoria dimenticata: «Mi sarei aspettato Berlinguer e Pertini. Forse Bersani è in cerca dei voti dei cattolici». Luigi Spione se la prende con chi fa di tutto a dimenticare la storia e la memoria». E Gritti aggiunge: «Non ho il culto della memoria del passato e spero che abbiano dato per scontato la presenza di figure chiave come Di Vittorio e Berlinguer, attuale soprattutto per la sua battaglia sulla questione morale». E poi «tra i tanti cattolici perché non citare Don Milani». Valeria è sua figlia: «Credo che Vendola abbia citato volutamente il Cardinal Martini come esempio per cercare di sdoganare nel mondo cattolico il tema dei diritti civili. Bersani invece ha cercato di ammiccare al centro».
Luca La Vaile non la pensa così: «Io credo che per tutti noi le figure di Berlinguer ma anche di Salvador Allende facciano parte del nostro percorso politico, del nostro Dna ma è anche giusto cercare anche altri punti di riferimento che con la loro testimonianza personale sono simbolo di apertura e volontà di cambiare il mondo».
Nedo Gazzuola ha i capelli bianchi la memoria dentro il cuore e l’orgoglio di spiegare che «qui, noi e loro, siamo tutti sulla stessa barca». E allora forse «servirebbe più mordente, più passione ma la tv probabilmente non è il mezzo più adatto per trasmetterla», spiega mentre ti stringe la mano e ti offre un caffè mentre ti indica di seguire con lo sguardo la bandiera di guerra di una formazione delle Sap, le squadre d’azione partigiane, accanto a quella della cellula del Pci delle Officine Grandi Motori: «La nostra memoria parte da lì». Irrompe Valeria: «Bene ha fatto la Puppato a citare Tina Anselmi, nel mio pantheon ci sono i partigiani e, soprattutto, le staffette partigiane».
Anna Rapelli, invece, è «rimasta senza parole» preoccupata che stia prevalendo «la volontà di cancellare la memoria». Anna ha lavorato al gruppo comunale del Pci, poi del Pds, dei Ds e adesso di Sel. E in questi passaggi si è portata dietro il ritratto di Berlinguer, un quadro dei funerali di Togliatti e un manifesto elettorale del Pds con in piccolo il simbolo del Pci. Su una delle pareti del gruppo comunale c’è anche Garibaldi «ma l’ha portato il consigliere Grimaldi, fa parte della sua memoria». Detto questo «io credo che sia sbagliato dimenticare la nostra storia, il nostro passato, i nostri eroi e modelli perché sono le radici del nostro futuro».

Repubblica 14.11.12
Un Pantheon senza bussola
di Barbara Spinelli


MOLTO presto si è capito, guardando il dibattito tra i candidati alle primarie del centrosinistra, che qualcosa di essenziale mancava.
Che il palcoscenico occupato dagli attori era simile a una sfera, di cui potevi ammirare o non ammirare la superficie, ma privata di centro. Non abbiamo contemplato il vuoto. Non era assente la voglia di fare politica: anche se voglia parecchio neghittosa, perché restituire alla politica l’importanza perduta implicherebbe riconoscere peccati di omissione non indifferenti, passati e presenti. La bussola c’era, nella sua sferica forma: quel che l’occhio non percepiva era il perno che fissa l’ago magnetico, e che gli dà la sua linea di forza.
Cosa dovrebbe esserci, al centro di uno schieramento che dice di battersi per una sinistra progressista? Per forza una tradizione, una storia, un tempio, meglio ancora un Pantheon che contiene le tombe dei propri uomini illustri. L’ago magnetico non può che partire da lì, altrimenti si muove impazzito in ogni sorta di direzione, senza mai segnalare con chiarezza il Nord. Quando il centro è ovunque e da nessuna parte, sostituito dalle persone che parlano agli elettori (la persona Bersani, o Vendola, o Renzi, o Tabacci, o Puppato) vuol dire che dietro la loro divina genialità — la loro maschera — non esistono genealogie né memoria storica di sé.
Il momento rivelatore di questa perdita del centro è stato quello in cui i cinque candidati hanno elencato i loro monumenti ideali, gli uomini illustri del loro Pantheon, individuale o collettivo. Alcuni erano grandiosi: Papa Giovanni ad esempio, indicato da Luigi Bersani come un uomo che seppe operare «cambiamenti profondi, ma sempre rassicurando», mai seminando spavento. O il cardinale Martini, nominato come stella polare da Nichi Vendola. Due uomini di chiesa, cui si sono aggiunte personalità care a Renzi come Nelson Mandela e Lina, la famosa blogger tunisina.
Del tutto eclissati, nella più sorprendente delle maniere, sono d’un colpo gli uomini che della sinistra sono i veri padri fondatori, i veri aghi della bussola: compresi i padri che si sono aggiunti man mano che il progressismo italiano, senza dirlo ma nei fatti, ha cominciato una sua nuova strada, non più rivoluzionaria ma socialdemocratica. Due ecclesiastici, un eroe della lotta anti-apartheid, un blogger: è bello, ma somiglia molto a una decerebrazione. I centri nervosi del cervello vengono separati dai centri posti inferiormente, scrivono i bollettini medici: il lobotomizzato perde la capacità di movimenti volontari anche se riesce a mantenere la posizione eretta. È come se ci si vergognasse di dichiararsi eredi. Di avere alle spalle un testamento, dunque un’alleanza. Magari i candidati dicono perfino qualcosa di sinistra, ma questo qualcosa è piatto, non ha radici, fluttua come foglia sulle acque, si fa volutamente piccolo e insignificante. Come Bersani quando ha ammesso, qualche settimana fa: «Abbiamo qualche difettuccio, ma di meglio in giro non c’è».
Tutto questo è strano e inedito, se lo paragoniamo alla coscienza di sé che le sinistre hanno generalmente in Europa. Anche quando tradiscono. Soprattutto quando tradiscono. In Germania il pensiero della sinistra, e anche dei Verdi, va automaticamente a lanterne come Willy Brandt, o a resistenti come Kurt Schumacher. In Francia ci si divide su Mitterrand, ma tanto più vivo è l’attaccamento a Léon Blum e al suo Fronte popolare, o a Jean Jaurès, o al fondatore della scuola laica che fu Jules Ferry. Non così in Italia, anche se di figure memorabili ne abbiamo anche noi.
Berlinguer ad esempio: perché Bersani, figlio del Pci, salta un dirigente che vide con acume e sgomento, nell’81 parlando con Eugenio Scalfari, la trappola del consociativismo e del compromesso storico da lui stesso congegnata? «I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai Tv, alcuni grandi giornali».
Fu un grido di rivolta contro il proprio partito, un presentimento di possibili vie d’uscita. Un grido tuttora inascoltato, se solo consideriamo l’atteggiamento corrivo che i suoi eredi hanno avuto per quasi vent’anni verso Berlusconi. Il modello, sconfessato o tradito, si fa imbarazzante. Da questo punto di vista Bruno Tabacci è apparso il più libero di complessi: i suoi esempi — De Gasperi innanzitutto, su Marcora i dubbi sono leciti — hanno radici inconfutabili nella storia del cattolicesimo politico italiano.
Imbarazzo e vergogna di sé (anche Vendola ne è affetto) spiegano l’omissione di altri antenati, che assieme alla sinistra hanno lottato contro le degenerazioni economiche e le corruttele italiane: non appartenenti al Pci ma a formazioni come il Partito d’Azione o il socialismo. Sono tanti. Ma quando si perde il centro precipitano nell’oblio le vette di preveggenza e saggezza che furono Piero Calamandrei, Vittorio Foa, Federico Caffè, Sylos Labini. O, fortunatamente citata da Laura Puppato: Tina Anselmi, cancellata perché fece piena luce, troppa probabilmente, sulle trame della P2. Data addirittura per defunta dal giornalista Vittorio Feltri, recentemente davanti a una platea televisiva muta, egualmente decerebrata. In Italia evidentemente si muore anche da vivi. È la nostra specialità cinica e crudele. Leopardi la chiamava la nostra incompatibilità con gli slanci, i dolori, le speranze delle epoche romantiche vissute da altre nazioni europee.
Nel Pantheon sostitutivo ci sono due stranieri, come Mandela e la blogger Lina Ben Mhenni. Anche questo è bello e nobile, perché ci fa uscire dalla provincia. Ma la sinistra quando esce dalla provincia percorre grandi distanze, ha sogni di esotismo, e in questo Renzi è apparso più di altri vecchio. Se avesse citato Che Guevara sarebbe stato la stessa cosa. Perdere il centro vuol dire non far spazio all’Europa, e correre molto lontano restando qui, inchiodati dentro casa e nel presente. Vuol dire lasciare nel buio personaggi come Albert Camus, subito europeista dopo la guerra. O William Beveridge, ideatore di un piano del Welfare che dall’Inghilterra trasmigrò presto nel continente liberato: era un liberale profondamente influenzato dal socialismo della Fabian society, e militò con convinzione per l’unificazione dell’Europa.
Beveridge è punto di riferimento ineludibile per chiunque voglia resuscitare lo spirito di Ventotene (Vendola l’ha evocato, dunque vorrebbe forse riesumarlo) sapendo che l’idea d’Europa nacque in piena guerra fratricida dando al futuro tre obiettivi fondamentali: la federazione del continente, la democrazia, e lo Stato sociale. Infine mancano riferimenti laici, accanto a quelli religiosi: come Ernesto Rossi, collocato oggi in un Pantheon per pochi aficionados, nonostante l’attualità delle sue battaglie europeiste e laiche. Assenti anche i martiri dell’antimafia, e tanti altri che non enumero solo perché lo spazio non basta.
Perdere il centro non significa naturalmente perdere le elezioni. Ma perdere la bussola sì, e con essa la memoria e la capacità di cercare, se non trovare, il Nord. Significa entrare nel futuro con tali e tanti complessi, tali e tante cautele, che il passo si fa claudicante. Mai spavaldo, come in chi discende da una lunga storia e pur facendo i conti con essa non si sente obbligato a dimenticarla.

Repubblica 14.11.12
Da Proudhon al Papa buono, il marketing politico del Pantheon usa-e-getta
di Filippo Ceccarelli


AH, ancora il Pantheon: uffa! O forse no, tanto vale adattarvisi. Nell’avido e cannibalico ciclo produzioneconsumo di icone ad uso partitico, per esempio, Papa Giovanni, e con rispetto parlando, non era mai entrato.
O meglio: nessun leader l’aveva finora promosso, o ristretto, o comunque arruolato come testimonial più o meno posticcio insieme al cardinal Martini, a Mandela, all’impossibile duo Iotti-Anselmi, come pure, sempre nello show di lunedì, a De Gasperi, al compianto Marcora o a una blogger tunisina nel più straniante casting genealogico che si ricordi.
Con il che appare evidente che la posta del marketing simbolico continua ad alzarsi, ma al tempo stesso è come se il discorso pubblico, ormai palesemente piallato e definitivamente regredito a pure indizio, tornasse a rispecchiarsi in quei piatti dai colori vivaci che cinquant’anni orsono si notavano dietro le vetrine dei negozi di souvenir raffigurando il volto del Papa Buono al fianco di Kennedy e di Martin Luther King, non a caso altri due gettonatissimi eroi dell’odierna politica usa-egetta.
E così almeno a sinistra la newentry Roncalli va a raggiungere quel piccolo grande Olimpo popolato dalle figure più strambamente inconciliabili che la fantasia pop di consiglieri e spin-doctor seguita a radunare a spregio della storia, del ridicolo e del buonsenso: Pasolini e i Simpson, Montanelli e Allende, don Milani e Dylan Dog, Pertini e John Lennon, e Dossetti, Tex, Falcone, Bobbio, La Pira, Gandhi, Einaudi, Fonzie e naturalmente Berlinguer.
Dio ne scampi perciò dalla moda del Pantheon, e ancor più dalla sua mai sazia retorica, dall’astuto suo candore modernizzante. Sono più di trent’anni, d’altra parte, che cerca d’imporsi; e se all’inizio, quando nel 1978 del tutto a freddo Craxi si pose all’ombra di Proudhon, e poi da palazzo Chigi impose agli italiani il culto di Garibaldi, e dopo Sigonella arrivò a scippare Mazzini al povero Spadolini, e in odio al Pci cominciò addirittura a volteggiare su Gramsci, beh, se all’inizio bene o male il gioco poteva e doveva tenere conto delle culture politiche, oggi assomiglia a una desolante collezione di figurine Panini: Rosselli ce l’ho, Spinelli ce l’ho, Keynes e Roosvelt pure, ma Madre Teresa mi manca, ma che problema c’è?
Tortuose vie, nel frattempo, l’hanno degradato e perfezionato l’assemblaggio di radici, non senza furti con destrezza, incauti acquisti e appropriazione di indebiti antenati. Ora, è anche vero che si possono invocare a discolpa attenuanti generiche determinate dal crollo della Prima Repubblica e dall’affermarsi di leader e forze politiche senza storie e senza tempo.
Ma certo i video-minestroni congressuali e le visite mirate alle tombe della prima segreteria ds di Veltroni (2000) hanno senz’altro alimentato quel «pantagruelico sincretismo», come l’ha definito Andrea Romano in «Compagni di scuola» (Mondadori, 2008), che nell’altro campo si misurava con i grotteschi rimbambimenti celtici della Lega, il culto berlusconiano di Mamma Rosa e una marmellata di d’Annunzio e Mogol-Battisti in voga ad Alleanza nazionale.
Però la sinistra in questo diede di più, fece scuola e anzi si può dire che generò una sorta di estetica. Tanto che per presentare la nuova Cinquecento la Fiat mandò in onda uno spot che sulle note del piano di Allevi mostrava Pertini, Wojtyla, Coppi, Fellini, Falcone e Borsellino, mentre la voce di Ricky Tognazzi annunciava: «La vita è un insieme di luoghi e di persone che scrivono il tempo ». Solenne pausa: «Il nostro tempo».
Quando, era il 2007, Fassino stabilì di comprendere Bettino Craxi nell’erigendo Pantheon del Pd, per sottolineare ingiustizia e assurdità la figlia Stefania se ne uscì sarcastica che «magari» era il caso di inserirvi anche Totò e Macario. E qui tuttavia basta fare solo un piccolo salto, o aspettare che Pecoraro Scanio annettesse San Francesco al sole che ride, e i comunisti di Diliberto evocassero a loro conforto l’esempio di George Clooney in «Syriana» o del Doctor House, per scoprire che nel 2009 Totò era effettivamente entrato (con Obama, il Papa Giovanni Paolo II, Falcone, Borsellino, Peres & Sharon più un certo
numero di alpinisti, tenniste e ginnaste) in un polpettone visivo proiettato al congresso di fondazione dell’Api, a Parma.
Di Erminio Macario si erano purtroppo perse le tracce. In compenso, dalla radunata di fantasmi s’affacciava Aldo Fabrizi che profeticamente divorava una costoletta d’abbacchio. A riprova del potere che i morti esercitano sui vivi, e ancora di più della frenetica sequenza che senza fine brucia e consuma comici, santi, sportivi, eroi, papi, statisti e personaggi, addirittura, che non sono mai esistiti.

l’Unità 14.11.12
Lazio, Lombardia e Molise si voterà il 10 e 11 febbraio
Renata Polverini stava ancora prendendo tempo, nonostante la sentenza del Tar
Poi è arrivata la telefonata del ministro Cancellieri. L’incontro di Monti al Quirinale
di Jolanda Bufalini


ROMA Trascorsi 48 giorni dei 90 entro i quali si deve votare nel Lazio per mandare a casa il vecchio consiglio e la giunta dimissionaria, finalmente c’è la data: si voterà il 10 e 11 febbraio, in un’unica tornata per il Lazio, la Lombardia, il Molise. Per accelerare la decisione, su cui Renata Polverini, fino a ieri, ha preso tempo, ci è voluta la sentenza del Tar che ha imposto alla presidente di pronunciarsi entro 5 giorni, pena il commissariamento che avrebbe passato la palla al ministro Cancellieri.
La presidente dimissionaria ha provato a resistere ancora, annunciando il ricorso al Consiglio di Stato contro la sentenza da lei definita «strana». La stranezza è non andare a votare, ha replicato il candidato del Pd Nicola Zingaretti, facendo appello ad evitare il ricorso per «non trascinare oltre una questione delicatissima che riguarda la democrazia».
In una convulsa giornata, si è capito che si andava verso una accelerazione della decisione che ha coinvolto direttamente il governo nazionale, mentre il premier Mario Monti andava al Quirinale a pranzo con il presidente Napolitano, si stabiliva il ponte fra il ministro Anna Maria Cancellieri e Renata Polverini. «Sono pronta ad andare a votare a gennaio dichiara finalmente la presidente uscente deciderò insieme al governo entro la fine della settimana». Per qualche ora è rimasta l’ipotesi dell’Election day: «Ho dato la disponibiltà al governo ad andare a votare insieme alle politiche», ha spiegato Polverini. Ma, essendo chiaro dall’intervento di Napolitano di qualche giorno fa che è impensabile anticipare la fine della legislatura, l’Election Day avrebbe significato andare a votare per le regionali ad aprile. Un rinvio che ha incassato la contrarietà netta del segretario del Pd Pier Luigi Bersani: «Non se ne parla proprio». Lombardia e Lazio ha detto il segretario del Pd «sono due regioni troppo importanti, non si possono lasciare in queste condizioni fino alla prossima primavera», opponendo all’argomento del risparmio rappresentato dall’Election day: «Non considera quello che spenderemmo inutilmente nei prossimi mesi in queste regioni». Ed è il ministro Cancellieri, competente a decidere per Lombardia e Molise precisa una nota del Viminale a «informare della decisione» sulla data la presidente della Regione Lazio.
Intanto la sentenza del Tar ha alimentato le polemiche fra centro destra e centro sinistra. Zingaretti ha convocato una conferenza stampa per affermare che la sentenza scioglieva tutti i nodi, toglieva gli alibi a «una destra che ha paura di andare a votare». Nel centro destra, insieme alle ironie sul voto con il panettone, la scadenza dei 90 giorni è, calendario alla mano, il 28 dicembre, si è aperta la corsa alla individuazione del candidato presidente, con la richiesta di indire al più presto le primarie (Stefano De Lillo).
La presidente uscente si è pronunciata per una candidatura politica, bocciando quella «civile» di Simonetta Martone. Intanto un sondaggio di Datamonitor ha «lanciato» le candidature di Giorgia Meloni e Francesco Storace, gli unici a superare la soglia del 30 per cento contro Nicola Zingaretti che è, sinora, l’unico candidato: Meloni è data al 30,2% dei voti contro il 51,9% di Zingaretti, Storace raccoglierebbe il 30,6% contro il 51,6%.
Nel caso in cui a Zingaretti venisse contrapposto il senatore Pdl Andrea Augello, il primo vincerebbe col 54,9% delle preferenze contro il 27,2% del candidato del centrodestra e il 17,9% del grillino. Vittoria schiacciante del centrosinistra (58,2%) se lo sfidante fosse Francesco Giro, che otterrebbe solo il 23,4%. Poco meglio farebbero il giudice Simonetta Matone (25%) contro un 56,7% del Presidente della Provincia e Luisa Todini, ferma ad un 25,8% contro il 56% di Zingaretti.
Escluse le date di dicembre, il candidato di centro destra della Lombardia Albertini, si era detto pronto a votare il 27 gennaio, proposta subito accolta da Zingaretti. La scelta di votare nel giorno della Memoria avrebbe, però, suscitato perplessità nella comunità ebraica. In serata il twitter di Renata Polverini: «Accordo fatto con Cancellieri». Commenta il segretario del Pd del Lazio Enrico Gasbarra: «Finalmente c’è la data. È un punto fermo. Noi ci saremmo aspettati tempi più ravvicinati e più rispettosi della sentenza del Tar».

La Stampa 14.11.12
L’Udc pronto a allearsi con il Pd. Ma in cambio del Campidoglio
di Fabio Martini


Nell’interminabile tira e molla sulla legge elettorale, il barometro ieri sera volgeva di nuovo al brutto, eppure dietro le quinte tra il Pd e l’Udc si sta tessendo un accordo significativo, che potrebbe assumere una valenza strategica. Tra Bersani e Casini si sta lavorando ad un patto che tenga dentro partite diverse e delicate: i candidati comuni in Lombardia, Lazio, Molise e Roma, la riforma elettorale e, dulcis in fundo, un accordo di governo a due per il dopo-elezioni. Certo, accordi di questo tipo restano fluidi sino a quando non sono chiusi ma nell’ultima settimana sono maturate grosse novità seppure ancora sotto traccia. A fine settimana, a Montecitorio, ne avrebbero parlato Pier Ferdinando Casini e Maurizio Migliavacca, il più fidato ambasciatore di Bersani. L’Udc, fa sapere Casini, è pronta ad un accordo sulla legge elettorale, con un premio più consistente di quello previsto attualmente, sulle preferenze si può discutere, ma al tempo stesso i centristi rivendicano importanti ruoli di responsabilità sul territorio.
E per ottenerli - ecco la grossa novità - all’Udc sono pronti a vistosi giri di valzer, alleandosi con il Pd nel Lazio, in Lombardia e anche a Roma. In cambio, per la prima volta negli ultimi anni, l’Udc punta ad avere un candidato di suo gradimento in una grande città: per la corsa al Campidoglio, il preferito è Andrea Riccardi, ministro del governo Monti e leader della Comunità di Sant’Egidio, ma come seconda opzione è stato indicato Alfio Marchini, ultimo rampollo dei Marchini, i palazzinari comunisti costruttori del palazzo delle Botteghe Oscure, poi donato al Pci, da qualche anno in ottimi rapporti con Francesco Gaetano Caltagirone, imprenditore a tutto campo, ormai l’uomo più potente di Roma.
Ma una giravolta così veloce non è semplice. Soprattutto nel Lazio dove Luciano Ciocchetti personaggio da quindicimila preferenze, un partito nel partito - è ancora vicepresidente della giunta Polverini di centrodestra in quota Udc. Ma anche a Roma non è semplice paracadutare un candidato, pur prestigioso come Riccardi, a quel punto cancellando per decreto le Primarie del centrosinistra già fissate per il 20 gennaio e di cui ieri, non a caso, si è fatto garante il segretario regionale del Pd Enrico Gasbarra, fautore di una procedura più partecipata: «Il Pd ha scelto per ricostruire il Paese, la strada delle Primarie. Di fronte ad un progetto così ambizioso non esistono coalizioni a tavolino, nè fantomatici equilibri nazionali». Un altolà lanciato anche per esorcizzare quello che è il vero spettro della sinistra romana: un ballottaggio al secondo turno con il candidato del Cinque Stelle che, secondo un sondaggio, potrebbe contare oggi a Roma su una percentuale impressionante: il 27%. Alle Primarie continuano a credere i candidati di maggior peso che il Pd potrebbe schierare: l’ex ministro Paolo Gentiloni, che conosce bene il Campidoglio, avendo affiancato Freancesco Rutelli, nella sua stagione da sindaco; l’ex Tg1 David Sassoli, un buon radicamento nei movimenti cattolici; soprattutto Enrico Gasbarra, già presidente della Provincia e appoggiato da Goffredo Bettini, il personaggio di maggior intelligenza ma anche di maggior potere del Pd romano, che vedrebbe nel suo candidato la garanzia della continuazione del suo «sistema», meglio noto come «Modello Roma».

il Fatto 14.11.12
Il Pd va alle primarie per il candidato al Campidoglio


IL SEGRETARIO del Pd del Lazio, Enrico Gasbarra, lancia le primarie per scegliere i candidati al Comune di Roma e di Viterbo, i cui consigli comunali andranno a scadenza in primavera. Scrive in una nota: “La proposta che il Pd avanza è aperta e pubblica e ha l’ambizione di coinvolgere tutte le energie vive e libere presenti nelle nostre città per aprire una nuova stagione di buon governo che sappia portarci fuori dalla crisi che strozza i nostri cittadini. Di fronte a un progetto così ambizioso - annota - non esistono né tattiche né coalizioni a tavolino, né tantomeno possono essere immaginate alchimie di fantomatici equilibri nazionali". E chiude: “A Roma, a Viterbo e nelle città del Lazio chiamate al voto”, le singole federazioni sceglieranno le alleanze sul territorio, ma poi ci saranno le primarie per selezionare i candidati. Se resterà il Porcellum lo stesso annuncia primarie anche per la scelta dei candidati al Parlamento.

La Stampa 14.11.12
Senato, blitz trasversale. Carcere per i giornalisti
Asse Lega-Api, voto segreto a sorpresa. La Fnsi: una vergogna
di Francesco Grignetti


Addio accordi politici, e addio anche ragionevolezza, sulla diffamazione. Con voto segreto, a sorpresa, il Senato vota una proposta della Lega Nord che reintroduce il carcere per il giornalista condannato. Altro che addolcire le pene pecuniarie. Il ddl che era nato per salvare dal carcere Alessandro Sallusti, direttore del «Giornale», il quale dovrà scontare 14 mesi di detenzione, paradossalmente si trasforma in occasione di vendetta. A questo punto il carcere è confermato, sia pure «per i casi più gravi».
Dalla pancia del Senato, insomma, viene fuori una gran voglia di rivalsa contro i giornalisti. Ed è acido il commento del diretto interessato: «Mi sento meno solo - commenta Sallusti, via Twitter -. Con la legge approvata dal Senato a San Vittore finiremo in tanti». Poi ci pensa un attimo. E aggiunge: «Nella tragicommedia del Senato c’è un dato positivo ed è che non se ne farà più nulla. Imploro anche la Camera che stia lontana dal tema: non peggioriamo la situazione della categoria».
Un minuto dopo questo voto che rovescia ogni previsione della vigilia - con 131 favorevoli al carcere, 94 contrari e 20 astenuti - il Pd ha chiesto di sospendere i lavori e il Pdl s’è prontamente accodato. Una pausa di riflessione. Ma ormai la frittata è fatta. Chiamati al voto pro-carcere da Francesco Rutelli, che ne ha fatto una questione di principio, scottato dal trattamento che i media gli hanno riservato sul casoLusi, e da una Lega che ha riscoperto la voglia di manette (anche se poi Bobo Maroni minimizza: «E’ una provocazione... »), i senatori nel segreto dell’urna hanno dato vita a una maggioranza trasversale che rinnega ogni appello di questi ultimi giorni.
E ora da parte di molti si dichiara «defunta» la legge. Una che non ci crede più è Anna Finocchiaro, Pd: «Avevamo lavorato alla ricerca di un equilibrio che viene completamente stravolto dalla reintroduzione del carcere per i giornalisti. Ma il voto affossa il provvedimento. A questo punto si impone che venga ritirato». È rassegnato anche Maurizio Gasparri, Pdl, di fronte a una maggioranza dei “suoi” che cerca pervicacemente lo scontro: «Discutibile nascondersi dietro il voto segreto. Bisogna prendere atto del voto, ma francamente ritengo sbagliata la decisione. Si rischia così di far rimanere in vigore le leggi vigenti invece di introdurre quelle giuste innovazioni che a parole molti hanno condiviso e che nei fatti, invece, evidentemente in pochi abbiamo sinceramente sostenuto». Già, in pochi. «Credo - riconosce il presidente della commissione Giustizia, e relatore della riforma, Filippo Berselli, Pdl - che a questo punto il ddl sia su un binario morto. In modo assolutamente trasversale sono esplose tensioni che si erano manifestate nelle precedenti convocazioni dell’assemblea, al di fuori di qualsiasi regia».
Ed è attonito, e a questo punto anche sconfortato, il commento della federazione dei giornalisti. «I malpancisti forcaioli - dichiara la Fnsi - dietro il muretto a secco del voto segreto chiesto da Lega e Api, hanno scritto una pagina vergognosa. La legge in discussione, a questo punto, non ha più alcun senso: è peggiorativa rispetto alla precedente ed è in totale contrasto con la giurisprudenza europea. Questo progetto di legge, è del tutto evidente, così non può più andare avanti. Il Presidente del Senato Schifani ha fatto bene a sospenderne l’esame per una riflessione, ma l’unica soluzione possibile è affossarlo definitivamente. In caso contrario ci penserà la pubblica opinione. E i giornalisti saranno con essa in campo con ogni azione possibile, la più nitida e ferma».

il Fatto 14.11.12
Lampedusa. l’abbandono
Per i cadaveri non c’è più posto
di Giusi Nicolini


Sono il nuovo Sindaco delle isole di Lampedusa e di Linosa. Eletta a maggio, al 3 di novembre mi sono stati consegnati già 21 cadaveri di persone annegate mentre tentavano di raggiungere Lampedusa e questa per me è una cosa insopportabile. Per Lampedusa è un enorme fardello di dolore. Abbiamo dovuto chiedere aiuto attraverso la Prefettura ai Sindaci della provincia per poter dare una dignitosa sepoltura alle ultime 11 salme, perché il Comune non aveva più loculi disponibili. Ne faremo altri, ma rivolgo a tutti una domanda: quanto deve essere grande il cimitero della mia isola?
NON RIESCO a comprendere come una simile tragedia possa essere considerata normale, come si possa rimuovere dalla vita quotidiana l'idea, per esempio, che 11 persone, tra cui 8 giovanissime donne e due ragazzini di 11 e 13 anni, possano morire tutti insieme, come sabato scorso, durante un viaggio che avrebbe dovuto essere per loro l'inizio di una nuova vita. Ne sono stati salvati 76, ma erano in 115, il numero dei morti è sempre di gran lunga superiore al numero dei corpi che il mare restituisce.
Sono indignata dall'assuefazione che sembra avere contagiato tutti, sono scandalizzata dal silenzio dell'Europa che ha appena ricevuto il Nobel della Pace e che tace di fronte ad una strage che ha i numeri di una vera e propria guerra.
Sono sempre più convinta che la politica europea sull'immigrazione consideri questo tributo di vite umane un modo per calmierare i flussi, se non un deterrente. Ma se per queste persone il viaggio sui barconi è tuttora l'unica possibilità di sperare, io credo che la loro morte in mare debba essere per l'Europa motivo di vergogna e disonore. In tutta questa tristissima pagina di storia che stiamo tutti scrivendo, l'unico motivo di orgoglio ce lo offrono quotidianamente gli uomini dello Stato italiano che salvano vite umane a 140 miglia da Lampedusa, mentre chi era a sole 30 miglia dai naufraghi, come è successo sabato scorso, ed avrebbe dovuto accorrere con le velocissime motovedette che il nostro precedente governo ha regalato a Gheddafi, ha invece ignorato la loro richiesta di aiuto. Quelle motovedette vengono però efficacemente utilizzate per sequestrare i nostri pescherecci, anche quando pescano al di fuori delle acque territoriali libiche.
TUTTI DEVONO sapere che è Lampedusa, con i suoi abitanti, con le forze preposte al soccorso e all'accoglienza, che dà dignità di esseri umani a queste persone, che dà dignità al nostro Paese e all'Europa intera. Allora, se questi morti sono soltanto nostri, allora io voglio ricevere i telegrammi di condoglianze dopo ogni annegato che mi viene consegnato. Come se avesse la pelle bianca, come se fosse un figlio nostro annegato durante una vacanza.

La Stampa 14.11.12
Nei diarii le accuse per le violenze subite
Violentata da una suora si uccide dopo anni di abusi
Varese, il gip ordina il ricovero della religiosa in casa di cura
di Andrea Sceresini


Busto Arsizio Le accuse La suora, oggi 52enne, risponde di violenze private e atti persecutori
La persecuzione iniziò quando la bambina era appena dodicenne: a 26 anni si impiccò

L’avrebbe vessata per anni, fino a condurla all’esaurimento psicologico, e infine al suicidio. Avance sessuali, atti persecutori, violenze, morbosità: una triste storia di pedofilia, maturata nel silenzio della più profonda provincia lombarda, fino al drammatico epilogo. Siamo a Busto Arsizio, ottantaduemila anime nel cuore del Varesotto. Qui la vittima – una ragazzina all’epoca minorenne, con qualche problema relazionale – frequentava l’oratorio della parrocchia. Ed è lì, tra i campetti di pallavolo, le aule per il catechismo e le sagrestie, che conobbe la sua persecutrice: una insospettabile suora, oggi cinquantaduenne, anche lei nativa di Busto Arsizio.
Il primo incontro avvenne nel lontano 1997, quando la giovanissima parrocchiana aveva solo 12 anni. Di lì a poco iniziarono i tormenti: il rapporto tra la religiosa e la ragazzina «assunse presto connotazioni sessuali – come si legge in una nota diramata ieri dai dirigenti della questura locale -, sino a trasmodare nel tempo in veri e propri atti persecutori e crescenti violenze fino a quando, nel giugno 2011, la ragazza, in preda ad una profonda crisi morale e psicologica, si tolse la vita all’età di ventisei anni». Il suicidio avvenne per impiccagione, e avviò a una serie di indagini. Gli agenti del commissariato di Busto, coordinati dal pm Roberta Colangelo, cominciarono a esaminare gli oggetti personali della ragazza: il suo diario, le lettere, gli scritti, i file contenuti nel computer, le fotografie. Pian piano, da quella corposa mole di fogli dattiloscritti emersero i contorni della terribile vicenda: fatti, circostanze, episodi, luoghi, date. E poi, soprattutto, il nome e il cognome dell’inimmaginabile persecutrice.
Negli ultimi mesi, grazie all’esame di questo materiale, le indagini hanno subito una rapida accelerazione, fino a culminare, nel pomeriggio di ieri, con l’incriminazione della religiosa: il gip di Busto Arsizio ha immediatamente disposto che la suora venga sottoposta a regime di sicurezza attraverso il ricovero in una casa di cura designata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dove è stata scortata dai poliziotti di Busto Arsizio e della squadra mobile di Varese. La donna, nel corso degli ultimi anni, si era trasferita nel Milanese, dove dirigeva un centro di formazione professionale.
Sottoposta a consulenza tecnica, è risultata pericolosa socialmente e affetta da un disturbo della personalità che incide parzialmente sulle sue capacità di intendere e di volere. L’accusa, nei suoi confronti, è di violenze private e atti persecutori. Un’imputazione gravissima, che ha immediatamente monopolizzato i titoli dei vari media locali.
«Indagini shock»: strilla uno dei più quotati giornali online della provincia. Ci vorrà del tempo, prima che placida routine di questi sonnolenti paesotti tra il lago e la pianura torni a scorrere con la consueta calma.

Repubblica 14.11.12
“Abusò sessualmente di ragazzina poi suicida” indagata suora a Varese


MILANO — Avrebbe abusato sessualmente di una ragazza minorenne, che poi si è uccisa nel 2011, a 26 anni. Per questo, ieri, il gip di Busto Arsizio ha disposto la misura di sicurezza del ricovero in casa di cura per una suora di 52 anni, già indagata per abusi sessuali, violenza privata e atti persecutori.
Le violenze si sarebbero svolte tra il ’97 e il ’98, quando la religiosa prestava servizio in un oratorio del Varesotto. Le indagini del pm Roberta Colangelo, partite dopo il suicidio della ragazza, sprofondata in una grave crisi psicologica, si sono basate su lettere, diari, video e fotografie recuperati tra i suoi effetti personali. Secondo l’accusa, la suora avrebbe incontrato la ragazza in un oratorio parrocchiale a Busto Arsizio. Poco dopo, le prime molestie, diventate presto veri e propri atti persecutori e crescenti violenze fino a quando, nel giugno del 2011, la ragazza si è tolta la vita a 26 anni. La religiosa, milanese, fino a ieri dirigeva un centro di formazione professionale. Una consulenza tecnica, agli atti dell’inchiesta, la descrive come socialmente pericolosa e affetta da un disturbo della personalità che incide parzialmente sulla propria capacità di intendere e di volere.

il Fatto 14.11.12
“Il Vaticano non deve aggirare l’Imu”
Il Consiglio di Stato al governo: regole chiare altrimenti scatta la multa dell’Europa
di Salvatore Cannavò


La Chiesa deve rassegnarsi a pagare l’Imu. Lo si desume dal parere che il Consiglio di Stato ha espresso ieri a proposito dello schema di regolamento messo a punto dal ministero dell’Economia e relativo alle modalità di pagamento dell’imposta municipale che sostituisce la vecchia Ici.
SUL PIANO formale il documento governativo ha passato l’esame del Consiglio, a differenza di quanto era avvenuto lo scorso 4 ottobre quando la vecchia formulazione era stata bocciata. Diversa, però, è la valutazione relativa al contenuto. Il giudice amministrativo, infatti, ha presentato al governo alcune “osservazioni ” che invitano l’esecutivo ha definire meglio le attività non commerciali per quanto riguarda il “carattere di attività economica come definito dal diritto dell'unione Europea”. I giudici amministrativi sottolineano che “anche nei settori presi in considerazione dall’articolo 4 dello schema di regolamento (attività assistenziale, sanitaria, didattica, ricettiva, culturale, ricreativa e sportiva), soggetti in apparenza “non commerciali” possono, in taluni casi, trovarsi a svolgere attività economiche in concorrenza con analoghi servizi offerti da altri operatori economici. Sulla applicabilità dell’imposta agli esercizi commerciali in situazioni promiscue la legge offre già indicazioni chiare. Nell’articolo 91 bis del Decreto Sviluppo varato lo scorso gennaio e convertito in legge a marzo è previsto che le unità immobiliari che hanno un’utilizzazione mista e per le quali “non sia possibile procedere al distinto accatastamento” della porzione immobiliare destinata all’attività commerciale, dal prossimo gennaio saranno tassati in proporzione all'utilizzazione commerciale quale risulta da apposita dichiarazione. Il problema, però, è quello di stabilire le attività non commerciali. In alcuni casi è utilizzato il criterio delle gratuità o del carattere simbolico delle retta (è il caso di attività cultura, ricreativa e sportive) ; in altri il criterio dell’importo non superiore alla metà di quello medio previsto per le stesse attività svolte nello stesso ambito territoriale. Per le scuole, invece, il criterio della non copertura integrale del costo effettivo del servizio(magari perché si usufruisce di contributi pubblici).
I MAGISTRATI entrano nel dettaglio. Per cliniche e ospizi (attività assistenziali e sanitarie) il regolamento prevede due requisiti, “alternativi”. Sul primo, che riguarda i servizi in convenzione con enti pubblici gratuiti per l’utente, i magistrati evidenziano che non è valido ai fini Ue. L’individuazione dei prezzi medi del territorio (che è il secondo criterio), invece, è “di difficile applicazione”. Sulla scuola invece l’Ue consente che si possano pagare tasse di iscrizione e contribuire ai costi di gestione ma il criterio usato dal governo della “retta simbolica” che “non copra integralmente il costo effettivo del servizio” - spiega il Consiglio di Stato - “non sembra compatibile col carattere non economico dell’attività: tale criterio consente di porre a carico degli utenti (studenti o genitori) anche una percentuale dei costi solo lievemente inferiore a quelli effettivi”.
“Il Consiglio di Stato finalmente ci dà ragione - spiega al Fatto Maurizio Turco, deputato radicale eletto nelle liste del Pd - perchè è dal 2006 che questa vicenda va avanti con i governi succedutisi che hanno sempre cercato di beneficiare onlus e associazioni no profit tra cui gli enti ecclesiastici”. “Dal punto di vista legislativo, però, - osserva ancora Turco - non ci sono dubbi, la legge prevede che la Chiesa paghi. Se poi ci saranno ancora degli aggiramenti, noi siamo pronti a portare questa decisione del Consiglio fino alla Commissione europea dove è pronta la procedura di infrazione”.
Del resto, è lo stesso Consiglio a scrivere che “alcune limitate parti dello schema di regolamento debbano essere ricondotte a coerenza con i principi comunitari, anche allo scopo di evitare il rischio di una procedura di infrazione avente a oggetto il nuovo atto normativo. A tal fine, si ritiene necessario inserire e valorizzare nel testo del regolamento il concetto di attività economica, inteso in senso comunitario”.

Repubblica 14.11.12
Imu-Chiesa, norma da riscrivere il Consiglio di Stato boccia i criteri su scuole, cliniche, hotel
I requisiti per ottenere gli “sconti” al centro delle contestazioni
I giudici amministrativi avvertono: l’Italia rischia la procedura di infrazione
Nel parere i dubbi sul regolamento del governo
di Valentina Conte


ANCORA una bocciatura. E stavolta persino più severa. Il Consiglio di Stato, con un secondo parere pubblicato ieri, invita il governo a riscrivere il Regolamento che dovrebbe far pagare l’Imu a Chiesa e enti no profit nel 2013. Suggerisce frasi ed incisi da correggere o cancellare. E soprattutto avverte che, se il testo non cambia su sanità, scuola, alberghi, l’Italia rischia una procedura di infrazione europea, come esito dell’indagine aperta per aiuti di Stato illegali. Troppe esenzioni, troppi sconti, e una definizione ad hoc di ciò che non è attività commerciale. Un parere durissimo. L’aggettivo «favorevole» con cui si chiude il testo, elaborato dal consigliere Roberto Chieppa, in realtà si limita alla parte più “tecnica” e matematica del Regolamento, la sua originaria ratio.
Laddove cioè si dice come calcolare la proporzione di immobile “misto” dedicata alla sola attività commerciale e dunque soggetta all’imposta. Questa parte andava bene nel primo parere del 4 ottobre, va bene ora.
L’ATTIVITÀ ECONOMICA
A suscitare le «osservazioni» e le «criticità » più severe è l’altra parte, quella degli “sconti”, che fissa i «requisiti» per cui un’attività non debba considerarsi commerciale e dunque esente da Imu. Requisiti che ruotano attorno al concetto di «retta simbolica», ma che per i giudici amministrativi nasconde un’attività economica in piena regola, con spese e incassi. Il Consiglio di Stato ricorda che il criterio europeo per definire un’attività “commerciale” non si basa tanto sull’utile che se ne ricava. Quanto invece dall’«offrire beni e servizi in un mercato». Nella versione del governo, al contrario, lo spazio delle esenzioni si amplia a dismisura, specie per scuola, sanità e alberghi. Travalicando norme italiane e comunitarie. Mentre proprio ai principi di Bruxelles, suggeriscono i giudici, il governo si dovrebbe riferire per «coerenza». Anche
perché, annota Chieppa, «soggetti in apparenza “non commerciali” possono in taluni casi svolgere attività economiche in concorrenza con analoghi servizi offerti da altri operatori economici ». Anche il no profit può fare commercio. E dunque deve versare l’Imu sugli immobili (o loro porzioni) in cui lo fa.
LA SANITÀ
Cliniche e ospedali accreditati o convenzionati con Stato, Regioni, enti locali. Oppure attività sanitarie svolte a titolo gratuito o con retta simbolica «e comunque non superiore alla metà di quella media prevista per le stesse attività, svolte nello stesso ambito territoriale ». In questi casi alternativi (o l’uno o l’altro), zero Imu. Il Consiglio di Stato li boccia. Per avere zero Imu, le cliniche devono essere sia convenzionate che gratuite o con rette simboliche. La media del mercato non è criterio valido perché «di difficile applicazione» e «non è in assoluto idoneo a qualificare l’attività come non commerciale». D’altronde, un conto è la retta gratis o “simbolica”. Un altro conto, il 49% della media di mercato. Il governo ne fa sinonimi.
L’ISTRUZIONE
Stesso discorso per scuole e hotel. Per le prime, il criterio della «non copertura integrale del costo effettivo del servizio » non regge. Basta gonfiare di poco le spese, far pagare ai genitori una retta di poco inferiore e il gioco è fatto: zero Imu. D’altronde, anche qui, un conto è la retta “simbolica”, un conto è il 99% dei costi per l’istruzione coperti dai genitori degli alunni. In questo secondo caso l’attività economica c’è eccome. E l’Imu va pagata. Sulle «attività ricettive», è giusto esentare le strutture cui hanno accesso i «destinatari propri delle attività istituzionali», se sono stagionali. E dunque le case vacanze dei religiosi, ad esempio. Corretto esentare le strutture che fanno «ricettività sociale » e offrono ricovero temporaneo a indigenti e svantaggiati. Come gli ostelli della Caritas. Ma il riferimento alla retta «non superiore alla metà» della media di mercato, dice Palazzo Spada, deve saltare. Perché lì si annidano zone d’ombra di esenzioni.
IL CODICILLO
Il Consiglio di Stato, infine, ricorda che la seconda parte del Regolamento ieri bocciata esiste solo perché il governo ha ampliato la delega concessa dalla legge, inserendo tre righe nel decreto Enti locali. Ma, appunto, per ora è solo un decreto. E tutto può cambiare in Senato.

il Fatto 14.11.12
Salesiani a un passo dal crac, il destino in mano a un giudice
La Fondazione ha denunciato un raggiro: rischiano di dover pagare 130 milioni di euro
di Valeria Pacelli


Una storia che mescola sacro e profano, ordini religiosi e denaro. È la storia dell’eredità della congregazione dei salesiani, che adesso rischiano di perdere ben 130 milioni di euro. La Fondazione di Don Giovanni Bosco ha denunciato mesi fa un presunto raggiro: ne è seguita un’inchiesta che si è conclusa con una richiesta di archiviazione che apre le porte per un vero e proprio crac.
PER QUESTO è intervenuto anche il cardinale Tarcisio Bertone, che in una lettera finita agli atti, auspica “che il procedimento penale attualmente pendente innanzi la procura della repubblica di Roma, non venga archiviato ma prosegua fino ad equa soluzione”. Queste le parole del Segretario di Stato, ma per capire la vicenda bisogna tornare a 22 anni fa, precisamente al 5 giugno del 1990.
Quel giorno a Roma muore Alessandro Gerini, conosciuto ai più come il “marchese di Dio”. È uno degli uomini più ricchi d’Italia in quegli anni, senatore democristiano per due legislature, che dopo il decesso lascia un‘eredità di 1500 miliardi di vecchie lire. Prima di morire, Gerini, il 21 dicembre del 1988, scrive un testamento olografo, dove sottoscrive di voler lasciare ogni bene alla Fondazione ecclesiale “Istituto Marchesi Teresa, Gerino e Lippo Gerini”, nata nel 1963 per l’assistenza a giovani e bambini e controllata proprio dai salesiani. Gli eredi così intentano una causa, denunciando il vertice della fondazione per circonvenzione d’incapace. Ma il tribunale archivia. A questo punto entra in gioco un noto faccendiere. Perché nelle cause intentate dai nipoti che durano per anni, a fare da mediatore è Carlo Moisè Silvera, 68enne di origini siriane, che acquista dai quattro eredi i diritti di eredità. Viene proposto un accordo alla fondazione, che nel 2007 si concretizza con la proposta di sottoscrizione di un patto tra le parti dove si ipotizza la vendita di alcuni beni. Poi però viene nominato un mediatore unico, ossia Renato Zanfagna, avvocato del foro di Milano, il quale ottiene l’opzione di acquisto dei terreni. Ma Zanfagna era anche ben visto dall’intera comunità, tanto da esser riuscito a superare le mura vaticane e ad avere dei colloqui privati con lo stesso Bertone. Così l’8 giugno del 2007 viene siglato l’accordo in sede civile e a conclusione di ogni controversia la Fondazione versa 16 milioni. Cinque di questi destinati ai nipoti del nobile, altri 11 e mezzo come parcella per lo stesso Silvera che li ha rappresentati. Ma c’è una clausola particolare: perché la percentuale destinata al faccendiere sarebbe aumentata al momento in cui sarebbe stata fatta una stima del patrimonio. Così poco dopo una commissione di periti -presieduta proprio dall'avvocato Zanfagna – stabilisce che il patrimonio equivale a circa 658 milioni di euro, e di conseguenza la parcella per Carlo Moisè Silvera raggiunge la soglia di 99 milioni di euro.
DI FRONTE a tutto ciò, i salesiani non ci stanno. E neanche il segretario di Stato, Tarcisio Bertone. Così il primo febbraio scorso la fondazione, assistita dall'avvocato Michele Gentiloni Silveri, denuncia Silvera e Zanfagna accusandoli di aver posto in essere un raggiro. Viene aperto un fascicolo affidato al pm romano Paola Filippi, che alla fine richiede l’archiviazione. Ma a decidere l’esito finale, nei prossimi giorni, sarà il giudice Adele Rando. Qualora venga accettata la richiesta del pm, i salesiani perderebbero ben 130 milioni di euro.
E così per evitare il peggio è intervenuto anche il cardinal Bertone. In una lettera del 24 settembre 2012, indirizzata ai difensori della fondazione, il segretario di Stato ha ammesso di aver avuto contatti con le parti “impegnate in questo lungo e contorto procedimento, cercando di capire per quanto possibile le ragioni della Fondazione. (..) A questo scopo ho favorito per quanto mi era possibile, un accordo transattivo di per sé proposto e condiviso dall’avv. Renato Zanfagna, che fino a un certo periodo fungeva da avvocato difensore della fondazione”. Bertone aveva dato il nulla osta anche per la soluzione negoziale che consentiva al faccendiere di aumentare la sua parcella “ma –spiega nella lettera- ritenendo che non si dovesse superare assolutamente la somma di 25 milioni. (..) Al contrario sono venuto a conoscenza solo successivamente che l’avvocato Zanfagna insieme con l’avvocato Scoccini ed altri hanno congegnato un meccanismo per gonfiare a dismisura il valore del patrimonio”. Con questa mossa Bertone spera di salvare la Congregazione da un vero e proprio crac finanziario. Ma la giustizia corre su binari diversi da quelli degli ordini religiosi.

il Fatto 14.11.12
Scandali e frodi
Quando i soldi portano guai in Vaticano
di Marco Politi


Cosa deve succedere perché papa Ratzinger esca dall’inerzia e impugni la scopa per fare pulizia negli ambienti ecclesiastici compromessi in mala gestione e in malaffare?
Crac, tribunali e licenziamenti in massa di incolpevoli impiegati non sembrano smuovere una foglia in Vaticano.
Alla vigila di un’età effettivamente pensionabile (i 78 anni) il segretario di Stato vaticano Bertone scivola nuovamente in una storia di crac e raggiri. Per imprudenza, non per dolo. Ma molte domande si impongono. A che titolo il cardinale, incaricato di guidare in nome del Papa la politica della Santa Sede a livello mondiale, si è messo a mediare tra le parti in una vicenda che riguarda la giustizia civile e non compete al Vaticano. A che titolo si è impegnato in un “accordo transattivo” con faccendieri già inquisiti dalla magistratura e avvocati tesi a spremere 99 milioni ai Salesiani.
C’è del marcio in Danimarca, esclamava Amleto. C’è, da un anno a questa parte, troppo marcio in un numero eccessivo di vicende che coinvolgono ecclesiastici di prima, seconda e terza linea. Fare l’elenco è imbarazzante.
Febbraio 2011. Esplode lo scandalo del debito abnorme dell’ospedale San Raffaele, guidato dal prete-managere don Luigi Verzè. L’esposizione verso le banche è di trecento milioni, poi si scopre che con i debiti nei confronti dei fornitori si arriva ad un miliardo. Si profila il crack. Viene alla luce una gestione dissennata, condita da intrighi per sovvenzioni con la Regione Lombardia, guidata dal ciellino Formigoni, e caratterizzata da azioni banditesche verso chi osi porsi di traverso rispetto ai piani di Verzè. C’è un costo umano altissimo in questo scandalo. Un suicida (Mario Cal, braccio destro di Verzè e 244 dipendenti del San Raffaele, che l’ottobre scorso hanno ricevuto la lettera di licenziamento.
Il 2011 è anche l’anno in cui esplode lo scandalo del disavanzo spettrale degli ospedali della “Congregazione dei Figli dell’Immacolata Concezione”: 800 milioni di buco, sette dirigenti religiosielaiciindagati, accusato nr. 1 fratello Franco Decaminada per lunghi anni consigliere delegato dell’Istituto dermopatologico dell’Immacolata. Dissesto e costi umani: da due anni il pagamento dei salari avviene con ritardi, dopo agosto i 1600 dipendenti dell’IDI, del San Carlo di Nancy e della clinica “Villa Paola” di Roma non sono stati pagati.
Anno 2011, Roma scopre l’esistenza di un certo don Evaldo Biasini, ex economo dei Missionari del Preziosissimo Sangue, amico della cricca degli appalti di Anemone e Balducci, coinvolto nelle indagini sugli appalti del G8 e indagato per riciclaggio di denaro dalla Procura di Roma: dispone di cinquanta conti correnti, tredici dei quali aperti allo Ior, la banca vaticana.
Anno 2011, il segretario generale del Governatorato monsignor Viganò denuncia la corruzione negli appalti in Vaticano. Il presepe di piazza San Pietro prima di lui costava 550 mila euro, sotto il suo controllo scende a 300 mila. Viganò denuncia frodi ai danni dell’Osservatore Romano per 97 mila euro, ammanchi di 70 mila euro in un altro ufficio, frodi per 85 mila euro ai danni dell’Amministrazione del Patrimonio Sede Apostolica (Apsa). Viene spedito da Bertone a Washington come nunzio.
Anno 2011, il Segretario di Stato sabota l’applicazione di in decreto di Benedetto XVI, che istituisce un’Autorità di Informazione Finanziaria con pieni poteri di controllo sui movimenti di denaro nello Ior e nelle amministrazioni vaticane. Anno 2012, viene silurato il direttore della banca vaticana Gotti Tedeschi, reo di avere voluto sapere troppo sui “conti esterni” dello Ior e di aver voluto sottoporre i movimenti della banca alla società di revisione internazionale Deloitte. C’è qualcosa di profondamente malato nel modo in cui troppi uomini di Chiesa maneggiano il denaro o lo lasciano maneggiare. C’è una drammatica carenza di controlli. C’è un disinteresse colpevole delle supreme istanze ecclesiastiche nei confronti del mala gestione e del malaffare, che si annida tra preti-manager e preti-faccendieri. Mai un’inchiesta da parte della Chiesa. Mai una punizione. Mai un’operazione di pulizia.

il Fatto 14.11.12
Risponde Furio Colombo
Italia e Islam, religione e politica


MI È CAPITATO di vedere un invito che riporto qui di seguito. Il titolo è “Giovani, Educazione, Crescita”. Promotori: “Inter-gruppo Parlamentare per la Sussidiarietà” che vuol dire, credo, interventi nel sociale (ma dal punto di vista della politica, visti gli invitanti). Relatori: Sua Eminenza Reverendissima il card. Ruini: il presidente della Fondazione per la Sussidiarietà; Giorgio Vittadini, e il Governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco a cui è affidata la conclusione. Le chiedo che differenza c'è rispetto a una manifestazione iraniana o saudita dello stesso livello e per lo stesso selezionato pubblico.
Andrea

SI VEDONO, SI RICEVONO , si ascoltano alla radio, si intravedono in televisione una quantità di eventi come questi. Ma il lettore ha ragione, il caso è esemplare. Coloro che partecipano all'evento hanno le loro ragioni, la loro autorevolezza per partecipare al convegno su invito bipartisan del Parlamento. Direi che sembra un evento quanto meno pensato male, nel senso che gli organizzatori (tutti parlamentari) sembrano non avere riflettuto sugli accostamenti e sul peso dei diversi ruoli. Naturalmente il Cardinale Ruini, che ha ancora addosso molta della sua autorità di capo della Chiesa italiana, ha tutto il diritto di partecipare a un convegno politico. E probabilmente è molto utile, nelle le attuali vicende italiane, avere fra i partecipanti un leader di Comunione e liberazione come Giorgio Vittadini, l'influente partito di Formigoni, che ha titolo e diritto di farsi trovare in pubblico con il Cardinale Ruini. Ma il Governatore della Banca d'Italia? Il Governatore è una delle figure più rappresentative, ma anche di maggior peso e garanzia nella Repubblica. È naturale che vada ai convegni. Ma in questo convegno gli è stata affidata la relazione conclusiva. Significa che è lui il centro caldo della vicenda. Ma poiché i compagni di squadra sono il Cardinale Ruini e l’uomo che più di tutti rappresenta la potente formazione politica detta Comunione e liberazione, non si può immaginare che il Governatore vada per dissentire. Dunque l'armonia di tutti i partecipanti al convegno è assicurata dalla reciproca cooptazione. Ma poiché, nell’interpretazione del “puzzle” dobbiamo per forza partire dal più importante del gruppo per capire che cosa succede, sembra di capire che se Ruini e Vittadini, con ciò che rappresentano, fanno un convegno su un tema sociale e politico e invitano un terzo più importante di loro, è segno che quel terzo, dato il suo rilievo, non bilancia il gruppo, ma lo completa, ovvero che in tre modi diversi viene presentato autorevolmente lo stesso messaggio. Dunque vediamo: un protagonista autorevole rappresenta la Chiesa. Uno rappresenta una grande lobby cattolica. Il terzo personaggio rappresenta l'Italia. E allora siamo di fronte o a uno squilibrio che non si spiega o a un equilibrio che non vogliamo.

il Fatto 14.11.12
Australia. Inchiesta globale sulla pedofilia
di Stefano Vergine


Perth (Australia) Il governo australiano ha annunciato l'istituzione di una commissione d'inchiesta sugli abusi sessuali subiti dai minori. La premier laburista Julia Gillard ha sottolineato che le indagini non riguarderanno solo la Chiesa cattolica ma tutte le istituzioni, dalle scuole alle organizzazioni no-profit. Date le circostanze, è però evidente che l'obiettivo della commissione, che ha potere giudiziario, verrà puntato sugli eventuali insabbiamenti operati dal Vaticano. “Ci sono state rivelazioni su aggressori trasferiti da una sede a un'altra - ha detto Gillard - troppi adulti hanno preferito chiudere gli occhi”. Giusto una settimana fa le dichiarazioni di Peter Fox, un ispettore di polizia, avevano riportato la Chiesa di Roma al centro dell'attenzione degli australiani, uno dei popoli meno religiosi al mondo, dove a perdere fedeli negli ultimi anni è stato soprattutto il cristianesimo. Fox ha detto di avere prove inconfutabili sul tentativo di “un arcivescovo, un vescovo e un prete” di insabbiare casi di abuso avvenuti nella Valle di Hunter, 170 chilometri da Sydney.
Finora la Chiesa cattolica ha ammesso che dal 1930 a oggi 620 bambini sono stati violentati da preti. Secondo diverse associazioni il numero delle vittime sfiora invece quota 10mila. I membri della commissione, la cui istituzione è sostenuta anche dal partito conservatore, dovrebbero essere nominati entro l’anno. L'annuncio è stato accolto con favore dalle associazioni delle vittime di abusi, che hanno parlato di “fine del tradimento” dello Stato. Positivo anche il commento dell'arcivescovo di Sidney, George Pell: “Credo che l'aria debba essere ripulita: dovremo cooperare pienamente con la commissione”.

l’Unità 14.11.12
Francia, Hollande rilancia su crescita e lavoro
Bilancio con la stampa del semestre presidenziale
Confermata la lotta alla disoccupazione
di Paolo Soldini


«So che i cittadini sono scettici e li capisco: in passato hanno sentito tante chiacchiere, tante promesse. Ma tutta la mia politica, tutta la mia strategia è una mobilitazione perché i francesi abbiano il lavoro. Dobbiamo spezzare la progressione che pare inevitabile verso la disoccupazione. La lotta per il lavoro sarà la priorità dei cinque anni del mio mandato». François Hollande un impegno l’ha mantenuto: in campagna elettorale aveva promesso che se lo avessero eletto ogni sei mesi avrebbe fatto un bilancio pubblico del proprio operato e ieri, con una settimana di ritardo, ha convocato all’Eliseo la stampa e ha spiegato alla Francia come e perché ritiene che «il declino» non sia «il nostro destino». Ha raccontato quello che ha fatto in questi sei mesi e si è difeso dalle accuse di chi dice che è stato poco. Contro l’opinione dei tanti che lo accusano di essere stato incerto, ondivago nella sua azione di governo, di non aver saputo scegliere, di non aver adottato la strategia del cambiamento brutale («ma in economia gli choc vanno evitati»), di essersi lasciato invischiare nelle panìe della politique politicienne e dei condizionamenti internazionali in materia di crisi del debito, ha rivendicato «verità» e «chiarezza».
OPERAZIONE VERITÀ
La verità di una situazione del paese molto difficile, per rimettere la quale sui binari giusti «ci vorrà tempo», per cui non è giusto dare giudizi ora che siamo praticamente all’inizio. La chiarezza di un rapporto di onestà con l’opinione pubblica: ogni sei mesi mi giudicherete, ma il metro per giudicare la mia iniziativa politica per me sarà se alla fine del mio mandato i francesi staranno peggio o meglio di quando l’ho iniziato.
È una «svolta» quella che François Hollande ha annunciato ieri rispetto alle promesse e agli impegni della campagna elettorale? Qualche giornalista lo ha sostenuto e gliene ha chiesto ragione. Il presidente, però, ha rivendicato la propria coerenza. Il suo mandato – ha ricordato – è iniziato nel segno di tre grandi sfide: la riforma il «riorientamento» nelle sue parole dell’Europa, il contrasto alla crescita del debito, il recupero di competitività all’economia francese. Su tutti e tre i terreni i risultati non sono mancati e per ulteriori progressi si stanno ponendo le premesse.
Hollande considera un punto di svolta il Consiglio europeo di fine giugno, quando l’ostinazione di chi guardava solo all’austerità di bilancio è stata corretta in buona misura proprio dall’iniziativa francese. Loda i risparmi «a tambur battente» cui si sta applicando il governo Ayrault, ma è soprattutto sulla competitività che si sente impegnato fortemente. Stiamo creando, ricorda, una banca per gli investimenti che potrà finanziare le misure di crescita con gli stessi criteri della Bei. Dall’anno prossimo, poi, l’applicazione di un massiccio credito d’imposta per le imprese permetterà investimenti per almeno una ventina di miliardi. Si garantirà la stabilità degli investimenti che favoriscono le esportazioni. L’Iva verrà aumentata solo dello 0,4%, molto meno di quanto era stato preventivato da Sarkozy. L’istruzione pubblica sarà risparmiata dai tagli e sarà anzi rifinanziata perché solo una formazione migliore porterà più lavoro e maggiore competitività delle industrie francesi.
Si tratta di misure declinate, in buona parte, al futuro, anche se un futuro piuttosto ravvicinato. Ma la linea è tracciata e ha anche una sua radicale chiarezza. Soprattutto nei rapporti con la finanza, «che deve essere rimessa al suo posto». Così entro l’anno – ha annunciato il presidente – verrà approvata una legge che mette ordine nel settore, separando le attività speculative da quelle di finanziamento. I risparmi dei francesi dovranno essere utilizzati per gli investimenti e non messi in pericolo dalle attività speculative. Si tratta di una istanza, la separazione tra finanza d’affari e banche commerciali, che si sta facendo strada in tutte le forze progressiste europee, dalla Spd ai partiti socialdemocratici del nord e del centro Europa ai laburisti britannici ai democratici italiani, e che costituisce uno dei fondamenti comuni dell’iniziativa complessiva della sinistra europea. E anche sulla questione morale e la credibilità delle istituzioni Hollande ha le sue novità da proporre: verrà abolita l’immunità giudiziaria per il presidente della Repubblica e sarà insediata una commissione etica per monitorare il comportamento dei politici.
Ma il segno fondamentale che il presidente francese intende dare al proprio quinquennato è quello di una grande mobilitazione contro la disoccupazione. Si combatterà con tutte le armi: il recupero di competitività, l’istruzione, gli investimenti, programmi mirati. E naturalmente l’iniziativa politica nella Ue. Gli investimenti per il lavoro in Europa sono possibili nonostante la crisi, e anzi sono necessari proprio a causa della crisi. «La mia sola bussola – assicura Hollande cedendo un po’ alla retorica – è la giustizia», ma la battaglia per il lavoro non è solo una questione di giustizia sociale. È l’unica speranza per l’Europa.

La Stampa 14.11.12
Baubérot: “I veri laici non vietano il burqa”
I matrimoni omosessuali: “Non capisco il no delle Chiese: dovrebbero solo chiedere di non essere obbligate a benedirli"
Nelle scuole francesi si insegnerà la morale repubblicana
Parla il sociologo incaricato di fare proposte su come insegnarla
di Alberto Mattioli


Matrimonio «per tutti» (leggi: anche per le coppie dello stesso sesso). Eutanasia. E lezioni di «morale laica» nelle scuole della République. La Francia di François Hollande si vuole di nuovo all’avanguardia nella ridefinizione di diritti e doveri del cittadino, sempre nel nome di quella «laicità» che resta uno dei grandi totem nazionali. Nella Commissione che dovrà fare proposte su come insegnare la morale repubblicana c’è anche Jean Baubérot, il fondatore della sociologia della laicità.
Professor Baubérot, i professori di «morale laica» ricordano gli istitutori di inizio Novecento, gli «ussari della Repubblica».
«È ovvio che la morale non si insegna, né si impara, come la storia o la geografia. La scuola francese è caratterizzata da un approccio troppo magistrale, con uno che parla e gli altri che ascoltano. Credo che il professore dovrà guidare la riflessione più che imporla. Insegnare a pensare, non dei dogmi».
Ammetterà che l’idea sa un po’ di Stato etico.
«Sì, il rischio c’è. Ma è appunto quel che bisogna evitare. La Commissione ci sta lavorando. E tuttavia, se siamo contrari al fatto che possa esistere un sistema morale di Stato, siamo anche contro l’idea che il legame sociale non abbia una dimensione etica. I francesi non stanno insieme per caso e nemmeno per coercizione. Si riconoscono in una serie di valori che sono poi quelli elencati nel Preambolo della Costituzione».
Cosa critica del concetto francese di laicità?
«Dal 1905, da quando cioè la legge sancì la separazione dello Stato dalla Chiesa, la laicità è stata eccessivamente intesa come una separazione netta tra il fenomeno sociale e quello spirituale. Ma lo Stato è solo un arbitro e non deve chiedere alla gente di essere neutrale come lui, né nelle sue convinzioni né nei suoi vestiti. La legge che vieta il burqa è discutibile perché è una legge che vieta il velo integrale sempre e comunque. Per lo Stato, invece, che una musulmana giri velata non è un problema. È un problema, e dev’essere vietato, se pretende di riscuotere un assegno velata. Ma questo è un problema pratico, non metafisico».
La legge sul matrimonio per tutti le piace?
«Trovo che sia un vero provvedimento laico. E non capisco l’obiezione delle Chiese. Dovrebbero prendere esempio da quel che ha detto l’arcivescovo di Canterbury, a capo, noti bene, di una Chiesa di Stato: io ammetto che esistano le nozze gay, solo chiedo che lo Stato non mi obblighi a benedirle. Se uno aderisce a una religione, ne accetta le regole. In altri termini, lo Stato garantisce a tutti la libertà esterna, non quella interna. Se una donna si converte all’Islam in piena libertà, senza coercizione e senza violenza, accetta delle regole. Se è una sua libera scelta, lo Stato non deve entrarci. Ha solo il diritto, e il dovere, di promuovere l’eguaglianza. Ma nessuno può essere “emancipato” contro la sua volontà».
Molti sindaci fanno sapere che si rifiuteranno di celebrare i matrimoni gay. Che ne pensa?
«Penso che vada riconosciuto loro il diritto all’obiezione di coscienza, esattamente come ai medici per l’aborto. Ma devono delegare i loro poteri a un assessore, perché esiste, anzi esisterà presto, anche il diritto di tutti a sposarsi».
In nessun Paese del mondo come la Francia la laicità appassiona tanto l’opinione pubblica. Perché?
«Per due ragioni. La prima è storica: qui il conflitto politico-religioso è durato secoli. Pensi al Medioevo con le crociate contro gli eretici, Filippo il Bello e il suo conflitto con Roma, il Papa ad Avignone, il gallicanesimo. Poi: quarant’anni di guerre di religione, la persecuzione dei protestanti e dei giansenisti, la Rivoluzione che prima riconosce la libertà religiosa e poi perseguita le religioni, eccetera».
E l’altra?
«L’altra è che anche oggi i temi religiosi hanno un significato politico. Come la grande paura dell’Islam e la strumentalizzazione della laicità per mascherarla. Ma l’Islam radicale è assolutamente minoritario. E, ad esempio, non è vero, come uno studio recente ha dimostrato, che i musulmani siano più prolifici che gli altri francesi. Io vorrei una “laicità del sangue freddo”, come la definiva già Aristide Briand».
L’ITALIA INFLUENZATA DAL VATICANO
«Sulle nozze per tutti e i diritti dei gay è più indietro di altri Paesi cattolici come Spagna o Belgio»
Ultima domanda sull’Italia: lo definirebbe un Paese laico?
«Credo che in Italia ci siano degli elementi di laicità diffusi, come si è visto quando si è votato sul divorzio e sull’aborto. Ma certo l’Italia deve fare i conti con la sua storia e sulla sua posizione geopolitica. È chiaro che il fatto di avere il Vaticano “in casa” influenzi le scelte politiche. E infatti in materie come il matrimonio per tutti o i diritti degli omosessuali l’Italia è molto più indietro di altri Paesi pure cattolici come la Spagna, l’Argentina o il Belgio. Quindi a domanda risponderei: l’Italia è un Paese semilaico».

il Fatto 14.11.12
L’intervista
Le speranze dello scrittore
Yehoshua: Obama può far nascere due Stati separati
di Roberta Zunini


Abraham Yehoshua è contento, molto contento, per gli americani ma anche per sé e i propri connazionali. Il più noto scrittore e intellettuale ebreo israeliano, l'autore di tanti romanzi ma anche di scritti e dibattiti a favore della creazione di uno Stato palestinese accanto a quello israeliano, crede che il secondo mandato di Obama potrebbe finalmente resuscitare il blocco della sinistra israeliana e i negoziati di pace con i palestinesi. “Di più, spero che Obama dirà al premier Netanyahu, che quasi sicuramente verrà rieletto il 22 gennaio, le parole fatidiche”. Cioè?
Stop alla costruzione di nuove colonie nei territori occupati.
Obama lo aveva già promesso all'inizio del suo primo mandato, ma poi non ha fatto nulla di concreto.
Obama non potrà essere rieletto. Non ha dunque nulla da perdere nel portare a compimento ciò che aveva detto di voler fare fin dall'inizio, cioè lavorare affinché nasca uno Stato palestinese vero, accettato da tutti, non unilaterale come vorrebbe il presidente dell'Anp, Abu Mazen, ricorrendo all'Onu per ottenere un passaggio dell'Anp da Entità a Stato. Aveva fatto bene Obama, l'anno scorso, a minacciare il veto al Consiglio di sicurezza contro questa soluzione perché non risolverebbe nulla: sarebbe solo una forzatura. Se invece Obama si impegnasse personal-mente sulla questione delle colonie, avrebbe il consenso dell'intera comunità internazionale.
Ma si troverà di fronte a un premier israeliano, anche lui al suo secondo mandato, che non lo ha mai amato, tanto che ha pubblicamente appoggiato Mitt Romney.
Forse anche per il loro pessimo rapporto personale, le cose potrebbero prendere una piega diversa. Netanyahu potrebbe voler mostrare, come si è affrettato a dire dopo la proclamazione della vittoria di Obama, di essere in grado di lavorare bene anche con il presidente che lui non ha appoggiato. A sua volta, Obama non si sentirà schiacciato dall'obbligo di essere per forza accondiscendente per non essere tacciato di voler abbandonare l'alleato più forte che ha in Medio Oriente.
Crede ci sia ancora l'amicizia di un tempo tra Usa e Israele?
Sì, ma proprio per questo gli americani non sono i più indicati a portare avanti la mediazione con i palestinesi. Per questo ci vuole una presa di posizione più determinata, anzi un coinvolgimento diretto dell'Europa.
Il giorno dopo la vittoria di Obama, il quotidiano israeliano Yedioth Aronoth ha scritto di aver saputo da fonti interne al governo Netanyahu che lo stesso premier aveva proibito ai propri ministri e sotto segretari di continuare a esprimere pubblicamente la delusione per la vittoria di Obama.
Ha fatto bene. Ora è necessario che le relazioni tra Israele e Usa tornino serene. Ci sono questioni importanti da affrontare. Una di queste è il nucleare iraniano. Bisogna che i partiti di destra, religiosi e laici, che con ogni probabilità vinceranno le elezioni, seguano, anche se non sono d'accordo, le indicazioni dell'amministrazione americana per evitare derive belliche che sarebbero disastrose.
Cioè si accontentino delle sanzioni economiche imposte all'Iran? Le sanzioni stanno funzionando, l'economia iraniana sta subendo un colpo fortissimo, il mese scorso la valuta locale ha perso gran parte del suo valore e ci sono state manifestazioni di scontento da parte della popolazione che non ne può più della politica di Ahmadinejad. Tutti sanno che sta usando da anni denaro pubblico per creare l'atomica anziché per migliorare le condizioni della popolazione sempre più impoverita.
Anche in Israele ci sono state manifestazioni contro le politiche liberiste di Netanyahu.
Sì, molti giovani da più di un anno protestano contro il taglio al welfare, le privatizzazioni e lo strapotere delle banche. Non credo che la vittoria di Obama influenzerà il voto di gennaio ma molti dei giovani israeliani che hanno protestano e poi hanno smesso per l'indifferenza di questo governo, forse ritroveranno fiducia nelle proprie idee e finalmente torneranno a fare politica attiva nei partiti di sinistra. Credo che il Labour party potrà contare su nuovi sostenitori.
Insomma la vittoria di Obama è un fatto positivo anche per la politica interna israeliana.
Ripeto, non stravolgerà l'assetto politico israeliano, ma potrebbe aiutarci a uscire dallo stallo interno ed esterno in cui ci troviamo da quando c’è Netanyahu.

il Fatto 14.11.12
Palestina, riesumato il corpo di Arafat


Chiude al pubblico il Mausoleo di Yasser Arafat a Ramallah e si avvia la riesumazione della salma del leader Olp per chiarire il motivo della morte (avvelenamento da polonio?). E il presidente dell’Anp Abu Mazen il 29 chiederà all’Onu di accreditare “la Palestina come Stato non membro”. LaPresse

La Stampa 14.11.12
Cina, i misteri del Congresso
I nomi dei nuovi leader del Partito comunista verranno annunciati in ritardo, tra lotte intestine e tensioni
di Ilaria Maria Sala


Il 18esimo Congresso del Partito Comunista, in corso a Pechino, chiuderà il 15 novembre, con l’annuncio dei nuovi membri del Politburo, inclusi Xi Jinping e Li Keqiang. Il primo, sembra ormai certo, diventerà il nuovo Presidente cinese e il secondo il nuovo Primo Ministro. La data del Congresso è stata spostata di circa un mese rispetto a quanto si sapeva, visto che così funziona la Cina, con nulla di certo e ora stessa cosa vale per la chiusura dell’assemblea, prolungata di un giorno. Negli ultimi mesi sembra che le tensioni all’interno del Pcc, di cui si sono viste alcune indicazioni con lo scandalo legato a Bo Xilai, ex-Segretario di Partito di Chongqing, ora in disgrazia, e con il ritorno sulla scena dell’ex Presidente, Jiang Zemin, abbiano portato agli spostamenti di data, e ad alcune modifiche dell’ultima ora. Ma da giovedì tutto dovrebbe essere concluso, e resterà solo da vedere in che direzione i nuovi dirigenti vorranno portare il Paese più popolato del pianeta.

IL PRESIDENTE XI JINPING Un “principe” rosso prudente che dovrà riformare il Paese.
La decisione sembra essere stata presa nel 2007, al 17esimo Congresso del Partito comunista: Xi Jinping entrò a far parte del Politburo, e il futuro gli riservava le massime cariche. Oggi si attende solo l’annuncio ufficiale, che lo nominerà Segretario generale del Partito e, da marzo prossimo, Presidente della Cina. «Il fatto», dice Bao Pu, editore e analista politico a Hong Kong, «è che non abbiamo idea di come sia stato scelto. Non lo sapremo mai: non esiste una procedura definita, e se rivelassero al pubblico come selezionano i dirigenti, la questione della loro mancanza di legittimità si farebbe acuta».
Di Xi non si sa molto: fa parte dei cosiddetti «principi», in quanto suo padre era Xi Zhongxun, un veterano della Lunga Marcia. E’ nato nel 1953, e cresciuto a Zhongnanhai, dove vivono molti alti funzionari di Partito. Quando il padre era in disgrazia durante la Rivoluzione culturale, Xi junior venne inviato in campagna, e per sette anni ha vissuto in una grotta nello Shanxi in una delle zone più dure e amare della Cina. L’esperienza avrebbe potuto allontanarlo dal Partito. Invece ne è uscito determinato a mostrare la sua fedeltà e affidabilità.
Per il resto, non è tanto quello che si sa di lui, quanto quel poco che si sa sulle posizioni che ha assunto: è stato segretario del Pcc a Shanghai, poi vice alla Commissione Militare. Ha visitato gli Stati Uniti quando era governatore di un villaggio nell’Hebei, ed è stato incaricato delle Olimpiadi, ma le speranze che si ripongono in lui come possibile riformatore vengono per lo più dal fattore anagrafico: Xi è cresciuto in una Cina che ha conosciuto, e beneficiato, delle riforme e dell’apertura economica. E’ sposato con una cantante nota e attraente, Peng Liyun, che ha corteggiato con determinazione pur avvertendola che non avrebbe avuto molto tempo per la famiglia. Un po’ di colore in un Politburò grigio. Il suo merito principale è stato sapersi presentare come capace di placare fazioni e divisioni, e piacere a riformisti e conservatori.
Xi Jinping ha curato il secondo volume di una «Storia del Partito» sugli anni del maoismo. Un’occasione, forse, per dare una versione della storia un po’ più vicina alla realtà, che rendesse conto delle tante sofferenze causate da Mao, non ultimo al padre di Xi. Invece il libro segue in tutto la linea canonica, e Mao emerge come sempre in modo positivo. Potrà un uomo così prudente svelare un gusto per riforme e liberalizzazioni, per di più di natura politica?

IL PREMIER LI KEQIANG L’uomo della censura che da giovane voleva la democrazia.
Appena un soffio, dicono, e Li Keqiang sarebbe potuto diventare Presidente e Segretario generale del Pcc, come avrebbe forse voluto Hu Jintao, il leader uscente. Invece, pur essendosi fatto le ossa nella Lega comunista giovanile (il feudo di Hu) sarebbe rimasto vittima della lotta per il potere che si dice abbia opposto Hu al suo predecessore, Jiang Zemin. Non che si abbia altro che voci di corridoio, per cui ogni spiegazione su come sono state decise le posizioni dei prossimi massimi leader cinesi va presa con un po’ di scetticismo.
Nato nel 1955 nell’Anhui, è un apparatchik che ha fatto la sua carriera senza significativi appoggi familiari. Ha un master in legge e un dottorato in economia, parla abbastanza bene l’inglese, da studente, nell’Università di Pechino nota per il suo attivismo politico, era favorevole alle elezioni e alla democrazia, ma sembra che abbia abbandonato queste fantasie. Chi lo guarda convinto che soddisferà le speranze dei riformisti, pensando ai suoi anni di gioventù. Chi pensa che non proporrà niente di nuovo guarda invece agli Anni 90, quando Li era segretario di partito dello Henan, tristemente nota per essere una delle regioni maggiormente colpite dall’Aids per trasfusioni non sicure. Quando emersero le responsabilità delle autorità locali che avevano convinto i contadini a vendere il sangue per produrre plasma, senza badare ai metodi dei prelievi e delle trasfusioni, Li impose il silenzio stampa. Per cinque anni il problema non venne nemmeno ammesso, con conseguenze catastrofiche. Certo, il contagio per lo più avvenne quando lui non era a capo dello Henan, ma una volta arrivato e resosi conto di quanto stava accadendo, ha preferito la censura.
A livello economico le credenziali riformiste di Li sembrano essere un po’ meno aleatorie: ha spesso criticato il peso eccessivo delle aziende statali e molti lo considerano fra gli architetti del programma di stimoli che ha consentito alla Cina di evitare la crisi del 2008-2009. Ma di nuovo, non è tanto la persona in sé quanto il sistema che determinerà se, e fino a che punto, sarà possibile procedere con ulteriori riforme e liberalizzazioni, in particolare nel campo della libertà di espressione e della «democrazia interna al Partito», tema caro ai riformatori più prudenti. Wen Jiabao, il primo ministro uscente, ha spesso auspicato maggior democrazia e giustizia sociale: ma non ha saputo, potuto o voluto nessuna apertura concreta. Che il suo successore possa fare molto di più?

Repubblica 14.11.12
Il Gorbaciov cinese che fa paura al potere rosso
di Giampaolo Visetti


PER il compagno Hu Jintao oggi è il giorno del congedo, l’attimo sospeso di massimo pericolo per un regime in cui l’uscita di scena non risulta sul copione. Mao Zedong morì imperatore. Deng Xiaoping impose la pensione a settant’anni, prima di essere risucchiato da comandante in capo nella tragedia di piazza Tienanmen. Jiang Zemin, privo di eredi, rimase segretario un anno di più e altri due al vertice delle forze armate: era il primo leader cinese a non aver fatto la rivoluzione, il primo privo del carisma per nominare il proprio successore. Ora tocca a Hu, il vuoto vestito di grigio, e per la prima volta la Cina prova ad essere un autoritarismo perbene. Le regole non ci sono, ma il partito-Stato le seguirà e il “principe rosso” Xi Jinping allo scoccare della mezzanotte entrerà da imperatore nella Città Proibita.
Il 18° Congresso, che si chiude oggi a Pechino, è stato un’impressionante esibizione di ciò che è costretta ad essere una dittatura capitalista di successo al tempo dei social media. Capitale blindata, vietato portarsi in giro palline da ping pong, internet sotto sequestro, piccioni chiusi in gabbia e seconda economia del mondo in ostaggio di censura e propaganda. A giornali e tivù è stato ordinato di dare solo notizie entusiasmanti e di glorificare il «decennio d’oro» dello «sviluppo scientifico» di Hu Jintao e del premier Wen Jiabao. A seguire «l’evento politico più importante del decennio», 1.700 giornalisti di tutto il mondo. È chiaro che con branchi di cronisti gonfi di thé, sono necessarie conferenze stampa quotidiane. Il problema è che nessuno tra i 2.270 delegati del Congresso aveva il permesso di parlare.
Qualcuno ha risposto leggendo pezzi del discorso d’addio di Hu Jintao: «Seguiremo i temi approvati dal partito per promuovere le riforme». Altri hanno pregato di non fare domande. Altri ancora si erano fatti approvare due righe da leggere: «Sono il segretario del partito di Tianjin. Le mie responsabilità sono di studiare seriamente e di discutere lo spirito…». Ai delegati selezionati per i video, sono state poste domande preparate che potevano dare l’illusione di una polemica: «Signor zio, le merendine si possono mangiare tranquillamente vero?». È su questa terrificante prova di autocontrollo collettivo, senza che uno solo degli 1,4 miliardi di cinesi sia riuscito ad avvicinarsi al mausoleo di Mao con un foglietto di blandissima protesta, che irrompono oggi il leader del futuro, la quinta generazione dei comunisti di mercato e i funzionari in Audi nera che già si preparano a comandare, dal 2022 al 2032, quella che sarà la prima potenza del pianeta. E se il Congresso, come da statuto, non poteva assumere alcuna decisione, limitandosi a ratificare le promozioni decise dai capi a riposo, gli interminabili interventi del Comitato centrale hanno eretto al contrario un’invalicabile «Grande Muraglia»: l’incubo contemporaneo della Cina è che da domani il misterioso Xi Jinping, conservatore progressista, cominci a rivelarsi un «nuovo Gorbaciov».
Alla vigilia dell’annuncio che vale assai più di Barack Obama alla Casa Bianca, ossia dei nove o sette nomi a cui per i prossimi dieci anni l’umanità chiede di tenere acceso il motore della crescita, il sinistro marchio «nuovo Gorbaciov» è risultato pubblicamente impronunciabile, ma ha segnato il dietro le quinte della lotta più spietata per il potere che la Cina abbia subìto dalla dipartita del Grande Timoniere. Poche ore e tutti sapranno fino a che punto Hu Jintao verrà umiliato, perdendo subito anche la presidenza della Commissione militare centrale, se Wen Jiabao, travolto dalla parentopoli di famiglia, farà la fine di Bo Xilai, epurato con l’accusa di essere l’ultimo maoista del Paese. Se hanno prevalso gli appetiti tradizionali dei “principi rossi” o gli affari più sofisticati della Lega della Gioventù comunista, i titoli della Borsa di Shanghai o gli appalti lungo gli anelli di Pechino, i cosidetti riformisti o gli autocertificati conservatori. Dopo sessantatre anni di socialismo militarizzato tutto può perfino essere tollerato, se non minaccia la stagnazione dell’apparato: tutto ma non un enigmatico gigante bonaccione, coniugato con una star del folk, che si metta in testa di passare alla storia come il Gorbaciov dell’Asia, scatenando la rivoluzione dall’alto per trasformare la Cina in una replica dell’Occidente.
Momenti storici e situazioni interne non paragonabili, tra Mosca e Pechino. Ma dentro un’oligarchia legittimata dall’obbedienza del partito e dalla fedeltà dell’esercito, e non da un libero mandato popolare, il rischio di una “svolta democratica” capace di calmare una popolazione sempre più indignata da corruzione del potere e disparità tra ricchi e poveri, è lo spettro con cui il Congresso è stato costretto a confrontarsi. L’ultimo discorso di Hu Jintao da segretario generale, auto-difesa di tutta la nomenclatura rossa, è stato il manifesto dell’anti-perestrojka cinese: partito unico in eterno, no all’imitazione dell’America, consolidamento dell’economia di Stato, ma pure via libera al mercato, obbligo di raddoppio del Pil e benessere per tutti. Come se Pechino volesse segnalare che oggi sarebbe più conveniente se Usa e Ue si cinesizzassero almeno un po’, piuttosto che vedere una Cina tardivamente contagiata dalla sindrome dell’Urss.
I candidati scelti ieri per il Comitato centrale, che elegge oggi i venticinque del Politburo, gli immortali del Comitato permanente e i dodici intoccabili della Commissione militare centrale, hanno fatto il possibile per mettersi al riparo da quella che le autorità definiscono putinianamente «una catastrofe». L’americano Bo Xilai, neo-profeta del leaderismo mediatico etichettato come nostalgico della canzoni proletarie, è al sicuro e in attesa di processo. Xi Jinping può così prendere le redini del partito a vent’anni dalla morte del padre, epurato e riabilitato eroe della rivoluzione, sotto la tutela dei generali e grazie alla garanzia dell’ottantaseienne Jiang Zemin. «Primus inter pares », è stato cinturato da un collegio cardinalizio a prova di sorprese: parola d’ordine «stabilità ». Solo l’avvocato Li Keqiang, premier dal prossimo marzo e unico superstite della banda di Hu, è accreditato di accettabili dosi di riformismo, almeno economico. Congelato il sistema, il leader uscente dovrebbe dunque annunciare oggi anche il suo clamoroso addio alle armi, dimettendosi contemporaneamente da esercito e partito, per la prima volta nella storia cinese, a riprova di quanto Pechino sia in allarme per la sicurezza interna e per i venti di guerra che soffiano tra i vicini di casa e sul Pacifico. «La situazione globale — ha confidato un delegato che ha passato la selezione per il Comitato centrale — non consiglia alla Cina di restare, come in passato, un paio d’anni con due centri di potere».
Stop al gorbaciovismo confuciano, ma scelte nette: percentuali maggiori di «democrazia interna al partito», una sorta di “primarie” chiuse e riservate per selezionare i leader del futuro, test elettorali nei villaggi, sondaggi popolari preventivi per stabilire il livello di opposizione di massa alle grandi opere e target predefiniti per la crescita del Pil. Altrettanto insuperabili, almeno per due generazioni, i quatto no affidati da oggi a Xi Jinping: no al multipartitismo elettorale, no a indipendenza o autonomia per le regioni ribelli di Tibet storico e Xinjiang, no al riconoscimento dei crimini di Mao e del massacro di piazza Tienanmen, no alla libertà di espressione e alla liberazione dei dissidenti. Il vecchio sovrano Hu Jintao esce oggi di scena con la mesta dignità nazionale di chi si è limitato a non sperperare il patrimonio di famiglia. Il nuovo imperatore Xi Jinping sale oggi sul trono della Cina con il trionfante mandato globale di riformarla per non cambiarla: di seppellire Lenin e Mao, ma senza diventare Gorbaciov.

l’Unità 14.11.12
Una vita intensa ...quasi due
Miriam Mafai: l’autobiografia postuma uscita per Rizzoli
La signora del giornalismo che aderì giovanissima al comunismo
Parlano di lei da Lucia Annunziata a Walter Veltroni
di Jolanda Bufalini


ROMA UN PRECOCE SPOON RIVER, CHE MIRIAM MAFAI LESSE E AMÒ DA ADOLESCENTE: «E adesso so che bisogna alzare le vele e prendere i venti del destino, dovunque spingano la barca». Franco Cassano (Paeninsula): «Ci sono uomini-ovest, quelli per i quali una porta è sempre un’uscita e mai un’entrata». Ermanno Vitale (Ius Migrandi): «Ebreo significa colui che passa, dalla radice avar, passare, errare: dunque ebreo errante è, almeno dal punti di vista etimologico, un’espressione pleonastica». Le citazioni in apertura di Una vita, quasi due, l’autobiografia di Miriam, incompiuta, uscita postuma da Rizzoli (pagine 263, euro 18,00) e curata dalla figlia Sara Scalia, fanno da traccia ad un percorso esistenziale che si è fatto forte della sua curiosità intellettuale, dell’apertura verso gli altri, della passione politica e civile, di una scrittura felice. Una vita intensa, quasi due, come disse all’editore dando origine al titolo sulle cui tappe si sono soffermati, al Quirinetta di Roma, Lucia Annunziata, Pierluigi Battista, Ezio Mauro e Walter Veltroni, interrogandosi, soprattutto Battista, sul rapporto fra quella vivacissima signora del giornalismo italiano e la scelta comunista compiuta da giovanissima, a Roma, durante l’occupazione tedesca. La relazione fra quello spirito laico e il «convento» come lo chiama lei a un certo punto comunista. Il direttore di Repubblica si è dimostrato un lettore fortissimo: citava, da un capitolo all’altro, gli episodi, le lettere dal fronte in cui il padre Mario suggeriva le letture alle sorelle Mafai, lo stile incisivo e asciutto della collega a cui, su alcuni temi come quelli della bioetica, «la redazione si rivolgeva in modo naturale nella riunione del mattino», quella di Miriam ha detto rispondendo a Lucia Annunziata che da femminista si è chiesta perché una personalità così non sia diventata direttore «senza galloni era un’autorità senza galloni». Veltroni cita una lettera di Miriam a Vittorio Foa. Mafai, il marito di allora Umberto Scalia, Foa (e Paolo Bufalini e Giulio Spallone) furono protagonisti e dirigenti dell’epico sciopero alla rovescia del Fucino, che si concluse con la sconfitta dei Torlonia.
Cinquanta anni dopo, alla domanda di Foa: «Hai mai creduto nella rivoluzione?» Miriam rispondeva ricordando il Fucino: «Poi la terra i contadini l’hanno ottenuta e molti di loro sono diventati democristiani. Pazienza, ma quei bambini che non potevano andare a scuola perché non avevano le scarpe e che non conoscevano il sapore della carne, a scuola ci sono andati, la carne l’hanno mangiata. A me questo sembrava un pezzo di rivoluzione riuscita». Questo, dice Veltroni, «è il vero riformismo che non ha nulla a che vedere con i “senza se e senza ma” che, magari, durano poche settimane». Dunque: quella testa libera e il comunismo, il libro arriva al rapporto segreto di Chruscev e alla «colpevole innocenza» di chi non sapeva o non voleva sapere mentre altri Togliatti, Robotti sapevano (il 1956 è per Veltroni l’occasione persa del Pci di trasformarsi e si dispiace che Miriam non sia riuscita a concludere il libro).
Quella testa libera nasce in una famiglia di artisti, «Sono nata sotto il segno felice del disordine», esordisce l’autobiografia, e, poche pagine dopo: «Mi chiedo, alle volte, se la mia precoce decisione di aderire al Pci non sia stata ispirata, inconsciamente, anche dal desiderio di entrare in una comunità ordinata ... impegno di disciplina di molti anni». Ezio Mauro ci torna sopra: «Noi siamo diventati di sinistra senza i pericoli che ha attraversato chi fece la scelta sotto il fascismo». Ed è un passaggio che accomuna le memorie di Miriam Mafai con quelle di altri della stessa generazione. Al disordine artistico di Raphael e Mario Mafai corrisponde uno straordinario ordine interiore. Racconta Miriam: «La guerra ha bussato molto presto alla mia porta. Era un giorno di maggio del 1936 e non sembrava una guerra sembrava una festa. L’Abissinia era nostra... La lezione venne interrotta: la professoressa e le allieve si abbracciavano felici. Io restavo da una parte, isolata e avvilita. Mio padre mi aveva spiegato che quella guerra era ingiusta». È la prima esperienza di «dolorosa esclusione da un evento collettivo». In quella direzione, mi pare, va cercata anche la risposta a una domanda che pone Lucia Annunziata: come mai quella cultura comunista sconfitta sia feconda anche nelle generazioni successive.

La Stampa 14.11.12
Da Warhol alle Br mai più senza Polaroid
Nel nuovo saggio di Belpoliti la storia del rapimento Moro e degli anni di piombo dal punto di vista delle fotografie
di Giorgio Boatti

La celebre foto di Aldo Moro che regge una copia della Repubblica con il titolo «Moro assassinato?». Venne pubblicata su tutti i giornali venerdì 21 aprile 1978 26 marzo 1971, il portavalori ucciso a Genova da due terroristi del gruppo XXII Ottobre Il pm genovese Mario Sossi, sequestrato il 18 aprile 1974, nella foto diffusa insieme al comunicato con cui le Br chiedevano la liberazione di alcuni terroristi detenuti.
Inquadra, mette a fuoco, scatta, inchioda il soggetto a un’immobilità che durerà per sempre: forse non è un caso che la macchina fotografica, avendo alcune analogie con le armi da fuoco, scandisca, istantanea dopo istantanea, momenti cruciali della stagione del terrorismo. In questo immaginario album, il primo scatto è quello che fissa, il 26 marzo 1971, la sequenza in cui a Genova il portavalori Alessandro Floris viene ucciso da due terroristi del gruppo «XXII ottobre» durante una rapina di auto-finanziamento. Un fotografo coglie i due, in moto, che fuggono sparando contro la vittima a terra.
È proprio da quella immagine che prende l’avvio il fulminante e denso libro di Marco Belpoliti, Da quella prigione. Moro, Warhol e le Brigate Rosse, in uscita da Guanda.
Nel processo contro la banda «XXII ottobre» a sostenere l’accusa è il pubblico ministero genovese Mario Sossi: nell’aprile del 1974 viene sequestrato da un commando brigatista. La sua foto, scattata mentre è prigioniero, viene diffusa insieme al comunicato con cui le Br chiedono, in cambio del rilascio del magistrato, la libertà per alcuni dei terroristi detenuti. È la celebrazione di una liturgia, quella del fotografare i sequestrati, che le Br hanno avviato sin dalla primavera del 1972, quando a Milano catturano per alcune ore il dirigente Sit-Siemes Idalgo Macchiarini.
La pratica del sequestro a scopo di estorsione da parte della criminalità comune registra in quegli anni un’impennata vistosa: buona parte dei 672 sequestri avvenuti nel ventennio 1969-89 risalgono ai primi anni Settanta. Proprio durante questi sequestri, per dimostrare che l’ostaggio è in vita, viene sempre più utilizzata la macchina fotografica Polaroid. La Polaroid, con pellicole autosviluppanti, produce immagini istantanee, che non possono essere ritoccate: le buone condizioni delle vittime, per le quali viene chiesto il riscatto, sono dunque «certificate» da queste foto «vere».
Ed è proprio su questo crinale, dove la realtà fissata dalla Polaroid è così vera da sembrare irreale, che dall’altra parte dell’Atlantico si muove l’invenzione artistica di Andy Warhol. A partire dagli Anni Settanta girerà sempre munito di Polaroid. Se la parola d’ordine dei rivoluzionari occidentali di quegli anni, facendo eco a una massima di Mao, è «mai più senza fucile», per Warhol si impone invece il «mai più senza Polaroid». L’artista ha colto la paradossale convergenza tra la spersonalizzazione del soggetto e l’effetto di identificazione coatta prodotta da questo tipo di fotografia.
È anche attingendo all’intuizione scaturita da queste creazioni artistiche che Belpoliti riesce a dare una lettura preziosamente innovativa di alcune immagini di quella stagione e, in particolare, delle due fotografie di Moro, realizzate, con una macchina Polaroid, dalle Br che lo tenevano prigioniero.
Belpoliti procede con una modalità multiprospettica: dall’arte alla segnaletica poliziesca, dalla tecnica fotografica alle modalità della comunicazione pubblicitaria sino alle cronache delle vicende brigatiste e del sequestro Moro. In questo modo rende visibile ciò che non è stato immediatamente scorto e compreso. Con questa ricostruzione Belpoliti consente di afferrare ciò che è essenziale e che, a lungo, è stato rimosso. Innanzitutto il significato «pubblicitario», da trionfale bando di arruolamento alla ricerca di nuovi adepti, che i brigatisti assegnano alle foto in cui Moro è esibito come una preda, un trofeo catturato.
Non è certo nuovo l’uso della fotografia come strumento di dominio, di controllo: non è forse l’identificazione fotografica il primo passo della schedatura, delle procedure imposte a chi perde la libertà? Le Br mimano lo Stato poliziotto. Lo statista, vivo, è fotografato mentre regge la copia dove Repubblica titola «Moro assassinato? ». Siamo davanti - Belpoliti lo sottolinea con forza - a una doppia citazione, un’immagine incastonata in un’altra immagine, un rimando tra la tragedia vissuta da Moro e l’auto-narrazione celebrativa delle Br (la «geometrica potenza» brigatista). In questa immagine - scrive Belpoliti - «il senso di irrealtà così drammaticamente reale appare fortissimo». Come fa la realtà inerme di Moro, poi barbaramente assassinato, a prevalere sulle rifrazioni del dominio brigatista che lo ha catturato e sugli inganni dell’irrealtà affidati ai due scatti Polaroid?
Moro, prigioniero e inerme, ci riesce con quello sguardo che «buca il messaggio pubblicitario» e lo frantuma: con la dignità della sua persona, la verità della sua solitudine e del suo dolore. Parla di questo lo sguardo di Aldo Moro. Da quella fotografia, scrive Belpoliti, Moro sembra «continui a guardarci negli occhi, così come ha guardato negli occhi colui o colei che lo fissava per sempre in questa immagine, […] per questo il suo sguardo buca la storia, la piccola come la grande storia e, nel contempo, si sottrae a ogni linguaggio simbolico».
Proprio come aveva spiegato Johan Huizinga, nel finale di Homo ludens, l’irrealtà, evocata dalle vertigini di dominio come dai giochi dell’ideologia e della politica, «davanti a una sola goccia di compassione dovrà tacere per sempre».

Repubblica 14.11.12
Sogni di carta
Il testo di Manguel per “L’altra metà del libro”, da venerdì a Genova
Dante o Kafka, i capolavori sono scritti ad occhi chiusi
di Alberto Manguel


Un giorno del 1842, il trentottenne Nathaniel Hawthorne scrisse nel suo diario: «Scrivere un sogno, che assomigli al corso reale di un sogno, in tutta la sua inconsistenza, eccentricità e vaghezza, e nondimeno interamente percorso da un’idea dominante. Fino a questa tarda età del mondo, nulla di simile è stato mai scritto». Proprio così. Dal primo sogno di Gilgamesh risalente a quattromila anni fa fino ai giorni nostri, l’osservazione di Hawthorne si è dimostrata corretta. Per quanto ossessivo e vero sia il racconto di un sogno, esso manca tuttavia della peculiare verosimiglianza, del lessico originale, della trama unica e della singolare identità dei sogni.
È possibile che lo stesso Hawthorne, autore di straordinari sogni, o meglio di sogni letterari, stesse alludendo a qualcosa di più dell’ineffabilità onirica, a un aspetto riguardante la natura linguistica e narrativa. Impariamo a nostre spese che la lingua si avvicina sempre, senza mai catturare del tutto, la materia che vuole narrare. Nominando una cosa o una condizione, descrivendo un luogo o un evento, lo scrittore usa la lingua per creare verbalmente un’immagine, scegliendo qualche tessera di una realtà che percepisce o che immagina di percepire, sapendo tuttavia di non poter cogliere l’insieme nella sua fuggevole dimensione. Eppure, per attirare il lettore in questo patto di reciproca fiducia, lo scrittore deve fingere che la realtà rappresentata a parole abbia coerenza e precisione fattuali. Tale prassi è cosi radicata che l’autore spesso tenta di nascondere questa presunta precisione con artifici retorici: per esempio, non rivelando tutto («In un borgo della Mancia, di cui non voglio ricordarmi il nome»), o fingendo di non rivelare tutto («Chiamatemi Ismaele»).
Ma nel caso dei sogni, questi stratagemmi sono inefficaci. I sogni veri non mostrano la fiducia onnisciente dello stato di veglia, non implicano, come succede nella vita cosciente, una realtà tangibile che potrebbe essere percepita nella sua interezza, se soltanto avessimo tempo infinito e sensi infallibili. I sogni, molto umilmente, ammettono la loro condizione imperfetta, la loro natura caleidoscopica, mutevole ed evanescente. Hawthorne vi ravvisa «un’idea dominante» che li attraversa, come un’ossatura narrativa, ma forse era soltanto una sua speranza. Troppo spesso i sogni si presentano come frammenti apparentemente sconnessi, come le pagine sparpagliate di un libro. Ma se in questa casualità (come ci insegnano gli psicoana-listi) impariamo a leggere una narrativa, allora potremo leggerla in qualunque cosa, perfino nell’insensato universo. Dopo tutto, la migliore definizione della nostra specie è probabilmente quella di animali in grado di leggere.
Se conveniamo che anche la realtà, che traduciamo con successo in storie, ha una sua incoerenza, che i fili che seguiamo nella vita intrecciandosi con innumerevoli altri formano una ragnatela, il cui disegno intravvediamo appena, e molto meno concepiamo e comprendiamo, allora il racconto dei sogni può essere semplicemente considerato come un’altra forma narrativa, né più né meno accurata di un romanzo realistico, un altro felice tentativo di descrivere e di spiegare quel che va oltre ogni descrizione e spiegazione. Gli astrofisici usano formule matematiche per scoprire le leggi che governano l’universo, leggi comuni per qualsiasi cosa, grande e piccola, ma riconoscono contemporaneamente che i modelli dell’universo prodotti da queste formule si collocano oltre le nostre capacità di rappresentazione. Stephen Hawking, per esempio,
ha ammesso che le teorie da lui sviluppate per spiegare certi misteri cosmici presuppongono un modello che egli stesso non riesce a visualizzare. Se partiamo da questo assunto, se le duttili formule matematiche servono a decifrare
quanto non si può immaginare concretamente, allora non vedo perché non dovremmo permettere alla nostra capacità di rappresentazione, almeno verbale, di costruire modelli che simboleggino la nostra esperienza del mondo, fermo restando che esso rifiuta di essere raffigurato e nominato.
Alice, la cui esperienza dei sogni è tra le più profonde e convincenti di tutta la letteratura, non ha difficoltà nel riconoscere che le parole non possono nominare l’infinita pluralità del mondo. Quando Humpty Dumpty le dice che usa la parola «gloria» intendendo «questo è un argomento schiacciante», Alice obietta che «gloria» non significa «argomento schiacciante». «Quando uso una parola», replica altezzoso Humpty Dumpty, «questa significa proprio quello che decido io, né più né meno». «La questione è», incalza Alice, «se si possono dare alle parole così tanti significati ». «La questione è», risponde Humpty Dumpty, «chi comanda, ecco tutto!». Non c’è dubbio che compito dello scrittore sia abbracciare la fede di Humpty Dumpty nel potere del linguaggio, ed esserne il padrone, ma anche convincere Alice che sta rispettando le regole del senso comune, regole su cui le parole stesse esercitano il proprio dominio. Naturalmente, sia Humpty Dumpty che Alice, come pure il lettore e lo scrittore, sono in varia misura consapevoli che si non tratta d’altro che di una finzione, a cui dobbiamo rassegnarci se vogliamo che la letteratura esista. (...) Sfortunatamente, spesso accade che i sogni siano introdotti come alibi per rendere credibile una trama poco convincente, e quell’espediente fallisce per l’inettitudine dello scrittore. Molti racconti soprannaturali si chiudono con questa giustificazione: «È stato solo un sogno!» Nella migliore delle ipotesi, il lettore non è persuaso; nella peggiore, un epilogo così smorza qualsiasi efficacia potesse avere avuto la storia. Robert Louis Stevenson, autore del
Dottor Jekyll e Mr. Hyde, che si apre con un vero incubo (il protagonista confessa di aver sognato un’orribile ombra scura), fortunatamente non conclude la storia facendo risvegliare il suo tormentato eroe, per dire che in realtà non è successo nulla di atroce.
Kafka rovesciò ad arte questo iter: non è il sogno ma la vita vera ad essere l’incubo di Gregor che, risvegliandosi da sogni inquietanti, si ritrova trasformato in un mostruoso insetto. Dostoevskij usò una tecnica differente. Nei Demoni, per conferire un senso di angoscia e di sgomento alla storia, fa raccontare a uno dei suoi personaggi un sogno all’amato: «La scorsa notte ho sognato che mi conducevate in un luogo abitato da un ragno, della grandezza di un uomo, e che trascorrevamo il resto della vita osservandolo atterriti». (...) Nel diciannovesimo libro dell’Odissea, che Virgilio ben conosceva, Penelope parla dei sogni, e dice che passano attraverso due porte: l’una fatta di avorio per i sogni ingannevoli, e l’altra di corno lucente per i sogni veritieri. Forse gli scrittori devono accontentarsi di usare soltanto la porta d’avorio per i propri sogni, consci che la loro abilità sta nel raccontare bugie. Solo che le bugie dette dagli scrittori non sono delle «non verità», ma semplicemente delle «verità non reali». «Errori non falsi», come li definisce Dante, che sapeva quel che faceva. La distinzione è importante.
(Traduzione di Giovanna Baglieri)

Repubblica 14.11.12
Rivolta e repressione. La vera storia di Bronte
Un libro di Lucy Riall propone nuove ipotesi sul controverso episodio del 1860
di Simonetta Fiori


E se scoprissimo che non è vero nulla? Se accertassimo che tutta la sterminata letteratura scaturita sulla rivolta di Bronte – da destra e da sinistra, da nostalgici borbonici e da progressisti illuminati, da separatisti del Nord e da paladini del Meridionalismo, da registi come Florestano Vancini fino alle penne insindacabili di Carlo Levi e di Leonardo Sciascia – se questo impetuoso fiume di inchiostro su uno dei luoghi-simbolo della tormentata vicenda nazionale fosse alimentato per gran parte da miti e stereotipi infondati? È quello che cerca di dirci con il consueto acume una storica inglese non nuova al nostro Risorgimento, Lucy Riall, studiosa di Garibaldi e meticolosa demolitrice di vulgate italiche, specie di quelle che si spacciano per “controstoria” contro “i truffaldini silenzi” delle narrazioni canoniche. Controstorie – va detto anche questo – che in Italia riscuotono grandissimo successo. Come è capitato ai bestseller di Pino Aprile, applauditi nello stesso paese pavesato col tricolore per il centocinquantesimo dell’unità nazionale.
Che cosa accadde realmente nella cittadina etnea è raccontato nel nuovo libro della Riall
La rivolta. Bronte 1860, documentata ricostruzione dell’orgia di terrore che ebbe luogo sulle pendici del vulcano quando Garibaldi conquistava la Sicilia (Laterza, pagg. 354, euro 20). Sei giorni di ferocia e distruzione, cominciati nella notte del primo agosto del 1860. Mille insorti e fiamme ovunque.
Proprietari terrieri torturati e uccisi. Anche fegati estratti dai cadaveri e forse mangiati (ma il cannibalismo non fu mai confermato). E, come sintetizzò un contemporaneo, «Nerone nell’incendio di Roma non poteva fare peggio ». La ribellione durò quasi una settimana ma la sua fama resistette molto più a lungo. Anche perché provvide il generale Bixio – garibaldino devoto al leader biancocrinito – a stroncare con severità i rivoltosi: più di ottanta gli arresti, e cinque le condanne a morte. Per un secolo e mezzo Bronte è destinata a rappresentare «l’atto di morte della promessa unificazione nazionale», una sorta di “perdita dell’innocenza” per la causa democratica, «luogo simbolo del tradimento delle plebi meridionali». L’immagine più consolidata della rivolta brontese – quella che più ha resistito nella memoria pubblica – è che essa scaturì dalla lotta tra la comunità locale, desiderosa di distribuire le terre ai contadini, e la ducea inglese, paladina degli interessi feudali dei maggiori proprietari terrieri. E fu proprio per difendere il patrimonio britannico – e i privilegi dei latifondisti – che Nino Bixio scatenò la brutale repressione.
Fu realmente così? Per dimostrare l’infondatezza di questa vulgata Lucy Riall è andata a scavare nella storia della città di Bronte e negli archivi della famiglia Nelson, destinataria della Ducea donata nel 1799 da re Ferdinando all’ammiraglio inglese. Le carte raccontano una vicenda un po’ più complicata rispetto alla favola corrente, non assolutoria nei confronti degli inglesi – mossi fin da principio da spocchiosa arroganza verso la comunità locale e sempre ostili alle rivendicazioni contadine – ma certo più attenta alla persistente e feroce lotta interna all’élite cittadina. In sostanza, nella rivolta del 1860 gli inglesi non furono il bersaglio ma piuttosto gli spettatori, e i loro possedimenti non furono preda dei contadini. Il vero obiettivo delle violenze furono notai, contabili, esattori di canoni d’affitto, proprietari terrieri di Bronte, ossia quel potere cittadino che, pur dichiarandosi liberale, alleato di Garibaldi e favorevole alle terre per tutti, in realtà tutelava esclusivamente il proprio interesse patrimoniale e le proprie ambizioni di potere. E il ceto contadino – in questa ricostruzione proposta da Riall – figura tutt’altro che sprovveduto, ma ben consapevole fin dal 1848 del cuore del problema. E cioè che l’amministrazione di Bronte aveva acquisito in nome dei più umili la proprietà terriera, ma la sfruttava esclusivamente a suo vantaggio.
Quanto alla violenta reazione di Nino Bixio, anche questa volta la Riall suggerisce un’interpretazione controcorrente. No, non giustifica la repressione, ma esplora il contesto in cui maturò, per arrivare alla conclusione che in fondo non c’erano molte alternative. Bronte fu in sostanza una tragedia, ma la colpa di quel che avvenne non fu né del severo garibaldino né degli algidi britannici, ma è attribuibile a una lunga storia di corruzione, di miseria, di sfruttamento, di frustrazioni, di guerre tra famiglie, di lotte per il potere sulle terre, antiche lacerazioni per la massima parte interne alla comunità brontese. E per mettere fine alle lamentele sul Risorgimento incompiuto, basta alzare la testa dall’Italia per osservare il mondo. Forse che il processo di costruzione nazionale fu meno violento e doloroso negli Stati Uniti o in America Latina, in Spagna o in Germania, o in parti della Francia e delle Isole Britanniche? Viste da una prospettiva più ampia – sembra suggerirci Riall – le travagliate vicende italiane non dovrebbero più sorprenderci.

Repubblica 14.11.12
Addio a Daniel Stern, cambiò la psicoanalisi
È morto a Ginevra il grande studioso del rapporto madre-bambino
di Massimo Ammaniti


È scomparso in questi giorni a Ginevra lo psicoanalista americano Daniel Stern, molto conosciuto in Italia per i suoi libri e per la forte presenza nel mondo universitario, nei seminari annuali dell’Istituto italiano per gli studi filosofici a Napoli.
Grande merito di Stern, è di aver rivoluzionato la nostra concezione della mente umana. Il mondo psicoanalitico americano, dove si è formato, era ancora fortemente influenzato dalla Psicologia dell’Io e in particolare dalla lezione di Rapaport – da un modello della mente rigido e autocentrato. Sempre in questa prospettiva si era mossa Margaret Mahler che aveva riaffermato il carattere addirittura autistico del mondo del lattante, riprendendo la metafora freudiana dell’uovo che contiene al suo interno le sostanze
nutritizie.
Ècon una ricerca del 1977 che Stern sbaraglia questa concezione monadica del lattante descrivendo le interazioni fra una madre e i due figli gemelli nei primi mesi di vita: mentre con il primo lo scambio è soddisfacente, con l’altro vi è un reciproco rincorrersi senza mai incontrarsi. Questa ricerca, come altre realizzate nel suo laboratorio alla Cornell University, è la base su cui Stern costruisce una nuova concezione dello sviluppo umano, che si intreccia fin dai primi attimi di vita con l’altro, con la storia, con il mondo dei significati intersoggettivi.
Nel 1985 viene pubblicata la sua opera più organica – Il mondo interpersonale del bambino (Bollati Boringhieri) – che mette a confronto la psicoanalisi con la psicologia dello sviluppo: Stern ripercorre le tappe che portano alla costruzione del sé infantile non solo dal punto di vista del comportamento ma anche dell’esperienza soggettiva, del modo in cui ci si apre agli altri. È un libro che mette in discussione molte certezze della psicoanalisi, anche perché le nuove concezioni si basano su un rigoroso lavoro di revisione scientifica che esclude ogni conclusione impressionistica, poco giustificata. Nonostante l’attenzione si concentri sul mondo del bambino, le sue implicazioni riguardano l’intero edificio teorico e clinico della psicoanalisi, con reazioni molto contrastanti: c’è chi pensa che il modello psicoanalitico non può rimanere ingessato evitando il confronto con altre discipline scientifiche, ma anche chi respinge le tesi di Stern come del tutto estranee alla psicoanalisi.
Il suo gusto creativo per la ricerca comunque non si ferma e si indirizza sempre più al campo clinico, com’è testimoniato da Il momento presente (Cortina, 2005). Qui l’attenzione viene rivolta allo scambio fra terapeuta e paziente secondo il codice implicito – attraverso la mimica, la gestualità, la postura del corpo, l’inflessione e l’intonazione del linguaggio, tutti elementi determinanti nello scambio e nella comprensione immediata dell’altro. E’ in questo contesto relazionale che possono verificarsi i cosiddetti “now moments”: è l’incontro intenso fra due menti a rivelare improvvisamente verità profonde su se stessi e sul rapporto intersoggettivo. Momenti decisamente trasformativi.
Negli ultimi anni Stern ha poi affrontato un tema abbastanza inesplorato dalla psicoanalisi: quello della vitalità, come esperienza fondamentale nella vita quotidiana, “sperimentata continuamente, come l’aria che respiriamo”. E profondamente radicata nel corpo. A questo proposito, vorrei concludere con un ricordo personale: solo una settimana fa ho parlato per l’ultima volta con Daniel Stern, ricoverato in ospedale. Quando gli ho chiesto come stava, mi ha risposto “we are still alive” (siamo ancora vivi), sottolineando ancora la profonda vitalità del suo stare al mondo e la dimensione intersoggettiva che come sempre ci legava.