mercoledì 21 novembre 2012

l’Unità 21.11.12
«La tregua è vicina» Ma si combatte
L’egiziano Morsi annuncia un accordo imminente, poi corregge: «Non oggi»
Netanyahu chiede 24 ore senza fuoco prima di dare via libera
Arriva Hillary Clinton
di Umberto De Giovannangeli


La notte della tregua. Annunciata, poi smentita, poi ancora condizionata. È la notte della speranza e della paura per due popoli. Una notte col fiato sospeso. In Israele, a Gaza. Sono le 17 quando sembra che l’accordo sia a un passo: entro poche ore si dice dovrebbe scattare una tregua tra israeliani e palestinesi. Il cessate il fuoco tra Hamas e Israele doveva essere annunciato in serata dal Cairo, alle 8 ora italiana. Le tv satellitari “Al Jazira” e “Al Arabiya” precisano persino l’orario di entrata in vigore: le nostre 23. Ma non è così. Passano poche ore, ed ecco la prima doccia fredda. Ci sarebbero ancora dei problemi da risolvere, da parte israeliana. La tregua con Gaza «non è ancora finalizzata» e «la palla è ancora in gioco»: così un portavoce del governo di Gerusalemme alla Cnn. Israele, riferisce l’emittente televisiva Usa, ha chiarito che prima di sottoscrivere qualsiasi accordo per un cessate il fuoco vuole 24 ore ininterrotte di calma, senza il lancio di razzi dalla Striscia di Gaza. L’Egitto che media in prima linea prima annuncia l’imminenza dell’accordo, poi lo riduce ad una speranza. Infine annuncia: «Non sarà per oggi», per ieri.
PRESSIONE
«Sono qui per appellarmi personalmente per la fine della violenza e per chiedere un cessate il fuoco». Così il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, giunto nella tarda mattinata di ieri al Cairo. Il numero uno del Palazzo di Vetro si è espresso senza mezzi termini in favore di un «cessate il fuoco immediato» e chiedendo «immediati passi indietro da entrambe le parti» per fermare una «escalation a Gaza, inclusa qualsiasi operazione di terra». «L’assurda aggressione israeliana contro Gaza terminerà oggi (ieri, ndr) e gli sforzi messi in campo per arrivare ad una tregua avranno risultati positivi nelle prossime ore» aveva dichiarato in precedenza il presidente egiziano Mohamed Morsi. Dal Cairo a Gerusalemme, si dipana un continuo alternarsi di speranza e pessimismo. «Abbiamo una mano tesa verso la pace, nell’altra brandiamo una spada», dichiara in diretta televisiva il premier israeliano, Benjamin Netanyahu. Israele intende dare «più tempo, ma non illimitato» ai negoziati condotti dagli egiziani per ottenere una tregua a Gaza, prima di avviare l’invasione di terra, ribadisce (ore 18:00), il portavoce di Netanyahu, Mark Regev che poi aggiunge: «In contemporanea i preparativi per l’offensiva di terra continuano». Come continuano i raid aerei su Gaza e il lancio di missili palestinesi sulle città israeliane. Colpito da un colpo di mortaio in un kibbutz vicino alla Striscia di Gaza, un militare israeliano è deceduto dopo il ricovero in ospedale. Lo rende noto l’esercito: il suo nome è Yossef Partok, aveva 18 anni, ed era un soldato di leva. E in serata muore anche un civile: Alayaan Salem al-Nabari, della comunità beduina del Negev. Con i loro decessi sale a cinque il numero degli israeliani uccisi dal fuoco palestinese in questa tornata di violenza: 11 soldati e 6 civili i feriti di ieri.
L’incertezza regna sovrana. Ore 19:00. Fonti di Hamas citate dalla “Cnn” chiariscono che non è stata ancora firmato un accordo per una tregua effettiva e che alle 21 locali (le 20 in Italia) nell’annunciata conferenza stampa al Cairo sarà reso noto l’inizio di un «periodo di calma», preliminare. Il riferimento è allo stop al lancio di razzi chiesto da Israele (per almeno 24 ore) prima di procedere alla sottoscrizione di qualsiasi intesa. Israele vuole mettere alla prova l’affidabilità non solo di Hamas e della Jihad islamica ma di tutta la galassia delle fazioni attive nella Striscia di Gaza. Ore 20:00 (le 21:00 in Egitto). Si continua a trattare. L’attesa conferenza stampa slitta. I negoziati per la tregua sono ancora in corso al Cairo, dice il portavoce di Hamas, Fawzi Barhoum, ad al Jazeera. Barhoum spiega che i contatti sono in corso e si attende il via libera israeliano alla proposta, attraverso la mediazione egiziana. Una mediazione che incassa il sostegno della segretaria di Stato Usa, Hillary Clinton, giunta in serata a Tel Aviv. A Gerusalemme, Netanyahu torna a riunire il Gabinetto ministeriale di sicurezza, allargato ai vertici militari e ai capi dei servizi di intelligence. Hamas «non ha ricevuto finora la risposta di Israele e chiede a tutti i media di non precipitarsi. Sarà la presidenza egiziana ad annunciare una tregua se sarà concluso l’accordo; il movimento invita la resistenza a Gaza a continuare a rispondere ai crimini israeliani», dichiara un membro della direzione in esilio di Hamas, Ezzat al-Rich. Ore 22:00. Fonti della presidenza egiziana citate dalla Cnn, riferiscono che a differenza di quanto annunciato in precedenza non prevedono oggi (ieri per chi legge) di poter fare alcun annuncio sulla fine delle ostilità (cessate il fuoco) tra israeliani e palestinesi nella Striscia di Gaza. Altre fonti parlano invece di un intensificarsi degli attacchi. In particolare verso il nord della Striscia di Gaza. La tregua è appesa a un filo.

l’Unità 21.11.12
Pioggia di volantini a Gaza: «Andate via»
di U.D.G.


Duecentomila persone in fuga. Esecuzioni sommarie di «collaborazionisti». Il pianto disperato dei bambini sulle macerie delle case distrutte dalle bombe sganciate dai caccia con la stella di David. Un inferno a cielo aperto: questa è la Striscia di Gaza a poche ore dallo sperato annuncio di una tregua. Razzi che piovono su un autobus a Beersheva, a Asqhelon, uno sfiora Gerusalemme. Un altro colpisce un edificio a sud di Tel Aviv, quattro i feriti, mentre un soldato di 18 anni rimane ucciso in serata, muore anche un civile portan-
do a 5 le vittime israeliane. Le sirene d’allarme che squarciano il silenzio carico di paura a Sderot: questo è Israele a poche ore dall’agognato cessate-il-fuoco. Intanto centinaia di famiglie hanno raggiunto, col calare delle tenebre, nel centro di Gaza un «quadrilatero» indicato loro dall’esercito israeliano come zona protetta. Si tratta secondo i volantini dell’esercito dell’area compresa fra le strade Salah-a-Din, Omar al-Mukhtar, al-Nasser e al-Quds. Al suo interno sono giunte persone a bordo di camion e anche a dorso di asini, con materassi su cui trascorrere la notte.
Dilaga il panico fra la popolazione di diversi rioni di Gaza City, dopo che l’esercito israeliano ha ordinato lo sgombero immediato di quartieri e sobborghi quali quelli di Tel al-Hawa, Sajaya e Zeitun. La pressione sulle istituzioni dell’Unrwa (l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati) sta aumentando. Nei messaggi israeliani, inviati in arabo attraverso volantini e sms subito prima di una nuova ondata di raid, s’indicava alla gente di spostarsi verso il centro città. Ignorare i volantini minacciosi dell’esercito israeliano, che ordina l’evacuazione da diversi quartieri di Gaza: questa la direttiva impartita in serata da una radio di Hamas alla popolazione della città. «Non curatevi di quei volantini. Il popolo di Gaza si fa beffe dell’occupazione», ha affermato un annunciatore. Nel frattempo però numerose famiglie avevano già cominciato ad abbandonare precipitosamente le proprie case cercando di raggiungere il centro della città, secondo gli itinerari consigliati da Tsahal.
Anche ieri si è continuato a morire una ventina le vittime palestinesi, inclusi due cameraman. Tra le vittime di questi giorni c’è anche un bambino disabile di 4 anni, Mahmud, ferito a morte venerdì scorso dalle schegge di un missile caduto vicino a casa, a Jabaliya. La sua storia non diversa da altre eppure straziante come poche è raccontata dall’ong italiana Terre des hommes, sulla base di notizie ricevute dalla famiglia. Il bambino era assistito dalla Palestinian Medical Relief Society, partner locale della ong. Con lui è rimasto ucciso anche un uomo che si trovava lì vicino, mentre altre 5 persone sono state ferite.
I COLLABORAZIONISTI
Miliziani di Hamas hanno ucciso a colpi di arma da fuoco nella Striscia sei presunti collaborazionisti di Israele: lo ha riferito l’emittente radiofonica al-Aqsa, che fa capo al gruppo radicale palestinese, secondo cui le vittime sono state «colte in flagrante». Il cadavere di uno dei presunti traditori è stato quindi legato con una catena a una motocicletta, e trascinato per le strade di Gaza city.

il Fatto 21.11.12
L’invettiva di Odifreddi e la scelta di Repubblica
Censurato il post del matematico che critica Israele
Lui replica: “Preferisco fermarmi”. I dubbi del web sulla libertà di espressione
di Diego Pretini


Milano Durante l’operazione Piombo Fuso di fine 2008 e inizio 2009 sono stati uccisi almeno 1400 palestinesi, secondo il rapporto delle Nazioni Unite, a fronte dei 15 morti israeliani provocati in 8 anni (!) dai razzi di Hamas. L’eccidio di 4 anni fa non è che uno dei tanti perpetrati dal governo e dal’esercito di occupazione israeliani Ma a far condannare all’ergastolo Kesselring, Kappler e Priebke ne è bastato uno solo, e molto meno efferato: a quando dunque un tribunale internazionale per processare e condannare anche Netanyahu e i suoi generali? ”. Di polemiche e di dispute Piergiorgio Odifreddi si intende da tempo. Ma non avrebbe immaginato che quelle parole pubblicate domenica nel suo blog su Repubblica.it   (“Il non senso della vita”) sarebbero scomparse nel nulla dopo poco 24 ore. Prima di paragonare il primo ministro israeliano ai generali nazisti che mandarono a morte le 335 vittime delle Fosse Ardeatine aveva scritto che “in questi giorni si sta compiendo in Israele l’ennesima replica della logica nazista” di quell'atto efferato di 68 anni fa. Presa di posizione destinata a far discutere, come spesso accade con gli interventi taglienti del matematico, divulgatore di successo (editoriale) e noto per le sue posizioni critiche nei confronti della Chiesa cattolica. Ma l'eliminazione dell'articolo lo ha spinto all'addio, dopo “809 giorni di libertà”.
LA CANCELLAZIONE non è un problema - sottolinea - nell'era dell'informatica, “quando tutto ciò che si mette in rete viene clonato e continua comunque a esistere e circolare”. E non lo è “il fatto che una parte della comunità ebraica italiana non condivida le opinioni su Israele espresse non solo da José Saramago e Noam Chomsky” ma anche da “molti cittadini israeliani democratici non approvano la politica del loro governo”. Resta un problema “individuale”: “Se continuassi a tenere il blog, dovrei ogni volta domandarmi se ciò che penso o scrivo può non esser gradito a coloro che lo leggono”. Dunque “preferisco fermarmi qui”. La cancellazione del post aveva suscitato la reazione dei lettori: “Che fine ha fatto l'intervento? ”, hanno chiesto utilizzando lo spazio di un altro post. Poi i commenti sono proseguiti in coda all'addio di Odifreddi. “Oggi non è più la Chiesa a mettere all’indice, censurare e a mettere in galera” riflette Martin. E su twitter Franco Maria Fontana chiede: “Per la testata ‘liberal’, la libertà d'opinione è un optional? ”. Ma non è un coro. “Caro professore, e poi Grillo sarebbe il dittatore? - commenta Sjairwolf - spero abbia aperto gli occhi…”.

il Fatto 21.11.12
Anonymous alla cyber guerra con Israele


ANONYMOUS, COLLETTIVO DI HACKER , scende in campo a favore della popolazione palestinese. Il gruppo ha lanciato l'operazione #OPIsrael, come reazione alla volontà, espressa delle autorità ebraiche, di bloccare la connessione al web nella Striscia di Gaza. Così scrivono i cyberattivisti: “Avvisiamo solo una volta le forze di difesa e il governo israeliano. Non bloccate il web all'interno dei territori occupati e cessate di spargere terrore tra gli innocenti della Palestina, altrimenti conoscerete l'incontenibile ira di Anonymous. E, come tutti i governi diabolici che hanno subito la nostra rabbia, non sopravviverete indenni”. Nel frattempo, Anonymous è già passata all'azione, mandando in tilt siti considerati troppo filosionisisti, come Falcon-s.co.il e Ad  vocate-israel.com  , ed offrendo alla popolazione palestinese un file di sicurezza che contiene informazioni basilari per sfuggire alle operazioni di controllo e sorveglianza, oltre che istruzioni per manomettere una connessione alla Rete se Israele dovesse abbattere i server di Gaza. Un altro documento, infine, spiega come creare una connessione analogica nel caso fosse stoppato Internet. Non ultima, la guerra svolta a colpi di tweet per rendere pubbliche informazioni, foto e video che il governo   israeliano pare non voglia siano diffusi. Valerio Venturi

il Fatto 21.11.12
Israele/1
Critiche no
Il governo non è un paese
di Furio Colombo


Si può parlar male di Israele? Per rispondere dirò che questo è il destino riservato a Israele: molto prima di decidere sulla portata delle sue azioni e l’eventuale gravità dei suoi errori, bisogna decidere se Israele è un Paese normale. L’Italia, ad esempio, è un Paese normale. Eppure ha distrutto intere popolazioni etiopiche e somale con gas asfissianti, ha spossessato e perseguitato i nostri vicini croati e sloveni che vivevano a Trieste, tormentandoli ed eliminandoli fino alla nostra sconfitta; ha scritto con cura, approvato all'unanimità ed eseguito con fervore le leggi razziali, mandando a morte migliaia di famiglie italiane ebree, compresi i bambini, tutti quelli che hanno potuto trovare. La Cina, ai nostri giorni è un Paese normale, proprio mentre è intento a distruggere il Tibet, a perseguitare le popolazioni cinesi islamiche (Uiguri) e a stroncare con carcere e morte l’ostinata diversità del vasto gruppo Falun gong. I Paesi normali possono, a volte, essere rimproverati o ammoniti per i loro comportamenti nel passato o nel presente, ma la discussione su di loro avviene (persino per il Ruanda che aveva provocato un milione di morti e due milioni di profughi) partendo da due punti base.
Uno: un governo non è un Paese, e infatti molti di noi non hanno mai accettato che Berlusconi fosse l'Italia.
DUE: OGNI VOLTA che si richiama il nazismo come chiave di analogia, spiegazione e confronto, si chiamano in causa le vittime, dunque gli ebrei. È il momento in cui, agli occhi degli accusatori, diventano i carnefici. Certo, solo alcuni folli neo-nazisti aggiungeranno la bieca frase “vedi? Non ne hanno fatti fuori abbastanza”. Ma il senso pesa due volte. Primo, il legame ebrei-nazisti diventa, allo stesso tempo, reversibile e ferreo, un destino legato all'altro e la condanna a rifare lo stesso ignobile gioco. Secondo, senza gli ebrei, che diventano i nazisti che li hanno per-seguitati, i palestinesi vivrebbero liberi e felici. Ogni riferimento ai Pashtun dell'Afghanistan, che sotto il nome di Taliban hanno fatto, fanno e faranno stragi di donne con la lapidazione, e di bambini, con l'immensa diffusione di mine antiuomo, è considerato fuori posto. I Taliban saranno pesanti da sopportare, ma non sono ebrei. Ecco dove e come le critiche a Israele (anche le più legittime) possono diventare uno strano discorso che porta al razzismo: quando si evoca il legame rovesciato vittima-carnefice, indicando per forza l'ebreo come protagonista negativo; quando, anche da persone certamente democratiche, si fa finta di credere che un governo sia un popolo e un Paese (come se David Grossman parlasse da Malta) ; quando si stabiliscono per Israele criteri di giudizio (dunque di condanna) che non si applicano mai a nessun altro Paese (eppure le atrocità nel mondo sono immense anche in questo momento) che non sia ebreo.

il Fatto 21.11.12
Israele/2
Critiche sì
Gli errori non vanno taciuti mai
di Vauro Sanesi


Criticare Israele non solo si può, ma si deve. Critica aperta e libera alla politica israeliana di tutti questi anni sulla questione palestinese e anche riguardo al mancato rispetto di un'infinita serie storica di risoluzioni delle Nazioni Unite. Pare sempre in questi casi che lo Stato di Israele goda di una sorta di non dichiarato salvacondotto rispetto ai canoni minimi di legalità internazionale. Gli esempi sono un'infinità: dalla politica sulle colonie nei Territori Occupati, al bloccare - anche violentemente - in acque internazionali, dunque un atto di pura pirateria i membri militanti pacifisti (come è successo nel 2010 con la nave Mavi Marmara e le sue 9 vittime) che portano aiuti umanitari alla Striscia di Gaza, all'uso di bombe al fosforo, come è successo durante la precedente operazione israeliana “Piombo fuso”. È un lungo elenco, non c'è forse bisogno di scriverle tutte, anche se la memoria non guasta mai.
La questione è che ogni critica a Israele viene equiparata a una recrudescenza di antisemitismo: non lo trovo soltanto desolante ma anche pericolosissimo. Perché, sempre facendo buon uso della memoria, va ricordato che l'antisemitismo ha portato a uno dei più grandi drammi del Novecento, la Shoah: allo stesso tempo, banalizzare questa tragedia trasformandola in un'occasione opportunistica per nascondere dietro a ciò qualsiasi scelta scellerata di un governo, come quello di Israele, rischia di far perdere ogni valenza storica, morale e attuale.
Il criticare Israele non solo è necessario per rompere il silenzio omertoso che da anni si fa intorno alle condizioni di vita dei palestinesi, ma anche per salvaguardare Israele stessa dalla deriva militarista e autoritaria che rischia di soffocare quel che di democratico c'è, ancora, nello Stato di Israele stesso.

Repubblica 21.11.12
I frutti della guerra
di Barbara Spinelli


E lo stereotipo non è diverso da quello usato ai tempi di Bush figlio: l’America è Marte e virile, il nostro continente è Venere e fugge la spada. L’ashkenazi tornò come altri ebrei in Terra Promessa, ma ha i riflessi della vecchia Europa. Lo storico Tom Segev racconta come erano trattati gli ebrei tedeschi, agli esordi. Li chiamavano yekke: erano ritenuti troppo remissivi, cervellotici, e poco pratici. L’Europa è icona negativa, e lo si può capire: ha idee sulla pace, ma in Medio Oriente è di regola una non-presenza, una non-potenza. Lo scettro decisivo sempre fu affidato all’America.
Tale è, per Yaalon, il vizio di chi biasima Netanyahu e gli rimprovera, in questi giorni, la guerra a Gaza e la tenace mancanza di iniziativa politica sulla questione palestinese. Lo stereotipo dell’ashkenazita mente, perché ci sono ashkenaziti di destra e sinistra. Era ashkenazita Golda Meir. Sono ashkenaziti David Grossman, Uri Avnery, Amira Hass, pacifisti, e espansionisti come Natan Sharansky. Ma lo stereotipo dice qualcosa su noi europei, che vale la pena meditare. Nel continente dove gli ebrei furono liquidati siamo prodighi di commemorazioni contrite, avari di senso di responsabilità per quello che accade in Israele. Predicando soltanto, siamo invisi e inascoltati.
Eppure l’Europa avrebbe cose anche pratiche da dire, sulle guerre infinite che i governi d’Israele conducono da decenni, sicuri nell’immediato di difendersi ma alla lunga distruggendosi. Ne ha l’esperienza, e per questo le ha a un certo punto terminate, unendo prima i beni strategici tedeschi e francesi (carbone, acciaio) poi creando un’unione di Stati a sovranità condivisa.
Le risorse mediorientali sono quelle acquifere in Cisgiordania, gestite dall’occupante e assegnate per l’83% a Israele e colonie. Tanto più l’Europa può contare, oggi che l’America di Obama è stanca di mediazioni fallite. È stato quasi un colpo di fucile, l’articolo che Thomas Friedman, sostenitore d’Israele, ha scritto il 10 novembre sul
New York Times: provate la pace da soli, ha detto, poiché «non siamo più l’America dei vostri nonni». Non potremo più attivarci per voi: «Il mio Presidente è occupato-My President is busy». Anche gli ebrei Usa stanno allontanandosi da Israele.
È forse il motivo per cui pochi credono che l’offensiva si protrarrà, ripetendo il disastro che fu l’Operazione Piombo Fuso nel 2008-2009. Ma guerra resta, cioè surrogato della politica, e solo all’inizio la vulnerabilità di Israele scema. Troppo densamente popolata è Gaza, perché un attacco risparmi i civili e non semini odio. Troppo opachi sono gli obiettivi. Per alcuni il bersaglio è l’Iran, che ha dato a Hamas missili per raggiungere Tel Aviv e che ha spinto per la moltiplicazione di lanci di razzi su Israele. Per altri la guerra è invece propaganda: favorirà Netanyahu alle elezioni del 22 gennaio 2013.
Altro è il male di cui soffre Israele, e che lo sfibra, e che gli impedisce di immaginare uno Stato palestinese nascente. Un male evidente, anche se ci s’incaponisce a negarlo. Sono ormai 45 anni — dalla guerra dei sei giorni — che la potenza nucleare israeliana occupa illegalmente territori non suoi, e anche quest’incaponimento ricorda i vecchi nazionismi europei. Nel 2006 i coloni sono stati evacuati da Gaza, ma i palestinesi vi esercitano una sovranità finta (una sovranità morbida, disse Bush padre, come nella Germania postbellica). Il controllo dei cieli, del mare, delle porte d’ingresso e d’uscita, resta israeliano (a esclusione del Rafah Crossing, custodito con l’Egitto e, fino alla vittoria di Hamas, con l’Unione europea). Manca ogni continuità territoriale fra Cisgiordania (la parte più grande della Palestina, 5.860 km²; 2,16 milioni di abitanti) e Gaza (360 km²; 1,6 milioni). I palestinesi possono almeno sperare nella West Bank? Nulla di più incerto, se solo si contempla la mappa degli insediamenti in aumento incessante (350.000 israeliani, circa 200 colonie). Nessun cervello che ragioni può figurarsi uno Stato palestinese operativo, stracolmo di enclave israeliane.
Se poi l’occhio dalle mappe si sposta sul terreno, vedrà sciagure ancora maggiori: il muro che protegge le terre annesse attorno a Gerusalemme, le postazioni bellicose in Cisgiordania, le strade di scorrimento rapido riservate agli israeliani, non ai palestinesi che si muovono ben più lenti su vie più lunghe e tortuose. Un’architettura dell’occupazione che trasforma le colonie in dispositivi di controllo (in panoptikon), spiega l’architetto Eyal Weizman. È urgente guardare in faccia queste verità, scrive Friedman, prima che la democrazia israeliana ne muoia. Forse è anche giunto il tempo di pensare l’impensabile, e chiedersi: può un arabo israeliano (1.5 milioni, più del 20% della popolazione) riconoscersi alla lunga in un inno nazionale (Hatikvah) che canta la Terra Promessa ridata agli ebrei, o nella stella di Davide sulla bandiera? Potrà dire senza tema: sono cittadino dello Stato d’Israele, non di quello ebraico?
Questo significa che anche per Israele è tempo di risveglio. Di una sconfitta del nazionalismo, prima che essa sia letale. Separando patria e religione nazionale, la pace è supremo atto laico. Risvegliarsi vuol dire riconoscere i guasti democratici nati dall’occupazione. Le menti più acute di Israele li indicano da anni. Ari Shavit evoca i patti convenienti con Bush figlio, gli evangelicali Usa, il Tea Party: «Patrocinato dalla destra radicale Usa, Israele può condurre una politica radicale e di destra senza pagare alcun prezzo». Può sprezzare le proprie minoranze, tollerare i vandalismi dei coloni contro palestinesi e attivisti pacifisti. David Grossman ha scritto una lettera aperta a Netanyahu: l’accusa è di perdere ogni occasione per far politica anziché guerre (
Repubblica, 6 novembre 2012). L’ultima occasione persa è l’intervista di Mahmoud Abbas alla tv israeliana, l’1 novembre: il capo dell’Autorità palestinese si dice disposto a tornare come turista a Safad (la città dov’è nato a nord di Israele). «Nelle sue parole — così Grossman — era discernibile la più esplicita rinuncia al diritto del ritorno che un leader arabo possa esprimere in un momento come questo, prima dei negoziati». Abbas s’è corretto, il 4 novembre: la volontà di chiedere all’Onu il riconoscimento dell’indipendenza aveva irritato Netanyahu, e Obama di conseguenza ha sconsigliato Abbas. Quattro giorni dopo, iniziava a Gaza l’operazione «Pilastro della Difesa».
L’abitudine alla guerra indurisce chi la contrae, sciupa la democrazia. In Israele, allarga il fossato tra arabi e ebrei, religiosi e laici. Vincono gli integralisti, secondo lo scrittore Sefi Rachlevsky che delinea così il volto della prossima legislatura: una coalizione fra Netanyahu, i nazionalisti di Yisrael Beiteinu, e ben quattro partiti che vogliono — come l’Islam politico — il primato della legge ebraica (halakha) sulle leggi dello Stato. In tal caso non si tornerebbe solo alle guerre nazionaliste europee, ma alle più antiche guerre di religione. Stupefacente imitazione, per un paese dove l’Europa è sì cattivo esempio.

l’Unità 21.11.12
Bersani: «No alle tifoserie L’urgenza è fermare il conflitto»
Il segretario del Pd incontra la comunità ebraica di Roma
«Sinistra impegnata per una soluzione»
di Daniela Amenta


ROMA «Le ultime notizie dicono che la tregua è questione di ore, speriamo bene. Perché quello che vogliamo tutti è dire “basta, basta, basta”. E subito». Un applauso copre le prime parole pronunciate da Pier Luigi Bersani ospite del centro ebraico Pitigliani a Roma. Un incontro fissato tempo addietro per commentare «Israele e la sinistra», un libro bello e sofferto di Matteo Di Figlia che racconta il ruolo degli ebrei nel dibattito pubblico italiano dal 1945 ad oggi. Ma la realtà è più urgente, drammatica, e ha preso il sopravvento: Gaza, i missili, i morti, la strage di bambini. Di questo è importante discutere, ora, e confrontarsi in una sala gremita all’inverosimile dagli uomini e dalle donne della comunità romana. Una sala addolorata, ferita, che prima della tavola rotonda coordinata con grande intelligenza da Tobia Zevi, dedica un minuto di silenzio in memoria delle vittime.
«Israele, sinistra e pace» è il titolo di questo incontro sul filo della memoria e con lo sguardo angosciato sul presente. A dibatterne Matteo Di Figlia, ricercatore di storia contemporanea, Paolo Mieli, Emanuele Fiano parlamentare del Pd, il presidente della comunità romana Riccardo Pacifici e il segretario dei Democratici Bersani.
Fiano lo spiega con commozione che vuol dire essere di sinistra ed ebrei, provare a narrare una storia così complessa, avere la famiglia sterminata e una cugina che si chiama Fiamma Nirenstein e siede dall’altra parte del Parlamento. «Il mio dna è l’antifascismo, non potrei militare altrove se non con i Democratici. E lo so che è difficile dire le ragioni di Israele quando ci sono le immagini dei bambini uccisi che piangiamo anche noi. Vorremmo raccontarvi le lacerazioni durante la guerra dei sei giorni, e l’orrore di Sabra e Shatila, e i 600mila pacifisti di Israele che scesero in piazza. E noi, noi che a Milano manifestammo incompresi da altri ebrei, nostri fratelli».
Una storia complessa. «Per quell’antisemitismo che attraversa anche la sinistra», incalza Riccardo Pacifici. Che ce l’ha con Vendola per il j’accuse contro Israele. «Ci sentiamo traditi e delusi. Speravamo che dopo i grandi sforzi compiuti da Fassino, Veltroni, Zingaretti, Caldarola, ci si lasciasse alle spalle la retorica. E che la sinistra fosse in grado di indignarsi non solo quando si alzano i jet dello Stato ebraico ma quando rimangono uccisi migliaia e migliaia di bambini in Siria. Siamo sgomenti perché il conflitto in Medioriente non è un tema per tifosi».
MINORANZA PREZIOSA
Ecco, appunto. E Bersani lo dice chiaramente. «Non voglio più che la sinistra partecipi a tifoserie, ma voglio che dia una mano per trovare una soluzione pacifica e civile». E non solo: il segretario del Pd lo spiega come prologo: «La presenza ebraica è quella di una minoranza preziosissima, ma giustamente identitaria». «Secondo me si sta sviluppando una fase nuova nel rapporto tra la sinistra e Israele continua-. Nel mondo che conosco io, nel mio partito, non sento il tema di chi ha le ragioni e chi i torti, non si fa la contabilità dei morti. Quel che prevale è che ora vogliamo dire “basta, basta e basta”. Vogliamo trovare una soluzione e sono sicuro che è lo stesso sentimento che prevale nel mondo». Forse, ammette, a sinistra c’è «un antico istinto di sostegno verso il popolo povero e umiliato, piuttosto che nei confronti di quello insicuro, ma è un istinto che va corretto e sorvegliato». Detto questo, continua, «nessuno negherebbe oggi a Israele, nel mondo della sinistra, il diritto all’autodifesa».
Bersani chiede che il suo partito e l’Europa diano una mano per trovare una soluzione perché, dice il leader del Pd, «io non me la sento più di dar ragione all’uso della forza». Come allora? Parlando soprattutto con i moderati e con Abu Mazen perchè altrimenti «Hamas resta protagonista». Non c’è alternativa a «due popoli due Stati» ma pensa che Abu Mazen sia intenzionato a ragionare sui confini del ’67, sui profughi e su una ripartizione di Gerusalemme. Finora, prosegue, «Hamas ha tagliato le gambe a un dialogo costruttivo» però anche gli insediamenti «hanno creato qualche problema». Un ultimo interrogativo su cui riflettere: dire no allo status di osservatore all’Autorità palestinese all’Onu non rischia di relegare «nell’irrilevanza Abu Mazen»? E chi rimane, poi, se non Hamas?

il Fatto 21.11.12
Le promesse di Renzi
La cena di Serra e i fondi raccolti ancora nascosti
di Giampiero Calapà


Ma quali donatori? Ma quale cifrone? Casomai una cifrina! Sa qual è la verità? Aspettavamo il grosso delle donazioni per l’inizio di questa settimana, ma il vostro articolo di domenica (sull’investimento di 10 milioni di euro dell’Ente Cassa di risparmio di Firenze nei Coco bond del fondo Algebris di Davide Serra, ndr) ha creato un casino: questi si sono spaventati”, sbotta così uno stretto collaboratore e amico del sindaco Renzi.
LA CENA del 17 ottobre con il “gotha” della finanzia che ha aperto le porte (promettendo di aprire anche la borsa e di rompere i salvadanai) a Matteo Renzi rimane, per il candidato rottamatore alle primarie di domenica, lo snodo fondamentale della campagna elettorale. I commensali saranno i grandi sponsor, pagheranno moneta in sostegno del sindaco di Firenze e i loro nomi saranno pubblicati sul sito matteorenzi.it   nella più assoluta trasparenza, promisero subito dal quartier generale renziano. Però, c’è da fare i conti con la legge italiana, che prevede il rispetto della privacy. “Abbiamo chiesto a tutti i finanziatori – spiega l’avvocato Alberto Bianchi della Fondazione Big Bang – la liberatoria per pubblicare i loro nomi, speriamo lo facciano”. Hanno tempo 90 giorni dal momento della donazione per decidere, come da regolamento sul sito. Quindi potrebbero esser resi pubblici molto dopo il voto di domenica. Sta ancora decidendo Guido Roberto Vitale, banchiere milanese e socio di Chiarelettere (tra gli editori di questo giornale): “Una donazione a Renzi, grande agente di cambiamento per questo Paese, l’ho fatta, ma non voglio dire quanto e voi dovete imparare a rispettare la privacy”. Non compaiono ancora sul sito per questo motivo i nomi dei circa trenta (sui 150 commensali di ottobre) che hanno fatto la donazione. Alcuni di questi trenta, però, hanno già dato parere favorevole alla pubblicazione: Maurizio Baruffi, che è il capo di gabinetto del sindaco di Milano, Giuliano Pisapia (1000 euro) ; Anthilia Holding, fondo d’investimento (750 euro) ; Andrea e Paola Moneta (1000 euro) ; l’avvocato Alessandro Balp, tra gli editori di Linkiesta.it   (500 euro) ; e il più generoso di tutti, fino ad ora, Fabrizio Landi, amico di Renzi e amministratore delegato di Esaote, azienda che si occupa di apparecchi elettromedicali (10 mila euro). Ma soprattutto non ha ancora aperto il portafogli Davide Serra, come confermato dallo stesso Matteo Renzi a Ottoemezzo su La7.
Su matteorenzi.it   si possono poi leggere nomi e cognomi di tutti gli altri donatori, i privati cittadini che vogliono sostenere il sindaco: il contatore ieri sera segnava quota 154.287,25 euro. Scorrendo questi donatori si trova l’autore di una parte del programma di Renzi, quella relativa all’ambiente, ovvero Ermete Realacci, che ha scucito solo 200 euro. Ancora meno l’intellettuale di destra, un tempo di stretta osservanza finiana, Sofia Ventura: 50 euro. Le cifre dei più generosi vanno dalle 250 euro di Giangaleazzo Visconti di Modrone alle 1000 di Carlo Giovanni Mannola, o addirittura alle 5000 di SebastianoCossia Castiglioni, produttore di vino biodinamico. Solo 100 euro, invece, da Gaddo della Gherardesca, l’ex fidanzato di Sarah Ferguson. Appena 50 euro corrispondono al nome di Lorenzo Bini Smaghi, ex banchiere della Bce. C’è anche un Maurizio Lupi che paga 250 euro, solo omonimo del ciellino piddiellino. Dovrebbe essere proprio lui, invece, l’ex amministratore delegato di Mediaset Maurizio Carlotti, mille euro per la causa.
IL SINDACO, intanto, continua ad andare dritto per la sua strada. E dopo esser comparso su Chi di Alfonso Signorini col padre Tiziano, si fa fotografare da Oggi insieme alle sue nonne, per rassicurare gli anziani “che non voglio rottamarli”. E poi si fa intervistare da Vanity Fair per fare un appello agli avversari: “Io non ho vitalizi ma chi li ha, a partire da Bersani e Vendola, potrebbe rinunciare al cumulo? ”. Lancia lo scrittore Alessandro Baricco come suo eventuale ministro della cultura, si scopre all’improvviso contrario al Tav Torino-Lione, e attacca ancora Bersani sui finanziamenti: “La famiglia Riva, proprietaria dell’Ilva di Taranto, gli ha dato 98 mila euro”. Se perde non promette l’Africa, ma tante vacanze: “Girerei il mondo con i miei figli. Vorrei visitare il Brasile, magari ci andrei per i Mondiali di calcio e le Olimpiadi”. Nelle pause, c’è pur sempre Firenze.

il Fatto 21.11.12
Gori arruola la Rai in pausa pranzo
di Paola Zanca


Ore 13.30. Pausa pranzo. Una sessantina di dipendenti Rai ha timbrato il cartellino, è uscita dagli uffici di viale Mazzini, di Saxa Rubra e di via Teulada ed è corsa in centro a Roma. Piazza delle Cinque lune, sede del comitato Renzi. Che ci fanno qui? Sono venuti a incontrare Giorgio Gori, padre fondatore di una delle più importanti case di produzione tv. Ieri, casualmente, era ospite di Radio-Due e ha spiegato che nel futuro vuole occuparsi di Bergamo, la sua città. Ma è uno che di piccolo schermo ne capisce. E che se Renzi dovesse vincere, conterà parecchio. Eccoli tutti lì, in attesa che arrivi il guru. Gran cerimoniere del pranzo – decisamente frugale, per la verità: qualche pizzetta e un po' di bottiglie di vino – è Luigi De Siervo, direttore commerciale della Rai e ora parecchio impegnato a seguire la comunicazione del candidato rottamatore.
BISOGNA PARLARE con lui per capire cosa sta succedendo. Agli altri è inutile chiedere. Delle decine di colleghi accorsi al confronto con lo spin doctor di Renzi, ufficialmente, non ce n’è uno che abbia capito perché si trova lì. “Non so bene di che si tratti”, “Non l’ho organizzato io”, “Mi è arrivata una mail ieri sera e sono venuta”, “Non ne so nulla, non chiedere a me”. Tutti da Gori, a loro insaputa. Si spiega meglio De Siervo: “In Rai, come in molte grandi aziende, si è creato un Comitato Renzi. Non ci sembrava il caso di incontrare Gori lì, per questo abbiamo organizzato l’appuntamento in questa sede, durante la pausa pranzo, timbrando il cartellino in uscita”. Partecipare alla riunione, però, è impossibile. “È privata”, spiega ancora De Siervo. Ed è comprensibile immaginare che i giornalisti della tv pubblica non abbiano voglia di venire etichettati come renziani. Anche perché, se vince, non si sa ancora. Qualcuno si espone, prende la parola pubblicamente. C'è Michele Mezza, vicedirettore allo sviluppo business e strategie tecnologiche della Rai. C'è Gianluca Veronesi, responsabile del settore promozione e immagine della tv di Stato. C'è Paola Martini, dirigente che si occupa di radio, nonché segretaria del circolo Pd (già Ds) di viale Mazzini.
CHE I DEMOCRATICI dell'informazione delle tre reti siano schierati con Renzi non è un dato ufficiale. Dice Andrea Sarubbi – già giornalista Rai, ora deputato Pd, renziano – che non è così, che quello con Gori è stato un incontro tutto all'insegna dei problemi dei media.
In effetti, racconta chi c'era, si è discusso di canone (secondo Gori va alzato, annunciando forse la prima tassa di Renzi premier), del duopolio da superare, di innovazione. Con il produttore tv, evidentemente, sfondano una porta aperta. Lui sogna una Rai costruita sul modello della Bbc, con le lottizzazioni rottamate e il Quirinale come garante al posto della Regina. Renzi salvi la Rai. E in Rai si salvi chi può.

il Fatto 21.11.12
Sorella di Vendola amica del gup Csm indaga sulla pm


UNA PRATICA per verificare se sussistano i presupposti per un trasferimento d’ufficio per incompatibilità del pm di Bari Desirée Digeronimo. L’ha aperta il Consiglio superiore della Magistratura, come annuncia il vicepresidente Michele Vietti: “Il comitato di presidenza - ha spiegato Vietti - ha autorizzato la trattazione della vicenda in prima commissione come richiesto da alcuni consiglieri. Sul merito è tutto da accertare”. La questione riguarda l’esposto che il pm Digeronimo ha, assieme ad un collega, inviato ai capi della Procura di Bari, per denunciare il fatto che il gup di Bari, Susanna De Felice, che lo scorso 31 ottobre ha assolto il governatore pugliese Nichi Vendola dall’accusa di abuso d’ufficio, era amica della sorella di Vendola. L’esposto era stato pubblicato da Repubblica. La stessa sorella del governatore aveva raccontato di conoscere la gup perché l’aveva incontrata ad alcune cene a casa di amici, tra cui una organizzata proprio a casa della Digeronimo.

il Fatto 21.11.12
“Vecchi democratici” con nuove idee
Il manifesto degli intellettuali per risollevare il Paese, dalla giustizia alle televisioni con un maggior coinvolgimento della società civile
a cura di Luca De Carolis


In tempi di rottamazione, vera o presunta, si definiscono “democratici della terza età”. E si rivolgono ai giovani, a cui offrono idee per ricostruire “l’Italia ridotta in macerie”. La possibile via per la rinascita è un programma che vale anche come un appello: il “Manifesto dei vecchi democratici”, a firma di Andrea Camilleri, Paolo Flores d’Arcais, Margherita Hack, Mario Alighiero Manacorda, Adriano Prosperi e Barbara Spinelli. Uscirà sul numero di MicroMega in edicola da domani. E rappresenta una base da cui (ri) partire: per i giovani, “a cui chiediamo di realizzare una lista della società civile, intenzionata ad allearsi con tutte le forze che condivideranno gli elementi essenziali di un programma democratico”. Tante soluzioni per una possibile alternativa: “Non un nuovo partito, ma uno strumento a geometria variabile, solo per questa tornata elettorale”. Una lista di candidati “che non abbiano mai ricoperto cariche politiche, e che non abbiano mai avuto a che fare con la giustizia”. Così auspicano gli autori: dall’età importante (“il meno giovane di noi ha 98 anni, il più giovane 66”) ma con tanta voglia di una svolta, “nella fedeltà alla Costituzione”.
RIFORMA ISTITUZIONALE
Il Parlamento disegnato nel Manifesto è molto più snello e non ammette privilegi o lussi. Quindi: una sola Camera effettiva, con un’altra con compiti di difensore civico, formata per metà dai sindaci delle principali città. Drastica riduzione dei parlamentari, e limite massimo di due mandati. Poi la scure: abrogazione di tutti i privilegi legali (anche per gli ex), tranne l’assenso all’arresto. Una “rigorosa legge” sul conflitto d’interessi, eterna promessa mai mantenuta dal centrosinistra. E cura dimagrante anche per gli enti locali, con drastiche restrizioni al ricorso alle consulenze e limite “ancora più radicale” per le auto blu.
GIUSTIZIA
Primo obiettivo, cancellare gli orrori di berlusconiana memoria: ovvero, abrogazione di tutte le leggi ad personam. Ma anche il presente nel segno dei tecnici è opaco; e allora, riscrittura della legge anticorruzione appena approvata, e reintroduzione della precedente legge sul falso in bilancio. Poi, diverse novità: introduzione dei reati di traffico d’influenza (traducibile con il fatto di promettere, offrire o procurare, direttamente o indirettamente, qualsiasi vantaggio indebito), e auto riciclaggio; divieto per i magistrati di candidarsi a cariche elettive, con obbligo di dimettersi prima della candidatura. Il Manifesto invoca quindi l’ampliamento del reato di concorso esterno ad associazione mafiosa, e “una riforma radicale della giustizia amministrativa, oggi di nomina politica”. Ma per una giustizia migliore servono norme più razionali e meno burocrazia. E allora, gli autori chiedono l’abrogazione delle leggi attuali su droga e clandestinità, “che intasano le carceri”, e la depenalizzazione del reato per gli assegni a vuoto, per cui invece si chiede la responsabilità delle banche. Mentre vanno semplificate le procedure di notifica, di cui deve essere garantita solo la ricezione da parte dell’imputato, o del suo avvocato.
LAVORO
La prima urgenza è il contrasto a tutte le forme di precariato, anche usando norme già sperimentate nel resto d’Europa, per fermare fenomeni sempre più diffusi di “para-caporalato”. La seconda è il rispetto dei diritti sindacali in ogni azienda, con una più dettagliata definizione del comportamento antisindacale. Infine, referendum obbligatorio per ogni accordo contrattuale nazionale o aziendale.
FISCO
La priorità, ovviamente, è la lotta all’evasione. Da incrementare, innanzitutto prendendo idee “dalle migliori leggi dei paesi più efficienti nel combatterla”. Si chiede l’arresto per i casi di gravità medio-alta. E si invocano nuove regole: dall’obbligo di denunciare nella dichiarazione dei redditi tutti i conti correnti, le cassette di sicurezza “e qualsiasi altra forma di patrimonio”, sino al divieto di avere conti in paesi che non garantiscano interventi o rogatorie in armonia con le leggi italiane. Diventa reato l’intestazione fittizia di proprietà, a singoli e società. Poi, un cambio d’impostazione: diminuzione del carico fiscale sui ceti medi, con conseguente, forte aumento delle tasse per benestanti, ricchi e “straricchi”.
TELEVISIONI
L’obiettivo è la liberalizzazione dell’etere, con una vera legislazione antitrust, sul modello delle più severe leggi europee. Poi, rafforzamento della televisione pubblica, per farne “una Bbc prima maniera”.
SCUOLA
Il punto di partenza è il primato della scuola pubblica, nel rispetto della Costituzione che esclude “oneri per lo Stato” a vantaggio delle scuole private. Quindi, una riforma dei vari ordini e gradi, imperniata “sulla serietà e sulla difficoltà degli studi”. Ma la scuola del Manifesto deve soprattutto rimettere al centro la competenza: serve “un sistema di concorsi che per la prima volta privilegi il merito, con ampia presenza di commissari internazionali, visto il livello irrimediabile di nepotismo o scelte per amicizie”.
SANITÀ
Si chiede ai medici di effettuare una scelta radicale tra professione privata e lavoro nel settore pubblico. E si auspicano concorsi internazionali per le cariche mediche e amministrative. Poi, il tema del rapporto tra diritti e salute: abrogazione dell’obiezione di coscienza per l’aborto, testamento biologico e leggi sul fine vita “in linea con i più avanzati paesi europei”.

l’Unità 21.11.12
«Il segretario garantisce lavoro e diritti»
Stefano Rodotà e Ignazio Marino: «Vanno rimossi i modelli che vedono il lavoratore come un oggetto e la retribuzione una merce»
«L’articolo 3 della Carta è un modello per tutti. Vogliamo rottamare pure la Costituzione con l'idea del giovanilismo?»
di Tullia Fabiani


Il cuore è l'articolo 3 della Costituzione, comma secondo. Là dove è scritto che è «compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Ignazio Marino, senatore Pd, e Stefano Rodotà , costituzionalista, partono da qui per indicare la strada che dalle primarie, sostenendo Pier Luigi Bersani, vorrebbero arrivasse al governo del Paese.
Un incontro pubblico ieri sera a Roma, al Teatro Euclide, promosso dal comitato «Parioli per Bersani»• e dall’associazione «Giovani per la Costituzione»; un'occasione per discutere degli ostacoli da rimuovere, dei diritti da difendere e da affermare guardando al futuro dell'Italia. «L'articolo 3 è ancora oggi uno dei punti più avanzati del costituzionalismo moderno, all'estero più che in Italia è considerato un modello. Perciò non voglio neanche pensare all' ipotesi che possa essere riscritto. Vogliamo rottamare pure la Costituzione con l'idea del giovanilismo? Stiamo attenti», avverte Rodotà. Perché proprio in una fase di profonda crisi gli ostacoli si moltiplicano e vanno contrastati. «Pensiamo al lavoro osserva il giurista un diritto che rende possibile il compimento di altri diritti. Ecco su questo tema non è possibile fare alcuna astrazione. Gli ostacoli oggi sono evidenti: il lavoratore è considerato un oggetto, non più una persona e la retribuzione è vista esclusivamente attraverso la logica della merce. «È necessario, invece, rimuovere questi modelli e ripartire da un'altra idea del lavoro, che la Costituzione indica e garantisce. Penso ad esempio a una legge sulla rappresentanza sindacale e all'ipotesi del reddito di base. Spero davvero che Bersani abbia buone intenzioni in tal senso; il fatto che abbia voluto primarie di coalizione con Nichi Vendola mi fa essere fiducioso».
Una fiducia che, dopo le risposte ottenute, anche il senatore Marino dichiara di avere. «Dalla scuola, alla sanità ai diritti civili, viviamo una palese violazione del principio costituzionale di eguaglianza. Bersani ha risposto a una mia lettera aperta su l'Unità prendendo degli impegni precisi su questi temi che considero fondamentali e imprescindibili per il programma di governo. Il diritto alla cittadinanza, inteso come Ius soli secco; una legge sul testamento biologico; l'impegno a favore della ricerca scientifica, una revisione della legge 40 sulla fecondazione assistita. Questioni che non possono essere più tralasciate». Marino punta il dito contro i parlamenti che fino a oggi non hanno creduto nella laicità dello Stato; «la Costituzione dovrebbe essere stella polare di principi giuridici, non etici. Ma così non è stato», commenta. E ricorda, proprio a proposito di legge 40, di aver chiesto al premier Mario Monti «un governo tecnico ed europeista anche in materia di sanità».
LE ASPETTATIVE
Le migliori aspettative sono però ormai rivolte alla prossima legislatura: «L'agenda dei diritti delle persone è centrale, non accessoria. Nel 2009 sono stato un orgoglioso avversario di Bersani ricorda Marino perché certi temi non erano nella sua agenda, oggi però questi temi vengono affrontati e mi fa piacere che la minoranza che rappresento nel partito abbia il ruolo non di distruggere, ma di costruire. Chi si candida alle primarie afferma di essere pronto a governare il Paese in un momento di grave crisi economica. Penso che Bersani abbia l'autorevolezza per farlo».

Corriere 21.11.12
Primarie incubo per il Pdl mentre il Pd ci conta in vista di Palazzo Chigi
di Massimo Franco


Lo spettacolo nervoso e opaco offerto dal Pdl è una raffigurazione plastica di quello che può succedere con la fine della leadership berlusconiana: una frantumazione del partito, nel quale ormai ci sarebbero una ventina di candidati alle primarie; e sullo sfondo non una competizione per chi sarà destinato a palazzo Chigi, ma su chi diventerà segretario del partito. Esponenti di primo piano parlano di «circo» e si dicono preoccupati perché spuntano candidati «come funghi». Esiste il pericolo di una resa dei conti che può preludere a scissioni: tanto più incombente con elezioni politiche molto probabili il 10 marzo; e con un Silvio Berlusconi che dall'esterno non smette di proiettare un'ombra di scetticismo sull'utilità di un appuntamento che invece il segretario, Angelino Alfano, vuole per ottenere una legittimazione finora solo di vertice.
Da questo punto di vista, il confronto con la situazione del Pd è solo apparentemente simile. Lì ci sono, è vero, cinque candidati, ma in un'ottica di competizione vera; e con la consapevolezza che il vincitore può effettivamente competere per la presidenza del Consiglio, senza che nessuno minacci rotture e defezioni. Le esperienze del passato a livello locale, dove spesso hanno vinto esponenti non del Pd come a Milano, in Puglia, a Genova, hanno permesso di consolidare una cultura politica che di solito non prevede spaccature. Non solo. Per domenica si prevede una partecipazione massiccia, sui tre milioni di persone: al livello delle consultazioni per consacrare prima Romano Prodi, poi Walter Veltroni.
Insomma, per il maggior partito di centrodestra le primarie stanno diventando un incubo. Promettono infatti di trasformarsi in una impietosa manifestazione di debolezza e di caos del gruppo dirigente, e di disaffezione dell'elettorato militante. È indicativo il «no» di uno dei fondatori di Forza Italia, Giuliano Urbani, alla richiesta di Alfano di fare il probiviro del Pdl; e il martellamento dei pretoriani del Cavaliere per rendere l'appuntamento, del quale non si conoscono ancora né la data né i meccanismi, come minimo inutile. Si parla di «pentiti» che suggeriscono di annullare tutto. E qualcuno come Alessandra Mussolini si è già ritirato dalla corsa.
Il Pd, invece, è deciso a usare le primarie per mobilitare il partito; e per dare spessore e spinta alla candidatura di Bersani a palazzo Chigi. La sinistra sa che l'ambizione di riconquistare la presidenza del Consiglio è insidiata dalla sagoma di Mario Monti. La preferenza espressa ufficiosamente dagli Usa di Barack Obama e da alcuni governi occidentali per il cosiddetto «Monti bis» provoca imbarazzo e irritazione, nel Pd. Tanto più che Monti è indicato come garanzia a livello internazionale anche a capo del governo politico che emergerà dalle urne. È sicuro, infatti, che lo schema dei tecnici non può reggere. Ha dato quello che poteva, e tutti si rendono conto di dover cambiare registro. Il problema è che quello alternativo rimane appeso tuttora ad alcune varianti non da poco; e la prima è la configurazione delle alleanze.
Si tratta di un'incognita che, al solito, dipende da una riforma elettorale della quale si continuano a scorgere e poi perdere le tracce in Parlamento. Nonostante gli appelli reiterati del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, lo stallo perdura. E finora non è bastato a spezzarlo neppure la prospettiva di un messaggio del Quirinale per denunciare l'immobilismo e la mancanza di senso di responsabilità dei partiti. Il secondo interrogativo riguarda l'evoluzione delle liste centriste: quella dell'Udc di Pier Ferdinando Casini e l'altra, allo stato nascente, di Luca di Montezemolo, presidente della Ferrari, e del ministro della Cooperazione, Andrea Riccardi. La loro convergenza è nei fatti. Ma potrebbe essere aiutata dalle scelte di Monti. Senza una sua disponibilità esplicita ad essere il referente almeno di quest'area, il rischio che prevalga la competizione sull'unità non va escluso: per quanto appaia suicida. Se invece si candida, perfino in un Pdl acefalo e ruvido col governo c'è chi si prepara a votarlo.

Corriere 21.11.12
Il Pd teme il caos ai gazebo
Corsa per semplificare le procedure. In campo 100 mila volontari
di Angela Frenda


MILANO — La paura del caos. È questo sentimento che aleggia nei comitati. Sia in quelli di Matteo Renzi sia in quelli di Pier Luigi Bersani. Il timore che domenica prossima il sistema delle primarie vada in tilt. Lo ha detto anche il vignettista Staino, ieri, a margine di un'iniziativa a sostegno di Laura Puppato: «Devo dire che registrarsi per le primarie del centrosinistra è stata un'avventura, perché fra la localizzazione dei seggi, gli orari così strani di apertura... Un po' orari da pensionati, infatti ho visto tutti pensionati insieme a me».
Così da un lato si moltiplicano i tentativi di semplificare, dall'altro c'è chi si organizza in maniera autonoma. A Bologna, ad esempio, il comitato provinciale delle primarie ha deciso di ridurre drasticamente da quattro a una sola le firme necessarie per l'iscrizione il giorno stesso delle primarie. Nel resto d'Italia, l'elettore dovrà continuare a firmare l'appello degli elettori, la carta d'intenti, la liberatoria per la privacy e l'iscrizione all'albo degli elettori del centrosinistra.
Una bella idea, quella di ridurre tutto a una firma sola, che magari si potrebbe replicare a livello nazionale. Ma Lino Paganelli, rappresentante di Renzi nel coordinamento nazionale per le primarie, replica rassegnato: «È ridicola la vicenda delle 4 firme, hanno fatto bene a Bologna. Ma a livello nazionale mi sembra complicato modificare tutto. Quanto al resto, è chiaro che ci saranno code. E che molte persone potrebbero pensare di non venire perché il messaggio veicolato in questi giorni, purtroppo, è stato eccessivamente pessimista». E però, garantisce Paganelli, «in questo mese abbiamo lavorato per poter risolvere tutta una serie di problemi per eliminare complicazioni: ci si potrà registrare e votare in un unico ufficio. Seggi e uffici sono nello stesso luogo».
Roberto Speranza, coordinatore politico del comitato Bersani, manifesta però fiducia per il lavoro di quello che definisce il «Viminale» dei partiti del centrosinistra, cioè il gruppo di lavoro che sta organizzando queste primarie: «Stanno attivando 8.600 seggi, con un ufficio elettorale corrispondente, per cui ne avremo altri 8.600. Per ogni seggio poi vanno considerate almeno 6 persone, per cui credo che saranno messi in campo più o meno 100 mila volontari. Non è poco, credo. Le code? Certo, ci saranno, ma come alle Politiche. Non credo che ci sia da preoccuparsi eccessivamente». Va detto che una circolare di ieri prevedeva di calibrare i volontari in base all'affluenza storica di ciascun seggio. Una soluzione per tentare, fino all'ultimo, di velocizzare le procedure.
C'è poi il nodo del voto degli elettori di centrosinistra residenti all'estero. In base a quanto stabilito, chi è all'estero voterà online. Per le registrazioni, invece, c'era la possibilità di farle fino a ieri sera alle 20. E proprio di questo si è discusso ieri nel coordinamento: cioè se era possibile prolungare di 48 ore almeno questa facoltà, in modo da allargare la platea. Finora sono stati oltre 5 mila gli italiani all'estero che hanno scelto di votare. Come ha spiegato Eugenio Marino, coordinatore per le Primarie all'estero: «Al momento sono stati attivati 136 seggi in 113 città di 19 Paesi. Sono 1.150, invece, i volontari sparsi in tutto il mondo. Oltre mille sono poi le email di richiesta di informazioni arrivate al coordinamento, e la sezione online del portale delle Primarie dedicate al voto dall'estero ha superato i 77 mila contatti».

La Stampa 21.11.12
Caos ai seggi Pd, l’incubo sulla partecipazione al voto
Anche Bersani mette in conto una sfida all’ultima scheda
di Carlo Bertini


Sulla tomba di Pertini. Pier Luigi Bersani ha deciso di chiudere la campagna elettorale rendendo omaggio alla tomba di Sandro Pertini perché «le foglie crescono bene solo sulle radici migliori»
«Io la mia campagna la chiudo nel paese di Sandro Pertini, per un omaggio a quella generazione che ci ha dato quel presidente, una generazione saldamente repubblicana e democratica. E lì dirò una parola sui giovani, perché la ruota deve girare ma non significa prendere a calci l’esperienza. Chi la ha, deve dare una mano». A quattro giorni dal primo round alle primarie, i sondaggi fotografano una realtà mutevole (l’ultimo di Ipsos a Ballarò dà Bersani in calo rispetto alla scorsa settimana) e per questo i contendenti sono pronti a giocarsi tutte le carte per rosicchiare voti: il leader del Pd sfida fino all’ultimo Renzi sul terreno del rinnovamento, aggiungendo al suo personalissimo Pantheon, oltre al nome di papa Giovanni, anche quello di un personaggio simbolico come Pertini. Andando a rendergli omaggio a Stella, sua città natale, insieme a uno stuolo di giovani volontari. «Per dire raccontano i suoi spin doctor che le foglie nuove crescono bene solo sulle radici della migliore tradizione».
Insomma, anche il segretario mette in conto che domenica ai gazebo possa essere «un testa a testa», come assicura Matteo Renzi provando a gelare gli entusiasmi di chi tra i bersaniani spera in una vittoria al primo turno. «Al ballottaggio andremo noi, abbiamo un riscontro più sui fatti che sulle chiacchiere», azzarda il vendoliano Gennaro Migliore. Non è un caso quindi che Vendola lanci un appello «a semplificare le regole, il cui meccanismo appare eccessivamente farraginoso e può disincentivare la partecipazione». Mentre al contrario Renzi ammette di aver sbagliato a protestare così tanto sulle regole facendo passare il messaggio che votare è complicato, quando «basta un quarto d’ora». La paura dei due sfidanti è che molti elettori potrebbero sentirsi scoraggiati da una trafila complessa (registrazione all’albo dei votanti, adesione alla carta d’intenti dei progressisti, compilazione del certificato elettorale da parte dei volontari, insomma moduli da riempire e liberatorie da firmare) ; trafila che produrrà il rischio concreto di lunghe code ai seggi. E questo anche se già circa 700 mila persone pare siano andate a registrarsi ai circoli Pd per ritirare il certificato elettorale ed evitare di fare una doppia fila domenica. «Noi abbiamo già registrato oltre duemila persone e ci vogliono in effetti 15 minuti per ognuno», ammette il piemontese Giacomo Portas, promotore della Lista dei Moderati alleata al Pd. Se così fosse, per registrare quattro persone servirebbe un’ora e già c’è chi si prefigura lunghi serpentoni in attesa davanti ai gazebo, con la conseguenza di un caos nefasto e polemiche assicurate. «Non è vero, volendo bastano 5 minuti, ma certo bisognerà che ai seggi ci siano molti scrutatori per evitare code», ribatte l’abruzzese Giovanni Lolli.
E invece Bersani è tranquillo perché «la gente non si scoraggerà e porterà pazienza e sarà una grande festa della democrazia». Fatto sta che la battaglia è senza esclusione di colpi. Renzi invita Bersani e Vendola «a rinunciare al cumulo dei vitalizi» di parlamentare e consigliere regionale «per rispetto a chi vive con la pensione minima». E Bersani gli ribatte che lui è per fare le leggi, non per le «rinunce di buona volontà. E la legge che ha abolito i vitalizi dei parlamentari, ora sotto regime Inps è stata fatta grazie al Pd, mi spiace che Renzi non lo dica». E gli rimpalla un avvertimento velenoso: «Bisogna fare attenzione con i paradisi fiscali, perché con la crisi la ricchezza sa dove andare e scappa, la povertà invece resta». E Vendola non è da meno quando avverte che pure se Renzi vincesse e dovesse immaginare di essere il dominus della scena, allora liberi tutti». Perché «la fedeltà e la lealtà riguardano i contenuti del programma».

La Stampa 21.11.12
Affluenza e secondo turno. Le vere sfide di Renzi e Bersani
di Marcello Sorgi


La lunga vigilia delle primarie del Pd alimenta sondaggi di ogni genere: Bersani in vantaggio più o meno grande secondo l’affluenza. Renzi, di conseguenza, secondo, con maggiore o minore distacco. Vendola, a sorpresa, in rimonta, soprattutto al Sud. Tabacci e Puppato in coda. Nessuno è in grado di prevedere se il segretario del Pd, superando il 50 per cento dei voti domenica prossima, sarà in grado di chiudere la partita al primo turno, oppure no. Le previsioni sono difficili proprio perchè legate all’affluenza, che tuttavia si prevede massiccia, ai seggi, visto il dato assoluto del Pd, in crescita nei sondaggi, che dimostra come la competizione per designa il candidato-premier sia sentita.
E tuttavia, una griglia, per quanto approssimativa, di valutazioni sui risultati domenica è già stata abbozzata. Con l’ufficiosa, ma praticamente certa, scelta di Prodi a suo favore, Bersani ha con sè il novanta per cento del partito e il leader storico, nonchè due volte presidente del consiglio, della coalizione: sulla carta, un sostegno sufficiente a vincere al primo turno. Quella parte del vertice del Pd che le primarie le avrebbe evitate volentieri (anche per risparmiarsi la polemica sulla rottamazione) sostiene che a questo punto, per lui, non sarebbe una gran prova restare al di sotto del cinquanta per cento e dover ricorrere al secondo. Vorrebbe dire che tra il sentire del gruppo dirigente e quello degli elettori c’è un evidente divario: è esattamente ciò su cui punta Renzi.
Per il quale, già andare al ballottaggio sarebbe una vittoria, e non arrivarci, ovviamente, una secca sconfitta. Certo, se Renzi al primo turno si qualifica dieci o più punti sotto al segretario, difficilmente potrà rimontare. Ma se gli arriva vicino, la partita resta aperta e fa riacquistare peso anche a Vendola. Il leader di Sel punta sul Sud, dove ha più sostenitori, per un risultato a due cifre. Se supera il 10 per cento e si avvicina al 15, infatti, sarà in grado di condizionare la corsa per il secondo turno, e, in caso di vittoria di Bersani, di dire che senza i voti dei suoi (non tutti, tra l’altro, perchè nella sinistra radicale saranno in molti ad astenersi al ballottaggio) non ce l’avrebbe fatta. Comunque le guardi, le primarie del Pd si giocano sui primi tre candidati. Gli altri due, pur non essendo in grado di influire granché sul risultato, se ne avvantaggeranno in termini di visibilità. A Tabacci è già accaduto nel faccia a faccia tv di Sky: candidato di riserva, da esponente della Prima Repubblica e vecchio dc, è riuscito a dimostrare come anche alle soglie della Terza la professionalità politica possa conquistarsi uno spazio.

Repubblica 21.11.12
Renzi: Bersani votato dai vecchi Il leader pd: roba da psicoanalisi
“No al ticket col sindaco”. Vendola attacca sulle regole
di Simona Poli


FIRENZE — Sulla copertina di “Oggi” Renzi si fa fotografare con le sue nonne, Annamaria di 82 anni e Maria di 92. Un inno alla terza età, insomma. Poi però attacca Bersani sul fronte anziani, proprio la fetta di elettorato che più potrebbe venirgli a mancare domenica prossima. «I sondaggi ci danno testa a testa», dice il sindaco di Firenze, «ma lui è in vantaggio nelle fasce più avanzate». Ammette di aver sbagliato lui per primo, comunque, insistendo troppo sulla storia della rottamazione: «E’ stato uno slogan di grande impatto ed efficacia ma andava sganciato da ogni connotazione anagrafica. Non significa “facciamo a meno degli anziani” ma “mandiamo a casa questi politici”. Non l’ho spiegato bene e ora faccio fatica a far passare il messaggio». Bersani se la ride sotto i baffi: «Temo che se la mettiamo così, giovani contro vecchi, arriverà l’Onu a metterci tutti sul lettino dello psicoanalista. Non è in questi termini che va il mondo », taglia corto. E spiega quale sia il suo concetto di rinnovamento: «Per me è chiarissimo che la ruota deve girare ma questo non significa prendere a calci l’esperienza ». Con Renzi, in ogni caso, non farebbe nessun tipo di accordo: «Non uso il bilancino né per includere né per escludere, se tocca a me il governo lo faccio con le persone giuste. I centomila volontari che lavorano per le primarie e tutti quelli che voteranno domenica sono il popolo progressista, a prescindere da quale candidato avranno scelto. Per questo ho voluto l’albo, se mi lasciano telefono e email li potrò consultare per altre cose. Il prossimo anno c’è il congresso e chi vuole organizzare un’area politica nel partito potrà farlo allora».
Il botta e risposta tra i due sfidanti va avanti tutto il giorno e tocca molti aspetti, anche personali. Renzi invita Bersani e Vendola «a rinunciare al cumulo dei vitalizi per i loro incarichi» e subito il leader del Pd gli ribatte che il Parlamento li ha appena aboliti e che in ogni caso lui è «per fare delle leggi e non per chiedere delle rinunce ». Regole e previsioni sull’affluenza sono un altro tema che tiene banco nel dialogo a distanza sulle tv, Bersani parla a Otto e Mezzo, Renzi a Omnibus e Ballarò. «Penso che tra noi sarà un testa a testa», dice il sindaco, «e credo che ci saranno delle sorprese ». Renzi ha bisogno di poter contare su un milione di voti, in ogni parte d’Italia i suoi comitati sono impegnati a fare i conti, il porta a porta è serratissimo. Vendola prova a smontarlo: «Considero fantapolitica l’ipotesi che vinca Renzi ma se anche così fosse dovrà attenersi alla carta d’intenti, non potrà diventare il dominus assoluto della scena e fare scelte differenti». Il leader di Sel è più preoccupato dalla difficoltà di registrarsi ai seggi: «Siamo ancora in tempo per cercare di semplificare le regole se il meccanismo appare eccessivamente farraginoso » e anche Laura Puppato parla di «iperburocrazia».
Oltre agli anziani l’altro tallone di Achille di Renzi resta l’elettorato di sinistra duro e puro. Mentre Bersani ricorda di non essere d’accordo «ad abolire del tutto l’articolo 18», Renzi nell’intervista a “Oggi” spiega che «è più di sinistra pensare a chi non ha lavoro che discutere delle tutele più o meno corrette per chi invece il lavoro ce l’ha» e aggiunge: «So che una parte del gruppo dirigente della Cgil mi detesta». Sulla gara a chi è “più di sinistra” a sorpresa si inserisce anche Tabacci, convinto che «la vera sfida della sinistra oggi sia la capacità di fare cose concrete che incidano nella realtà e vadano nel senso della giustizia e dello sviluppo». Renzi e Bersani si differenziano anche nella scelta dei pellegrinaggi che chiuderanno la loro campagna. Il sindaco di Firenze domani parlerà alla Bolognina, luogo simbolo dell’addio al partito comunista annunciato da Occhetto, mentre Bersani sabato andrà a Stella, paese natale di Sandro Pertini «per rendere omaggio a quella generazione saldamente repubblicana». Ma se vince lei Bersani, che ne farà di Renzi? Alla domanda di Lilli Gruber il segretario risponde secco: «Cosa ne devo fare, non fa già il sindaco di Firenze?».

Repubblica 21.11.12
Il sindaco: “Si accorgono adesso che serve un’ora per registrarsi. Se votano meno dell’ultima volta, sarà uno smacco”
Il segretario fissa l’obiettivo-affluenza “Sopra i due milioni sarà un successo”
di Giovanna Casadio


ROMA — «Almeno due milioni di votanti alle primarie sarebbero un successo». Pone l’asticella più bassa, Bersani. Nel 2009 ci furono 3 milioni e 200 mila elettori ai gazebo, ed erano primarie per eleggere il segretario del Pd; nel 2005 per Prodi premier, ne furono stimati 4 milioni e passa. Ora però, si fa strada il timore che la delusione per la politica, possa contare. Per questo, i bersaniani sono cauti nelle stime. «Prudenza», è la parola d’ordine. Che non piace neppure un po’ a Renzi. Il “rottamatore” vuole i seggi più che pieni, convinto com’è che le sue chance sono legate a una quota di votanti che si aggiri intorno ai 4 milioni. Quindi, attacca: «Se voteranno meno dell’ultima volta, non potrà dirsi un successo. Anche se il punto ora è un altro: c’è gente che sta un’ora in coda solo per registrarsi, e Vendola se ne accorge adesso?».
Vendola batte un altro colpo sulle regole, contro la registrazione che porta via un sacco di tempo e chiede per domenica prossima la massima flessibilità. Giudica l’antipolitica dilagante e la rigidità nel meccanismo di voto, la miscela più dannosa per il centrosinistra. I pre-registrati (online e agli uffici elettorali) erano 700 mila lunedì sera, ma «viaggiando a centomila iscrizioni al giorno - calcola Roberto Cuillo - dovrebbero essere già 800 mila». Comunque, nessuno si azzarda a fare proiezioni a partire da quelle cifre. Del resto, avverte Paolo Gentiloni, «se queste primarie sono una bella storia per il Pd che è arrivato al livello veltroniano del 2008 nei sondaggi, ovvero al 32% di consensi, devono avere un lieto fine ». E qual è il lieto fine? «La partecipazione.
Due milioni saranno forse un successo per Bersani, nel senso che vince lui, ma non si può mettere l’asticella quasi alla metà del 2009». E poi, per il renziano Gentiloni, l’altro frutto delle primarie dovrebbe essere lasciare sul campo un «Pd extra large», a più facce. «La gente considera anche Tabacci e Vendola del Pd, non lo si può restringere a una maglietta rossa». A “- 4” giorni dal voto, le stime sulla partecipazione si rincorrono come anche i sondaggi (ciascun candidato mostra di avere il suo, con cui farsi propaganda). Giovanni Lolli, bersaniano, è preoccupato per un “flop di rimessa”.
«Verranno in tanti, non c’è dubbio. Ma se le file sono chilometriche, la gente poi se ne va». Forse per questo, a Bologna hanno deciso di semplificare al massimo la procedura. Laura Puppato e Bruno Tabacci, gli altri due sfidanti, puntano pure loro sulla massima partecipazione.
«Il popolo delle primarie c’è. E le regole sono state fraintese, partecipare è facile, guardate che sarà un evento», scommette Michele Meta, bersaniano. Di certo, i candidati si stanno giocando il tutto per tutto in questi ultimi giorni. Beppe Fioroni, leader dei Popolari e promotore dei “Moderati per Bersani, non dà numeri: «Però ci sarà una buona partecipazione ». Scommette. Bersani, si sa, vorrebbe evitare il ballottaggio e andare subito a una vittoria secca. I sondaggi però lo danno massimo al 45-46%. «Se non si ha almeno un elettore in più rispetto alle primarie del 2009, non potrà considerarsi un successo», conteggia Lino Paganelli, del comitato per Renzi. Ieri mattina, nella riunione del coordinamento delle primarie, sono arrivati anche i dati dei preiscritti online all’estero: 7 mila. Nel 2009 erano stati 2.500. Paganelli: «Questo è uno spread che ci piace».

Repubblica 21.11.12
La registrazione anche online ma non si eviterà la doppia fila vademecum delle primarie


MUNIRSI di documento d’identità, certificato elettorale “ufficiale” e pazienza. Sono i tre ingredienti per registrarsi e quindi entrare in possesso del certificato di elettore del centrosinistra. Poi, con il documento, il certificato elettorale “ufficiale” e il certificato di elettore di centrosinistra sarà possibile votare per le primarie domenica prossima.
La registrazione si potrà fare anche domenica (a un apposito banchetto generalmente accanto al seggio); ma ci si può pre-registrare subito.
Forse è più complicato dirlo che farlo. La pre-registrazione è anche online (il sito è www. primarieitaliabenecomune. it, su cui c’è un percorso guidato), tuttavia non evita il passaggio all’ufficio elettorale (solo semplifica con una fila più veloce), dove si va a prendere il certificato di elettore di centrosinistra, si versano almeno 2 euro, si firma l’appello.
Il certificato di elettore del centrosinistra è composto da due tagliandi: per il voto al primo e al secondo turno. Queste sono infatti primarie con ballottaggio. Ovviamente il secondo turno potrebbe saltare, se al primo un candidato dovesse ottenere il 50 più uno per cento dei voti. Se non ci si è registrati al primo turno, non si vota al ballottaggio. È la regola. Anche se si prevedono eccezioni, per chi a quel punto (alla vigilia del 2 dicembre, data del ballottaggio) dimostrasse che era nell’impossibilità di registrarsi prima.
Chi vuole votare in una città diversa da quella di residenza può farlo. È il caso dei lavoratori e degli studenti fuorisede. La condizione è di comunicare entro venerdì 23 al coordinamento primarie della provincia in cui risiede, in quale seggio intende votare. Gli italiani all’estero voteranno sempre domenica prossima, sia ai seggi che online. Ma per votare online devono essersi già registrati: il termine scadeva ieri sera alle 20.

l’Unità 21.11.12
Voto nel Lazio, la forzatura di Cancellieri
di Giovanni Pellegrino


I fatti sono i seguenti. Il 12 novembre il Tar del Lazio ha dichiarato che la Polverini avrebbe avuto l’obbligo di far celebrare le elezioni regionali entro 90 giorni dalle sue dimissioni; e pertanto le ha ordinato di indirle entro 5 giorni e per la data più prossima consentita dai tempi necessari alla presentazione delle candidature e allo svolgimento di un confronto elettorale. All’adempimento, nel caso di ulteriore colpevole inerzia della Polverini, avrebbe dovuto provvedere il ministro dell’Interno o un funzionario da lui designato.
In questa situazione il ministro Cancellieri ha ritenuto di preannunciare che le elezioni regionali si sarebbero tenute invece il 10-11 febbraio non solo nel Lazio, ma anche in Molise e in Lombardia. E ciò benché nella diversità delle leggi regionali la competenza dell’amministrazione dell’Interno riguardi soltanto il Molise e la Lombardia, mentre per il Lazio indire le elezioni spetta al presidente della Regione, sicché il ministero dell’Interno non avrebbe potuto svolgervi altro ruolo, se non quello conferitogli dal Tar.
Sicché colpisce la disinvoltura con cui Cancellieri ha preannunciato di voler disattendere il mandato ricevuto dal giudice in quel momento peraltro del tutto efficace ed esecutivo; prevedendo piuttosto di far celebrare le elezioni laziali in una data successiva a quella indicata dalla sentenza, nella cui motivazione si era anche escluso che una loro posticipazione potesse essere giustificata dalla opportunità di accorparle a quelle del Molise e della Lombardia, atteso che trattandosi di consultazioni regionali l’una dall’altra autonoma non era ipotizzabile «alcun apprezzabile risparmio di spesa».
La scelta preannunciata da Cancellieri ha determinato una immediata e dura protesta del centrodestra, che le ha addebitato di voler assecondare precise direttive di Bersani (!?) e ha minacciato il ritiro della fiducia al governo Monti, e quindi la fine traumatica della legislatura. Ciò avrebbe comportato la mancata approvazione della legge di stabilità e della legge di bilancio per il 2013, un prevedibile balzo in alto dello spread con un complessivo azzeramento delle non poche positività che l’esperienza Monti ha fatto registrare, pur tra non pochi errori e carenze.
È questa, la difficile situazione cui il Capo dello Stato si è trovato di fronte, quando ha incontrato i presidenti di Camera, Senato e del Consiglio dei ministri e ha registrato un’intesa politica che ha stabilito le contemporanee elezioni regionali di Lazio, Lombardia e Molise il 10 marzo, senza che però venisse rilevato come sarebbe stato più opportuno in una situazione di normalità che quell’intesa non interferisse con il verdetto che il Consiglio di Stato era chiamato a pronunciare dopo pochi giorni sicché sarebbe stato opportuno che, riguardando le elezioni amministrative, fosse assunta solo a seguito della decisione dei giudici.
Non vi è dubbio che il presidente della Repubblica abbia agito per il bene immediato del Paese. Tuttavia, se è vero che salus reipubblicae supremalex, è anche vero che ha destato stupore veder definita nel comunicato finale della riunione al Quirinale «appropriata» anche per il Lazio la data delle elezioni regionali fissata dall’intesa politica.
Una definizione che può apparire «impropria», perché suscettibile di essere letta come una delegittimazione della sentenza del Tar (di cui pure il comunicato attesta la correttezza) e soprattutto un indebito condizionamento della decisione che il Consiglio di Stato dovrà assumere nei prossimi giorni.
Certo è che il Quirinale si è trovato a gestire una difficile situazione determinata da un inopinato, quanto grave comportamento del ministro dell’Interno. Non vi è dubbio infatti che Cancellieri ha preannunciato (e, nella delicatezza del caso, di un preannuncio non vi era assolutamente bisogno) di volere per il Lazio disattendere lo specifico mandato giudiziario, ricevuto dal Tar, prefigurando così un suo provvedimento, che se concretizzatosi, sarebbe stato non solo illegittimo, ma avrebbe potuto assumere anche rilievo penale quale violazione dolosa di un provvedimento giudiziario da parte di un suo mandatario quale commissario ad acta indicato in sentenza.
Ciò rende legittimo interrogarsi sui motivi, che hanno indotto il ministro a comportarsi così. La spiegazione più semplice sta nell’addebitare a Cancellieri l’intenzione politica di favorire il centrodestra. Ed infatti la sua preannunciata determinazione di posticipare rispetto alla decisione del Tar le elezioni regionali del Lazio, accorpandole a quelle della Lombardia e del Molise, poneva la sua scelta al di fuori della copertura costituita dalla sentenza del Tar, riconducendola nell’esercizio di una sua discrezionalità politica.
In tal modo Cancellieri offriva uno splendido assist alle proteste politiche del centrodestra, che con la consueta ipocrisia ha attribuito alla scelta del ministro un segno politico opposto, traendone motivo per minacciare una crisi di governo del tutto incurante delle conseguenze di questa sull’interesse generale.
Una spiegazione più sottile potrebbe consistere nel ritenere che Cancellieri abbia agito d’intesa con Monti, all’interno di una strategia complessiva dell’attuale governo volta a determinare nella prossima legislatura una situazione parlamentare, che renda ineludibile il formarsi di una grande coalizione e quindi il rinnovarsi della presenza di un tecnico autorevole a palazzo Chigi.
Bersani, Renzi e Vendola, che nella campagna per le primarie dicono ad una voce di non voler un Monti bis, perché intendono guidare un prossimo governo di centrosinistra, farebbero bene a cogliere i segni (che non sono pochi e sono tutti allarmanti) di quanto nel mondo dell’economia e della finanza e nell’alta burocrazia si muove già da tempo per impedire la realizzazione della loro legittima aspirazione.

Corriere 21.11.12
Se la «democrazia sospesa» rischia di diventare la regola
di Piero Ostellino


C e ci si affidi alla logica aristotelica, ovvero al senso comune, è difficile capire come possano conciliarsi la denuncia della «pressione fiscale al limite dell'intollerabilità», la proposta di una «patrimoniale di Stato» che riduca le dimensioni della sfera pubblica e l'idea di una lista, alle elezioni del 2013, capeggiata da Monti, che dell'intollerabile pressione fiscale è responsabile. Eppure, a giudicare dalle parole pronunciate all'atto della costituzione del movimento per la Terza Repubblica, sembra che tale conciliazione sia proprio il programma dei nuovi centristi.
Dicono di voler preservare l'«agenda Monti». Ma due buone indicazioni — una in senso liberale; l'altra del rigore politico-amministrativo — già ci sono all'articolo 81 della Costituzione. Che, al terzo comma, recita: «Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese»; e al quarto: «Ogni altra legge che importi nuovi o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte». Se si sostiene di voler associare liberalismo e «montismo» si prospetta un'operazione trasformistica. Che farebbe torto allo stesso Monti — la cui cultura, le cui parole e le cui azioni, come capo del governo, che piacciano o no, hanno almeno il pregio di ispirarsi a una logica dirigista di marca europea — e finirebbe col lasciare le cose come stanno, se non a peggiorarle. Da un lato, fa dunque bene Monti a non impegnarsi politicamente, tanto meno a candidarsi elettoralmente, e a voler restare (formalmente) «un tecnico». Dall'altro, Monti sbaglia a dire di non garantire per l'Italia dopo le elezioni del 2013, lasciando immaginare, così, una quarta soluzione.
Tira un'«arietta», che non prelude al totalitarismo politico, ma soffia per lo spegnimento della democrazia. Lo Stato di polizia fiscale — introdotto dal centrodestra, proseguito col centrosinistra, accentuato dal governo dei tecnici — pare il preludio, sia pure ancora nel rispetto delle forme politiche della democrazia rappresentativa, di certi metodi cari ai totalitarismi del Ventesimo secolo.
Lo scenario di un Monti-bis, quale ne sia la realizzazione pratica, getta sulla democrazia l'ombra lunga di un «salazarismo permanente» che contraddice anche il carattere «temporaneo» che dovrebbe avere il governo tecnico voluto e inventato dal presidente della Repubblica per far fronte alla crisi dei debiti sovrani. La «sospensione della democrazia» — come è stato definito il governo tecnico — dovrebbe essere l'eccezione, non diventare regola. Ma resta da chiedersi perché una parte della politica ci pensi, i grandi media l'approvino e l'opinione pubblica la ritenga persino auspicabile.
Per una parte della politica, sarebbe un modo — al riparo dello schermo di Monti capo del governo — di aggirare l'esito delle elezioni comunque vadano; che molti temono di perdere, sia a vantaggio di un esito populista, sia a causa di una riproposizione del massiccio astensionismo già accusato in Sicilia. Un modo di evitare di farsi carico del sostegno dato alle misure fiscali depressive dello stesso Monti. I media riflettono l'aspirazione, elitaria, moralistica e anti-democratica tipicamente tardo-azionista, a un improbabile «governo degli onesti» sui fautori del quale Croce aveva esercitato il suo sarcasmo nei Frammenti di etica. La convinzione che ha ispirato l'anti-berlusconismo — come opposizione a una (supposta) vocazione tirannica del Cavaliere, mentre era inadeguatezza a rappresentare gli interessi del ceto medio e incapacità di fare le riforme — è la stessa che aveva indotto il giovane liberale Piero Gobetti a definire il fascismo «l'autobiografia di una nazione», ignorando che non solo l'Italia, ma persino l'Europa democratica e liberale aveva identificato nei totalitarismi una (contingente) occasione di ordine dopo la Prima guerra mondiale.
L'opinione pubblica — ed è questo l'aspetto più preoccupante della (relativa) popolarità di Monti — reagisce ai provvedimenti del governo come fa nei sistemi totalitari, dove non è sempre prevalente la coercizione a imporre i comportamenti della popolazione, bensì è più spesso il fatto che i cittadini sono mantenuti nell'ignoranza dei problemi sul tappeto. Si chiama meccanismo delle «reazioni previste», all'opera in certe tribù primitive della Nuova Guinea. Qui, le donne non partecipavano ai processi decisionali della tribù non perché ne fossero istituzionalmente escluse, ma perché, non abitando nel perimetro dei maschi, erano all'oscuro della circolazione delle informazioni che riguardavano la vita (pubblica) della tribù e, quindi, non erano in condizione di partecipare alle decisioni che riguardavano la vita della collettività.
L'Italia è una democrazia molto imperfetta, ma non è (ancora) un Paese istituzionalmente totalitario. Del giornalismo dei regimi totalitari gran parte del suo sistema informativo è, però, simile; e analoghi ne sono gli effetti. Non si può dire che l'Italia — sotto il profilo della funzione dei suoi media teorizzata da Tocqueville nella Democrazia in America — sia un Paese autenticamente democratico-liberale. La regola pare sia piuttosto quella di ignorare e/o tenere nascosto il «nesso causale» fra i provvedimenti dei governi e gli effetti che essi hanno sulle libertà, i diritti e la vita dei cittadini. Gli italiani non sono geneticamente inclini al totalitarismo come credeva Gobetti. Hanno, storicamente, la tendenza ad esserlo la loro classe dirigente e i loro media.

l’Unità 21.11.12
Bue e asinello non c’erano
La rivelazione sulla nascita di Gesù nel libro del Papa
È il terzo volume che Bendetto XVI dedica alla vita del Nazareno Da oggi sarà
in tutte le librerie
di Roberto Monteforte


«DI DOVE SEI?» È LA DOMANDA CHE PILATO RIVOLGE A GESÙ. «VOI CHI DITE CHE IO SIA?» È QUELLA, INVECE, CHE GESÙ RIVOLGE AI SUOI DISCEPOLI. Parte da questi interrogativi Papa Benedetto XVI per affrontare il tema dell’infanzia di Gesù, quello che mancava per completare la sua opera sulla vita del Nazareno (i primi due, Gesù di Nazaret I e II, sono stati pubblicati rispettivamente da Rizzoli e dalla Libreria editrice vaticana). Con profondità e chiarezza, ed anche con umiltà come ha sottolineato ieri nella presentazione dell’opera alla stampa il cardinale Gianfranco Ravasi il teologo e Papa Joseph Ratzinger si è cimentato con il commento dei 180 versetti che i Vangeli, in particolare quello di Matteo e di Marco, dedicano all’infanzia e agli eventi che hanno preceduto la nascita di Gesù di Nazaret. L’obiettivo è quello di sottolineare la concreta storicità dell’evento. Il «nuovo inizio» per la storia del mondo e per la liberazione dell’umanità dal peccato.
Così scopriamo, per esempio, che il bue e l’asino non erano nella stalla con Gesù e che pastori in visita al figlio di Dio non cantavano. Il Papa spiega l’origine della nascita secondo le Sacre scritture ma non invita affatto a buttare a mare la tradizione. Perciò chi allestisce presepi a casa o altrove può tranquillamente inserire il bovino e l’equino nella capanna. «Nel Vangelo non si parla di animali», chiarisce Ratzinger. «Ma aggiunge la meditazione guidata dalla Fede, leggendo l’Antico Testamento e il Nuovo, ha ben presto colmato questa lacuna rinviando ad Isaia: “il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende”».
Vi era attesa per l’arrivo di un Salvatore. Eppure il Salvatore non trova un posto dove essere accolto. Nasce nella povertà ed è annunciato ai pastori. È stato Gesù a guidare la stella cometa che ha portato a lui i Magi sapienti. Loro sono l’emblema dell’inquietudine dell’uomo in ricerca e dell’attesa interiore dello spirito umano e della ragione che cerca Cristo. Non è mito, ma storia.
Tutto nasce da un atto di libertà. Lo sottolinea l’autore. Da Dio che interpella Maria e da lei che liberamente risponde e si affida al mistero della sua volontà. Il Papa cita Bernardo di Chiaravalle: «Creando la libertà, Dio, in un certo modo, so è reso dipendente dall’uomo. Il suo potere è legato al “sì” non forzato di una persona umana». Perché è solo con l’assenso di Maria che può cominciare la storia della salvezza. L’autore si sofferma sulle reazioni di Maria e di Giuseppe che la prende in sposa. Dei suoi dubbi, della sua intenzione di ripudiarla in segreto e poi della sua scelta di amore e di saggezza. Accetta il mistero. Farà da padre a Gesù e formalmente lo legherà alla tribù di Davide. Ma solo Dio sarà il suo vero padre e Maria, la vergine di Nazaret, sua madre. Vergine e madre. L’altro mistero. Benedetto XVI lo spiega con la potenza di Dio che ha dominio anche sulla materia. Che si mostra nella nascita di Gesù e poi nella sua Resurrezione.
Nel libro si dà conto dei passaggi che anche pubblicamente danno il segno della dimensione umana e della natura divina del figlio di Maria come quando dodicenne lascia la famiglia e con sorprendete sapienza va a predicare nella sinagoga. Un atto di apparente contestazione, di ribellione ai doveri verso i genitori. Benedetto XVI corregge le letture di un Gesù «liberale» o «rivoluzionario» per sottolinearne la nuova relazione dell’uomo con Dio. Nel racconto di Gesù nella sinagoga a 12 anni, dunque, si ha una «novità radicale e una fedeltà altrettanto radicale». Gesù compie il suo dovere di figlio di Dio che alla fine lo porterà a morire di croce e Maria a vivere lo strazio del dolore per la morte del figlio per poi vincere la morte. «È un libro su un bambino e su una donna e sul grande significato della libertà» ha osservato il presidente Rcs libri, Paolo Mieli intervenuto alla presentazione del volume con il cardinale Ravasi, la teologa brasiliana Clara Lucchetti Bungemer, il direttore della sala stampa vaticana padre Federico Lombardi. L’infanzia di Gesù, pubblicato da Rizzoli e dalla Libreria Editrice Vaticana (176 pagine, 17 euro) sarà da oggi in libreria. È stato già tradotto in 9 lingue e diffuso in 50 paesi (tiratura di oltre un milione di copie) e presto sarà tradotto in 20 lingue per essere pubblicato in 72 Paesi.

il Fatto 21.11.12
Problemi irrisolti
Il bue e l’asinello negati dal Papa
di Marco Politi


Sotto l’albero di Natale papa Ratzinger mette il suo libro su L’infanzia di Gesù. Il racconto della nascita di Cristo nella mangiatoia, ma senza il bue e l’asinello. Perché “nel Vangelo non si parla qui di animali”. Ma niente paura. Come in una favola allegorica tutto viene recuperato dal pontefice e così i due animali, così cari ai bimbi di tutto il mondo, vengono riletti come simbolo dell’umanità intera – ebrei e pagani – china sul Salvatore nato nella povertà. È stato un anno drammatico il 2012 per il pontificato: è esploso lo scandalo della corruzione negli appalti vaticani, è stato decapitato il vertice dello Ior, il Vaticano non è entrato per mancanza di trasparenza finanziaria nella “lista bianca” Moneyval del Consiglio d’Europa. C’è stato il tradimento del maggiordomo ed è emerso il malumore di vasti settori della Curia nei confronti del Segretario di Stato Bertone… e in tutto questo uragano fino al 15 agosto Benedetto XVI ha avuto un pensiero prevalente: finire di scrivere l’ultimo volume della sua trilogia su Gesù di Nazareth.
IL LIBRO (edito da Rizzoli e la Libreria editrice vaticana) conquisterà lettori come i precedenti per il suo stile affettuosamente colloquiale e il suo ripercorrere le storie che per duemila anni hanno nutrito fede, cultura e arte del cristianesimo. Ma soprattutto perché Ratzinger chiama direttamente la massa dei credenti a interrogarsi sulle storie del Vangelo: “È vero ciò che è stato detto? Riguarda me? E se mi riguarda, in che modo? ”. Dopo il 2010, mentre la Chiesa faticava a fare i conti con lo scandalo degli abusi sessuali, qualche cardinale straniero sospirava: “Speriamo che il Papa non scriva un altro libro su Gesù”. Invece Benedetto XVI si è gettato a capofitto nell’opera, che nel suo intimo sente come missione fondamentale del pontificato. E qui sta forse un aspetto tragico del suo regno. Ratzinger sa – e ha ragione – che le ultime generazioni (vale per i giovani ma ormai anche per una vasta fascia mediana di età) hanno smarrito la conoscenza di base dei vangeli e della storia di Gesù Cristo. E sente come suo dovere, appassionatamente, di riportare i credenti all’incontro con Cristo, definito il “volto di Dio” che ciascuno può conoscere. Ma in questa impresa, chinandosi sui suoi libri e le ricerche, è diventato un pontefice part-time, che segue un piano editoriale e un obiettivo teologico ma non possiede un programma di governo. Lo ha detto, d’altronde, lui stesso nella messa di insediamento il 24 aprile 2005: “Non ho bisogno di presentare un programma di governo”.
NON LO HA elaborato nemmeno in seguito. Ma un’organizzazione di un miliardo e cento milioni di uomini e donne non è una piccola comunità come quella degli apostoli nell’anno trentatré dopo Cristo. Ha bisogno della mano di un reggente. Sulla scena mondiale è calato il ruolo e il peso della Santa Sede. Israele minaccia la “guerra di Gaza” per distogliere l’attenzione dall’occupazione di terre palestinesi attraverso le colonie del tutto illegali e impedire il riconoscimento della Palestina come stato-osservatore dell’Onu? Silenzio della Santa Sede. La primavera araba, l’evento internazionale più rilevante dopo il crollo del muro di Berlino? Non c’è stato in due anni un discorso papale di vasto respiro sul fenomeno. È stagnazione sui grandi problemi interni della Chiesa. Si sta accartocciando, per mancanza di preti, la rete delle parrocchie. Si sta riducendo drammaticamente la forza degli ordini religiosi femminili, spina dorsale della Chiesa cattolica: 45.000 presenze perse in sei anni. Il pontefice regnante nulla propone. A Parigi il cardinale Vingt-Troisi ha denunciato la disorganizzazione della Curia: “Ogni dicastero va per conto suo”. E Benedetto XVI finora non riesce a sostituire il Segretario di Stato. Tocca le corde dei ricordi dell’infanzia davanti al presepe e all’albero di Natale, quest’ultimo libro di Benedetto XVI, che narra dell’annunciazione, dei pastorelli, della fuga in Egitto.
CERTO RATZINGER non dice più – come nella sua Introduzione al Cristianesimo di oltre quarant’anni fa – che Giuseppe avrebbe potuto anche essere il padre biologico di Gesù. Oggi proclama che “se Dio non ha anche potere sulla materia, allora egli non è Dio” e quindi è vero il concepimento verginale. Storicamente veri o almeno verosimili vengono anche presentati la leggenda-ria strage degli innocenti e l’arrivo dei re magi. Con l’apodittica affermazione dello studioso Klaus Berger: “Anche nel caso di un’unica attestazione… bisogna supporre – fino a prova contraria – che gli evangelisti non intendono ingannare i loro lettori, ma vogliono raccontare fatti storici”. Se è per questo, anche Omero non voleva ingannare i suoi ascoltatori e allora non va contestato il ratto di Elena!
L’infanzia di Gesù ratzingeriana ha molti momenti lirici. Nella rievocazione dell’aprirsi di Maria all’annuncio di Gabriele. Nel racconto intrigante dei re magi visti come “sapienti” alla ricerca del vero oltre la razionalità della scienza, in cerca di Dio e della filosofia più autentica. Pregnante è il suo appello a credere che la vita di Cristo non è mito ma “storia concreta, in un luogo e in un tempo” reali, svoltasi nelle varie fasi della vita umana.

l’Unità 21.11.12
Piccoli grandi editori tornano
«Più libri, più liberi» a Roma dal 6 al 9 dicembre
La Fiera Lo scorso anno era stata data quasi per spacciata...
E invece anche quest’anno 400 case editrici si mettono in mostra e si disseminano nei giorni e nei luoghi
di Maria Serena Palieri


ROMA NEL MONDO DELL’EDITORIA C’È UNA PARTE PER LA QUALE L’ARRIVO IN TOP TEN DI UN LIBRO, E IL SUO STAZIONAMENTO LASSÙ PER SETTIMANE, può significare passare dal rischio di cadere nel burrone a toccare il cielo con un dito: è l’editoria dei «piemme», gli editori indipendenti piccoli e medi. E di sicuro chi ha toccato il cielo con un dito, quest’anno, è stata la milanese Marcos y Marcos, con il «best» ormai quasi «long» seller Se ti abbraccio non aver paura di Fulvio Ervas, diario on the road di un padre e un figlio autistico, prossimo ad arrivare sullo schermo per Cattleya. Ma, in questo 2012 in cui l’editoria affronta la «tempesta perfetta» – abbiamo idea di cosa significhi affrontare congiuntamente crisi economica e rivoluzione tecnologica? i sommersi quanti sono? Nonostante i bollettini da ecatombe diffusi da un’indagine della Cna nelle scorse settimane (flessione del fatturato, nel Lazio, fino al 70%?), i piccoli e medi si affacciano in robusta quantità, e testardamente alacri, al loro appuntamento annuale, la fiera «Più libri più liberi» in corso dal 6 al 9 dicembre al Palazzo dei Congressi dell’Eur, a Roma.
Data quasi per spacciata l’anno scorso, alla decima edizione, a causa del neghittoso ritardo del finanziamento regionale, la Fiera, doppiata la boa, rilancia: dentro il Palazzo 400 editori metteranno sì in mostra 60.000 titoli e animeranno 280 eventi, ma per la prima volta «Più libri più liberi» si dissemina anche nei giorni e nei luoghi. Da ieri mattina è cominciata la maratona di 140 appuntamenti che si svolgeranno in 50 luoghi della città, scuole, università, biblioteche pubbliche ma anche in quelle che in teoria sarebbero le naturali rivali di una mostra-mercato, le librerie (e l’Ali, associazione dei librai indipendenti, compare tra i promotori). Ieri mattina l’Associazione Italiana Editori, la cui sezione «piccoli e medi» ha ideato l’appuntamento («unico al mondo» afferma il responsabile di settore Enrico Iacometti), ha presentato questa edizione 2012. Presenti, oltre ai ranghi Aie (anche Fabio del Giudice, direttore della Fiera), Gian Arturo Ferrari (Centro per il libro e la lettura), Marino Sinibaldi (Radio3), Cecilia d’Elia (Provincia) e un incontenibile Dino Gasperini, l’assessore comunale alla Cultura succeduto all’ Umberto Croppi defenestrato da Alemanno nella mitica notte di cui racconta nel suo Romanzo comunale da poco uscito per Newton Compton. Quest’anno «Più libri», oltre a rifornire di volumi, spesso destinati a doni natalizi, i 50.000 visitatori previsti, impartirà lezioni di editoria (allo Ied, un esempio, domani un corso di grafica web) ed esplorerà i sentieri della scrittura, con Wu Ming 1 e Giorgio Agamben, Marco Malvaldi e Andrea Camilleri... Se l’ingresso in Fiera costerà 6 euro nel fine settimana e 4 nei primi due giorni, ma a prezzi ridotti o gratis per scolaresche e studenti universitari, gli incontri fuori saranno invece tutti gratuiti. In Fiera l’Aie presenterà i suoi dati sulla «tempesta perfetta». Chiediamo a Marco Polillo, il presidente, se coincidono con quel dato da massacro enunciato dalla Cna del Lazio: «Questo dei piccoli e medi è un mondo variegato, basta un titolo riuscito a sanare un bilancio. Non avendo dati su basi regionali, diciamo che su scala nazionale il calo, tra 2011 e 2012, nei primi tre trimestri, è del 13%. Il fatto è che siamo di fronte a una crisi economica. Tutto è in calo: la gente risparmia» obietta. Ciò che non è in calo è la febbre «festivaliera»: si è appena chiusa la prima edizione di Bookcity a Milano, e qui le locandine annunciano il primo Festival della Letteratura per ragazzi sul mare che si terrà su un piroscafo tra il 16 e il 19 marzo tra Civitavecchia e Barcellona. Cosa si fa per espugnare quei non lettori che, deplora Ferrari, l’estate scorsa sono aumentati del 3%.
Notizia a margine, l’8 dicembre alle 17 in sala Smeraldo, in Fiera, si premia il vincitore del premio La Giara per esordienti: e qui la notizia è che la Rai, madrina, premia un bildungroman in chiave gay, Cani randagi di Roberto Paterlini. The times they are a changin’...

Repubblica 21.11.12
Hollywood, le scuse 65 anni dopo per le denunce anticomuniste
Una deposizione davanti alla Commissione per le attività anti-americane guidata dal senatore Joseph McCarthy che dal 1947 scatenò la caccia ai comunisti
Una storia di vendette personali dietro la “Blacklist”
di Irene Bignardi


ROMA È stata una grande tragedia e, insieme, la grande commedia americana. Gente ha perso il lavoro, gente ha perso la dignità, gente ha perso gli amici. Coppie si sono spezzate — perché lui collaborava, perché lei non voleva saperne. La storia del cinema ha subito una violenta torsione. Gli Stati Uniti hanno perso dei leali cittadini che se ne sono dovuti andare a portare altrove il loro talento e la loro creatività. E ora, da un articolo pubblicato lunedì su Hollywood Reporter, uno dei due maggiori organi della stampa di spettacolo di Hollywood, si scopre che a peggiorare le cose di quella cosa orribile e molto seriamente poco seria che fu l’era del maccartismo, con la maniacale caccia a dei comunisti che non c’erano, ci si mise anche il senso di frustrazione di un uomo, il suo complesso di inferiorità, il suo desiderio di vendetta. Willie Wilkerson, il figlio di Billy Wilkerson, fondatore nel 1930 di Hollywood Reporter e suo storico editor in chief, si è scusato lunedì dalle pagine del periodico per il ruolo che suo padre e il suo giornale hanno avuto nel 1947 nel sostenere e diffondere la Blacklist, la lista nera di quelli — registi, sceneggiatori, attori — che furono indicati dalla Commissione McCarthy come pericolosi comunisti e come una minaccia per Hollywood, e che ne ebbero distrutte le carriere e in qualche occasione anche le vite. La singolare spiegazione dell’appoggio dato da Wilkerson Senior, attraverso una serie di articoli firmati da lui e da altri editorialisti, alla campagna di McCarthy contro i simpatizzanti comunisti, sta nel fatto che Billy Wilkerson, a sentire suo figlio Willie, si voleva vendicare a spese dei grandi di Hollywood per il fatto di non averlo accolto nel loro mondo quando lui, nel 1920, aveva tentato di fondare uno studio cinematografico. Questa “battaglia maniacale per distruggerli” si tradusse, secondo il piano di Wilkerson, nel rovinare e costringere all’esilio o all’inazione i talenti che collaboravano con gli studios dei suoi nemici. Wilkerson figlio dice anche che probabilmente suo padre, scomparso nel 1962, due anni dopo la fine ufficiale della Black-list, si sarebbe scusato oggi per aver messo in moto “qualcosa che ha devastato così tante carriere”. Bel gesto e scuse tardive per quello che non è stato un “unfortunate incident”, uno sfortunato incidente, come scrive Wilkerson, ma un periodo nero dal punto di vista morale. Wilkerson non fa nomi. Ma le scuse andrebbero mandate a tanti che non ci sono più e che hanno avuto la vita rovinata, o resa quantomeno più dura, dalla caccia alle streghe maccartista o dal senso di colpa per avere tradito gli amici e i compagni di lavoro. Mettendo dunque nel primo gruppo gente come Dalton Trumbo, che per anni non poté firmare un film, o come Dashiell Hammet, che finì in prigione per non aver voluto collaborare con la Commissione di McCarthy, o come Adrian Scott o come Lillian Hellman. E mettendo nel secondo il pur geniale Elia Kazan e il suo compagno di lavoro Budd Schulberg, che con lui avrebbe poi scritto Fronte del porto, un film che, alla luce del loro comportamento, sembra più che mai una apologia del tradimento. O un regista come Edward Dmitrick, che non ebbe pudore a fare i nomi dei suoi stessi amici. L’unica consolazione retrospettiva per Wilkinson Senior è che non era solo.Collaborarono anche le star del giornalismo di spettacolo dell’epoca, da Hedda Hopper a Walter Winchell, che non solo si schierarono con Mc Carthy, ma offrirono volonterosi delle fantasiose liste di nomi. Collaborarono anche grandissimi come Bertolt Brecht. Ora, alla Screen Writers Guild è rimasto il compito di riattribuire ai talenti che per dieci anni si sono dovuti nascondere dietro i nomi fittizi la paternità delle loro opere. A partire da Dalton Trumbo e dal suo copione di Vacanze Romane.