giovedì 22 novembre 2012

l’Unità 22.11.12
Tregua Israele-Hamas. Garanti Egitto e Usa
A Gaza si festeggia nelle strade
di Umberto De Giovannangeli


Annunciata e poi rinviata. Negoziata nei dettagli, strappata a contraenti recalcitranti. Alla fine è tregua tra Israele e Hamas. Dopo otto giorni di ostilità costate la vita a oltre 140 palestinesi e a cinque israeliani, arriva l’annuncio del segretario di Stato Usa, Hillary Clinton e del presidente egiziano Mohamed Morsi: «Israele e Hamas hanno raggiunto un accordo per un cessate il fuoco a partire dalle 20 di stasera». In base all’accordo, Israele interromperà per prima le ostilità. A seguire, anche Hamas, la Jihad islamica, i Comitati di resistenza popolare e gli altri gruppi palestinesi faranno altrettanto.
Questo il testo dell’accordo reso noto dal portavoce della presidenza egiziana Yasser Ali: «Israele deve cessare le ostilità, atti ostili, aggressioni contro Gaza per mare, aria e terra, inclusa l’invasione e colpire obiettivi umani. Tutte le fazioni palestinesi devono cessare tutte le ostilità, atti ostili o aggressioni, e il lancio di razzi contro Israele e gli attacchi dalle frontiere. Vanno aperti i passaggi e facilitati gli spostamenti di persone che non devono essere prese di mira nelle zone di confine. L’Egitto otterrà garanzie da entrambe le parti per il rispetto dell’accordo raggiunto. Le due parti devono impegnarsi a non violare le clausole dell’accordo e in caso di violazione l’Egitto, sotto i cui auspici questo accordo è stato raggiunto, interverrà». I garanti della tregua saranno dunque due, l’Egitto che vigilerà su Hamas e gli Usa che si impegneranno a mantenere la sicurezza di Israele. Questo accordo è anche l’investitura del presidente egiziano Mohamed Morsi sulla scena internazionale e lo «sdoganamento» del suo governo «islamico». Lo ha riconosciuto la stessa Hillary Clinton quando ha affermato, nella conferenza stampa tenuta ieri sera al palazzo presidenziale, che il nuovo governo egiziano ha mostrato «responsabilità e leadership». Per Hillary, forse alla sua ultima missione, è un indubbio successo personale. Il suo messaggio agli israeliani è stato chiaro ed è stato ribadito molte volte in questi giorni dalla Casa Bianca e dal presidente Barack Obama. «L’impegno americano per la sicurezza d’Israele è solido come una roccia. Ed è per questo che è essenziale evitare una escalation della situazione a Gaza» è stato il suo messaggio appena arrivata a Gerusalemme, dove ha incontrato per due volte il premier Benjamin Netanyahu. Ed è soprattutto su Israele che si è giocato il pressing Usa perché accettasse la proposta di cessate il fuoco.
LE REAZIONI
Parlando alla Nazione per la prima volta dopo l’annuncio dal Cairo della tregua con i palestinesi, Netanyahu ha spiegato di aver accettato il cessate il fuoco su pressione americana ma ha anche aggiunto che «è bene per lo Stato israeliano un cessate-il-fuoco durevole»; ha aggiunto che l’operazione «Pilastro di Difesa» ha consentito di distruggere migliaia di basi di lancio dei miliziani palestinesi a Gaza e ha ripetuto di avere voluto dare «una chance» al cessate-il-fuoco, dopo aver ammesso che in Israele c'era anche chi propendeva per una «operazione molto più dura» nei confronti di Hamas. Il premier ha infine ringraziato l’intera comunità internazionale, Usa in testa, ma anche l’Egitto di Mohamed Morsi per il suo ruolo di mediatore per l’appoggio ricevuto durante l’offensiva nell’enclave palestinese. In cambio della tregua, Obama ha promesso ulteriori sforzi per combattere il traffico di armi ed esplosivi verso Gaza e più soldi per i programmi di difesa missilistica di Israele, come l’Iron Dome. «I nostri obiettivi sono stati raggiunti in pieno»: a sostenerlo è il ministro israeliano della Difesa Ehud Barak. Fra questi, ha menzionato il rafforzamento del deterrente israeliano e la protezione delle retrovie israeliane da Hamas e dalle altre fazioni palestinesi di Gaza.
«Grande vittoria per le Brigate al-Qassam» è stato il primo commento a caldo di Hamas che celebra così la tregua conseguita a suo avviso grazie al «proprio braccio armato». In una trasmissione radio, Hamas ha chiesto alla popolazione di scendere in piazza per celebrare. Dopo un primo momento d’incertezza, per il timore di nuovi raid dei caccia con la stella di David, Gaza ha accolto con fuochi di artificio e con raffiche di spari in aria l’inizio del cessate il fuoco con Israele. «Allah Akbar, la resistenza ha trionfato» grida la gente. Hamas prepara un raduno di massa di fronte all’ospedale Shifa: «La nostra vittoria afferma il movimento è stata completa. Israele ha dovuto accettare le nostre condizioni per una “'hudna”», ossia per la sospensione delle ostilità. «L’avventura israeliana a Gaza è fallita», afferma in un’affollata conferenza stampa al Cairo, Khaled Meshaal, il leader di Hamas, sottolineando che le due condizioni poste da Hamas, stop agli omicidi mirati e all’invasione, sono state inserite nell’accordo di cessate il fuoco. Meshaal ha anche ringraziato l’Iran per le armi ricevute e per il sostegno finanziario garantito ai palestinesi. Proclami di vittoria. Ma quella che attende la gente di Gaza è una lunga notte di attesa. La tregua resta appesa a un filo.

l’Unità 22.11.12
All’Onu un posto per la Palestina
di Lapo Pistelli


COME PUÒ RIPARTIRE IL DIALOGO IN MEDIORIENTE? È velleitario pensare alla pace mentre esplodono le bombe? Possiamo arrenderci? La guerra conferma le lezioni di sempre: la forza non rende più credibili le rivendicazioni dei palestinesi, Israele conferma una indiscussa supremazia militare ma non si assicura solo così il diritto di vivere in pace, i civili e fra essi le donne e i bambini pagano un prezzo insostenibile alla logica dello scontro. La tregua interrompe la spirale dei lutti e della paura. Ma una tregua non è una pace. Ed è quello invece il nostro obiettivo per la regione più martoriata del mondo a noi vicino. È necessario però prendere le mosse da più lontano.
Israele e le fazioni palestinesi non prevedevano la primavera araba. Israele non ripone fiducia in questo processo, rivendica di essere l’unica democrazia dell’area e rimprovera l’Occidente di non capire la vera natura degli islamici al potere. Hamas e Fatah hanno sperato che la «primavera» ponesse al centro la loro questione, che le masse arabe premessero i nuovi governi. Hanno sofferto dunque la delusione di vedere i Paesi arabi concentrarsi sulle proprie transizioni. Così, si sono intrecciate più crisi. Il processo di pace è rimasto in uno stallo senza precedenti: nessuna trattativa, né palese, né riservata fra Israele e Anp. La riconciliazione tra Fatah e Hamas, mediata dall’Egitto e firmata a denti stretti, carica di promesse di finanziamento dai Paesi del Golfo, è rimasta lettera morta. È invece continuato lo scontro in Hamas, fra il governo Haniyeh a Gaza e l’ufficio politico di Meshal, espulso da Damasco per non aver appoggiato Assad e ora ospitato in Qatar. In questo quadro cupo è maturata l’escalation delle violenze di Gaza, le azioni anti-terrorismo, i razzi, l’omicidio mirato di Al Jabaari, la cronaca di questa settimana di sangue.
Israele non ha interesse strategico a invadere Gaza per tenerla. L’azione «punitiva» deve mostrare di ridimensionare la capacità di Hamas e trasmettere un messaggio di forza alla regione, in particolare all’Iran. Ma il quadro strategico è assai diverso dal 2008. Allora, Hamas aveva al suo fianco Hezbollah in Libano, un forte regime siriano e un Iran senza sanzioni, mentre l’Egitto sosteneva Israele. Oggi, Siria e Libano hanno altro cui pensare, Meshal ha trovato nuovo protagonismo in Egitto; Israele non può contare sulla Turchia, ma intanto l’Egitto è divenuto protettore e garante di Gaza. Si sono recati lì, l’emiro del Qatar, il premier egiziano, i ministri degli esteri turco e tunisino. Hamas non piace, ma Gaza non è più isolata. La primavera araba ha cambiato il quadro. Tregua subito. Ma quale pace vogliamo dopo? Non vediamo alternative all’obiettivo «due popoli, due Stati», anche se oggi sul campo vige semmai la regola del «due popoli, tre Stati». Da una parte il diritto di Israele a vivere in pace e sicurezza entro confini riconosciuti. Dall’altra il diritto del popolo palestinese a un proprio Stato. Più volte l’accordo è stato solo sfiorato.
Con chi negoziare la pace? Israele ha mostrato sempre grande pragmatismo, arrivando a trattare perfino con Al Jabaari, capo dell’ala militare di Hamas poi eliminato, la liberazione del caporale Shalit. Crediamo che sarebbe più semplice e utile negoziare con l’Autorità Nazionale Palestinese, dando un segnale al fronte moderato. Come aiutare i moderati? L’Anp ha chiesto alle Nazioni Unite di votare fra poco sullo status di Paese osservatore. Nel 2010, il Quartetto promise che di lì a un anno la Palestina sarebbe divenuto Paese membro dell’Onu. Nel 2011, la richiesta fu affidata a un’istruttoria che ne ha certificato l’impossibilità politica ma fu chiesto a Abu Mazen di accontentarsi dello status di «osservatore». Oggi quella cambiale politica arriva a scadenza. Può il mondo chiedere ancora tempo? Cosa devono fare l’Europa e l’Italia? Nel prossimo decennio, gli Usa ridurranno il loro impegno nel Mediterraneo e in Medioriente. L’Europa dovrà assumere un ruolo più deciso. Iniziare rifugiandosi dietro una ventilata astensione mentre la maggioranza del mondo pare orientata verso il sì, sarebbe un esordio di inutile timidezza. Non siamo ingenui ottimisti e conosciamo la fatica della politica. Proprio per questo, una tregua a Gaza, un voto alle Nazioni Unite potrebbe muovere il rapporto fra Israele e Palestina dalle secche in cui è attualmente precipitato. È questa la prospettiva dei democratici.
* responsabile esteri del Pd

La Stampa 22.11.12
Gaza sfinita ora esulta “Abbiamo vinto”
Centinaia di sostenitori di Hamas scendono in strada
In una settimana di scontri sono morti 162 palestinesi e 6 israeliani
di Francesca Paci


La festa Sostenitori di Hamas in piazza a Gaza City festeggiano la tregua, definendola «grandiosa vittoria sugli israeliani dopo otto giorni di guerra»

Gaza trattiene il fiato alla notizia del cessate il fuoco costato oltre 150 morti palestinesi e 6 israeliani in una settimana, ma i sostenitori di Hamas sono già in piazza a celebrare il successo della «resistenza». Mentre la tv indugia in attesa dei dettagli del passo indietro simultaneo e unilaterale delle due parti, alcune centinaia di persone a piedi e in automobile invadono il campo profughi di Jabalya e il centro di Gaza City, al Jalah, Nasser, al Muktar, le strade fino a poco prima deserte, sventolando il vessillo del movimento islamico e puntando alle moschee per il ringraziamento. E pazienza se la maggior parte della popolazione segue l’invito di Hamas a restare in casa temendo l’ultima offensiva israeliana prima dell’ora X. I droni continuano a incalzare (come anche le sirene anti-razzo a Beer Sheva), ma quelli che fino a ieri accompagnavano le salme dei «martiri» avvolte nelle bandiere verdi invocando vendetta, non paiono voler neppure attendere di conoscere le condizioni. «Abbiamo vinto».

«Hamas ha raggiunto il suo obiettivo, ha dimostrato di poter colpire Tel Aviv e Gerusalemme ma soprattutto, attraverso l’Egitto, si è accreditato come interlocutore politico scavalcando l’Autorità Nazionale Palestinese perfino presso gli Stati Uniti: a questo punto avrebbe tutto da perdere da una guerra» osserva l’analista Mohammed Hijazi. Nel pomeriggio, nel suo studio dominato da un poster della Gioconda, aveva seguito l’eco della bomba sul bus di Tel Aviv temendo il peggio. Da giorni Gaza ha i nervi a fior di pelle: «La situazione è delicata, ci sono gruppi radicali locali la cui unica aspirazione è morire combattendo, ma l’escalation sarebbe un disastro per Hamas e anche per Israele che, a suo modo, ha ottenuto di dividere ancora di più i palestinesi spingendo Gaza nelle braccia dell’Egitto». Sebbene ieri le moschee benedicessero l’attentato, Hamas si è ben guardato dal rivendicarne la paternità lasciando a contendersela le brigate al Aqsa, braccio armato di Fatah, e la Jihad Islamica. «Sono tre giorni che si parla di tregua e appena sembra che ci siamo ricominciano i bombardamenti» commenta Fahdi, fruttivendolo al mercato di Gaza City. Il prezzo dei pomodori è rimasto quello di una settimana fa, 3,5 shekel al chilo (un po’ meno di un euro) ma è cambiato l’umore di chi vende, di chi compra, di chi non lavora da mercoledì scorso e si rivolge per il necessario ai 12 centri di distribuzione dell’Unrwa (United Nations Relief and Works Agency) che da domenica hanno consegnato farina, olio, latte in polvere e carne in scatola a circa 20 mila persone. A pagare per il braccio di ferro tra Hamas e Israele è stata di nuovo la popolazione della zona grigia, quella che non dilaga nelle strade di Gaza sparando e intonando orgiasticamente «Allah u-akbar», ma che stavolta sembra andarsi assottigliando sempre più a vantaggio degli estremisti.

«Non ho lasciato la mia casa perché sentivo che non ci sarebbe stata l’invasione, almeno non qui: anche nel 2008 i carri armati israeliani si sono fermati ai confini di Jabalya per evitare i vicoli abitati da oltre 80 mila persone» racconta Faruk Akal, 67 anni, vedovo con 4 figli. La sua vittoria però, a differenza di quella di Hamas, si limita a essere sopravvissuto. In attesa della tregua, ammette, malediceva i raid implorando Dio di punirne i responsabili. E non si stupisce che dall’altro lato del confine il desiderio di vendetta degli israeliani bersagliati dai razzi nella zona di Beer Sheva fosse analogo al suo al punto che perfino un liberal laico poteva confessare «Mi auguro che l’esercito entri a Gaza, devono pagare per quello che stanno facendo». Faruk non sogna la distruzione d’Israele, non sogna più da un pezzo, dice: continua a trascinarsi lungo le strade non asfaltate non possedendo neppure un somaro e, oggi più che mai, si domanda chi abbia davvero vinto.

Il giorno della tregua a Gaza dovrebbe riportare la normalità ma sembra il trionfo della follia. I media israeliani insistono a intervistare al telefono i giornalisti palestinesi che parlano ebraico per cogliere l’umore popolare (l’interesse però non è reciproco, i media di Gaza intervistano al massimo giornalisti arabo-israeliani), ma neppure i protagonisti sanno veramente interpretare la tensione rimasta alta come prima della pioggia. L’unico luogo paradossalmente rilassato è il centro d’igiene mentale al Nasser, dove i malati sono stati rimandati temporaneamente a casa perché in queste ore gli psichiatri devono correre qua e là a prestare servizio a domicilio.


l’Unità 22.11.12
Produttività, Monti tira dritto Intesa separata, Cgil non firma
Il governo esclude la detassazione delle tredicesime. Stanziati 2,1 miliardi di euro
di Luigina Venturelli


La trattativa sulla produttività è finita, come previsto, con un accordo separato. La convocazione del governo per tentare in extremis di convincere la Cgil a firmare il documento non ha avuto successo. Semmai, ha aggiunto ulteriore valenza politica al dissenso già espresso dalla confederazione di Corso d’Italia nei giorni scorsi alle altre parti sociali, ed ufficializzato ieri nell’incontro con il governo. Nonostante la rassicurazione del presidente del Consiglio: «Nessuno pensi che ci sia stato intento di isolare alcuni rispetto ad altri».
INCONTRO CONCLUSIVO
L’intenzione di Palazzo Chigi di chiudere in serata la partita era stata esplicitata fin dalle prime battute dell’incontro: «Siamo all’incontro conclusivo su un tema cruciale che è quello di rilanciare la produttività e la competitività per le imprese e il sistema paese. La nostra speranza è che tutte le parti aderiscano a quanto avete elaborato e condiviso» ha esordito Mario Monti. Ma senza presentare alcuna novità in grado di far ripartire la trattativa per apportare le modifiche ritenute indispensabili da Corso d’Italia.
Il premier non ha fatto che confermare lo stanziamento di 2,1 miliardi di euro già previsti dalla legge di stabilità, e rigettare la richiesta avanzata da Susanna Camusso di usare i soldi delle maggiori entrate fiscali per detassare le tredicesime: «Non ce lo possiamo permettere». E la Cgil non ha potuto che prenderne atto, dissociandosi da un’accordo ritenuto «sbagliato» perché «il contratto nazionale non tutelerà più il potere d’acquisto dei lavoratori».
Un accordo, però, che ha il pieno sostegno dell’esecutivo di Monti, rallegratosi per «l’eccellente e duro lavoro di due mesi» delle parti sociali, ed uscito dall’incontro augurandosi «che la Cgil si unisca alla sottoscrizione del documento sulla produttività quando lo riterrà opportuno nell’interesse dei lavoratori e del Paese». Pur in presenza di «un prodotto» ritenuto «condiviso, completo, autosufficiente». Che, dunque, secondo il governo può funzionare ed essere pienamente operativo anche senza l’adesione del sindacato più rappresentativo.
L’esecutivo, ha precisato il presidente del Consiglio in conferenza stampa, ritiene infatti che l’intesa sia un «passo importante» per innalzare la competitività e rendere il Paese più attraente per gli investimenti. E «ritiene che sussistano le condizioni per confermare l’impegno di risorse destinato alla riduzione del cuneo fiscale del salario di produttività». Il ministro per lo Sviluppo economico Corrado Passera, al proposito, ha annunciato che ci sarà un decreto per chiarire le modalità di erogazione, per la cui messa a punto «lavoreremo insieme con le parti sociali».
Convinta anche l’adesione delle imprese rappresentate da Abi, Ania, Confindustria, Lega Cooperative e Rete imprese Italia: «L’intesa va nella direzione giusta» e può essere «un elemento nuovo nelle relazioni industriali, l’inizio di una nuova fase di sviluppo e occupazione» ha affermato il presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi.
Così anche le altre confederazioni, a cominciare dalla Cisl: «Siamo riusciti a definire quello che serve per ridare slancio a un’idea in un momento difficile del Paese, per dare forza ai salari» ha detto il segretario generale Raffaele Bonanni. «Abbiamo insistito per detassare gli accordi, anche lo Stato avrà più entrate se ci sarà nuova produzione. Insistiamo che si affronti anche il tema di territori meglio attrezzati per fortificare gli accordi e per fare maggiore produttività di sistema».
Sugli stessi toni la Uil: «È necessario che la detassazione sia strutturale, perchè la mancanza di certezza rende difficile l’incentivazione e lo svolgimento del negoziato di secondo livello» ha sottolineato il leader Luigi Angeletti. «L’accordo appena firmato è utile per farci uscire dalla trappola nella quale siamo caduti dagli anni novanta di bassi salari e bassa produttività».
VENT’ANNI PERSI
Agli incentivi è infatti legata gran parte dell’efficacia concreta che, secondo gli auspici delle parti firmatarie, avrà l’accordo appena sottoscritto. Secondo i dati diffusi ieri dall’Istat, infatti, la produttività in Italia è ferma da vent’anni. Nel periodo compreso tra il 1992 e il 2011, quella totale dei fattori è aumentata ad un tasso annuo dello 0,5%, un incremento che risulta da una crescita media dello 0,9% della produttività del lavoro e da una flessione dello 0,7% di quella del capitale. A sconfessare il luogo comune che, spesso, addebita ai lavoratori e alla loro organizzazione in azienda carenze del sistema riconducibilici agli insufficienti investimenti effettuati dalle imprese.
Nel 2011, in particolare, il dato ha mostrato una crescita dello 0,4%. In dettaglio, la produttività del lavoro è diminuita nel 2011 nei servizi di informazione e comunicazione (meno 2,4%) e ha registrato crescite significative nelle attività ricreative e culturali (più 5,1%) e in agricoltura (più 2,0%).

l’Unità 22.11.12
Camusso: una strada sbagliata
«Abbiamo sempre difeso e motivato le nostre opinioni», spiega la leader Cgil
Che incalza sui fondi per la detassazione: «Come verranno suddivisi?»
di Massimo Franchi


Una giornata frenetica di contatti e pressioni. Sfociata nella soluzione già prevista. L’accordo firmato da tutti, tranne la Cgil. Come sulla modifica sull’articolo 18 nella riforma del lavoro, Monti scandisce le stesse parole: «Tutti i sindacati tranne la Cgil». E anche l’invito a sottoscrivere l’accordo in un secondo momento viene rispedito al mittente. Da parte della Cgil c’è grande serenità, una serenità data dal fatto di «aver sempre difeso e motivato le nostre opinioni».
Susanna Camusso, rientrata in anticipo dalla missione in Turchia, è voluta andare da sola al vertice a palazzo Chigi. Lì ha subito ribadito le critiche che la Cgil ha sempre portato a questa trattativa e riassunte nel No uscito dal direttivo del sindacato giovedì scorso. La principale è quella che spostando una quota di aumenti contrattuali sul secondo livello (aziendale o territoriale che sia) c’è il rischio di una contrazione reale dei salari. Proprio da questo è partita il segretario della Cgil nel suo intervento al tavolo. «La strada scelta è sbagliata, è una strada per cui il contratto nazionale non tutelerà più il potere d'acquisto dei lavoratori». Camusso poi ha fatto due precise domande al governo: «Come saranno divisi i fondi previsti per la detassazione sugli aumenti per la produttività? Se i fondi stanziati (2,1 miliardi in due anni, ndr) non basteranno per tutti gli accordi, come verranno suddivisi?».
IL CARTELLINO MANCANTE
Alle due domande l’esecutivo non ha risposto. Il vertice è stato sospeso, il governo si è riunito. Ma nessuna risposta è arrivata. Anzi. Dopo una mezz’ora è giunta la convocazione di una conferenza stampa unitaria di governo e parti sociali. La disposizione dei cartoncini sul tavolo al primo piano di palazzo Chigi era inequivocabile: a sinistra le imprese, al centro il governo, a destra i sindacati. Tutti tranne la Cgil. Ma passano pochi minuti e arriva il contrordine. La conferenza è del solo governo. Con le parti sociali che arriveranno in un secondo tempo. Con lo stesso Monti che specifica: «Avevamo chiesto anche alla dottoressa Camusso di poter parlare, ma non ha accettato».
Se per settimane i piccoli, guidati da Rete Imprese, non avevano accettato il testo messo a punto dai tecnici di Confindustria e sindacati, spingendo perché la contrattazione di secondo livello avesse più spazio, così come la flessibilità su orari e mansioni, quella sera è arrivato il compromesso. Modifiche al testo che prevedevano come fosse la contrattazione fra le parti a poter intervenire sul demansionamento e sulla flessibilità dell’orario, modificando le leggi vigenti. Che oggi prevedono come nessun lavoratore possa essere cambiato di mansione, di livello e retribuzione senza essere d’accordo o venendo prima licenziato e poi riassunto nella nuova mansione.
L’altro grande tema è stato quello della rappresentanza. La Cgil ha sempre chiesto l’attuazione dell’accordo del 28 giugno 2011 che prevede la certificazione della rappresentanza sindacale e ilo fatto che tutte le organizzazioni sopra il 5 per cento siano presenti al tavolo. Il nodo della questione è il rinnovo del contratto metalmeccanico da cui è esclusa la Fiom Cgil, nonostante sia il sindacato più rappresentativo. Qui le divisioni con Cisl e Uil hanno reso difficile andare oltre ad un accordo che prevede di fissare le norme per la certificazione autonoma della rappresentanza entro la fine dell’anno.

il Fatto 22.11.12
Produttività, Monti scarica la Cgil
di Salvatore Cannavò


Il dettaglio che certifica la rottura avvenuta ieri sera tra governo e Cgil, unica tra le parti sociali a non siglare l’accordo sulla produttività a palazzo Chigi, è il rifiuto di Susanna Camusso di tenere la conferenza stampa finale insieme agli altri sindacati. Un rifiuto motivato dall’isolamento in cui la Cgil è stata tenuta dal governo. Ma anche dalla Cisl, Uil e da Confindustria. E così, mentre queste, con Ugl, Confindustria, Rete Imprese Italia, illustravano a palazzo Chigi la loro soddisfazione, Susanna Camusso convocava la stampa presso la sede nazionale della Cgil.
L’ACCORDO SULLA PRODUTTIVITÀ che Monti ha presentato come una grande opportunità per favorire l’occupazione non avrà effetti immediati se non quello di sbloccare lo stanziamento di 2,1 miliardi che il governo ha collocato nella Legge di Stabilità. Per applicare le novità occorrerà siglare i nuovi contratti di lavoro. Però quanto avvenuto a Palazzo Chigi ha un chiaro effetto politico perché mette da parte la sinistra sindacale e con essa, sia pure parzialmente, il Partito democratico. “L’accordo separato è un problema” ammette Stefano Fassina, responsabile economico del Pd che pure cerca di minimizzare la portata di quanto avvenuto.
La rottura tra governo e Cgil è così netta che in conferenza stampa sia il presidente del Consiglio, Monti, che il ministro che ha seguito la trattativa, Passera, sottolineano più volte la responsabilità di Susanna Camusso nel tirarsi fuori: “Non abbiamo voluto isolare nessuno, auspichiamo che la Cgil possa firmare” hanno ripetuto all’unisono. Ma il governo non ha fatto nulla per agevolare un rientro della Cgil. E nel comunicato finale ha ribadito che finalmente sono state raggiunte le “condizioni per confermare l’impegno di risorse”. Si tratta dello stanziamento di 1,6 miliardi di euro per il periodo 2013-2014 per la detassazione del salario di produttività che poi è stato esteso a 2,1 miliardi per effetto di emendamenti parlamentari.
Eppure, la volontà della Cgil di giungere a un accordo era stata ribadita da un’apposita lettera del suo segretario generale. I punti di contrasto, alla fine, sono tre. Il nuovo metodo di calcolo dell’Indice per gli aumenti contrattuali (l’Ipca) che viene scomposto sia sugli aumenti del contratto nazionale che su quelli dei contratti aziendali o territoriali, legandolo alla produttività e quindi rendendolo meno certo. Il secondo punto è la possibilità di un quadro certo per quanto attiene la rappresentanza sindacale e quindi la possibilità, nell’immediato, della Fiom di accedere alla trattativa per il rinnovo contrattuale dei metalmeccanici. Il terzo, il più delicato, è relativo al demansionamento con riduzione della retribuzione che l’intesa rende possibile previo accordo sindacale anche in deroga alle leggi (in forza dell’articolo 8 della 142 voluta dall’allora ministro Sacconi).
NEL TESTO CI SONO però molte altre misure, accettate dalla Cgil, come le deleghe alla contrattazione di secondo livello per quanto riguarda orari, prestazione lavorativa e organizzazione del lavoro; l’esigibilità delle intese sottoscritte a maggioranza da parte dei sindacati pena meccanismi sanzionatori.
Viene introdotto il meccanismo della “solidarietà intergenerazionale” che ruota attorno alla riduzione di prestazione lavorativa per i lavoratori più anziani sostituiti da nuovi contratti per apprendisti.
In cambio di tutto questo, l’intesa prevede la detassazione del salario di produttività - stabilito a livello aziendale e/o territoriale - con un’aliquota del 10% sostitutiva dell’Irpef fino al limite del 5% della retribuzione contrattuale. Uno sgravio fiscale che il governo ha finanziato con 2,1 miliardi e il cui meccanismo sarà stabilito da un apposito Decreto del presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm) che individuerà, come ha spiegato ieri sera Corrado Passera, “i contratti di produttività” beneficiari della detassazione.

La Stampa 22.11.12
Donne e lavoro
L’Italia è in serie B
Il nostro Paese all’80° posto nella classifica del Gender Gap
Superano l’Italia anche Kenya e Brasile L’Islanda ottiene la prima posizione

qui

l’Unità 22.11.12
Bersani: Monti si tenga fuori
Al leader Pd la sponda di Hollande:
anche in Italia il centrosinistra punta su stabilità, crescita e lavoro
di Simone Collini


ROMA Il benevolo sprone per domenica da parte di Pier Ferdinando Casini, al termine di un colloquio a Montecitorio: «Mi raccomando, vedi di farcela al primo turno». La sponda per il 2013 offerta Oltralpe da François Hollande, durante la conferenza stampa a Parigi insieme a Giorgio Napolitano: «Quello che facciamo qui in Francia, con la nostra maggioranza, è fare in modo che l’Europa esca dalla crisi con una politica di stabilità e di crescita, con l’obiettivo di combattere la disoccupazione. Immagino che in Italia ci sia la stessa volontà, ed è la stessa volontà che anima il centrosinistra».
Pier Luigi Bersani si prepara allo sprint finale per le primarie di domenica, ma già guarda alla sfida vera, quella per la conquista di Palazzo Chigi. E mentre consiglia all’attuale premier di non candidarsi alle prossime elezioni, perché «se Monti vuole dare una grossa mano per il futuro, è meglio che non si metta nella mischia», i segnali che arrivano al leader Pd tanto da casa nostra (il tifo dei centristi per la sfida di domenica) quanto da fuori i confini italici (la benedizione del presidente della Francia, checché da noi si dica circa il desiderio all’estero di un Monti-bis) lo spingono all’ottimismo.
Bersani resta convinto di due cose. La prima: che nella prossima legislatura sia necessario avere un governo sostenuto da una maggioranza politicamente omogenea. La seconda: soltanto un patto tra progressisti e moderati può garantire l’ampio consenso in Parlamento e nel Paese necessario ad approvare le riforme necessarie.
CASINI TIFA BERSANI
Per questo accoglie con favore il diverso atteggiamento mostrato nella discussione sulla legge elettorale da Casini (l’Udc in commissione al Senato ha smesso di votare insieme a Pdl e Lega norme che vedono la contrarietà dal Pd) che in un colloquio a Montecitorio insieme al leader dei Moderati Giacomo Portas si rivela un supporter d’eccezione per Bersani: «Mi raccomando, vedi di vincere la primo turno», dice al segretario Pd. Un sorriso, e poi, con gioco di parole: «I moderati ci sono».
Ma soprattutto per questo, perché cioè rimane convinto che nella prossima legislatura serva una maggioranza politicamente omogenea, ritiene impossibile un Monti-bis per il 2013. «Non lo dico in contestazione a Monti spiega ai giornalisti che lo avvicinano alla Camera ma non credo si possa ricreare una maggioranza simile a quella di transizione ed emergenza. Con una maggioranza solid e univoca i tecnici e Monti potranno dare un contributo di rilievo alle prospettive del Paese, ma è un altro discorso. E se vogliamo preservare il ruolo di Monti non è il caso di tirarlo per la giacca».
IL CONSIGLIO A MONTI
Per la prima volta, però, Bersani si rivolge non soltanto a chi «tira per la giacca» l’attuale premier, a cui pure il leader del Pd non le manda a dire (che si chiami o meno Montezemolo): «C’e gente più garbata che dice: “voi andate bene, portate le truppe che i generali li abbiamo noi”.
A questa gente, che si muove su posizioni ciniche ma moderate ed europeiste, dico che non stiam mica a fare le primarie per pettinar le bambole. A loro, amichevolmente, dico che siamo pronti a discutere con tutte le forze positive, ma dobbiamo avere le idee chiare, anche su chi guida la macchina, perché non si può mica guidare la macchina stando ai box». Per la prima volta Bersani rivolge un consiglio a diretto uso e consumo dell’attuale capo del governo: «Se Monti vuole dare una grossa mano per il futuro, secondo me è meglio che non si metta nella mischia dice parlando sempre con i giornalisti che incontra a Montecitorio certo, ha tutti i diritti, ma ho sempre pensato che se si tenesse fuori dalla mischia sarebbe meglio».
LA SPONDA OFFERTA DA HOLLANDE
Qui si entra nel campo dei retroscena, con annessa spiegazione del fatto che per Bersani Monti può ricoprire il ruolo di Capo dello Stato, a partire dal 2013, e che un suo schierarsi con questa o quella coalizione renderebbe più complicata la sua elezione nel prossimo Parlamento. Ma rimanendo a ciò che è sulla scena e in chiaro, il leader Pd va avanti mosso dalla convinzione che debba essere il centrosinistra a governare, perché «l’alternativa a noi è Berlusconi, è Grillo». Tertium non datur.
E ora il segretario Pd, convinto che già ora «mostriamo al mondo che a dare credibilità non è solo Monti ma che c’è un processo di partecipazione in Italia che non ha nulla da invidiare agli altri», incassa la benedizione anche di Hollande, che alla domanda se «il suo amico Bersani in Italia» possa governare il Paese nel quadro delle compatibilità europee sulla finanza pubblica, risponde nel corso della conferenza stampa a Parigi insieme a Napolitano che il «centrosinistra» può fare quello che sta facendo la «maggioranza» che sostiene il governo guidato dal socialista Jean-Marc Ayrault. Napolitano fa una battuta: «Grazie alla giornalista per avermi risparmiato». E non è la sola. In francese, sulla domanda che i giornalisti italiani rivolgono a Hollande sul fatto che gli interlocutori internazionali chiedono garanzie sulla politica italiana in vista delle prossime elezioni, il nostro Presidente dice che sul dopo Monti «veramente Hollande non mi ha chiesto garanzie».

l’Unità 22.11.12
500 donne col leader Pd: è lui l’innovatore
Centinaia di firme a sostegno del segretario, anche da «Se non ora quando»: dà fiducia, ha esperienza, attenzione al welfare e al femminile
di Tullia Fabiani


Vogliono il cambiamento. Una democrazia paritaria. Una ricostruzione civile. «Alle primarie voteremo Pier Luigi Bersani perché con lui il paese può cambiare. Vogliamo che l’Italia cambi perché è insostenibile che sia l’ultimo paese in Europa per tasso di occupazione femminile, che al Sud due donne su tre non abbiano lavoro, che vengano licenziate o debbano rinunciare al lavoro quando aspettano un figlio, che il welfare sia considerato un costo e non una risorsa per la crescita delle persone, delle famiglie e del Paese».
Centinaia di donne, più di 500 finora, hanno firmato l’appello «Con Bersani per cambiare». Un titolo che indica una scelta netta di campo, dalle primarie a seguire. Di stima e fiducia parlano le donne; di capacità e competenze; di esperienza politica. «Ho conosciuto Bersani quando era ministro, fece un lavoro eccezionale. Lo considero un politico capace di portare avanti un Paese. Dico la verità: Laura Puppato mi piace molto, credo sia una donna in gamba, ma penso che ancora non abbia esperienza politica sufficiente per la guida del Paese. E qua siamo chiamati a votare il candidato premier». Gabriella Moscatelli è presidente del Telefono Rosa, ha firmato l’appello, considera Matteo Renzi «un maschilista», apprezza e sostiene Bersani, ma vorrebbe dargli qualche consiglio: «Deve lavorare meglio sull’aspetto della comunicazione, dedicare maggiore attenzione ai problemi sociali. E poi intervenire subito sulla riforma del lavoro, con modifiche incisive». Anche Valeria Fedeli, sindacalista ed esponente di «Se non ora quando», conosce Bersani dai tempi del ministero dell’Industria: «Allora ho capito che era un dirigente politico che aveva grande attenzione ai processi di cambiamento del Paese. Lo considero un vero innovatore, uno dei pochi che ha raccolto subito la sfida della democrazia paritaria e che è capace di politiche che costruiscono il futuro, non solo declamarlo. È il più credibile, dimostra grande coerenza tra ciò che propone e ciò che fa».
C’è chi, come Daniela Colombo, presidente Aidos, si fida di lui e, benché non interessata alle quote rosa, si dice convinta che le donne «hanno tanti buoni motivi per votarlo»; ma tra le firmatarie c’è pure chi come Emanuela Moroli, giornalista, specializzata nella politiche
di genere, dichiara che il «voto di stima e fiducia è anche di calcolo. Non mi piace lo sgomitare di Renzi. Tra tutti i candidati, in altre circostanze e condizioni avrei scelto Vendola, ma non adesso».
Francesca Orlandini, dipendente presso la Selex Elsag a Genova, racconta che di Bersani apprezza le idee sulle politiche del lavoro e industriali. «Da lui mi aspetto una posizione ferma nei confronti dei gruppi dirigenti di certe aziende. Penso a Fincantieri e Finmeccanica che finora non hanno presentato alcun piano industriale. Ecco, mi aspetto che Bersani lavori affinché presentino il loro piano chiaro e condiviso. Diversamente da quanto è successo con Fiat».
Sul piano delle politiche economiche pieno appoggio poi da Elisabetta Addis, economista, tra le firmatarie dell’’appello: «Pensi, ho sostenuto la raccolta di firme per la candidatura di Laura Puppato, ma Bersani ha un curriculum politico che per me rappresenta la strada su cui bisogna muoversi. Ha dato garanzie circa il suo programma su aspetti che, come donna di «Se non ora quando» ritengo fondamentali. La democrazia paritaria. L’ammodernamento dello Stato sociale, come il trasferimento dell’indennità di maternità dalle imprese alla fiscalità generale. E una volontà piena di dialogo con le donne. Poi il pensiero ritorna a Laura Puppato e dice: «La ringrazio davvero per il coraggio avuto. Spero che possa avere un posto di prestigio nel prossimo governo. Magari».

l’Unità 22.11.12
Centomila volontari per la festa dei gazebo
Doppio sforzo organizzativo per garantire fino all’ultimo la possibilità di registrarsi e votare
Nei piccoli comuni respinti alcuni rappresentanti di partiti politici avversari
di Simone Collini


ROMA Oltre 100 mila volontari renderanno possibile, domenica, lo svolgimento delle primarie del centrosinistra. La stragrande maggioranza è composta da militanti e simpatizzanti del Pd, ma molte disponibilità sono venute anche da iscritti di Sel e anche del Psi. Tra gazebo allestiti nelle principali piazze, sedi di partito, impianti sportivi, librerie e quant’altro, andranno gestiti circa 9 mila seggi elettorali, dalle 8 di mattina alle 8 di sera. È stato calcolato che servirà una media di sette persone in ognuno di essi. Ma siccome domenica sarà ancora possibile registrarsi (per poi poter votare), verranno allestiti accanto ai seggi anche gli uffici elettorali dove poter gestire la pratica. In ognuno dei quali serviranno, se come si prevede quel giorno si formeranno lunghe code, non meno di quattro persone.
RISPOSTE INCORAGGIANTI
Lo sforzo organizzativo sarà insomma doppio, rispetto alle primarie degli anni passati, ma al coordinamento nazionale si ostenta ottimismo. Già in questi giorni si stanno raccogliendo le disponibilità per un impegno da dedicare alla sfida ai gazebo anche per soltanto una parte della giornata. E le risposte che arrivano da iscritti ai partiti ed esponenti di associazioni e movimenti vicini al centrosinistra sono incoraggianti e fanno ben sperare sulla necessità di coprire domenica per dodici ore (più le ore che saranno necessarie allo spoglio delle schede) sia i seggi elettorali che quelli in cui si dovrà registrare chi ancora non lo avesse fatto.
Del resto, che fosse necessario introdurre delle regole che impedissero un inquinamento del voto, a cominciare dall’obbligo di iscriversi all’albo degli elettori del centrosinistra, si sta rendendo evidente in questi giorni. Non c’è solo la segnalazione di diversi casi in cui qualcuno ha chiesto di registrarsi per poter votare ma si è rifiutato di sottoscrivere la carta d’intenti dei progressisti. Soprattutto nei piccoli Comuni sono state respinte persone riconosciute come avversari politici. Come a Montemurlo, in provincia di Prato, dove si era presentato per iscriversi quello che alle ultime comunali era l’avversario elettorale (e oggi guida l’opposizione in Consiglio comunale) del sindaco di centrosinistra. O come a Volterra, in provincia di Pisa, dove ha tentato di iscriversi l’esponente di una lista civica e assessore del Comune dove il Pd siede all’opposizione.
Il fenomeno pare sia diffuso soprattutto in Toscana, dove l’Udc regionale è stata addirittura costretta, dopo una serie di segnalazioni finite sulla stampa locale, a diramare una nota per sottolineare che chi è iscritto al partito non può votare alle primarie del centrosinistra. «Riteniamo inopportuno e profondamente scorretto interferire nelle selezioni di un altro partito», si legge nel documento diffuso da segretario e presidente dei centristi della Toscana, «chi è iscritto all’Udc o ricopre incarichi istituzionali riconducibili al partito, anche se spinto dalla smania di protagonismo, non può votare alle primarie, perché sottoscrive un progetto e una linea politica che non è la nostra».
Come il coordinamento nazionale per le primarie, anche Pier Luigi Bersani è ottimista sull’andamento della sfida ai gazebo. Domenica «sarà la festa dei progressisti», dice. «Ci sono e ci saranno delle code, sì, perché la gente viene a registrarsi».
Il leader del Pd sa che quota un milione di registrazioni è vicina, e almeno altrettante ce ne saranno il giorno del voto. E se Lino Paganelli, che sostiene Renzi, dice che Bersani sbaglia a prevedere per domenica due milioni di persone («Solo due milioni di elettori domenica alle primarie vanno bene per Bersani ma fanno male al Pd, l’obiettivo è 4 milioni»), il segretario dei democratici evita di discutere di cifre future e si concentra su quelle presenti. «Ci hanno dato la disponibilità 100 mila volontari, un esercito». Certo, «non sono il Viminale», ma vanno ringraziati comunque, anche se «domenica ci vorrà un po’ di pazienza».

Corriere 22.11.12
La strategia del Pd: «listone» al Senato con Sel e i sindaci Alla Camera si vedrà
di Maria Teresa Meli


Roma — Un milione e mezzo... o poco più. È questo il numero magico di Pier Luigi Bersani. È questo il numero che lo rende sicuro della vittoria alle primarie di domenica. Di più: è questo il numero su cui ha ragionato per costruire la strategia prossima ventura del Partito democratico. Nel segno della coalizione che verrà. E che vedrà insieme il Pd, Sel e le liste arancioni. Ossia le liste di Giuliano Pisapia e Luigi De Magistris. Perché il leader del Partito democratico ha intenzione di allargare al massimo la coalizione del centrosinistra, onde superare le possibili soglie di una riforma elettorale. L'obiettivo di massima sarebbe quello di un listone unico, in nome dell'«Italia, bene comune». Nei palazzi della politica dicono che non dispiacerebbe nemmeno al Colle. Nei palazzi della realtà raccontano che al Senato sarà una strada unica e obbligatoria, il listone. Alla Camera si vedrà.
E il 14 novembre è stato un saggio di ciò che succederà: il centrosinistra ha presenziato alla manifestazione di Pomigliano per blandire le tute di Landini, in occasione dello sciopero proclamato dalla Cgil.
Dietro le insegne dei metalmeccanici Cgil hanno sfilato i leader di tutte le forze politiche di centrosinistra e – chi più chi meno – potenziali alleati del Pd. Presenti all'appello Nichi Vendola, il sindaco di Napoli e ispiratore delle liste arancioni Luigi De Magistris, insieme a quello di Bari, Michele Emiliano e il responsabile lavoro del Pd Stefano Fassina.
D'altronde non c'è partito o lista di sinistra e di centrosinistra che non vanti un rapporto privilegiato con le tute blu e il loro gruppo dirigente da sfoggiare alle prossime elezioni. Di questo a corso Trieste sono ben consapevoli. Anzi, spiega uno dei segretari nazionali, Enzo Masini, al sito del Fatto, «ne parlavamo con Landini proprio l'altra settimana». E per dirsi cosa? «Che finora ci cercano tutti ma non ci fidiamo di nulla». E di nessuno. «Ma candidati ce ne saranno». E dove? «Dappertutto»: Pd, Sel, Idv, arancioni. Con un obiettivo però, osserva ancora lo stato maggiore di Landini: «L'unità della coalizione di centrosinistra capace di vincere». E da sola.
Una cosa, intanto, il gruppo dirigente nazionale della Fiom ha già annunciato che farà: «Abbiamo detto tutti quanti che andremo a votare alle primarie: di certo non c'è la tendenza a snobbare». E per votare chi? «Il grosso per Vendola». Oggi però anche il Pd ha rimesso piede e sede. Senza contare che i 360 mila iscritti — specialmente tra i quadri attivi — votano sempre Pd, come un tempo votavano Pci. Per quanto si cominciano o a sentire delegati che si dichiarano 5 Stelle in Toscana e Emilia, non tanto nelle realtà meccaniche quanto in quelle informatiche e nei call center.
Non è un caso dunque, che dal giorno stesso in cui è passata la riforma al Senato, il Pd abbia cominciato a vaticinare l'allargamento della coalizione quantomeno alla lista arancione di matrice sociale e civile ispirata dai sindaci De Magistris e Emiliano. Il sindaco di Napoli ha già annunciato per dicembre il varo del movimento e pubblicizzato i primi nomi per le liste: «Tutte le esperienze nate intorno ai sindaci».
E a Napoli, per esempio, il rapporto con la Fiom, dal territorio fino a Landini, è ottimo. Difatti gli arancioni sono in dirittura d'arrivo per la candidatura di uno dei 19 esclusi dalla Fiat: Antonio Di Luca. Allo stesso tempo coltivano ottime entrature col manifesto dei 70 di Alba (acronimo per Alleanza lavoro, beni comuni, Ambiente) promosso tra gli altri da Luciano Gallino, Paul Ginsbourg, Marco Revelli, Gianni Rinaldini. E proprio quest'ultimo, ex segretario nazionale dei meccanici, dovrebbe essere un altro dei candidati arancioni.
Una pregiudiziale però è dirimente, avverte il sindaco di Bari Michele Emiliano: che «la lista sia voluta dal Pd e non in contrasto con esso». Esattamente ciò che vuole Bersani.

Repubblica 22.11.12
Patrimoniale, articolo 18 e alleanze ecco le carte giocate dagli sfidanti
Primarie, sondaggi incerti: votanti tra 2,5 e 3,5 milioni
di Giovanna Casadio


ROMA — Confronto tra i programmi a “- 3” giorni dalle primarie del centrosinistra. “Liberal” quello di Renzi; anti liberiste e gauchiste le proposte di Vendola; Bersani coniuga riformismo, rigore e cambiamento. Ci sono poi gli altri due sfidanti, Laura Puppato e Bruno Tabacci. Puppato outsider e consigliere regionale nel Veneto del Pd - punta nel suo programma sulla green economy e sui diritti civili. Da Grillo ha avuto il riconoscimento del M5S come miglior sindaco, quando guidava il Comune di Montebelluna. Tabacci (una lunga militanza politica nella sinistra Dc, poi Udc e ora Api) è il più filo-Monti, e vorrebbe a ritoccare la riforma Fornero ma nel senso di una maggiore flessibilità. Tuttavia va fiero, con una buona dose di autoironia,
del gruppo facebook “Marxisti per Tabacci” che ha registrato un boom di adesioni.
Nel rush finale, mentre i candidati si giocano il tutto per tutto, la segreteria del Pd ha commissionato ad alcuni sondaggisti di stimare l’affluenza di elettori alle primarie. Ma i verdetti sono contraddittori. Oscillano tra i 2 milioni e 700 mila partecipanti e i 3 milioni e mezzo: secondo i rilevatori più pessimisti peserà la disaffezione per la politica; secondo altri, il desiderio di partecipare avrà la meglio. Ultimi appuntamenti di campagna elettorale: faranno tappa in Emilia i duellanti Renzi (oggi) e Bersani (domani). Per il “rottamatore” però non ci sarà la “Bolognina”. Nel quartiere dove Occhetto nel 1989 annunciò la svolta dal Pci al Pds e dove Renzi aveva pensato alla “sua” svolta, il cine-teatro dei salesiani è stato precluso, la diocesi non ha dato
l’ok.

il Fatto 22.11.12
Intervista a Giovanni Sartori
La giostra elettorale: “Un Porcellum li ammazzerà”
di Antonello Caporale


C’è sempre un Porcellum più porcellum in fondo alla via. La devianza in politica è virtù e il professor Giovanni Sartori, esperto di sistemi elettorali, rassegna un breve referto sui protagonisti della contesa. “Bisogna che io e lei ci mettiamo d'accordo su un punto: con quanti mi vuol far litigare? ”
Penso al minimo, al necessario.
Però confido nella sua tradizionale generosità.
Ho la febbre e sono particolarmente debilitato, quindi indifeso.
Bastano poche parole su Calderoli, teorico della porcata e ora regista del prosieguo.
Mi sembra dimagrito. Lo ricordavo cicciotto, rotondetto.
Faceva più impressione col bermuda però.
Persona attiva e tenace, e (aggiungerei) anche intelligente. Potessi, lo imbarcherei subito su un aereo per la Papuasia con l'obbligo di rientrare in Italia dopo almeno cinque anni di residenza ininterrotta in quel lontano lembo di terra. Se la goda la Papuasia.
Resiste una simpatia col vecchio Calderoli.
Altro che! La medesima che mi impone di dire a Bersani: vergognati, stai difendendo una legge orribile per i tuoi meschini calcoli. Pensi ai profitti immediati, ma questa è idea da basso Impero. Se è schifosa, quella cosa resta schifosa. E hai tempo di cambiarla anche adesso, se è decisivo per la democrazia.
Casini si fa in quattro a ricordarglielo quotidianamente
Il piccolo alleato del potente di turno, amico di troppi vescovi. Non fa per me.
Fa per lei il professor Monti.
Persona rigorosa, indubbiamente. Ma di legge elettorale non ci capisce una cicca e nemmeno si vuole immischiare. Basterebbero due cosine, e lo sappiamo tutti, per renderla digeribile. Faccia un decreto legge e la finisca, se crede. Ma non penso che lui sappia cos'è un sistema elettorale e nemmeno gli frega molto di saperlo.
Il Porcellum rattrista enormemente anche il capo dello Stato. Giorno e notte perora la causa.
E mica crede di farmi litigare anche con lui? Non approfitti del mio stato di salute.
Può anche dire cose belle
Iniziamo con le belle: grande uomo di Stato, prudente ed equilibrato e ogni altro aggettivo. L’Italia gli deve molto e bla bla. Però basta con gli appelli, per favore. Lo dica a Monti e se la veda lui.
Professore, dica la verità: le manca Berlusconi?
Via via via! Il prima possibile. È stato una sciagura, ma credo che però sia già sparito all'orizzonte.
Va e viene dall'Africa. Alterna momenti di lieve depressione ad altri più nettamente guerreschi.
Suvvia, per me è cotto, fuori dal giro.
Il nuovo uomo pericoloso. Faccia nome e cognome.
Beppe Grillo. Le sue proposte sono allucinanti e segna, col linguaggio che conosciamo, un analfabetismo politico da brividi. Chi può si scansi da Grillo, pericolo mortale.
Ho sul taccuino il nome di Schifani.
Chi?
È parecchio attivo.
Bravo è bravo. Ma adesso la febbre mi chiama, torno a letto.
È stato eroico, professore.
La saluto con questa notizia: a giorni scriverò l'ultimo editoriale sul Corriere sulla legge elettorale. Il titolo vorrei che fosse: ‘Avete stufato’. Mi avete stufato. E adesso basta, non se ne può proprio più.

l’Unità 22.11.12
Tra i licei in rivolta «Il futuro è nostro»
di Mario Castagna


Nella capitale sempre più istituti vengono occupati All’Aristofane i docenti hanno spalleggiato gli studenti in un sit-in Il 24 di nuovo in piazza.
Un’ondata di occupazioni, cortei e proteste sta attraversando la capitale in vista del corteo che il 24 novembre porterà nuovamente in piazza studenti e docenti. Sono oramai circa trenta gli istituti occupati, da quelli del centro, come il Tasso, a quelli di periferia, come l’Aristofane o il Croce, ma nel conteggio finale saranno molti di più. Se infatti non mancano mobilitazioni negli istituti più blasonati, quest’anno sono le scuole della periferia a trainare la protesta.
Le classiche organizzazioni sindacali studentesche faticano ad mettere in piedi la mobilitazione, così come i collettivi della sinistra radicale, che hanno perso il peso specifico che avevano fino a qualche anno fa. Ed è grazie all’alleanza tra studenti e docenti che sono state organizzate in tante scuole proteste creative e fantasiose. L’Albertelli occupato ha svolto ieri le proprie lezioni in piazza Santa Maria Maggiore, portando in mezzo alla strada banchi, sedie e lavagne. In tante scuole i professori, pur non potendo sostenere esplicitamente le occupazioni, sostengono la mobilitazione dei ragazzi al di fuori delle aule occupate.
Al liceo Aristofane, dove l’occupazione si è conclusa ieri, i docenti hanno spalleggiato gli studenti in uno strano sit-in all’interno del centro commerciale Porta di Roma. «Volevamo trasformare in luogo un non-luogo – ci racconta Davide, rappresentante d’istituto del liceo classico, dimostrando molta più cultura di quanto la sua giovane età richiederebbe e fare politica in un centro commerciale non è la cosa più usuale di questo mondo».
In effetti tra carrelli della spesa e buste natalizie, gli studenti hanno avuto un po’ di difficoltà a far passare il loro messaggio ma, dopo un po’ di tempo, l’obiettivo è stato raggiunto. Un centinaio di persone si è fermato ad ascoltare le letture che i ragazzi, alternandosi con i professori, hanno organizzato per cogliere l’attenzione dei passanti. C’è chi ha letto Gramsci e chi ha declamato a memoria un canto della Divina Commedia, ma tutti erano consapevoli di aver portato qualcosa di strano nel pomeriggio dello shopping romano.
Molta meno meraviglia ha causato l’attacco che ignoti nella notte hanno sferrato contro i ragazzi chiusi dentro le aule della scuola. Da una Matiz bianca infatti sono state lanciate delle bombe carta all’interno del cortile dell’istituto, mentre in contemporanea la stessa azione veniva organizzata contro le altre due scuole occupate del territorio, l’Orazio e l’Archimede.
Non è la prima volta che i ragazzi di estrema destra prendono di mira, anche fisicamente, i militanti di sinistra attivi nel quartiere. È per questo che gli studenti dell’Aristofane hanno scelto di invitare Paolo Marchionne, capogruppo del Pd nel “IV municipio”, vittima di una pesante aggressione, nei mesi scorsi, da parte dei militanti di Casa Pound. I ragazzi ora sono tranquilli, impegnati con scope e stracci a riconsegnare al preside la scuola pulita e sistemata. Ma la loro paura è stata grande.
Per una scuola che si libera tante altre iniziano la loro occupazione. Ieri è stato il turno del Giordano Bruno, sempre nel quartiere del Tufello, mentre lunedì sono stati occupati il Russell, il Federico Caffè e l’Augusto.
Al centro delle proteste l’opposizione al Ddl Aprea e alla politica di tagli all’istruzione che hanno caratterizzato gli ultimi governi. Nei giorni scorsi si era arrivati addirittura ad ipotizzare l’impossibilità di accendere i riscaldamenti nelle scuole a causa dei tagli della spending review.
Su questo argomento ieri una delegazione di studenti ha incontrato Antonio Saitta, presidente dell’Unione Province d’Italia, per capire come affrontare, non solo climaticamente, questo inverno. «Siamo stati davvero contenti di accogliere la richiesta di incontro che ci è arrivata dalla Federazione degli studenti –ha dichiarato alla fine dell’incontro il presidente dell’Upi La Federazione degli studenti ha chiesto a noi di farsi promotrice di un confronto con tutti i protagonisti del mondo della scuola, aprendo un tavolo di lavoro nazionale per portare all’attenzione di questo governo e di quello che verrà non solo le emergenze che riguardano l’immediato».
Alla fine i termosifoni nelle scuole si riaccenderanno anche quest’anno, ma questi ragazzi pensano che muoversi un po’ non scalderà il fisico, ma farà tanto bene all’entusiasmo con cui affrontare il futuro.

il Fatto 22.11.12
Il Viminale ora trema. Casapound in piazza
Sabato a Roma manifestano i “fascisti del terzo millennio”. Pericolo di scontri con altri cortei
di Luca De Carolis


Per i “fascisti del Terzo millennio” è la prova generale della campagna elettorale. Per il Viminale è una rogna che proprio non ci voleva. Il corteo di CasaPound Italia a Roma, previsto per sabato prossimo, rischia di fare da detonatore in un’aria già satura di tensione. Perché arriverà appena dieci giorni dopo il mercoledì di scontri nella capitale tra poliziotti e manifestanti, con accuse e feriti reciproci. E perché sabato 24 Roma traboccherà di cortei. Almeno quattro, con tre manifestazioni di sindacati. Ma potrebbero salire a sei, con due cortei di studenti, universitari e medi: ancora non autorizzati. Non basta. Per sabato pomeriggio è stato convocato sul web un contro-presidio a piazza Vitto-rio, a pochi metri dalla sede di CasaPound. Una potenziale bomba per l’ordine pubblico, in una giornata già da allarme rosso. Tutto ruoterà ovviamente attorno al corteo di CasaPound, “Italia in marcia”, che partirà alle 16 da piazza della Repubblica per arrivare alle 20 in piazza del Colosseo.
PREVISTA la partecipazione di almeno 4 mila persone, che arriveranno da tutta Italia per protestare contro “casta, tecnici, finanza, mercati, banche e usura”. Così recita il manifesto, che raffigura il Perseo con la testa tagliata della Medusa. Un capolavoro del ‘500 per la chiamata (metaforica) alle armi. Già, perché l’associazione di estrema destra punta al grande salto, nei consigli comunali e regionali di mezza Italia. E per sabato vuole un corteo con grandi numeri. A Roma, dove CasaPound ha la sua sede centrale in un palazzo occupato, a pochi metri dalla stazione Termini. Un fabbricato che il Comune, guidato dall’ex missino Gianni Alemanno, ha appena acquistato con una permuta (scambio di immobili) con il Demanio: costo, 11 milioni e 800 mila euro. Per l’ira del centrosinistra, che invoca lo sgombero dell’immobile, e che da giorni chiede la cancellazione del corteo di sabato. Ieri davanti alla prefettura si è svolto “un presidio anti-fascista” di associazioni e partiti, mentre si susseguono appelli contro il corteo. Ieri è arrivata anche una diffida legale, da parte dei promotori dell’appello “Roma dica no ai raduni fascisti”. Ma a far parlare è il presidio anti-corteo, a partire dalle 14.30. Per ora non autorizzato, tanto che alla questura ieri sera non ne sapevano nulla. Il Fatto ha invece provato a sentire Gianluca Iannone, presidente di CasaPound. “Non rilasciamo dichiarazioni” la replica. La risposta di CasaPound è in una nota di pochi giorni fa: “Vogliono abolire il diritto di manifestare, e provano a delegittimarci con la storia dello stabile: ma gli 11,8 milioni sono virtuali, perché frutto di permuta. Chi non ama il nostro movimento può non votarlo”. Quel che conta ora sono i timori di Viminale e forze dell’ordine. “Gli scontri di questi giorni potrebbero essere solo l’inizio” spiegava a Ballarò il capo della polizia, Antonio Manganelli, che ieri ha annunciato un premio per gli agenti più meritevoli nell’ordine pubblico. Ma i sindacati di polizia sono in rivolta. Franco Maccari, del Coisp: “Le frasi di Manganelli sulla possibile introduzione dei numeri di identificazione per i poliziotti (dette proprio a Ballarò, ndr) in servizio di ordine pubblico sono inaccettabili. È evidente che il capo della Polizia non rappresenta i suoi uomini”.
E SEMPRE il Coisp informa che molti agenti stanno chiedendo le ferie per i giorni in cui sono fissate manifestazioni di piazza. Infine, diversi sindacati minacciano una denuncia per comportamento antisindacale ai ministri, contro il taglio di 40 questure. Intanto ieri sera a Trento ci sono stati scontri tra studenti ed estremisti di destra. “Ci hanno aggredito, erano di CasaPound” sostengono alcuni ragazzi.

Corriere 22.11.12
Licenze e sovvenzioni. L'addio milionario della giunta Polverini
Le delibere approvate dopo le dimissioni
di Sergio Rizzo


Qual è il confine della «ordinaria amministrazione»? Domanda inevitabile, scorrendo le 90 delibere che la Regione Lazio ha approvato dopo le dimissioni dei suoi vertici seguite allo scandalo dei fondi dei gruppi politici regionali. Un esempio: rientra nella cosiddetta «ordinaria amministrazione» un accordo sindacale per la valutazione della produttività
dei dipendenti della giunta, da cui dipende l'erogazione di incentivi economici, che prevede per tutti almeno la sufficienza? Avete capito bene.
Non è contemplata l'esistenza di asini o fannulloni.
La scheda valutativa che i dirigenti dovranno compilare ha soltanto cinque caselle: sufficiente, discreto, buono, distinto e ottimo. Quella specie di «6 politico-sindacale» che garantirebbe a tutto il personale del governo regionale almeno il 75 per cento del premio di produttività, così dice l'intesa, è stato concordato il 10 ottobre, quando Renata Polverini e assessori erano ufficialmente dimissionari già da un paio di settimane. Magari le trattative erano cominciate ben prima della crisi. E certo l'accordo era già definito. Ma una giunta dimissionaria che lascia in eredità ai successori, sapendo di non poter succedere a se stessa, si prende una bella responsabilità.
Altri interrogativi. Possono essere catalogate come semplici «atti dovuti» le varianti ai piani regolatori e le delibere urbanistiche sfornate dal vicepresidente Luciano Ciocchetti, ex parlamentare dell'Udc? Come i cambiamenti di destinazione d'uso di alcuni immobili dell'agglomerato industriale di Castel Romano che consentiranno la nascita di centri commerciali. Oppure la riconversione dell'ex stabilimento Banci Sud di Pomezia, richiesta dalla società Goodwind Re, amministrata dall'avvocato Giovanni Lombardi Stronati, professionista un tempo in rapporti d'affari con Marco Squatriti. O ancora le «compensazioni edificatorie» (traduzione: palazzine) di Casal Lumbroso, nel Comune di Roma. Le varianti dei piani regolatori di Sutri e Bolsena, nel viterbese, per consentire rispettivamente la costruzione di una chiesa e di strutture turistiche. E le delibere urbanistiche relative a Ronciglione, Zagarolo, Capranica, Contigliano… Tutta roba che viene da vecchie decisioni dei Comuni, e il cui iter era già da tempo in atto. Ma non si potevano ratificare prima? Anche per questo sarebbe bene che la giunta Polverini sgombrasse il campo dai sospetti che si vanno addensando in questi giorni con le pratiche sul tavolo di Ciocchetti. E cioè che il Piano territoriale paesaggistico regionale, strumento urbanistico fondamentale di una Regione devastata da abusivismo e speculazione che ha già raccolto da parte dei territori ben 18 mila osservazioni, per il quale sono previsti passaggi in un consiglio regionale ormai dissolto, possa invece finire nell'alveo dell'ordinaria amministrazione. Insieme a qualche limatura del piano casa. Magari con vincoli edilizi meno stringenti, per la gioia dei proprietari delle aree e dei costruttori.
Ancora. Siamo coscienti che una giunta dimissionaria non avrebbe potuto restare impassibile di fronte alla crisi del Cotral, l'azienda di trasporto locale della Regione che ha chiuso il bilancio con una perdita «monstre». Ma la situazione si conosce da mesi. Bisognava aspettare adesso per mettere mano al portafogli e tirare fuori 27,7 milioni? Sarà contento il presidente Adriano Palozzi (ex An) che al tempo stesso, sfidando la legge sull'impenetrabilità dei corpi (e degli stipendi) ricopre l'incarico di sindaco di Marino, Comune della provincia di Roma con ben 40 mila abitanti, incassando per l'incombenza aziendale 124 mila euro annui. Tanto più se è vero, come ha denunciato l'opposizione, che la Cotral si prepara a una nuova infornata di assunzioni per rimpolpare il numero dei 3.565 dipendenti. Saranno felici anche i rappresentanti regionali nel consiglio di Autostrade per il Lazio, società partecipata al 50% dalla Regione che l'ha ricapitalizzata qualche giorno fa con 375 mila euro. Ovvero il presidente Luigi Celori, fino al 2010 consigliere regionale Pdl, che ora si consola con quella poltrona e un vitalizio regionale da 5.760 euro netti al mese. E Cesare Bruni, consigliere comunale di Latina per Città nuove, il movimento di Renata Polverini, che senza infingimenti scrive nel suo curriculum: «Milita dalla fine degli anni 70 a metà anni 80 in gruppi extraparlamentari neofascisti».
Ma un respiro di sollievo, dopo aver avuto 125 mila euro per Digitallife 2012, avranno tirato anche i vertici della Fondazione Romaeuropa, che ha un consiglio d'amministrazione di tutto rispetto: dove siedono fra gli altri, fianco a fianco, Renata Polverini, Gianni Letta, Andrea Mondello e l'immobiliarista Sergio Scarpellini, proprietario dei palazzi affittati alla Camera e al Senato. Un esempio di come l'«ordinaria amministrazione» non scordi mai gli impegni presi a 360 gradi. Qualche altro caso? I 20 mila euro all'associazione MetaMorfosi presieduta dall'ex deputato di Rifondazione Pietro Folena. I 30 mila per la settimana degli sport acquatici affidato alla Federazione nuoto del senatore Pdl Paolo Barelli. I 270 mila all'associazione nazionale esercenti cinema… Atti dovuti, certo. Come il commissariamento delle Asl di Roma H, Roma F e Viterbo. O il finanziamento di 442.422 euro a una cooperativa edilizia (Azzurra) di Nettuno. Il riconoscimento del nuovo simbolo «della Strada del vino nella Provincia di Latina». I soldi, e tanti (18 milioni), per iniziative culturali fra cui il contributo per il nuovo teatro di Frosinone: e passi che dovrebbe tirarli fuori la nuova giunta nel 2013 e 2014. La rimodulazione dei fondi per gli asili di Roma. Il progetto (un milione 450 mila euro) per il Museo delle vittime del terrorismo e delle stragi…
E poteva, una giunta dimissionaria, abbandonare a se stessa la sanità? Ecco allora 37,2 milioni per investimenti nelle aziende ospedaliere: e pure qui passi che quasi tutto il conto (29,5 milioni) lo dovranno pagare i successori. Ecco 5 milioni per il Bambin Gesù. Ecco 3 milioni per i progetti asismici degli ospedali. Ecco 300 mila euro per un «Day hospital di geriatria con quattro posti letto». Ecco, soprattutto, un accordo per i pagamenti nel 2013 (sempre a carico della prossima giunta) ai tantissimi che vantano crediti sanitari nei confronti della Regione. Argomento, ne siamo convinti, che avrebbe tenuto banco alla cena organizzata questa sera dalla Fondazione Città nuove di Renata Polverini per raccogliere fondi, cui molti di loro avrebbero forse partecipato. Al modico prezzo (minimo) di mille euro ciascuno. Se però la cena non fosse stata rinviata a data da destinarsi. Chissà perché...

l’Unità 22.11.12
Investiamo subito su ricerca e cultura
Non si può portare un Paese fuori dalla crisi puntando solo sugli aspetti finanziari
Ignazio Marino

Senatore Pd

«LA REPUBBLICA PROMUOVE LO SVILUPPO DELLA CULTURA E LA RICERCA SCIENTIFICA E TECNICA»: IL PRIMO COMMA DELL’ARTICOLO 9 DELLA NOSTRA COSTITUZIONE, SAGGIO E LUNGIMIRANTE COME TUTTI GLI ALTRI, HA MOLTO DA INSEGNARCI. Lo ha ricordato anche il presidente Napolitano nel suo intervento agli Stati Generali della Cultura mettendo in luce la ancora scarsa consapevolezza di quanto sia straordinario il nostro patrimonio.
Straordinario non solo per la ricchezza delle opere d’arte che non ha eguali al mondo e che caratterizza la natura stessa dell’Italia ma anche per i cervelli che non ci mancano. Nonostante questi aspetti inequivocabili, assistiamo con crescente scoraggiamento all’assenza di una strategia per la promozione e la conservazione del patrimonio culturale, per non parlare della totale carenza di un progetto organico a favore della ricerca scientifica.
Se è vero che chi governa in questo momento deve cercare di fare quadrare il bilancio dello Stato facendo i conti con l’enorme debito pubblico che ci strangola, è altrettanto vero che non si può guidare un Paese fuori dalla crisi puntando esclusivamente sugli aspetti finanziari. Oltre a questo importantissimo e gravoso compito, ci si aspetta l’indicazione di scelte strategiche per il futuro delle persone che vivono e lavorano in questo Paese. A fronte di una politica che oggi è essenzialmente concentrata sui tagli, per lo più lineari e quindi che ricadono su tutti in egual misura, è auspicabile e urgente compiere delle scelte: decidere di investire nella cultura, nella ricerca scientifica, nell’innovazione è senza dubbio la strada giusta, da imboccare con convinzione. La cosa bizzarra è che tutti si dicono d’accordo con queste affermazioni e nessuno sostiene che si debba investire in nuovi cacciabombardieri eppure, nonostante l’unanimità nel condividere questa visione, i finanziamenti per la cultura, per non parlare di quelli destinati alla ricerca, continuano ad essere scarsissimi.
Ogni anno è la stessa storia e anche la legge di stabilità per il 2013 non fa eccezione: il fondo per la ricerca in ambito sanitario è infatti stato ridotto di circa 30 milioni di euro per l’anno prossimo con la previsione di ulteriori tagli nel 2014 e successivamente una riduzione di 26,5 milioni di euro in meno dal 2015 in poi.
Con una crisi economica che non accenna a migliorare, non c’era da aspettarsi misure eccezionali del tenore dello «stimulus plan» voluto da Barack Obama (che ha stanziato centinaia di miliardi di dollari da destinare a progetti innovativi in ambito energetico, infrastrutture, educazione), ma la decisione italiana di tagliare ancora una volta i già ridottissimi fondi a disposizione è la dimostrazione inequivocabile di un totale disinteresse verso la ricerca.
Se a tutto questo si aggiunge l’assenza di criteri meritocratici davvero cadono le braccia. Basterebbe infatti emanare il decreto attuativo dell’articolo 20 della riforma Gelmini, che scrissi e venne votato da tutta l’Aula del Senato due anni fa, per introdurre merito e trasparenza nel processo per l’assegnazione dei fondi del Miur. Ma in assenza di quella norma applicativa i bei principi che sono fissati nella legge, anche grazie al contributo del Pd, restano lettera morta. Il mondo della ricerca attende delle risposte. E va riconosciuto che Pier Luigi Bersani, con la decisione di aprire la sua campagna elettorale per le primarie al Cern di Ginevra ha voluto inviare un messaggio chiaro: la ricerca è il settore principale su cui investire. Abbiamo bisogno davvero di crederci e di abbandonare quella resistenza culturale nei confronti della scienza che ha caratterizzato le scelte politiche degli ultimi decenni per iniziare finalmente a premiare il merito, a incentivare i nostri cervelli migliori e a investire in progetti di innovazione che contribuiscano a fare crescere il Paese.

l’Unità 22.11.12
Cattolici, con chi ricostruire l’Italia?
di Alfredo Reichlin


PENSO CHE I PROCESSI E GLI SPOSTAMENTI CHE SI STANNO verificando nel mondo cattolico e tra le file dei cosiddetti «moderati» vanno presi molto sul serio. La posta delle prossime elezioni è davvero altissima. Si chiude una intensa fase politica e si decide il destino dell’Italia nel nuovo mondo europeo e mondiale che è in costruzione. Questo si decide. Non solo quale governo ma quale posto avrà in esso la nazione italiana. Un confronto molto serio è perciò necessario e io credo sia interesse del Pd che esso avvenga al più alto livello delle cose e delle scelte.
Ho ascoltato attentamente il discorso del ministro Riccardi al meeting di «Italia futura» e mi ha colpito la passione che lo animava. Il tema politico centrale che egli ha posto a giustificazione di un nuovo raggruppamento delle forze è la ricostruzione dell’Italia. Non questa o quella riforma, ma la ricostruzione. Chi mi legge sa che da molto tempo questo è anche il mio assillo e che il senso delle mie note sul Pd sta tutto nella consapevolezza che bisogna voltare pagina e che il solo modo di far rivivere il nucleo vitale della storia della sinistra è reinverarlo in un partito nuovo della nazione.
Dunque confrontiamoci, ma a questo livello. Tralascio il sospetto che si tratti della solita operazione di potere che consiste nel collocarsi al centro per fare l’ago della bilancia tra la destra e la sinistra (in questo caso mettendo insieme il più frivolo dei miliardari italiani con l’uomo della Comunità di S. Egidio che allestisce a Natale nella Chiesa di Trastevere il pranzo per i poveri). Non credo che si tratti di questo. Mi permetto però di porre al prof. Riccardi una domanda, che mi sembra fondamentale.
Sulle spalle di chi egli pensa di porre il peso di una cosa come la ricostruzione dell’Italia? Dei tecnici? Non credo. Di tutti gli italiani? Questo si. Ma allora è del popolo italiano che dobbiamo parlare, uscendo finalmente dal mare di chiacchiere sui «politici». Il «popolo». Non la somma degli individui ma il modo di stare insieme e di fare comunità di una nazione fatta di ricchi e di poveri, di produttori e di parassiti, di siciliani e di milanesi. Vogliamo capire che il difficile compito che spetta ai governanti consiste nel fatto che non si va in Europa «europeizzando» solo il sistema finanziario ma l’Italia reale? Una Italia dimezzata per il fatto enorme che un terzo dei giovani non ha più identità e futuro in quanto espulso dal mercato del lavoro. Una Italia in cui è tornata anche la fame insieme allo spettro della disoccupazione (andate in Sardegna a parlare di difesa delle famiglie). Ma voi vi rendete conto di cosa significa avere distrutto la civiltà del lavoro, forse la conquista più grande del Novecento? E non dico nulla sulla emarginazione paurosa del Mezzogiorno come idea di sé, come deposito di culture secolari. Come legalità.
Ecco perché, è vero, c’è bisogno di una ricostruzione. Ma è esattamente per questa ragione che il Pd si candida a governare sulla base di una proposta larga di inclusione sociale oltre che di alleanze politiche ben oltre i confini della sinistra. Che cosa c’è che preoccupa i nostri interlocutori? Il rapporto del Pd con l’Europa e con le forze reali che muovono le cose del mondo? Capisco. È bene allora dire che questo partito è ben consapevole della difficoltà dell’impegno e delle sfide che l’attendono. Sa benissimo che il governo Monti non è una parentesi che si chiude per tornare finalmente ai vecchi riti politici. È fastidioso questo stupido sospetto. È il PD che ha sostenuto tutto il peso del governo e lo ha fatto perché sa benissimo che il grande merito di Monti è di aver restituito all’Italia dignità e “status” rispetto al mondo ed è quello di aver alzato l’asticella della politica al livello europeo, con tutti gli impegni (e le occasioni) che ciò comporta. Però il Pd sa anche un’altra cosa. Sa con che cosa bisogna misurarsi per ricostruire l’Italia. Bisognerà affrontare le ragioni profonde della nostra decadenza. E qui vorrei dire con pacatezza qualche parola, scusandomi per il poco spazio che ho a disposizione.
Certo, Berlusconi ha aggravato le cose ma la nostra decadenza comincia prima, comincia con l’avvento della mondializzazione. Anche allora si alzò di colpo l’asticella della competitività. Noi non la saltammo come avremmo dovuto; cioè con grandi riforme. Non le facemmo e le colpe furono un po’ di tutti. Si formò più o meno allora quel grande nodo politico-morale che ci sta soffocando e che ci spinge al declino e per cui da 20 anni non cresciamo. Le cose sono molto complicate ma, al fondo, a me sembra che si tratti di questo. Si sono rotti i vecchi compromessi politici e sociali su cui si era costruito lo sviluppo italiano. In molti abbiamo sbagliato. Da un lato i progressisti si illusero di difendere vecchie conquiste non più sostenibili. Dall’altro i ceti dominanti si difesero arretrando e rifugiandosi nel «particolare». I soldi si potevano fare anche con l’evasione fiscale, con le «consorterie» che distorcono il mercato e lo corrompono, con l’abbandono del Mezzogiorno in nome del famoso «asse del Nord» (Berlusconi-Bossi) che considerava il Sud una zavorra. Ma fu il lavoro, cioè la maggiore risorsa italiana, la vittima principale. Guardate come è stato ridotto: un residuo senza diritti, assediato dalla disoccupazione e dai «salari cinesi». Un mondo umano minacciato dai licenziamenti e dallo spettro della fame che urla la sua disperazione nei cortei. L’agenda Monti, mi dispiace dirlo, è al di là di questo. Dà la colpa ai sindacati, invoca più mercato, e non dice che le imprese non innovano perché i soldi hanno preferito farli tagliando i salari e rinunciando all’innovazione.
Ecco l’obiezione di fondo che farei al professor Riccardi. Lo prego di tener presente che c’è anche un’altra agenda (l’agenda Bersani) che vuole ricostruire l’Italia ma pensa che per farlo bisogna ripartire dal mondo del lavoro e della creatività umana, non dalle logiche finanziarie. È tempo di dare un posto anche agli ultimi nella nuova Italia. Da questo dipende la difesa della democrazia e l’avvento di una nuova civiltà europea.
Ritorno così al ruolo dell’Europa, di quella parte del mondo in cui il movimento operaio e il socialismo sono nati. Una Europa a rischio di declino economico se i governi non riescono a individuare una nuova politica che ridisegni il suo ruolo e le sue funzione nella divisione internazionale del lavoro che emergerà dalla crisi. Il nostro compito è tessere alleanze sociali e politiche fondate sull’idea che l’Europa ha bisogno di un nuovo compromesso tra capitale e lavoro, diverso nei contenuti ma della stessa portata di quello che portò alla costruzione dello Stato sociale. Questo dovrebbe avere al suo centro un nuovo modello economico fondato sulla redistribuzione del reddito, la compatibilità ambientale, e gli investimenti sulla scuola e l’innovazione.

Corriere 22.11.12
Ombre russe sulla democrazia ateniese
Il rapporto contrastato con l'Europa e il rischio dell'abbraccio con Mosca
di Sergio Romano


Anche gli euroscettici greci, probabilmente, hanno ormai capito che il futuro del loro Paese dipende in ultima analisi dal giudizio dei mercati e che il ritorno alla dracma non è una soluzione. Per sostituire una moneta internazionalmente apprezzata come l'euro non basta stampare dracme, fissare per decreto il valore di cambio della nuova moneta, ordinare agli istituti di credito di cambiare la denominazione dei conti correnti, pretendere che i greci portino in banca, per cambiarli, gli euro che hanno nelle loro tasche e nei loro materassi. Per realizzare questa gigantesca confisca occorre agire all'improvviso, chiudere le banche per evitare la corsa agli sportelli prima dell'entrata in vigore della riforma, chiudere i porti, gli aeroporti e i valichi di frontiera sino al completamento dell'operazione. E occorre dare per scontato, infine, che molti capitali greci, prima o dopo, saranno comunque finiti all'estero.
Non basterebbe, quindi, un'operazione finanziaria. Sarebbe necessaria un'operazione di polizia. E occorrerebbero verosimilmente altri interventi delle forze dell'ordine non appena i greci avranno constatato che la dracma, nelle loro tasche, non vale quasi nulla, che i debiti contratti dallo Stato sono ancora in euro, che il Paese non è più in grado d'importare tutto ciò di cui ha bisogno per assicurare il funzionamento delle proprie imprese e sopravvivere. Chi pensa che la dracma svalutata possa favorire le esportazioni greche dimentica che neppure il mercato unico europeo accetterebbe senza reagire una svalutazione competitiva.
È questo, probabilmente, il motivo per cui il «ritorno alla dracma» non sia materia di discussioni serie e ragionevoli. Ma resta pur sempre l'argomento preferito di formazioni nazionaliste come Alba Dorata e Greci Indipendenti. Il primo è un partito della destra radicale, aggressivo e xenofobo, che dichiara di volere difendere la povera gente dalla concorrenza dell'immigrazione clandestina e dà la caccia all'immigrato nei mercati all'aperto delle città greche. Il secondo, fondato nel febbraio 2012 da Panos Kammenos, un deputato uscito da Nuova Democrazia (il partito di Antonis Samaras, presidente del Consiglio dal giugno di quest'anno), ha conquistato 20 seggi nelle ultime elezioni. Alla linea adottata dal governo questi nemici della «troika» (Banca centrale europea, Commissione di Bruxelles, Fondo Monetario Internazionale) rispondono spesso che la Grecia ha un grande amico su cui potrà sempre fare affidamento: la Russia di Vladimir Putin. Esiste ormai nel Paese un «partito russo» che può contare, tra l'altro, sulle simpatie della Chiesa ortodossa e di alcuni uomini d'affari fra cui un ricco «greco del Ponto», come vengono chiamati i greco-russi del mar Nero. Si chiama Ivan Savvidis, ha fatto la sua fortuna nell'industria del tabacco, è stato eletto alla Duma, è presidente della Federazione delle Comunità greche di Russia ed è approdato a Salonicco dove avrebbe già comperato una indebitata squadra di calcio.
La Russia, d'altro canto, è già molto presente a Cipro. A un gruppo di giornalisti europei, nello scorso luglio, il presidente cipriota Demetris Christofias ha detto: «I russi sono nostri buoni amici. Vogliono occuparsi di noi», e ha aggiunto: «Possiamo benissimo associare l'aiuto russo a quello europeo, non è un problema». Per ricapitalizzare le sue banche Cipro ha bisogno di dieci miliardi e spera di averne cinque da Mosca a un basso tasso d'interesse. Il governo russo ha risposto prudentemente che è pronto a esaminare la richiesta, ma nell'ambito di una operazione concordata con l'Unione europea.
Christofias è comunista, ha studiato a Mosca negli anni dell'Unione Sovietica ed è ortodosso. Anche in Grecia, come a Cipro, il nazionalismo e l'ortodossia, eventualmente conditi con un pizzico di vecchio comunismo, potrebbero essere gli ingredienti di una politica russa nei Balcani. Per sostituire l'Europa, naturalmente, Mosca dovrebbe mettere sul tavolo della crisi greca una somma molto più importante di quella necessaria all'isola di Cipro. Ma la sua ombra, proiettata sulla Grecia, basta per ora ad alimentare il nazionalismo antieuropeo dei partiti populisti. Non è difficile immaginare, d'altro canto, che cosa accadrebbe se i partiti della coalizione di Samaras, travolti dalla crisi, lasciassero il campo ai loro oppositori. Il Paese cercherebbe altri partner e la Russia, in quelle circostanze, lo accoglierebbe fra le sue braccia. In una intervista con Paolo Valentino (Corriere del 26 maggio), Joschka Fischer (ministro degli Esteri nel governo del cancelliere Schröder), ha detto che la Russia «è già pronta e nessuno ne parla». Il partito del rigore, a Berlino o a Bruxelles, apprenderebbe forse con piacere che la Grecia non è più una responsabilità dell'Ue. Ma dimenticherebbe che il Paese smetterebbe di appartenere alla sfera euro-atlantica, che il suo nazionalismo contagerebbe quello della Serbia e risveglierebbe quello della Turchia, che si riaprirebbero le questioni del Kosovo e dell'Epiro, che l'Unione europea e la Nato perderebbero il Mediterraneo orientale nel momento in cui il Levante è minacciato dalla crisi siriana, dagli ultimi sviluppi della questione palestinese e domani, forse, da una nuova crisi libanese. Il prodotto interno lordo della Grecia rappresenta soltanto il 3% di quello dell'Europa. Ma il suo pil geopolitico vale molto di più. È arrivato il momento in cui della politica greca dell'Unione europea devono occuparsi gli uomini di Stato, non i ragionieri.
(2 - Fine. La prima puntata è stata pubblicata il 19 novembre)

Corriere 22.11.12
Si toglie il velo su Facebook. Applausi e minacce di morte
Il gesto della giovane siriana a sostegno delle donne
di Cecilia Zecchinelli


La questione del velo, ripetono da anni le donne e molte femministe del modo islamico, è «un falso problema». O almeno un tema esagerato dall'Occidente, che ignora le vere sfide delle musulmane, dal diritto di famiglia al più ampio sistema di tradizioni machiste. Ma in questi giorni l'hijab è diventato oggetto di una battaglia in Medio Oriente. Resa ancora più accesa, a sorpresa, dagli amministratori di Facebook.
Tutto inizia il 21 ottobre quando Dana Bakdounis, 21enne siriana cresciuta in Arabia Saudita e tornata in patria, decide di dare un valore politico alla decisione di essersi tolta il velo da un anno. Si fotografa a testa nuda, capelli corti, occhi truccati e braccia scoperte, mentre tiene tra le mani il passaporto con la foto da velata. «Sostengo "l'Intifada delle donne nel mondo arabo" perché per 20 anni non mi hanno permesso di sentire il vento sui capelli e sul corpo», scrive sotto al passaporto. E pubblica appunto l'immagine sulla pagina Facebook dell'«Intifada delle donne», un forum che sostiene i loro diritti nella regione post-primavera, ospita dibattiti e pareri, oltre a una galleria con centinaia di foto dei sostenitori. Ognuna mostra un ritratto, con scritto il motivo dell'adesione alla campagna di «sollevazione» femminile.
Donne velate in viso, altre seminude, giovani, anziane, anonime o celebri come la femminista egiziana Nawal Saadawi, qualche uomo e un paio di bambini. C'è di tutto nella galleria. Ma quella foto di Dana non c'è. Perché dopo aver suscitato molte reazioni, gli amministratori di Facebook hanno deciso di toglierla. Creando un clamore ancora più vasto.
La scritta di Dana (più che i suoi capelli al vento: moltissime donne sono senza velo) aveva suscitato centinaia di adesioni, anche da donne che l'hijab lo portano ma rispettose della libertà di scelta. Aveva causato però anche prese di distanza, critiche, insulti, perfino minacce. Ma il 25 ottobre, l'immagine era sparita, l'account di Dana su Facebook veniva bloccato insieme a quello delle quattro fondatrici: due libanesi, una palestinese e una egiziana. Senza spiegazioni da parte del social network, diventato oggetto delle fortissime e pubbliche proteste delle amministratrici dell'«Intifada» che intanto davano il via a una campagna su Twitter in favore di Dana (#windtodana).
Più volte quella foto è ricomparsa sulla pagina, per essere poi rimossa. Il braccio di ferro tra Facebook e le quattro attiviste (a cui si è aggiunta una saudita), è costata la sparizione della pagina «Intifada» dalla Rete per oltre una settimana. Ha dato nuovo vigore allo scontro tra integralisti pro-velo e liberali contrari. E ha creato molta antipatia, per non dire peggio, verso il social network che ha svolto un ruolo importante nelle primavere arabe. «Abbiamo compiuto molteplici errori, ci scusiamo», ha finalmente reagito Facebook dopo lunghi giorni di silenzio (e censure), adducendo vaghi motivi per l'accanimento contro Dana, che non hanno però convinto le donne dell'Intifada. «Hanno detto che un commento alla foto era contro le loro regole, che sul passaporto si leggeva nome e cognome di Dana... Assurdo: tra loro ci deve essere qualcuno davvero irritato per le nostre foto», ha commentato Diana Haidar, una delle fondatrici. Che continua ovviamente ad usare il network, come milioni di arabi, ma con molto meno entusiasmo.

Corriere 22.11.12
La Nato dispiegherà i Patriot in Turchia


La Nato ha ricevuto ieri la domanda formale di Ankara di dispiegare i suoi missili Patriot alla frontiera turca con la Siria. La richiesta dovrebbe essere approvata dai 28 Paesi membri nei prossimi giorni. Il dispiegamento dei Patriot mira a «difendere la popolazione e il territorio turchi — ha spiegato il segretario generale Anders Fogh Rasmussen — e contribuirebbe a invertire l'escalation della crisi alla frontiera sudorientale della Nato». Rasmussen ha insistito che il dispiegamento dei Patriot sarebbe «puramente difensivo» e non mira «in nessun caso a sostenere una zona di esclusione aerea o qualsiasi operazione offensiva» sul territorio siriano. Ma comporterebbe comunque un primo coinvolgimento della Nato nel conflitto siriano dopo 19 mesi e quasi 38 mila morti. I Paesi Nato che possiedono i Patriot sono gli Stati Uniti, la Germania e l'Olanda. Favorevoli gli americani, il governo olandese si è detto disponibile, mentre il sì tedesco dipende dal Parlamento (i sondaggi dicono che l'opinione pubblica è contraria).

La Stampa TuttoScienze 21.11.12
“È con l’immaginazione che siamo diventati invincibili”
La storia non scritta dei Sapiens, quando il mondo era popolato da molti “parenti”
di Gabriele Beccaria


Mente simbolica Da Lascaux ad Altamira le pitture parietali segnano l’ingresso dei Sapiens nel mondo dell’arte
Siamo tipi chiacchieroni. Parliamo di tutto e le banalità non ci fanno paura. Se fosse questo il motivo del successo della nostra specie?

Ian Tattersall è uno dei maggiori antropologi e il suo ultimo libro - «Masters of the Planet» - prova a spiegare il nostro trionfo di Homo Sapiens che equivale anche alla nostra solitudine. Abbiamo convissuto con altre quattro specie di ominidi, ma un po’ alla volta sono sparite. Gli ultimi sono stati i Neanderthal, spazzati via all’incirca 25 mila anni fa. Da allora la Terra è soltanto per noi e ne abbiamo approfittato anche troppo.

Chiacchieroni e soprattutto fantasiosi, dotati di un’immaginazione contagiosa, nel bene e nel male. Alla chiusura del Festival della Scienza di Genova, lo scorso 4 novembre, Tattersall ha raccontato le luci e le ombre di un patchwork di attitudini che hanno permesso la vittoria totale. Professore, siamo stati più intelligenti o anche più cat­ tivi? La violenza della nostra specie, in fondo, ci caratte­ rizza almeno quanto le no­ stre capacità intellettuali. «E’ una domanda che sorge naturale. Sappiamo che agli albori della nostra storia di Sapiens c’erano ominidi diversi da noi in giro per il mondo. Poi, d’improvviso, quando acquisiamo le capacità simboliche moderne, le altre specie scompaiono. Credo che sia dovuto al fatto che possedere la capacità di costruire nella propria testa nozioni alternative del mondo, invece di limitarsi alla reazione alle situazioni, e immaginando così realtà differenti, permetta di pianificare molti tipi di comportamenti. Nessun altro ominide era stato capace di fare una cosa simile prima di noi. E’ questa abilità - tanto che si sia espressa con conflitti aperti quanto con forme di competizione economica - che ci ha permesso di conquistare rapidamente il mondo. Se poi si osserva il modo in cui ci comportiamo oggi, è molto improbabile che la conquista non abbia richiesto anche una certa dose di violenza, ma prove evidenti non ne abbiamo». La nostra specie è vecchia di «sappena» 200 mila anni e tuttavia questa metamorfosi intellettuale si è verificata molto più tardi: perché? «E’ successo in un periodo tra 100 e 60 mila anni fa. E’ significativo che la struttura fisica e la capacità della mente di manipolare l’informazione così come la conosciamo oggi sono apparse in coincidenza con la riorganizzazione dell’intero organismo che si verificò all’origine della nostra specie di Sapiens. Ma questo vasto potenziale era tutto da scoprire prima della sua effettiva utilizzazione. È un processo per alcuni aspetti analogo a quello degli antenati degli uccelli, che svilupparono le piume milioni di anni prima che si manifestasse l’attitudine al volo». Che rapporto c’è tra questo impressionante salto evoluti­ vo e le migrazioni dei Sapiens fuori dall’Africa verso il Me­ dio Oriente e l’Europa? «Devono aver lasciato l’Africa piuttosto presto, intorno a 100 mila anni fa. E le testimonianze archeologiche nel Levante dimostrano che erano ancora “pre-cognitivi”, vale a dire simili ai Neanderthal che vivevano in quell’area. L’esodo vero e proprio, invece, avvenne intorno a 60 mila anni fa, quando ormai erano diventati esseri “cognitivamente simbolici”. E fu allora che iniziarono a conquistare il mondo». Eravamo pronti al viaggio da un continente all’altro perché il cervello era profondamen­ te cambiato? «E’ così. Certo, non fu un viaggio intenzionale, semmai un’avventura opportunistica, probabilmente dettata da motivi demografici. Nel corso di questo processo - come dicevo - il pianeta era già popolato da altri tipi umani, altri “parenti”, ed è probabile che siano stati soppiantati in seguito al modo in cui i Sapiens avevano imparato a pensare e immaginare». Ci si è molto interrogati sulle cause della nostra «rivoluzio­ ne neuronale»: lei è tra chi pensa che sia stato il linguag­ gio. Può spiegare? «Penso che sia stato questo lo stimolo più probabile. Ce ne voleva uno di tipo culturale, capace di far capire ai Sapiens le proprie potenzialità ancora inespresse». Il linguaggio, anche tra i co­ siddetti «primitivi», è sofisti­ cato. Come esplose questo «stimolo»? Si manifestò un pacchetto pronto o fu un’evoluzione sofferta? «E’ una bella domanda e non ho una risposta certa! Ma sappiamo che il linguaggio può essere spontaneamente inventato: si è visto negli Anni 70 e 80, quando molti bambini sordi nicaraguensi furono riuniti per la prima volta in alcune scuole. Qui svilupparono una lingua dei segni, strutturata in modo simile a quella parlata. Credo, perciò, che il linguaggio sia un prodotto di una proprietà emergente del cervello, disegnato per generarlo: dev’essere rapidamente diventato un oggetto sofisticato e altrettanto velocemente si diversificò». Ci fu un’unica lingua, fram­ mentata poi in una confusio­ ne babelica? «E’ difficile spingersi oltre la barriera di 5 mila anni fa. Ma, studiando i fonemi anziché le parole, si è scoperto che più ci si allontana dall’Africa e minore è il loro numero. È proprio ciò che ci si aspetta, se, com’è probabile, il primo linguaggio è nato là, nel continente delle nostre origini».

La Stampa 22.11.12
Non serve filosofare davanti a un semaforo rosso
Non c’è bisogno dei massimi sistemi per le leggi del vivere comune. Né di tirare in ballo l’etica come fanno i (neo?) realisti
Davvero la «realtà» ha bisogno di essere difesa? Contro che cosa e contro chi?
Il problema del fondamento. Ce lo poniamo quando si tratta di fecondazione assistita o diritti sociali
di Gianni Vattimo


Una affermazione di Richard Rorty che non è mai parsa più attuale suona: «Prendetevi cura della libertà, la verità si difenderà da sé». Ecco, nel gran parlare di realismo, vecchio o nuovo, che si fa in questi tempi (vedi da ultimo il volume di curato da Maurizio Ferraris e Mario De Caro, Bentornata realta, con scritti di vari autori, Einaudi, 2012, pp. 234 euro. 17) c’è forse un eccesso di «cura» della verità, o meglio della «realtà» – una differenza di espressione che forse merita più attenzione. Provate per esempio a sostituire «realtà» a «verità» nella frase evangelica «la verità vi farà liberi». Davvero siamo tanto più liberi quanto più siamo «realisti», o non sarà per caso proprio il contrario, dato che troppo spesso il realista è chi non si fa illusioni, accetta le cose come sono e magari smette di lottare per l’evidente squilibrio delle forze nei confronti del mondo? Si ricorderà che Kant fondava, postulava, addirittura l’esistenza di Dio sulla constatazione che nella realtà del mondo sono in genere i cattivi a vincere e i buoni a perdere; ma se fosse davvero solo così proprio la nostra vita reale e la nostra morale non avrebbero più senso, dunque dobbiamo postulare che ci sia Qualcuno che, alla fine, faccia coincidere virtù e felicità.
I neo-realisti che si agitano tanto oggi non vogliono certo rivendicare un mondo di guerra di tutti contro tutti, anzi si presentano come i veri difensori della morale. Davvero la «realtà» ha bisogno di essere difesa? Contro che cosa e contro chi? A quanto dicono, contro quel pericoloso rivoluzionario di Nietzsche, per il quale «non ci sono fatti solo interpretazioni». Ma chi ha paura dell’interpretazione? E ancora una volta: provate a sostituirle la parola realtà alla parola verità in tante espressioni di cui non possiamo fare a meno. «A dir la realtà... ».O: «In realtà vi dico». O ancora «Sono disposto a morire martire per la realtà.. ». Se riflettiamo, la differenza sta tutta nel fatto che la verità è sempre detta, mentre la realtà è lì davanti e basta. E qui tornano in scena Kant e l’interpretazione: per essere detta, la verità ha bisogno di un soggetto che la dica. Chi dice la verità, però, è chi descrive «le cose come sono», dunque la realtà come tale. Davvero? Si sa che una mappa identica in tutto al territorio non serve a niente, coinciderebbe con il territorio stesso. Per essere utile, deve scegliere una scala, un punto di vista, un tipo di cose che mostra (per esempio l’altimetria, o le differenze climatiche). Non si potrà qui parlare di interpretazione? Va bene, si risponde, però le cose che mostra a preferenza di altre «ci sono», mica se le inventa. D’accordo, però che «ci siano» può considerarsi un «fatto» fuori da ogni interpretazione? Già, ma chi lo potrebbe dire, se non in nome di un’altra interpretazione? Che ci sia una mappa «non interpretativa» a cui far riferimento non sarà un “fatto” convenzionalmente accettato per non andare all’infinito? Per il metro, ci si riferisce a quello conservato a Parigi, per i fusi orari al meridiano di Greenwich, eccetera. È scandaloso e preoccupante? Davvero dovremmo non fidarci delle misure di lunghezza né della longitudine e latitudine solo perché sono fondate su basi convenzionali? Che queste convenzioni funzionino, sembra significare che sono «fondate nella realtà». E cioè che il meridiano zero esiste davvero là fuori? Noi diciamo che quelle misure sono fondate solo perché funzionano, così come qualunque ermeneutico discepolo del cattivo Nietzsche prenderà normalmente treni aerei o ascensori senza dubitare delle scienze e tecnologie che li costruiscono. La domanda è: perché si insiste tanto a volermi far dire che se prendo aerei e treni devo credere che la scienza dice la verità, cioè rispecchia la «realtà» così com’è?
Torniamo alla questione sul chi e perché abbia paura dell’interpretazione e senta il bisogno di difendere la verità-realtà. Un sospetto non infondato è che Rorty abbia ragione, e cioè che sotto alla (non richiesta) difesa della verità-realtà ci sia un timore della libertà. Signora mia non c’è più religione, direbbe a questo punto Arbasino. Se non possiamo far riferimento a un fondamento certo ed inconcusso tutto sarebbe permesso, come paventava Dostoevskij per il caso che Dio non esistesse. Sembra che senza il fondamento di una ultima verità «oggettiva» (qualunque cosa ciò significhi), che tutti devono o dovrebbero ammettere, non ci possa essere né vera morale né vera lotta alla menzogna della propaganda o della superstizione. Eppure qualunque cocciuto ermeneutico, come prende treni e aerei, così ha sufficienti mezzi per distinguere le bugie dalla verità, senza aver bisogno di metri assoluti, senza aver bisogno, cioè, di toccare sempre con mano ciò che gli viene detto. Gli basta il metro di Parigi, il meridiano di Greenwich, almeno fino a che qualcuno non pretenda di fargli pagare una tassa immobiliare sulla base di un altro criterio di misura. È quando accade qualcosa del genere, quando siamo toccati (non solo nei soldi) da una misura sbagliata che cerchiamo il riferimento a un criterio più certo e più fondamentale. Anche e soprattutto nel caso delle leggi del vivere comune. Ebbene, abbiamo davvero bisogno di riferirci al diritto naturale, all’essenza dell’uomo, per non attraversare con il rosso? Certo che no. Ci poniamo il problema del fondamento quando si tratta di fecondazione assistita, diritti sociali, in genere di etica. In questi terreni, pretendere di regolarci sulla base di una verità-realtà non ha senso, o potrebbe avere solo il senso di obbligarci ad accettare «realisticamente» le cose come stanno. Il sospetto che la smania di (neo?) realismo che si sente in giro oggi sia in fondo solo un richiamo all’ordine, una sorta di appello ai tecnici per uscire dalla confusione del dibattito democratico e delle sue lentezze, non è poi così peregrino. Qualcuno suggerisce di ritrovare la vecchia distinzione di origine kantiana tra scienze della natura, “la scienza” cioè, e scienze dello spirito (etica, politica, religione ecc.) lasciando alle prime il dominio della verità “vera”, sperimentale, e relegando l’interpretazione alle seconde. Bella idea (viene appunto da Kant) se non fosse che nessuno ha ancora risposto alla domanda: la divisione dei due campi chi la dovrebbe stabilire?

Corriere 22.11.12
Capitalismo addio. La tecnica comanda su tutto il pianeta
Severino: è il destino dell'Occidente
di Emanuele Severino


Rispetto alla soddisfazione dei bisogni dei singoli individui umani, l'autentico Apparato planetario è, da un lato, il supremo inveramento o realizzazione dell'esser uomo — giacché appunto in quella soddisfazione l'Occidente ravvisa questa realizzazione —, dall'altro lato tale Apparato conduce inevitabilmente a un deperimento, indebolimento, logoramento dell'esser uomo.
Il deperimento è dovuto alla necessità che, quando quell'Apparato è autentico, il suo esser potenziato diventa lo scopo dell'agire e l'agire dei singoli si trova ad appartenere all'insieme dei mezzi che hanno il compito di realizzare tale scopo; e poiché ogni mezzo viene a logorarsi e a consumarsi proprio in quanto è mezzo per far incominciare e continuare a vivere lo scopo, ne viene che, in quanto mezzo per potenziare quell'Apparato, l'agire umano — cioè l'esser uomo — si logora, viene limitato, deperisce.
Tuttavia — si è appena affermato — l'autentico Apparato planetario della tecno-scienza non produce soltanto il deperimento dell'esser uomo, ma ne è anche l'inveramento supremo. Anche a questo Apparato compete infatti il carattere che sin dall'inizio della storia dell'uomo compete a ogni apparato: di essere ciò che, qualora il suo potenziamento sia assunto dagli individui come scopo supremo del loro agire — ed essi si dispongano come mezzi per la produzione di tale scopo —, consente un soddisfacimento dei loro bisogni, cioè una realizzazione del loro esser uomo, significativamente superiore al soddisfacimento che essi otterrebbero qualora assumessero come scopo supremo tale soddisfacimento, tentando di disporre come mezzo l'apparato nel cui contesto essi si trovano.
Ad esempio, se l'individuo può aver dapprima tentato di servirsi del clan, dello Stato, o di altra forma di apparato, per soddisfare i propri bisogni, è inevitabile che prima o poi si renda conto che il clan, lo Stato, o altra forma di apparato sono tanto più potenti, ossia tanto più capaci di soddisfare quei bisogni, quanto meno sono operanti come mezzi nelle mani dell'individuo; cioè sono tanto più potenti quanto più il loro potenziamento è assunto come scopo dell'agire dell'individuo. Sì che quest'ultimo si rende conto di trarre un maggior beneficio dal proprio disporsi come mezzo per potenziare il clan o lo Stato che dal proprio assumere come scopo il proprio beneficio riducendo alla funzione di mezzo l'apparato da cui tale scopo dovrebbe esser prodotto.
(Il che non esclude che l'apparato, ad esempio il Leviatano in quanto Stato totalitario, abbia ad acquistare una potenza così esorbitante da ridurre o addirittura annullare il beneficio significativamente superiore che essa dovrebbe apportare agli individui — che in questa congiuntura tenderanno ad assumere come scopo una forma di Stato meno oppressiva, ad esempio questa democratica, il cui potenziamento renda di nuovo per essi appetibile il suo esser assunta come scopo del loro agire).
E che il maggior soddisfacimento dei bisogni, che cioè il maggior beneficio per l'uomo sia dato dal carattere di ogni apparato — ossia dalla situazione in cui lo scopo supremo dell'agire non è tale soddisfacimento e beneficio, ma il potenziamento dell'autentico Apparato della tecno-scienza — significa che, assumendo come scopo questo potenziamento, il logoramento e deperimento dell'uomo sono significativamente inferiori a quelli che si producono quando lo scopo supremo dell'agire è, invece, proprio il soddisfacimento dei bisogni e il beneficio dell'uomo.
In altri termini, il carattere ora indicato, che compete a ogni apparato nel cui contesto l'uomo si trova ad agire, è l'inevitabilità del processo dove il potenziamento di ciò che inizialmente può sembrare pre-parato, pre-disposto, ad-paratum per ottenere come scopo qualcosa d'altro da sé, cioè il soddisfacimento dei bisogni umani, è tuttavia destinato a essere o a diventare esso lo scopo di ogni predisporre, quei bisogni essendo soddisfatti in misura significativamente superiore da questo rovesciamento.
Appunto per tale carattere si è detto che l'Apparato planetario della tecno-scienza è il supremo inveramento dell'esser uomo.
E non solo per questo carattere, ma anche, come ho rilevato in altre occasioni, perché quanto al suo significato fondamentale l'esser uomo è sempre stato inteso, lungo la sua storia, come un essere tecnico, ossia come una forza capace di predisporre mezzi per realizzare scopi: quanto al suo significato fondamentale, si sta dicendo, ossia quanto al significato comune che è sotteso ai diversi e anche contrastanti significati secondo i quali l'esser uomo è stato via via interpretato (e che a volte, come ad esempio nel caso dell'uomo mistico, sembrano irriducibili all'uomo tecnico).

Corriere 22.11.12
Una forza che supera sia Hegel e Marx che la tradizione religiosa
di Armando Torno


Il nuovo libro di Emanuele Severino, Capitalismo senza futuro, appena giunto in libreria (e del quale anticipiamo in questa pagina un estratto dal capitolo decimo), è un'analisi che va verso il fondo del significato di ciò che il filosofo chiama «destinazione della tecnica al dominio» e che conferma un livello analitico più avanzato della tesi da lui sostenuta, sin dagli anni Settanta: le grandi forze che oggi guidano il mondo, capitalismo in testa, sono «destinate» a diventare mezzi di cui la tecnica si serve per aumentare all'infinito la propria potenza. Nel pensiero di Severino, va ricordato, la tecnica porta al tramonto le forze della tradizione innanzitutto perché esse si mostrano come contraddizioni. Ma non è sufficiente che la contraddizione — concetto decisivo e troppo trascurato dal sapere scientifico — venga alla luce perché essa sia superata in una nuova dimensione storica, come invece ritengono Hegel e Marx.
Questo libro, salvo poche pagine apparse come articoli soprattutto sul «Corriere della Sera», peraltro rielaborate, è inedito e Severino l'ha scritto tra la primavera e l'estate di quest'anno. In sostanza, Capitalismo senza futuro è un'analisi non contingente della crisi che stiamo vivendo; ovvero si è dinanzi a uno studio che non procede né sui binari della volontà di rimettere la politica alla guida dell'economia, né su quelli della critica marxista di quest'ultima, né sulla volontà di recuperare i valori religiosi e morali della tradizione occidentale. Quella di Severino non è un'indicazione di quanto si dovrebbe fare, non è una proposta, un suggerimento o un invito, ma mostra la direzione del corso storico. Per esemplificare, diremo che se una barca sta navigando sul fiume, Severino non dice all'equipaggio come deve remare, ma indica la velocità e la portata dell'acqua, la sua profondità, la consistenza dell'imbarcazione, segnala infine le rapide che più in là sono in agguato.
La destinazione della tecnica al dominio, sottolinea il filosofo, è l'effetto dell'impulso originario della civiltà occidentale (che ormai è planetaria) e codesto impulso è per il Severino la Malattia mortale; pertanto la vittoria inevitabile della tecnica, è proprio la vittoria della forma più coerente di tale Malattia.

Repubblica 22.11.12
Tornano in libreria i saggi fondamentali del matematico e fisico francese Henri Poincaré, morto cento anni fa
La formula del pensiero
Cari scienziati, affidatevi all’intuizione creativa
di Piergiorgio Odifreddi


Il francese Henri Poincaré, del quale si celebra nel 2012 il centenario della morte, fu uno dei due massimi matematici della sua epoca, insieme al tedesco David Hilbert. Fra gli innumerevoli contributi che egli diede alla matematica, il più singolare fu uno studio su un problema apparentemente futile, relativo alla stabilità del Sistema Solare «alla lunga». L’apparente futilità deriva ovviamente dal fatto che, come disse una volta Maynard Keynes, «alla lunga saremo tutti morti»: dunque, non ci importerà molto di cosa accadrà al Sistema Solare, o a qualunque altra cosa.
La scoperta più importante che Poincaré fece al riguardo fu che già il comportamento di un sistema di tre corpi è insolubile, instabile e caotico, benché si conoscano esattamente le forze in gioco. Il che permette infinite descrizioni approssimate, scientifiche o letterarie, dei rapporti attrattivi fra tre corpi, fisici o biologici; spiega perché questi loro rapporti invariabilmente degenerino, e rende impossibile prevedere dove andranno a parare o che piega prenderanno: appunto come nella vita (extra) coniugale. L’aggettivo «caotico» deriva ovviamente da «caos», un concetto che arriva da lontano. Nella Teogonia di Esiodo, Chaos è un abisso sotterraneo dal quale emersero Gaia ed Eros: la Terra e l’Amore o, se si preferisce, la materia e l’energia. Ma in origine chaos significava semplicemente «fenditura» o «apertura», e indicava lo spazio atmosferico situato tra cielo e terra.
Solo in latino il termine «caos» acquistò il significato di ammasso confuso di materia, un esempio del quale era il disordine cosmico da cui il Demiurgo trae l’ordine nel Timeo platonico, o nel libro della Genesi ebraico. Questo è il significato con cui lo si usa ancor oggi nel linguaggio comune, ma il caos scoperto da Poincaré è di tipo diverso: non emerge dal disordine, ma dall’ordine, ed è provocato dal fatto che piccoli cambiamenti iniziali possono produrre grandi variazioni finali. Il risultato è che gli effetti diventano comunque indeterministici, benché le cause rimangano perfettamente deterministiche: per questo si parla appunto, ossimoricamente, di «caos deterministico».
È chiaro che a un matematico che si confronti con situazioni del genere, ogni professione di fede nel calculemus diventa sospetta, per non dire semplicemente ridicola. E così fu appunto per Poincaré che, nei saggi raccolti nel 1902 in La scienza e l’ipotesi, e nel 1905 e 1908 nei suoi due seguiti, Il valore della scienza e Scienza e metodo, sferrò un attacco a tutto campo alla concezione della matematica allora imperante. Quella proposta, da un lato, dalla logica di Giuseppe Peano e Bertrand Russell e, dall’altro lato, dalla concezione assiomatica del già citato David Hilbert. Il motto di Poincaré era: «Con la logica si dimostra, con l’intuizione si inventa». Ovvero, per dirla alla Kant: «La logica senza intuizione è vuota, e l’intuizione senza la logica è cieca». E il richiamo a Kant, sia nel motto che nell’uso del termine «intuizione », non è affatto casuale. Poincaré riteneva infatti, diversamente da Russell, che Kant avesse ragione a credere che l’aritmetica fosse sintetica a priori e non analitica: cioè, non riconducibile alla sola logica, come poi confermerà Kurt Gödel nel 1931.
La geometria, invece, secondo Poincaré era convenzionale. Se infatti fosse stata a priori, non se ne sarebbe potuta immaginare che una: ad esempio, quella euclidea, come pensava appunto Kant, con una posizione che era stata minata dalla scoperta della geometria iperbolica. La scelta fra le varie geometrie non era comunque una questione di verità, ma di utilità e comodità: allo stesso modo, non ha senso chiedersi, fra vari sistemi di misura o di riferimento, quale sia quello giusto.
Ritornando alla logica, di essa Poincaré non aveva certo una grande opinione. Ridicolizzava le sue pretese di concisione, dicendo: «Se ci vogliono 27 equazioni per provare che 1 è un numero, quante ce ne vorranno per dimostrare un vero teorema? ». E a Giuseppe Peano che proclamava, nel suo poetico e maccheronico latino: Simbolismo da alas ad mente de homo, «il simbolismo dà ali alla mente dell’uomo », ribatteva: «Com’è che, avendole ali, non avete mai cominciato a volare?».
Al massimo Poincaré ammetteva che la logica potesse servire a controllare le intuizioni, perché obbligava a dire tutto ciò che di solito si sottintende: un procedimento
certo non più veloce, ma forse più sicuro. Questo lo sapeva per esperienza, visto che nella memoria sul problema dei tre corpi, che aveva presentato nel 1889 per il «premio Oscar» messo in palio dall’omonimo re di Svezia e Norvegia, aveva sottointeso un po’ troppo: trovò un errore dopo che essa era già stata pubblicata, e gli toccò pagare le spese di correzione, che ammontarono a una volta e mezza il premio che aveva incassato.
Quanto all’assiomatizzazione, per Poincaré essa non era che un rigore artificiale, sovraimposto all’attività matematica quand’essa era ormai stata effettuata e conclusa: fra l’altro, solo temporaneamente, perché per lui nessun problema era mai definitivamente risolto, ma soltanto più o meno risolto. La finzione con la quale si presenta invece la matematica come un processo ordinato, che parte dagli assiomi e arriva ai teoremi, gli sembrava analoga alla leggendaria macchina di Chicago, nella quale i maiali entrano vivi e ne escono trasformati in prosciutti e salsicce.
Questo è certamente il modo in cui i matematici e i salumieri presentano la loro attività al pubblico ingenuo, ma la realtà è diversa. Per limitarsi ai primi produttori, basta l’esempio di Archimede, che aveva tradotto e tradito i suoi processi mentali dietro dimostrazioni analitiche e logiche. Ma li aveva trovati con un metodo sintetico ed euristico che era andato perduto, e fu ritrovato soltanto nel 1906 da uno
studioso tedesco, su un palinsesto della Biblioteca di Costantinopoli.
Poincaré non aveva comunque bisogno di rifarsi all’esperienza di Archimede, perché gli bastava la sua. Come abbiamo già accennato, egli era infatti uno dei due massimi matematici della sua epoca, insieme a Hilbert: uno status che era stato loro riconosciuto non solo con l’affidamento dei discorsi di apertura ai primi due Congressi Internazionali di Matematica, nel 1897 e nel 1900, ma anche con l’assegnazione degli unici due premi Bolyai della storia, nel 1905 e nel 1910.
E l’esperienza di Poincaré gli suggeriva che i suoi risultati più famosi, come lui stesso raccontò, gli erano venuti con ispirazioni improvvise: dopo aver bevuto una tazza di caffè, sul predellino di un autobus sul quale stava salendo, passeggiando sulla spiaggia, attraversando la strada... In momenti, cioè, in cui l’inconscio aveva preso le redini del pensiero, dopo che a lungo e consciamente questo si era concentrato sui problemi da risolvere.
La cosa era confermata dalle sue abitudini di lavoro, studiate dallo psicologo Toulouse nel 1897. Esse consistevano nel concentrarsi soltanto quattro ore al giorno, dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19, lasciando la mente vagare nel resto del tempo. E nello scrivere senza piani precisi, non sapendo dove sarebbe andato a parare: se l’inizio gli risultava difficile, abbandonava l’argomento; altrimenti procedeva in esplosioni creative che produssero, in quarant’anni, cinquecento lavori di ricerca e una trentina di libri (tra i quali un romanzo giovanile).
Ne La scienza e l’ipotesi, in particolare, egli raccolse le sue prime incursioni sui fondamenti della matematica e della scienza. Per lui si trattava solo di un divertente diversivo, rispetto alla ricerca matematica e scientifica, ma anche a distanza di un secolo i suoi saggi divulgativi non hanno perduto freschezza e leggibilità. Anzi, rimangono più freschi e leggibili di quelli fondazionali dei suoi rivali Russell e Hilbert, le cui concezioni oggi sono ridotte a polverose macerie, distrutte dal terremoto del 1931 provocato dai teoremi di Gödel.

La Stampa 22.11.12
Ken Loach: non verrò per solidarietà ai licenziati
di Fulvia Caprara


Il regista rifiuta il premio Gran Torino dopo l’appello dei precari del Museo del Cinema: “Devo essere coerente con i miei film” Barbera: è male informato, tuteliamo da sempre i lavoratori
Il regista inglese Ken Loach GIANNI AMELIO Un atteggiamento così rigido e massimalista non paga Avrebbe potuto venire qui e ascoltare dalla loro viva voce i problemi che vivono
SCcola, l’altro premiato «Io ci sarò e incontrerò i lavoratori, per principio si è sempre d’accordo con loro. Però la sua posizione mi pare un po’ fondamentalista

Con una lunga lettera dal tono fermo, ma dispiaciuto, Ken Loach ha fatto sapere ieri che non parteciperà al Torino Film Festival che si apre domani e che non ritirerà il premio che sarebbe stato «onorato» di ricevere. Il motivo riguarda un «grave problema e cioè l’esternalizzazione dei servizi che vengono svolti dai lavoratori con i salari più bassi». A Torino, scrive il regista, «sono stati esternalizzati alla Cooperativa Rear i servizi di pulizia e sicurezza del Museo Nazionale del Cinema. Dopo un taglio degli stipendi i lavoratori hanno denunciato intimidazioni e maltrattamenti. Diverse persone sono state licenziate. I lavoratori più malpagati, quelli più vulnerabili, hanno quindi perso il posto di lavoro per essersi opposti a un taglio salariale». Il Museo replica dicendo che l’autore è stato «male informato» e che le sue «riserve sui comportamenti del Museo Nazionale del Cinema non corrispondono in alcun modo alla realtà dei fatti». La Rear nega completamente le accuse e si chiede come mai «un regista di indiscusso valore come Ken Loach non abbia sentito l’urgenza intellettuale e umana di fare chiarezza, prima di prendere posizioni tanto nette e ingenerose». Nella risposta a Loach, il Museo ricorda che «il contratto di assegnazione dei servizi di vigilanza e pulizia alla Mole Antonelliana è stato stipulato a norma di legge, con una gara europea ad evidenza pubblica, rispettosa delle normative ministeriali e dei contratti di lavoro in essere». Pur consapevole della difficoltà di «districarsi tra i dettagli di una disputa che si svolge in un altro Paese», Loach resta saldo sulle sue posizioni mentre dal fronte opposto, il direttore del Museo Alberto Barbera respinge «al mittente le accuse» rivendicando una «politica sempre in difesa e a tutela dei lavoratori, una patente di azienda etica riconosciuta dai sindacati Cgil e Uil, una storia di rapporti di lavoro improntati alla correttezza».
La bomba Loach scatena reazioni a catena, prima di tutto quella del direttore del Tff Gianni Amelio: «Ammiro e rispetto il talento del regista a cui volevo dare il premio, ma non sono d’accordo con il suo modo di rapportarsi ai diritti dei lavoratori. Un atteggiamento così rigido e massimalista non paga». Inoltre, fa notare Amelio, potevano esserci altri modi di manifestare il proprio dissenso: «Loach ha fatto di tutta l’erba un fascio, il Premio glielo avrebbe dato il Festival e non il Museo. Forse avrebbe potuto venire a Torino e di ascoltare dalla viva voce dei lavoratori i loro problemi. Discutere stando qui sarebbe stato diverso, è probabile che, da Londra, la situazione reale, che non è semplice, sia stata capita poco».
Non a caso la strada indicata da Amelio è esattamente quella che sarà seguita dall’altro premiato della rassegna, Ettore Scola: «Avevano chiesto anche a me di non ritirare il premio - spiega l’autore -, gli ho risposto che non vedevo connessioni tra il riconoscimento e il Museo e che ero disponibile a incontrarli quando avessero voluto. Non conosco bene la natura del contrasto e non voglio entrare nel merito di una disputa che mi sarà più chiara dopo che ne avrò parlato con le persone coinvolte». Scola racconta che i lavoratori non hanno avuto niente da eccepire e che anzi, ricordando il suo cinema, «dalla parte della classe lavoratrice» lo hanno ringraziato per la disponibilità dimostrata: «Per principio si è sempre d’accordo con i lavoratori - aggiunge l’autore di C’eravamo tanto amati però quella di Loach mi sembra una posizione un po’ fondamentalista».
Sembra che l’autore britannico abbia fatto presente le sue preoccupazioni già alcuni mesi fa e che il direttore Barbera, in più occasioni, anche durante la Mostra di Venezia, abbia fugato i suoi timori spiegandogli a voce e nel dettaglio tutto quello che stava succedendo. Poi, tre giorni fa, la mail con la decisione, e ieri la dichiarazione pubblica: «Mi aspetterei che il Museo, in questo caso, dialogasse con i lavoratori e i loro sindacati, garantisse la riassunzione dei licenziati e ripensasse la propria politica di esternalizzazione. Non è giusto che i più poveri debbano pagare il prezzo di una crisi economica di cui non sono responsabili». Insomma, Ken il rosso non si smentisce. In ballo c’è per lui una coerenza che riguarda arte e vita: «Abbiamo realizzato - scrive - un film dedicato a questo argomento, Bread and Roses. Come potrei non rispondere a una richiesta di solidarietà da parte di lavoratori licenziati per essersi battuti per i propri diritti? Accettare il premio e limitarmi a qualche commento critico sarebbe un comportamento debole e ipocrita. Non possiamo dire una cosa sullo schermo e poi tradirla con le nostre azioni. Per questo, seppure con grande tristezza, mi trovo costretto a rifiutare il premio». Salta, con il tributo all’autore, la proiezione del suo ultimo film The angel’s share, un sorriso che avrebbe rischiarato la più dura delle contrapposizioni.

La Stampa 22.11.12
“Sono in guerra dall’età di sei anni”
Lo scrittore israeliano, autore di 1948 , racconta l’ennesimo conflitto che insanguina la sua terra
di Yoram Kaniuk


(Tradotto dall’ebraico da Shulim Vogelmann)

Yoram Kaniuk è uno scrittore israeliano nato a Tel Aviv nel 1930. Ha combattuto a soli 17 anni la guerra d’Indipendenza del 1948, esperienza che ha segnato profondamente la sua produzione letteraria. Il suo ultimo libro (pubblicato in Italia dalla Giuntina) si intitola appunto 1948 . Il suo testo più famoso è Un arabo buono . Nel maggio 2011, ha ottenuto dal tribunale di Tel Aviv, unico caso in Israele, di avere cancellata dalla sua cartà d’identità l’appartenenza religiosa, non perché non si senta ebreo, ma perché Stato e religione devono rimanere separati. I suoi 32 libri sono stati tradotti in tutto il mondo.

Sono in guerra dall’età di sei anni. Se si tolgono gli anni trascorsi in America da sempre sono in guerra. Nel 1936 andavamo a Gedera e ci hanno sparato all’altezza di Nes Ziona, un uomo sull’autobus è rimasto ferito. Ho visto il suo sangue. Il sangue era triste. Da allora sono in questa lunga guerra che già era iniziata nel 1929 un anno prima che io nascessi. Da allora si spara e ci si fa sparare, si uccide e si muore e sempre giustamente e ingiustamente, e sempre su una striscia di terra il cui nome sulle mappe lo devono scrivere sul mare.
Una guerra come nel Medioevo, un po’ ci si riposa e poi si torna a sparare. Mia madre si ricordava persino del 1921 quando aveva steso i lenzuoli sugli assassinati di Jaffa, su Brenner e tutti gli altri. Era stato un macello, non si poteva distinguere tra uno e l’altro, li hanno sepolti tutti in una fossa comune.
Questa è una guerra senza via di fuga, senza una vera tregua, una guerra chiamata sangue, per tutti i giorni della nostra vita. Sulle nostre spade, sui nostri aerei, sui nostri carroarmati, sangue, e poi sangue sopra al sangue. Molti anni prima Ezechiele ha detto: «Passai vicino a te, ti vidi mentre ti dibattevi nel sangue e ti dissi: Vivi nel tuo sangue» (Ez. 16, 6)
Adesso ancora guerra. La stessa, nella sua battaglia numero dieci? O cento? Ce ne sono state anche tante piccole. E altre grandi. Sono morti a migliaia da entrambe le parti e ancora questa terra non è una casa sicura per nessuno. Non è altro che una patria virtuale per due popoli che non sono stati qui per centinaia di anni. Uno se la ricorda da duemila anni fa e come in un verso dei Salmi ha giurato «Non te la dimenticherai», ma poi se l’è dimenticata. Sono venuti dei giganti come Rabbi Nachman e Maimonide, ma poi se ne sono andati. E l’altro, il nemico del nemico, che saremmo noi, è venuto circa mille anni fa, forse di più, forse meno; o forse non siamo altro che un popolo che si è frantumato in due, o forse tre, come le religioni che hanno inventato perché con loro non c’era Dio che è morte ma anche vita, pietà e compassione e memoria profonda, e ora questa terra non è di nessuno dei due, è di Dio, o meglio del Dio che non esiste. Si spara e ci si fa sparare.
Sono seduto nella terrazza di un piccolo bar di Via Bilu. Si leggono i giornali. Due che c’erano ieri sono stati chiamati come riservisti e oggi non ci sono più a bere questo piacevole caffè. Io sono vecchio. Non posso più combattere. Ma nella mia testa combatto. C’è in me quella rabbia battente di un uomo di guerra che la odia ma che si eccita in lei, che viene sognato in lei, la combatte in sogno. La sognavo mentre combattevo. Amo quel furore santo, povero e miserevole, elevato e triste. Piango i morti, ma amo quella sensazione repellente che la guerra risveglia in me.
Nel 1941 Rommel risaliva da sud. In una grotta sul mare nascondemmo pietre e bastoni. Avevamo undici anni. Un anno prima il pericolo veniva dalla Siria, i soldati di Vichy. Poi i bombardamenti su Tel Aviv e Haifa. Alla stazione centrale di Tel Aviv sono morte più di duecento persone, giravamo con le maschere a gas come sessanta anni dopo, o cinquanta durante la Guerra del Golfo quando per la prima volta ho avuto paura perché all’improvviso le parole «gas tedesco» hanno iniziato a pulsare dentro di me.
Dopo la Guerra è venuto il dolore per i sopravvissuti per i quali non un solo paese al mondo era pronto ad aver pietà dopo quello che avevano passato ad Auschwitz e in silenzio arrivavano in massa. L’America ha chiuso le sue porte, non ha avuto compassione. Nessun paese ha voluto aiutare. Gli americani, con le parole di chi era allora vice ministro del tesoro, «hanno fatto tutto quello che potevano per non salvare gli ebrei», e lui non era ebreo come quello che stava sopra di lui. Ma sulla nave Pan York che portava i sopravvissuti in Israele sulla quale ho lavorato per nove mesi, ho conosciuto chi si era salvato, e dentro di me si è intessuto un odio misto a indifferenza. E da allora, quando in televisione vedo una guerra mi arrabbio contro il «gas tedesco», oppure contro il Mufti di Gerusalemme che ha dichiarato di volerci sterminare quando avevo sei anni.
In un altro luogo in me c’è una rabbia non piccola. La rabbia tocca sempre un’altra rabbia nuova. Non c’è molto da fare con le nostre ingiustizie davanti alle loro ingiustizie. Questo mi fa rabbia. Nella Gerusalemme assediata dove ho combattuto, i giordani sparavano centinaia di colpi di mortaio. La gente moriva in fila per un po’ d’acqua mentre noi camminavamo per le strade imbracciando i fucili e cantando «quanto è bello morire sulla strada per Bab el wad», e non intendevamo nella canzone.
Non c’è molto da fare e rimango seduto nella terrazza. Suona la sirena, la gente corre a ripararsi e io mi sento sessant’anni più giovane ed è tremendo emozionarsi durante una guerra quando la gente cade morta e il sangue si fa più rosso, e nasce in me una voglia maledetta e orribile di essere là, dentro al pericolo, perché il pericolo è un filo rosso che lega tutta la mia vita.
Di sicuro si troverà una soluzione alla battaglia di oggi. Cara minacciosa battaglia. I giovani vanno a combattere come ho fatto io perché non credono che gli possa succedere qualcosa, perché solo i giovani possono combattere. E c’è sempre una Nagba per qualcun’altro o un Deir Yassin e a Gaza sei il cattivo, il criminale di guerra. Il pilota ha sbagliato, il soldato ha sparato. I bambini sono morti. Noi abbiamo fin’ora un bambino morto. Sempre in televisione cinque bambini morti avranno più ragione di un bambino morto.
Qui si combatte il passato contro il passato perché nessuna parte ha un futuro, al massimo un presente eterno pieno di scricchiolii e dolore e orgoglio e applausi perché qualcuno dall’altra parte è stato colpito. E da cento anni questa misera umanità ci accompagna, e intanto ci accompagnano gli sguardi di un’altra umanità brutta e vecchia che ci guarda e ci giudica, ma non è capace di giudicare altro, la Siria per esempio che nessuno al mondo è capace di guardare da vicino.
L’uomo vive da uomo da appena qualche decina di migliaia di anni. Per milioni di anni siamo stati cacciatori. È rimasto nel sangue. È rimasto nella mente. Una parte combatte l’altra e c’è chi vuole aver ragione e ci accusa di genocidio per un bambino o due.
L’eternità è la guerra. Si fa l’amore con la guerra perché non c’è cosa più splendida, terribile, enorme, bella e brutta di una guerra che si pensa giusta. E chiamarla «assassinio» è la solita storia per fare in modo che i buoni abbiano profanato la moralità.
Ognuno grida per i propri morti. Non è facile stare nei rifugi giorno dopo giorno. Ma è una cosa umana, come quello stesso uomo malato di sangue, di assenza di sentimento, di desiderio di assassinio, malattia dell’anima che nasce con la nascita dell’umanità. Siamo Bnei dam, figli del sangue (In ebraico esseri umani si dice Bnei Adam - lett. figli di adamo - e sangue dam).
Vada a farsi fottere, questa sensazione che ho io e i miei amici che hanno sempre combattuto e ora guardiamo la televisione e vogliamo partecipare di questa morte perché è questo che conosciamo dalla nascita. La morte è la cosa più sicura che c’è.

La Stampa TuttoScienze 21.11.12
C’è una macchina del piacere. Si agita nella corteccia del cervello
Dall’innamoramento all’attrazione per l’arte: le avventure della neuroestetica
di Luca Francesco Ticini


C’è un rapporto tra esperienza estetica e piacere: lo rivelano le tecniche di visualizzazione del cervello

L’intenso piacere che proviamo nell’ascoltare la musica preferita o nell’ammirare un’opera pittorica particolarmente bella è legato ad una serie di risposte neurochimiche del cervello, omologhe a quelle scatenate durante l’innamoramento. Infatti, sia l’amore romantico sia l’estasi di fronte ad un lavoro artistico attivano le aree cerebrali associate al rilascio di dopamina, l’ormone del piacere. Questa stretta relazione tra l’esperienza estetica, il desiderio ed il piacere è studiata da una disciplina nota come neuroestetica. In particolare, la neuroestetica è impegnata nel caratterizzare i meccanismi cerebrali coinvolti nell’esperienza edonica.
Dunque, cosa piace al cervello? Le tecniche di visualizzazione dell’attività cerebrale, come la risonanza magnetica funzionale, indicano che la bellezza nella musica o nelle arti visive mette in azione meccanismi specifici: assieme alle aree del piacere, l’arte stimola la parte sensorimotoria, emozionale e cognitiva, aggiungendo così all’esperienza estetica ulteriori dimensioni, come per esempio la simulazione involontaria delle azioni, vale a dire sensazioni ed emozioni che osserviamo nelle creazioni artistiche.
In situazioni particolari un’esperienza estetica di forte impatto emotivo, e che altrimenti verrebbe indicata come positiva, può essere causa di stati di ansietà, tachicardia e allucinazioni: una condizione psicosomatica conosciuta come «sindrome di Stendhal». In generale, un indicatore delle preferenze del cervello è l’attività della corteccia orbitofrontale, un’area localizzata nella parte frontale, la cui attività cresce assieme all’apprezzamento estetico. Tuttavia, nel cervello umano vi è un articolato network funzionale dedicato all’esperienza edonica, che coinvolge territori neurali differenti. Ad esempio, mentre l’insula media la percezione oggettiva della bellezza, l’amigdala è coinvolta nel giudizio soggettivo. Poiché l’insula ha un ruolo importante nella regolazione dell ’e q u i l i b r i o fra l’intero organismo e gli stimoli ambientali, la sua attività potrebbe corrispondere ad una valutazione di come gli oggetti soddisfino (o meno) i bisogni del corpo.
Rimane perciò da chiarire se nel corso dell’evoluzione l’uomo abbia sviluppato dei centri cerebrali specializzati per il piacere estetico oppure se le aree del piacere siano state successivamente cooptate dall’esperienza estetica. Un recente studio supporta la prima ipotesi: le proprietà di una creazione artistica sembrano, infatti, avere un’influenza peculiare sull’attivazione della corteccia orbitofrontale, che non è osservabile per un oggetto comune. Eppure, anche un oggetto di uso quotidiano può assumere un valore estetico, quando le indicazioni dei critici d’arte, la conoscenza del valore economico dell’oggetto e del nome dell’artista riescono a modulare l’attività di queste aree del cervello. Per esempio, è stato dimostrato che l’attività della corteccia orbitofrontale ed il valore estetico di un oggetto aumentano quando questo è collocato in un contesto artistico (basti pensare ai «ready made»).
Dunque, ciò che piace al cervello non è solo quel tipo di informazione sensoriale che stimola un complesso sistema di meccanismi cerebrali, alcuni dei quali già identificati. Infatti, a determinare il grado di attività del network cerebrale dedicato all’estetica c’è un insieme complicato di diversi fattori, tra i quali il contesto culturale a cui siamo stati esposti fin dall’infanzia. Questa conoscenza, di certo, non ci nega il mistico piacere al cospetto di un’opera d’arte. Anzi, parafrasando Richard P. Feynman, aggiunge all’esperienza estetica la consapevolezza che dietro a una simile e gradevole sensazione c’è un complicato mondo ancora tutto da esplorare.

I tanti legami tra neuroni e arte
Si chiama «Reti ­ Incontri straordinari di musica, scien­za, poesia»: è il festival che si svolgerà al Teatro Palladium di Roma dal 27 al 29 novem­ bre. L’obiettivo ­ spiegano gli organizzatori ­ è indagare una serie di meccanismi cere­brali: «Dalle scintille neurona­ li che danno vita alla materia artistica fino all’origine del giudizio estetico». Sono pre­visti tre giorni di incontri, in cui le neuroscienze si intrecciano con l’arte. Tra i protago­nisti, il 29 novembre, Luca Francesco Ticini, che interagi­rà con un gruppo di artisti.

La Stampa TuttoScienze 22.11.12
Storie ai confini della scienza
Big Bang? No, è stato il Big Chill
La nuova teoria: “Metto d’accordo Einstein e Planck”
di Luigi Grassia


In Australia stanno agli antipodi e forse per questo pensano tutto al contrario. Da noi è in voga la teoria del Big Bang, secondo cui l’Universo è nato da un uovo primordiale che è esploso, dando origine a tutto quanto, cioè alla materia e all’energia, ma anche allo spazio e al tempo che li contengono. Anche in Australia, sia chiaro, questi concetti sono familiari, ma James Quach, fisico dell’università e del politecnico di Melbourne, prova a proporre una teoria alternativa. Anzi, una teoria del tutto opposta.
Secondo Quach, l’Universo non è nato da un Big Bang ma da un «Big Chill», cioè dal brusco raffreddamento di una zuppa primordiale in cui la proto-materia, la proto-energia, il proto-spazio e il proto-tempo stavano mescolati e indistinti, ma non ristretti in un uovo cosmico destinato a scoppiare. In base all’ipotesi di Quach, questo proto-universo era un caos che a un certo punto (il momento della creazione, per quanto ci riguarda) si è congelato e cristallizzato; questo avrebbe fatto emergere le tre dimensioni dello spazio e quella del tempo.
Ma quando l’acqua congela e si cristallizza, non lo fa in modo omogeneo: si formano delle incrinature e, se la teoria del Big Chill è giusta, la stessa cosa (probabilmente) è successa all’Universo. «Se queste crepe ci sono» dice Quach «la luce e le particelle in transito dovrebbero essere deviate o riflesse dai difetti di struttura dello spazio-tempo. Allora dovremmo essere in grado di rilevare le eventuali fratture del cosmo e dimostrare la verità della mia ipotesi». Detto e fatto, dopo la pubblicazione di un suo articolo sulla «Physical Review», il professore ha trovato diversi fisici sperimentali che hanno impostato la ricerca delle prove. Fisici australiani anche loro, manco a dirlo.
Ma questa è solo una metà della faccenda. Secondo Quach, qualora venisse dimostrata l’esistenza di fratture nello spazio-tempo sulle grandi scale dell’Universo, diventerebbe più facile costruire e dimostrare sperimentalmente una solida teoria quantistica della gravità, perché si rafforzerebbe la coerenza tra il cosmo nel suo complesso e la sua struttura fine a livello sub-atomico. Questo sarebbe tanto importante quanto passare dal paradigma del Big Bang a quello del Big Chill, perché rendere coerenti la teoria dei quanti e la teoria della Relatività generale è il grande problema irrisolto lasciatoci dalla generazione di Planck e di Einstein.
Troppa carne al fuoco? Forse. Ma la fisica e la cosmologia sembrano impantanate da troppi anni in una quantità di teorie che diventa sempre più difficile sperimentare; così le teorie restano tali per un tempo indefinito. Servono ipotesi come quella di Quach che possano essere dimostrate vere una volta per tutte oppure smentite e gettate via senza rimpianti, come si deve fare nella ricerca scientifica.

Corriere 22.11.12
L'elogio del Santo Martellatore
Eva Klotz celebra il padre e dimentica gli italiani uccisi
di Gian Antonio Stella


«Tutto il male avevamo di fronte/ tutto il bene avevamo nel cuore», dice una strofa della canzone «Oltre il ponte», scritta da Italo Calvino sulla musica di Sergio Liberovici. Canzone struggente. Forse la più bella sui sogni che animavano i partigiani. Ma già percorsa nel 1961, quando ancora nessuno osava mettere in dubbio la mitica purezza della Resistenza, da un dubbio malinconico: «Non è detto che fossimo santi,/ l'eroismo non è sovrumano…».
Eva Klotz no, non ha dubbi. Per lei tutto il male è sempre stato dalla parte degli italiani, tutto il bene dalla parte dei sudtirolesi. Demoni contro angeli. Certo, non deve essere facile per la figlia del «Martellatore della Val Passiria», cresciuta nel culto di un padre «eroe», scrivere un libro su di lui. Come ha fatto con Georg Klotz. Una vita per l'unità del Tirolo, pubblicato dalla Effekt! Buch. Per Eva il tempo si è fermato quel giorno in cui, nell'estate del ‘61, dopo la «notte dei fuochi» della domenica del Sacro Cuore in cui i dinamitardi sudtirolesi avevano fatto saltare 37 tralicci mettendo fuori uso otto centrali elettriche e sette dei nove elettrodotti, un brigadiere dei carabinieri sorprese Georg, che in famiglia chiamavano Jörg, mentre rientrava dopo una giornata passata a falciare i campi. E prima che avesse il tempo di scappare lo bloccò puntandogli la pistola alla nuca: «Lo portò in casa. Per noi bambini e per la mamma fu una scena terribile. Eravamo impietriti! Jörg era pallido come un cencio e non diceva nulla. "Lei verrà ora con me, Klotz", disse il brigadiere in italiano».
Riuscì a scappare, quel giorno, il fabbro di Walten in alta Val Passiria. Grazie alla furbizia della moglie Rosa, che pretese brusca che il marito, prima d'esser portato via per l'interrogatorio, l'aiutasse a sistemare un mobile in un'altra stanza. E grazie alla buonafede di quel carabiniere, che non doveva poi essere così crudele e sanguinario per farsi uccellare così.
Cominciava così la latitanza di quello che forse fu il più noto dei «terroristi sudtirolesi». Una quindicina di anni di fughe, attentati, marce forzate per boschi e montagne, fugaci appuntamenti clandestini con Rosa e i figli, polemiche a distanza con quelli che pensavano fosse meglio stare alla larga dalla violenza e trattare, sia pure aspramente, con le autorità italiane. A partire da Silvius Magnago, al quale la «pasionaria» sudtirolese, entrata in Consiglio provinciale come indipendente 37 anni fa con la Svp e oggi alla testa di un movimento più radicale, rimprovera di avere detto: «Se sapessi chi è coinvolto negli attentati, lo denuncerei, anche se si trattasse del mio stesso fratello».
Fu una guerra sporca, quella che sconvolse l'Alto Adige negli anni Sessanta e proseguì con attentati sporadici fino alla fine degli anni Ottanta. E ripercorrere la vita di Klotz aiuta a capire come fu vissuta dall'«altra» parte. Per uno scherzo del destino, Georg nacque esattamente il giorno dopo gli accordi di Saint-Germain del settembre 1919 che, in seguito alla guerra perduta dall'Austria, avevano assegnato l'Alto Adige all'Italia, e fu investito in pieno, fin da piccolo, dalle prepotenze del fascismo. Il quale si spinse a chiudere le scuole tedesche, imporre toponimi italiani per località da secoli e secoli tedesche (tipo Hühnerspiel: Cima Gallina), cambiare talora i nomi dei morti sulla lapidi (Josef Brunner diventava Giuseppe Fontana…) fino a spingere tantissimi sudtirolesi, con le «opzioni» del 1939, nell'abbraccio hitleriano.
Una scelta sventurata. Contro la quale inutilmente si batté il prelato Michael Gamper, convinto che il nazismo fosse il demonio e che comunque i sudtirolesi dovessero restare sulla loro terra. Tutta la famiglia Klotz scelse il Terzo Reich. Georg si arruolò nella Wehrmacht, finì nella Mosella, poi in Danimarca, in Norvegia e in Finlandia, dove non pare avvertisse la contraddizione — a leggere la figlia — tra il rifiuto d'esser occupato nella terra sua e l'occupare le terre altrui.
Al ritorno a casa dopo la guerra, la conferma della sovranità italiana e il prosieguo dell'italianizzazione del Sud Tirolo, con la distribuzione dei posti pubblici e delle case popolari soprattutto agli immigrati dalla Penisola, gli furono insopportabili. Così come la scelta di Magnago e della Svp di trattare su una larga autonomia, scartando l'ipotesi di scatenare la guerriglia trasformando le valli altoatesine in una specie d'Irlanda del Nord.
Imbevuto di venerazione per il patriota tirolese Andreas Hofer e insieme di disprezzo per le genti italiche (Eva scrive che, quando nel 1943 gli fu ordinato di addestrare una brigata italiana di repubblichini, il bravo papà in divisa hitleriana «non nascose ai superiori le sue idee sulla scarsa affidabilità degli italiani»), Georg si convinse che fosse inutile trattare. Meglio la violenza. Sia pure senza gli eccessi sanguinari dei più fanatici «patrioti» sudtirolesi, spesso rimasti nazisti e autori di stragi ed esecuzioni sommarie.
Glielo riconobbero allora anche gli esperti di terrorismo altoatesino come Gianni Roghi. Il quale raccontò su «L'Europeo» come «il Martellatore» fosse riuscito a scampare miracolosamente alle pistolettate di un giuda tirolese infiltrato dai nostri «servizi», Christian Kerbler, che aveva ucciso nel sonno il suo amico Luis Amplatz, e come si fosse messo in salvo dopo una marcia pazzesca a piedi nudi, ferito, attraverso i passi montani ripercorsi tanti anni dopo dalla figlia. E scrisse: «Klotz non ha ucciso nessuno, non ha sparato a freddo a nessuno, mi ha dichiarato che non ne sarebbe capace: si è accanito sui tralicci, è indubbiamente riuscito ad agitare la questione politica che gli stava a cuore».
È utile, leggere il libro della Klotz. Aiuta a capire gli errori degli italiani, a riflettere sull'uso inaccettabile delle torture, a vedere le cose con gli occhi di un «nemico». Ma proprio perché l'Italia ormai da tanti anni, fin dai tempi dei reportage come quello citato, ha imparato a riconoscere le proprie responsabilità fino a dare al Sud Tirolo un'autonomia opulenta che non ha eguali, colpisce come Eva Klotz trasudi ancora un rancore calloso e insanabile. Lei dirà sorridendo, bella, bionda e merlettata, che no, non è vero, ci mancherebbe, una cristiana come lei! Ma c'è un dettaglio che dice tutto, nel libro. In 360 pagine c'è ampio spazio per la morte dei «patrioti» altoatesini, uno a uno ricordati e pianti, nessuno per i morti italiani. Non uno di tutti i poliziotti, i finanzieri, i carabinieri, i cittadini uccisi viene ricordato. Dal cantoniere Giovanni Postal al finanziere Bruno Bolognesi all'alpino Armando Piva… Neppure uno. Come se la loro morte, anche mezzo secolo dopo, fosse solo un dettaglio secondario nell'agiografia del Santo Martellatore.

Repubblica 22.11.12
Unioni finite, figli contesi, parità tra i sessi

Così le riforme che dovevano cambiare il volto sociale dell’Italia sono diventate promesse mancate
La famiglia fuori legge. Quando a casa il diritto può attendere
di Maria Novella De Luca


SONO leggi che parlano di figli, di famiglia, di sentimenti, di parità tra i sessi, di cittadinanza. Di amori che finiscono e di nuovi matrimoni, di bambini contesi, di ragazzi “2G” italiani ma non italiani, di omosessualità. Riforme che toccano corde profonde, delicate, e finiscono invece legislatura dopo legislatura nel dimenticatoio della politica, nei cassetti delle commissioni parlamentari, nell’oblio dei provvedimenti “mai calendarizzati”. Dalla possibilità di dare ai figli il cognome della madre al divorzio breve, dall’omofobia di nuovo affossata pochi giorni fa da Lega, Pdl e Udc alla riforma dell’affido condiviso, dalla cittadinanza per i bambini immigrati al tribunale unico per la famiglia, anche la stagione del governo dei tecnici, con un Parlamento in tregua armata, si chiuderà senza che nessuna di queste leggi venga approvata. È il diritto di famiglia ad uscirne a pezzi, sepolto dalle urgenze economiche, da veti etici e religiosi, e forse dal disinteresse. Eppure sono leggi che riguardano milioni di persone, in gran parte bambini, e spesso servono a ratificare cambiamenti già presenti e profondi nella società e quasi in tutto il resto d’Europa.

Con lo scioglimento delle Camere alle porte, l’ultima legge che rischia l’oblio è quella — attesissima — sull’equiparazione dei figli naturali a quelli legittimi. Dice in sostanza e con parole scarne che i “figli sono tutti uguali”, nati o meno all’interno di un matrimonio. E tutti (i figli) hanno diritto ad avere le stesse relazioni di parentela, gli stessi diritti patrimoniali, mentre oggi i bambini nati da unioni more uxorio non hanno, per la legge, né nonni né zii e possono ereditare soltanto dai genitori. La legge potrebbe cambiare la vita di oltre un milione di coppie di fatto, nell’80 per cento dei casi già famiglie, ma la discussione in aula, prevista all’inizio di novembre, è slittata ancora e calendarizzata, in extremis, dal presidente Fini soltanto il 26 novembre prossimo. Ma è davvero una corsa contro il tempo, perché basterà la presentazione di un solo emendamento perché il testo debba tornare al Senato.
È netta e decisa Alessandra Mussolini, presidente della commissione Infanzia della Camera. «La legge deve essere votata così com’è, altrimenti chiunque ne proporrà una modifica si assumerà poi la responsabilità di vederla affossata e magari dimenticata nel passaggio della legislatura. La verità è che queste norme importanti, delicate, hanno una vita difficilissima in Parlamento, perché del caos totale in cui si trovano migliaia di bambini italiani non importa nulla a nessuno». L’accordo non è affatto scontato: nel passaggio al Senato, al testo licenziato dalla Camera sono stati aggiunti due articoli. Sensibili. Difficili. Il primo riguarda la possibilità di “legittimare” i bambini nati da un rapporto incestuoso, e il secondo prevede che tutte le contese che riguardano i “figli naturali” siano gestite, come nel caso dei figli legittimi, dal tribunale ordinario e non da quello dei minori.
Buona parte di queste leggi scomparse hanno avuto il loro primo iter, quasi sempre una lunga gestazione, nella commissione Giustizia della Camera, presieduta dal 2008 da Giulia Bongiorno, avvocato, deputata di Futuro e Libertà, e dal gennaio 2011 anche madre di Ian, bimbo atteso e desiderato. Dal divorzio breve al diritto per le donne di mettere il proprio cognome ai figli, fino alla durissima battaglia per approvare un testo contro l’omofobia, Giulia Bongiorno ha visto non pochi di questi progetti e disegni di legge scomparire nelle nebbie dei lavori parlamentari. «Forse quella che mi brucia di più riguarda il diritto del cognome materno, che io stessa avevo presentato. Una maggioranza tutta maschile e in nome del maschilismo ha votato contro, l’ha bocciata e fatta arenare in commissione. E visto che in Parlamento i maschi sono numericamente più forti delle donne, la legge si è fermata e ad oggi la considero perduta».
Diverso invece il caso del divorzio breve, la cui riforma prevede, semplicemente, che i tempi di separazione passino da tre anni a due in presenza di figli minori, e ad un anno per le coppie senza figli. Un cambiamento invocato da milioni di italiani: sono 800 mila le coppie in attesa di divorzio, a 25 anni dall’ultima riforma della legge che nel 1987 accorciò la separazione da cinque a tre anni. Da quasi un mese i radicali della Lid, Lega italiana per il divorzio breve, digiunano perché la discussione del testo (faticosamente messo a punto dalla commissione Giustizia della Camera, relatore Maurizio Paniz del Pdl) calendarizzato a giugno e poi “espulso” dai lavori parlamentari, venga rimessa all’ordine del giorno prima della fine della legislatura. Ma oggi come ieri un patto di ferro tra gerarchie ecclesiastiche e spezzoni del centrodestra cerca in tutti i modi di fermare il cammino del testo. «Sembra che siano arrivate pressioni dal Vaticano — ammette Bongiorno — per impedire la discussione in aula». Una discussione che avrebbe potuto davvero, questa volta, portare alla modifica della legge del 1970, visto l’accordo trovato in commissione.
L’elenco non finisce qui. E racconta di un’Italia che torna indietro, che arretra sui diritti civili, che si rifiuta di varare per quattro volte di seguito sanzioni sull’omofobia (cioè razzismo e aggressioni contro le persone omosessuali), mentre in tutta Europa si discute di unioni civili, di nozze e di adozioni gay. «Sono quattro volte che quel testo torna in commissione: una follia. E qui non si parla di matrimoni omosessuali, ma semplicemente dell’estensione della legge Mancino anche ad atti di odio per discriminazione sessuale. La verità — conclude Giulia Bongiorno — è che ci sono molti politici che hanno paura di votare un testo per difendere i diritti delle persone gay. E per bocciarlo, visto che si vergognano della loro arretratezza, non hanno il coraggio
di dire che non vogliono una legge contro l’omofobia, e accampano cavilli di ogni tipo...».
Ma forse la legge “non nata” che più peserà sia sul governo dei tecnici che su buona parte del centrosinistra è la mancata approvazione della cittadinanza per i bambini immigrati nati in Italia. Quasi un milione di ragazzi 2G, seconda generazione, italiani in tutto, se non per le origini. È il tanto discusso e ormai irrinunciabile (parole di Fini, e soprattutto del ministro Riccardi) Ius soli, cioè diritto di nascita, o Ius culturae, come lo ha ribattezzato lo stesso ministro Riccardi soltanto due giorni fa, ammettendo però di essere deluso. «Il governo tecnico non aveva nel programma la cittadinanza dei minori stranieri, tema che spetta al Parlamento e sul quale non c’è né armonia né condivisione. Però tra le forze politiche si era formata una maggioranza che sosteneva i diritti dei bambini immigrati, ma questa maggioranza — precisa con amarezza il ministro — non se l’è sentita di andare fino in fondo. E per me tutto ciò è motivo di rammarico, la sensazione di quanto la politica spesso sia chiusa nel Palazzo e lontana dai problemi della gente».
Persone. Coppie. Famiglie. Singoli. Gay. Che chiedono diritti e libertà. Di amarsi, e, se il matrimonio si rompe, di non dover aspettare cinque anni anche se il divorzio è consensuale. Genitori more uxorio che vedono i loro figli ritenuti di serie B da una giurisprudenza arcaica e vetusta. Chissà. Nell’Italia dei pochi figli e sempre più unici, un milione e ottocentomila bambini, ha detto l’Istat nella giornata mondiale dell’infanzia, vivono in “povertà relativa”. Ossia in quella soglia minima di scuola-sanitàalimentazione che da un giorno all’altro potrebbe precipitare nella povertà assoluta. Ma tra le leggi mai nate c’è anche quel piano nazionale sull’infanzia che da tempo molti (molte) parlamentari chiedono di inserire nella legge di stabilità. Stanziare risorse, aiuti, sostegni. Quest’anno il piano non c’è. Ma non è stato espulso né calendarizzato. Non è stato proprio previsto né pensato.

Repubblica 22.11.12
Perché la politica non riconosce quel che esiste già
di Chiara Saraceno


Non c’è forza politica che non sostenga di voler «difendere la famiglia ». Peccato che questo voglia per lo più dire non modificare per nulla la legislazione al fine di ampliare i gradi di libertà nelle scelte individuali e riconoscere i rapporti famigliari — di mutua solidarietà e affetto — effettivi.
Siamo ancora all’anno zero per quanto riguarda il riconoscimento delle coppie omosessuali ed anche di quelle eterosessuali di fatto. Chi vuole divorziare, continua a dover passare per la “pausa di riflessione”, di ben tre anni, che il nostro paterno legislatore continua a ritenere necessaria a noi sventati cittadini che altrimenti divorzieremmo con troppa disinvoltura e senza riflettere. Pazienza se in quei tre anni si creano nuovi legami d’amore da cui nascono figli, destinati ad essere solo “naturali” fino a quando i genitori non potranno legalizzare il loro rapporto. E pazienza se l’impossibilità a sciogliere definitivamente il matrimonio non facilita alla (ex) coppia e soprattutto ai figli, se ci sono, il processo di elaborazione della separazione e di ridefinizione di rapporti e responsabilità.
Persino su una questione che apparentemente trova l’accordo di tutti, la completa equiparazione di figli naturali e legittimi, il parlamento fatica a trovare il tempo e la voglia di sciogliere i dissensi rimasti. I figli naturali, che sono ormai un quarto dei nuovi nati ogni anno, continuano ad avere diritti e persino una parentela legale più ridotti dei figli legittimi.
Nel campo delle norme che regolano la famiglia, la sessualità e la riproduzione, l’Italia ha una delle legislazioni tra le più restrittive tra i Paesi democratici sviluppati. Dopo la stagione di parziale apertura e di importanti riforme degli anni Settanta, che videro la riforma del diritto di famiglia, la liberalizzazione della contraccezione e la legalizzazione dell’aborto, nulla è sostanzialmente più cambiato, salvo, talvolta, in direzione di ulteriori restrizioni. Si pensi alla legge 40 sulla riproduzione assistita, che solo l’intervento dei tribunali è riuscito a correggere nelle parti più invasive della libertà e della salute delle donne e dei nascituri. Certo, in questa resistenza del legislatore italiano a cambiare le norme, per tener conto dei mutamenti culturali e delle nuove consapevolezze di soggetti prima tacitati (le donne, gli omosessuali), conta la forte presenza e pressione della Chiesa cattolica, ben più chiusa di quelle protestanti su questi temi. Ma il problema vero è sempre la scarsa laicità dei nostri governanti e della cultura di cui sono impregnati, unita agli scambi più o meno taciti tra diritti dei cittadini e sostegno della gerarchia cattolica alla propria parte politica effettuati dai più cinici tra loro. La stagione berlusconiana e leghista è stata un esempio estremo di questo scambio, ma non l’unico.
Il risultato solo apparentemente paradossale è che il Paese dove, in nome della difesa della famiglia, non si riconoscono molte famiglie concretamente esistenti e non si rispetta la capacità dei cittadini di decidere su di sé, è tra quelli con le politiche per le famiglie più deboli e più vulnerabili ogni volta che si presenta la necessità di effettuare qualche taglio di spesa. Ci si aspetta che la solidarietà famigliare «faccia fronte»; che i genitori continuino a mantenere i figli a lungo in un contesto di disoccupazione giovanile diffusa; che le nonne, occupandosi dei nipoti, aiutino figlie e nuore a stare nel mercato del lavoro (sempre che non vengano licenziate perché donne e perché madri); che figlie e nuore si prendano cura degli anziani fragili con o senza l’aiuto di una badante. Forse non ci sono solo scelte valoriali dietro la resistenza dei legislatori ad allargare i gradi di libertà nelle scelte famigliari. Ci sono anche ragioni utilitaristiche. Solo a relazioni famigliari rigidamente definite e normate si possono imporre di fatto, e in parte anche per legge, solidarietà obbligate così pesanti e pervasive. Peggio per chi non può ricorrervi. Anzi, servirà da monito per chi pretende di avere più libertà.