domenica 18 novembre 2012

l’Unità 18.11.12
Bersani difende i volontari Pd
«Basta uomini soli al comando»
di Simone Collini


Come un anno fa, Renzi dal palco della Leopolda a giocare la carta della rottamazione e Bersani in mezzo ai duemila giovani delle regioni del Mezzogiorno che si sono iscritti alla scuola di formazione politica “Finalmente Sud” a parlare di un cambiamento che non può essere soltanto generazionale. Con due differenze. Una, non di sostanza: l’anno scorso il leader del Pd era a Napoli, ieri a Bari. La seconda, più importante: Renzi e Bersani ora sono in corsa, insieme a Vendola, Tabacci e Puppato, per la premiership del centrosinistra.
La sfida si giocherà domenica prossima nei diecimila seggi che verranno allestiti in tutta Italia. E Bersani, che chiuderà la sua campagna sabato sera a Genova, vuole impiegare i sette giorni che mancano alla chiamata ai gazebo a parlare dei problemi del Paese e di quel che dovrà fare il prossimo governo per affrontarli. Senza farsi distrarre da polemiche giudicate non solo sterili, ma anche dannose per tutti.
BASTA INSULTI
«Non si possono insultare in questo modo i volontari», scuote la testa il leader del Pd. A Bersani non piace il clima di sospetti fomentato attorno alle primarie da Renzi e dai suoi sostenitori. Con i duemila giovani arrivati a Bari da tutte le regioni del Sud, il segretario del Pd parla di scuola, di un Mezzogiorno vittima di «vergognosi sospetti» in questi anni di berlusconismo e leghismo, di dialogo tra le istituzioni e di Costituzione. Non vuole discutere invece di regole e procedure delle primarie, né vuole farsi trascinare in una polemica che, ragiona con i suoi, «fa solo del male alla ditta».
Però man mano che gli raccontano i dettagli del vademecum per i rappresentanti di seggio di Renzi, man mano che gli riportano le frasi pronunciate alla Leopolda e il riferimento al rischio «brogli», Bersani si convince che una parola deve dirla. Non per difendere se stesso o i dirigenti del Pd o chi ha stabilito quali debbano essere le regole per le primarie. Ma per difendere quanti in questi giorni stanno dedicando tempo e impegno a far registrare chi il 25 vuole votare, e che poi domenica prossima garantiranno lo svolgimento della consultazione popolare. «Non diamo l’impressione che in una partita così bella e pulita ci sia qualcuno che voglia far dei trucchi. Lasciamolo eventualmente dire agli avversari queste cose, a chi non ci vuole, che ce ne sono già parecchi». Quello che non si può fare, per Bersani, è mettere ora in discussione procedure scelte collegialmente per la sfida ai gazebo, o diffondere sospetti sul lavoro dei volontari perché «è tutta gente perbene».
I dati comunicati dai responsabili del sito web attraverso cui è possibile registrarsi (www.primarieitaliabenecomune.it) e dai membri del coordinamento nazionale fanno ben sperare circa i dati dell’affluenza che dovrebbe esserci domenica prossima. Quota mezzo milione è già stata superata e si prevede un incremento delle registrazioni in questi ultimi sette giorni. Per questo anche le polemiche del fronte renziano sulle code, le lungaggini burocratiche e la volontà di ridurre la partecipazione per impedire al sindaco di Firenze la vittoria, vengono giudicate infondate. «L’affluenza delle primarie io la voglio altissima, tanto è vero che non abbiamo fatto meno occasioni di partecipazioni ma di più spiega Bersani perché quel giorno lì, come è avvenuto in tutte le altre primarie, la gente si potrà iscrivere e votare, ma in più abbiamo messo in piedi un meccanismo di pre-registrazione. Cerchiamo di star sereni che le cose van benissimo. Cerchiamo di usare argomenti amichevoli». E le code? «Servirà un po’ di pazienza perché non è che abbiamo il ministro dell’Interno, sono tutti volontari. Immagino che qui e là potrà esserci qualche coda, però le preregistrazioni ci aiuteranno un pochino a sgonfiare questo meccanismo». E l’obbligo di iscrizione all’albo degli elettori del centrosinistra? «Questo albo non è burocrazia, può creare la comunità dei progressisti, raggiungibile, consultabile. Noi possiamo avere con questo albo una cosa che in Europa nessuno ha e, quindi, avere una platea, una comunità raggiungibile con la quale si possa anche procedere ad altre consultazioni. Incoraggiamo la gente ad andarsi a registrare».
Per Bersani queste primarie devono tirare la volata al centrosinistra in vista delle politiche del prossimo anno. Che saranno elezioni, secondo il leader del Pd, utili a costruire «un’alternativa di sistema rispetto quanto è stato negli ultimi venti anni». Da superare è il berlusconismo inteso non come persona ma come modello. Un modello che invece da più parti si tende a perpetuare, seppur in forme diverse. Perché andato via Berlusconi, «in vena» è rimasta la tossicità del personalismo e in questo senso «possono arrivare altre novità» altrettanto disgregatrici. Per questo Bersani mette in guardia dal rischio di nuove «generiche ammucchiate», o da quello rappresentato da chi, come Grillo, «vuole comandare dal tabernacolo».
È sempre il modello dell’«uomo solo al comando» che per il leader del Pd va evitato, di un personalismo non utile a raggiungere l’obiettivo. La prossima legislatura servirà anzi un’ampia alleanza, un «patto di legislatura» tra progressisti e moderati necessario per affrontare le difficili sfide che ci attendono.
E se Montezemolo parla di ricostruzione, riscossa civica, civismo, Bersani fa notare che «sono le stesse parole che noi stiamo dicendo ormai da due o tre anni». Il presidente della Ferrari ci aggiunge il riferimento all’attuale premier. Dice il leader del Pd: «Consiglierei di non tirare Monti per la giacca, perché in questo momento svolge una funzione molto delicata, utile al Paese e credo che dovrà svolgere anche nella prospettiva».

il Fatto 18.11.12
Cayman
Investimento ad alto rischio Renzi & Serra: quei 10 milioni da Firenze
L’Ente Cassa di Risparmio si affida all’Algebris CoCo Fund del finanziere amico del sindaco,
Prima della cena milanese di ottobre con la grande finanza la fondazione di riferimento della sua città ha investito in CoCo Bond del guru Davide Serra
di Giampiero Calapà e Stefano Caselli


Proprio ieri Nichi Vendola, candidato alle primarie per Sel, sparava ancora su Renzi: “Questa campagna elettorale è un’esperienza splendida per chi non ha amici alle Cayman”. Ma adesso si scopre che, oltre a essere amico di Renzi, Davide Serra ha visto investire in CoCo bond del suo fondo Algebris una cifra di circa 10 milioni di euro proveniente dall’Ente Cassa di Risparmio, la fondazione di Firenze, in cui il sindaco nomina un membro del comitato d’indirizzo: Bruno Cavini, portavoce di Renzi. Dieci milioni di euro, quindi. Un investimento che non è neppure l’1% di quelli della fondazione: nel bilancio 2011 toccavano in tutto quota 1 miliardo e trecento milioni. Ma una cifra che, comunque, è la metà dei 23 milioni di investimenti previsti per il territorio nel 2013. L’operazione è recente, avvenuta poco prima della ormai nota cena milanese, a ottobre, di Renzi con la grande finanza italiana. Il sindaco, chiusa la Leopolda, è all’ultima corsa, tanto che domenica 25 novembre, il giorno delle primarie, sarà impegnato nella maratona di Firenze. Davide Serra, il suo alter ego della finanza internazionale, proprio dal palco della kermesse, ha mostrato ancora una volta il suo
lato pop, discettando di scout e solidarietà, altro che paradisi fiscali alle Cayman. Ma il sindaco Renzi, tra una corsa e l’altra, si sarà sicuramente informato degli investimenti della fondazione di riferimento della sua città. Perché il fatto riguarda, e beneficia, proprio Davide Serra. E la fondazione in questione è l’Ente Cassa di Risparmio di Firenze, appunto, presieduta dal potentissimo Jacopo Mazzei, uomo che nella città gigliata fa il bello e il cattivo tempo, amico del sindaco, ma non solo. Perché nel cda dell’Ente c’è anche la vera eminenza grigia di Renzi, l’imprenditore Marco Carrai, appartenente a una dinastia di “principi” di Greve in Chianti, legato all’Opus Dei e molto vicino, anche con altri incarichi (Firenze Parcheggi, Gabinetto Viesseux), ai vertici di Palazzo Vecchio.
NELL’ARTICOLO 1 dello Statuto della fondazione fiorentina si legge: l’Ente opera “nello spirito della cultura europea di progresso civile, con lo scopo di favorire il risparmio e la previdenza delle classi meno agiate, prevedendo la destinazione dei profitti esclusivamente a scopi di utilità sociale”, e non ci può essere alcun dubbio sull’importante funzione dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze, dal sostegno al soccorso clown per i bambini alla casa famiglia per giovani madri, per fare solo due lodevoli esempi. Ma i CoCo bond, come spiegato nel sito ufficiale della Borsa italiana, “sono strumenti rischiosi che, in caso di conversione, potrebbero subire notevoli perdite” e ancora, “in cambio di questo maggiore rischio che viene addossato all’investitore sono previsti dei rendimenti più elevati”. Proprio Carrai, invece, sostiene che “a fronte di un rendimento dell’11 per cento, il rischio per la fondazione è pari a zero”. L’unica cosa che i mercati considerano a rischio zero, però, sono i bund tedeschi, che hanno rendimenti reali vicini allo zero. Da regola base della finanza, infatti, più sale il rischio e più aumenta la possibilità di rendimento.
L’unica certezza è che, come riporta il Financial Times, l’Algebris CoCo Fund di Serra, che gestisce 900 milioni di dollari, sta
guadagnando nell’anno di grazia 2012 la bellezza del 45%. In Italia è possibile investire in CoCo bond dal 21 maggio scorso. Per Davide Serra è un elemento di prestigio avere un investitore italiano, a maggior ragione se questo investitore può vantare nel suo marchio la parola “Firenze”. Eventuali benefici per la fondazione e di conseguenza per la comunità fiorentina si vedranno successivamente, anche se il margine di rischio dei CoCo bond, obbligazioni ibride convertibili, è talmente elevato che per alcuni analisti sarebbero addirittura i nuovi subprime, quelli della crisi dei mutui americani del 2007, all’origine di una catastrofe economica di proporzioni gigantesche.
Twitter @viabrancaleone @stefanocaselli

Corriere 18.11.12
Un elettore di centrosinistra su tre andrà sicuramente ai gazebo
Il sindaco a -8%, ma un'affluenza elevata ridurrebbe il divario
di Renato Mannheimer


Le primarie del centrosinistra permetteranno in primo luogo di misurare la capacità di mobilitazione dei partiti di quell'area politica e del Pd in particolare. Sarà molto indicativo il numero di persone che si recheranno alle urne. I sondaggi più recenti suggeriscono ai promotori un atteggiamento ottimista. Più del 33% dell'elettorato di centrosinistra (e più del 37% di quello specifico del Pd) dichiara che si recherà «sicuramente» a votare. E un altro 40% (42% tra i votanti Pd) afferma che lo farà «probabilmente». Si tratta di dati che vanno presi con cautela: è infatti assai diverso dichiarare la propria intenzione a partecipare e poi farlo concretamente. Ciononostante le ricerche indicano che, probabilmente, assisteremo a una partecipazione consistente.
La tendenza a recarsi a votare potrebbe anche essersi incrementata a seguito del recente confronto tv tra i candidati. Infatti, tra coloro che hanno seguito lo speciale di SkyTg24 e si collocano nell'area di centrosinistra, quasi uno su quattro (24%) afferma che la propria intenzione di recarsi a votare si è accentuata. L'effetto della trasmissione sembra però essere stato più di mobilitazione che di significativi mutamenti nell'orientamento di voto. La netta maggioranza (67%) di chi ha visto il programma dichiara infatti di non avere mutato idea sul candidato preferito. Anche se una percentuale non piccola (11%) afferma di avere cambiato il proprio orientamento e un altro 6% dice di averlo maturato proprio durante il confronto. Tra quanti hanno modificato la propria scelta in occasione del dibattito, Vendola pare avere avuto un successo particolare. Ma, in generale, il confronto è stato vinto dai due candidati principali: Bersani risulta quello che è piaciuto di più (il 44% degli elettori di centrosinistra che hanno seguito il dibattito), seguito da Renzi (34%).
Prevedere il risultato finale delle primarie è assai difficile, dato che esso dipende in larga misura dall'entità della partecipazione. Tra gli elettori del centrosinistra che dichiarano che si recheranno «sicuramente» a votare, Bersani viene scelto dal 42% e Renzi dal 34%. Ma il divario sembra in diminuzione nel tempo e varia in relazione all'afflusso alle urne. In uno scenario di partecipazione ampio (comprendendo anche chi dichiara che andrà a votare «probabilmente» e non è necessariamente di centrosinistra), l'esito infatti è assai diverso e vede Bersani al 36% e Renzi al 33%, con uno scarto che può facilmente mutare in relazione alla campagna elettorale degli ultimi giorni, specie tenendo conto che in questo caso si registra un largo numero (16%) di indecisi. Nel probabile ballottaggio tra Bersani e Renzi, i dati suggeriscono comunque la vittoria del primo. Renzi otterrebbe tuttavia un risultato considerevole che lo porterebbe a giocare in futuro un ruolo di primo piano nel centrosinistra.
Quest'ultimo è il dato più certo e interessante. Se Renzi vincesse le primarie, infatti, assisteremmo a una vera e propria tempesta nella sinistra e, secondo alcuni, addirittura a una possibile spaccatura nel Pd. Ma anche se il sindaco di Firenze arrivasse secondo, con comunque un largo seguito, gli effetti sugli equilibri del centrosinistra sarebbero notevoli e non tarderebbero a farsi sentire, anche quando sarà all'ordine del giorno la formazione del futuro governo. È ragionevole pensare, dunque, che l'esito delle primarie determinerà una svolta significativa — forse una rivoluzione — nell'assetto politico italiano.

La Stampa 18.11.12
Legge elettorale in Senato. Dieci giorni per chiudere
Intesa ancora lontana Il Pd vuole ottenere un premio di maggioranza più alto
Se non si troverà un accordo il 10 marzo si tornerà al voto con il Porcellum e i partiti potrebbero perdere ulteriori consensi
di Ugo Magri


La prima ricaduta pratica dell’«election day» (si voterà il 10 marzo anziché il 7 aprile) è che c’è un mese in meno per cancellare il Porcellum. Dunque i partiti debbono smetterla di tergiversare perché, fa notare Fini, «tra qualche settimana il re sarà nudo, e chi si opporrà a una soluzione ne pagherà le conseguenze». Il calendario è tiranno. Schifani, reduce dal summit dell’altro ieri con Napolitano, ha sentito per telefono il presidente della Commissione dove si sta discutendo la riforma. A Vizzini ha detto chiaro che un testo dovrà arrivare in Aula entro il 26 novembre, sennò la Camera non lo riceverà in tempo per discuterlo a sua volta... Venerdì prossimo è il termine ultimo per un’intesa in commissione tra Pd e Pdl. Se l’accordo non verrà raggiunto, quasi certamente la riforma finirà per insabbiarsi, in quanto solo una maggioranza fortissima permetterebbe alla legge di superare la prova del voto segreto nell’altro ramo del Parlamento. Dunque ora o mai più.
L’altro effetto dell’accelerazione è che una nuvola nera va addensandosi su Bersani. Il quale, arrivati al dunque, rischia di vestire i panni scomodi del «Signor No». Il segretario Pd ha scelto come ultima trincea la cosiddetta proposta D’Alimonte, e da quella non sembra disposto a schiodarsi (ancora ieri l’hanno ribadito Finocchiaro e Zanda). Viceversa il Pdl parrebbe disposto a fare qualche passettino avanti, aderendo alla mediazione formulata da Calderoli. In verità, di mediazioni l’ex-ministro della Lega ne ha suggerite a raffica. La più recente è stata recapitata proprio ieri ai partiti e alle sedi istituzionali che contano. Prevede un premio per chi vince, senza distinguere tra partito o coalizione. E attribuisce questo premio in proporzione ai voti che il vincitore prende, con un complicato meccanismo a «scaglioni». Dei vari scaglioni, quelli importanti sono gli ultimi due. Uno attribuisce la maggioranza assoluta a chi supera l’asticella del 40 per cento (verrebbe proiettato al 54). L’altro scaglione darebbe un bonus del 25 per cento a chi superasse il 35. C’è da perdersi tra numeri e percentuali, ma in sostanza si tratterebbe di un «regalo» al vincitore oscillante tra i 48 e i 62 seggi (sui 630 totali) alla Camera, tra i 24 e i 31 seggi (su 315) in Senato. Il Pdl giudica questo premio troppo generoso, ne toglierebbe una quindicina a Montecitorio e 7-8 a Palazzo Madama, in modo da rendere più faticosa la vittoria degli avversari. Ma pur di non perdere il contatto con la Lega, e per effetto delle pressioni di Schifani, i berlusconiani sembrano orientati mugugnando a dire sì.
Il Pd, viceversa, considera la mediazione di Calderoli eccessivamente avara. «Ancora non ci siamo», scuote la testa Ceccanti. Bersani punta i piedi e reclama 15 deputati di premio in più, nonché 8 senatori. Se non li otterrà, in Aula il Pd voterà contro. Così facendo, però, sarebbe l’impressione di preferire il Porcellum (con le deprecate liste dei «nominati» eccetera) a una legge che gli costerebbe un pugno di seggi. Ma soprattutto, Bersani si esporrebbe alle saette del Colle. Dove, pur di non mandare l’Italia al voto con la legge vigente, si tengono pronte denunce forti e circostanziate. Resta nell’aria la minaccia, tra qualche settimana, di un messaggio presidenziale alle Camere. Che Napolitano non sia disposto a chiudere gli occhi, lo dimostra un tweet del portavoce Cascella: il Quirinale «segue con attenzione» lo sciopero della fame di Giachetti, deputato Pd, che si batte per non tornare alle urne con la legge attuale.
Oltre a denunciare le responsabilità varie, non è escluso che in quel caso Napolitano imponga ai partiti di aderire alle indicazioni della Consulta, che ha raccomandato una «soglia» all’attuale premio di maggioranza alla Camera. Con vera gioia il Pdl, i centristi e la Lega la metterebbero altissima, oltre il 40 per cento. Nel qual caso, per avere snobbato la mediazione di Calderoli, Bersani si troverebbe con un pugno di mosche: senza premio e dunque senza governo...

Corriere 18.11.12
«Bonus proporzionato ai voti. Ecco la nuova mediazione»
Calderoli: con il premio si arriva fino al 52,8% dei seggi
di Dino Martirano


ROMA — «L'ultima versione del testo l'ho inviata alla presidenza della Repubblica, al Pd, al Pdl e all'Udc: chiamiamolo pure il meccanismo "dell'ascensore" che contiene sia il "premio" di governabilità sia il "premietto" per il primo partito. La logica — con 4 scaglioni che assegnano un "bonus" proporzionale, a seconda che il primo partito e/o coalizione superi le soglie del 25%, del 30%, del 35% e del 40% — è quella di uno stimolo all'aggregazione. Inoltre, il partito o la coalizione che supera il 40% dei voti raggiunge come minimo il 52,8% dei seggi, cioè la maggioranza assoluta». Il senatore della Lega Roberto Calderoli, dunque, propone un elemento di sintesi quando ormai il tempo regolamentare è quasi scaduto. Era già successo nel 2005 con il «Porcellum» e ora ci riprova con "l'ascensore" che se fosse accettato dai partiti — ma per il Pd il premio mobile è ancora troppo basso — potrebbe trasformarsi in emendamento ed essere votato già martedì in commissione al Senato.
Senatore, come procede il suo lavoro di mediazione?
«Ritengo che su materie di questa portata il Quirinale debba essere informato. Rispetto alle mie iniziative sulla legge elettorale, ho sempre comunicato con la presidenza della Repubblica perché il capo dello Stato, con l'interesse che ha su questi temi, deve anche poter fare una valutazione sulle proposte in campo. Mi auguro che superato il fine settimana si possa andare in porto con il testo. Ho già ricevuto molte telefonate...».
Anche quella del Pd?
«Certamente, sì».
Dunque Bersani accetta «solo» il 10% dei seggi in più — rispetto a quelli che guadagnerebbe con la ripartizione proporzionale — se il Pd rimane sotto il 30%? E gli basta il «bonus» del 20% se il partito si assesta tra il 30 e il 35%? O il 25% se il risultato nelle urne è tra il 35% e il 40%?
«Guardi, siamo in fase di approfondimento».
Però Luigi Zanda, vice presidente dei senatori del Pd, insiste: l'ultima spiaggia è il «premietto» fisso del 10% previsto dalla proposta del professor D'Alimonte. Il primo partito, se non raggiunge la soglia per accedere al premio di maggioranza, guadagnerebbe comunque una sessantina di deputati.
«Qui entriamo in un terreno minato. Perché, essendo il numero dei parlamentari fisso, quello che io do sotto forma di premio al primo partito lo devo sottrarre ad altri partiti. Ci vuole equilibrio».
Però, con la soglia di sbarramento, alcuni partiti, seppur votati, non entrano in Parlamento.
«Lo sbarramento c'è in tutti i Paesi. Qui si sta parlando di un premio che garantisce una maggioranza assoluta per poter formare un governo. Ma non si può mica partire da zero: il difetto dell'attuale legge, infatti, è quello di non prevedere una soglia...»
Scusi, ma il «Porcellum» non lo ha scritto lei?
«Forse la soglia andava introdotta già allora, anche se la legge fu scritta in un periodo in cui le coalizioni superavano il 45% e il premio era per forza contenuto. Prodi guadagnò il 5%, Berlusconi il 7%. Oggi, invece chi vince potrebbe raddoppiare i voti conseguiti».
Si pente di quella mancata introduzione della soglia nel «Porcellum»?
«In realtà, ci avevo pensato. Ma Forza Italia disse di no. Così come Fini volle le liste bloccate, e Casini il proporzionale».
Cosa succede ora se non si raggiunge un'intesa sulla legge elettorale?
«Molti sono convinti che l'alternativa sia il "Porcellum". Ma state certi che il capo dello Stato è assolutamente intenzionato a non dimenticare quelle che sono le osservazioni della Consulta sull'assenza di una soglia nel "Porcellum", quella sotto al quale il premio non scatta. Alla fine, Bersani si troverebbe di fronte a qualcosa di diverso: a uno sbarramento al 42,5%, e allora la situazione sarebbe ingovernabile. Con il "Porcellum" modificato neanche un accordo tra Pd, Udc, Sel e Idv porterebbe a una maggioranza. Si riprodurrebbe la situazione attuale: Pd e Pdl insieme, e Monti presidente».

l’Unità 18.11.12
Cancellieri contestata
Non si ferma la protesta
Errani: «Quello che è appena avvenuto è un esercizio di legalità Bisogna sapere da che parte si sta, per tutti»
di Luciana Cimino


ROMA «Basta violenze della polizia». Appena il Ministro Cancellieri ha preso ieri mattina la parola dal palco del palazzetto dello Sport di Rimini, in occasione della Giornata della Legalità, dalla platea, composta da circa 2mila studenti, hanno cominciato a levarsi grida, slogan, fischi.
Il ministro dell’Interno voleva spiegare quanto successo il 14 novembre a Roma, definendo la massima disponibilità del Governo alla «trasparenza». «Abbiate fiducia», chiede agli astanti che più volte tentano di interromperla. Intanto dal fondo del palazzetto vengono srotolati tra gli apstudenti chiedendo «Ma sapete cos’è il fascismo? Sapete quali sono le forme di squadrismo?». Ma alla domanda sui numeri identificativi non si sottrae. «È una cosa su cui stiamo lavorando, si può ragionare sul numero ma non sul nome. L’identificativo va fatto in maniera da tutelare la sicurezza dell'operatore». I relatori hanno quindi invitato a salire sul palco uno dei contestatori.
Parla Federica: «È una vergogna che il ministro dell'Interno, che ha comandato di “caricare” le manifestazioni, stia qui a parlare di legalità».
Ovazione dal pubblico di studenti, applausi, incitamenti. «Alle manifestazioni ha proseguito la ragazza – c’è stata una reazione spropositata fatta di manganellate e gas Cf sparato ad altezza d'uomo: atti di una violenza inaudita».
Riprende dunque la parola il presidente della Regione Vasco Errani, invitando a un confronto sereno: «Quello che è appena avvenuto è un esercizio di legalità. Bisogna sapere da che parte si sta, per tutti, per la democrazia».
Mentre il ministro Cancellieri veniva contestata in Emilia Romagna nel resto del Paese erano in corso decine di iniziative per la «Giornata mondiale della mobilitazione studentesca». Dal nord al sud al centro delle piazze è tornato il diritto allo studio.
A Torino studenti medi e «insegnanti arrabbiati» hanno tenuto una assemblea aperta sul ponte della Gran Madre. Poi sitin sotto la sede piemontese del Miur per contestare i tagli, infine corteo fino a piazza Carignano dove gli universitari si confrontavano sul tema delle borse di studio e dei fuori corso.
A Palermo, dopo gli scontri di venerdì, altro corteo ieri con duemila partecipanti. «Dopo i violenti scontri dell’altro giorno ha detto il rappresentate della Rete degli studenti medi di Palermo Andrea Manerchia abbiamo deciso di scendere in piazza con le nostre idee e senza sassi nelle mani, in maniera pacifica, per portare avanti i nostri progetti sulla scuola e sul diritto allo studio, sull'edilizia scolastica, sugli investimenti per la sicurezza e i servizi e in generale sull' attuazione dell'articolo 34 della Costituzione per una scuola aperta a tutti». «I 2mila studenti che hanno partecipato – ha aggiunto Manerchia sapevano per cosa si protestava. Abbiamo portato in piazza teste e cervelli e non numeri».
Ad Ancona traffico bloccato per il corteo studentesco. A Potenza lancio di uova contro la sede della Banca d'Italia e qualche fumogeno nel corso del corteo. Gli studenti con striscioni hanno cercato di entrare nel teatro Stabile in cui si stava svolgendo un convegno ma sono stati fermati dalle forze dell'ordine.
Per tutte queste iniziative, come per le altre nel resto d’Italia lo slogan principale è stato «Siamo il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo» (l’appello, scaricabile in più lingue, si trova sul sito ufficiale www.17novembre.it). Spiega Michele Orezzi, coordinatore nazionale dell'Udu, «è lo slogan di questa giornata di mobilitazione promossa con un appello internazionale da tutti i sindacati studenteschi Europei. Un’altra Europa e una via d'uscita della crisi basata su maggiori finanziamenti in istruzione pubblica sono il cuore della protesta di oggi. Portiamo in piazza le speranze di un'intera generazione». Daniele Lanni, portavoce del sindacato studentesco Rete degli Studenti Medi parla di «partecipazione studentesca grande in tutta Italia, con manifestazioni, lezioni in piazza, spettacoli, flash mob da Trento a Catania: questa è l'energia positiva scesa in piazza anche il 14 novembre per chiedere un futuro per noi, il nostro Paese e l'Europa. Per un'istruzione di qualità e politiche tese a dare lavoro».
La mobilitazione non si ferma. Sull’esempio di Roma (dove la grandissima parte degli istituti è occupata) il movimento studentesco annuncia a partire da oggi occupazioni, autogestioni e assemblee in tutte le scuole italiane, «vogliamo trasformare le nostre scuole in dei laboratori di questo cambiamento, per questo le occupiamo e ci riprendiamo i nostri spazi: per dimostrare che un Italia migliore esiste, e siamo noi».

Repubblica 18.11.12
Nell’ultima riunione del direttivo confederale è prevalsa la linea dell’ala sinistra guidata dalla Fiom
Così la Camusso fa asse con Landini opposizione più dura, imbarazzo nel Pd
di Roberto Mania


ROMA — La Cgil si sposta a sinistra, va all’opposizione politica e sociale. Prevale la linea della Fiom di Maurizio Landini. Il no all’accordo sulla produttività ha importanti contenuti sindacali, ma è anche un fatto politico. Che imbarazza il Pd di Pier Luigi Bersani perché, sostengono gli uomini del segretario «si rischia così di portare acqua al partito del Monti bis». «La Cgil — aggiungono — è parte della nostra constituency, isolandosi favorisce chi pensa che faremo fatica a governare ». Imbarazzi che si ricavavano ieri pure dalle parole di Cesare Damiano, ex ministro del Lavoro, unico piddino a intervenire: «Siamo preoccupati del fatto che esistano opinioni divergenti tra le organizzazioni sindacali e che si possa arrivare nuovamente ad una firma separata».
Eppure prima di decidere la Cgil ha ben ponderato l’effetto politico. Nel Direttivo (il “parlamentino” confederale) di giovedì si sono fronteggiate due linee non solo sindacali: da una parte la tesi di chi (Landini in testa) ha sostenuto che non si potesse «regalare» un accordo sulla produttività ad un governo come quello Monti ormai in scadenza e che non ha fatto nulla di importante per il lavoro; dall’altra chi (per esempio il segretario confederale Fabrizio Solari che ha condotto il negoziato con la Confindustria) ha messo in guardia dal rischio di affidare a tutti gli altri la gestione di un nuovo assetto contrattuale proprio mentre sta arrivando un altro governo,
probabilmente a trazione Pd. Il rischio, insomma, di una specie di autogol sindacale. Alla fine Susanna Camusso, che non aveva nemmeno escluso (a titolo personale) l’ipotesi di una firma per presa d’atto (lo fece Guglielmo Epifani sul patto per il Welfare con il governo Prodi nel 2007), si è schierata con la linea fiommina. Quella prevalente nel Direttivo, anche se non c’è stato un voto finale. Perché insieme ai metalmeccanici ci sono, tra gli altri, la Funzione pubblica, i chimici, gli alimentaristi e diverse strutture territoriali. Una maggioranza trasversale, sostanzialmente inedita visto che la minoranza congressuale della Cgil è rappresentata proprio dalla Fiom.
E soprattutto per la Fiom, la Cgil ha deciso di non firmare dopo aver chiesto al tavolo sulla produttività (sede non proprio adeguata visto che c’erano tutte le associazioni imprenditoriali e non solo la Confindustria), di riportare i “suoi” metalmeccanici a trattare il rinnovo del contratto della categoria. La Fiom non partecipa perché non ha firmato l’ultimo contratto. Cisl e Uil non hanno accettato la richiesta della Cgil mentre il presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, aveva promesso un incontro con Cgil e Fiom, da una parte, e Confindustria e Federmeccanica, dall’altra. Ora si andrà inevitabilmente dritti all’accordo separato pure tra i metalmeccanici. Giovedì prossimo potrebbe cominciare il rush finale del negoziato.
Ma c’è anche un’altra valutazione politica che ha pesato nella scelta della Cgil: il timore di finire per sostenere nei fatti il progetto centrista di Bonanni e del ministro Corrado Passera. Con il sospetto, infatti, che Passera volesse l’intesa soprattutto per presentarla come un suo risultato politico. E l’accusa, sempre al ministro, di essere entrato nella partita mentre era in corso la trattativa tra Confindustria e sindacati, convocando le piccole imprese e indicando i contenuti di un accordo “accettabile” per il governo.
Tra sospetti e veleni, la Fiom si prepara al nuovo sciopero generale dei metalmeccanici già proclamato per il 5 e 6 di dicembre. E a una serie di iniziative con il nuovo movimento degli studenti. La Fiom movimentista che punta a lanciare un’Opa, ormai non troppo ostile, sulla Cgil.

l’Unità 18.11.12
Israele pronta all’attacco di terra
Centrato il quartier generale di Hamas. Mille finora gli attacchi di Tsahal
Batterie anti-missile fermano i razzi su Tel Aviv
L’Egitto media la tregua. La Lega araba: missione entro 48 ore
di U.D.G.


Le sirene d’allarme spezzano il silenzio di shabbat, il sabato ebraico. Un attimo, un boato, e Israele riscopre la paura. Un missile sparato da Gaza verso Tel Aviv è stato intercettato in volo, alla periferia della città, dalla batteria «Iron Dome» di difesa aerea, entrata in attività proprio ieri. A riferirlo è la radio militare israeliana. Testimoni oculari dal canto loro hanno raccontato di aver visto levarsi in cielo, al di sopra della periferia meridionale della capitale economica dello Stato ebraico, le scie di fumo lasciate dietro di sé dai missili intercettori, e di aver udito l’eco di un’esplosione quando hanno colpito il bersaglio. Hamas ha subito rivendicato il lancio del missile, riferiscono fonti di Gaza.
Migliaia di soldati israeliani si stanno ammassando al confine con la Striscia di Gaza: lo riferisce la Cnn, precisando che l’esercito dello Stato ebraico ha mobilitato «30.000 militari» per una possibile operazione di terra. «Stiamo in una fase di espansione della campagna», ha confermato il generale Yoav Mordechai, portavoce dell’esercito, citato dall’emittente Usa. L’operazione in corso a Gaza non è ancora completata, dichiara al sito «Ynet» il ministro dell’Educazione Gideon Saar. «Hamas non è nella posizione di poter dettare alcuna condizione. Qualunque cosa ha aggiunto sia successa prima dell’operazione non continuerà dopo che sarà finita. Nel momento in cui potremo essere certi di questo, ci fermeremo». Intanto cresce il numero delle vittime. È salito a 44 (tra cui 8 bambini e una donna incinta) il bilancio provvisorio dei palestinesi rimasti uccisi dal fuoco israeliano in questa ultima tornata di violenze. Almeno dodici hanno perso la vita ieri. Lo riferiscono fonti mediche di Gaza. Tre i civili israeliani uccisi.
NUOVI RAID
Proseguono incessanti i raid israeliani nella Striscia: in sei ore sono stati colpiti 85 nuovi siti terroristici, ha riferito in tarda mattinata l’esercito. Colpita con quattro attacchi anche la sede del governo di Hamas a Gaza, che è andata distrutta, ma dove non ci sono state vittime. «I sionisti credono che il loro attacco ci indebolirà, ma è vero il contrario. Rafforza la nostra determinazione a liberare la Palestina finché non vinceremo», ha replicato su Twitter il premier di Hamas Ismail Haniyeh. Più di 255 persone sono state ferite dagli attacchi, secondo fonti mediche di Gaza, la gran parte civili, tra cui 100 bambini.
L’aviazione israeliana ha condotto 1.000 attacchi dall’inizio dell’attuale offensiva contro le infrastrutture militari di Hamas. Ad affermarlo, in un colloquio con la stampa estera, è il generale Eden Atias, ex comandante della base aerea di Nevatim (Neghev) e attuale rappresentante delle forze armate israeliane in Canada. Atias ha affermato che i piloti israeliani hanno avuto istruzione di operare a Gaza con la massima accuratezza e di evitare nei limiti del possibile danni collaterali, specialmente ai civili palestinesi. I piloti ha aggiunto sono in grado di controllare i missili anche dopo il lancio e di deviarli all’ultimo momento verso zone aperte, se necessario. Nei quattro giorni dall’inizio dell’offensiva israeliana a Gaza i miliziani palestinesi hanno lanciato 737 razzi: lo afferma un portavoce di Tsahal, precisando che 492 razzi hanno colpito il suolo del Paese mentre 245 sono stati intercettati dal sistema anti-missile.
Una corsa contro il tempo per scongiurare una invasione di terra e mediare una nuova tregua. In prima fila l’Egitto, che sta lavorando a un cessate il fuoco accettabile sia per Israele e sia per le forze di Hamas a Gaza. Le autorità del Cairo hanno contattato Hamas e la Jihad islamica per verificare se cesserebbero i lanci di razzi, su una base di reciprocità con Israele. Secondo il quotidiano palestinese «al-Quds», Hamas ha fatto sapere di volere un tangibile allentamento del blocco alla Striscia nonché la cessazione delle attività militari israeliane lungo le linee di demarcazione fra la Striscia ed il Neghev occidentale. I dirigenti di Gaza vogliono anche garanzie internazionali che impediscano ad Israele di colpire oltre i loro esponenti di spicco.
Queste richieste sarebbero state inoltrate dal leader politico di Hamas Khaled Meshaal al capo dell’intelligence egiziana, Rafat Shehade. L’«aggressione» israeliana a Gaza è un «crimine contro l’umanità», afferma dal Cairo il segretario generale della Lega araba Nabil el Araby, aprendo la riunione straordinaria dei ministri degli Esteri arabi. «A fianco dei fratelli palestinesi romperemo l’assedio israeliano». La Lega è pronta a inviare una missione a Gaza entro 48 ore. Al Jazeera considera vicino un accordo sul cessate il fuoco. Intanto, però, la morsa israeliana attorno a Gaza si fa sempre più stringente. E l’invasione di terra sempre più vicina.

l’Unità 18.11.12
La politica dello struzzo stavolta non funzionerà
di Antonio Badini


ORA CHE LA TENSIONE A GAZA RISCHIA DI TRADURSI IN UN NUOVO CONFLITTO CON ISRAELE, le Cancellerie vanno in allerta e tutti fanno appello ad un cessate-il-fuoco; ma stavolta la tregua, se ci sarà, non potrà più essere ottenuta con vaghe promesse, come ai tempi in cui il compianto Soleiman, sotto ferree istruzioni di Mubarak, incantava tutti con il gioco delle tre carte. Quei tempi sono tramontati per sempre. Non solo é mutato radicalmente il contesto regionale ma la posta in gioco questa volta é assai più alta per tutte le parti coinvolte. E l’epilogo é tutt’altro che scontato.
Nessuno può perdere senza rischiare di uscire di scena. Non può cedere Netanyahu che ha puntato, senza apparenti rivali, sulle elezioni anticipate, appena il 22 gennaio, per rafforzare il suo potere al Governo; non può passare la mano Hamas, ormai diplomaticamente al foto-finish con Abu Abbas per la guida del movimento palestinese, e tanto meno può sfilarsi quest’ultimo che si gioca le sue residue riserve di credibilità con la battaglia alle Nazioni Unite per elevare lo status dell’Autorità Palestinese.
Insomma il dado é tratto; con i razzi delle milizie palestinesi, tecnologicamente perfezionati, che arrivano ormai a sfiorare Gerusalemme, con l’autorevole avallo al Governo di Hamas da parte del Qatar, il cui Emiro ha recentemente recato in persona il suo appoggio, anche economico a Haniyeh, capo del governo, così come ha fatto, quando la ritorsione israeliana era già cominciata, il Primo Ministro Qandil, che sembra abbia promesso che l’Egitto potrebbe essere pronto a rompere l’embargo a Gaza.
Difficile intuire quale possa essere la via di uscita: quella militare, se Netanyahu la tentasse, come sembra, gli potrebbe costare il suo futuro politico, con l’Egitto che rimetterebbe in discussione gli accordi di Camp David; quella diplomatica, se non ben condotta dall’Occidente rischierebbe di consegnare a Hamas il destino del popolo palestinese con conseguenze non facilmente calcolabili. E dire che più di un avventato osservatore era arrivato a diagnosticare la marginalizzazione della causa palestinese dopo i più recenti sviluppi della «Primavera Araba», leggi la «guerra civile in Siria».
E tuttavia la recente uccisione per mano verosimilmente siriana di Wissam al Hassan, capo dei servizi di informazione della polizia libanese, avrebbe dovuto aprire gli occhi soprattutto agli americani, che debbono ormai decidersi ad affrontare seriamente il nodo palestinese. Non basta più ammettere il diritto di risposta di Israele, per giunta spesso sproporzionata in spregio alle norme del diritto internazionale, come ha nuovamente fatto Obama.
Ci sono colpe assai gravi di Israele che ha in pratica congelato il processo di pace continuando a permettere gli insediamenti ai coloni in Cisgiordania. Il cumulo della rabbia e dell’umiliazione subita negli ultimi quattro anni porta oggi non solo i palestinesi ma larga parte del mondo arabo a chiedersi se vi sia veramente una soluzione negoziata per dare sostanza e prospettiva politico-istituzionale alla visione dei «due Stati» preconizzata da George W. Bush ad Annapolis nel 2007.
Né va dimenticato che Hamas é una creaura dei «Fratelli Musulmani» la cui espressione politica, il Partito della libertà e della giustizia, é oggi al potere per effetto di una libera scelta del popolo egiziano. Si può immaginare che l’Egitto di oggi può accontentarsi degli espedienti tattici cui ricorreva colpevolmente il vecchio regime per salvare capra e cavoli? Si può immaginare che Teheran resti impassibile ed immobile ad attendere che arrivi per Netanyhau il momento propizio per bombardare gli impianti nucleari in Iran? Si può immaginare che Damasco accetti l’agonia di una difesa strenua ma contata nei mesi se non nei giorni, senza tentare di trasferire l’epicentro delle tensioni in altri teatri di guerra? Si sono già dimenticati i moti di protesta della popolazione sciita nel Bahrain che per sedarli hanno richiesto l’invio di carri armati da parte dei Paersi del Golfo? E ci si é dimenticati delle minacce di Nasrallah che a più riprese ha dichiarato che Hezbollah non avrebbe lasciato Hamas solo nell’eventuale conflitto con Israele?
La tattica dello struzzo cui sinora é ricorsa la Ue e gli stessi Stati Uniti non tiene più. È ora di prendere il toro per le corna e mettere attorno ad un tavolo israeliani e palestinesi (inclusi quelli di Al Fatah) per riannodare le fila di un negoziato che é la sola credibile azione che i veri amici di Israele possono consigliare a Netanyhau, per permettere ai cittadini di Israele di vivere senza l’incubo dei razzi e alla stessa Israele il diritto non solo di esistere pacificamente ma di prosperare accanto al mondo arabo.
*ex ambasciatore italiano in Egitto, presidente della Fondazione Italia-Egitto

l’Unità 18.11.12
Ghazi Hamad
Vice-ministro degli Esteri di Hamas, è nella lista delle «eliminazioni mirate»
«È finito il tempo in cui ci potevano colpire impunemente»
«Il Medio Oriente è cambiato. Se soffre Gaza, soffrirà Tel Aviv»
di Umberto De Giovannangeli


«L’equazione cambia, perché il Medio Oriente è cambiato. Sono finiti per sempre i tempi in cui Israele poteva colpire impunemente Gaza. Se non c’è più pace a Gaza non ci sarà nemmeno a Tel Aviv». A sostenerlo è una delle figure di primissimo piano di Hamas: Ghazi Hamad, 48 anni, vice ministro degli Esteri nel governo di Ismail Haniyeh, più volte incarcerato da Israele. Assieme ad Haniyeh e Mahmud al Zahar, Hamad è nella lista delle «eliminazioni mirate» di Tsahal. «Quello messo in atto dagli israeliani dice Hamad a l’Unità è terrorismo di Stato. Possono eliminare molti di noi, ma altri sono già pronti a prendere il nostro posto. Hamas è parte vitale della resistenza palestinese; una resistenza popolare, ed è per questo che i sionisti non l’avranno mai vinta. Perché non possono cancellare un popolo intero». Hamad, considerato il capofila dell’ala pragmatica di Hamas, rivela un particolare che inquadra in una luce nuova l’eliminazione da parte israeliana di Ahmed Jabaari, il comandante delle Brigate Ezzedin al Qassam, il braccio armato di Hamas: «Jaabari dice era stato coinvolto dall’Egitto nella trattativa per giungere ad una tregua con gli israeliani». Ed è forse per questo che andava eliminato. «Netanyahu aggiunge vuole vincere le elezioni col sangue dei palestinesi».
Per Israele le operazioni militari a Gaza sono un atto di difesa per i ripetuti lanci di razzi contro le sue città.
«Quella d’Israele è un’aggressione, è terrorismo di Stato. Oggi i riflettori internazionali si riaccendono su Gaza, ma nessuno ha denunciato che Gaza, la sua gente, un milione e mezzo di persone in maggioranza sotto i 18 anni, vive assedia da anni. Questa si chiama occupazione contro la quale rivendichiamo il diritto di resistenza. I governanti israeliani si sono macchiati di crimini contro l’umanità ma nessuno ne ha chiesto il processo davanti alla Corte di Giustizia dell’Aja. Chi è stato complice di una aggressione permanente non può dare lezione di democrazia e di moderazione». Ma come potete ritenere di poter battere uno dei più agguerriti eserciti al mondo? Il vostro non è un azzardo il cui prezzo viene pagato dalla popolazione palestinese?
«Cosa ci si aspetta da noi? Che alziamo bandiera bianca in segno di resa? Questo non accadrà mai, mai. In questa guerra c’è un carnefice e una vittima, solo che la vittima non si consegna al carnefice. Chi si illude è Israele: Hamas non è un corpo estraneo alla società palestinese, ma ne è parte fondamentale. Si possono assassinare dirigenti e militanti, ma non si può annientare un popolo. Chi è fuori dalla storia oggi non siamo noi ma è Israele».
Fuori dalla storia?
«Il Medio Oriente è cambiato, ma Israele si comporta come se nulla fosse accaduto. A Gaza c’è stata la visita del primo ministro egiziano, del ministro degli Esteri tunisino, qualche settimana fa dell’emiro del Qatar. Abbiamo avuto il sostegno di tutti i Paesi arabi e musulmani, tra cui la Turchia. Le chiedo: chi è oggi isolato?».
«È il momento dell’unità con Hamas»: ad affermarlo è il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmud Abbas (Abu Mazen). Qual è la risposta di Hamas?
«L’unità non è un regalo ad Hamas, ma è ciò che si aspetta il popolo palestinese di fronte all’aggressione israeliana. Nessun negoziato è possibile con chi vuole annientarti. L’unità si costruisce nella resistenza».
La parola “dialogo” è bandita dal vocabolario di Hamas?
«No, se dialogo non è sinonimo di resa. In passato ci siamo dichiarati disponibili a una “hudna” (tregua, ndr) prolungata, a condizione che Israele ponesse fine all’assedio di Gaza e liberasse i prigionieri palestinesi detenuti nelle sue carceri. La risposta è sotto gli occhi di tutti».
Gli Usa sono tornati a chiedere ad Hamas di riconoscere lo Stato d’Israele. «Possiamo negoziare una tregua, ma non riconoscere uno Stato che nega ai palestinesi il diritto di esistere come Nazione, che porta avanti la pulizia etnica ad Al Quds (Gerusalemme, ndr), che espropria le nostre terre, affama la nostra gente, colonizza la Cisgiordania e si prepara di nuovo ad invadere Gaza. All’origine di tutto c’è l’occupazione della Palestina. Obama ponga fine a tutto questo, e poi ne riparleremo. Finora, al di là delle belle parole, Obama non ha fatto nulla per impedire a Israele di portare avanti la sua politica colonizzatrice. Al presidente Usa il popolo palestinese chiedeva un segnale di discontinuità con le precedenti amministrazioni. Quel segnale non c’è stato».
Lei ha avuto l’incarico dal primo ministro Haniyeh di formare una leva di “ambasciatori” di Hamas. Qual è il segno di questa iniziativa?
«A muoverci è la consapevolezza che le “primavere arabe” hanno modificato profondamente il corso degli eventi nel mondo arabo. Abbiamo stabilito relazioni con diversi Paesi e dobbiamo ora formare diplomatici in grado di avviare e seguire progetti con quei Paesi Hamas intende essere parte di questo cambiamento lanciando un’offensiva diplomatica che riporti la causa palestinese al centro dell’attenzione internazionale. Sappiamo, vogliamo fare politica. La resistenza armata è uno strumento non il fine di Hamas».

l’Unità 18.11.12
Giorgio Gomel
La tregua non basta, bisogna che riparta la trattativa
Esponente di «Jcall», movimento pacifista ebraico europeo
«Si è formata sul campo una sciagurata alleanza tra Hamas e il Likud»


I nemici peggiori possono diventare i migliori alleati. La storia travagliata del conflitto israelo-palestinese lo dimostra una volta di più. Una sciagurata alleanza si è formata sul campo, incurante delle vittime provocate fra la gente inerme, fra Hamas, il movimento integralista palestinese e il Likud, il partito principale di governo in Israele condizionato dalle correnti nazional-religiose e dal movimento dei coloni che lo spingono verso le posizioni più oltranziste. Due nemici irriducibili, ma uniti nel rigettare gli accordi di Oslo del 1993 e nel sabotare poi, anno dopo anno, ogni tentativo di trattativa volta a giungere a un compromesso che comporti la spartizione di quella terra contesa in due Stati sovrani di pari dignità.
Così la formula di «due Stati per due popoli», l’unica che possa fornire una soluzione dignitosa al conflitto appare sempre più messa in forse, come una irraggiungibile utopia. Eppure la sostiene l’Anp di Abu Mazen anche in un’intervista rilasciata di recente ad una TV israeliana con il tentativo di ottenere dalle Nazioni Unite il riconoscimento per il futuro stato di Palestina dello status di osservatore. La sostiene l’opposizione in Israele non solo il movimento che si batte per la pace e i diritti nazionali dei palestinesi, ma buona parte del centro pragmatico del paese. I sondaggi mostrano in modo persistente che circa 2/3 degli israeliani e dei palestinesi intervistati la desiderano come soluzione, pur ritenendola difficile da conseguire. La sostiene da anni la comunità internazionale, nella forma concreta dei «parametri di Clinton» del 2000 e dei reiterati tentativi del Quartetto di promuovere una seria trattativa fra le due parti assistite da mediatori internazionali. La sosteniamo noi di Jcall (www.jcall.eu), un movimento d’opinione di ebrei europei costituitosi nel 2010 sulla base di un «Appello alla ragione», sottoscritto da oltre 8000 persone, e formatosi di recente anche in Italia (jcall.italia@gmail.com). Dibatteremo di questi temi martedì 20 novembre alla Casa della cultura di Milano (dalle ore 21) con Shaul Ariely israeliano, esperto di questioni di sicurezza e tra i negoziatori degli accordi di Ginevra del 2003 -, Gad Lerner e Stefano Levi della Torre.
Siamo solidali con il popolo d’Israele, di cui affermiamo il diritto a un’esistenza in condizioni di pace e sicurezza e soprattutto con gli abitanti del sud e del centro del paese costretti nei rifugi, privati di una vita normale, e siamo vicini ai civili palestinesi di Gaza che subiscono il costo di una guerra inutile scatenata da Hamas che esercita un potere tirannico nella Striscia e mira a provocare una deflagrazione nella regione, già scossa dalla guerra in Siria e dalle minaccia nucleare dell’Iran, fino all’incrudirsi dei rapporti fra Egitto e Israele, al sovvertimento della monarchia giordana e forse a un intervento armato di Hezbollah contro il fronte nord di Israele.
Israele ha diritto all’autodifesa, ma è illusorio perseguire una soluzione puramente militare del conflitto. Lo ha dimostrato l’offensiva contro Gaza del 2008 e l’embargo imposto all’economia della Striscia prima e dopo quell’episodio. La gente di Gaza non si è piegata, malgrado la durezza del vivere quotidiano, della guerra intermittente e della penuria di beni, e non è insorta contro il regime di Hamas.
Ma come mostrare a quella gente che un accordo di pace può produrre benefici tangibili rispetto al perdurare della violenza? Sharon decise nel 2005 un ritiro unilaterale dalla Striscia, non negoziò un accordo di mutua sicurezza con la leadership palestinese di allora. Ne scaturì un embrione di Stato che poteva essere un inizio di progresso economico e civile, pur con i limiti territoriali di Gaza separata dalla Cisgiordania, ma finì soffocato dall’estremismo di Hamas da una parte e dal blocco imposto da Israele dall’altra. Oggi è compito urgente anche dell’Unione europea, non solo di concorrere con gli Stati Uniti, l’Egitto, la Turchia, il Qatar a negoziare una tregua sul campo ed impedire l’allargarsi del conflitto, ma anche di premere sulle parti perché riprenda una seria trattativa fra Israele e l’Anp paralizzata ormai dal 2008.

La Stampa 18.11.12
“Fra noi ebrei e gli arabi si va verso un conflitto di estremismi religiosi”
Lo scrittore Leshem: ultraortodossi sempre più forti
di francesca Paci


Ron Leshem ha 36 anni, lavora in tv, scrive romanzi, riceve premi letterari e i suoi libri sono tradotti anche in cinese. Ma soprattutto è una voce della generazione under 40, la maggioranza degli israeliani, quelli nati all’indomani della guerra del Kippur ed entrati nell’esercito sotto il segno degli accordi di Oslo, i teoricamente predestinati alla pace.
Tre missili su Tel Aviv, 40 morti palestinesi e 3 israeliani, il muro contro muro che blocca la tregua: siete pronti all’invasione di Gaza?
«Gli israeliani sono preoccupati ma considerano legittimo un attacco di terra perché tante famiglie residenti al Sud, come la mia, dormono da settimane nei rifugi a causa dei razzi lanciati da Gaza. Per ora la risposta militare raccoglie consensi».
E dopo? Che cosa succederà dopo?
«Ciò che mi rende veramente pessimista sul domani del Medioriente è la religione. Oggi la sfida dei fanatici ultraortodossi viene dall’islam, ma ce ne saranno sempre di più tra gli ebrei. Io sono un pacifista, laico, ho amici in Egitto e a Gaza, eppure mi accorgo che gli israeliani come me, i liberal under 40, hanno perso la speranza e stanno lasciando il Paese. Tra vent’anni la maggioranza dei ragazzi israeliani sarà religiosa e farà da contraltare ai nostri vicini musulmani che, attraverso un processo democratico, stanno passando da dittature laiche a religiose».
I sogni delle primavere arabe si stanno mutando nell’incubo d’Israele?
«Ero fiero dei giovani di Tahrir determinati a rovesciare il regime, ma quella rivoluzione ha agevolato i Fratelli Musulmani, che non saranno mai liberal. Così ho capito che i frutti della primavera egiziana, come delle altre, non dipenderanno dal milione di ragazzi che chiedeva democrazia a Tahrir ma dagli 80 milioni, rurali o analfabeti, che chiedevano migliori condizioni economiche. Sebbene le dittature arabe non potessero durare ora è un caos: con i fanatici basta distrarsi una volta perché sia l’ultima e intorno a noi ce ne sono già».
Nel romanzo «Tredici soldati» racconta i giovani israeliani, meno votati dei genitori alla trincea. Come vedono il futuro i suoi coetanei?
«Tristemente la maggioranza dei giovani israeliani è di destra, Netanyahu vincerà. Da un lato i ragazzi sono più estremisti e qui la sinistra è morta, dall’altro i miei coetanei non capiscono il problema di essere occupanti e quanto lo pagheremo, anche perché al ritiro da Gaza del 2005 sono seguiti l’avanzata di Hamas e la minaccia dei razzi da Gaza. Chi capisce se ne va o si astrae nella bolla di Tel Aviv, sesso, spiaggia, disperata voglia di vivere ignorando le notizie. Finché le notizie, come i razzi, non ti piombano addosso».
Nel libro «Underground bazar» descrive un ragazzo di Teheran che potrebbe vivere a Tel Aviv. Il protagonista, così simile a lei, poteva essere un arabo?
«È folle, ma siamo più simili agli iraniani che agli arabi. Per quel che ne so le piazze di Teheran non ci odiano davvero, quelle del Cairo sì. Con le persone è diverso, ho due amici di Gaza laici che dopo l’avvento di Hamas sono fuggiti a Los Angeles e Abu Dhabi».
Come si sente dalla parte che molti in occidente considerano dei cattivi? Pare quasi possano capirvi di più gli arabi.
«È triste. In alcuni casi Israele si difende eppure l’opinione pubblica europea preferisce la narrativa semplicistica e naïf del forte contro il debole. Io sono di sinistra, non voglio essere un occupante, ho amici arabi, ma sono stanco di quanto l’Europa non provi a capire che abbiamo vicini disposti a uccidere i gay e lapidare le adultere nel nome di Dio. Gli arabi almeno sono cresciuti con media bugiardi e non democratici e conoscono solo metà della storia. Non so spiegarmi perché l’Europa che ha gli strumenti preferisce superficialmente i cliché».

Corriere 18.11.12
«Gli omicidi mirati? Non servono». Gli intellettuali e la strategia d'attacco
di Davide Frattini


TEL AVIV — Poche ore prima che la sua auto venisse incenerita da un missile, Ahmed Jabari aveva ricevuto una cartella di documenti dall'Egitto. La bozza di un accordo con gli israeliani per decretare una tregua di lungo periodo che fermasse i lanci di razzi da Gaza. Il capo militare di Hamas non aveva mai parlato con l'intermediario che da Gerusalemme guidava la trattativa, l'intellettuale che da ventiquattro anni con il suo centro studi cerca di trovare una soluzione al conflitto. «Jabari non era un uomo di pace, non credeva nella pace con Israele e si rifiutava di avere contatti con funzionari israeliani, anche non ufficiali come me», ammette Gershon Baskin in un editoriale pubblicato dal New York Times. Eppure «nel decidere di ucciderlo Israele ha commesso un irresponsabile errore strategico».
Baskin, fondatore del Centro per la Ricerca e l'Informazione Israele/Palestina, ricorda altri omicidi mirati che non hanno portato la «deterrenza» sperata e promessa dai leader politici e militari. «Anche quando il suo capo spirituale, lo sceicco Ahmed Yassin, è stato ammazzato, Hamas non ha abbassato le armi, non ha smesso di sparare missili». Sotto le macerie di questi giorni — conclude Baskin — è stata seppellita anche la possibilità «di proteggere meglio i cittadini israeliani».
L'ipotesi di accordo per il cessate il fuoco proponeva che l'intelligence dello Stato ebraico passasse informazioni agli egiziani e da lì alle truppe di Jabari per intervenire contro fazioni come la Jihad islamica o i Comitati popolari di resistenza che non obbediscono agli ordini del movimento fondamentalista. È quello che ha spinto Aluf Benn, direttore del quotidiano liberal Haaretz, a scrivere «abbiamo eliminato il nostro subappaltatore nella Striscia di Gaza, incaricato di garantirci la sicurezza». Nahum Barnea considera legittima la scelta di uccidere l'uomo che aveva gestito il rapimento del caporale Gilad Shalit. Il più noto dei giornalisti israeliani ricorda su Yedioth Ahronoth i «rischi a scoppio ritardato». «Nel 1996 la morte di Yahya Ayyash, detto l'ingegnere, ha dato il via a un lungo e doloroso periodo di attacchi suicidi. Non è l'unico pericolo: il nuovo regime in Egitto potrebbe cancellare l'accordo di pace sotto la pressione popolare, la determinazione dimostrata dall'Autorità palestinese nel combattere i terroristi legati ad Hamas potrebbe svanire. Il destino di Jaabari, come quello di Ayyash, era segnato. Spero non dovremo rimpiangere di aver gioito per la sua morte».
La squadra che ha dato la caccia al «capo di Stato maggiore» palestinese nella Striscia è formata da ragazzi e ragazze sotto i 25 anni. Hanno tracciato i suoi spostamenti, avrebbero già potuto eliminarlo in passato, i politici non avevano dato il via libera. Fino a mercoledì scorso. Amit Cohen — analista militare di Maariv — definisce l'operazione «un colpo enorme» ma avverte «l'organizzazione militare costruita da Jabari gli soppravviverà». Cauto anche Ronen Bergman, autore di un libro sulla guerra segreta con l'Iran: «L'ammirazione per l'abilità della nostra intelligence — commenta su Yedioth — non deve farci dimenticare che gli omicidi mirati sono un'arma a doppio taglio». Come nel caso di Abbas Mussawi, leader di Hezbollah, eliminato nel 1992: «I risultati sono stati la pioggia di razzi Katyusha, l'assassinio di un funzionario della sicurezza per l'ambasciata ad Ankara, l'autobomba contro l'ambasciata a Buenos Aires. Alla fine le regole le hanno riscritte loro, non noi».

Repubblica 18.11.12
Conflitto senza soluzioni
di Lucio Caracciolo


Solo, quel territorio cambia nome a seconda dell’identità di chi lo evoca. Per il diritto di nominare il “proprio” spazio, da oltre sessant’anni in Terra Santa si vive e si muore, si uccide e ci si uccide. Il conflitto israelo-palestinese appartiene dunque alla vasta categoria dei problemi senza soluzione.
In termini logici, un problema senza soluzione non è un problema. Ma in politica, specie in geopolitica – ossia nelle dispute territoriali – non vige la logica formale. Se poi lo scontro investe la dimensione simbolico- identitaria, financo religiosa, come nel caso israelo-palestinese, la ricerca del compromesso diventa chimera. È su questo sfondo che conviene leggere l’ennesima crisi di Gaza. In apparenza, è lo stesso copione del dicembre 2008 (Operazione Piombo Fuso). Dopo che Hamas, filiale palestinese della Fratellanza musulmana, ha preso in mano la Striscia di Gaza, da quel territorio (365 chilometri quadrati, oltre un milione e mezzo di anime) partono a intervalli irregolari salve di razzi che colpiscono Sderot, Ashkelon, Ashdod e altri insediamenti israeliani, seminandovi il panico. Gerusalemme reagisce con raid aerei mirati. Finché, di fronte all’intensificarsi degli attacchi missilistici, il governo non decide che è il caso di dare una severa lezione a Hamas, in genere in vista di un’elezione alla Knesset. La deterrenza strategica sposa la tattica politica.
In questo caso, l’appuntamento elettorale di fine gennaio 2013 ha spinto Netanyahu a giocare la carta militare per compattare il fronte interno e cogliere alle urne una vittoria schiacciante. L’assassinio del capo militare (dunque il capo dei capi) di Hamas, Ahmad Jabari, ha inaugurato mercoledì scorso l’Operazione Pilastro di Difesa. Per ora aerea, forse presto terrestre. Come Piombo Fuso. Scadute le poche settimane che le Forze armate israeliane possono dedicare a un conflitto su terra, ognuno tornerebbe alle basi di partenza. In attesa delle prossime (e) lezioni.
Tuttavia l’apparenza inganna. Il copione delle provocazioni palestinesi e delle rappresaglie israeliane sarà pure lo stesso, ma nei quattro anni che separano Piombo Fuso da Pilastro di Difesa il mondo e il Medio Oriente sono cambiati. E continuano a mutare, a ritmo convulsivo.
Anzitutto, gli Stati Uniti hanno perso il Grande Medio Oriente. Dopo undici anni di guerra al terrorismo e due disastrose campagne in Afghanistan e in Iraq, l’influenza di Washington in quella che ci ostiniamo a definire una regione, mentre è uno spazio in rapida frammentazione, è ai minimi storici. Sorpreso dalle “primavere arabe”, Obama si è adattato a cavalcare un’onda rivoluzionaria che prometteva di aprire una stagione di libertà, progresso e democrazia, scoprendo di doversi accomodare, in Egitto e non solo, con i Fratelli musulmani, storica espressione dell’islam politico.
Allo stesso tempo, Obama si è costruito la fama di avversario di Netanyahu, irritando il premier israeliano ma poi finendo per accettarne l’intransigenza sul dossier palestinese e non solo pur di evitarne (ritardarne?) l’attacco all’Iran. Tanti equilibrismi si traducono in schizofrenia a stelle e strisce: i Fratelli musulmani che comandano al Cairo sono okay per assenza di alternative, i loro affiliati a Gaza sono terroristi perché così ha stabilito Gerusalemme. Ancora, dopo aver benedetto la rivoluzione contro Gheddafi, Obama scopre che gli arcinemici del Colonnello uccidono il suo ambasciatore in Libia e così contribuiscono a scatenare la faida fra le agenzie di intelligence americane.
In secondo luogo, attorno a Gerusalemme non vi sono quasi più Stati, solo territori in ebollizione, sui quali jihadisti e altri nemici di Israele si muovono con agilità. La Siria non esiste più, è un campo di mattanza in cui gli islamisti radicali guadagnano spazio e legittimazione. Il Libano è scosso dall’onda d’urto della guerra civile siriana e Hezbollah continua a minacciare con i suoi missili il Nord d’Israele. In Giordania il regime amico trema. L’Egitto, governato dalla casa madre di Hamas, cerca di destreggiarsi fra solidarietà ideologica ai fratelli di Gaza e interesse nazionale, che sconsiglia lo scontro con Israele. Intanto il Sinai, penisola teoricamente egiziana dove passa il confine con lo Stato ebraico e da cui si accede a Gaza, è più che mai terra di nessuno – ossia di beduini e jihadisti.
Infine, l’Iran. Il nemico numero uno dello Stato ebraico. Per Netanyahu, l’Operazione Pilastro di Difesa è un capitolo nel confronto decisivo con Teheran. Hamas è considerato da Gerusalemme il braccio armato dell’Iran in campo palestinese (definizione spicciativa, ma che continua a orientare l’élite strategica e soprattutto il pubblico israeliano). I razzi che hanno sfiorato Tel Aviv e le colonie ebraiche presso Gerusalemme sono Fajr-5 di produzione persiana. Se Israele attaccasse l’Iran, sarebbero usati per martellare lo Stato ebraico da sud, mentre i missili di Hezbollah colpirebbero da nord.
Di qui l’obiettivo dichiarato dell’attacco a Gaza: annientare il potenziale missilistico annidato nella Striscia, peraltro in buona parte affidato a milizie più radicali e assai più filo-iraniane dello stesso Hamas. Queste ultime, in particolare la Jihad islamica e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina, sono responsabili dell’intensificarsi degli attacchi anti-israeliani ai primi di novembre, che hanno offerto a Netanyahu l’occasione per scatenare la sua aviazione contro Gaza. Quasi Teheran avesse deciso di provocare Gerusalemme, in vista di una guerra che alcuni dirigenti della Repubblica Islamica considerano vantaggiosa per la sopravvivenza del regime.
Per ora, la guerra a Gaza è limitata. Israele non intende rioccupare la Striscia e Hamas non vuole suicidarsi nello scontro frontale con l’entità sionista.
Ma troppi focolai sono accesi attorno a Gerusalemme. Basta poco per incendiare l’intero Vicino Oriente e il Golfo. Nessuno potrebbe prevedere l’esito di una guerra totale. L’unica certezza è che non risolverebbe il dilemma arabo-israeliano, o peggio islamico-ebraico. In Terra Santa resta vero il postulato dell’antropologo americano Clifford Geertz: “Qui la sconfitta non è mai totale, la vittoria sempre incompleta, la tensione infinita. Tutte le conquiste e le perdite sono solo marginali e temporanee, mentre i vincitori cadono e gli sconfitti si rialzano”.

l’Unità 18.11.12
Un Paese sconfitto dal degrado
L’ultimo libro di Guido Crainz: analisi impietosa degli ultimi 30 anni
Lo storico approfondisce quanto abbiamo attraversato da Craxi a Berlusconi
e soprattutto spiega quanto sarà difficile l’opera di ricostruzione morale, etica politica e culturale
di Oreste Pivetta


Guido Crainz IL PAESE REALE Dall’assassinio di Moro all’Italia di oggi pagine 390 euro 29,00 Donzelli
Guido Crainz, nato a Udine, è professore ordinario di Storia Contemporanea presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Teramo. Ha dedicato le sue ricerche alla società rurale europea dell’Ottocento e del Novecento, alla storia dell’Italia contemporaneaalla storia dei media e al rapporto fra media e comunicazione storica. Ha fatto parte del Direttivo dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia e dell’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza, e inoltre del Comitato scientifico dell’Istituto Alcide Cervi. E’ Direttore dell’Archivio audiovisivo della memoria abruzzese, che ha fondato nel 2004 all’Università di Teramo.

I PARTITI SONO MACCHINE DI POTERE E DI CLIENTELA... SCARSA O MISTIFICATA È LA LORO CONOSCENZA DELLA VITA E DEI PROBLEMI DELLA SOCIETÀ, DELLA GENTE... I partiti sono federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un boss e dei sotto boss e hanno occupato lo stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo... hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli ospedali, le università, la Rai... La questione morale nell’Italia di oggi fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi... Sono parole pronunciate da Enrico Berlinguer, nel corso di un’intervista al direttore di Repubblica, Eugenio Scalfari. Sono vecchie, ormai archiviate, eppure sintetizzano la qualità del nostro presente (se non per l’ostinata rivendicazione di una alterità dei comunisti italiani da parte del loro segretario, rivendicazione che a questo punto suonerebbe, a molti forse, infondata e che allora rappresentò l’ostinata affermazione di un «dover essere» da parte di un uomo la cui onestà, la cui serietà, il cui rigore puritano lo rendevano «straniero in patria», come lo giudicò Francesco Alberoni).
Dal giorno di quest’intervista trent’anni sono passati (trentuno per l’esattezza), trent’anni venduti da Craxi e poi da Berlusconi come anni di gaia spensieratezza (dalla «Milano da bere» a «meno tasse per tutti»), trent’anni che, messi in fila, appaiono tormentati e sono semplicemente orribili, anni di un Paese in declino e che pare immutabile nella sua inclinazione al peggio. Salvo, non dimentichiamolo, la parentesi del governo Prodi, quando almeno i conti vennero riaggiustati, salvo alcune grandi battaglie di civiltà come quella combattuta dalla Cgil in difesa dell’articolo 18, salvo l’emergere periodico di un universo di sentimenti, un universo ai margini animato nel segno della critica e della rivolta, della combattività e della passione civile.
Ho tratto le parole di Berlinguer da una citazione nell’ultimo libro di Guido Crainz, storico che insegna all’università di Teramo: dopo l’Italia della ricostruzione postbellica (descritta ne L’Italia del miracolo economico), dopo quella tra anni Sessanta e anni Ottanta, delle riforme e dei movimenti, del terrorismo e della crisi dei partiti (Il Paese mancato), Crainz ci racconta l’ultimo trentennio fino al nostro presente (Il Paese reale. Dall’assassinio di Moro all’Italia di oggi), alla caduta di Berlusconi e all’investitura di Monti.
Crainz scrive in conclusione di un’Italia disillusa e corrotta, senza più legge né desiderio, senza una identità, vittima di un impaurito ripiegamento individuale e del serpeggiante rancore di strati sociali che si riscoprono marginali, un Paese i cui giovani sono colpiti dalla disoccupazione, dall’incertezza, dall’esclusione, un Paese in cui sono aumentati a dismisura coloro che non studiano, che non lavorano e che un lavoro neppure lo cercano, piegati dalla rassegnazione... un Paese preda di un disperato qualunquismo... Nelle ultimissime righe, Crainz volonterosamente riconosce che un altro verso esiste, un altro fronte si manifesta, varie anime e volontà che compongono il paesaggio di una società che ancora si ribella, che preme per il cambiamento: ampi settori di una elite economica, borghesia intellettuale, cittadini attivi e competenti che invocano una politica migliore, giovani che non rifiutano l’impegno civile.
Maggioranze o minoranze? Chissà... le elezioni non sono sufficienti a misurarle. Certo è che le energie per avviare un’inversione di tendenza non mancano, purtroppo non è ancora riconoscibile il progetto capace di metterle in moto e di farle interagire. È difficile non condividere, potendo noi andare oltre, nei tempi appunto della cronaca quotidiana, di fronte ai balbettamenti della sinistra, all’estrema difficoltà di imporre un ragionamento di possibili contenuti comuni, di fronte a quei pronunciamenti, che corrispondono a un bisogno di visibilità, al bisogno di un gesto che certifichi l’esistenza in vita, più che alla necessità di costruire qualcosa che assomigli a quel progetto di fronte all’irruzione sulla scena politica di gruppi ispirati dall’antipolitica – e semplifichiamo, ovviamente più che dalla responsabilità democratica di immaginare un futuro, garantendo anche un governo e un programma di governo alle prese per giunta con una destra, prigioniera di una politica «privatistica», ferma nella determinazione di difendere se stessa.
Ripercorrendo questi trent’anni, la sequenza è nota e impressiona: gli scandali della politica, ben prima di Tangentopoli, l’assassinio di Moro, la solidarietà democratica, l’eclissi delle «due chiese» (la definizione fu di don Gianni Baget Bozzo), cioè della Dc e del Pci, gli ultimi impresentabili governi democristiani, la vantata e presunta governabilità di Craxi, il trionfo di una Italia modaiola, l’esplosione del debito pubblico, il dilagare della criminalità organizzata e delle connivenze politiche, la crisi dell’industria e del lavoro operaio, l’imporsi di una società dell’informatica, la fine della Prima Repubblica, il separatismo leghista: sono solo alcune voci di quel lungo elenco delle ragioni di un degrado nazionale che trova la sua esaltazione nel ventennio, o quasi, berlusconiano, degrado economico, culturale, morale al culmine di una mutazione antropologica (in un rovesciamento di valori verso l’individualismo, l’egoismo, l’indifferenza di fronte alle «questioni» nazionali) e di tendenze profonde che Berlusconi aveva saputo interpretare, come non avevano saputo la politica e la sinistra.
Guido Crainz è uno storico tra i più bravi, che sa ragionare e raccontare avvalendosi di tante fonti: i documenti ufficiali, ovviamente, ma anche i giornali (quanta ipocrisia nel cuore dell’indignazione stampata) e poi il cinema, la televisione, i testi delle canzoni, la pubblicità. Crainz coglie gli stati profondi della condizione umana, gli andirivieni della politica ma anche della cultura, di un costume, di una mentalità, rivelandoci quanto difficile sarà l’opera di ricostruzione. Vale a dire quanto sarebbe necessaria una buona alleanza per governare, ma quanto non sarebbe sufficiente senza un’autentica matura partecipazione intessuta di passione ideale e tensione morale: troppe le macerie attorno a noi.
Una osservazione ancora, a proposito di macerie: il racconto di Crainz si apre, o quasi, con la Fiat, la lotta contro i licenziamenti, la marcia dei quarantamila, in quei memorabili giorni dell’ottobre 1980, che segnarono un punto di svolta nella storia politica e industriale di questo Paese, ma non concede neppure un cenno a Marchionne, il manager che al suo arrivo conquistò destra e sinistra e che si sta rivelando interprete in perfetta continuità con i Romiti d’allora dello spirito di rivincita di una certa borghesia italiana, che gode di buona stampa e che sceglie lui dopo Berlusconi e che pretende ancora d’affrontare una crisi comprimendo diritti e salari, smantellando il sistema sociale europeo, costruito nel dopoguerra, imponendoci un rimedio spacciato per nuovo e che sa invece d’antico, molto d’antico.

Corriere La Lettura 18.11.12
Dagli addosso agli anni Ottanta
Una visione moralista liquida quel periodo come il trionfo della corruzione
di Marco Gervasoni


Più che il titolo neutro, è la manchette, «alle origini del degrado attuale», a fornire la chiave di lettura del libro di Guido Crainz Il Paese reale. Dall'assassinio di Moro all'Italia di oggi (Donzelli). E anche se l'autore è uno storico e non un moralista, gli anni tra il 1978 e il 1994 sarebbero l'incubazione dell'orribile fase che stiamo vivendo. Sono infatti queste le due date in cui si racchiude il volume: il sottotitolo è un po' fuorviante, visto che il periodo dal '94 ai giorni nostri (e sono quasi vent'anni) è trattato in sole 50 pagine, in guisa di postfazione, animate più dalla verve di denuncia antiberlusconiana che dalla distanza, tipica dell'approccio storiografico anche quando le vicende sono temporalmente assai vicine. Il vero argomento del volume sono gli anni Ottanta. È lì che, per Crainz, si è spento tutto, ed è lì che sarebbe nata la deriva della Seconda Repubblica, logica conseguenza di quegli anni. Che cosa si è spento? Lo spirito di trasformazione degli anni Sessanta e Settanta, esaltato da Crainz, sia pure con sguardo critico. Che cosa si è formato al suo posto? Individualismo, corruttela, cinismo. Mentre gli anni Sessanta e Settanta furono l'occasione per una «maturità» del Paese, capace di diventare moderno, il decennio Ottanta avrebbe fatto ritornare gli italiani all'eterno culto del «particulare». L'interpretazione è assai discutibile. È lecito infatti domandarsi quali forme di «maturità» stesse per raggiungere il Paese negli anni Settanta, e chiedersi se le prove di «modernità» non fossero in realtà lontane dal modello occidentale. Al contrario, crediamo che gli anni Ottanta costituirono un tentativo di allineamento dell'Italia alle società dell'Occidente capitalistico avanzato, grazie anche a un secondo boom o boom immisurabile, come lo definì allora il Censis, fenomeno che Crainz (e molti con lui) sembra sottovalutare. Fu proprio questo secondo boom a trasformare, per certi versi assai più radicalmente del primo, la società italiana, fino a stravolgere le basi di consenso dei partiti di massa, che invece durante il miracolo economico non erano state intaccate. E anche istituire, come sembra fare Crainz, un nesso stretto tra le trasformazioni degli anni Ottanta e l'apparizione politica di Berlusconi, quasi un'epifania negativa, appare un po' forzato. Tuttavia, anche se non se ne condividono i presupposti, si può egualmente godere del modo in cui Crainz racconta la storia, essenzialmente filmico, con un incastro di citazioni, dagli archivi ai giornali, dalle canzoni ai film. Peccato che lo stile dell'autore, evidentemente disgustato da quegli anni, si faccia qui, rispetto ai libri precedenti, un po' ripetitivo e meccanico.

l’Unità 18.11.12
Sionismo. Sapete cosa significa veramente?
di Bruno Bongiovanni


BENJAMIN NETANYAHU, ALLA DIFFUSIONE DEI PRIMI EXIT POLL AMERICANI CHE SEMBRAVANO FAVOREVOLI PER ROMNEY, ha esclamato che finalmente Israele poteva diventare la 51esima stella degli Usa. Una gaffe clamorosa. Tutti, laburisti e nazionalisti, gli si sono rivoltati contro, ricordando la lotta degli ebrei per fare della terra promessa uno stato nuovo e indipendente. Adesso, la ripresa degli attacchi israeliani contro Hamas ha riproposto nel mondo la polemica grondante ignoranza a sinistra come a destra contro il sionismo. Quanti infatti sanno che cosa è il sionismo? All’inizio vi è una sineddoche. Sion, nome biblico del colle di Gerusalemme su cui si insediò Davide, è stato infatti piegato, seguendo la figura retorica, a costituire la classica parte per il tutto, indicando l’intera città di Gerusalemme e poi anche la terra promessa e lo stesso popolo d’Israele. Il termine sionismo è stato però coniato nel 1890, con intenzionalità anti-assimilazionistiche, dallo scrittore ebreo viennese Nathan Birnbaum. Prima, mentre era studente, Birnbaum aveva formulato del resto, senza conoscerle, posizioni assai simili a quelle esposte nel 1882 dal russo Leon Pinsker, dopo un’ondata di pogrom antiebraici, nel breve trattato Auto-emancipazione (Il Melangolo, 2005). Circolavano dunque già, nelle vesti dell’autonomismo etnopopolare, le proposte poi espresse da Herzl in Judenstaat (1896) e ancora nel congresso di Basilea (1897). Il programma sionistico ora prevedeva l’adozione di una patria nazionale in Palestina (Terra d’Israele) per gli ebrei. Nel frattempo, l’Europa era stata scossa, a partire dal 1894, dall’Affare Dreyfus. Solo dopo la guerra dei sei giorni (1967), però, in vari scritti, talora antisemiti, il termine è diventato sinonimo di imperialismo. Una brutta virata semantico-politica. Il sionismo appartiene alla storia dell’autodeterminazione e del socialismo. L’iniziativa di questo o quel governo è una cosa, il sionismo un’altra.

La Stampa 18.11.12
Un progetto per restaurare Ur


Con il governo italiano e la Santa Sede l’Iraq sta lavorando a un progetto per il restauro di Ur, la città di Abramo, patria delle tre religioni monoteistiche nonché possibile «tappa per il pellegrinaggio dei cristiani in Terrasanta». Lo ha annunciato l’ambasciatore iracheno in Italia, Saywan Barzani, parlando alla Borsa Mediterranea del Turismo di Paestum. «L’Iraq ha il gas e il petrolio - ha detto - ma la sua terza risorsa è la sua cultura, che è un patrimonio di tutta l’umanità».

Corriere La Lettura 18.11.12
La rivoluzione Neoanarchici & co. senza leader
Né dirigenti, né linea politica Il fine non è abbattere lo Stato ma agire come se non esistesse
di Antonio Carioti


L'antropologo
Esce in libreria mercoledì 21 novembre il saggio dello studioso americano David Graeber «Rivoluzione: istruzioni per l'uso» (Bur). L'autore, nato nel 1961, è noto come antropologo, ma anche come militante di tendenza anarchica e ideologo di Occupy Wall Street. Quest'anno sono usciti in Italia due libri di Graeber: «Critica della democrazia occidentale» (Eleuthera) e «Debito. I primi 5.000 anni» (Il Saggiatore)
Il sociologo
John Holloway, nato a Dublino nel 1947, insegna sociologia all'Università autonoma di Puebla, in Messico, ed è considerato uno dei teorici del movimento zapatista. Oltre a «Crack Capitalism» (DeriveApprodi), ha pubblicato in Italia «Cambiare il mondo senza prendere il potere» (Intra moenia, 2004) e «Che fine ha fatto la lotta di classe?» (Manifestolibri, 2007)

Lenin è morto, la rivoluzione è viva. Nessuno oggi sogna più la presa del Palazzo d'Inverno, né immagina avanguardie proletarie rette da una disciplina d'acciaio. Ma l'idea di un profondo sovvertimento dell'ordine vigente, che riorganizzi la vita sociale su basi nuove, non è scomparsa. Anzi la crisi finanziaria mondiale, con l'impoverimento e il vuoto di prospettive che ne sono derivati per un numero enorme di persone anche nei Paesi ricchi, ha rianimato non solo la protesta giovanile, dagli Indignados spagnoli a Occupy Wall Street, ma anche le riflessioni teoriche nutrite dal fuoco della speranza rivoluzionaria.
Nel definire l'obiettivo finale, qualcuno usa ancora la parola «comunismo»: per esempio Francesco Raparelli nel pamphlet Rivolta o barbarie (Ponte alle Grazie). Ma certo nessuno ipotizza più la conquista dell'apparato statale. L'orizzonte è semmai sintetizzato nel titolo-slogan di un libro uscito in Italia nel 2004: Cambiare il mondo senza prendere il potere (Intra moenia) di John Holloway, un docente dell'ateneo messicano di Puebla che, quando cita il comunismo, spesso aggiunge tra parentesi frasi del tipo «o comunque scegliamo di chiamarlo», anche per segnare un distacco netto dall'esperienza bolscevica. In un saggio più recente, Crack Capitalism (DeriveApprodi), Holloway descrive la rivoluzione come «un processo interstiziale», cioè «il frutto della trasformazione quasi invisibile delle attività quotidiane di milioni di persone», che con i loro «rifiuti nei confronti del sistema» aprono crepe man mano sempre più profonde nella «coltre di ghiaccio» del capitalismo, fino a determinarne il collasso. Non si tratta di distruggere l'ordine borghese, quanto di rifiutare ogni cooperazione al suo funzionamento.
Siamo dunque ben lontani dal marxismo-leninismo. È semmai con un altro filone di pensiero che si registrano forti affinità, come sottolinea l'antropologo David Graeber, ex docente di Yale e militante di Occupy Wall Street, nel testo Rivoluzione: istruzioni per l'uso, di prossima uscita per la Bur. A suo avviso dall'insurrezione zapatista del 1994, passando per le manifestazioni contro il Wto di Seattle (1999) e le varie lotte contro le politiche neoliberiste, fino all'entrata in scena di Occupy, si è manifestata «la più grande fioritura autocosciente di idee anarchiche della storia». Sta infatti tornando in auge, secondo Graeber, il concetto tipicamente libertario di «azione diretta» (Direct Action è il titolo originale del suo saggio), che «consiste nell'agire, di fronte a strutture di autorità inique, come se si fosse già liberi». Abbattere il sistema politico borghese appare allora un obiettivo fuorviante, bisogna piuttosto comportarsi «come se lo Stato non esistesse».
Gli anarchici, ricorda Graeber, erano il fulcro della sinistra rivoluzionaria nel lungo periodo di pace tra fine Ottocento e inizi del Novecento, mentre hanno conosciuto una grave crisi, sfociata in una duratura eclissi tra il 1914 e il 1991, all'epoca delle guerre mondiali e del conflitto Est-Ovest, quando la rivoluzione si era fatta Stato nel comunismo sovietico, che recava però dentro di sé contraddizioni insanabili. Il fatto è, scrive Graeber, che «non si può creare una società libera attraverso la disciplina militare, non si può creare una società democratica dando ordini, non si può creare una società felice attraverso il sofferto sacrificio di sé». Non a caso la bancarotta dell'Urss ha coinciso con la ripresa di pratiche tendenzialmente anarchiche.
Derivano da questa esperienza storica, sempre secondo l'antropologo americano, due insegnamenti basilari. Il primo è che, se l'uso della forza non può essere ritenuto illegittimo in linea di principio, i rivoluzionari devono sforzarsi di essere «più non violenti possibile», come mostrano in America Latina i successi dei movimenti disarmati (i «senza terra» brasiliani, ma in fondo anche gli zapatisti) e la deriva dei gruppi di guerriglia degenerati in «bande di gangster nichilisti». Il secondo è che la forza dell'anarchismo risiede nel fatto che «non si considera fondamentalmente un progetto di analisi ma un progetto etico», cioè non intende tracciare una strategia politica rivoluzionaria, ma rispecchia il desiderio di libertà insito nell'animo umano e fa appello alla coscienza degli individui contro ogni coercizione. Quindi rifiuta le gerarchie interne e anche il meccanismo della rappresentanza, mentre aspira a una democrazia diretta basata sul consenso generale dei singoli.
Emergono qui, insieme a molti punti di contatto, anche rilevanti differenze tra Graeber e i teorici d'impianto marxista. Per esempio Raparelli parla ancora di «giusta violenza che deve accompagnare la traiettoria anticapitalista dei movimenti», fino a evocare una «macchina da guerra», sia pure non come apparato militare, ma come prodotto di una «irriducibile proliferazione gruppuscolare». Antonio Negri e Michael Hardt, nel libro Questo non è un manifesto (Feltrinelli), plaudono alla «mancanza di leader e di ideologia» degli attuali movimenti, ma non rinunciano a una sonora enunciazione di principi e affidano ai contestatori odierni un compito «costituente» che contempla per sua natura una qualche organizzazione politica. Gli Indignados, scrivono Negri e Hardt, «naturalmente non sono anarchici»: un'affermazione su cui Graeber, il quale a sua volta preferisce parlare «non di potere costituente ma destituente», avrebbe parecchio da ridire. Significativa è inoltre la divergenza nel giudizio sul presente. Consapevoli degli scarsi sbocchi che finora le rivolte hanno trovato a livello politico (basti pensare che le primavere arabe sembrano aver innescato una deriva teocratica), Negri e Hardt confidano nell'irrompere di «eventi inaspettati e imprevedibili», che forniscano l'occasione di «costruire una nuova società». Graeber si mostra invece convinto che la svolta sia già avvenuta, con il tramonto del «pensiero unico» liberista. Nemmeno la «guerra al terrore» seguita all'11 settembre, sostiene, è riuscita a rimettere in sella le forze dominanti, perché «gli Stati Uniti semplicemente non hanno le risorse economiche per mantenere il nuovo progetto imperialista».
La rivoluzione sarebbe insomma già in cammino, anche se, ammette Graeber, resta aperto il problema di come conciliare le mentalità, inevitabilmente diverse, degli «alienati» (gli occidentali afflitti da varie forme di disagio) e degli «oppressi» (gli abitanti del Terzo Mondo che soffrono la miseria e la fame), senza contare la difficoltà di convincere chi non si ribella al sistema, quelli che il filosofo Paolo Virno chiama «i corrotti e i crumiri». Non è affatto detto che lo spirito rivoluzionario sia contagioso come ritengono i suoi cultori.
In realtà, da un punto di vista estraneo al romanticismo sovversivo, il rilancio delle teorie radicali non assomiglia al preannuncio di un futuro radioso, ma semmai al sintomo di una crescente inadeguatezza del modello occidentale. In Italia lo si vede meglio che altrove, ma è evidente che i canali della rappresentanza e della partecipazione politica sono ostruiti un po' dovunque. Uno studioso nient'affatto rivoluzionario come il francese Pierre Rosanvallon, nel saggio Controdemocrazia (Castelvecchi), sottolinea la necessità di sviluppare meccanismi di sorveglianza, interdizione e giudizio, peraltro difficili da formalizzare, che consentano ai cittadini un effettivo coinvolgimento nell'attività dei governanti. E un accademico austero come Salvatore Settis lancia un vibrante appello all'iniziativa dal basso per la riaffermazione dei valori costituzionali, in un libro il cui titolo Azione popolare (Einaudi) richiama curiosamente l'«azione diretta» predicata da Graeber.
Forse però il problema è più profondo. Alla fin fine è la modernità stessa che scricchiola, se i rivoluzionari sembrano aver rigettato, recuperando più o meno apertamente l'anarchismo, l'idea marxiana per cui il regno della libertà doveva scaturire dal pieno dispiegamento delle forze produttive. Oggi al contrario domina la retorica medievaleggiante dei beni comuni, o più semplicemente del «comune» (come lo chiamano Negri e Hardt), che tutti ovviamente distinguono con cura dal collettivismo statalista di sovietica memoria. Ma le rivolte pauperiste latinoamericane, per quanto rispettabili e giustificate, non sembrano collocarsi esattamente all'avanguardia del progresso. E come si possa «rendere comune» la proprietà senza inceppare l'economia resta un interrogativo inevaso. Lo stesso Graeber prende le distanze dal primitivismo anarchico di John Zerzan, che giunge a condannare come alienante ogni genere di attività, comprese l'agricoltura, l'arte e la scrittura, fino ad auspicare «il ritorno all'età della pietra». Ma non è forse questa la china verso cui si slitta con l'annullamento di ogni regola che non sia spontaneamente e unanimemente accettata?
Tutto ciò, al netto del suggestivo gergo postmoderno, finisce per confermare implicitamente il giudizio di un attento studioso dei fenomeni rivoluzionari da poco scomparso, Domenico Settembrini, secondo cui l'anarchismo è in sostanza «un elemento di disturbo nei confronti del processo di modernizzazione capitalistico-liberale». D'altronde la società in cui viviamo presenta parecchi elementi patologici, la cui denuncia è pienamente legittima. Ma che la ribellione in sé possa configurare la costruzione di un'alternativa già in atto, come ipotizzano i teorici rivoluzionari vecchi e nuovi, pare una pretesa davvero eccessiva.

Corriere La Lettura 18.11.12
L'Apocalisse? C'è già stata
Più volte la Terra ha conosciuto enormi estinzioni di massa ma ora la catastrofe potrebbe avvenire per mano dell'uomo
di Giulio Giorello


«Il terzo angelo suonò la tromba, e cadde dal cielo una grande stella, ardente come una torcia, e colpì un terzo dei fiumi e le sorgenti delle acque. Il suo nome era Assenzio». Così l'Apocalisse di Giovanni. Ed ecco quella maya (nella reinterpretazione di Tullio Bologna in uno dei ventiquattro racconti di Apocalissi 2012, curato da Gianfranco de Turris per Bietti, pp. 440, 21): «Una mano enorme e dalle dita affusolate s'era all'improvviso materializzata in cielo e, afferrato il Sole tra il pollice e l'indice, l'aveva spento come la fiammella d'una candela, portando l'oscurità ovunque».
Che cosa accomuna queste Storie della Fine? Paradossalmente, che il mondo non finisce: per l'apostolo cristiano (o chi per lui) a un'umanità rigenerata si dispiegano «un nuovo cielo e una nuova terra»; quanto ai Maya, tormentati da «un ambiente reso ostile dal clima e dalla scarsità di risorse, il Tempo era un Dio e si ripeteva ciclicamente per l'eternità». Lo scrive Mario Tozzi (Pianeta Terra ultimo atto, Rizzoli), il quale aggiunge che l'ultimo ciclo, relativizzato al nostro calendario, «era iniziato l'11 dicembre del 3114 a.C. e sarebbe terminato il 21 dicembre del 2012, dopo 5125 e passa anni astronomici».
I Maya si limitavano ad applicare un modello numerico, immaginando che in passato gli altri cicli fossero tutti terminati in modo catastrofico. A rigore «non esistono profezie maya: le congetture le abbiamo fatte noi».
Anche la nostra civiltà potrebbe, se non finire, essere drasticamente sconvolta da qualche enorme disastro, dovuto magari agli effetti perversi dello stesso successo tecnologico e amplificato dalle caratteristiche fisiche del nostro globo. Come ha scritto il vulcanologo Bill McGuire (Guida alla fine del mondo, Raffaello Cortina, pp. 168, 17,50), noi che viviamo «su uno dei più attivi corpi del sistema solare, dobbiamo sempre ricordare che esistiamo e prosperiamo solo per un fortuito caso geologico. Studi recenti sul Dna umano hanno rivelato che la nostra specie è arrivata a un pelo dell'estinzione a causa dell'ultima supereruzione 73.500 anni fa, e se fossimo stati in circolazione già 65 milioni di anni fa, quando un asteroide di 10 chilometri di diametro colpì la Terra, saremmo scomparsi insieme con i dinosauri».
Tozzi, da buon geologo, sottolinea che il destino dei dinosauri potrebbe toccare proprio a noi e in tempi più brevi di quanto usualmente non ci si aspetti. In questo suo nuovo libro immagina che l'ultimo uomo, rintanatosi in un rifugio sotterraneo, descriva le fasi che hanno fatto sì che la radioattività — poco importa se dovuta a un conflitto nucleare o a semplici incidenti nelle centrali — abbia reso invivibile il pianeta. Il mito della caduta dei cieli copre semplicemente la superbia dell'uomo che crede di incarnare il senso ultimo dell'Universo. Un orgoglio patetico: «Conosciamo le conseguenze del nostro assurdo stile di vita, ma perseveriamo ottusamente a replicarlo. Nel frattempo, continuiamo a lasciarci suggestionare da scenari di rovina roboanti e poco probabili». Dopo l'apologo Tozzi elenca varie di queste «bufale», di cui la pretesa profezia maya è solo l'ultimo esempio: ci lasciamo abbindolare da tutto nell'età dell'informazione e del Terzo Millennio, non molto diversamente da come capitava nell'«oscuro Medioevo dell'anno Mille», all'epoca di Brancaleone di Norcia e della sua armata. Ma allora ci si aspettava il segno dello «scatenarsi di Satana» con qualche scusante, mentre gli attuali fanatici dell'Apocalisse approfittano delle reti editoriali e telematiche per sostituire la credulità alla fede.
Chissà se finiremo all'inferno, si chiede a sua volta Telmo Pievani, storico e filosofo delle scienze della vita, e lo troveremo popolato dei tanti profeti di sventura a buon mercato. Sorte terribile, perché costoro, in fondo, non sono che tipi «incredibilmente noiosi», nel riproporre invariabilmente i soliti raggiri senza alcuna possibilità di controllo scientifico: «Esiti imprevisti di esperimenti alle alte energie; presunti effetti moltiplicativi improvvisi nella biosfera intesa come "sistema complesso"; virus informatici; nanomacchine che si autoriproducono; bolle di universi paralleli in espansione; annichilazione da parte di extraterrestri; e persino l'eccesso di relativismo etico».
Da buon lettore di Darwin, Pievani ricorda l'insegnamento del grande naturalista per cui «l'estinzione di una specie non deve sorprenderci più di quella del singolo», anche se si tratta di un lentissimo processo di degenerazione graduale nel tempo geologico. Da ammiratore e collaboratore di darwiniani eterodossi come Stephen Jay Gould e Niles Eldredge, Pievani mette però l'enfasi soprattutto sulle estinzioni di massa, magari innescate da bruschi cambiamenti ambientali, come sarebbe stato appunto per i dinosauri, vittime di una violenta modificazione del clima, dovuta all'impatto di un asteroide caduto nella penisola messicana dello Yucatán (guarda caso «la terra dei Maya!»), almeno se hanno ragione Luis e Walter Alvarez.
Se queste sono davvero «Apocalissi», la ragione è che la fine di tante specie indica un nuovo inizio per altre forme di vita. Ma prima che gridi facilmente vittoria il mammifero «più prepotente di tutti», come lo chiama Luigi Luca Cavalli-Sforza, cioè l'uomo, non bisogna dimenticare che oggi è proprio la presenza dell'Homo sapiens a minacciare una nuova, vastissima estinzione di massa, e che forse gli esseri umani stanno segando un ramo dell'albero dell'evoluzione su cui sono metaforicamente seduti. Qui il filosofo Pievani e il geologo Tozzi concordano.
E poi siamo proprio sicuri che questa o quella Apocalisse riguardi il futuro? «La fine del mondo c'è già stata, e molte volte», scrive ancora Pievani. E conclude, da buon illuminista, che è «grazie a queste deviazioni della storia che noi siamo qui, ora, a scriverne». Le grandi catastrofi che marcano le ere geologiche «sono state come incendi nella foresta che spazzano via il sottobosco vecchio, e liberano spazio per future diversificazioni». E se l'intero genere umano finisce «bruciato» per colpa di qualche asteroide o si scoprirà addirittura — come Tozzi teme — che il vero «asteroide killer» siamo noi stessi, non ci sarà probabilmente nessun rifugio da cui contemplare la vita nuova che sgorgherà dal disastro.
Come diceva un vecchio filosofo, tutto quel che esiste è degno, prima o poi, di perire. E se anche l'umanità scampasse alle trappole che essa stessa si fabbrica violentando l'ambiente in cui prospera, facendo invece un uso accorto delle grandi risorse messe a disposizione dall'impresa tecnico-scientifica, sappiamo comunque dall'astrofisica che il nostro sistema solare collasserà più o meno tra cinque miliardi di anni, e forse resterà in questa «piccola» porzione di Universo nient'altro che quella «profondissima quiete» di cui trattava il più disincantato dei poeti, Giacomo Leopardi.

Corriere La Lettura 18.11.12
Vetrine di Max Mara e statue di Lenin. Un viaggio nella Siberia in minigonna
Luciana Castellina descrive l'Estremo Oriente della nuova Russia in un libro ricco di aneddoti anche sul comunismo di casa nostra
di Paolo Franchi


U na volta si chiamava mal di Russia, aveva un che di agrodolce, e non colpiva solo i comunisti. A vent'anni e passa dall'ammainabandiera al Cremlino, se ne è persa traccia. Ma non del tutto. Come testimonia Luciana Castellina, certo non sospettabile di nostalgie per la vecchia Unione Sovietica, che, di ritorno dalla Siberia, confessa di esserne ancora affetta. Il come e il perché ce li racconta in un resoconto di viaggio, Siberiana (Nottetempo), godibile anche perché scritto con la finezza intellettuale, la curiosità e il disincanto dei grandi inviati di una volta.
In Unione Sovietica, e poi in Russia, la comunista eretica Castellina c'era stata, dal 1957 in poi, tante volte. In Siberia, mai. Così, un anno fa, in occasione della Fiera del libro di Mosca, ha raccolto al volo l'invito a percorrere seimila chilometri su un treno mitico, la Transiberiana, appunto, assieme ad altri nove intellettuali e giornalisti italiani: distese sterminate di betulle, l'immenso lago Bajkal, e città spesso cariche di reminescenze antiche e moderne (Nižnij Novgorod, Kazan', Ekaterinburg, Tomsk, Krasnojarsk, Irkutsk… ), ma del cui presente sappiamo, specialisti a parte, poco o nulla.
Ne fa di scoperte, l'inviata Castellina. Citiamo alla rinfusa. In Siberia non si trova un colbacco che è uno, ma nelle vetrine di Max Mara a Tomsk campeggiano cappottini leggeri e minigonne vertiginose e, se chiedi alle ragazze come si regolano con il gelo siberiano, non capiscono la domanda. Stalin ha un alto indice di gradimento. Ma i numerosissimi discendenti dei deportati ci tengono a far sapere le loro origini, perché spesso i loro avi, almeno quelli salvi dall'inferno dei lavori forzati e confinati nelle città e nei villaggi, hanno fatto la storia sociale, culturale e civile della Siberia. Nella casa di Maksim Gorkij ogni cosa è al suo posto, meno, chissà perché, le celebri foto con Lenin a Capri. Desovietizzazione? Forse. Ma nelle città siberiane davanti alle statue che raffigurano Lenin «le coppie appena sposate continuano a farsi fotografare, come se si trattasse di un buon vecchio nonno». All'università di Kazan, una giovane poetessa che accompagna la delegazione si commuove perché la Castellina è comunista: ne saranno felici i suoi genitori, comunisti anche loro. Ma dall'aria con cui lo dice, pare proprio che siano gli unici in città.
Lasciamo al lettore il piacere di scovare da solo, in questo libro, moltissime altre notazioni di viaggio, sempre argute, spesso sostanziose, sulla Siberia, e, più in generale, su un mondo che, secondo l'autrice, è tutt'altra cosa dall'Unione Sovietica, eppure le somiglia come una goccia d'acqua: ma una storia che la Castellina pesca dalla sua memoria è troppo bella per non essere citata.
Mosca, anni Sessanta, cova, tra tante cose, pure lo scisma cino-albanese. All'università, tra gli studenti stranieri, ci sono una settantina di italiani. Uno di loro, Fausto Ibba, giovanissimo cronista dell'«Unità», si innamora perdutamente di una studentessa bulgara, sposata con il segretario della cellula degli universitari albanesi. Scandalo. La ragazza viene rispedita in Bulgaria, Ibba, espulso, deve lasciare subito l'università, ed entro quarantottore l'Urss. Dopo un'assemblea infuocata, un'ambasciatrice degli studenti vola a Botteghe Oscure, per chiedere a Mario Alicata di difendere presso i sovietici i diritti del compagno Ibba. L'esito della missione? «Alicata non si sognò neanche di chiedere ai sovietici di annullare la loro decisione, ma appena Ibba, sconvolto dalle pene d'amore e dall'onta politica subita, rientrò a Roma, "l'Unità" lo nominò corrispondente da Sofia. Lì poté riabbracciare la sua amata e da allora vissero felici e contenti». Ma sì, era davvero molto italiana, la via italiana al socialismo.

Corriere La Lettura 18.11.12
Le cinque ragioni per rileggere il filosofo
La rivincita di Croce
1952-2012 Lontano dalla metafisica e dal relativismo Un grande maestro a sessant'anni dalla scomparsa
La libertà come forza motrice nella storia del genere umano
di Giuseppe Galasso


Che cosa davvero intendiamo per «attualità» di un pensiero o di un pensatore come Benedetto Croce? «Una questione di attualità, un libro di attualità, palpitante di attualità? Fa un po' ridere!»: lo diceva Alfredo Panzini, e non solo per un disdegnoso purismo verso il nostro tempo, il nostro sentire e pensare di oggi. Era anche un'esortazione a non identificare l'attualità con la cronaca, col rincorrersi, sempre più frenetico, di quel che ci scorre davanti e che viviamo. Il problema non è, però, così semplice per le più o meno grandi figure del passato, che vissero nella scia dei loro problemi e interessi, urgenze e bisogni. È molto contraddittorio che agli storici, da un lato, si chieda di non peccare di anacronismo, ossia di non alterare aspetti e uomini del passato rivestendoli dei panni propri di altri tempi; e che, dall'altro lato, li si lodi se sembrano portare il passato e i suoi uomini nel nostro tempo e farne dei nostri contemporanei.
In realtà, a ben vedere, l'attualità che attribuiamo al passato non è quella di un passato che non passa, o una qualità che si ritrovi solo in alcune sue espressioni e non in altre. L'attualità al passato la diamo noi, interrogando ciò che ne resta coi nostri occhi di oggi e ponendo ad esso altre e nuove domande o riformulando quelle già fatte; e sono anche nostre le risposte a tali domande. Non è il passato che viene a noi, siamo noi che lo evochiamo, mossi dai nostri problemi di oggi, e lo facciamo parlare con lingue a noi familiari. Senza alcun arbitrio, però, poiché lo storico deve procedere secondo le norme di una rigorosa filologia, sicché, divenendo parte del presente, il passato non cessi né di essere passato, né di essere diverso dal presente, anche se ne è una condizione di base.
Ecco, in ciò, una prima ragione di «attualità» di Croce. È sua, infatti, una limpida, geniale esposizione del principio da lui definito della «contemporaneità della Storia». E da ciò deriva pure un'altra ragione di sua «attualità», per l'affermazione che la realtà, tutta la realtà in ognuno e in tutti i suoi aspetti, non è «nient'altro che Storia». La storicità è, così, la categoria totalizzante ed esaustiva del reale. La stessa natura non è che Storia solidificata in certe forme; e anche il pensiero è Storia, è la vicenda perenne e dinamica, quale che ne sia il ritmo, della coscienza riflessa dell'uomo, sempre proiettiva, ossia che si spinge in avanti, anche quando sembra il contrario.
La verità muta allora col tempo? Sì e no. Ogni verità è figlia del suo tempo, ma, se è verità, è insieme figlia di ogni tempo. Uno storicismo integrale, dunque, che esclude ogni considerazione extrastorica, ogni riferimento metafisico, ma che in Croce non configura alcun relativismo. La distinzione fra storicismo e relativismo è un cardine del suo pensiero. La verità si costruisce nel tempo, ma trascende il tempo. Non è semplice eliminazione del falso, mera «falsificazione», operazione negativa che taglia via via i rami secchi del pensiero, bensì un'operazione altamente positiva, che sfronda il passato, lo supera, ma anche lo conserva e lo incrementa nel sempre mutevole presente, con una «verificazione» che comprende ma annulla in sé il momento della «falsificazione». Ossia, in altri termini, il relativismo è l'apparenza di questo processo (ogni tempo ha le sue verità); la progressiva costruzione del grande patrimonio intellettuale e morale dell'umanità ne è, invece, la sostanza.
In questo patrimonio ciò che trascende il proprio tempo diventa «classico», ossia un riferimento per il futuro, che secondo le sue esigenze può in ogni momento evocarlo e riproporselo. In questo senso Croce è un classico, appartiene, cioè, al grande album delle voci durature del passato. Egli, peraltro, pur affermando la Storia e la storicità come unico senso e valore della realtà e del pensiero, è ben lontano dal credere che la Storia e la storicità, ossia la Storia (sono le sue parole) «come pensiero e come azione», siano un tutto indifferenziato.
Il «principio della distinzione» è un altro caposaldo crociano, degno di speciale attenzione per un mondo che oggi è appena (e non tutto) uscito da un'epoca di oppressivi e sanguinari totalitarismi. Croce accetta in pieno il principio hegeliano della dialettica, per cui la Storia, cioè la vita, è strutturalmente fatta di ininterrotte contrapposizioni, che nel suo cammino si sciolgono via via in più alte sintesi. Non accetta, però, la tesi hegeliana di una marcia a termine fisso verso una sintesi totale e finale prefigurata dalla struttura stessa della realtà. Per lui la realtà è sempre aperta, e gli esiti di quella dialettica sono quali possono essere e si riesce a farli essere nel difficile e sempre faticoso cammino della Storia. Un cammino che, per di più, procede per molte vie, anche se interconnesse: quelle della fantasia, regno dell'arte, e della logica, regno del sapere, e, in parallelo, quelle della volontà individuale, regno dell'utile particolare (o, com'egli dice, dell'economico), e della volontà che si fa universale, regno della morale nella sua integrità e pienezza. Ciascuna di queste vie o forme è autonoma e valida di per sé ma, data la loro coessenziale partecipazione alla vita del tutto, la realtà procede alternandole e integrandole o superandole in una più alta ragione. Ciascun percorso ha, insomma, la sua legittimità e il suo diritto a farsi valere, ma la vita del tutto non può fermarsi per sempre nell'uno o nell'altro, ed esige e impone che ciascuna forma si affermi nella sua autonomia e nel suo valore, ma non blocchi il procedere della vita e ceda, anzi, il passo alle esigenze del tutto.
Sembra un meccanismo complicato e anche un po' anarchico, ma non è così. Si tratta solo di una unità del tutto fatta di profonde articolazioni interne e non fossilizzata in nessuna di esse, anzi volta sempre sia a sollecitarle che a superarle, non secondo un calendario prefissato, ma seguendo il ritmo libero e creativo delle sue imprevedibili potenzialità. Abbiamo detto che Croce teorizzò quattro di queste forme (il bello, il vero, l'utile, l'etico), per cui si ironizzò sulla sua «filosofia delle quattro parole». Ma non è qui la forza della sua riflessione al riguardo, bensì in quella logica della distinzione che non nega l'unità e le sue ragioni ma non le rende esclusive e monopolizzanti.
È in base a tutto ciò che si colgono meglio altre due ragioni per ricordare Croce. Una è relativa alla natura dell'arte (poesia, arti visive, musica e quant'altre ve ne siano), fondata sulla sua profonda liricità (ossia pura intuizione e rappresentazione estetica del sentire e patire) che ci trasmette l'immediata, commossa e piena percezione del bello, ci fa distinguere l'opera creativa della fantasia (con cui si identifica la poesia) da quella dell'immaginazione (che dà luogo a una grande varietà di espressioni, altre da quella poetica) e ci dà un'idea della poesia di incomparabile e perenne specificità di senso e di valore. L'altra è relativa all'idea che la libertà è la forza motrice della Storia, sempre attiva, anche quando ne appare espulsa o assente. E ciò non per un vuoto ottimismo. È di Croce una drammatica visione delle forze primigenie che animano la vitalità dell'uomo e la sua volontà di dominio e di potenza, così come delle opposte debolezze, per cui solo una vigile e profonda disciplina morale può dominare e volgere al meglio tutto ciò.
Quindi Croce poteva sia difendere sino in fondo l'autonomia dell'arte nel suo valore estetico da ogni interferenza sensoriale, psicologistica, strutturale, tecnicistica o di altro ordine materiale o esterno; sia sostenere un rapporto fra politica ed etica, che non disconosceva la sostanza dura e materiale della politica, anzi la difendeva, ma la vedeva e la voleva eticamente proiettata verso fini e valori generali, conformi alle ragioni della libertà, che non è legata ad alcun particolare ordine economico o sociale, perché vale di per sé e, come tale, opera quale «libertà liberatrice».
Sono alcune (non le sole) lezioni «attuali» di un classico, che trovò nella grande crisi europea del Novecento la spinta a una riflessione per cui poté, fra l'altro, prevedere la finale vittoria delle libertà sui totalitarismi allora al vertice dei loro trionfi. Un classico di grande eco ai suoi tempi, e non solo in Italia, ma poi più volte dichiarato estinto per ogni verso, ma vivo invece della presenza propria appunto dei classici, non sempre rumorosa, ma sempre attiva per vie e modi non prevedibili.

Corriere La Lettura 18.11.12
Né arretrato, né provinciale Anticipò l'«Italian Theory»
L'idealista napoletano non intralciò la scienza e fu un protagonista della cultura europea
di Corrado Ocone


C'è un luogo comune che ha dominato nel secondo dopoguerra e la cui eco giunge fino a noi: Croce sarebbe un pensatore provinciale e la sua opera l'espressione di un'Italietta arretrata, poco attrezzata alla modernità. Come tutti i luoghi comuni, anche questo non regge. Anzi, da una riflessione seria e articolata emerge il contrario: Croce svolse una funzione cosmopolita, come scrisse Antonio Gramsci, che riprendeva quella degli umanisti e che mai più nessun pensatore italiano avrebbe in seguito esercitato. E il suo pensiero, lungi dall'essere arcaico, corrisponde al generale processo di critica al positivismo e di rinnovamento della cultura europea del primo Novecento.
La prima considerazione da fare è che Croce ha intessuto per tutta la vita relazioni con i più importanti esponenti della cultura mondiale del suo tempo. D'altronde l'Estetica, pubblicata nel 1902, con la sua idea dell'arte come intuizione lirica, ebbe subito un successo internazionale, tanto da accreditare l'autore come una delle voci più originali della filosofia. Il Breviario d'estetica del 1912 consiste in quattro lezioni commissionategli da un'università americana, mentre l'Aesthetica in nuce era in origine la voce «Estetica» affidatagli dall'Enciclopedia Britannica. Teoria e storia della storiografia uscì prima in tedesco nel 1915 e solo due anni dopo in Italia: faceva parte di una prestigiosa collana a tema, ove a Croce era stato chiesto di occuparsi della Storia. In Inghilterra, egli aveva un traduttore di eccezione: il filosofo Robin George Collingwood, che da Oxford aveva elaborato una prospettiva di pensiero molto simile a quella di Croce e che di lui si considerava allievo. In America il suo peso crebbe negli anni dell'opposizione al fascismo: scrisse su «Foreign Affairs», «Time» gli dedicò una copertina e il suo saggio sul liberalismo del 1939 apriva una importante opera collettiva sul concetto di libertà. Croce era un protagonista nei congressi internazionali di filosofia: a quello di Oxford del 1930 pronunciò il discorso Antistoricismo, che fu interpretato come una vibrante difesa della libertà e della cultura. Da esso Thomas Mann prese spunto per iniziare con Croce un carteggio sul destino della civiltà europea.
Dai suoi rapporti internazionali si evince anche che Croce non era affatto nemico degli scienziati, come un'altra diffusa vulgata vuole far credere. La sua idea del carattere utilitario dei concetti scientifici l'aveva appresa dall'epistemologia contemporanea, in particolare dall'empiriocriticismo di Ernst Mach e Richard Avenarius. Aveva però aggiunto che i concetti puri o filosofici sono usati anche dalle cosiddette scienze e viceversa: la distinzione fra due diversi tipi di conoscenza, comunque non subordinati, è di metodo e non di oggetto. Più in generale, si può dire che il metodo astraente è usato in maniera preponderante dalla scienza newtoniana moderna, ma già esperienze come la meccanica quantistica o il principio di indeterminazione di Heisenberg devono considerarsene fuori. Non è un caso pertanto che Croce, nel settembre del 1931 a Berlino, abbia trascorso un pomeriggio intero con Albert Einstein, riconoscendo in lui un «comune sentire». Inoltre non ostacolò affatto l'ingresso in Italia delle opere di Sigmund Freud e Max Weber, come pure si dice: ha dimostrato Daniela Coli che le propose per la traduzione, ma Laterza non accettò per motivi economici. La fama di Croce raggiunse persino l'India: il grande poeta Rabindranath Tagore venne in Italia nel 1926 ufficialmente per incontrare Mussolini, ma in realtà per vedere di nascosto il filosofo, alle cui concezioni estetiche si sentiva vicino.
Morto Croce, inizia un'altra storia. L'attacco viene mosso, negli anni Cinquanta, da due fronti: quello «neoilluminista» (Abbagnano, Viano, il primo Bobbio); l'altro dei marxisti non storicisti (Della Volpe, Colletti, Tronti). Intanto la cultura italiana importava in modo spesso acritico le filosofie del momento, creando mix di pensiero che dimostravano sudditanza intellettuale e quindi vero provincialismo.
Oggi, giunta al termine la vicenda del postmodernismo e delle filosofie variamente analitiche, si profila forse di nuovo lo spazio per un pensiero «impuro», cioè attento alle tematiche della vita, come quello crociano. Il realismo politico e storicistico di Croce d'altronde non fa che riannodare le fila di una tradizione risalente a Machiavelli e Vico, oggi studiata e definita come «Italian Theory».

Corriere La Lettura 18.11.12
Cristiano ma senza redenzione finale
di Gaetano Pecora


Ogni grande autore viene interpretato in mille maniere diverse. Non c'è da prenderne scandalo: è il ritmo della conversazione umana. Quando però superano certi limiti, le interpretazioni si mutano in capricci esegetici, snodati e fantasiosi. È accaduto per Benedetto Croce quando, arpionatolo al saggio Perché non possiamo non dirci cristiani, a viva forza lo si è tirato dentro il circolo di quella particolarissima coloritura del cristianesimo che è il cattolicesimo. Siano benvenute, perciò, le pagine assai acute (e puntute) con cui Fulvio Tessitore, nel libro La ricerca dello storicismo (Il Mulino, pp. 703, 75), spiega perché non «è possibile convertire Croce». Cristiano sì; ma cattolico no, mai. Cristiano, Croce lo fu davvero; ma suppergiù come un napoletano si sente anche italiano, come un fatto culturale dunque; e meglio ancora come ciascuno di noi eredita il patrimonio dai suoi maggiori; «eredità — sono parole di Croce — che non si può rifiutare, si deve accrescere e correggere anche per accrescerla, ma col metodo stesso col quale è stata trovata, cioè col metodo antidogmatico e critico». C'è qualcuno che in queste parole sente gorgogliare gli umori della sapienza cattolica? Si aggiunga che il cattolico non esclude che l'uomo possa redimersi dal male e salvarsi. Solo che la salvezza non è di questo mondo, che Adamo precipitò in un mare di dolori (o cattivi piaceri). La qual cosa, nota Tessitore, si urta due volte con la concezione crociana. La prima è che la prospettiva ultramondana esula dagli orizzonti del suo pensiero. Quel che a Croce interessa sapere è se l'uomo possa salvarsi in questo mondo. Qui, non altrove. Quaggiù, non lassù. La seconda è che la salvezza cattolica rimanda al Paradiso, cioè a uno stato perfetto che, proprio perché perfetto, è tetragono ai mutamenti e come fermo in un eterno presente. Nella concezione di Croce, invece, non c'è la redenzione finale; e non c'è perché per lui la Storia non conosce mete ultime, traguardi estremi, tappe finali, dove a uomini appagati sia dato riposare sulle loro fatiche. «Altro riposo — scrisse — non è concesso all'uomo se non nella lotta e per la lotta». Donde la preoccupazione che non si «tolga all'uomo l'umana sua facoltà di errare e di peccare, senza la quale non si può neppure fare il bene, il bene come ciascuno lo sente e sa di poter fare». Tutto questo, beninteso, nel presupposto che siano gli uomini in carne e ossa a far tesoro dei loro errori, con i loro slanci e le loro chiusure, le loro passioni e le loro miserie. Precisamente quegli uomini che, talora, sbiadiscono nello «Spirito universale» di Croce e che a giusta ragione Tessitore traguarda con ciglio contratto come l'inciampo che devia per strade torte il corso, altrimenti umanissimo, dei suoi pensieri. Umanissimo proprio nel senso che non oltrepassa gli umani e appunto perciò si tiene stretto «alla virtù che immane in noi».

Corriere La Lettura 18.11.12
Bellissima e (quasi) impossibile La regina Nefertiti compie cent'anni
Il busto venne scoperto il 6 dicembre 1912, ma due anni fa uno studioso lo ha messo in discussione. Ora l'omaggio di Berlino
di Stefano Bucci


Quando i Krasnals, artisti polacchi di strada alla maniera di Banksy e JR, l'avevano incontrata, lo scorso anno al Neues Museum di Berlino per un'intervista in esclusiva, si era dimostrata in perfetta sintonia con i tempi: «Voglio tornare in Egitto, voglio essere vicina al mio popolo». Dunque, sapeva, nonostante l'esilio dorato (ma forzato) nelle stanze che un'archistar come David Chipperfield aveva ridisegnato per lei nel 2009, della Primavera araba. E sembrava persino appoggiarla. D'altra parte difficile ignorare la modernità quando ti passano davanti, ogni anno, almeno mezzo milione di persone ammirate, conquistate, incantate da quel tuo profilo senza tempo. Anche per questo gli stessi Krasnals («gli gnomi») avevano deciso di immortalarla in un ritratto (in bianco e nero, stencil su tela) molto contemporaneo e con tanto di slogan politico: «Vi prego, riportatemi in Egitto». Ulteriore accenno alla perenne contesa tra la sua terra d'origine e quella che l'aveva accolta. La stessa Germania che ora si appresta a celebrare, con una grande mostra che si inaugura il 7 dicembre (fino al 19 aprile 2013) proprio al Neues Museum di Berlino, i cento anni della sua scoperta, avvenuta il 6 dicembre 1912 nella città imperiale di Amarna, oggi conosciuta come Tell el-Amarna.
Il fascino, violento e moderno, di Nefertiti sta anche nella capacità di resistere alla irriverente rivisitazione contemporanea messa in scena dai Krasnals. Come nella trasformazione del busto di una regina moglie del Faraone Akhenaton in un simbolo della Germania con relativo francobollo da un pfenning. Certo l'estetica aiuta: visto che quel capolavoro assoluto della scultura egizia, nonostante fosse vecchio di 3400 anni, è stato sempre considerato, «un modernissimo modello di bellezza femminile». Persino fin troppo anticipatore. Tanto che nel 2010 uno studioso svizzero, Henri Stierlin, aveva pubblicato un libro (dal titolo Il busto di Nefertiti: una farsa dell'egittologia, Infolio, pp. 136, 18) definendo proprio quel busto «una volgare copia art déco creata nel 1912». Non certo da attribuire a Thoutmès, massimo scultore della XVIII dinastia, ma piuttosto a Gerard Marks, anonimo artista tedesco all'epoca chiamato dall'archeologo Ludwig Borchardt per realizzare un busto-ritratto della moglie di Akhenaton (1390-1352 a.C.) con i pigmenti ritrovati nella tomba di Amarna. Il risultato, entusiasmante già all'epoca (sempre secondo Stierlin) avrebbe indotto al silenzio Borchardt e i suoi compagni di scavo. E chissà se la mostra di Berlino potrà fare definitiva chiarezza (documenti alla mano) sulle modalità di un ritrovamento «lacunoso» e su uno «stato di conservazione» fin troppo perfetto.
Ma in fondo poco importa che, per i detrattori, Nefertiti potesse avere le spalle tagliate troppo in verticale rispetto alla tradizione e che certe imperfezioni del profilo fossero dovute a successivi ritocchi. Il mistero fa aumentare il fascino (d'altra parte, c'è chi assicura che la Gioconda non sia altro che un uomo). Molto più interessante, invece, è ricordare che nel 2003, alla Biennale d'arte di Venezia, due artisti polacchi (Andras Galik e Mathias Balik riuniti sotto lo pseudonimo Little Warsaw), abbiano messo in piedi nel padiglione dell'Ungheria, Il Corpo di Nefertiti, installazione-video che documentava il ricongiungimento del busto della Neues di Berlino con un corpo di bronzo a grandezza naturale, un ricongiungimento durato poche ore (nella giornata del 26 maggio 2003) che avrebbe scatenato polemiche furiose, soprattutto in Egitto. Ma perché proprio Nefertiti? «Perché con il nostro lavoro vogliamo creare spiazzamento e allora quale miglior modo di giocare con un'opera simbolo come Nefertiti — avevano all'epoca dichiarato Galik e Balik responsabili nel 2005 di un riadattamento trent'anni dopo di un progetto dell'artista concettuale Thomas St. Auby? Non volevamo essere irrispettosi, ma solo ribadire il contatto che da sempre lega antichità e contemporaneità».
Una ulteriore prova della modernità di Nefertiti arriva, a pochi giorni dal centesimo anniversario del ritrovamento che la casa editrice Hatje Cantz celebra con un volume dal titolo Gli infiniti volti di Nefertiti, dalla mostra che l'artista berlinese Isa Gentzken (le quotazioni per un suo collage oscillano oggi tra le 120 e le 280 mila sterline) che alla Hauser & Wirth Gallery di Londra ha appena inaugurato (fino al 12 gennaio 2013) una mostra di sculture che a sua volta anticipa la grande retrospettiva che il Moma di New York le dedicherà nella primavera 2013. Tra queste sculture (oltre a quelle che richiamano a Michael Jackson, Donald Duck e Joseph Beuys) ben sei sono dedicate appunto a Nefertiti. L'artista ha confessato di essere stata colpita da quel busto quando ancora bambina (la Gentzken è nata nel 1948) l'aveva visto per la prima volta nelle stanze del Neues Museum ancora non restaurato da Chipperfield. Ora queste sue emozioni si sono tradotte secondo il suo stile giocoso e irriverente in sei copie in gesso (ognuna delle quali abbellita con un paio di occhiali da sole molto trendy) collocate su altrettanti piedistalli bianchi, alla base dei quali occhieggiano le riproduzioni (fotografiche) di un altro simbolo di bellezza eterna come la Gioconda di Leonardo. Il tutto per testimoniare «il valore e l'importanza della donna nell'arte».
Intanto l'Arab Museum of Modern Art di Doha (il Mathaf) ha appena lanciato Tea with Nefertiti, mostra evento (fino al 31 marzo 2013) che vuole esplorare, in ottanta capolavori, il fascino esercitato dall'antico Egitto sulla modernità di van Dongen, Giacometti, Klee e Modigliani. E tanto per ribadire ulteriormente la modernità di questo fascino mette in campo, guarda caso, ancora una volta il fascino, nemmeno tanto indiscreto, della regina Nefertiti.

Corriere Salute 18.11.12
I neurochirurghi operavano già nella Roma imperiale
di Alice Vigna


Il suo nome oggi non lo conosce nessuno, non sappiamo neppure se era un maschietto o una femminuccia. Aveva cinque o sei anni e viveva nel II secolo dopo Cristo a Fidene, piccola cittadina a pochi chilometri a nord della Roma imperiale, sulla via Salaria. Erano gli anni di Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio; l'impero aveva raggiunto la sua massima estensione, le politiche interne erano improntate a tolleranza e buona amministrazione, erano state promulgato leggi a favore degli schiavi, tanto che gli storici hanno parlato di "buoni imperatori" e di "secolo d'oro" dell'impero romano. Fidene in quel periodo era una cittadina di campagna, con alcune ville di nobili ma per lo più abitata da contadini e pastori. Il bimbo era probabilmente figlio di uno schiavo o un liberto di uno dei proprietari terrieri della zona e, quando aveva cinque o sei anni, è stato operato alla testa da un medico che gli ha perforato il cranio in un intervento chirurgico delicatissimo. Il piccolo sopravvisse un mese o poco più. Quindi fu sepolto in una tomba di gente comune, tornata alla luce durante uno scavo a Fidene all'inizio degli anni 90.
Gli archeologi si resero subito conto di avere fra le mani un reperto davvero speciale, una delle rare testimonianze di trapanazione cranica nel mondo antico. Oggi, dopo vent'anni, il bambino di Fidene è uno dei fiori all'occhiello del Museo di Storia della medicina dell'Università La Sapienza di Roma. Il cranio, perfettamente conservato, è esposto assieme al resto dello scheletro ed è stata ricostruita la sepoltura come è stata rinvenuta nello scavo. Gli occhi dei visitatori si appuntano sull'enorme foro in testa: sembra incredibile che quasi duemila anni fa, senza antibiotici o anestesie, sia stato possibile un intervento simile. «Questo reperto è unico perché si tratta per ora della più antica prova di un trattamento chirurgico in qualche modo "palliativo", per gestire una malattia cerebrale grave: molto probabilmente il bambino aveva un tumore al cervello», racconta Valentina Gazzaniga, direttore del Museo romano.
Proviamo a tornare indietro nel tempo e immaginare che cosa possa essere successo al piccolo. Il suo cranio era più ampio della norma, con le ossa spinte dall'interno da una massa. Il bambino aveva probabilmente fortissimi mal di testa e sintomi gravi, dal vomito alle convulsioni, da crisi epilettiche a stati di torpore assoluto. Forse si è deciso di operarlo con un intervento difficile e pericoloso per tentare di lenire le sue sofferenze: il foro nel cranio e la rimozione di una parte di osso erano l'estremo tentativo di ridurre la pressione interna al cervello. Analizzando l'apertura, di circa cinque centimetri di diametro, i paleopatologi si sono accorti che sui bordi si era parzialmente riformato materiale osseo: segno che il bimbo è sopravvissuto almeno 30, 40 giorni dopo l'intervento, che fu certamente complesso e presumibilmente parecchio costoso. Com'è possibile che un bimbo di umili origini sia stato curato in questo modo? «A quel tempo il padrone era un pater familias, un padre di famiglia per i suoi schiavi e liberti — spiega Gazzaniga —. Aveva obblighi giuridici oltre che morali nei confronti di chi viveva nella sua domus e doveva occuparsi anche della salute dei figli dei propri sottoposti: il bimbo era probabilmente figlio di un liberto e il padrone si fece carico delle sue cure, verosimilmente inviandolo a Roma per l'intervento». Nella Roma imperiale il secondo secolo fu un'età d'oro anche per la medicina e la chirurgia, i medici eseguivano interventi tecnicamente difficili come la rimozione di calcoli, il trattamento di ernie o cataratta. «I chirurghi erano digiuni in tema di anestesia e disinfezione del campo operatorio, ma avevano molte conoscenze empiriche: davano al paziente l'oppio o il vino, lavavano gli strumenti chirurgici con acqua e aceto. Non molto, ma meglio di niente», dice Gazzaniga. Fu soprattutto il famoso medico Galeno a dare le raccomandazioni e le indicazioni per eseguire gli interventi chirurgici, compresi quelli di trapanazione del cranio. Galeno operava a Roma in quegli anni, aveva scritto diffusamente dell'operazione a cui fu sottoposto il bambino di Fidene e quindi, secondo alcuni, potrebbe essere stato addirittura lui a eseguire l'intervento. Non ci sono prove, ovviamente, ma colpisce leggere ciò che scrisse Galeno e immaginare cosa possa aver passato quel bambino, mentre il medico gli somministrava alcol e decotti di erbe sedative e allucinogene prima di usare il kykliskos, uno speciale scalpello adatto a tagliare le sottili ossa del cranio di un bimbo.
Stando alla ricostruzione dei paleopatologi, il medico aveva inciso con sicurezza l'osso identificando con buona approssimazione la zona del cervello più compromessa dalla malattia e anche quella dove sarebbe stato più sicuro intervenire, per ridurre al minimo la probabilità di emorragie. Lo scalpello aveva percorso una linea continua, a forma di U, e poi l'osso era stato sollevato e tolto: una tecnica diversa rispetto a quelle usate per la trapanazione in caso di fratture o traumi cranici dai medici dell'antichità, probabilmente scelta perché il paziente era un bambino. La ferita poi era stata fasciata e medicata secondo le ricette di Galeno: polvere delle radici di erbe varie, olio di rosa, sangue caldo di piccione o di colomba, polvere di coralli neri e una mistura di aceto, miele e sale marino in acqua piovana. Purtroppo la ferita dopo qualche tempo si infettò, come ha dimostrato l'analisi delle ossa vicine al foro: un'evenienza ovviamente molto frequente a quei tempi, che verosimilmente ha portato alla morte il bimbo in pochi giorni.
Nonostante questo tutte le analisi mostrano che di lui si presero cura medici competenti, che fecero di tutto per salvargli la vita: non ci sono segni di stress sulle ossa lunghe o sulla dentatura, segno che la malattia non aveva provocato danni considerevoli fino alla fine. Probabilmente, considerando la bassa estrazione sociale del bambino, oltre al chirurgo si occupò di lui un servus medicus, ovvero uno schiavo che aveva acquisito competenze mediche particolari e curava gli altri schiavi e i liberti. E oggi il bimbo di Fidene è una preziosa testimonianza, la prova che anche secoli fa i medici cercavano con compassione e determinazione di strappare alla morte i loro malati.

Repubblica 18.11.12
Archivio Tarkovskij
Scene di vita privata tra Mosca e l’esilio
Il nostro augurio è che tutto questo materiale straordinario non finisca nelle mani di un privato ma del pubblico
Era un genio, nessuno ha avuto un impatto sul cinema così profondo pur avendo girato soltanto sette film
di Enrico Franceschini


LONDRA Ingmar Bergman lo definiva «il più grande, colui che ha inventato un nuovo linguaggio cinematografico ». I festival più prestigiosi, da Cannes a Venezia, hanno ricoperto di premi i suoi film. E dire che ne ha girati poco più di mezza dozzina, da Andrej Rubliov a Lo specchio, da Stalker a Nostalghia, lasciando tuttavia un segno indelebile sulla settima arte, influenzando generazioni di cineasti. È durata troppo poco la vita terrena e artistica di Andrej Tarkovskij, il più importante regista russo, scomparso nel 1986 per un tumore ai polmoni, ad appena 54 anni, in esilio a Parigi, mentre in Unione Sovietica stava appena sbocciando la perestrojka di Gorbaciov, senza che lui avesse fatto in tempo a coglierne i frutti. Per questo ogni fotogramma, ogni riga di testo, ogni parola che ci ha lasciato, hanno il sapore di una reliquia, da conservare e studiare con febbrile eccitazione, perlomeno se uno ama il cinema. Di testimonianze del genere ne esistevano già: svariati documentari, tra cui uno prodotto in Italia, dove Tarkovskij visse parte dei suoi ultimi anni; un libro di teoria cinematografica, Scolpire il tempo, in cui definisce la sua idea estetica; i diari che iniziò a tenere dal 1970 fino alla morte, pubblicati in edizione integrale solo nel 2002 da una piccola casa editrice di Firenze, la città che lo aveva praticamente adottato. Ora a questi frammenti si aggiunge un piccolo tesoro: l’archivio personale del regista, centinaia di lettere, appunti, bozze di sceneggiature, fotografie, audiocassette.
Sarà venduto il 28 novembre a Londra da Sotheby’s: «In blocco, perché non sarebbe ammissibile disperdere un simile patrimonio culturale», dice Stephen Roe, capo del dipartimento manoscritti della celebre casa d’aste. Il prezzo di partenza è 80-100 mila sterline, circa 100-120 mila euro. «Sono probabilmente le uniche carte inedite di Tarkovskij rimaste in circolazione », afferma Roe. «Il nostro augurio è che siano acquistate da qualche museo o università, o da un generoso finanziatore privato che poi le doni a un’istituzione pubblica». Gli oligarchi russi che amano fare i mecenati nella capitale britannica non mancano.
L’archivio di Tarkovskij era in possesso di Olga Surkova, allieva, collaboratrice e amica del regista per lunghi anni. «Il fatto che Tarkovskij abbia avuto un impatto così profondo, pur avendo diretto soltanto sette film, è la prova del suo genio », commenta uno dei suoi fan, il regista americano Steven Soderbergh, che ha girato una nuova versione di Solaris con George Clooney nel ruolo del protagonista. Da dove venisse, tale genialità, non si è mai saputo con certezza: forse dal vento della taiga o da sotto la pesante coltre di neve che la ricopre d’inverno. Andrej Tarkovskij era nato in un piccolo villaggio sulle rive del fiume Volga, nel 1932, mentre l’Urss era sotto il tallone di ferro di Stalin. Veniva da una famiglia semplice: la madre, tipografa, religiosissima, fu forse lei a imprimere nel figlio lo spiritualismo visionario destinato a emergere nelle sue pellicole; il padre scappato via quando lui aveva appena tre anni, poi tornato brevemente alla fine della Seconda guerra mondiale, quindi di nuovo svanito. Da lì il giovane provinciale sovietico finisce a Mosca. Dapprima per studiare lingue orientali, ma non fa per lui. Accetta un lavoro con una spedizione di geologi nella taiga siberiana e il contatto con la natura selvaggia lo aiuta a ritrovare uno stimolo. Nel 1956, quando torna nella capitale, dove nel frattempo Krusciov ha sostituito Stalin e spira un’atmosfera di riforme, Andrej si iscrive alla Scuola superiore di cinematografia: il suo insegnante, esponente del realismo socialista fino ad allora imperante, riconosce le sue qualità e la sua originalità, incoraggiandolo a sperimentare. E il resto è storia (del cinema). Ma è una storia sofferta.
L’infanzia di Ivan, suo primo film, vince il Leone d’oro a Venezia nel 1962, scatenando però tali polemiche che per difenderlo deve intervenire Jean-Paul Sartre con un articolo sulle colonne dell’Unità. Con il secondo, Andrej Rubliov, che attraverso le gesta di un pittore di icone ricrea con pennellate oniriche il mito della Santa Madre Russia, della terra e della fede, scoppia un caso a Mosca, dove la pellicola sarà proiettata solo nel 1971, dopo severe restrizioni, nonostante i riconoscimenti ottenuti al festival di Cannes e gli elogi in tutto il mondo. È in quella occasione che Tarkovskij, disperato, invia un’accorata lettera personale a Leonid Breznev, il segretario generale del Pcus, leader supremo del Cremlino, invocandonel’intervento: edè uno dei reperti più interessanti dell’asta londinese (qui ne pubblichiamo un estratto, ndr). «Egregio Leonid Ilich! », gli scrive, «questo non è un film antisovietico, la prego, mi lasci lavorare». Non serve. Tarkovskij passa gli anni successivi tra l’Italia, dove gira Nostalghia, nella campagna senese, intorno al borgo di Bagno Vignoni, dove lavora con Tonino Guerra diventandone grande amico, la Francia e gli Stati Uniti. Infine sceglie la via dell’esilio. È il dissidente russo più famoso, insieme al premio Nobel per la letteratura Solgenitzin e al violoncellista Rostropovich. Proprio quest’ultimo suonerà la Suite per violoncello n. 2 di Bach al suo funerale, in una chiesetta ortodossa di Parigi. Michail Gorbaciov, su pressioni del presidente francese Mitterand, avrebbe voluto dargli una degna sepoltura in patria, ma la vedova si oppose e il più grande regista russo giace tuttora nel piccolo cimitero ortodosso di Sainte-Genevieve-de-Bois.

Repubblica 18.11.12
“Caro Breznev, lasciami lavorare”
di Andrej Tarkovskij


Egregio Leonid Ilich! Contando sulla Sua sincera premura per i destini del cinema sovietico ho deciso di rivolgermi a Lei per chiederLe di aiutarci a trovare uno sbocco a questa situazione difficile, persino tormentosa, che si è creata attorno al nostro film
Andrej Rubljov.
È già da tre anni e mezzo che questo film non viene autorizzato a essere proiettato sui nostri schermi. È da tenere presente che in questi anni la troupe cinematografica ha rifatto tre volte alcune scene del film: ma il Comitato per gli affari della cinematografia, che per tre volte ha firmato gli atti di accettazione del girato, per tre volte li ha poi annullati.
Durante questi anni, e senza alcuna mia influenza, Andrej Rubliov è stato venduto all’estero. E come testimoniano gli articoli di stampa allegati a questa lettera il film ha provocato un fiume di parole di benevolenza, rispetto ed ammirazione non solo nei nostri confronti ma soprattutto nei confronti di tutto il Paese. Andrej Rubliov non può in alcun modo essere utilizzato in chiave propagandistica anti-sovietica. Ho una moglie e un figlio, se non lavoro non posso vivere. Mi imbarazza ricordarLe ciò, ma la mia situazione è rimasta immutata per così tanto tempo che non posso più permettermi di tacerla.

Repubblica 18.11.12
Ecco perché il capitalismo mette in crisi la natura
di Antonio Gnoli


Natura e capitalismo, forme considerate indistruttibili, sono oggi gravemente minacciate. Nel giro di pochi decenni i due grandi scudi, dietro i quali ci siamo garantiti un’esistenza assai più accettabile che non in passato, si sono incrinati. Incrociando le letture di Sull’orlo del baratro (Alain de Benoist, Arianna editrice) e della Crisi spirituale dell’uomo moderno (Seyyed Hossein Nasr, pubblicato da Medusa) si nota un nesso tutt’altro che casuale tra le due crisi. I disastri fluviali che si abbattono sulle nostre regioni e l’avvitarsi di una crisi finanziaria senza precedenti e con effetti imprevedibili sulle piazze scoprono la debolezza del nostro agire. La precarietà e l’inconsistenza dei nostri progetti. Votati il più delle volte a una verbosità intollerabile.
Nasr – che fu allievo di Giorgio de Santillana – suggerisce una prospettiva tradizionale, dove la grande mistica occidentale di Böhme ed Eckart si ricongiunga con il pensiero orientale e islamico. Riabiliti quell’amore e rispetto per la natura senza i quali l’uomo contemporaneo è destinato al fallimento. Bello ma inapplicabile, dicono con qualche ragione i detrattori. Eppure, da qualche parte occorre iniziare a inculcare qualche principio di osservanza che non parta dalla legge, ma dall’educazione, da quel sentire comune oggi svanito. Crisi ecologica e crisi economica vanno di pari passo. In un abbraccio che può diventare mortale. De Benoist mostra come il “sistema denaro” abbia fallito il proprio compito. Ce ne è uno di riserva? C’è chi punta sul reddito di cittadinanza, un “welfare” che coinvolga tutti. Dubitiamo dell’esito. Anche se, con ogni evidenza, indignarsi non basta più.

Repubblica 18.11.12
Bertolucci e Bellocchio stroncati eccellenti
di Vera Schiavazzi

Una recensione di SBATTI BELLOCCHIO IN SESTA PAGINA
a cura di Steve Della Casa e Paolo Manera
Donzelli, pagg. 228, euro 18
nelle edicole

Repubblica 18.11.12
Kentridge
Macchine, musica, video e disegni l’arte combatte l’entropia del tempo
di Achille Bonito Oliva


Eroe proprio portatore del tempo è William Kentridge, che si presenta a Roma con una mostra al MAXXI ed uno spettacolo al Teatro Argentina, per il Roma Europa Festival. Ironico Sisifo moderno, si carica sulle spalle tutti i linguaggi: teatro, disegno, fotografia, animazione, musica, danza cinema, performance, gesto e parola. Insomma arte totale. Attraverso questo palinsesto stilistico l’artista sudafricano mette in opera ed in scena l’inarrestabilità del tempo e la nostra scomparsa. Mostra e spettacolo concorrono entrambi a rappresentare un tema caro a tutte le avanguardie, quello dell’entropia, frutto del secondo principio della termodinamica che evidenzia l’inevitabile perdita di energia che accompagna la vita del nostro pianeta.
La mostra (a cura di Giulia Ferrazzi, fino al 3 marzo 2013) porta il titolo Vertical Thinking ed include serigrafie, disegni, maquette e sei opere in collezione del MAXXI realizzate tra il 1998 ed il 2012. Kentridge contesta la linearità progressiva del tempo, la verticalità di un movimento che spinge la vita verso un falso futuro lineare. Egli chiede all’arte invece di produrre una curvaturadel tempo, muovendosi anche a ritroso e sfuggendo alla feticistica visione di un mondo garantito dall’ottimismo della tecnologia. I personaggi ripresi in queste opere appartengono a diversi ambiti del mito, dell’arte e della storia: la figura di Perseo e di Medusa, Il Flauto magico di Mozart, Il ritorno di Ulisse di Claudio Monteverdi, la figura di Zeno, Ubu Roi di Alfred Jarry. La Storia trova in tal modo la possibilità di un cammino molteplice, un Tempo che avvolge la propria pellicola su se stesso e ritrova nel suo percorso a ritroso la possibilità di essere rappresentato attraverso la ripresa artigianale di alcune tecniche legate all’animazione (con progressive cancellazioni) o all’evocazione di un cinema all’esordio del muto.
The Refusal of Time presentata prima a Kassel è sicuramente nella sua multimedialità l’opera più avanzata dell’artista, una riflessione sul concetto di entropia approfondito con il fisico della scienza Peter L. Galison e la coreografia di Dada Masilo, ballerina sudafricana che interpreta il balletto classico rivitalizzandolo in chiave tribale. La multimedialità dell’opera in questo caso evidenzia il naturale disordine a cui il mondo è destinato e Kentridge lo evidenzia con l’uso arcaico dell’animazione, cinema,
fotografia, disegno, a rappresentare una identità antropologica che aggancia il presente al passato remoto, ben enfatizzato dall’uso arcaico e volutamente primitivo dei mezzi espressivi.
Ecco un modo di combattere l’entropia: dare un ordine alla comunicazione calibrando il disordine intrecciato dei linguaggi e accompagnare lo spettatore in un flusso di immagini che, attraverso la musica, produce una sorprendente iconografia stereofonica. Quasi tutte le opere di grafica e di animazione costituiscono un vero e proprio mosaico che Kentridge ha realizzato a partire dalla storia del proprio paese. Realizza la drammatica saga di un personaggio chiamato Soho Eckstein, un avido e miserabile capitalista che sfrutta, approfittando delle ingiustizie razziali, il lavoro operaio nelle miniere. A lui si oppone il solitario e melanconico Felix Teitlebaum. Quest’opera si accompagna a Felix in Exile (1994) che segna anche la data delle prime elezioni democratiche in Sudafrica. Metafora forse della condizione dell’artista costretto, come diceva Rimbaud, ad avere sempre un posto da cui andar via. Il tono fiabesco della sua produzione trova una amplificazione nell’evocazione sorprendente di improvvisi object trouvè che ingombrano la nostra visione: per esempio una enorme macchina leonardesca che dialoga con ruote di bicicletta, megafoni cilindrici sincronizzati da giganti metronomi proiettati sulle pareti. La grande installazione, ripensata per il MAXXI è accompagnata dalle musiche di Philip Miller e l'elaborazione video di Catherine Meyburgh. Qui il disordine trova nel momento installativo una sua amplificazione che sgombra la nostra vista da ogni luogo comune. L’offerta di una sosta che massaggia il muscolo atrofizzato della nostra vista codificata da un tempo irregimentato dal principio di utilità. Ecco allora che il Tempo si incrocia con i luoghi, si fa spazio, come si vede nello spettacolo al teatro Argentina. «Spazio è essenzialmente ciò che è sgombrato, ciò che è posto entro i suoi limiti... gli spazi ricevono la loro essenza non dallo “spazio” ma dai luoghi». (Martin Heidegger, Costruire, abitare, pensare, 1954). Da qui l’uso continuo della cartografia, mappe che descrivono molteplici geografie, da parte di un artista che si confronta con il mondo contrapponendo un disordine esemplare ai disordini del mondo. L’arte contro l’entropia del tempo.

Repubblica 18.11.12
Estetica
Crisi e rinascita del bello secondo la saggista americana, che dice: “l’avanguardia è morta” Il futuro è dei nuovi artigiani
I linguaggi di Pollock e Rothko oggi sono ignorati
Il mio idolo Andy Warhol ha ucciso l’arte Solo il design manuale può farla risorgere
di Camille Paglia


L’arte ha un futuro? I generi artistici che implicano un’esibizione in pubblico – per esempio l’opera lirica, il teatro, la musica e il balletto – prosperano in tutto il mondo, ma le arti visive sono in lenta decadenza da quasi quarant’anni. Nella pittura e nella scultura non si è affermato alcun personaggio prestigioso e influente sin dal dissolversi della Pop Art e dalla nascita del Minimalismo nei primi anni Settanta. Tuttavia, in campo architettonico – un ambito palesemente commerciale – si continuano a realizzare opere audaci, originali e di stupefacente bellezza. Esempi ragguardevoli sono il Guggenheim Museum di Bilbao, realizzato in Spagna da Frank Gehry, il quartiere generale della CCTV di Rem Koolhaas a Pechino, e il Centro acquatico londinese progettato da Zaha Hadid per i giochi olimpici della scorsa estate.
Di preciso, che cosa ha minato la creatività artistica e l’innovazione nel campo delle arti? Possiamo individuare due cause principali, la prima delle quali è da ricondursi all’espandersi della forma, mentre la seconda è riconducibile al contrarsi dell’ideologia.
La pittura è stata il genere artistico più prestigioso nell’ambito delle belle arti dal Rinascimento in poi, ma è stata destituita dalla spavalda rivoluzione multimediale degli anni Sessanta e Settanta. Poco alla volta la permanenza ha smesso di essere l’obiettivo ultimo del fare arte.
Sussiste però una questione più ampia: che cosa hanno da dire gli artisti contemporanei, e a chi lo stanno dicendo? Sventuratamente, troppi artisti hanno perso i contatti con il pubblico in genere e si sono ritirati in camere di riverberazione prive d’aria. Il mondo dell’arte, al pari delle facoltà umanistiche, soffre di un’ortodossia politica monolitica, un liberalismo da classe medio-alta ben lontano dall’impetuosa politica anti-establishment di sinistra degli anni Sessanta. (E ne parlo da democratica liberal che nel 2008 ha votato per Barack Obama.) Il disincantato laicismo liberale odierno prende origine anche dalla rispettosa esplorazione delle religioni del mondo che ha caratterizzato gli anni Sessanta. Gli artisti oggi conquistano l’attenzione generale riproducendo gli stessi traumatici gesti di esibizionismo sessuale o sacrilego ritenuti un tempo azzardati. Questa tendenza ha avuto inizio oltre venti anni fa, quando Andres Serrano presentò Piss Christ (“Cristo di piscio”), la fotografia di un crocifisso di plastica inserito in un flacone pieno della sua urina, e si è caratterizzato in tempi più recenti con
My Sweet Lord (“Mio dolcissimo Signore”) di Cosimo Cavallaro, una statua a grandezza naturale di Cristo nudo, crocifisso, scolpita nella cioccolata e destinata per la Settimana Santa a essere esposta nella vetrina di una galleria che si affacciava su una strada di Manhattan. In ogni caso, musei e gallerie non tollererebbero mai sacrilegi altrettanto sprezzanti dell’ebraismo o dell’islamismo.
È giunta definitivamente l’ora per il mondo dell’arte di ammettere che l’avanguardia è morta. È stata uccisa dal mio idolo, Andy Warhol, che inglobò nella propria arte tutto il vistoso immaginario commerciale del capitalismo (come le lattine di zuppa Campbell) che fino a quel momento la maggior parte degli artisti aveva ostinatamente disdegnato.
Questa identica vulnerabilità di studenti e facoltà nei confronti della fittizia teoria sulle arti è in buona parte dovuta alla deriva borghese dell’ultimo mezzo secolo. La nostra base industriale deplorevolmente ristretta sottintende che i giovani che oggi si avviano all’università ormai hanno un contatto soltanto sporadico con i mestieri manuali, che con la lavorazione tecnica artistica condividono competenze, metodi e materiali.
Warhol, per esempio, era cresciuto nella città industriale di Pittsburgh, prendendone in prestito e portando alla Factory – così chiamava il suo studio newyorchese – il procedimento commerciale della serigrafia che utilizzò per le sue creazioni artistiche. Con il trasferimento oltreoceano degli stabilimenti produttivi, un numero impressionante di città e cittadine americane – in passato sedi di fabbriche – ha perso giro d’affari e abitanti, e sta facendo molta fatica a evitare la rovina. Ciò vale sicuramente per la mia stessa città natale, Endicott nello stato di New York, centro un tempo attivo e laborioso nel quale la mia famiglia era emigrata per lavorare nelle fabbriche di scarpe oggi scomparse. A quei tempi, quando attrezzi, macchinari e forniture industriali dominavano la vita di tutti i giorni, il lavoro manuale era a uno stesso tempo la regola e un ideale.
Perché le arti possano tornare a nuova vita negli Stati Uniti, i giovani artisti devono essere salvati dai loro sterili retroterra da classe media. Dobbiamo tornare a dare valore alle attività manuali così da consentire agli studenti di entrare in quei settori senza alcuno stigma sociale (spesso dovuto a genitori che aspirano al falso status conferito da un adesivo dell’Ivy League attaccato sul paraurti dell’automobile). Tra i miei studenti dell’istituto d’arte, per esempio, ho conosciuto ebanisti di talento che già si procuravano un reddito fabbricando mobili come artigiani. Gli artisti dovrebbero imparare a considerarsi imprenditori.
La creatività, infatti, sta prosperando liberamente nelle arti applicate, prima di ogni altra cosa nel design industriale. Negli ultimi venti anni ho notato che tra i miei studenti le menti più flessibili, dinamiche, e indagatrici appartenevano a chi aveva scelto la specializzazione in design industriale. I designer industriali sono creativi, privi di ideologia e banalità, e sono preparati a osservare da vicino il mondo commerciale che – lo si voglia o meno – è la realtà odierna.
Il capitalismo ha i suoi difetti, ma è proprio esso ad aver posto fine alla stretta mortale delle aristocrazie ereditarie, ad aver elevato lo standard di vita nella maggior parte del pianeta e ad aver consentito l’emancipazione femminile. La diffamazione di routine del capitalismo, effettuata da personaggi di sinistra che occupano le poltrone delle accademie e dei media mainstream, ha estromesso i giovani artisti e intellettuali dalle vere energie culturali della nostra epoca.
Nel secolo scorso, il design industriale ha costantemente recuperato terreno rispetto alle belle arti per sorpassarle adesso nell’impatto culturale. Nell’epoca dei viaggi e della velocità che è iniziata proprio a ridosso della Prima guerra mondiale, le macchine sono diventate sempre più piccole ed eleganti. Le linee aerodinamiche, messe a punto per le auto da corsa, i treni, gli aeroplani, i collegamenti transoceanici, sono state impiegate negli anni Venti per gli elettrodomestici, come aspirapolvere e lavatrici. Le levigate colonne bianche dei frigoriferi elettrici – che sostituirono i trabiccoli per fare il ghiaccio – hanno incarnato il nuovo elegante minimalismo.
«La forma segue sempre la funzione» disse Louis Sullivan, l’architetto visionario di Chicago che anticipò il Bauhaus. Questa massima fu il presupposto teorico del boom della elegante decorazione di interni, delle macchine per ufficio e di quelle elettroniche del secondo dopoguerra: le macchine da scrivere Olivetti, gli amplificatori hifi, le radio portatili a transistor, le tv dell’era spaziale, i telefoni celesti Princess. Con la rivoluzione digitale è arrivata poi la miniaturizzazione: il computer desktop Apple non presentava più somiglianza alcuna con i mastodontici mainframe che un tempo occupavano una stanza intera. E i cellulari portatili hanno assunto dimensioni tali da essere messi in tasca.
La gioventù contemporanea è entusiasticamente immersa in questo ambiente ipertecnologico, nel quale le prime esperienze estetiche iniziano proprio da un design industriale meravigliosamente progettato. Le apparecchiature portatili personalizzate sono le loro lettere, i loro diari, i loro telefoni e i loro giornali, come pure i loro canali di accesso ventiquattro ore su ventiquattro a musica, video e film. Ma a differenza delle grandi opere d’arte, in un iPhone non vi è alcuna dimensione spirituale.
Viviamo dunque in una cultura bizzarra, contraddittoria, nella quale gli studenti universitari più dotati sono ideologicamente indottrinati a disprezzare il sistema economico che rende possibile la loro libertà, con agi e privilegi. Nel regno delle arti e delle lettere, la religione è liquidata come reazionaria e fuori moda. Il linguaggio spirituale di pittori astratti di grande livello come Piet Mondrian, Jackson Pollock e Mark Rothko è ignorato o soppresso.
Di conseguenza, i giovani artisti sono stati traditi e ostacolati dai loro colleghi più anziani ancor prima che le loro carriere avessero inizio. C’è davvero di che stupirsi se le nostre belle arti si sono spopolate?
(Traduzione di Anna Bissanti) © 2012, The Wall Street Journal