martedì 20 novembre 2012

l’Unità 20.11.12
Cento morti in sei giorni a Gaza
Riservisti già schierati ai confini
La lista delle vittime diffusa da una blogger: «Non siamo solo numeri»
di U.D.G.


Rinan Arafat, 7 anni. Omar Al-Mashharawi, 11 mesi. Walid Al-Abalda, 2 anni. Hanin Tafesh, 10 mesi. Oday Jammal Nasser, 16 anni. Fares Al-Basyouni, 11 anni. Mohammed Sa`d Allah, 4 anni. Gumana Salamah Abu Sufyan, 1 anno. Tamer Salamah Abu Sufyan, 3 anni... Non sono numeri gli oltre 100 palestinesi morti nei primi sei giorni dei raid aerei israeliani su Gaza. Ognuno di loro, ha un volto, un nome, una storia. Una giovane blogger palestinese residente a Gaza, Shahd Abusalama, ha deciso di pubblicare i nomi e l’età delle persone uccise nei raid aerei israeliani. «Siccome non siamo solo numeri, continuate a seguire questo post sui nomi ed età delle persone assassinate, vittime nei giorni scorsi degli attacchi israeliani a Gaza da mercoledì», ha scritto Abusalama sul blog.
Mentre al Cairo si tratta, a Gaza si continua a morire. In cinque giorni di attacchi i feriti sarebbero oltre 700. Lunedì mattina l’offensiva israeliana contro i gruppi palestinesi avrebbe mietuto oltre dieci vittime. In mattinata quattro persone sono state uccise in un quartiere di Zeitun, nella città di Gaza: fra le vittime 2 ragazze di 20 e 23 anni e un bambino di 5 anni. Altri tre palestinesi, tutti membri della stessa famiglia, sono morti quando l’auto sulla quale viaggiavano è stata colpita nei pressi di Deir al-Balah, zona centrale del territorio palestinese. Un’altra vittima è un agricoltore di 50 anni, ucciso dai bombardamenti su Beit Lahiya, nel nord della Striscia. Altri 2 sono morti durante un raid su Qarara, ad est di Khan Yunes, nel sud della Striscia.
Almeno 18 bambini palestinesi hanno perso la vita e 252 sono quelli rimasti feriti dall’inizio delle ostilità a Gaza, e ci sono bambini anche tra i 50 civili israeliani feriti: questi i dati dell’Unicef aggiornati alle ore 15,00 di ieri. Ma il bilancio delle vittime, avverte l’organizzazione, si aggrava di ora in ora. L’Unicef esprime la sua profonda preoccupazione per il deteriorarsi della situazione e per l’impatto che essa ha sull’infanzia sia a Gaza che in Israele.
A Gaza, secondo l’organizzazione, desta allarme soprattutto la situazione sanitaria: gli ospedali sono sovraffollati a causa dell’afflusso continuo di feriti e le scorte di alcuni farmaci si sono rapidamente esaurite. L’Unicef sta predisponendo l’invio, dal suo centro logistico di Copenaghen, di scorte di emergenza per 14 farmaci di base. In queste ore, secondo l’agenzia per l’infanzia delle Nazioni Unite, le condizioni di sicurezza non consentono interventi umanitari all’interno di Gaza, anche se 5 team di psicologi dell’organizzazione stanno visitando ospedali e abitazioni private per fornire assistenza ai bambini che hanno subito shock o hanno assistito a scene violente.
L’ATTACCO AL CENTRO MEDIA
Anche uno dei media center di Gaza City è stato colpito e almeno 4 persone sono morte, mentre diverse altre sono rimaste ferite. Si tratta di un complesso già colpito nella notte fra sabato e domenica e che ospita anche alcune redazioni giornalistiche straniere e gli studi di Al-Aqsa tv, canale di Hamas. Fra le vittime del media center c’è anche Ramez Harb, il leader delle brigate Al Quds, braccio armato della Jihad islamica. E si conta anche un primo morto in Cisgiordania: si tratta di un palestinese identificato come Rushdi al-Tamimi, 31 anni. Era stato ferito gravemente dai colpi di arma da fuoco sparati dalla polizia di frontiera dello Stato ebraico mentre partecipava a una manifestazione di solidarietà con la popolazione della Striscia nel villaggio di Nabi Saleh, una quindicina di chilometri a nord-ovest di Ramallah.
La Striscia di Gaza assomiglia ormai a una «giungla di fuoco», dove la morte sembra in agguato ovunque: negli edifici governativi come nelle basi delle milizie; nello stadio di calcio come nel Media Center al-Shoruq; nei campi agricoli vicini al confine, sulle strade dove chi cavalca una motocicletta desta immediato sospetto e rischia di diventare un obiettivo di droni o aerei israeliani. Le statistiche delle vittime vengono aggiornate di ora in ora.
Dopo una notte di relativa calma nel sud di Israele, decine di razzi sono stati lanciati di nuovo verso il Negev ed uno è esploso vicino una scuola ad Askhelon, senza grandi conseguenze. L’altra notte e per tutta la mattinata di ieri, Israele ha continuato a bombardare i «siti del terrore» (postazioni per il lancio dei razzi, tunnel e campi di addestramento). Almeno ottanta gli obiettivi colpiti, tra cui anche edifici dei militanti di Hamas, tunnel per il traffico di armi tra Gaza e Rafah e lo stadio usato come base missilistica. Dall’inizio dell’offensiva, lanciata mercoledì, sono oltre 540 i razzi lanciati da Gaza e caduti in territorio israeliano.
Un comunicato del portavoce militare precisa che dall’inizio dell’operazione, l’aviazione israeliana ha colpito 1.350 «siti terroristici». Dei 75.000 riservisti israeliani richiamati in servizio per l’eventuale offensiva di terra nella Striscia di Gaza, già 40.000 sono schierati lungo il confine dell'enclave costiera, con decine di carri armati e blindati in attesa di ordini. A riferirlo è la radio israeliana. Tutto è pronto per l’invasione. A meno che al Cairo le trattative in corso per la tregua non arrivino a buon fine.

l’Unità 20.11.12
Nabil Shaath: «L’Onu si faccia garante con una forza d’interposizione»
Consigliere diplomatico di Abu Mazen, è stato ministro degli Esteri dell’Anp. È responsabile delle relazioni internazionali di al Fatah
di U.D.G.


È l’uomo delle trattative segrete che portarono agli accordi di Oslo-Washington immortalati dalla storica stretta di mano sul prato della Casa Bianca tra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin. D’allora, è stato tra i protagonisti di tutti i passaggi negoziali che hanno segnato il Medio Oriente. Ex ministro degli Esteri dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), responsabile delle relazioni internazionali di al Fatah, primo consigliere diplomatico del presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen), Nabil Shaath è la persona più indicata per fare il punto sulla nuova crisi di Gaza, sospesa tra l’incubo dell’offensiva di terra di Tsahal e la speranza di una tregua: «L’Anp rimarca Shaath non è direttamente coinvolto nelle trattative in corso. Siamo però informati costantemente e quello che posso dire è che si sta negoziando seriamente, anche se le questioni da risolvere sono ancora diverse e molto complesse». «La cosa più importante ora sottolinea il dirigente palestinese è porre fine alle sofferenze della popolazione di Gaza. Il diritto di difesa invocato da Israele non giustifica la morte di decine di civili, tra i quali donne e bambini». Shaath chiama in causa la comunità internazionale: «L’Onu dice si faccia garante del rispetto di un cessate-il-fuoco anche con una forza d’interposizione sul campo». Al Cairo si continua a negoziare, mentre a Gaza proseguono i raid aerei israeliani. «Sono ore decisive per scongiurare una nuova invasione di Gaza da parte israeliana. Se fosse per l’Egitto e per la popolazione della Striscia, la tregua sarebbe raggiunta in un’ora. Ma c’è chi spinge per una prova di forza militare. Una scelta irresponsabile».
Israele chiede una tregua pluridecennale, Hamas la fine delle «eleminazioni mirate»...
«Ciò che Israele sta facendo a Gaza va oltre l’esercizio del diritto di difesa. Le “eliminazioni mirate” vanno contro il diritto internazionale e la stessa Convenzione di Ginevra. Ciò che va ristabilito a Gaza, come in tutti i Territori occupati è la legalità internazionale. È ciò che l’Anp chiede. Fermare le armi e riaprire un percorso negoziale che chiarisca da subito il suo sbocco».
E per l’Autorità nazionale palestinese quale dovrebbe essere questo sbocco?
«Per quanto ci riguarda, continuiamo a credere nella soluzione “due Stati”. Ed è proprio per questo che abbiamo inteso giocare la carta diplomatica, chiedendo all’Assemblea generale delle Nazioni Unite di riconoscere la Palestina come Stato non membro dell’Onu».
Il governo Netanyahu considera questa iniziativa come un atto unilaterale. «Unilaterale è la politica che i governati israeliani hanno perseguito sistematicamente in tutti questi anni, a cominciare dalla colonizzazione di Gerusalemme est e della Cisgiordania. Sostenere la nostra richiesta rafforza l’Anp e la strategia negoziale e lancia un messaggio di speranza al popolo palestinese. D’altro canto, non possiamo subire ulteriormente la politica dell’eterno rinvio portata avanti da Netanyahu e Lieberman. Il mondo deve pronunciarsi. Per questo, come ha ribadito nei giorni scorsi il presidente Abbas, presenteremo il 29 novembre la nostra richiesta al Palazzo di Vetro chiedendo che sia votata. Non chiediamo un voto contro Israele, ma un voto per rafforzare la prospettiva di una pace fondata sul principio “due Stati per due popoli”».
Da più parti, in campo palestinese, si chiede ad al Fatah e Hamas di mettere da parte le ragioni della divisione per ritrovare l’unità.
«Le bombe israeliane non distinguono trachièdiHamasochièdiFatah.Le bombe non chiedono la carta d’identità a quanti vengono colpiti. Nell’emergenza l’unità è un obbligo a cui nessuno deve venir meno. Al tempo stesso, però, è doveroso indicare con quale strategia s’intende portare avanti la causa palestinese e quale obiettivo s’intende realizzare. Per noi, l’obiettivo è quello di realizzare lo Stato di Palestina sui territori occupati nel 1967. Uno Stato con Gerusalemme est come sua capitale». Il Cairo è in queste ore il crocevia diplomatico mediorientale. Qual è il rapporto con la nuova leadership egiziana e con il presidente Mohamed Morsi?
«Un rapporto strettissimo. L’Egitto continuerà ad essere il nostro ponte verso il mondo arabo; un mondo che chiede giustizia per i palestinesi. E senza giustizia la pace è una parola vuota». La tregua può bastare per Gaza?
«No, ma è un passaggio decisivo per arrivare alla fine dell’assedio. Gaza deve tornare a vivere».

l’Unità 20.11.12
La Ue s’impegni per uno Stato palestinese
di Franco Rizzi


L’EUROPA GUARDA MA NON VEDE. RISPETTO A QUELLO CHE STA SUCCEDENDO NEL MEDITERRANEO, L’EUROPA NON È SOLAMENTE ASSENTE PERCHÉ GUARDA E SI PREOCCUPA DELLE CRISI FINANZIARIE CHE L’ATTRAVERSANO. Non vede perché tutti gli schemi mentali attraverso i quali ha sempre visto il Mediterraneo sono definitivamente caduti.
L’Europa e l’Occidente non possono parlare più di esportazione della democrazia, l’Europa e l’Occidente non possono più parlare di scontro delle civiltà, l’Europa e l’Occidente non possono più far riferimento a tutti i luoghi comuni con in quali ha nutrito l’opinione pubblica. Possiamo forse dire che tutti i nodi che non sono stati sciolti dal colonialismo ad oggi stanno venendo al pettine. L’Europa ha guardato al Mediterraneo con una mentalità in cui l’eurocentrismo è sempre stato lo schema logico con cui trattare gli avvenimenti del Mediterraneo.
Le rivolte arabe hanno fatto saltare tutta questa organizzazione mentale e concettuale. L’Europa si ritrova povera, nuda.
E la stessa cosa possiamo dire rispetto a quello che sta succedendo a Gaza. Questa ripresa del conflitto tra Israele e Palestina ha origini antiche, origini dovute a una politica sbagliata dell’Occidente e del mondo arabo, i cui effetti si fanno sentire ancora oggi e coloro che avevano immaginato che la questione palestinese sarebbe passata in secondo piano causa
delle rivolte arabe, si sono accorti che così non è.
Ma tutto questo è derivato dal fatto che le rivolte arabe hanno rotto l’equilibrio tra una classe dominante che ha pensato soltanto all’arricchimento e alla gestione del proprio potere e i cittadini che hanno rivendicato giustizia ed equità sociale. Le rivolte arabe non potevano non contagiare anche i palestinesi, i quali hanno due obiettivi. Uno è un obiettivo interno: il governo di Abu Mazen è abbastanza contestato e incapace di portare avanti rivendicazioni. L’altro riguarda la liberazione della loro terra da un Paese occupante. Il governo Netanyahu in tutti questi anni ha sostenuto le rivendicazioni dei coloni israeliani senza rendersi conto del vicolo cieco in cui stava spingendo Israele.
La scommessa di portare un’attacco da terra a Gaza sarà devastante per i palestinesi ma altrettanto devastante perché Israele sarà sempre più isolato.
Tutti i commenti di questi giorni ribadiscono un principio che astrattamente è comprensibile e cioè che Israele ha il diritto di reagire agli attacchi delle frange più estreme dei palestinesi di Gaza. Ma come non accorgersi che la situazione di deterioramento della situazione in Palestina è dovuta anche a una politica sbagliata del governo Netanyahu e della assenza di una capacità di intervento da parte dell’Europa e dell’America? Non si può più ignorare la centralità della questione palestinese se si vuole avere una prospettiva di pace nel Mediterraneo. Bisogna che l’Occidente si impegni per la costituzione di uno stato Palestinese.
Io credo che fondamentalmente questo non sia ancora alla portata né dell’Occidente, né di Israele. Quindi il problema oggi come oggi è estremamente complesso e va ricordato che mette in gioco non solamente il discorso tra Israele e Palestina, ma anche il fatto che le vecchie forze politiche che hanno governato la Palestina sono di fatto sorpassate dagli avvenimenti.
Le contestazioni al governo Abu Mazen in Cisgiordania sono una prova evidente, come una prova evidente è il fatto che Hamas è sempre più scavalcata dalla Jihad islamica, è sempre più scavalcata dai salafiti.
Al di là di qualsiasi discorso ideologico va detto che è in gioco la dignità del mondo. Chi vive a Gaza, chi vive in Palestina si rende perfettamente conto che i palestinesi non hanno una vita reale.
*ordinario di Storia dell’Europa e del Mediterraneo, Università Roma Tre

il Fatto 20.11.12
Israele, cento morti per vincere le elezioni
di Maurizio Chierici


IL MESSAGGIO di un’amica che vive a Tel Aviv fa sapere quali sono le condizioni che una parte e l’altra propongono per la tregua. Israele chiede il controllo sui rifornimenti che dall’Egitto arrivano a Gaza, 15 anni di tranquillità e libertà di eliminare leader pericolosi con assassini mirati. Hamas pretende la riapertura e gestione del porto che Gerusalemme controlla. Arbitro di pace: il presidente egiziano Muri, avvolto nel sospetto che una certa Washington stia tramando per collaudare la moderazione dei Fratelli musulmani. Proposte contestate, il fuoco continua. Due anni fa avevo pregato amici ebrei milanesi (con i quali condivido la speranza di una pace “normale”) di confortare le voci di chi trema in Israele per la violenza che coinvolge nella responsabilità dei governi il buonsenso di cittadini incolpevoli e ricattati dalla paura agitata appena una crisi politica divide il paese. Tacere non aiuta la ragione di fronte alle violenze quotidiane dell’espropriare le terre di chi da secoli abita lì, violazione al diritto internazionale e a decisioni Onu mai rispettate. L’indignazione che avvilisce la coscienza della diaspora perseguitata da una tragedia che ci copre di vergogna, dovrebbe scoppiare ogni volta che migliaia di famiglie vengono strappate dalle loro case requisite nel nome di una “sicurezza” da trasformare in palazzoni per “coloni” arrivati chissà da dove. L’obiettivo è rendere impossibile lo Stato palestinese e suscitare rabbie esplosive da contenere come stiamo vedendo. Alla vigilia dell’attacco a Gaza e della reazione di chi ha i razzi contati e irosamente sfida superarsenali nutriti dalle solite potenze; ancor prima che il primo ministro Netanyahu cogliesse al volo la reazione calcolata per scatenare il finimondo, Gideon Levy recensisce su Ha’aretz (ripreso da ’Internazionale) il documentario girato in un villaggio palestinese: giardini d’ulivi requisiti per costruire nuove colonie. “Film che farà vergognare ogni israeliano dotato di un minimo di onestà”. Racconta di una casa sgomberata nella notte, sempre per sicurezza. Bambini trascinati in strada e la voce di un tenente che dà ordini come chi non oso dire. Ha’aretz è il giornale che fa capire lo spirito di un Israele diverso dalle catastrofi dei protagonisti di oggi. Salviamolo.
QUALCHE GIORNO fa Avidgor Liberman, ministro degli Esteri alla Borghezio, annunciava alla signora Ashton, ministro della Commissione europea: “Se i palestinesi insistono nel voler lo Stato (disegnato dall’Onu) distruggeremo la loro Autorità e bombarderemo Gaza”. Arriva prima Netanyahu, capo del governo dimissionario: si vota e ha bisogno delle sirene della guerra per dimostrare ai falchi di Lieberman che i palestinesi lui li tratta così. Sperava nella vittoria del Romney bombe e cannoni, ma l’Obama in difficoltà per il “precipizio fiscale”, Cia decapitata, Segreteria di Stato senza segretario, è debole al punto giusto per scatenare l’inferno: palestinesi bersagli comodi e necessari. Cari amici ebrei, pacifisti sgomenti, è ancora possibile far finta di niente?

il Fatto 20.11.12
Voto 2013. Parla il giurista Pellegrino
L’avvocato anti-Polverini sull’election day
“Il Quirinale fa il gioco del Pdl”
Il Colle condiziona i giudici
di Paola Zanca


L’avvocato che difende i cittadini del Lazio, che chiedevano al Tar di votare subito, se prende con Napolitano che ha accorpato le consultazioni regionali e politiche: “Dopo le parole del presidente i giudici non possono decidere serenamente”- Sono sorpreso come cittadino, come giurista, come avvocato. Si è creato un corto circuito e la serenità di tutte le istituzioni rischia di esserne travolta”. Gianluigi Pellegrino è il legale che ha difeso davanti al Tar del Lazio il movimento di cittadini che chiede a Renata Polverini, presidente dimissiona-ria della Regione, di tornare subito alle urne. Davanti al Tar ha vinto. Ma adesso si ritrova contro le più alte cariche dello Stato: il governo e il Presidente della Repubblica che, 4 giorni fa, con un comunicato, ha detto che le elezioni si possono rimandare di altri tre mesi, magari accorpate alle politiche.
Avvocato Pellegrino, riassumiamo brevemente che è successo.
È semplice: la presidente Polverini, appoggiata da Berlusconi e Casini, sostiene che le elezioni può indirle quando vuole.
Dice che si blocca il Paese...
L’interesse politico è chiarissimo: evitare il doppio appuntamento elettorale, ma solo perchè si ha paura degli effetti dei risultati delle regionali sulle politiche.
Il Movimento difesa del cittadino si è rivolto al Tar.
Che ci ha dato ragione e ha ordinato alla Presidente di votare entro 90 giorni, come stabilito dalla Consulta nel 2003.
Ma la Polverini ha fatto ricorso al Consiglio di Stato.
È un suo diritto. Noi eravamo in serena attesa dell'udienza, fissata per martedì prossimo.
Invece?
Invece la sera di venerdì 16 novembre apprendiamo da un comunicato del Quirinale che il governo ha stabilito, senza attendere la sentenza, esattamente quello che volevano la Polverini e il Pdl: ovvero, che non si vota subito ma tra cinque mesi e che c'è la possibilità di votare con le Politiche. Apprendiamo anche che per il Capo dello Stato è una scelta opportuna.
Dunque, inutile aspettare il verdetto del Consiglio di Stato?
Con che serenità volete che un giudice decida ora questa causa? Se dà ragione ai cittadini del Lazio che chiedono il voto subito, dà uno schiaffo alle più alte cariche dello Stato. Dovrà trovare il modo di emettere una pronuncia compatibile con questo singolare deliberato. Il messaggio che esce all’esterno è che salta in modo clamoroso la divisione dei poteri.
Questa storia assomiglia a quella del conflitto di attribuzione sollevato da Napolitano contro la procura di Palermo?
Non si possono fare paragoni, primo perché la Corte Costituzionale è il giudice naturale del Capo dello Stato. Secondo perchè un Presidente che ritiene che le sue competenze siano invase, non ha altra via che quella di rivolgersi alla Corte. Qui invece era tutt'altro che dovuto che Napolitano esprimesse pubbliche valutazioni su vicende amministrative sottoposte alla valutazione di un giudice.
Dal Quirinale si aspettava un atteggiamento diverso?
Qui non ci sono violazioni formali: è la serenità delle istituzioni in gioco. Mi sarei aspettato semmai che il Presidente usasse la moral suasion per arginare le partigianerie del governo.
Per esempio?
I messaggi morbidi e ambigui del ministro Cancellieri: a giorni alterni diceva che si doveva votare subito e che stava valutando l'election day. Poi il decreto 174, con cui il governo è intervenuto caoticamente sul numero di consiglieri regionali, dando adito alla Polverini di dire che, in questo caos, non può indire le elezioni. Tutto questo è stato voluto da chi nel governo fa sponda con la Polverini. Ho appreso dai giornali che il suo avvocato era uno stretto collaboratore del sottosegretario Catricalà. Poi, ciliegina sulla torta.
Quale?
La Cancellieri, dopo la sentenza del Tar che disponeva elezioni subito nel Lazio, ha annunciato invece il voto in febbraio in 3 regioni, alzando così la palla alla protesta del Pdl che ha messo a ferro e fuoco il Paese dicendo che c'erano due elezioni a 60 giorni una dall'altra.
Perchè l’ha fatto secondo lei?
Un caos funzionale al punto di caduta che voleva il centrodestra. Un gioco delle parti clamoroso. Che Monti utilizza a suo esclusivo vantaggio, ora anche elettorale.
Come se ne esce?
Quanto meno mandando a casa la Polverini e i 70 consiglieri.
Un commissariamento?
Sì, ci sono tutti i presupposti e l’impulso può partire dal governo e dal Quirinale. Se è vero che l'esigenza è salvare il Paese, io dico che il Paese si salva anche così, dando un messaggio ai nostri figli: cosa devono pensare, che è giusto comportarsi come la Polverini? Che è giusta una protervia del potere così clamorosa? Che così vogliono le più alte cariche dello Stato?

Corriere 20.11.12
Quando le società possono esplodere
di Giovanni Sartori


Se manca il lavoro, chi deve rimediare? Sembra ovvio: lo Stato. Ma lo Stato è già, di per sé, un colossale datore di lavoro. È anche, purtroppo, un cattivo datore di lavoro che spende male, che spende troppo e che, almeno da noi, è intriso di corruzione mafiosa e privata. Anche così è bene che l'opinione pubblica si renda conto della mole di spese che lo Stato deve oggi affrontare.
In primo luogo deve pagare la burocrazia che lavora per lo Stato: una vera e propria armata, più le venti armatine regionali. In secondo luogo deve garantire la sicurezza, e quindi pagare le forze armate, la polizia, i carabinieri. In terzo luogo è lo Stato che deve provvedere alla viabilità, e quantomeno alle strade: costruirle e mantenerle. Poi deve provvedere alla istruzione pubblica, scuole e Università. Infine la sanità. Negli Stati Uniti uno dei maggiori problemi pendenti è proprio se la salute debba essere a carico di assicurazioni private. Ma in Europa la salute è quasi sempre una protezione che deve essere fornita dallo Stato.
Come si vede, lo Stato di costi e di incombenze ne ha. E quando ha pagato gli interessi sui suoi sprovveduti debiti si ritrova senza un copeco in cassa. E finora non ho ricordato un ultimo dovere: la manutenzione del territorio e di tutte le cose che richiedono manutenzione. Fino all'avvento della società industriale la manutenzione richiesta era soprattutto agricola (che includeva, però, i terrazzamenti che consolidano un territorio friabile con tante colline); ma questa manutenzione è da gran tempo dimenticata. Quando arrivano le alluvioni si scopre che gli alvei dei torrenti non vengono mai ripuliti e che sono strozzati da cementificazioni tanto incoscienti quanto sospette.
Come si vede, lo Stato ha già di per sé moltissimo da fare e da spendere. Ed è bene che si fermi nell'ambito che ho appena ricordato e che lasci libera la massa di persone che sono o che dovrebbero essere addette alla produzione di beni, nonché dei servizi non serviti dallo Stato. Perché questa è l'economia che sorregge tutto il resto (ivi incluse le spese dello Stato). E se questa economia «di base» entra in crisi, in depressione, allora sono guai.
La dottrina distingue tra «privazione assoluta» e «privazione relativa» (il termine inglese è deprivation). Nella prima, diffusa specialmente in Africa, i morti di fame si lasciano morire di fame: non reagiscono, restano seduti e muoiono. Nel caso della privazione relativa, invece, chi è minacciato dalla fame non è rassegnato, non resta passivo: si rende conto di quel che sta succedendo e reagisce. Pertanto tutte le insurrezioni, tutte le rivolte, presuppongono uno stato di privazione relativa nel quale chi teme una ricaduta nella miseria si ribella. Che poi le ribellioni risolvano i problemi non è detto. Ma intanto avvengono, e non possono essere ignorate. Il caso peggiore, in Eurolandia, è quello della Grecia. Ma anche la situazione italiana è grave, se è vero (le statistiche sulla disoccupazione non sono mai troppo sicure) che circa il 35 per cento dei nostri giovani in cerca di lavoro non lo trova. Perché questi giovani sono proprio quelli che dovrebbero alimentare l'economia produttiva, l'economia che sorregge tutto il resto, insomma, lo zoccolo duro della produzione di ricchezza. In questa situazione una società libera rischia di esplodere e di sfasciarsi. Vedi la Grecia.

Repubblica 20.11.12
Bersani contro la tenaglia del bis “Senza di noi difficile fare il governo”
“E sulla legge elettorale adesso non si tratta più”
di Goffredo De Marchis


ROMA — Trattativa finita sulla legge elettorale, dicono al Partito democratico. Pier Luigi Bersani si concentra sulle primarie, convinto che alla fine dimostreranno soprattutto la forza del centrosinistra e del Pd. Nei sondaggi continua la crescita del suo partito e all’indomani del 25 potrebbe registrarsi un ulteriore balzo in avanti. «Senza di noi — è la convinzione dei democratici — sarà difficile sia una modifica del sistema di voto sia la formazione di un nuovo governo». Ma a Largo del Nazareno non si nascondono la doppia insidia di una tenaglia che ha un obiettivo ormai chiaro: il ritorno di Mario Monti a palazzo Chigi. L’iniziativa di Montezemolo e Riccardi ufficializza la corsa del premier per il bis. Le parole di Monti dal Kuwait la confermano anche se ieri la precisazione chiesta dal Pd è arrivata. L’esternazione di Napolitano completa il cerchio. Un quadro allarmante, completato dal muro contro muro sulla riforma del Porcellum. La legge, sostanzialmente proporzionale, che da oggi verrà votata in commissione al Senato favorisce una larga coalizione e dunque un nuovo esecutivo Monti.
Bersani vede la conventio ad excludendum, ne conosce i contorni, l’ha denunciata ad alta voce quando ci fu il blitz sulla riforma elettorale di una maggioranza diversa da quella di governo, una riedizione della Casa delle libertà: Pdl, Udc, Lega, Fli. «Non vogliono farci governare», disse allora il leader Pd. Ma la partita delle primarie è la chiave e va oltre la sfida con Renzi. Una legittimazione popolare forte, le file ai gazebo, il riconoscimento degli avversari al vincitore, il patto che lega i candidati con la firma alla carta d’intenti, sono elementi, secondo il segretario, capaci di offrire una prova muscolare e innescare un circolo virtuoso. Nel Paese, ma anche negli ambienti internazionali che rappresentano uno degli ostacoli all’ascesa del centrosinistra e uno dei viatici maggiori per il Monti bis. Milioni di elettori alla competizione interna sarebbero anche un segnale per chi vuole procedere senza il Pd sulla legge elettorale. Però, la preoccupazione per la tenaglia rimane.
Stamattina a Largo del Nazareno torneranno a riunirsi i capigruppo e gli sherpa del Pd sulla riforma. I contatti tra Maurizio Migliavacca e i colleghi Denis Verdini e Lorenzo Cesa sono interrotti da giorni. L’incarico affidato da Bersani ai suoi ambasciatori è molto netto: non stiamo fermi, ma la nostra posizione è quella, vediamo dove arrivano loro. “Loro” sono tuttavia determinati ad andare avanti. L’Udc non si occupa più di tenere i rapporti diplomatici con i democratici. Ha problemi nel suo campo dopo la comparsa di un soggetto concorrente come quello di Montezemolo e Riccardi. Può difendere la linea del Monti bis, che fuori dal Palazzo è stata impugnata dal movimento civico di Italia Futura, lavorando in Parlamento a una legge che aiuti l’esito desiderato. L’associazione “Verso la terza repubblica” gode di alcune simpatie tra i parlamentari, ma non ha un suo gruppo ed è fuori dalle trattative. I rapporti tra centristi e democratici sono ai minimi termini. Bersani fa sapere che guarda «con molta attenzione » al lavoro del presidente Ferrari. «Ho sentito parole d’ordine che sono le nostre da tempo. E sono coerenti con l’alleanza tra progressisti e moderati », dice. Un gesto di sfida all’altro Pier? Dario Franceschini da giorni suggerisce di avviare da subito un dialogo con la nuova lista civica. E stamattina proporrà al vertice del partito di andare a vedere le carte sulla riforma elettorale. «Possiamo accettare un premio al partito dell’8 per cento e metterli in difficoltà», è la posizione del capogruppo alla Camera.
La formula magica del Pd è quella del 40/10/5. Il 40 per cento è la soglia oltre la quale la coalizione vincente prende il 52,5 per cento dei seggi, 10 per cento è il premietto di governabilità al primo partito, 5 per cento lo sbarramento. Ricalca la formula D’Alimonte. La risposta del Pdl però è un rifiuto netto. E l’apertura iniziale dell’Udc a una mediazione sembra svanita. La conferma si avrà oggi quando cominceranno le votazioni al Senato e non saranno lanciati ponti verso il Pd. Ma adesso tutto il quartier generale di Largo del Nazareno ha l’attenzione solo sulle urne di domenica. Si attribuisce un enorme potere taumaturgico alle primarie, la forza di rovesciare gli equilibri. Tanto più se dopo un eventuale vittoria di Bersani nascerà subito un ticket con Matteo Renzi. Il segretario democratico non rinuncerà al contributo del sindaco di Firenze, al suo bacino di voti.

il Fatto 20.11.12
Firenze, scontro in Comune sui fondi di Algebris
Mazzei, Ente Cassa di Risparmio di Firenze, svela il patto della spiaggia: lì avrebbe conosciuto Serra
di Sara Frangini


Firenze Un investimento, 10 milioni di euro, dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze proprio nel fondo di Davide Serra, deciso giorni prima della ormai nota cena di ottobre tra Renzi e il mondo della finanza rampante italiana. I vertici della Fondazione ammettono tutto, con il presidente Jacopo Mazzei che scagiona Renzi (“non ne sapeva niente”) e rivela il patto della spiaggia (“ho conosciuto Serra al mare, è nato tutto lì”). L’argomento, dal bagnasciuga, è arrivato nell’arena del Consiglio comunale di Palazzo Vecchio. Matteo Renzi ieri era assente per la decima volta consecutiva. Si aspettava un chiarimento dopo l’inchiesta del Fatto Quotidiano che ha svelato come la fondazione Ente Cassa di Risparmio abbia investito 10 milioni di euro in CoCo bond ad alto rischio tramite il fondo Algebris di Davide Serra. E una risposta era attesa anche vista la presenza, nel-l’Ente Cassa, di persone molto vicine al primo cittadino, come il presidente Mazzei e il consigliere di amministrazione Marco Carrai. Oltre a Bruno Cavini, portavoce di Renzi e inserito nel comitato di indirizzo dell’Ente con nomina diretta del primo cittadino. “È necessario fare chiarezza sugli aspetti che legano i tre soggetti e sulle valutazioni alla base delle quali è stato fatto l’investimento da parte dell’Ente Cassa di Risparmio”, hanno incalzato i consiglieri dell’opposizione di sinistra Tommaso Grassi e Ornella De Zordo. La risposta “la darò con le parole di Mazzei sui giornali di oggi (ieri ndr)”, ha detto l’assessore Rosa Maria Di Giorgi.
Allora ricordiamolo, cosa ha detto il presidente del Cda della fondazione. Che non è stato lui a presentare Serra a Renzi e che “nel-l’operazione nemmeno Carrai c’entra nulla: tutto è partito da un mio incontro di questa estate al mare con Serra”. Parola di Mazzei, e ora anche della giunta, che ha ammesso quindi l’investimento nel fondo ad alto rischio, dopo che il presidente del Consiglio Eugenio Giani aveva liquidato la domanda con un “no, è inammissibile”. Giani però ha dovuto fare dietro-front perché appena pronunciata la parola “inammissibile”, la stessa che venne azzardata quando vennero chiesti chiarimenti sul caso Lusi, è esplosa la tensione. Nervosismo, brusii, proteste animate, grida. La prima a perdere le staffe, durante la replica del consigliere Grassi che contestava la decisione, è stata sempre lei, l’assessore Giorgi: “Non deve rispondere”, ha urlato a Giani a microfono spento. Insofferente, piccata: “Basta ora, non rispondiamo. Mai vista una cosa del genere”. Per poi tornare sui suoi passi, esasperata dal clima: “Ora rispondo, fatemi rispondere, tanto l’avevamo preparata”. Dai banchi del Consiglio si sono levati commenti critici e durissimi. Anche nello stesso gruppo del Pd, con la bersaniana Cecilia Pezza che non ha esitato a definire Firenze una “città esposta alla vergogna anche per la continua assenza del sindaco”. La consigliera De Zordo ha ricordato come siano state “ammesse domande su tutto, Siria, Terzo Mondo, e ora questa no. Perché?”. “Perché è una domanda scomoda”, attacca Massimo Sabatini della Lista Galli (centrodestra). E l’impressione che fossero in tanti, ad essere in imbarazzo, è stata fortissima. Tutti eccetto Renzi che a debita distanza, su Twitter, replica com’è nel suo stile: “Mi raccomando: non rispondiamo alle provocazioni di queste ultime ore. Testa alta e sorridere”.
E a Otto e mezzo: “Se questo è tutto quello che hanno per colpirmi è solo fango”. La questione soldi è al centro di questi ultimi giorni di primarie. Lo storico tesoriere dei Ds Ugo Sposetti ha fatto i conti in tasca a Renzi: “Finora ha speso per le primarie 2 milioni e 800mila euro, mentre il tetto massimo è di 200mila”. Ieri Dagospia rilanciava un pezzo del Corriere della Sera del 15 giugno 2007 dove lo stesso Sposetti parlava del rapporto con il mondo della finanza. “Mi accorgo che sono tutti molto, molto sorpresi, e a volte persino scandalizzati, dal fatto che alcuni politici parlino con banchieri e imprenditori – aveva dichiarato - Ma con chi dovremmo parlare? Con chi dovrei parlare, io? Con gli straccioni?”.

Corriere 20.11.12
Tra sindaco e Sposetti battaglia (di conti) sulle spese della Leopolda
di Angela Frenda


MILANO — Soldi. È di questo che si continuerà a parlare nei prossimi giorni. E forse anche dopo il voto delle primarie. Perché tra i due sfidanti, Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi, siamo alla lista della spesa. Ad aprire il fuoco con un'intervista a Pubblico, ci ha pensato ieri l'ex tesoriere ds Ugo Sposetti. Che ha fatto un po' di conti sulla Leopolda: «È costata oltre 350 mila euro. Tra affitto, catering, assicurazione. Per l'organizzazione solo 250 mila... L'assicurazione per 12 mila persone? Altri 15 mila euro almeno. I vigili del fuoco sono 6 mila euro. 2 mila euro per caffè e acqua ai giornalisti. E così via. Insomma, Renzi si dovrebbe solo vergognare». Le spese di Renzi per la Leopolda saranno messe tutte sul sito, garantiscono i suoi. Il tetto è 200 mila euro. Ma al momento c'è solo la fattura delle due assicurazioni fatte per l'evento, con Ina Assitalia: per un totale di 950 euro. Le altre, dicono dai comitati, arriveranno nelle prossime settimane, visto che l'evento è finito da poco. Ma facendo un po' di ricerca, e con l'aiuto del tesoriere Alberto Bianchi, avvocato personale del sindaco di Firenze, è stato possibile comunque ricostruire le spese fatte per allestire questa terza edizione alla Stazione Leopolda. E se saranno confermate (come sembra) sono molto diverse da quanto ipotizzato da Sposetti. Eccole: per l'affitto sono stati spesi 18 mila e 200 euro. A questi vanno aggiunti altri 10 mila euro (tra affitto e gestione) per la locazione di una parte del nuovo teatro dell'Opera. Per l'allestimento (schermo led, «americana», tensostruttura, sedie e tavoli, spazio gonfiabili per i bimbi, banchetto per i gadget): 16 mila euro. Cartellonistica: 10 mila euro. La sicurezza, poi. Sposetti parlava di vigili del fuoco. Invece sembra che per la sicurezza (e cioè impianto elettrico, sicurezza generale della struttura, personale) siano stati spesi circa 13 mila 700 euro. Al di là dei volontari che pure c'erano e ovviamente non sono stati retribuiti. C'è poi il catering (tortellini, pappa al pomodoro, insaccati, pane senza sale, ribollita, frutta fresca...): 15 mila euro. L'assicurazione, come si è detto, 950 euro (Sposetti ipotizzava 15 mila euro): per un massimale di 3 milioni e un'ipotesi di affluenza di 10 mila persone. E poi 2.250 euro per 15 hostess. E Roberto Reggi, coordinatore della campagna per Renzi, replica a Sposetti: «Sapete come definiamo gente come lui, a Piacenza? Senza vergogna. Noi le spese le stiamo mettendo sul sito, loro non hanno nemmeno cominciato. E parla proprio lui, che gli ultimi 5 anni ha gestito i soldi di un partito fantasma, i Ds, senza metterli online, ma nemmeno offline. Quando dicevo scagnozzo, pensavo proprio a lui». E Lino Paganelli, delegato di Renzi al Coordinamento nazionale, aggiunge: «Sposetti? Lo conosco bene, è solo un provocatore. Inventa cifre in libertà. Bersani ha fatto 4 milioni di depliant. Quanto ha speso? Diranno 50 euro...». Intanto il caso dell'investimento di dieci milioni da parte dell'Ente Cassa di risparmio di Firenze (fondazione in cui il sindaco Matteo Renzi ha nominato un membro nel comitato d'indirizzo, il suo portavoce Bruno Cavini) nei CoCo bond del fondo Algebris del finanziere Davide Serra ha «scaldato» ieri il consiglio comunale fiorentino e diviso il Pd.

l’Unità 20.11.12
Il dividendo della crisi più pesante per i poveri
di Nicola Cacace


IL 2012 CON UN PIL -2,3%, SARÀ L’ANNO PIÙ DURO DOPO IL 2009. CHI PAGHERÀ I COSTI DI QUESTA ULTERIORE CADUTA DEL REDDITO, ANCORA LA POPOLAZIONE PIÙ POVERA? Come mostrano i dati Bankitalia elaborati da un gruppo di economisti (Peragine e Brunori, nel Merito.com, 16/11) «nel periodo 2006-2010 gli effetti della crisi non sono stati eguali per tutte le famiglie, le fasce a basso reddito hanno sofferto di più e complessivamente la recessione ha avuto un effetto regressivo sulla distribuzione dei redditi. A una riduzione annua del Pil nel quadriennio dello 0,7%, corrisponde una perdita di reddito del 3,5% annuo per il primo decile della popolazione (il 10% più povero), dell’1,5% per il secondo decile e così via; solo per l’ultimo decile cioè per i 2,4 milioni di famiglie più ricche, la crisi non ha prodotto riduzioni del reddito».
Nel biennio successivo, 2011-12 non c’è alcun dubbio che anche le politiche di risanamento, quelle precedenti e quelle attuate da novembre in poi dal governo Monti, hanno avuto carattere altrettanto regressivo. Monti, pur avendo avuto il merito del recupero di credibilità internazionale e di risanamento dei conti, non ha avuto in massima considerazione, o non ha potuto ispirarsi a una logica di più equa distribuzione dei sacrifici. I valori cui si sono ispirate le manovre governative, dalle pensioni al lavoro all’Imu, forse anche per i condizionamenti del centrodestra tuttora maggioritario in Parlamento, non hanno avuto alcun carattere di progressività.
D’altra parte non è un mistero che i valori del professore siano mossi da filosofie liberiste più che keynesiane, come confermato anche da un recente articolo dell’Economist sull’Italia, che definisce il professore «Monti, a declared antikeynesian». Anche i keynesiani sono per il libero mercato dando però importanza centrale al ruolo dello Stato investitore quando il ciclo economico lo richiede. Nella concezione keynesiana prevalente nei partiti europei socialdemocratici e progressisti, si sottolinea la funzione dello Stato nella redistribuzione della ricchezza e nel garantire diritti fondamentali come istruzione, sanità, sicurezza.
Monti ha fatto e sta facendo molte cose importanti e necessarie, ma senza toccare gli scandalosi privilegi dei super burocrati, senza attuare una spending review con tagli mirati e non orizzontali, aumentando la pressione fiscale per tutti ma non in modo progressivo, sui modelli Obama o Hollande. La legge sulle pensioni, necessaria ma poco attenta all’equità, ha fatto dell’Italia l’unico Paese che nel 2020 avrà un’età pensionabile di 67 anni ignorando i problemi della disoccupazione giovanile e femminile record. Nel Paese a più alta diseguaglianza d’Europa, anche per i privilegi dei politici, la norma per abbattere realmente i vitalizi dei consiglieri regionali (norma anti Fiorito) è stata introdotta dal Parlamento a correzione dell’inefficace versione governativa. L’Italia ha firmato il fiscal compact per ridurre in 20 anni il debito pubblico al 60% del Pil, ma si sono ignorate le proposte avanzate, anche da economisti e banchieri, di una patrimoniale straordinaria che chiedesse un contributo una tantum di solidarietà a quel 10% di famiglie super ricche proprietarie del 50% della ricchezza nazionale, che poco hanno sofferto dalla crisi come sopra mostrato. Il professore si è difeso dicendo che «non siamo attrezzati», mentre con un po’ di volontà politica qualcosa si poteva fare utilizzando il catasto per la ricchezza immobiliare e la centrale rischi di Bankitalia per la ricchezza finanziaria, come basi di partenza per una fiscalità patrimoniale più progressiva dell’Imu attuale che vale per tutti, ricchi e poveri. Il prof. ha condannato la concertazione, pratica seguita correntemente in Germania ed in tutti i Paesi più avanzati del nord Europa, per poi chiedere ai sindacati di firmare in tempi brevi un accordo per la produttività.
Altre scelte contrarie all’equità sono quelle sulla redistribuzione del lavoro. In Germania per non licenziare si riducono gli orari con la Kurtzarbeit mentre il nostro governo defiscalizza gli straordinari. Sulla responsabilità sociale delle imprese fa peggio, come quando approva le «libere scelte di delocalizzazione della Fiat», ignorando i sacrifici del Paese di un secolo di difesa della maggiore industria nazionale e le stesse posizioni più avanzate, Enciclica Caritas in veritate inclusa, che invocano «un capitalismo etico attento agli interessi non solo degli azionisti, ma anche di lavoratori e territorio». In conclusione, i motivi per cui Monti va bene ma l’agenda Monti un po’ meno, sono gli stessi che distinguono conservatori e progressisti nel mondo, i primi sono per la libertà senza eguaglianza, i secondi per l’eguaglianza nella libertà.

l’Unità 20.11.12
Roma, il liceo Tasso sceglie di protestare con una lezione sulla Resistenza
di Luciana Cimino


ROMA Domenica gli studenti del Liceo Tasso di Roma si sono travestiti in piazza del Popolo da medici, pazienti, infermieri per «curare la scuola pubblica». Da ieri invece hanno iniziato un ciclo di lezioni pubbliche, sempre nella nota piazza capitolina, mentre un altro folto gruppo di compagni rimane a occupare la scuola.
Davanti a una settantina di studenti seduti sotto l’obelisco si sono tenute lezioni sul ddl Aprea (uno dei punti cardine della protesta), sulla poesia di Shakespeare e un’ora di giapponese. Infine è intervenuto il critico e scrittore Alberto Asor Rosa che ha tenuto una lezione sugli autori della Resistenza, da Fenoglio a Calvino. Fino a mercoledì si alterneranno in piazza professori del liceo (solidali con le ragioni del movimento) e altri ospiti particolari per lezioni speciali stabilite «dal basso» dagli studenti. «Vogliamo far capire che non si tratta solo di “autunno caldo” spiega Lorenzo andremo avanti finché ci sarà bisogno». «C’eravamo anche noi il 14 novembre racconta i media sugli atti violenti dei manifestanti hanno mentito, era un corteo pacifico, noi avevamo le migliori intenzioni, ora il messaggio è stato compromesso». Faranno altre lezioni sul ddl Aprea, «tutti devono capire che è un attacco alla scuola pubblica, è una pseudo privatizzazione che mina di fatto l’omogeneità dell’istruzione». Se il Tasso fa lezione in centro, al Liceo di via Papareschi gli studenti hanno approfittato dell’occupazione per restaurare, autotassandosi, l’edificio in pessime condizioni. Mentre altri istituti nel resto della Capitale continuano ad essere occupati o autogestiti.
In totale sono una settantina nella provincia di Roma. Lo stesso nel resto del paese: una decina le scuole in assemblea permanente tra Catania e provincia, una decina di istituti occupati in Veneto (a Padova domenica professori di scuole medie e superiori si sono seduti sui gradini della Loggia della Gran Guardia in piazza dei Signori a correggere i compiti in pubblico), altrettanti in Emilia Romagna. Un fermento in vista del prossimo sciopero generale della scuola indetto dai 5 sindacati del settore per il 24 novembre. Prevista una grande manifestazione a piazza del Popolo ma i Cobas chiedono un corteo. «Ci sembra una piazza ben poco capiente per la marea di manifestanti che ci attendiamo», dice il segretario Piero Bernocchi. Per il Gilda, «l’appuntamento di piazza del Popolo sarà solo il primo di una lunga battaglia a difesa dei diritti degli insegnanti». Mentre Mimmo Pantaleo, segretario generale FlcCgil commenta: «Le lotte degli studenti e dei docenti pongono la necessità di cancellare le politiche di austerità che stanno allargando le disuguaglianze e umiliando una intera generazione che è esclusa dal lavoro e dal diritto allo studio. Non lasceremo i ragazzi».

il Fatto 20.11.12
Attivisti del Teatro Valle aggrediti nel Ghetto
Cinque ragazzi picchiati dopo la manifestazione di mercoledì:
un loro video inedito testimonia i fatti:
“Qui dentro siete morti, non potete entrare, o vi ammazziamo”
di Lorenzo Galeazzi


Tre fermo immagine. Tre volti dai quali partire per identificare i protagonisti dell'aggressione contro gli attivisti del Teatro Valle avvenuta mercoledì scorso nel quartiere ebraico di Roma. E poi quella registrazione: “Se entrate qui dentro (al ghetto, ndr) siete morti”. Agenti in borghese ai quali è sfuggita la mano? Cittadini esasperati dalla tensioni della mattinata? O, peggio, gente del luogo che ha organizzato la “difesa” del rione in occasione del corteo degli studenti? “Alcuni – raccontano i ragazzi – avevano radio simili a quelle in dotazione agli agenti, altri invece la kippah e peot (copricapo e riccioli tradizionali che portano gli ebrei ortodossi, ndr) ”. Fatto sta che proprio nel giorno in cui il ministro della Giustizia Paola Severino annuncia la chiusura dell'indagine interna sul presunto lancio di lacrimogeni dalle finestre del suo dicastero (confermando la tesi dei candelotti sparati dal basso), si apre un nuovo fronte sulla gestione di quella giornata.
ECCO I FATTI: sono le 16.00 del 14 novembre e dopo gli scontri la città sta tornando alla normalità. Cinque attivisti, tre ragazze e due ragazzi, stanno rientrando a casa dopo il corteo. In piazza delle Cinque Scole incrociano due uomini che dopo averli squadrati si mettono a seguirli. Davide, uno dei giovani, accende la telecamera: “Pensavamo fossero agenti in borghese e volevamo tutelarci registrando un eventuale abuso”. Non l'avesse mai fatto, perché i due se ne accorgono, gli saltano addosso e così comincia la gazzarra. Mentre Davide viene immobilizzato e malmenato, agli altri si avvicinano persone che presentano come poliziotti, ma, come raccontano i ragazzi, le intimidazioni continuano: “Vi portiamo dentro e poi vi ammazziamo”. Nonostante il pestaggio, in un attimo di lucidità, il giovane riesce a premere rec e così comincia la registrazione pubblicata in esclusiva dal Fatto: “Mi volevi fotografare? Lo sai che sei un pezzo di merda? Se ti muovi ti ammazzo. Vedi come ti ho preso? Basta che stringo un po’ e tu sei morto”, poi botte e grida di dolore.
Il parapiglia fino a quando una delle ragazze riceve una telefonata e urla che li stanno arrestando e di chiamare gli avvocati, poi una signora passa e si mette a gridare. Può bastare. La “lezione” è finita e gli uomini liberano Davide che viene portato via sanguinante dagli amici terrorizzati.
Dopo alcuni giorni, passata la paura, gli attivisti decidono di fare uscire la notizia e il clamore è immediato: in poche ore il video del Fatto viene condiviso da migliaia di persone sui social network suscitando indignazione e rabbia per quanto avvenuto. Ma nessuna risposta sull'identità degli aggressori. Anche la comunità ebraica della Capitale è sotto choc: “Chiedo ai ragazzi del Valle di incontrarci e di aiutarci a capire chi è stato”, dice il portavoce Ruben Della Rocca che esclude categoricamente l'esistenza di ronde nel quartiere: “Oltre alle forze dell'ordine, organizziamo la nostra sicurezza con guardie giurate e un'associazione di genitori che non picchia la gente”.
IL PRESIDENTE Riccardo Pacifici, dopo la solidarietà di rito, si concentra sui “punti oscuri”, adombrando dubbi sulla veridicità del video: “È stato montato”. In realtà quel filmato è la nostra esclusiva dove alle scene di violenza si alternano le interviste alle vittime, mentre l'integrale è online sul sito del Valle. E in entrambi si sente chiaramente l'audio: “Potete fare casino per tutta Roma, ma se entrate qui dentro siete morti. Questo non si chiama ghetto da 500 anni, è il quartiere ebraico”.

Repubblica 20.11.12
Addio mito “Wasp”, l’America meticcia cambia volto
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON Il lungo crepuscolo dell’Uomo Bianco, di «colui che si mangia il grasso » come lo avrebbero chiamato i Lakota delle Grandi Praterie sbalorditi dalla sua ingordigia, ha avuto, in quel quartetto che si è conteso il timone degli Stati Uniti una conferma talmente ovvia da passare inosservata. Come l’idea di un capo dello Stato di sangue misto africano ed europeo si è ormai definitivamente radicata, così l’avanzata demografica, culturale, economica dell’America “meticcia”, non bianca e non protestante, è divenuta inarrestabile e normale. Persino una parola fino a ieri impronunciabile, — “mulatto” — torna a essere usata nei campus universitari senza connotati dispregiativi o razzisti, ha rilevato un’inchiesta dell’istituto Pew tra i giovani.
Era inevitabile che il segno del tramonto dei bianchi si intravedesse con più chiarezza nella nazione che è dalle origini il laboratorio, e insieme il bacino alluvionale, di tutti i cambiamenti sociali e culturali. In una società nella quale fino al 1968 la “miscegenation”, le unioni e i matrimoni fra bianchi e neri era un reato in sei stati dell’Unione e il popolarissimo predicatore Battista Jerry Falwell avvertiva che «permettere matrimoni con individui di razze diverse avrebbe portato inesorabilmente alla fine della razza bianca », la rivoluzione etnica dell’ultimo mezzo secolo è stata radicale e irreversibile. Dall’inizio di quest’anno, nascono più bambini di colore o di sangue misto che bianchi. I matrimoni fra persone di etnie diverse sono passati dal 2 per cento negli anni ‘60 al 18% nel 2011 e questa cifra non tiene ovviamente conto delle coppie di fatto, senza certificati, ma con piena capacità di avere figli. E l’immigrazione dall’Europa “bianca e protestante” è ormai ridotta a uno sgocciolio, rispetto al fiume di nuovi americani venuti dal Sud della frontiera, dall’Africa o dall’Asia. Soltanto un immigrato su dieci, oggi, arriva dal Vecchio Continente.
La multietnicità, alla quale la retorica del melting pot, del crogiolo di popoli ha sempre pagato più un tributo formale che reale, è l’elemento dominante dell’America che sta crescendo e diventando adulta in queste ore. In Massachusetts, proprio la terra dove prima gli avventurieri della Mayflower e poi i Puritani calvinisti sbarcarono, è stata eletta senatrice una donna, Elizabeth Warren che ha vantato la propria origine Cherokee, mentre il suo avversario, il repubblicano Brown, disperatamente cercava di negargliela. Sosteneva che «non aveva la faccia da indiana», sapendo che quelle tracce di Dna protoamericano sarebbero state un vantaggio, e non un handicap, per lei. Il rovesciamento dei pregiudizi.
Le speranze del Partito Repubblicano, devastato dalla miopia dei suoi mandarini che hanno imposto Romney al proprio elettorato e dal ringhioso fanatismo del “Tea Party”, oggi brancola e cerca nella propria panchina — così dice il gergo del momento — riserve promettenti come il governatore della Lousiana Bobby Jindal, originario dell’India, il cui nome originale è Pyush o Marco Rubio, figlio di cubani, mentre si rispolvera dall’armadio un altro Bush, Jeb, fratello dell’ex presidente e sposato con una messicana, Columba Garnica. La caccia al voto ispanico, nero, asiatico è vista come la sola speranza di recupero per un partito che si è rinchiuso nella illusione di una sollevazione della minoranza di maschi bianchi contro la prepotente ascesa dei non bianchi e non maschi.
Tutto ciò che sarebbe stato micidiale una generazione fa, il colore della pelle, il Dna, la cultura, la religione è oggi vissuto come un atout, come l’asso del gioco futuro. La rivoluzione demografica sta producendo una rivoluzione politica e culturale, secondo la semplice verità enunciata dopo il 6 novembre da un sondaggista e stratega demoratico, Charlie Cook. Quando gli è stato chiesto quale nuova forma di sondaggio avesse usato per azzeccare con precisione il voto negli stati chiave, Charlie Cook ha risposto: «Quello che esce ogni dieci anni. Si chiama censimento». Furono necessari 170 anni per vedere un non-Wasp, un cattolico come Kennedy, elevato alla presidenza, anche se poi prontamente eliminato. Sessant’anni dopo, lo straordinario è divenuto l’ordinario. «The New Normal », la nuova normalità dell’America nel XXI secolo, comincia a realizzare la promessa scritta nel certificato di nascita di una nazione nuova, custodita negli Archivi Nazionale di Washington: «Consideriamo evidente che tutti gli uomini siano stati creati uguali».

Repubblica 20.11.12
Bauman: “Le emozioni passano, i sentimenti vanno coltivati
Non conosciamo più la gioia delle cose durevoli, frutto di lavoro
di Raffaella De Santis


La filosofia della routine
Il grande sociologo spiega come i legami siano stati sostituiti dalle “connessioni”
E aggiunge: “Ogni relazione rimane unica: non si può imparare a voler bene”
Disconnettersi è solo un gioco. Farsi amici offline richiede impegno

Amarsi e rimanere insieme tutta la vita. Un tempo, qualche generazione fa, non solo era possibile, ma era la norma. Oggi, invece, è diventato una rarità, una scelta invidiabile o folle, a seconda dei punti di vista. Zygmunt Bauman sull’argomento è tornato più volte (lo fa anche nel suo ultimo libro Cose che abbiamo in comune, pubblicato da Laterza). I suoi lavori sono ricchi di considerazioni sul modo di vivere le relazioni: oggi siamo esposti a mille tentazioni e rimanere fedeli certo non è più scontato, ma diventa una maniera per sottrarre almeno i sentimenti al dissipamento rapido del consumo.
Amore liquido, uscito nel 2003, partiva proprio da qui, dalla nostra lacerazione tra la voglia di provare nuove emozioni e il bisogno di un amore autentico.
Cos’è che ci spinge a cercare sempre nuove storie?
«Il bisogno di amare ed essere amati, in una continua ricerca di appagamento, senza essere mai sicuri di essere stati soddisfatti abbastanza. L’amore liquido è proprio questo: un amore diviso tra il desiderio di emozioni e la paura del legame».
Dunque siamo condannati a vivere relazioni brevi o all’infedeltà…
«Nessuno è “condannato”. Di fronte a diverse possibilità sta a noi scegliere. Alcune scelte sono più facili e altre più rischiose. Quelle apparentemente meno impegnative sono più semplici rispetto a quelle che richiedono sforzo e sacrificio».
Eppure lei ha vissuto un amore duraturo, quello con sua moglie Janina, scomparsa due anni fa.
«L’amore non è un oggetto preconfezionato e pronto per l’uso. È affidato alle nostre cure, ha bisogno di un impegno costante, di essere ri-generato, ri-creato e resuscitato ogni giorno. Mi creda, l’amore ripaga quest’attenzione meravigliosamente. Per quanto mi riguarda (e spero sia stato così anche per Janina) posso dirle: come il vino, il sapore del nostro amore è migliorato negli anni».
Oggi viviamo più relazioni nell’arco di una vita. Siamo più liberi o solo più impauriti?
«Libertà e sicurezza sono valori entrambi necessari, ma sono in conflitto tra loro. Il prezzo da pagare per una maggiore sicurezza è una minore libertà e il prezzo di una maggiore libertà è una minore sicurezza. La maggior parte delle persone cerca di trovare un equilibrio, quasi sempre invano».
Lei però è invecchiato insieme a sua moglie: come avete affrontato la noia della quotidianità? Invecchiare insieme è diventato fuori moda?
«È la prospettiva dell’invecchiare ad essere ormai fuori moda, identificata con una diminuzione delle possibilità di scelta e con l’assenza di “novità”. Quella “novità” che in una società di consumatori è stata elevata al più alto grado della gerarchia dei valori e considerata la chiave della felicità. Tendiamo a non tollerare la routine, perché fin dall’infanzia siamo stati abituati a rincorrere oggetti “usa e getta”, da rimpiazzare velocemente. Non conosciamo più la gioia delle cose durevoli, frutto dello sforzo e di un lavoro scrupoloso».
Abbiamo finito per trasformare i sentimenti in merci. Come possiamo ridare all’altro la sua unicità?
«Il mercato ha fiutato nel nostro bisogno disperato di amore l’opportunità di enormi profitti. E ci alletta con la promessa di poter avere tutto senza fatica: soddisfazione senza lavoro, guadagno senza sacrificio, risultati senza sforzo, conoscenza senza un processo di apprendimento. L’amore richiede tempo ed energia. Ma oggi ascoltare chi amiamo, dedicare il nostro tempo ad aiutare l’altro nei momenti difficili, andare incontro ai suoi bisogni e desideri più che ai nostri, è diventato superfluo: comprare regali in un negozio è più che sufficiente a ricompensare la nostra mancanza di compassione, amicizia e attenzione. Ma possiamo comprare tutto, non l’amore. Non troveremo l’amore in un negozio.
L’amore è una fabbrica che lavora senza sosta, ventiquattro ore al giorno e sette giorni alla settimana».
Forse accumuliamo relazioni per evitare i rischi dell’amore, come se la “quantità” ci rendesse immuni dell’esclusività dolorosa dei rapporti.
«È così. Quando ciò che ci circonda diventa incerto, l’illusione di avere tante “seconde scelte”, che ci ricompensino dalla sofferenza della precarietà, è invitante. Muoversi da un luogo all’altro (più promettente perché non ancora sperimentato) sembra più facile e allettante che impegnarsi in un lungo sforzo di riparazione delle imperfezioni della dimora attuale, per trasformarla in una vera e propria casa e non solo in un posto in cui vivere. “L’amore esclusivo” non è quasi mai esente da dolori e problemi – ma la gioia è nello sforzo comune per superarli».
In un mondo pieno di tentazioni, possiamo resistere? E perché?
«È richiesta una volontà molto forte per resistere. Emmanuel Lévinas ha parlato della “tentazione della tentazione”. È lo stato dell’“essere tentati” ciò che in realtà desideriamo, non l’oggetto che la tentazione promette di consegnarci. Desideriamo quello stato, perché è un’apertura nella routine. Nel momento in cui siamo tentati ci sembra di essere liberi: stiamo già guardando oltre la routine, ma non abbiamo ancora ceduto alla tentazione, non abbiamo ancora raggiunto il punto di non ritorno. Un attimo più tardi, se cediamo, la libertà svanisce e viene sostituita da una nuova routine. La tentazione è un’imboscata nella quale tendiamo a cadere gioiosamente e volontariamente».
Lei però scrive: «Nessuno può sperimentare due volte lo stesso amore e la stessa morte».
Ci si innamora una sola volta nella vita?
«Non esiste una regola. Il punto è che ogni singolo amore, come ogni morte, è unico. Per questa ragione, nessuno può “imparare ad amare”, come nessuno può “imparare a morire”. Benché molti di noi sognino di farlo e non manca chi provi a insegnarlo a pagamento».
Nel ’68 si diceva: «Vogliamo tutto e subito». Il nostro desiderio di appagamento immediato è anche figlio di quella stagione?
«Il 1968 potrebbe essere stato un punto d’inizio, ma la nostra dedizione alla gratificazione istantanea e senza legami è il prodotto del mercato, che ha saputo capitalizzare la nostra attitudine a vivere il presente».
I “legami umani” in un mondo che consuma tutto sono un intralcio?
«Sono stati sostituiti dalle “connessioni”. Mentre i legami richiedono impegno, “connettere” e “disconnettere” è un gioco da bambini. Su Facebook si possono avere centinaia di amici muovendo un dito. Farsi degli amici offline è più complicato. Ciò che si guadagna in quantità si perde in qualità. Ciò che si guadagna in facilità (scambiata per libertà) si perde in sicurezza».
Lei e Janina avete mai attraversato una crisi?
«Come potrebbe essere diversamente? Ma fin dall’inizio abbiamo deciso che lo stare insieme, anche se difficile, è incomparabilmente meglio della sua alternativa. Una volta presa questa decisione, si guarda anche alla più terribile crisi coniugale come a una sfida da affrontare. L’esatto contrario della dichiarazione meno rischiosa: “Viviamo insieme e vediamo come va…”. In questo caso, anche un’incomprensione prende la dimensione di una catastrofe seguita dalla tentazione di porre termine alla storia, abbandonare l’oggetto difettoso, cercare soddisfazione da un’altra parte».
Il vostro è stato un amore a prima vista?
«Sì, le feci una proposta di matrimonio e, nove giorni dopo il nostro primo incontro, lei accettò. Ma c’è voluto molto di più per far durare il nostro amore, e farlo crescere, per 62 anni».

Repubblica 20.11.12
Come difendere la libertà in rete
Un saggio di Franco Bernabè sulla privacy nell’era di Internet
di Stefano Rodotà


Nel mondo di Internet e dintorni è tutto un fiorire di scritti dei suoi protagonisti, autocelebrativi, assertivi delle meraviglie dell’innovazione tecnologica, venati talora da disprezzo per chi esercita riflessione e critica. Può sorprendere, allora, che un appartenente a questo mondo, il presidente esecutivo di Telecom Italia Franco Bernabè, abbia scritto un saggio dal titolo Libertà vigilata (Laterza), che si allontana da quello schema e suscita interrogativi. Di quale libertà si sta parlando? Chi sono i vigilanti? E quali i soggetti sottoposti al loro controllo?
La descrizione di quello che è stato chiamato il “digital tsunami”, con le caratteristiche assunte dalla raccolta e dal trattamento dei dati personali, apre il libro, e rende espliciti i problemi da affrontare. È significativo che Bernabè scriva che «la salvaguardia della riservatezza della sfera personale rappresenti solo uno degli aspetti in gioco: la posta è molto più alta, ed è la libertà individuale». Qui si coglie il distacco da un modo di considerare la privacy nel mondo dell’impresa. Nel 1999, Scott McNealy, allora amministratore delegato della Sun Microsystems, disse: «voi avete zero privacy. Rassegnatevi». Nel 2010, Mark Zuckerberg ha decretato la fine della privacy come regola sociale. Si riflette qui un obiettivo preciso: considerare proprietà dell’impresa i dati da essa raccolti su qualsiasi persona. Ecco, allora, congiungersi la questione della tutela di diritti e libertà fondamentali e quella delle regole che devono accompagnare il funzionamento del mercato.
Compaiono a questo punto gli “OvertheTop”, gli operatori che utilizzano Internet come un’unica piattaforma e costruiscono i propri servizi “al disopra della rete”, creando un sistema distributivo «impensabile per qualsiasi altro servizio di rete (ad esempio, acqua, energia e gas)». La logica della loro attività porta ad una “monetizzazione” dell’informazione raccolta ed alla creazione di monopoli, con effetti che Bernabè descrive con particolare riferimento a Facebook e Google. Qui non è possibile seguire nei dettagli una esposizione che, come in tutto il resto del libro, offre al lettore una descrizione puntuale del funzionamento dell’intero sistema. Ma il punto rilevante è rappresentato dal’individuazione del modo in cui si sta redistribuendo il potere nel mondo globale, con l’emersione di un “Big Data”, di soggetti non sottoposti ad alcun controllo. Questo potere non riguarda solo la sfera dell’attività economica ma, attraverso la costruzione di “profili” delle persone, incide sulla loro stessa identità. Mentre in passato si poteva definire l’identità affermando che «io sono quello che dico di essere», oggi si dovrebbe concludere che «tu sei quello che Google dice che tu sei». Paradigmi economici e sociali vengono radicalmente mutati.
Si giunge così al cuore di molte questioni, riassunte dal termine privacy. Bernabè sottolinea come la debole tutela dei dati personali abbia favorito i modelli di business delle imprese americane, creando una situazione di svantaggio competitivo per quelle europee, tenute a rispettare le regole dell’Unione europea che considerano quella tutela come un diritto fondamentale della persona. Vengono allora indicati modelli di disciplina che dovrebbero consentire un corretto equilibrio tra diritti della persona e esigenze delle imprese. Si offre così materiale per una discussione generale che qui può essere soltanto accennata, partendo dalla constatazione che lo stesso ambiente americano comincia ad essere penetrato dalla consapevolezza che la crescente possibilità di raccolta dei dati personali non può tradursi nel diritto di usare quei dati come se fossero proprietà esclusiva di chi li ha raccolti, considerando marginale o indifferente la volontà degli interessati. Si accentua, così, l’attenzione per il rispetto della dignità della persona e si propongono norme severe sulla raccolta delle informazioni da parte dei datori di lavoro e per la costruzione di profili a fini di pubblicità commerciale. Bernabè propone poi di andare oltre lo schema attuale – consenso preventivo al trattamento dei dati personali o opposizione a un trattamento già iniziato – adottando forme di gestione dei propri dati che consentano un controllo complessivo sul modo in cui vengono utilizzati. Ma questo tipo di soluzione può determinare difficoltà che finirebbero con il disincentivare la persona a impiegare il proprio tempo nell’amministrare l’identità digitale. Si finirà, allora, con il trasferire questa attività ad una nuova categoria di professionisti, i gestori dell’identità, confinando tra le buone intenzioni i progetti di una sua autogestione?
Come ben si vede, si apre un ampio spazio per una discussione che riguarda la stessa collocazione della persona nel mondo digitale. Le suggestioni di Bernabè non si fermano qui. Altrettanto impegnative sono le analisi riguardanti l’assetto complessivo di Internet, condotte sempre sul filo di una informazione puntuale e di aperture sui problemi legati all’innovazione. Compare così il timore di regole che possano comprimere in forme improprie l’attività d’impresa, senza tuttavia indulgere alla logica prevalente che fa del mercato una sorta di inviolabile legge di natura. E questa linea si manifesta anche nella delicata materia della sicurezza delle reti, che Bernabè esamina anche alla luce del “caso Tavaroli”, che ha riguardato proprio Telecom e ha rivelato gravi lacune nella gestione delle informazioni personali. L’allora responsabile della sicurezza di Telecom, infatti, ha potuto utilizzare in maniera illecita i dati di traffico, cioè le informazioni che consentono di ricostruire, attraverso le chiamate telefoniche, la rete di relazioni sociali delle persone. Bernabè riconosce «una sostanziale carenza di misure» adeguate a contrastare le violazioni, facendo propri i rilievi del Garante per la privacy e descrivendo i nuovi meccanismi di garanzia. E questo è davvero un tema capitale per la difesa dei diritti, poiché il dilatarsi delle dimensioni delle banche dati è sempre più spesso accompagnato, in tutto il mondo, da loro violazioni.
Dinamiche diverse s’intrecciano, e segnalano una “evoluzione rivoluzionaria” che dovrebbe approdare ad una “seconda Internet”. Ma questa traiettoria evolutiva non dovrebbe in nessun caso mettere in discussione la neutralità della rete e il suo carattere egualitario e libero, senza i quali Internet entrerebbe in contraddizione con se stessa e la propria storia.

lunedì 19 novembre 2012

l’Unità 19.11.12
Strage di bambini tra le macerie di Gaza
Negli attacchi di Israele a Gaza dieci bimbi rimasti sotto le macerie
Finora sono 60 i morti palestinesi
Colpita la sede dei media: feriti 8 giornalisti
Razzi contro Tel Aviv intercettati. Netanyahu: siamo pronti a tutto
di Umberto  De Giovannangeli


Eyad Abu Khousa, 18 mesi. Tasneem Nahhal, 9 anni. I loro corpicini vengono estratti dalle macerie della casa centrata da una bomba sganciata da un caccia con la stella di David. I raid israeliani entrano nel quinto giorno e per la gente di Gaza è «il giorno della strage degli innocenti»: dieci bambini vittime dei raid in poche ore, malgrado il coprifuoco auto-imposto di una popolazione che nella Striscia fazzoletto di terra fra i più giovani e densamente popolati al mondo non trova ormai altra scelta se non barricarsi in casa. L’aviazione d’Israele sostiene di agire per quanto possibile in maniera «chirurgica». Ma le vittime civili sono già decine.
E ieri è stata la giornata più sanguinosa dall’inizio dell’offensiva: nel solo rione Nasser, di Gaza City, una famiglia di 11 persone (6 bambini, quattro donne e un anziano), gli Aldalu, ha trovato la morte sotto le rovine della palazzina in cui abitava, centrata da un missile. Altri quattro piccoli erano diventati vittime «collaterali» dei bombardamenti nelle ore precedenti: due nel nord della Striscia, una nel campo profughi di al-Shati (Tasneem, 9 anni, uccisa con il papà), e un bebè, Eyad, di appena 18 mesi, in un altro campo profughi, quello di al-Bureji. Il totale dei morti palestinesi da mercoledì è salito a oltre 70, con almeno 650 feriti.
Le scuole sono rigorosamente chiuse e genitori in angoscia tengono i figli sigillati in casa. Anche chiusi a chiave se necessario. Devono schivare le finestre, giocare possibilmente per terra e come massima distrazione ci sono i programmi tv. Così andrà avanti per giorni, si teme, malgrado l’insofferenza dei più piccoli. «Ho avuto la sensazione di perdere i miei figli, che i traumi accumulati erano troppo forti, che rischiavo di renderli invalidi per tutta la vita», dice al telefono un uomo di Gaza che ieri è riuscito ad andare via, raggiungendo la località marittima egiziana di al-Arish, nel Sinai del nord. Cronaca di guerra: un raid israeliano nella notte tra sabato e domenica ha colpito il complesso Al-Shawa, dove hanno sede alcuni media locali e stranieri. Lo riferisce l’agenzia di stampa Màan, secondo cui ci sarebbero sei feriti, cinque giornalisti di al-Quds Tv e un cameraman, che ha perso una gamba. Distrutti anche gli uffici dell’emittente Russia Today.
Sembra che l’impatto sia avvenuto all’undicesimo piano del palazzo, proprio dove sono situati gli uffici di al-Quds. Un secondo attacco ha colpito poi un altro media center: due missili sono stati lanciati sul 15esimo piano dell’edificio dove hanno sede gli studi di Al-Aqsa tv. I soccorritori hanno fatto evacuare diverse persone rimaste ferite. L’aviazione israeliana ha ucciso il responsabile di Hamas addetto ai lanci di razzi da Gaza. A riferirlo è la televisione commerciale israeliana Canale 10. L’uomo Yihia Abbia è stato colpito a morte assieme alla moglie, mentre si trovava nella propria abitazione.
SIRENE D’ALLARME
Intanto le sirene tornano a risuonare a Tel Aviv, per la quarta volta negli ultimi giorni. Nel pomeriggio, due potenti esplosioni si sono udite in città. Quattro razzi palestinesi hanno colpito Ashkelon, città costiera del sud di Israele vicino al confine con Gaza. Un altro attacco è stato poi sferrato contro Shaar Haneguev, nei pressi della frontiera con Gaza. Da parte israeliana restano le tre vittime dei giorni scorsi, a fronte di 492 razzi lanciati da Gaza che hanno colpito Israele e altri 245 intercettati dal sistema di difesa «Iron Dome», per un totale dall’inizio del conflitto di 737. Gli obiettivi centrati, nell’intero periodo, dall’aviazione israeliana ha rivelato ieri l’esercito sono 1000: e uno di questi ieri mattina ha distrutto, senza fare vittime, la sede del governo di Hamas a Gaza.
Nello scontro in atto, l’opzione dell’operazione di terra da parte delle forze armate di Israele con 30mila uomini già pronti al confine resta possibile: «Se nelle prossime 24-36 ore avverte il vice-ministro degli Esteri israeliano Danny Ayalon continueranno a cadere i razzi, questo potrebbe innescarla». «Prima abbiamo bisogno che il fuoco cessi e poi possiamo discutere qualsiasi altra cosa. Metà Israele è sotto il fuoco, questo non può andare». Ad affermarlo è il premier Beniamyn Netanyahu a margine di un colloquio con il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius. Alti dirigenti citati in forma anonima da Ynet hanno sottolineato che «se c’è una via per completare gli obiettivi della missione senza azioni di terra», sarebbe «meglio» anche per Israele. Ma hanno comunque ribadito che il Paese è pronto se necessario all’offensiva. «Stiamo infliggendo a Hamas un duro prezzo. Tsahal (forze armate, ndr) ha colpito 1.000 obiettivi terroristici, e continua in questi momenti nelle proprie attività. È pronto per estendere le operazioni in maniera significativa»: così Netanyahu aveva aperto la riunione domenicale del Consiglio dei ministri. Gaza si prepara ad un’altra notte di paura. E di morte.

l’Unità 19.11.12
Zehava Galon:
«L’alternativa al terrore c’è: negoziare con l’Anp»
Avvocato, parlamentare alla Knesset, è la nuova leader del Meretz, la sinistra laica e pacifista israeliana. Sostiene la linea «due Stati per due popoli»
di U.D.G.


Prima di ogni altra cosa occorre raggiungere una tregua duratura e se ciò significa in impegno d’Israele a fermare le “eliminazioni mirate” contro i dirigenti di Hamas, ritengo che si debba accedere a questa richiesta, anche perché la realtà dimostra che questa politica (delle eliminazioni mirate) non è servita: abbiamo ucciso e in cambio abbiamo ottenuto più attacchi dei palestinesi». A sostenerlo è Zehava Galon, parlamentare israeliana e leader del Meretz, la sinistra laica e pacifista d’Israele. «La tregua come primo passo dice a l’Unità Galon ma ad essa deve legarsi una strategia politica che abbia al proprio centro la ripresa dei negoziati di pace con l’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen. Ai palestinesi dobbiamo offrire una chance negoziale, per dimostrare che esiste una terza via tra terrore e rassegnazione: la via del dialogo che porti all’unica pace possibile: quella fondata sul principio “due Stati per due popoli”».
A Gaza si muore, mentre le sirene d’allarme sono tornate a suonare a Tel Aviv. Il premier Netanyahu ha detto che Israele è pronto per una estensione dell’offensiva contro Hamas».
«Un’offensiva di terra sarebbe una decisione sciagurata che aggraverebbe ulteriormente la situazione. Dobbiamo negoziare una tregua e farlo non equivale a darla vinta ad Hamas».
Ma la maggioranza degli israeliani non sembra di questo avviso. Di certo, non lo sono Netanyahu ed Ehud Barak (il ministro della Difesa).
«La sicurezza d’Israele non può fondarsi sulla forza delle armi. Possiamo eliminare anche cento dirigenti di Hamas ma questo non ci garantirà di vivere in pace e in tranquillità, soprattutto per gli israeliani che vivono nelle città a ridosso della Striscia di Gaza. L’uso della forza maschera un’assenza di strategia politica da parte della destra israeliana e oggi anche qualcosa d’altro...». Cosa?
«Un cinico calcolo elettorale. Quello che guida Israele è un governo di piromani che punta alla guerra alla vigilia delle elezioni».
Un’accusa gravissima...
«Ma fondata su dati di fatto. Le scelte del governo dei falchi hanno determinato una devastazione sociale che non ha precedenti nella storia d’Israele: decine di migliaia di famiglie vivono oggi sotto la soglia di povertà, c’è un attacco pesantissimo a diritti sociali acquisiti e a pagarne il prezzo più alto sono le fasce più deboli della popolazione: gli anziani, i giovani, le madri single, le minoranze etniche. Sul piano politico, la sinistra e un centro democratico stavano risalendo nei sondaggi prefigurando una possibile alternativa al governo Netanyahu-Lieberman. La destra ha deciso di spostare l’attenzione sulla sicurezza, e fare campagna elettorale in un clima di guerra. Sia chiaro: nessuna giustificazione ai lanciatori di razzi, ma in questi anni la destra al governo non ha fatto un passo in direzione del dialogo, al contrario ha lavorato per indebolire e delegittimare la leadership moderata dell’Anp. Di nuovo, la destra cavalca la paura e vende un’illusione: quella di poter garantire la sicurezza facendo ancora di Gaza una prigione a cielo aperto; ma in una prigione crescono solo rabbia e disperazione, sentimenti su cui i gruppi estremisti palestinesi fanno leva per ingrossare le proprie fila. Di nuovo, gli interessi dei falchi dei due campi convergono nel chiudere ogni spazio di dialogo».
Gli analisti israeliani danno vincente alle elezioni di gennaio l’alleanza Netanyahu-Lieberman.
«Sarebbe una sciagura. Per Israele, non per una sua parte politica. Ritengo un governo “Biberman” (gioco di parole tra il soprannome di Netanyahu, Bibi e Lieberman, ndr) una minaccia per il carattere democratico d’Israele. Questa alleanza si fonda su una ideologia ultra-nazionalista, quella di Eretz Israel (il Grande Israele) e su una pratica politica che punta alla spaccatura della società israeliana e nei rapporti con i palestinesi, ad una resa dei conti militare. L’offensiva militare a Gaza è parte di questo disegno».

l’Unità 19.11.12
Tregua immediata
di Pasquale Ferrara


Per quanti lo avessero dimenticato ma non se ne facciano una colpa la questione israelo-palestinese è inquadrata ancora ufficialmente in un cosiddetto «processo di pace».
Benché si tratti ormai di una formula del tutto svuotata di contenuti e persino tristemente ironica mentre cadono bombe (su Gaza) e missili (da Gaza). Si potrebbe sostenere, a voler essere davvero naïf, che il processo di pace sarebbe ancora in piedi tra Israele e la Cisgiordania, mentre sarebbe ormai in stato comatoso (e non da oggi) nei riguardi di Gaza. Questo è stato l’errore fondamentale degli ultimi anni, almeno dalle elezioni palestinesi del 2006, e cioè pensare di poter raggiungere, in questa turbolenta regione del mondo, una «pace separata». La verità è che la ricerca di una pace separata ci ha sinora, nei fatti, separato dalla pace. In Occidente ci facciamo facilmente distrarre da questioni che - comprensibilmente coinvolgono lo stato di salute delle nostre economie e dei nostri sistemi politici. Ecco perché ci hanno colto di sorpresa gli eventi bellici a Gaza. La realtà è che da molti mesi nella regione si confrontano due opinioni pubbliche esasperate, anche se per ragioni e in misura molto diversa.
Da una parte la popolazione di Gaza, «intrappolata» nella Striscia, in condizioni economiche e sociali spaventose; dall’altra, la popolazione israeliana, sempre più impaurita e scossa dai lanci di missili da Gaza. È difficile parlare il linguaggio della politica e della diplomazia dinanzi all’esasperazione; eppure, questo dovrebbe essere il compito di leader di Paesi che vogliano davvero svolgere un ruolo e non limitarsi a gestire l’esistente, con l’obiettivo minimalista di limitare i danni. Questo è sembrato l’atteggiamento della comunità internazionale in particolare degli Usa, impegnati in una difficile campagna presidenziale e della Ue, attanagliata dalla crisi del debito e dai rischi di disintegrazione. Il punto è che la situazione, oggi più che mai, può sfuggire di mano. I contenuti del «diritto all’autodifesa» di Israele si presentano con varianti notevolmente diverse. Dal punto di vista strategico, Israele ha dinanzi a sé tre possibili alternative. La prima consiste nel proseguire le operazioni di «contenimento» di Hamas con iniziative tuttavia più «robuste» sotto il profilo militare. La seconda è una versione rafforzata della cosiddetta «Operazione Piombo Fuso» messa in pratica tra il 2008 ed il 2009: colpire le installazioni «ufficiali» e le infrastrutture controllate da Hamas, con la possibilità di una limitata operazione terrestre, rischiosissima anche nel caso in cui fosse concepita solo in termini provvisori. La terza è un’offensiva su larga scala mirante alla pura e semplice eliminazione di Hamas come forza di governo a Gaza, e ciò richiederebbe l’uso combinato di diversi strumenti di intervento, compresa una occupazione più o meno prolungata della Striscia. Tuttavia, rispetto al 2008-2009, la situazione nella regione è strutturalmente cambiata. Molti si sono illusi di poter metter nel congelatore il conflitto israelo-palestinese mentre tutto intorno mutava ad una velocità imprevista ed incontrollabile. Taluni analisti menzionano il ruolo destabilizzante che potrebbero avere i Fratelli Musulmani in relazione a Gaza. Non è detto; potrebbe essere una conclusione affrettata, poiché la stabilità a Gaza è per l’Egitto anzitutto un problema di sicurezza nazionale, vista la contiguità territoriale, e solo in seconda battuta diviene una questione di affinità ideologica o religiosa. L’iniziativa militare di Israele costringe l’Egitto a riapparire sulla scena medio-orientale dopo le convulsioni interne, ma in un
contesto in cui potrebbero essere riformulati (ma non certo demoliti) i due pilastri della sua politica estera, vale a dire il rapporto preferenziale con gli Usa e il Trattato di pace con Israele.
Più in generale, quasi tutti i Paesi della regione hanno a che fare, ora, con opinioni pubbliche radicalizzate. Inoltre, sono saltati alcuni equilibri fondamentali, come l’alleanza tra Turchia ed Israele e l’oggettiva diffidenza del governo Netanyahu nei riguardi del rieletto Obama. Non siamo tornati ad una situazione regionale pre-1967, ma le somiglianze sono preoccupanti. Ci sarebbero le condizioni per una forte iniziativa europea o meglio, dei suoi 27 governi... quanto meno a favore di una tregua immediata, per impedire una nuova deriva bellicista che sarebbe difficilmente controllabile. Siamo ancora in tempo.
*Segretario generale dell’Istituto Universitario Europeo

La Stampa 19.11.12
“La crisi bloccherà per due anni qualsiasi negoziato di pace”
L’analista Kupchan: “Usare i tank? Isolerebbe lo Stato ebraico”
di P. Mas.


La crisi di Gaza rinvia di almeno due anni qualunque trattativa seria sul futuro del Medio Oriente. L’obiettivo più pressante ora diventa evitare un’escalation che finirebbe per destabilizzare anche l’Egitto e la Giordania, condannando l’intera regione al caos. Uno scenario che farebbe comodo solo all’Iran, e al regime siriano di Assad, per distrarre l’attenzione da loro e impedire la soluzione dei problemi che li riguardano».
L’analista del Council on Foreign Relations Charles Kupchan vede le violenze in corso come un elemento capace di cambiare le dinamiche del Medio Oriente per un lungo periodo, se il nuovo governo egiziano guidato dai Fratelli Musulmani non riuscirà a contenere la situazione.
Che cosa sta succedendo a Gaza?
«Hamas si sente rafforzato dal cambio di regime al Cairo, e quindi è diventato più sfrontato, spingendosi a lanciare razzi verso Tel Aviv e Gerusalemme. Sta correndo un rischio, però, perché non deve esagerare il valore dell’appoggio dei Fratelli Musulmani. La sua campagna, infatti, minaccia di destabilizzare anche la Giordania e lo stesso Egitto, sullo sfondo di una situazione già molto complicata a causa della guerra in Siria. Questi sviluppi finirebbero solo per favorire l’Iran, e ciò non rientra negli interessi del nuovo presidente Morsi».
Come giudica il comportamento del leader egiziano?
«Finora ha scelto una linea abbastanza responsabile, cercando di mediare e collaborare con gli Stati Uniti per evitare l’escalation del conflitto. Morsi deve marcare la sua differenza rispetto a Mubarak, per ovvie ragioni di tenuta interna, però non ha sfruttato questa occasione per mettere sul tavolo la revisione del trattato di pace con Israele».
Che cosa pensa della linea scelta dallo Stato ebraico?
«Anche Israele ora deve mostrare equilibrio. La responsabilità di chi lancia i missili contro le sue città è chiara, ma una operazione di terra finirebbe comunque per isolare lo Stato ebraico, diminuire la sua credibilità, e disperdere il vantaggio politico di solidarietà internazionale che ha accumulato negli ultimi tempi come vittima di questi attacchi. Un’invasione porterebbe inevitabilmente con sé violenze che annullerebbero il credito acquisito finora presso l’opinione pubblica mondiale».
Qual è la strategia del presidente Obama?
«Evitare una guerra totale che farebbe saltare anche Egitto e Giordania, mentre restano aperta la crisi in Siria e la questione nucleare con l’Iran. Sarebbe la tempesta perfetta, l’esplosione di tutto il Medio Oriente, voluta forse proprio da chi è sotto pressione a Damasco e Teheran, e cerca di distogliere l’attenzione mondiale».
Se riuscirà a contenere la crisi, Obama potrà approfittarne per rilanciare le trattative di pace tra lo Stato ebraico e i palestinesi, oppure ogni velleità di dialogo è sospesa?
«Tra la questione di Gaza, la guerra in Siria, l’Iran, il rischio di anarchia nel mondo arabo e le elezioni israeliane in programma nel 2013, il negoziato resterà fermo per almeno altri due anni».

l’Unità 19.11.12
L’Italia faccia di tutto per fermare le armi
La voce di chi vuole la pace
di Flavio Lotti

Pochi giorni fa sono andato a Sderot in segno di solidarietà e vicinanza con gli israeliani che dal 2001 vivono sotto il tiro dei razzi lanciati dalla Striscia di Gaza. Ci sono andato con altri duecento italiani.
E insieme abbiamo sfidato le sirene che quel giorno hanno suonato cinque volte e il silenzio mediatico calato da lungo tempo su quella tragedia. Nomika Zion, figlia di uno dei padri fondatori dello Stato di Israele, aveva provato a farci desistere ma davanti alla nostra insistenza ci accompagna per le strade della sua città fino al confine con Gaza. E parla come un fiume in piena. «Sono molto pessimista. La nostra vita passa da una guerra all’altra. C’è ancora un piccolo gruppo di israeliani che crede nella pace. Tutti gli altri pensano solo alla prossima guerra. Qui la guerra è uno stato mentale. Ma la guerra ti distrugge la mente e ti avvelena il cuore. Così noi abbiamo perso la capacità di riconoscere i palestinesi come esseri umani. Per noi i palestinesi non hanno più una faccia, una voce personale, un nome. Hanno solo un’entità collettiva, un solo nome: terroristi. Ma quando smetti di considerare le persone come esseri umani, tu stesso smetti di essere umano. Per questo non riesco a vedere la fine del tunnel. Dobbiamo parlare con Hamas, mettere fine all’assedio di Gaza... ma il nostro governo non vuole sentir ragione. Ecco, voi, la pressione internazionale, voi siete la mia unica luce, la mia ultima speranza. Aiutateci». Nomika non ne può più della guerra, più o meno come i palestinesi che da sei giorni sono ripiombati nell’incubo del terrore. Nomika come i bambini di Gaza ci chiede aiuto. Ma noi cosa stiamo facendo?
Missili da Israele. Missili da Gaza. E la pace da dove? Dopo decenni passati inutilmente ad auspicare la pace in Medio Oriente non possiamo che ripartire da noi. È l’unica cosa seria e realistica che possiamo fare. E allora dobbiamo dire forte e chiaro: basta con le esortazioni, basta con gli inviti alla calma, basta con gli appelli alle parti! L’Italia ha il dovere di fermare la guerra a Gaza. Lo può e lo deve fare agendo con intelligenza e determinazione nell’interesse superiore dei diritti umani, della sicurezza internazionale, della giustizia e della pace.
L’Italia, che vanta ottime relazioni sia con Israele che con i palestinesi, può fare molto.
Ma deve cambiare: smettere di essere di parte, assumere un ruolo attivo, propositivo e progettuale. Nel Mediterraneo, in Europa e all’Onu. Per quanto tempo ancora potremo resistere senza avere una politica estera all’altezza della situazione?
Fermare la guerra a Gaza è indispensabile ma questa volta non basterà. È arrivato il momento di andare alla radice del problema e risolvere il conflitto tra questi due popoli. Sono passati 45 anni dall’inizio dell’occupazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Più di 20 da quando è iniziato il cosiddetto «processo di pace». Da allora si calcola che il mondo abbia speso 12mila miliardi di dollari e ancora oggi spendiamo per questo conflitto oltre due miliardi di dollari l’anno. Uno sforzo economico enorme accompagnato da vertici, viaggi, incontri, negoziati, piani, mediazioni e attività umanitarie che, a giudicare dai risultati, non è servito a nulla. Non ci possiamo più permettere di continuare in questo modo. Non è solo troppo costoso. È destabilizzante. Il conflitto è sulla terra. E su quella terra deve essere riconosciuto a entrambi il diritto di vivere in pace con gli stessi diritti, la stessa dignità e la stessa sicurezza. La formula è «due Stati per due popoli». E deve essere realizzata ora. Anche a costo di una inedita e creativa «imposizione» internazionale. Probabilmente è l’ultima possibilità e non ci conviene più aspettare.
L’Italia deve fare la sua parte, consapevole dei suoi limiti ma anche delle sue risorse, della sua prossimità e delle sue responsabilità. Chiudere oggi il conflitto israelo-palestinese conviene a tutti. Anche a noi. Per questo l’inazione degli altri non può più giustificare la nostra. Ps: ma i candidati alle primarie che ne pensano?
*Coordinatore nazionale della Tavola della pace

Repubblica 19.11.12
Obiettivo Teheran
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON SI SCRIVE Gaza, ma si pronuncia Teheran. Si scrive con il sangue dei bambini, come sempre, anche la nuova pagina dell’odio senza fine. È l’Iran, non i missili di Hamas o la rappresaglia di Tsahal, l’esercito israeliano, l’obbiettivo al quale guardano gli attori di una nuova edizione della interminabile strage. Si testano a vicenda, si sfidano e si misurano con il sangue, con la crudeltà insopportabile di quei corpi di bambini.
Bambini mussulmani ed ebrei, palestinesi e israeliani, ma sempre e soltanto innocenti con cui cercano di risucchiare Obama nel pozzo senza fondo del loro odio.
Ricostruiamo i tempi, che in ogni storia sono sempre essenziali per trovare un filo di comprensione e dare un senso, se è possibile farlo, a questo abominio. Era trascorsa appena una settimana dalla riconferma di Barack Obama alla Casa Bianca quando i missili di Tsahal, l’esrcito israeliano, sono piovuti mercoledì scorso su Gaza e hanno ucciso Ahmed al Jabary lo stratega di Hamas, insieme con altri cinque palestinesi e una bambina di 7 anni. Può essere stata soltanto una coincidenza cronologica, se scatta ora, improvvisamente, un’operazione che il New York Times
ha definito «il più feroce e violento assalto degli ultimi quattro anni» su Gaza?
Quattro anni sono appunto quanti ne sono trascorsi dalla prima vittoria di Barack Hussein Obama nel novembre 2008. Se mai la frusta e abusata espressione può essere usata a ragione, questa “feroce” recrudescenza della rappresaglia israeliana contro Hamas e Gaza, ha tutto il sapore di un azione a orologeria.
Lanciata certamente per colpire al Jabary, ma soprattutto per mettere alla prova il vero, storico e fondamentale obbiettivo della politica estera e militare israeliana: il presidente degli Stati Uniti. Per vedere fino a che punto Israele possa contare su di lui, se decidesse di affrontare il vero nemico che teme, l’Iran nucleare. Che Bibi Netanyahu e Barack Obama non siano né amici né siano in perfetta sintonia come Israele era con George W. Bush fino al 2008 è un fatto che la campagna elettorale americana finita da due settimane aveva ampiamente illustrato. Le accuse di indifferenza, tradimento, presa di distanza lanciate contro il presidente erano state esplicite e la simpatia della destra israeliana al potere era chiaramente riservata a Romney e ai suoi consiglieri strategici, i vecchi compari “neo con” che sarebbero tornati alla Casa Bianca, al Pentagono e al Dipartimento di Stato dietro di lui.
Nella logica brutale del Medio Oriente il solo strumento sicuro ed efficace per “testare” alleanze e solidarietà è la violenza. E alla violenza ha fatto ricorso Hamas, oggi puntellata e rifornita anche dall’Iran che l’ha dotata dei missili capaci di raggiungere Tel Aviv, che doveva mettere alla prova i nuovi governi emersi dai ruderi dei vecchi regimi dispotici, soprattutto in Egitto. Gli israeliani, che dopo la eroica e solitaria resistenza nella guerra del 1947, sanno di dovere, e di potere, contare sugli Stati Uniti per sopravvivere, dovevano, volevano vedere come Obama avrebbe reagito di fronte alla escalation di violenze militari più furiosa dal tempo dell’Operazione Piombo Fuso del dicembre 2008. Il mese della transizione fra l’amico certo, Bush, e l’incerto amico ancora da provare.
La risposta della Casa Bianca, secondo il classico stile di Obama, è stata più ambigua che soddisfacente, più ambivalente che rassicurante, per Netanyahu. In partenza per il viaggio in Birmania, dove è andato per celebrare il lento ritorno alla democrazia di quella dittatura militare, il primo Obama ha riconosciuto «il diritto di Israele alla legittima difesa », di fronte all’aggressione quotidiana di «migliaia di missili». Ma dopo avere dato l’imprimatur Usa al diritto di difendersi l’altro Obama ha condizionato le parole del primo. «Il diritto all’autodifesa e la protezione dei civili possono essere esercitati senza un’escalation della azione militare ». Evitare la rioccupazione, o l’intervento diretto a Gaza «sarebbe preferibile, non soltanto per il popolo che vive in quella striscia, ma per le stesse truppe israeliane che sarebbero
esposte al rischi di molti caduti».
Né semaforo verde, né semaforo rosso, è dunque il risultato del sanguinoso test che Hamas e Netanyahu hanno sottoposto ai rispettivi sponsor e sostenitori. Come l’Egitto, che dalla pace di Camp David nel 1976 fra Sadat e Begin resta il pilastro sul quale si regge la “non guerra non pace” in Medio Oriente, non vuole incoraggiare Hamas a scatenare quel bagno di sangue “infernale” che ha promesso, così l’America di Obama non vuole trovarsi di fronte a un’altra catastrofe politica, umanitaria e propagandistica come quella creata da “Piombo Fuso” nel 2008.
Semaforo giallo, dunque, da Washington a Tel Aviv, procedere con prudenza, con saggezza, con il coraggio del più forte davanti alle provocazioni del più debole e non fare prove generali per ben altri e ben più rischiosi attacchi militari non ai prigionieri di Gaza, ma a una grande nazione come l’Iran. Quei civili e quei bambini morti sulla linea di demarcazione fra palestinesi e israeliani sono, orribile a dirsi, pedoni mossi e divorati su una scacchiera per muovere verso pezzi importanti. Bibi Netanyahu parla di Gaza, ma pensa a Teheran.

Repubblica 19.11.12
“Stavo giocando poi è esploso tutto”
di Fabio Scuto


GAZA. HASSAN, l’addetto della morgue all’ospedale Al Shifa di Gaza City, ha il volto di pietra mentre depone nella cella frigorifera il corpicino di Eyad Abu Khosa, 18 mesi, morto senza nemmeno accorgersene ieri mattina sotto un bombardamento nel campo profughi di Al Bureij. Eyad è già avvolto nel sudario bianco che lo accompagnerà sottoterra, ma il telo è macchiato di sangue perché la ferita che l’ha ucciso versa ancora.

I MORTI non vengono più ricomposti - come la pietà umana vorrebbe - perché in ospedale il filo da sutura sta finendo e viene usato solo per i feriti. Con Eyad ieri, sotto il diluvio di “bombe intelligenti” che arrivavano da cielo e mare, sono morti altri 9 bambini, tutti sotto i 10 anni. Un missile ha centrato una palazzina di tre piani nel rione Nasser, e si portato via un’intera famiglia, gli Ad-Dalo: 5 donne, la nonna e 6 ragazzini; il più piccolo aveva una settimana, il più grande 5 anni. Nel suo quinto giorno la “seconda guerra di Gaza” ha conosciuto il suo bilancio più sanguinoso: 24 i morti ieri, 22 i civili palestinesi - 10 bambini - e due noti dirigenti di Hamas. In un atmosfera da incubo - la città deserta, i raid aerei che si susseguono, l’attesa carica di ansia e paura per l’attacco terrestre - la gente di Gaza piange questa “strage degli innocenti”.
«Se gli israeliani fermeranno i bombardamenti forse domani riusciremo a fare il funerale », dice Fadhi, lo zio di Eyad, unico parente che assiste al tragico rito nella camera mortuaria e firma le carte nello sgangherato ufficio a fianco, affollato dai parenti delle altre vittime che in silenzio aspettano il loro turno. Sono tutti uomini, almeno alle donne è risparmiata questa tragica incombenza, quest’ultimo dolore. La madre di Eyad, Safiah, è dall’altra parte dell’ospedale. Nel reparto rianimazione al piano terra i medici della terapia d’urgenza si stanno affannando a tenere in vita gli altri due fratellini di Eyad, di 4 e 5 anni, gravemente feriti nella stessa maledetta esplosione che ha ridotto la loro casa nel campo profughi a un pugno di sabbia.
Ambulanze e macchine civili arrivano di continuo nel cortile dell’Ospedale Al-Shifa il nosocomio più importante della città, più importante della Striscia - ma le sirene sono spente e i clacson muti perché non ce n’è bisogno: le strade di Gaza City sono deserte. La benzina scarseggia, al mercato nero ha toccato i 100 dollari per venti litri, ma soprattutto l’auto potrebbe diventare un bersaglio per i droni e per i missili degli F-16 a caccia delle rampe dei missili che comunque - dopo cinque giorni di bombardamenti senza interruzioni - continuano a piovere sul sud d’Israele.
Per evitare di essere colpiti i miliziani palestinesi hanno creato a Gaza postazioni di razzi ben mimetizzate, gli ordigni sono interrati, protetti da piastre mobili che aderiscono perfettamente al terreno e che vengono alzate con un radiocomando. Oppure quelle mobili vengono nascoste e spostate nelle aree più densamente abitate, impianti sportivi o vicino alle scuole per farsi scudo dei civili e cercare di sfuggire alla rappresaglia che invece puntualmente arriva dopo ogni lancio. Con il conseguente alto numero di vittime non combattenti. Gaza, con i suoi quasi due milioni di abitanti, è una delle aree più densamente abitate del mondo e quasi metà della palestinesi che ci vive ha meno di 15 anni, bambini e adolescenti hanno sempre pagato un prezzo alto ad ogni operazione militare.
L’atrio del pronto soccorso dell’Al-Shifa è una bolgia di gente che arriva, che piange, che si dispera, che maledice il mondo, che fuma in silenzio con lo sguardo basso guardandosi le scarpe. Il “triage” è invaso di feriti e i medici del pronto soccorso lavorano senza sosta, dibattendosi in mille difficoltà, che sono soprattutto legate alla penuria della farmacia dell’ospedale e alla mancanza di energia. I tavoli operatori di primo intervento nella sala a lato sono separati da una semplice tenda, Il dottor Medhat Abbas, che dirige l’ospedale, durante una pausa tra un’operazione e l’altra ci dice: «In 5 giorni abbiamo consumato quel che consumiamo in 3 mesi, abbiamo curato finora oltre 500 feriti, i 700 posti letto dell’ospedale sono tutti occupati e anche i 20 che abbiamo nella terapia intensiva; lavoriamo senza elettricità per 12 ore al giorno, non si può operare al buio, non funzionano le macchine per l’intervento. E poi stiamo finendo gli anticoagulanti, gli analgesici, gli anestetici, i materiali per le lastre, le sacche per le trasfusioni… ma anche le cose più semplici come i guanti o il filo per le suture». Salendo le scale sbrecciate fino al terzo piano si arriva al reparto Pediatria, nel disimpegno che porta alle stanze un gran poster di “Winnie the Pooh” e i disegni lasciati dai piccoli pazienti sono fissati al muro con le puntine. Anche Pediatria non ha un solo posto libero, perché il più alto numero di feriti si registra tra i bambini. Le case sono piccole a Gaza e il pezzo di strada davanti all’uscio diventa una propaggine dell’abitazione, tutti i ragazzini giocano per la strada. Difficile tenerli fermi, dentro casa, sotto controllo, lontano anche dalle finestre. Non avvertono il pericolo, non hanno la malizia dell’adulto nel riconoscere il rumore fisso che fanno i droni che incessantemente sorvolano la Striscia, il sibilo del missile che annuncia la morte in arrivo quando ormai è troppo tardi. Le scuole nella Striscia sono chiuse da quasi una settimana, i negozi pure, le strade - vuote del caos di traffico abituale - diventano immaginari campi di calcio per partite senza fine. Mahmoud Karton, 6 anni appena fatti, stava proprio giocando una di quelle partite sulla strada di casa nel popolare quartiere di Rimal, quando un missile ha colpito un palazzo di fronte e una scheggia nella schiena gli ha strappato via un rene. La madre Nila, in hijab nero e foulard, è seduta ai piedi del letto. Mahmoud ha il cannello nel naso e l’ago della flebo nella mano destra, ma lo sguardo è rimasto vivace. Che ti ricordi? «Giocavamo e vincevamo pure… poi un fischio, una luce, un gran male lì», dice indicando i grandi occhi neri il lato destro delle coperte consunte ma pulite che lo coprono. «Noi di Gaza siamo ormai abituati a tutto», dice Nila ringraziando per la visita com’è costume fra gli arabi, «l’importante è che sia vivo, abbiamo già perso Majid durante la guerra del 2008… aveva la stessa età. Non voglio dire contro nessuno, ma gli uomini facciano la loro guerra e lascino stare i nostri bambini».

Repubblica 19.11.12
Lo scrittore Keret: “Il conflitto rende entrambe le parti più forti. Per questo non cedono”
“Nessuno vuole davvero la pace ci sono in gioco troppi interessi”
di Rosalba Castelletti

«QUESTO conflitto rende più forte sia Hamas sia il premier Netanyahu. Per questo non ne vedo una fine prossima». Lo scrittore israeliano Etgar Keret, 45 anni, i cui lavori tradotto in 35 Paesi e 31 lingue, è pessimista. Quando Israele ha dato il via all’operazione “Colonna di nuvo-le”, si trovava negli Stati Uniti per presentare il suo ultimo libro All’improvviso bussano alla porta, ma venerdì è rientrato a Tel Aviv per stare vicino alla sua famiglia. «Ogni volta che suona una sirena, cerchiamo riparo in spiaggia come nel 1991. Non è una situazione piacevole, soprattutto per il mio figlio più piccolo, ma poi mi dico che quello che stiamo vivendo in questi giorni non è minimamente comparabile all’incubo quotidiano delle famiglie che abitano nella Striscia di Gaza o nel Sud di Israele».
L’operazione israeliana è iniziata con l’omicidio di Ahmed Al Jabari. Come si giustifica la sua uccisione?
«Se si guarda al Medio Oriente, il quadro generale che si ha è che Israele ha occupato la Palestina e che quindi i palestinesi hanno reagito. Ma, nel caso specifico, la logica del governo israeliano è semplice: se tu mi spari, io ti sparo. Perciò l’omicidio di Jabari è legittimo nell’ottica israeliana. La giustificazione sta nell’escalation di lanci di razzi da parte di Hamas delle scorse settimane ».
Non c’è nessuna relazione con le prossime elezioni israeliane?
«Le ragioni dell’attacco sono molte. Netanyahu ha interessi politici sia esterni che interni. Il bombardamento su Gaza rientra in un piano più grande che comprende l’invio di un monito all’Iran. Non c’è però dubbio che il conflitto lo renderà politicamente più forte in casa. Fu eletto per la prima volta nel 1966 dopo che Shimon Peres non era riuscito a fermare l’ondata di attacchi terroristici contro i civili. Fu Hamas a fargli vincere le elezioni allora e gliele farà vincere anche stavolta. Hamas è un bene per Netanyahu come Netanyahu è un bene per Hamas. Questo conflitto li rende reciprocamente più forti».
Come si può fermare questa spirale?
«Israele dovrebbe concedere una capitale ai palestinesi e i palestinesi dovrebbero riconoscere Israele come Stato ebraico. Ma nessuno vuole cedere. Nessuno vuole i negoziati. Entrambi dovrebbero instaurare nuove relazioni e raggiungere un compromesso pragmatico. La retorica non porterà da nessuna parte».

l’Unità 19.11.12
Primarie
Già 600mila iscritti «No a inutili tensioni»
A sei giorni dalle primarie le preregistrazioni procedono spedite
Trentamila volontari ieri all’opera, per domenica pronte 8 milioni di schede
L’invito a registrarsi prima di domenica, recandosi presso uno degli uffici elettorali
Appello degli organizzatori: sia una grande festa
di Giuseppe Vittori


ROMA Superata quota seicentomila. Tanti erano gli iscritti censiti ieri pomeriggio dal quartier generale di Italia Bene Comune quando ancora i 6500 uffici elettorali erano aperti. Una mobilitazione in vista dell’ultima settimana prima dell’apertura dei gazebo, domenica prossima dalle 8 del mattino alle 20 di sera, che ieri ha visto in campo quasi trentamila volontari in tutta Italia. Una settimana, quella che sta iniziando, che sarà al calor bianco: cinque i candidati (Bersani, Vendola, Renzi, Puppato, Tabacci), ma l’attenzione si concentra sulla battaglia tra il segretario Pd e il sindaco di Firenze.
Duecentomila le iscrizioni on line, 400mila quelle cartacee, oltre 8mila gli uffici elettorali già costituiti, mille quelli che apriranno i battenti da qui a domenica. Sei milioni le schede che verranno consegnate nei kit (seicento schede elettorali in ognuno), due milioni quelle di scorta, mentre le previsioni ufficiose del quartier generale si attestano tra i due e i tre milioni di partecipanti alle primarie. Ma fare stime certe è impossibile, come hanno dimostrato i gazebo nel 2009 quando andarono a votare oltre tre milioni di elettori.
La preoccupazione maggiore, adesso, è il clima che potrebbe crearsi nei seggi tra i rappresentanti dei candidati. Stavolta sono primarie «caldissime», i sondaggi raccontano di un vantaggio di Bersani che stacca Renzi di vari lunghezze ma l’esito nessuno lo da per scontato. La battaglia è soprattutto tra il segretario e il sindaco e quest’ultimo è agguerrito. «Regole fatte per restringere e non per allargare la partecipazione», è stato il suo leit motiv durante la campagna elettorali. Dal suo Comitato non si contano gli appelli ai rappresentati ai seggi a tenere gli occhi aperti. «Inutili tensioni», commentano dal Comitato organizzatore, meglio sarebbe «mantenere la calma e vivere questo appuntamento come una grande festa di partecipazione del popolo di centrosinistra». Il timore sono la valanga di ricorsi e reclami che potrebbero arrivare al Comitato dei Garanti e in via Tomacelli 146, sede del comitato Italia bene Comune. Soprattutto nel caso in cui si dovesse andare al ballottaggio: il rush finale caratterizzato da polemiche legate ai ricorsi o ai sospetti di brogli, raccontano al Pd, sarebbe un danno prima di tutto per il centrosinistra. E questa è la preoccupazione del segretario Pier Luigi Bersani che l’altro giorno ha invitato ad avere rispetto per la correttezza delle migliaia di volontari che garantiranno lo svolgimento delle primarie e dunque a con calare ombre di sospetto sulla regolarità del voto.
Al punto che l’altro giorno alla Leopolda è stato consegnato un vademecum: massima attenzione ai verbali (da fotografare), all’integrità delle urne, a non abbandonare il luogo dove si svolgono le operazioni di voto.
LA BUONA POLITICA
Rassicurante Laura Puppato: «Le primarie del centrosinistra, chiunque sarà il vincitore, saranno servite a far riavvicinare i cittadini alla politica», dice durante il suo tour elettorale tra Abruzzo e Puglia. «L’altissima partecipazione agli incontri, con punte di oltre 300 persone in piccole realtà come Roseto degli Abruzzo racconta dimostra che se la politica si propone obiettivi chiari, definiti e condivisibili, e esce dalle stanze chiuse del potere può veramente riavvicinare la gente». Anche Bruno Tabacci sulla stessa linea: «Le primarie cadono in un momento particolare e complesso e c’è bisogno di avere lucidità dopo un ventennio in cui il nostro Paese ha perso il senso della visione. Il mondo nel frattempo è cambiato e noi siamo ancora con la testa ripiegata all’indietro».
L’appello che lanciano dalla coalizione è quello di registrarsi comunque prima di domenica, per coloro che possono, recandosi presso uno degli uffici elettorali più vicini (l’elenco è pubblicato sul sito www.primarieitaliabenecomune.it) muniti del numero del seggio dove si vota alle politiche (scritto sulla tessera elettorale), dare la propria adesione al Manifesto della coalizione, un contributo minimo di due euro, e ritirare così il certificato con il quale sarà possibile votare domenica prossima e in caso di ballottaggio il 2 dicembre.
Chi si registra entro il 23 novembre potrà comunicare di voler votare in un luogo diverso, saranno facilitati i fuori sede e in ogni caso domenica ci sarà un aumento degli addetti alla registrazione soprattutto nei seggi che nella passata tornata hanno registrato una maggiore affluenza. Se ci sarà il candidato premier o dovrà essere ballottaggio si saprà soltando domenica in tarda serata.

l’Unità 19.11.12
Il leader di Sel: conflitto d’interessi a Firenze
«Renzi deve spiegare se c’è conflitto di interesse tra lui, il Comune di Firenze, l’Istituto di credito fiorentino e un finanziere noto come suo sponsor»


Così Nichi Vendola chiede al sindaco di fare chiarezza sull’investimento che l’Ente Cassa di Risparmio di Firenze ha deciso di fare nel fondo Algebris di Davide Serra, il finanziere su cui nelle scorse settimane s’era scatenata la polemica perché la sua società ha sede alle Cayman. Appena l’altro giorno Renzi lo ha voluto alla convention della Leopolda proprio per dimostrare che su quel legame non aveva nulla da nascondere.
Come raccontato dal “Il Fatto” di ieri, l’Ente Cassa di Risparmio di Firenze ha investito 10 milioni con
Serra. La fondazione bancaria è presieduta da Jacopo Mazzei definito dal quotidiano «amico del sindaco», mentre nel cda siede Marco Carrai da sempre legato a Renzi (è ad della Firenze Parcheggi). Infine nel comitato di indirizzo dell’ente c’è Bruno Cavini che fa parte dello staff del sindaco. Da Palazzo Vecchio però ribattono che il Comune nell’ente non conta quasi nulla. Che ha il potere di nominare solo un membro dei 22 che formano il comitato di indirizzo e che questo organo non ha alcun potere di decidere gli investimenti dell’ente. «Non mi piacciono le campagne elettorali fatte di colpi bassi conclude Vendola -. Ma la questione morale è legata al fatto che la politica non è più autonoma dai poteri forti».

Repubblica 19.11.12
Il presidente Mazzei: “Acquistati 10 milioni sul fondo Algebris ma Matteo non c’entra niente”
Cassa di Firenze, è polemica sui bond di Serra
di Ernesto Ferrara


FIRENZE — Prima la cena a porte chiuse a Milano, ora i 10 milioni di CoCo bond del fondo Algebris acquistati dall’Ente Cassa di risparmio di Firenze, la principale fondazione bancaria della città, nel cui cda siede Marco Carrai, amico e consigliere di Renzi. Per la seconda volta in poche settimane il finanziere Davide Serra, patron di Algebris — il fondo con sede nel paradiso fiscale delle Cayman che proprio per Renzi aveva organizzato la cena col mondo della finanza a Milano il 17 ottobre scorso scatenando una tempesta con Bersani — irrompe sulla scena delle primarie.
E ancora una volta scoppia la polemica intorno al rottamatore, ieri nella sua Bettola, a Rignano sull’Arno, accolto da una festa di paese. «Renzi spieghi se c’è conflitto di interesse tra lui, il Comune di Firenze, l’istituto di credito fiorentino e un finanziere noto come suo sponsor», lo attacca lo sfidante Nichi Vendola.
È il Fatto quotidiano a rivelare ieri l’investimento dell’Ente Cassa di risparmio di Firenze: un’operazione che risale a fine settembre. C’entrano qualcosa Renzi e il suo rapporto con Serra? Il sindaco nomina nell’Ente solo un membro del comitato d’indirizzo: in questo caso il portavoce di Renzi, Bruno Cavini. «Queste cose non passano dal comitato di indirizzo e comunque io non ne sapevo nulla», precisa Cavini. E anche il presidente dell’Ente Cassa, Jacopo Mazzei, chiarisce: «Ho conosciuto Serra quest’estate al mare, mi ha parlato di questi prodotti, fondi obbligazionari subordinati, con rischi accettabili. È tutto nato da lì. Non sapevo certo che Serra sarebbe stato coinvolto in iniziative di sostegno a Renzi e non sono stato io a presentarlo a Matteo. Insieme li ho visti solo una volta: alla famosa cena di Milano dove ero invitato anch’io».
Carrai, membro del cda, ha avuto un ruolo nell’operazione? «Lui non c’entra nulla, gli investimenti di questo tipo sono decisi dalla commissione patrimonio, che poi relaziona al cda», tiene a dire Mazzei. Le opposizioni fiorentine, Sel e Perunaltracittà di Ornella De Zordo, annunciano battaglia nel Consiglio comunale di oggi: «L’Ente taglia i fondi al volontariato e investe 10 milioni in fondi ad alto rischio, Renzi spieghi se c’è conflitto d’interesse ». Renzi non parla, Mazzei precisa: «Non è vero che tagliamo i fondi al territorio, investimenti e erogazioni sono settori diversi».

Repubblica 19.11.12
Il Porcellum peggiorato
di Piero Ignazi


IL PRESIDENTE Napolitano ha ripetutamente, insistentemente richiamato i partiti alla necessità di cambiare la legge elettorale, ma siamo arrivati al punto che l’unica riforma alle viste si riduce a qualche pezza appiccicata sull’orrido Porcellum.
Con il risultato di peggiorarlo ancora, se mai fosse possibile. L’irritazione del presidente è comprensibile: nonostante i suoi moniti, i partiti si sono dimostrati svogliati e neghittosi. Interessati ad altro, insomma. E quando si sono degnati di affrontare il problema si sono attorcigliati intorno a formule astruse elaborando ibridi degni di Frankenstein, in cui si combinavano, maldestramente, l’attaccamento pervicace del Pdl a forme proporzionali con la pulsione maggioritaria del Pd. (E non si è mai capito come mai per anni si sia detto il contrario, e cioè che al centro-sinistra piaceva il proporzionale e al centro-destra il maggioritario, identificando addirittura in Berlusconi il suo alfiere, quando è vero il contrario, tant’è che in tempi di Mattarellum il centro-destra prendeva sempre meno voti del centro-sinistra nella scheda maggioritaria).
Se siamo arrivati a questo punto le responsabilità vanno equamente distribuite. Alla Lega quella di aver ideato la legge, al Pdl di averla sempre difesa, all’Udc di essersi acquattata al misfatto, salvo piangere per non poter giocare uno dei suoi asset migliori, la caccia alle preferenze, al Pd di non aver mai proposto una alternativa forte in
cui riconoscersi. Ciò detto, al Partito democratico va rimproverato qualcosa in più, perché una seria opposizione deve prendersi delle responsabilità per guadagnare credibilità come forza di governo. Era quindi dovere del Pd condurre una battaglia, magari di bandiera ma “onorevole”, in difesa di pochi e chiari principi: l’elezione di un rappresentante per ogni collegio elettorale garantendo quindi un rapporto più diretto tra cittadini rappresentanti; la riduzione della frammentazione senza mortificare la rappresentatività; la scelta per una maggioranza di governo; il rigetto di distorsioni premiali. Tutti principi insiti nel doppio turno alla francese, dalla possibilità del voto “espressivo” grazie all’ampia offerta elettorale del primo turno, allo stimolo a formare coalizioni pre-elettorali per superare la soglia di sbarramento del secondo turno. Tra l’altro, con il doppio turno votiamo già per i sindaci, e non c’è mai stato sistema elettorale più apprezzato dai cittadini. Perché il Pd ha avuto paura di riproporlo sic et simpliciter? Forse perché si è fatto sedurre dalle delizie dei tatticismi parlamentari, o imbrigliare dal fair play con gli altri partner della coalizione, o trascinare dalla
hybris di elaborare qualcosa di così originale ed efficace da convincere anche gli altri?.
Sia come sia, il tempo è scaduto per proporre una vera riforma elettorale. Lo ha ricordato il Consiglio d’Europa: approvare nuove norme elettorali un anno prima del voto è una forzatura. Ora c’è tempo solo per interventi di contorno che salverebbero l’anima ai partiti, lenirebbero l’irritazione del Quirinale, e getterebbero in pasto all’opinione pubblica una immagine/pretesa di volontà riformatrice. Ma è una operazione di corto, cortissimo respiro per gli effetti incerti, distorsivi e di breve periodo che avrebbe una legge rimaneggiata nel premio di maggioranza — perché solo di questo si tratta e non di altro. E poi, un intervento in extremis senza dignità di vera riforma andrà incontro allo sbertucciamento grillino: dal suo blog partiranno le bordate contro una legge fatta per salvare il posto alla Casta, il potere dei soliti partiti, ecc, ecc.. Al netto delle esasperazioni grilliane, c’è però una opinione pubblica esasperata nei confronti della politica fuori dal Palazzo, e una riformetta che non offra un diverso e migliore rapporto tra eletti e rappresentanti non farebbe che esasperarla. Insomma, un infangamento ulteriore del Porcellum, con questo balletto sui premi da fiera zootecnica, irrita e delude. Per una volta, piuttosto che un rabberciamento dell’ultimo minuto da dover poi modificare ancora per la sua insostenibilità, meglio niente.

Repubblica 19.11.12
Dai renziani a Vendola timori sulla macchinosità delle procedure. I bersaniani: “Voteranno tutti”
L’incubo della doppia fila ai gazebo “Gli uffici elettorali non bastano”
di Giovanna Casadio


ROMA — «Ci vogliono dai 4 ai 5 minuti per registrarsi alle primarie. Facendo un rapido calcolo: se i pre-registrati non saranno più di un milione, e se però riuscissimo come contiamo di fare - a portare ai seggi delle primarie 4 milioni di elettori, ecco che ci vorrebbero 27 ore circa per votare. mentre di ore domenica prossima ne abbiamo 12». Il countdown delle primarie (-6 giorni) comincia con un'altra polemica. Roberto Reggi, il coordinatore del “comitato per Renzi”, chiede un potenziamento degli uffici elettorali: vista la strada scelta, ovvero la registrazione obbligatoria, ce ne vogliono tanti quanti sono i seggi. E poi, aggiunge, bisognerà organizzare ogni metodo per accelerare le procedure di voto. Perché - avverte Reggi - «sarebbe un disastro se non riuscissimo a fare votare tutti quelli che si mettono in fila: allora, lo staff organizzativo del Pd dovrebbe dimettersi ». Ci saranno doppie file e il rischio di lentezza è concreto. Sempre che la sfida tra Bersani, Renzi, Vendola, Laura Puppato e Tabacci per la premiership del centrosinistra riporti in quota la politica e vinca la disaffezione.
Matteo Renzi, il “rottamatore”, ripete che più gente va a votare, più lui ha buone chance e perciò il suo slogan ora è: «Meglio perdere un quarto d'ora in più domenica in fila, che i prossimi cinque anni». Laura Puppato incalza: «Non rifacciamo gli errori di burocratizzare perché dissuadiamo dalla democrazia».
Niente rigidità: insiste Vendola. Dallo staff organizzativo, i bersaniani replicano ai renziani: «Sono lamentele un po’ folli».
Nico Stumpo ricorda che alle ultime primarie - quelle del 2009 per la segreteria del Pd, in cui si fronteggiarono Bersani e Franceschini, e andarono a votare in 3 milioni e 100 mila - le procedure richiedevano un tempo quasi uguale, e tutto si faceva in un solo giorno. Comunque, l'incognita è appunto la partecipazione. L'ultimo dato disponibile ieri sera, lo fornisce Roberto Cuillo: 600 mila i preregistrati, di cui 200 mila online (sul sito www.primarieitaliabenecomune. it ) e 400 mila persone sono andate negli uffici elettorali di tutt'Italia a iscriversi. Non molti?
Cuillo: «Ma ora inizia il rush finale ».
Regione per regione arrivano numeri e problemi. A Napoli - la città dello scandalo delle ultime primarie per il sindaco - e in provincia, i registrati sono 20 mila; 12 mila a Salerno e 8 mila a Caserta. Già sono stati individuati 550 uffici elettorali in tutta la Campania. «Insomma, tutto il territorio sarà coperto», spiega Francesco Dinacci, il responsabile dell'organizzazione campano. I veleni che accompagnarono le primarie del gennaio del 2011, poi annullate per brogli, sono stati presi come esempio di ciò che non si deve più ripetere e perciò Bersani ha voluto l'albo degli elettori.
In Piemonte 50 mila registrati, poco più di un quarto dei votanti del 2009. I responsabili dell'organizzazione sono fiduciosi, pensavano che la pre-iscrizione, soprattutto quella online, andasse anche peggio. Fioccano cifre e anche scontri su dove tenere i banchetti di pre-registrazione. «Non va bene se sono solo nelle sedi del Pd, meglio davanti ai supermercati, in piazza», ribadisce Reggi. Cuillo replica. «Ci sono dappertutto, io mi sono registrato a Roma in un camper ». A Genova, città concreta, stanno preparando i seggi per domenica prossima: in tutto, inclusa la provincia, saranno 124, e hanno dato la loro disponibilità un ristoratore di Albaro (quartiere “bene”) e una dottoressa di Staglieno (quartiere popolare). Finora in Liguria di sono registrati in 13 mila. In Emilia Romagna, ci sono già state code: 65 mila gli iscritti (di cui 25 mila online), il contributo versato è in media di 3 euro e 50 (quello previsto è di 2 euro).
Bersani si è già registrato a Piacenza, la sua città. In Lombardia (a Milano e nel milanese 25 mila iscritti), la preoccupazione è: «Come ci si comporta nei piccoli comuni dove magari viene a votare chi è stato in una lista civica alternativa alcentrosinistra? Mica possiamo fare il tribunale del popolo ». Infine, bisognerà vedere come risponde la Sicilia di Crocetta e dei grillini: finora nel palermitano 3.700 iscrizioni. In Puglia, anche per via di Vendola, si prevede un boom: intanto 19 mila registrati, il numero più alto a Foggia. A Roma, sono 35 mila iscritti.

l’Unità 19.11.12
I cattolici stanno bene nel socialismo europeo
di Paolo Borioni


ALCUNI GIORNI FA SU «L’UNITÀ» UN ARTICOLO DI STEFANO FASSINA SU CRISTIANESIMO PROGRESSISTA E SINISTRA EUROPEA mi ha suggerito diverse riflessioni critiche, nonostante io condivida quasi totalmente le sue idee e intenzioni. Penso anch’io che occorra un’opera di riforma netta della democrazia e della società europea, senza la quale l’ideologia dell’austerità perpetuerà la crisi, lo squilibrio e l’esclusione, causando meno mobilità sociale e quindi meno competitività. Condivido anche, nell’impianto generativo del Pd, che in quest’opera occorra il cristianesimo progressista e popolare di Marini, di Gabaglio e di Carniti, per citare alcune delle persone con cui (ha ragione Fassina) è più utile e fruttuosa la condivisione. Con Emilio Gabaglio (un grande conoscitore del movimento operaio europeo) interloquisco anch’io nel lavoro alla Fondazione Brodolini.
Va chiarito però che in questa sua opera il Pd non ha nulla da guadagnare nel dipingere, sbagliando, un socialismo europeo agonizzante, che pare affiorare nel pensiero (o forse nel desiderio) di alcuni. A tratti anche nell’articolo di Fassina. Né, soprattutto, ha da guadagnare il Pd se cede alla tentazione di ritenersi un fenomeno dalla originalità assoluta. Esagerare i tratti dell’anomalia italiana finisce per esaltare il senso di distanza dell’Italia dall’Europa, legittimando i bizzarri e in realtà regressivi nuovismi degli ultimi lustri (ostili alla leadership di Bersani), e favorendo anche chi vorrebbe desistessimo dal far partecipare la sinistra italiana al cambiamento, verso sinistra, dell’Europa.
La novità, diversa dal nuovismo regressivo, ha radici nella sinistra europea. Anche l’innesto fra socialismo democratico e cristianesimo sociale che avviene nel Pd è, sebbene in condizioni meno confuse, già avvenuto nel socialismo europeo. Olof Palme, nel 1965, tenne uno dei discorsi che più ne sancirono il grande carisma proprio di fronte al «Movimento per la fratellanza», cioè all’organizzazione cristiana presente nel socialismo svedese. Egli ritenne di toccare le corde profonde di una evidente comunanza dicendo che per il socialismo «i valori umani sono molto più che diritti e libertà. Essi sono legati alle condizioni economiche e sociali e alla questione della struttura e dell’organizzazione della società». La riforma del capitalismo per la libertà e l’integrità delle persone (questo indicava Palme) è stata poi condivisa da Delors, che dal sindacato cristiano confluiva nel nuovo partito socialista di Mitterrand (collaborando molto con Franco Archibugi, socialista italiano); da Gino Giugni che, morto Brodolini, completava con Donat Cattin la riforma dello Statuto dei lavoratori; e da Pierre Carniti, che prima si mobilitava per eleggere Riccardo Lombardi a Milano, e poi veniva egli stesso eletto al Parlamento europeo, nelle file socialiste. Insomma, entrando nella sinistra europea, il Pd e specie la sua parte cristiana devono essere consapevoli, e lieti, di non venirvi accolti come inediti estranei, anche se la sinistra europea (lo si accetti) rimane a irreversibile maggioranza socialdemocratica.
Il socialismo europeo, d'altronde, è una vera salvezza per chi altrimenti, pur progressista, dovrebbe militare nel Partito popolare europeo dei liberal-conservatori Cameron e Merkel. Insomma: i nostri cristiano-sociali dovrebbero augurarsi di trovare una socialdemocrazia forte, in uscita dagli anni del moderatismo neoliberale, e che li accolga con i pensieri e i desideri di Olof Palme, e non un socialismo europeo in via d’estinzione.
A questo proposito sbaglia, credo, Stefano Fassina quando suppone che la socialdemocrazia è in declino in quanto esperienza legata al fordismo del passato. Non avrà difficoltà a comprendermi, poiché egli sa che le difficoltà della sinistra provengono dal passaggio da un tipo di crescita trainato dai salari ad uno trainato dal debito (specie privato) e dalla finanza su questo distruttivamente cresciuta. Le forme dell’investimento si sono dissociate dalla regolazione e dalla negoziazione con sindacati, lavoratori, partiti. Così, non la socialdemocrazia in quanto tale, ma qualunque negoziazione democratica con il capitalismo ha perduto efficacia. Oggi, però, la crisi mostra per l’ennesima volta nella storia che senza dare forza alle organizzazioni del lavoro dipendente e al ciclo investimenti-occupazione-welfare, il capitalismo va infallibilmente (e rovinosamente) a sbattere.
Dunque, visto che la socialdemocrazia rappresenta in Europa la parte preponderante di interessi sociali che, in Italia, il Pd di Bersani mira a valorizzare, uscire dalla crisi significa rinforzare la sua missione storica. Se, insomma, la Spd lotterà per far guadagnare di più i propri lavoratori, ripartiranno insieme l’Europa e la socialdemocrazia. Altrimenti, certo, la socialdemocrazia rimarrà in difficoltà, e assediata dal populismo, ma il Pd sarà probabilmente spazzato via, o in preda di chi, oggi come ieri, intende asservirlo ad una modernità tutta elitista, neoliberale e mediatica. Questo, peraltro, lo hanno assai più chiaro Marini e Gabaglio di certi dirigenti ex-Pci. Molti ex-comunisti si sono smodatamente entusiasmati, negli anni 90, per Blair e «l’Ulivo mondiale». Come dice spesso Laura Pennacchi, erano in realtà da sempre più vicini a Einaudi che a Palme. Usciti dal guscio del comunismo hanno visto Blair e lo hanno scambiato per la loro guida nella sinistra moderna. Fassina, Gabaglio, Marini, Orfini e altri, combattono oggi il fallimento di quegli anni di svolte remissive e infelici. Basta pensarci e comprenderanno che possono vincere solo in una socialdemocrazia europea forte e determinata a trasformare l’Europa della crisi neoliberale.

Repubblica 19.11.12
“Con l’accordo sulla produttività passa il modello Marchionne”
Landini: su orari e mansioni si va contro la Costituzione
di Roberto Mania


ROMA — «Marchionne se ne sta andando dall’Italia, ma il suo modello rischia di estendersi a tutto il paese. Tutto questo può sembrare paradossale, ma è così. E tutto questo è anche contro le nostre leggi e i principi costituzionali». Maurizio Landini, 51 anni, da due segretario generale della Fiom, i metalmeccanici della Cgil, parte dalla Fiat per spiegare il suo no all’accordo sulla produttività proposto dalle imprese, ma anche per parlare di una nuova alleanza tra lavoratori e studenti che ruota intorno ai diritti (al lavoro e all’istruzione pubblica) «mentre — sostiene — assistiamo a un pericoloso processo di involuzione democratica».
La produttività intanto. Perché la Fiom, come la Cgil, è contro l’intesa? Perché, anche in questo caso, ritorna una sorta di “ossessione Fiat” da parte vostra?
«Perché quel testo mette in discussione l’esistenza stessa del contratto nazionale».
Non c’è scritto da nessuna parte.
«No? Quando non è affatto scontato che il contratto nazionale fissi i minimi retributivi per tutti non si mette in discussione forse il ruolo del contratto nazionale? E quando si punta a dare piena attuazione al famigerato “articolo 8” voluto dalla Fiat e scritto da Sacconi non si finisce per legittimare contratti che sono contro le nostre leggi e pure contro la Costituzione?».
A cosa si riferisce?
«Alla possibilità che con un accordo tra privati, quale è un contratto di lavoro, si possa derogare alle norme di legge sugli orari di lavoro, superando il tetto delle 40 settimanali, delle otto giornaliere, e il concetto stesso di straordinario. Con un contratto si potrà pure demansionare un lavoratore e controllarlo attraverso gli audiovisivi, cosa che lo Statuto dei lavoratori vieta. Tutto questo è antidemocratico, come lo è il fatto che da anni ormai i lavoratori non votano più sui contratti e sulle pensioni. È per questa via che sta vincendo il modello Marchionne. Il governo non ha certo cancellato la norma di Sacconi e la Confindustria sta pensando di recuperare la Fiat attraverso il peggioramento delle condizioni dei lavoratori. Non è così che si aumenterà la produttività».
Ma se si votasse e i lavoratori dicessero sì all’accordo, lei lo rispetterebbe?
«Guardi, io credo che ci siano diritti indisponibili tutelati dalle leggi e dalla Costituzione. Detto ciò bisognerebbe far votare sempre i lavoratori altrimenti c’è il rischio che il sindacato venga legittimato dalle sue controparti: il governo e la Confindustria. Per esempio trovo singolare che il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, che in questi anni non avendo argomenti di merito non ha fatto altro che calunniare la Fiom perché sarebbe diventato un soggetto politico, proprio nel giorno in cui dava il suo assenso alle proposte delle imprese partecipava alla costruzione di un nuovo partito che propone l’attuale capo del governo come leader. Le sembra questo un modo di fare il sindacalista?».
La crisi economica sta peggiorando. Vede il pericolo che le tensioni sociali possano aggravarsi nei prossimi mesi?
«Assolutamente sì. Non solo perché stanno saltando migliaia di posti di lavoro, ma anche perché sono in discussione diritti. Quelli del lavoro, come ho già detto, e pure quelli degli studenti: il loro diritto a una istruzione pubblica fino a quello di assemblea messo in discussione dalla legge Gelmini».
La Fiom a fianco del nuovo movimento studentesco. Prenderete iniziative comuni?
«Abbiamo già in programma uno sciopero generale dei metalmeccanici il 5 e 6 dicembre prossimi. Il nostro Comitato centrale ha votato un documento a sostegno delle manifestazioni studentesche e contro le aggressioni che hanno subìto».
Operai e studenti uniti nella lotta: si torna agli anni 70?
«Non solo uniti nella lotta: uniti per cambiare questo modello sociale ».

La Stampa 19.11.12
Briatore choc: sto con Landini E lui sospira: io parlo con tutti
Così il capo della Fiom è diventato l’erede tv di Bertinotti
di Jacopo Iacoboni


Ci mancava. Briatore che ammicca a Landini. Dopo una surreale puntata di Santoro, già congegnata sul tema «Ricchi e poveri (non c’era però la brunetta), in cui il fondatore del Billionaire era seduto accanto al suo totale opposto, il segretario della Fiom Maurizo Landini, l’altra notte l’uomo di Malindi ha scritto il seguente tweet: «Ho conosciuto Maurizio Landini, una persona per bene, corretta, e (udite udite) su molti punti sono d’accordo con Maurizio!! Bravo!! ». E per tutta la puntata, mentre insolentiva Nunzia Penelope, «ma non mi rompa i maroni», e la Costamagna, «ma non faccia la maestrina», si rivolgeva invece a Landini con rispetto e ungendo amicizia, «Maurizio...».
E «Maurizio» che dice, è in imbarazzo per l’apprezzamento che arriva dalla star del reality The Apprentice, esempio inimitabile del capitalismo alle vogole? Landini sospira: «Guardi, se qualcuno riporta un’impressione positiva da quello che dico a me fa piacere, chiunque sia. Ho sempre pensato dove m’invitano vado, perché per me è importante, nella chiarezza dei ruoli, confrontarmi coi punti di vista diversi, in questo caso opposti, al mio. Anche se è Briatore». E’ la ragione per cui la Fiom dialoga anche con soggetti della sinistra non tradizionalmente sindacali, o radical in modi diversi dal loro, per esempio sarà il 24 ad Assago alla convention di Libertà a Giustizia con Umberto Eco, Saviano e Zagrebelsky. O la stessa per cui, dice Landini, «a giugno abbiamo incontrato una serie di soggetti politici del centrosinistra o dei movimenti, Bersani, Vendola, Di Pietro, Ginsborg, Mario Tronti, Revelli... per chiedere di rimettere al centro il lavoro, in questo Paese». Briatore in tutto questo c'entra poco, ma insomma, varrà la pena notare che Landini sta assumendo un po’ il ruolo del Bertinotti d’antan: la sinistra più amata dai media. Landini è simpatico, anche a Torino. Gli avversari immancabilmente dicono di lui: «Non condivido le sue idee, ma lo rispetto, e ci andrei a cena volentieri». Ha il maglioncino, ma con la maglia della salute a vista. Farà politica, magari in una lista arancione De Magistris? «In questo momento il problema, sindacale ma anche politico, è la frammentazione, bisogna riunificare, non dividere ulteriormente». I nemici applaudiranno? «Il nemico non esiste, io vado dove m’invitano, perché so bene qual è la mia strada». Condita da un emiliano «perbacco»."twitter @jacopo_iacoboni"

l’Unità Lettere 19.11.12
Attualità di Gramsci

di Benedetta Lorenzi

Oggi come non mai l’assenza di senso civico sta minando le fondamenta della democrazia e della libertà del nostro Paese. La difficile congiuntura economica-politica e sociale che ci attanaglia deve trovare risposta e soluzione nel ritorno alla militanza politica. Gramsci, eternamente contemporaneo nei suoi scritti ci ricorda che «odio gli indifferenti, vivere vuol dire essere partigiani. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita». «Perciò continua il filosofo odio chi non parteggia». Odio che significa disprezzo per una sottovalutazione dell’etica dell’essere cittadino: partecipare alla vita della comunità significa, per il pensatore, e ancor con maggior forza per noi, dare pieno valore e concretezza all’idea di democrazia. Il popolo sovrano che partecipa, sceglie, si schiera, realizza pienamente se stesso, comprende il proprio valore storico e ha la forza di rivendicare i propri diritti. Ecco perché, oggi più che mai, si deve tornare a incontrarsi nelle piazze, nei luoghi pubblici a parlare, a testa alta, di politica. «Istruiamoci, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitiamoci, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizziamoci, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza». Adesso sta solo a noi partecipare ed esserci per l’Italia, bene comune di tutti e non di pochi.

Corriere 19.11.12
Meno divieti per le coppie. La legge 40 riscritta dai giudici
Otto anni di sentenze. Resiste solo il no all'eterologa
di Luigi Ripamonti


Giovedì scorso il tribunale di Cagliari ha disposto che una struttura pubblica assicurasse diagnosi preimpianto e analisi genetica a una coppia fertile che ne aveva fatto richiesta, perché portatrice di una malattia genetica trasmissibile.
Si tratta dell'ennesimo intervento di un tribunale sulla legge 40, che regola la procreazione medicalmente assistita in Italia. Proviamo a ripercorrere la storia delle sentenze (in tutto 19) e delle disposizioni più importanti successive alla promulgazione della legge.
La legge 40 entra in vigore il 10 marzo 2004 e nel luglio 2004 vengono emanate le sue prime linee-guida.
Pochi mesi dopo Radicali Italiani e Associazione Luca Coscioni avviano una raccolta di firme per un referendum abrogativo totale, poi trasformato in quattro quesiti referendari, confluiti nella consultazione del giugno 2005, con esito negativo per mancato raggiungimento del quorum.
La prima sentenza che chiama in causa la legge 40 è del giugno 2004, e arriva proprio dal tribunale di Cagliari. Il giudice consente una «riduzione embrionaria» per possibili rischi, in caso di gravidanza plurima, per la donna che ne aveva fatto richiesta, nonostante la legge 40 prevedesse fossero sempre impiantati in utero tutti gli embrioni prodotti con la fecondazione assistita (comunque non più di 3).
Il tribunale di Cagliari, nel settembre 2007, interviene di nuovo, stavolta sulle linee-guida della legge 40, che prevedevano che l'unica indagine possibile sull'embrione fosse di tipo osservazionale, cioè senza biopsia sull'embrione. Il giudice «disapplica» le linee guida in quanto atto di rango inferiore rispetto alla legge, e permette la diagnosi preimpianto come richiesta, rifacendosi al fatto che la legge 40 prevede che la coppia possa chiedere di conoscere lo stato di salute dell'embrione (articolo 14, comma 5) e che possano essere effettuate indagini diagnostiche senza finalità eugenetica.
La decisione del tribunale di Cagliari viene seguita da una analoga del tribunale di Firenze e nel gennaio 2008 il Tar del Lazio annulla la parte delle linee guida che prevedeva come unica indagine quella osservazionale (cioè senza biopsia). In recepimento a questa decisione del Tar del Lazio vengono emanate, sempre nel 2008, nuove linee-guida, a firma del ministro Livia Turco.
In via incidentale, il Tar del Lazio, con la medesima sentenza, solleva anche una questione di legittimità costituzionale della legge 40 nella parte in cui prevede il limite di fecondazione con tre ovociti e l'obbligo di contemporaneo impianto degli embrioni prodotti per contrasto con gli articoli 3 e 32 della Costituzione. Questo incidente di costituzionalità, seguito da altri due, sollevati dal tribunale di Firenze, porta la legge 40 davanti alla Corte Costituzionale, la quale, il 1° aprile 2009, la dichiara incostituzionale nelle parti in questione, cancellando il limite dei tre ovociti e l'obbligo di unico e contemporaneo impianto in utero di tutti gli embrioni prodotti.
La sentenza è anche «additiva» e «interpretativa» della legge 40, perché i giudici, consapevoli che si potranno creare più embrioni rispetto a quelli che verranno impiantati, di fatto, sanciscono la possibilità che gli embrioni in sovrannumero possano essere crioconservati.
Mentre i tribunali avevano solo stabilito la liceità della diagnosi preimpianto per le coppie che avevano fatto ricorso, con l'intervento della Corte Costituzionale la diagnosi preimpianto è diventata possibile in tutte le strutture abilitate alla procreazione medicalmente assistita.
Sulla diagnosi preimpianto insistono poi nuove sentenze (Bologna nel 2009 e Salerno nel 2010), aprendone la possibilità anche alla coppie fertili. Infatti la legge 40 esclude dalla fecondazione assistita le coppie fertili, anche se portatrici di difetti genetici trasmissibili. I giudici, in sostanza, decidono di equiparare la diagnosi preimpianto alla diagnosi prenatale, anticipando di fatto, la diagnosi che sarebbe stata eventualmente eseguita durante la gravidanza (con amniocentesi o esame dei villi coriali).
Anche in questo caso, però, le decisioni dei tribunali valgono solo per le coppie che avevano presentato ricorso. Il panorama cambia il 28 agosto 2012, quando la Corte europea dei diritti dell'uomo condanna l'Italia per violazione dell'articolo 8 della Carta europea dei diritti dell'uomo sullo stesso tema, in quanto l'esclusione delle coppie fertili dalla diagnosi preimpianto si configurerebbe come discriminazione. Provenendo da questa Corte, la sentenza obbliga lo Stato al rispetto degli Organi comunitari e quindi ha valore per tutti. La decisione, tuttavia, non è ancora definitiva, perché il governo può proporre ricorso entro fine novembre.
La diagnosi preimpianto, dopo questi interventi, può essere eseguita in tutti i centri italiani autorizzati alla fecondazione assistita. I centri pubblici di fatto però, spesso, non la eseguono. L'ultima sentenza del tribunale di Cagliari cui si faceva cenno all'inizio, ribadisce invece che tutti gli ospedali pubblici debbono attrezzarsi per eseguirla.
In sintesi, rispetto all'emanazione della legge 40 ora è lecita la diagnosi preimpianto, che, su richiesta, deve essere eseguita anche nelle strutture pubbliche, anche a coppie fertili che abbiano malattie genetiche trasmissibili, inoltre è possibile produrre più di tre embrioni e non impiantarli tutti contemporaneamente in utero, crioconservando quelli non impiantati.
Rimane invece il divieto di fecondazione eterologa.

La Stampa 19.11.12
Policlinico Umberto I
“Meno letti e personale Aumenta la mortalità tra i neonati prematuri”
di Pa. Ru.


Reparto di terapia intensiva neonatale del Policlinico Umberto I di Roma. Qui, come in altri reparti riservati ai bambini che nascono molto prematuramente o con gravi malattie la spending review sanitaria presenta il conto più doloroso. Perché tra posti letto che scarseggiano, personale sempre più ridotto e costretto a turni massacranti tanti, troppi prematuri non ce la fanno. «Nel Lazio mancano 20 letti di terapia intensiva neonatale, se li avessimo sopravviverebbero 40-50 prematuri che invece non ce la fanno». Non usa mezze parole il Professor Mario De Curtis, che da anni dirige questo reparto di un ospedale spesso al centro di scandali e casi di malasanità ma che qui riesce, nonostante tutto, a fare miracoli. «Solitamente a rischio di morte o malattia sono soprattutto i piccoli con una gestazione sotto le 32 settimane e con peso alla nascita inferiore ai 1500 grammi ma qui da noi sopravvivono anche neonati piccolissimi, di soli 500 grammi e affetti da gravi patologie».
Purtroppo all’Umberto I, come in altri ospedali laziali il fabbisogno di un posto letto ogni 750 nati resta un miraggio. E qui non si parla di letti qualunque perché questi piccolissimi pazienti così prematuri pur essendo appena l’1% di tutti i nati contribuiscono a più della metà di tutta la mortalità neonatale. Per questo richiedono un assistenza super-specialistica, personale qualificato e apparecchiature tecnologicamente avanzate. All’Umberto I mancano invece sia i letti che il personale. «Di conseguenza – spiega il primario - spesso neonati prematuri, anche piccolissimi, non possono essere curati dove nascono ma devono essere trasferiti in un altro ospedale. E in questi casi purtroppo la mortalità è circa il doppio di quella di quella osservata nei nati con caratteristiche simili ma che non sono costretti a drammatici trasferimenti». Eppure nel 2010 la Regione ha approvato un Piano per riorganizzare la rete dell’assistenza neo-natale. Ma in due anni è rimasto solo sulla carta. Ed ora butta anche al peggio perché la carenza di personale rischia di aggravarsi col taglio dei contratti dei precari. «Mister forbici» Enrico Bondi in una serie di incontri top secret lo ha già annunciato ai direttori generali delle asl laziali: la sua prima mossa sarà quella di tagliare tutti i duemila contratti dei precari. «Se così fosse noi dovremmo chiudere perché nel reparto metà dei dipendenti va avanti con contratti a termine», denuncia De Curtis.

La Stampa 19.11.12
Casa del Sole
L’ospedale pediatrico “dimezzato”: otto medici e nessun infermiere
di Laura anello


Palermo Come un avamposto abbandonato nel deserto, otto medici sono il solo presidio sanitario rimasto negli stanzoni della Casa del Sole, l’ospedale pediatrico sacrificato ai tagli. Una sorta di guardia medica per soli codici bianchi – senza infermieri né strumenti di diagnosi – mantenuta soprattutto per non lasciare i padiglioni definitivamente in mano ai vandali. Ad accogliere chi arriva ci sono i cani randagi. È stata proprio la Casa del Sole – riferimento per mezzo secolo dei bambini della periferia sud di Palermo – a pagare uno dei prezzi più alti della riforma sanitaria «lacrime e sangue» varata dalla Regione siciliana per ridurre il deficit da 932 a 271 milioni all’anno ed evitare il commissariamento.
Però, dietro la manovra dell’assessore uscente Massimo Russo - e ora nelle mani di Lucia Borsellino, la figlia del magistrato ucciso, ex braccio destro del predecessore - ci sono lo smarrimento e le proteste di migliaia di genitori. I reparti della struttura tagliata sono stati trasferiti: la maggior parte al Cervello, presidio che non aveva mai visto bambini e che è stato scelto, a tavolino, per diventare la sede del Centro di eccellenza materno-infantile; Chirurgia e cardiologia pediatriche al Di Cristina, all’altro capo della città. Risultato: un frugolo coinvolto in un incidente grave, dal Cervello deve essere trasportato per chilometri prima di entrare in sala operatoria. E che, a essere chiamati per le consulenze ai piccoli ricoverati ci sono gli specialisti degli adulti, che invano protestano sostenendo che gli organi dei bambini sono tutt’altra cosa.
Inascoltati pure i genitori dei babypazienti della cardiochirurgia dell’ospedale Civico che assurse a gloria mediatica con Carlo Marcelletti, il mago del bisturi finito in uno scandalo di sesso e tangenti, suicida 3 anni fa. Quel reparto – leader in Sicilia – è stato tagliato. E il polo cardiochirurgico trasferito a Taormina, 300 chilometri da Palermo, nel Centro mediterraneo gestito dal colosso privato del Bambin Gesù in convenzione con la Regione. Tagli, tagli, tagli. Ad Aziende sanitarie e ospedaliere (da 29 a 17), ai posti letto (meno tremila), alle guardie mediche (solo a Palermo meno 8), ai punti nascita (meno 23). In compenso è rimasto il carrozzone clientelare di 3000 autisti-soccorritori dell’ex Sise, oggi Seus, messo in piedi dall’allora presidente della Regione Totò Cuffaro. L’ambulanza arriva piena di addetti. Il problema è capire dove va.

il Fatto del Lunedì 19.11.12
La guerra della pediatria
“Fondi dello Stato soltanto al Vaticano”
di Ferruccio Sansa


Genova Cinquanta milioni l’anno dello Stato all’ospedale del Vaticano (Bambino Gesù). Zero a quello pubblico (Gaslini, ma il discorso vale anche per gli altri).
Elena, 9 anni, ricoverata nel reparto di oncologia del Gaslini di Genova non si cura di questi “paradossi”. Guarda negli occhi il medico e gli chiede: “Quando uscirò?”. Lui, il professor Pierluigi Bruschettini, fa uno sforzo fisico per non abbassare lo sguardo. Da 40 anni lavora qui, da mattino a notte lo trovi tra i piccoli malati di cancro. Ha messo su un giornale che pubblica le loro poesie. Con una fondazione ha comprato appartamenti per ospitare le famiglie che vengono da lontano. Ma non basta una vita per trovare la risposta a Elena. Quando esci dal Gaslini il mondo fuori ti appare diverso, assurdo perfino. Hai il cuore gonfio di stati d’animo contrastanti: dolore e speranza, sconforto e ammirazione. Per quei bambini che lottano e non è vero che non capiscono. Per i genitori che si tormentano le mani nelle sale d’aspetto. Per i medici che a volte ti sembrano eroi e vengono pagati dieci volte meno di un manager.
SIAMO in un ospedale simbolo della migliore sanità italiana. “Qui – spiega il direttore sanitario Silvio Del Buono – approdano bambini da tutta Italia e da 90 Paesi (tra cui Iraq, Afghanistan e Striscia di Gaza). Nonostante i tagli siamo al primo posto in Italia per la ricerca pediatrica”. Ma nello stesso tempo un istituto in crisi, al centro di una lotta per il controllo di due ospedali pediatrici di eccellenza: Gaslini e Bambino Gesù. L’un contro l’altro armati uomini vicini ai cardinali Angelo Bagnasco e Tarcisio Bertone. Per non parlare di incursioni della politica. “L’intervento delle gerarchie ecclesiastiche è sempre più pesante. E pensare che il Gaslini, nonostante sia controllato anche da una fondazione presieduta dal cardinale di Genova, è pubblico”, racconta Sandro Alloisio della Cgil, uno dei pochi a parlare apertamente. Perché nelle corsie ormai tanti denunciano “invasioni di campo”, ricordano i soldi spesi per la nuova cappella, ma poi pubblicamente tutti tacciono. Del resto basta leggere i nomi ai vertici del Gaslini: il direttore generale è Paolo Petralia. Il suo nome (Petralia , va detto, non era indagato) compariva nelle intercettazioni dell’inchiesta Mensopoli che ha scosso Genova nel 2008: “Ha detto se mi faccio seguire le cose da Petralia che è un uomo molto vicino a Bagnasco”, dicevano gli indagati. Ancora: “Il lavoro sporco lo facciamo fare a ‘sto Petralia”. Niente di illegale è emerso, e comunque quelle frasi non hanno fermato la carriera di Petralia. Intanto mille fili uniscono l’ospedale e la banca Carige, il salotto dei potenti genovesi dove siedono scajoliani e uomini vicini alla Curia. Flavio Repetto e Amedeo Amato sono in entrambe le fondazioni. Nella banca sedeva anche Vincenzo Lorenzelli, oggi presidente del Gaslini che non ha mai smentito la sua vicinanza all’Opus Dei. Poltrone e polemiche: Marta Vincenzi, allora sindaco di Genova, designò nel cda del Gaslini Donato Bruccoleri, farmacista senza esperienza specifica e cugino di Totò Cuffaro, all’epoca ancora in auge nell’Udc (che doveva allearsi con il Pd per le regionali). La Regione invece scelse Raffaele Bozzano, anch’egli senza esperienza specifica e già socio di Franco Lazzarini (grande amico del Governatore Claudio Burlando).
DALL’ALTRA PARTE del Tevere, al Bambino Gesù, regnano invece i bertoniani: il presidente è Giuseppe Profiti condannato in appello a sei mesi per Mensopoli, ma sempre sostenuto da Bertone, fino a farlo ricevere dal Papa nel mezzo dell’inchiesta.
Finora i bertoniani l’hanno spuntata. Il Bambino Gesù ha “scippato” a Genova medici eccellenti come Giacomo Pongiglione che per primo al mondo ha trapiantato un cuore artificiale su un quindicenne. Certo il Bambino Gesù è un ospedale prestigioso. Ma forse c’entra anche il fatto che i suoi dipendenti seguono il regime fiscale vaticano. Ora ufficialmente si parla di tregua, di alleanze. Ma Del Buono sottolinea: “Nessuna polemica, ma quei 50 milioni dovrebbero essere riservati almeno anche agli ospedali pubblici”.
A Elena e ai bambini del Gaslini, però, di queste lotte non arriva nemmeno l’eco. Hanno battaglie più grandi da combattere.

il Fatto del Lunedì 19.11.12
Strategie di business
Giornali e sanità privata: due facce dello stesso padrone
Da Angelucci (Libero) a Rotelli (Corriere), fino a De Benedetti (Repubblica): tutti i grandi gruppi legati alla comunicazione “fanno cassa” grazie alle cliniche
di Gianni Barbacetto


Ai padroni della sanità privata piacciono i giornali. Sarà un caso, ma gli imprenditori che operano nel settore delle cliniche, dell’assistenza e della riabilitazione sono spesso anche imprenditori dell’informazione. O hanno interessi nei media. Rotelli, Angelucci, Ciarrapico, De Benedetti, Caltagirone: ovvero come tenere insieme salute e giornali.
IL BUSINESS della sanità muove in Italia circa 140 miliardi di euro. Di questi, 110 circa vengono dallo Stato, che ne impiega almeno 20 per finanziare le strutture private. Molte sono di operatori piccoli o piccolissimi. Una bella fetta è riconducibile a istituti religiosi. Alcuni operatori hanno invece dimensioni considerevoli, organizzazione imprenditoriale e strutture dislocate in diverse zone del Paese. Il gruppo guidato da Giuseppe Rotelli è un piccolo impero formato da 18 ospedali e case di cura, tra cui il Policlinico San Donato e l'Istituto ortopedicoGaleazzi, a cui si è nei mesi scorsi aggiunto il San Raffaele di Milano, conquistato versando 400 milioni per rilevare la creatura di don Luigi Verzè. Rotelli è anche il primo azionista del Corriere della sera, con il 16,5 per cento. Comprate a caro prezzo: l'ultimo pacchetto su cui ha messo le mani, il 5,2 per cento ceduto dai costruttori romani Toti, gli è costato il doppio del prezzo di Borsa. Ma gli ha permesso di consolidare la sua posizione, pur restando fuori dal patto di sindacato che riunisce gli azionisti forti del Corriere (da Banca Intesa a Mediobanca, da Fiat alle Generali, da Della Valle a Pesenti, fino alla Pirelli di Tronchetti Provera). Per poter stare comodamente seduto nel salotto buono di via Solferino, Rotelli ha sborsato oltre 270 milioni di euro. Nel dicembre 2010 era entrato a far parte del consiglio d’amministrazione di Rcs, dopo una lunga anticamera. Poi, grazie ai 53 milioni versati ai Toti, ha mantenuto il posto in consiglio e la possibilità di dire la sua sulla gestione del gruppo. Tanti soldi versati non hanno spiegazioni di mercato. Le azioni Rcs sono state comprate da Rotelli a prezzi superiori anche di quattro volte il loro valore. Insomma: con la sanità, Rotelli guadagna (800 milioni di ricavi nel 2010, margine operativo lordo di 130) ; con il Corriere perde. Ma evidentemente per lui il gioco di via Solferino vale la candela.
UN PIEDE dentro Rcs l'ha avuto, in passato, anche Gianfelice Rocca, che è stato membro del consiglio d'amministrazione della società editrice del Corriere. Rocca, presidente di Techint, multinazionale della siderurgia e dell’engineering, controlla anche il gruppo Humanitas, con strutture sanitarie in Piemonte e in Sicilia e cuore in Lombardia, dove sorge (a Rozzano, al confine sud di Milano) l’Istituto clinico Humanitas. Anche Giampaolo Angelucci non fa certo i soldi con i giornali. Controlla ancora Libero, ha dovuto chiudere IlRiformista di Antonio Polito e ha dovuto rinunciare (per la rivolta dei redattori, nel 2008) a entrare nella proprietà dell'Unità. No, i soldi anche Angelucci li fa con le cliniche: la sua Tosinvest porta a casa circa 500 milioni di euro all’anno, grazie soprattutto a 26 strutture ospedaliere in Lazio, Abruzzo e Puglia. In un'inchiesta della procura di Velletri sulla sanità laziale, il giudice per le indagini preliminari nel 2009 aveva messo nero su bianco che i giornali possono essere strumento di pressione nei confronti della politica, citando intercettazioni telefoniche “dalle quali si evince la preparazione di una strategia a livello politico e mediatico nei confronti dell'assessore regionale alla sanità Augusto Battaglia, reo di non aver tempestivamente provveduto in ordine ad alcuni provvedimenti sollecitati dagli Angelucci”.
Ecco dunque a che cosa servono, in certe mani, i giornali: a tenere una pistola puntata su funzionari, assessori, presidenti, che possono determinare la fortuna di un imprenditore. Soprattutto nel campo della sanità, in cui i privati offrono prestazioni sempre pagate dallo Stato, attraverso le Regioni, che proprio nella sanità hanno la loro maggiore voce di spesa.
GIUSEPPE CIARRAPICO, benché risulti ufficialmente nullatenente, controlla la holding Eurosanità, che gestisce a Roma la casa di cura Quisisana, Villa Stuart e Policlinico Casilino, oltre a un paio di strutture di ricovero per anziani a Fiuggi. Ma “il Ciarra” è anche un innamorato della carta stampata. Ha fatto, e in parte fa ancora, l’editore. Finché è stato al comando della sua piccola galassia di carta stampata (da CiociariaOggi a LatinaOggi) ha sempre rivendicato il suo diritto a intervenire, anche pesantemente, nelle vicende politiche e amministrative raccontate dalle sue testate.
È entrato nel settore sanità anche Carlo De Benedetti, l'editore del gruppo Repubblica-L’Espresso. La sua holding, la Cir, che fattura 4,5 miliardi di euro, spreme dal settore media solo un quinto dei suoi ricavi. Circa 350 milioni di euro li ottiene nel campo della sanità, con la controllata Kos, fondata nel 2002. Oggi ha 60 strutture nel centro-nord Italia, per un totale di oltre 5.700 posti letto. C'è anche un Caltagirone, in questa compagnia d'imprenditori a cui piace incrociare cliniche e giornali: è Antonino Ubaldo Caltagirone, ex manager Fininvest e Mediolanum, che si è poi lanciato nel settore immobiliare con la sua Caltagirone Costruzioni spa holding. Ha provato a entrare nel settore facendo un'offerta per la clinica San Michele di Albenga: tentativo abortito, a causa del fallimento della clinica. Gli è andata meglio nell'editoria: Caltagirone nel 2008 ha foraggiato il giornale L’Opinione, diretto da Arturo Diaconale. Un’esperienza non proprio memorabile.

Repubblica 19.11.12
La beffa del farmaco low cost bocciato dal Tar
Cura le malattie degli occhi e costa 15 euro rispetto ai mille del concorrente. Ma sul verdetto è polemica
di Michele Bocci


Con Lucentis. 192 milioni La cifra spesa in tre anni dal Servizio sanitario nazionale
Con Avastin. 3 milioni.  È la somma che si spenderebbe con il medicinale low cost

ROMA — Lucentis e Avastin sono due farmaci che costano rispettivamente 1.000 e 15 euro a dose e secondo molti studi scientifici hanno lo stesso effetto contro la degenerazione maculare degli anziani, una malattia che porta alla cecità. Le Asl italiane però sono costrette ad usare il primo. Dopo una serie di battaglie legali da parte dell’azienda che lo produce, la Novartis, e dopo una presa di posizione dell’Aifa, il sistema sanitario deve rinunciare a un risparmio stimato in 190 milioni in tre anni. L’ultimo a pronunciarsi è stato il Tar del Veneto, che ha obbligato la Regione ad somministrare il medicinale più caro sui nuovi casi. Alcuni mesi fa, però, l’Emilia era riuscita a porre la questione alla Corte Costituzionale, che si esprimerà nei prossimi mesi.
Tutto parte nel 2005 quando Roche inizia a produrre un farmaco per il tumore del colon, l’Avastin, che si scopre funzionare anche, in dosaggio molto ridotto, per la degenerazione maculare. Il produttore, però, non ha mai chiesto l’estensione delle indicazioni anche per questa patologia. Così viene utilizzato “off label”, al di fuori delle sue indicazioni. Dal 2007 arriva sul mercato il Lucentis della Novartis, che fino a poco fa costava 1.044 euro a fiala (ora il prezzo è sceso del 30%). In media ogni anno si fanno 6 fiale a paziente. Con l’altro prodotto, preparato dalle farmacie ospedaliere,
una applicazione costa 15-20 euro. Secondo Nicola Magrini, dell’Agenzia sanitaria emiliana «la decisione di Roche di non immettere il suo farmaco sul mercato e il vantaggio per Novartis rivelano l’esistenza di accordi che limitano la concorrenza e pesano economicamente sulla collettività». Le persone con degenerazione maculare in Italia sono 90 mila. Un terzo si curano nel sistema pubblico, ormai quasi esclusivamente con il Lucentis. Le altre sono seguite nel privato, nemmeno Novartis sa con quale prodotto.
Secondo un’ampia letteratura scientifica, ranibizumab e bevacizumab (i due principi attivi) sono equivalenti e negli Usa Avastin ha circa il 70% del mercato. Nel nostro paese la situazione è molto diversa. Il farmaco è stato inizialmente inserito dall’Aifa nella lista di quelli utilizzabili “off label”. Due anni fa l’Emilia ha deliberato che nei suoi ospedali fosse usato solo quello. Novartis è ricorsa al Tar perché l’autorizzazione per la degenerazione maculare ce l’ha solo il Lucentis. La questione è passata alla Corte Costituzionale. Più di recente è toccato al Veneto, a cui il Tar ha imposto di usare il farmaco caro sui nuovi pazienti. «Chiameremo in causa il Consiglio di Stato — dice
l’assessore alla salute Luca Coletto — Da noi l’Avastin non ha mai dato problemi, perché dobbiamo smettere? ». Da Novartis spiegano che l’obiettivo «è fare sì che i pazienti che ne hanno bisogno accedano al farmaco a carico del servizio sanitario. Del resto è più sicuro dell’altro, si rischiano meno eventi avversi».
La svolta è arrivata di recente, il 27 ottobre. L’Aifa ha tolto l’Avastin dalla lista dei farmaci “erogabili a carico del Servizio sanitario” se usati “per una indicazione terapeutica diversa da quella autorizzata” perché l’Ema, agenzia europea del farmaco, ha segnalato alcune reazioni avverse, comuni a tutti gli “inibitori di vegf”. Anche il Lucentis appartiene a questa categoria ma avendo l’autorizzazione al commercio per la degenerazione maculare, è bastato inserire nel foglietto illustrativo i possibili problemi. Il nuovo passaggio ha reso ancora più difficile per le Regioni prescrivere l’Avastin, perché Aifa (unica in Europa) lo ha giudicato meno sicuro del Lucentis e non più utilizzabile.

Repubblica 19.11.12
Dalle corsie proteste quasi mai a torto
di Mario Pirani


“Caro Pirani, ma perché ce l'ha con gli infermieri?”. Questo l’incipit della lettera, analoga ad altre simili, che il presidente dell’organizzazione sindacale degli infermieri de La Spezia, Francesco Falli, mi ha inviato per criticare una mia rubrica (5/11/12 “Tenetevi il dolore, pochi i soldi per curarlo”) in cui denunciavo come le strutture ospedaliere installate per la cura del dolore fossero al lumicino in molti nosocomi perché ridotti senza infermieri o quasi, tranne qualche volontario mentre, per evitare scontri sindacali, si accettava il passaggio di un numero eccessivo di dipendenti dai reparti di degenza agli uffici, in base al cosiddetto “maggiore aggravio”, di cui nel solo Lazio hanno profittato circa 8000 lavoratori (secondo i dati del Tribunale Diritti del malato, che comunque andrebbero sottoposti a nuova verifica). Una osservazione che non negava affatto l’impegno, i sacrifici, le remunerazioni insufficienti degli infermieri dediti all’assistenza. E pur tuttavia la presidente della Federazione nazionale della categoria, Annalisa Silvestro, sul suo sito dichiarava di essere rimasta “perplessa e indignata” per le mie critiche… “dieci righe senza criterio che sembrano buttate là a rimarcare l’annosa avversione dell’articolista verso la professione infermieristica...”. Mi risparmio la citazione di altre ingiurie, soprattutto perché rivolte a un giornalista che ha dedicato decine di articoli alla difesa del servizio pubblico e del personale medico, infermieristico e parasanitario, la cui dedizione è esemplare, senza però sottacere sulle conseguenze negative che in ogni comparto il corporativismo sindacale porta con sé con danno per lavoratori e pazienti. Proprio per porre fine a una disfida priva di senso ho telefonato alla dottoressa Silvestro invitandola a prendere atto delle reali posizioni del nostro giornale in materia di sanità pubblica e offrendole uno spazio di risposta nella nostra rubrica. Con un approccio di stimabile pacatezza la presidente degli infermieri ha riconosciuto l’inutilità degli eccessi polemici quando “si tratta di far fronte alle difficoltà che sta vivendo il sistema sanitario e… molti infermieri operativi in Regioni con Piano di Rientro continuano ad andare a lavorare anche quando, da mesi non viene percepito lo stipendio e i turni di lavoro sono davvero insostenibili a causa delle mancate sostituzioni. Non può esserci percorso diagnostico e terapeutico se mancano gli infermieri, non si dà realizzazione a iniziative di civiltà sanitaria (ospedale senza dolore), né si attivano l’assistenza domiciliare e gli hospices se mancano gli infermieri”. Ed ecco un’altra voce: “Caro dottor Pirani, sono Antonio Rizza, infermiere professionale… Vorrei ricordarle il lavoro che svolgono molti infermieri come il sottoscritto, non in un comodo ufficio, ma in situazioni pericolose come è capitato a me, calato in un burrone con una imbragatura dai vigili del fuoco per salvare una signora che era caduta in un dirupo di centinaia di metri, tutto questo ed altro alla modica cifra di circa 1400 euro al mese”. E, infine, la parola ad un medico. “Sono il dott. Alessandro Vergallo, Presidente della Sezione Regionale Aaroi-Emac che rappresenta solo in Lombardia oltre 1.300 medici anestesisti. I toni degli articoli contro Pirani risuonano come un diapason. Che vibra non già di contenuti, ma di lesa maestà. La lesa maestà è quella degli infermieriamministratori, non certo quella degli infermieri che tutti i giorni sono in corsia ad occuparsi dell’assistenza ai malati. E non certo quella dei medici che diventano sempre più operai di una sanità-fabbrica con tanti ‘dirigenti’ negli uffici. I contenuti mancanti sono quelli relativi ai dati (non alle chiacchiere) su quali siano le risorse sanitarie assunte per occuparsi di assistenza e poi via via incontrollatamente divenute ‘risorse’ amministrative. Ma i dati su queste figure mancano persino nelle relazioni annuali della Corte dei Conti, che non dettagliano quanti professionisti assunti per curare malati siano poi transitati dietro le scrivanie.
“Per contro è su questo terreno che si misura una vera review della spesa per non tagliare ancora il servizio pubblico senza criteri di efficienza”.



Corriere 19.11.12
Nella Grecia orgogliosa e delusa dove monta la rabbia della piazza
Adottate le ricette europee: ma quanto sopporterà la società?
di Sergio Romano

Durante il dibattito sul pacchetto di tagli e tasse per 13,5 miliardi di euro, approvato dal Parlamento greco il 7 novembre, Alba Dorata, partito dell'estrema destra nazionalista,
ha votato contro, come era prevedibile, e ha lasciato al suo portavoce, Christos Pappas, il compito di spiegarne le ragioni.
Christos Pappas ha rievocato il drammatico incontro, nella notte fra il 27 e il 28 ottobre 1940, fra l'ambasciatore d'Italia Emanuele Grazzi e il Primo ministro Ioannis Metaxas. Grazzi aveva svegliato Metaxas alle tre del mattino e gli aveva consegnato l'ultimatum con cui l'Italia di Mussolini chiedeva al governo greco di autorizzare l'ingresso di truppe italiane nel suo territorio. La risposta non fu il «no» che i greci ricordano ogni anno nel giorno — il 28 ottobre — che è oggi la loro festa nazionale. Ma fu altrettanto esplicito: «Alors c'est la guerre», allora è la guerra. «Così — ha detto Pappas — avreste dovuto rispondere alla troika (i rappresentanti della Commissione di Bruxelles, della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale) quando vi ha imposto le sue condizioni».
Metaxas era un dittatore, capo di un regime che aveva preso a prestito formule e liturgie dell'Italia fascista e della Germania nazista. Non è sorprendente che Alba Dorata si appropri di quell'episodio per conferire maggiore dignità a se stessa e una sorta di coerenza storica alla sua politica contro un governo «servo dell'Europa». Ma nelle reazioni greche ai piani di risanamento varati dalla coalizione di Antonis Samaras, il nazionalismo serve spesso a coprire motivazioni meno nobili. Durante il dibattito parlamentare sul pacchetto, gli impiegati della Camera hanno inscenato una manifestazione contro il governo sostenendo che le loro funzioni non potevano essere assimilate a quelle di altri «statali». Il governo ha fatto un passo indietro ed è stato possibile continuare il dibattito sino al voto. Ma nelle stesse ore un gruppo di poliziotti dimostrava nelle vie di Atene con un cartello su cui era scritto: «Noi proteggiamo quelli che ci proteggono».
Dietro l'orgoglio nazionale, quindi, vi sono uno Stato ricattato dai suoi servitori e una straordinaria varietà di interessi corporativi. A dispetto delle sue grandi tradizioni e della vivacità intellettuale dei suoi cittadini, la Grecia è il Paese in cui gli armatori (la maggiore industria del Paese) sono esentati dalle tasse, l'evasione fiscale è uno sport nazionale, la percentuale del lavoro nero supera quella italiana, la classe politica ha gonfiato gli organici della pubblica amministrazione per ingrossare il proprio elettorato e i ricchi mandano i loro soldi all'estero. Negli scorsi giorni è stato processato per «violazione della privacy» (e fortunatamente assolto) un giornalista che aveva avuto l'ardire di pubblicare sul suo giornale online i nomi di duemila greci, titolari di conti presso la filiale svizzera di una vecchia banca britannica (HSBC). I duemila appartenevano a una lista di 24 mila clienti caduta nelle mani di Christine Lagarde, allora ministro francese delle Finanze. Alla signora Lagarde era parso utile farne dono al collega greco che aveva trasmesso alcuni nomi alla sua polizia tributaria. Ma non appena il ministero greco delle Finanze ha cambiato titolare, nel giugno del 2011, la lista è rimasta in un cassetto. Il nuovo ministro era Evangelos Venizelos, oggi successore di George Papandreou alla testa del Pasok, il partito socialista che è passato dal 43,92% del 2009 al 12,28% delle ultime elezioni. Venizelos si è battuto per l'approvazione del pacchetto «tagli e imposte» e ha cacciato dal partito i deputati socialisti che avevano votato contro il governo. Ma la vicenda dei duemila evasori getta un'ombra sulla sua reputazione. Wolfgang Schaüble, ministro tedesco delle Finanze, non ha torto quando dichiara, come all'ultima riunione del Fondo monetario nello scorso ottobre, che i problemi della Grecia «sono stati causati dalla Grecia e che tocca alla Grecia risolverli».
Antonis Samaras, leader di Nuova Democrazia e presidente del Consiglio dopo il breve intervallo «tecnico» del governo presieduto da Lucas Papademos, sembra esserne consapevole. Ha evitato di cavalcare gli umori anti-tedeschi del Paese, ha coltivato i rapporti con Angela Merkel, ha presieduto alla preparazione di un pacchetto e di una legge di bilancio, approvata dal Parlamento domenica scorsa, che corrispondono ai criteri dettati dalla troika e dovrebbero consentire l'arrivo dei fondi necessari per il rifinanziamento del debito. Ma la drastica riduzione dei salari e i licenziamenti nella funzione pubblica (30 mila nel 2013) hanno colpito tutte le fasce sociali e tutti i gradi della pubblica amministrazione creando forti risentimenti. Per certi aspetti si potrebbe sostenere che il governo Samaras è stato equo perché tutti i greci sono responsabili dell'artificiosa euforia in cui il Paese ha vissuto dopo l'adesione alla Comunità europea e, più tardi, dopo l'adozione dell'euro. Ma il quadro generale è quello di una società arrabbiata e delusa che non sa più come e su chi scaricare la propria rabbia. Il rischio maggiore, paradossalmente, non è l'instabilità politica. Alexis Tsipras, leader di Syriza (il partito che è giunto secondo nelle elezioni dello scorso giugno) chiede il ritorno alle urne per dare un senso alla propria politica di opposizione e presentare se stesso come una credibile alternativa. Ma è alla guida di una confederazione composta da tredici frazioni, di cui alcune sono staliniste, trotzkiste, maoiste, anarco-sindacaliste. Sa che potrebbe governare soltanto rovesciando interamente la sua linea e preferisce lasciare che il problema, per il momento, resti sulle spalle di Samaras. Il vero rischio è la piazza. Le misure adottate dal governo si conformano alla ricetta prescritta dell'Europa e rispondono effettivamente agli interessi del Paese nel medio termine. Ma contribuiscono al crollo di una economia che ha già perduto, negli ultimi anni, un quarto delle sue dimensioni. Quale è il grado di sopportazione della società greca? Le dichiarazioni della Germania e degli altri partner europei sono sempre, quali che siano le intenzioni con cui vengono pronunciate, sbagliate. Quando la Germania dice che il problema greco è un problema dei greci, le sue parole vengono usate per evocare il ricordo della durezza tedesca ai tempi dell'occupazione. Quando la stessa Germania dice che la Grecia deve assolutamente restare nell'euro, le sue parole permettono a Tsipras di affermare che il governo, se ne avesse il coraggio, potrebbe giocare le sue carte con maggiore fermezza. In queste condizioni, se non verranno adottate misure più coraggiosamente generose, il problema della Grecia potrebbe diventare non soltanto politico ma anche e anzitutto umanitario. Ho chiesto a un vecchio diplomatico se qualcuno, a Bruxelles, stia già studiando un programma di assistenza alimentare e sanitaria per una fase di turbolenta emergenza sociale. Non lo sa, ma è convinto che in questo caso i soldi diventerebbero immediatamente disponibili: gli stessi soldi che, se dati al momento opportuno, avrebbero potuto evitare il peggioramento della crisi.
Sergio Romano
1 - continua

Repubblica 19.11.12
Parigi, la battaglia delle nozze gay scontri al corteo dell’ultradestra
Gli integralisti picchiano le attiviste a seno nudo di Femen
di Giampiero Martinotti


PARIGI — Botte alle attiviste di Femen, giornalisti e fotografi aggrediti: la manifestazione degli integralisti cattolici contro il matrimonio gay ha conosciuto ieri a Parigi momenti di forte tensione. Sabato almeno centomila persone sono scese in piazza in tutta la Francia con grande calma contro il progetto di legge del governo di Hollande, che apre la strada al matrimonio e all'adozione da parte di coppie omosessuali. Ieri è stata la volta degli integralisti, che hanno invece dimostrato di non tollerare l’ironia delle ragazze di Femen. Chiamati a raccolta da Civitas, un movimento vicino all’estrema destra che vuole «ricristianizzare la Francia dei campanili e delle cattedrali », i dimostranti hanno innalzato bandiere con il giglio (simbolo della monarchia), croci, tricolori, manifestini con la scritta «sì alla famiglia, no all’omofollia ». Alcuni erano in abito talare, tra loro c’erano molti pensionati, ma anche molti giovani. La tensione è salita poco dopo l’avvio del corteo, nella zona dei ministeri. Una decina di ragazze del gruppo ukraino Femen sono arrivate vestite da suore. Voleva essere una provocazione bonaria, ma i militanti integralisti non l’hanno presa bene: «Quando sono arrivate vicino ai manifestanti sono state inseguite da una trentina di persone — ha raccontato la scrittrice Caroline Fourest — . Hanno preso botte in tutte le parti del corpo. Anch’io sono stata picchiata perché filmavo ».
Giornalisti e fotografi che assistevano alla scena sono stati spintonati. La portavoce del governo, Najat Vallaud-Belkacem, ha subito reagito, si è detta «profondamente scioccata» ed ha assicurato che il governo non è disposto a tollerare le violenze dell’estrema destra.
Un’atmosfera ben diversa si era invece registrata sabato. I cattolici contrari al matrimonio gay e soprattutto all’adozione da parte delle coppie omosessuali avevano manifestato nella calma. E spesso alcune coppie di donne si erano baciate davanti ai dimostranti, senza suscitare scandalo, né proteste. Gli integralisti non la intendono così. La loro battaglia di retroguardia si accompagna alla diffusione di tesi di estrema destra. Secondo Alain Escada, responsabile del movimento Civitas (1.200 aderenti), «il matrimonio omosessuale è il vaso di Pandora che permetterà ad altri di rivendicare il matrimonio poligamico o il matrimonio incestuoso».
Posizioni ben lontane da quelle della Chiesa. Certo, Benedetto XVI ha invitato i vescovi francesi a parlare «senza paura», a intervenire con vigore e determinazione nel dibattito. I prelati transalpini lo hanno già fatto e continueranno a farlo, ma i loro toni non sono mai stati eccessivi, a parte l’eccezione dell’arcivescovo di Lione. Il governo, dal canto suo, ha detto di voler rispettare «l’inquietudine» degli oppositori al matrimonio gay, ma di non voler rinunciare al provvedimento. Secondo gli ultimi sondaggi, il 61 per cento dei francesi è favorevole alle nozze tra persone dello stesso sesso, mentre solo il 48 per cento dice sì anche all’adozione per le coppie omosessuali.

La Stampa 19.11.12
Se finisce l’uguaglianza
La dura crisi attuale rende evidenti i guasti prodotti dal mancato bilanciamento tra democrazia e mercato: il nuovo saggio di Parsi
di Vittorio Emanuele Parsi


La tesi di questo libro trova fondamento in un principio assai semplice, ben sintetizzato dalle prime parole della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti: «Tutti gli uomini sono creati uguali». Da queste sette parole discende la modernità politica, fondata innanzitutto sull’uguaglianza intesa come rifiuto del privilegio. Uguali e quindi tutti ugualmente liberi, liberi perché uguali gli uni agli altri. Non c’è nessuna necessaria opposizione tra il principio di uguaglianza e quello della libertà, perché senza uguaglianza la libertà si chiama privilegio. L’ uguaglianza di tutti è l’essenza della democrazia dei moderni, tanto quanto l’ uguaglianza tra i pochi era il principio su cui si reggeva la democrazia degli antichi. Se quella di Pericle implicava l’esclusione, quella di Jefferson postula l’inclusione. Il progressivo allargamento della base politica ed economica delle nostre società è passato attraverso l’uguaglianza. Quest’ultima ha consentito di costruire le due istituzioni che più di ogni altra hanno caratterizzato la modernità occidentale, fino a rappresentarne il canone e il paradigma: la democrazia politica di massa e l’economia di mercato fondata sui consumi di massa.
Contrariamente a quanto affermano i tanti nemici della «società aperta», il mercato e l’economia capitalista non sono di per sé ostili alla democrazia politica. Anzi, se c’è qualcosa che la storia occidentale ci ha insegnato, è che essi procedono e si rafforzano insieme. Non perché - beninteso - siano fondati sullo stesso principio: il mercato produce diseguaglianza perché premia la più efficiente organizzazione dei fattori produttivi, la migliore dotazione originaria, il merito e le capacità individuali. Di conseguenza, se premia «i migliori» punisce «i peggiori» e così facendo discrimina, accentua le conseguenze delle diseguaglianze originarie. La democrazia si fonda sulla premessa dell’uguaglianza, ovvero sul fatto che nonostante le ovvie, irriducibili differenze che fanno di ogni individuo un esperimento non replicabile, assolutamente unico, ciò che conta davvero o maggiormente è l’elemento comune, l’appartenenza di ogni singolo individuo alla medesima classe: quella umana. Democrazia e mercato si sostengono e si rafforzano a vicenda non perché postulino lo stesso principio o predichino la medesima virtù, ma perché il mercato allevia e corregge i difetti e gli eccessi della democrazia esattamente come la democrazia allevia e corregge i difetti e gli eccessi del mercato.
L’alleanza tra queste due formidabili istituzioni si stabilì proprio all’epoca delle Grandi Rivoluzioni, quella americana e quella francese, quando la forza del mercato venne impiegata per svellere i privilegi delle società di antico regime. Proprio perché associata al mercato, la democrazia doveva porsi però il problema del preservare condizioni capaci di rendere l’uguaglianza qualcosa di diverso da un lontano e perduto momento originario. La premessa dell’uguaglianza doveva cioè essere completata dalla promessa dell’uguaglianza, ovvero fare sì che i vecchi privilegi, abbattuti grazie all’azione congiunta di democrazia e mercato, non venissero sostituiti da nuovi privilegi questa volta costruiti proprio dall’azione economica mercatistica.
I guasti prodotti dall’alterazione del meccanismo di bilanciamento tra democrazia e mercato sono particolarmente evidenti nell’attuale durissima fase politica ed economica che le società occidentali stanno vivendo. I dati che ci parlano della continua flessione dei consumi, dell’erosione del ceto medio, della polarizzazione dei redditi e della crescita della diseguaglianza dovrebbero quindi inquietarci innanzitutto dal punto di vista politico. Se non ci sarà più ceto medio, allora non sarà possibile nessuna middle class democracy e una nuova società dei privilegi prenderà il posto della società degli uguali la cui bandiera è stata innalzata dalle Rivoluzioni settecentesche. [... ]
Nel caso italiano, specificamente, la riduzione della disuguaglianza non può che prendere innanzitutto le forme della lotta all’evasione fiscale che sta letteralmente dilatando in maniera abnorme la divisione tra le due Italie: quella legale e quella illegale. Questa è la nostra particolarissima linea di faglia, che incredibilmente nessuna maggioranza politica (di destra, di sinistra o di unità nazionale) e nessun governo sembra essere riuscito a mettere in sicurezza. Ed è la più pericolosa, proprio perché sostituisce al mercato e al suo rigore un simulacro da malaffare, producendo così due esiti ugualmente nefasti. Da un lato colloca in un unico calderone le diseguaglianze che un mercato corretto legittimamente produce e quelle realizzate disonestamente da un mercato corrotto, rendendo indistinguibili le prime dalle seconde e alimentando l’ invidia sociale e una cultura ostile al mercato, alla concorrenza e alla stessa intrapresa individuale. Dall’altro rafforza il pregiudizio qualunquista secondo il quale le leggi non sono altro che la forma elegante e mendace assunta dai privilegi, in specie quelli più solidi e robusti, nutrendo una cultura politica populista e forcaiola, nemica della democrazia liberale.
Quando supera una certa misura e quando i meccanismi per ridurla sono percepiti come inefficaci o addirittura truffaldini, la disuguaglianza ha effetti devastanti sulla convivenza civile, minando alla base sia la democrazia sia il mercato, rendendo la prima, per la gran massa dei cittadini, una finzione lontana e il secondo, per la gran parte degli attori economici, un meccanismo di legittimazione del privilegio .

La Stampa 19.11.12
Kentridge alla ricerca del tempo rifiutato
Al Maxxi intorno all’installazione presentata a Documenta opere vecchie e nuove del maestro sudafricano
di Marco Vallora


Le «opere» di Kentridge (in senso quasi wagneriano, d’«opera d’arte totale», che congloba disegno a inchiostro, musica, danza e cinema) si richiamano l’un l’altra, s’intrecciano, si riecheggiano, come ricami d’un arazzo perpetuo ed affettabile, riverberando e spezzandosi ad aforisma. Anche su pezzi di carta da giornale iscritti, tra progetti che hanno la forza di disegni antichi, maquettes da teatro, teatrini da camera (come per il fortunato Flauto Magico della Monnaie, che ha incantato il mondo inscatolando prodigi grafici). Questa volta il Maxxi, che ha sagacemente da tempo collezionato alcune sue opere serigrafiche e non grazie a una ragnatela espositiva intessuta da Giulia Ferracci ed espansa sulle bianche pareti, ha avuto buon gioco nel collegare insieme alcune opere in collezione, l’ultimo progetto importato dalla recente Kassel, ed alcuni video «storici», di raccordo. Come quello dedicato a Zeno Cosini, in cui il labile fumo dell’irrinunciabile ultima sigaretta si decompone nell’aria come anilina nell’acqua del cielo, disegnando arabeschi di una vanitas minacciosa: infatti la joyciana Trieste di Svevo si risveglia come la crudele Johannesburg dell’Apartheid (vissuto dall’artista sulla propria pelle, e quella del padre avvocato, che assisteva gratuitamente gli oppressi «schiavi» neri). Ma anche gli scuri, ossessivi paesaggi al carboncino per Il ritorno in patria del monteverdiano Ulisse ci conducono verso un non-eroe, significativamente «senza qualità», né politiche né morali, che non ha più la forza di ritrovare se stesso né la patria e si «ritrova» anche lui, perduto, nel letto disfatto d’un ospedale sudafricano. Volute disfatte di fumo al carboncino, spiazzamenti temporal-geografici, l’arabesco della storia che via via si cancella ed annacqua. Come nel celebre video di Broodthaers, in cui la pioggia disfa l’inchiostro della penna che sta scrivendo in diretta, spesso anche la «penna» dello sguardo filmico di Kendridge si rimangia il suo lapillico calligrafare nell’aria, come un cane famelico, che si ridivora il suo maldigerito. In arrivo da Documenta l’installazione Il rifiuto del tempo , al contrario del titolo è farcita di tempo sonoro e visivo con quei grandi metronomi alla Man Ray, che hanno perduto l’occhio disegnato, ma che ci spiano comunque attraverso la percussione a rumore solfeggiato. E poi, nel mezzo, l’ansimante, gigantesca macchina tayloriana-industriale del nulla pare una grande, lignea cinepresa leonardesca, alla Athanasius Kirkner. Ma, attenzione: si rischia di non capire tutti i nessi complessi che questo neo-maestro «fiammingo», dai significati reconditi e cifrati (non messaggi!) dissemina, soprattutto se non si è assistito al fascinoso spettacolo teatrale Refuse the Hour . Che, diritti permettendo, andrebbe tassativamente proiettato in video alla mostra.
L’artista ha lavorato per oltre due anni con lo scienziato Peter L. Galison (quello degli Orologi di Einstein , Cortina ed.) cercando di capire tutto quello che «preistoricamente» ha preceduto l’idea del tempo-spazio, nella teoria della relatività. Rifiuto del tempo «standardizzato» e convenzionale, che ossessiona la nostra vita di uominiorologio, venduti alla convenzione di un solo tempo apparentemente uniforme in tutto l’universo, mentre il tempo non è che un (agostiniano) flusso inafferrabile, che non necessariamente possiede una realtà misurabile e soprattutto mai una mono-direzione vettoriale, verso il futuro. Così talvolta sul palcoscenico, come in una sequenza a rovescio di Cocteau la danza tribale di Dada (nome profetico) Masilo ritorna su se stessa («Non è il movimento della gamba ad imprimere un movimento alla gonna, ma viceversa» spiega dopo lo spettacolo l’artista) proprio come il tempo junghiano circolare: «che potrebbe farci ritornare a convivere con Lutero». Lo spettacolo ci mostra visivamente ( hommage à Meliès ) come la scienza ragioni esclusivamente per via metaforica. Se deve esplicarsi (le stringhe informatiche, i buchi neri, l’orologio cosmico) vorticosamente passa e danza attraverso questi frammenti d’immagini, lise e sfilacciate, sopra la calvizie pulsante della calotta teatrale, carte geografiche immaginarie e macchine inutili (alla Carelman) più che non celibi, alla Duchamp.
Il tutto si trasforma in una sorta di lezione ironica e terribile in cui questo Wotan contemporaneo, alla Kantor trasognato, passeggia tra le sue lavagne e le ombre cinesi, con il suo macchiato grembiule da litografo planetario, dirigendo i rumori recitando «stringhe» di memoria bambina, azionando la selva di megafoni e telescopi, alla Parade , che muovono a ritroso la gran macchina del tempo. Immaginario.

WILLIAM KENTRIDGE VERTICAL THINKING. ROMA MAXXI. FINO AL 3 MARZO 2013