venerdì 23 novembre 2012

l’Unità 23.11.12
Oltre un milione di iscritti per domenica
Appello di costituzionalisti a favore di Bersani
di Giuseppe Vettori


ROMA Oltre un milione le persone sono già iscritte per votare domenica alle primarie del centrosinistra. Un numero che raccoglie sia le registrazioni on line, sia le vere e proprie iscrizioni nei gazebo e nelle sedi, diventate uffici elettorali.
Mancano due giorni e siamo allo sprint finale: i cinque candidati corrono per l’Italia e si moltiplicano gli appelli al voto. In sostegno di Pier Luigi Bersani come candidato premier del centrosinistra si schierano autorevoli costituzionalisti, che hanno firmato un appello: «Ristabilire un rapporto di fiducia nelle istituzioni pubbliche», rafforzandone «la capacità di governo e l’autonomia dal potere economico e da quello dei mezzi di comunicazione». Non è solo una «questione di democrazia» prosegue il documento «ma il presupposto per affrontare con successo la crisi economica e sociale, e per superare le disuguaglianze sempre più marcate che si sono venute consolidando».
Nell’appello si sottolinea come Bersani abbia «fatto proprie» alcune imprescindibili premesse per avviare un dialogo su un processo di riforme, costituzionali e legislative: il rilancio dell’impianto della Costituzione vigente, il principio della separazione dei poteri, il riconoscimento e la promozione delle autonomie locali, l’ordinamento parlamentare, il rilancio del ruolo e del radicamento dei partiti politici e la difesa dell’articolo 138 come unico procedimento per modificare la Costituzione».
L’appello è firmato da Mario Dogliani, Andrea Giorgis, Umberto Allegretti, Vittorio Angiolini, Enzo Balboni, Sergio Bartole, Paolo Caretti, Massimo Carli, Enzo Cheli, Stefano M. Cicconetti, Marilisa D’Amico, Gianmario Demuro, Maria Cristina Grisolia, Enrico Grosso, Massimo Oliviero, Cesare Pinelli, Saverio Regasto, Paolo Ridola, Antonio Saitta, Massimo Siclari, Luigi Ventura.
(...)

l’Unità 23.11.12
Con Bersani per l’Italia dell’innovazione
di Stella Bianchi
, Responsabile ambiente Pd e Fabrizio Vigni, Presidente ecologisti democratici

CI VUOLE UNA GUIDA SOLIDA E COMPETENTE PER IL PAESE. UNA PERSONA AUTOREVOLE, di grande apertura ed esperienza che abbia chiaro il senso di marcia e sappia dire a chi cerca un lavoro in quale direzione vuole portare l’Italia: innovazione, agenda digitale, efficienza energetica, ambiente per qualificare la produzione. Possiamo uscire dalla crisi solo percorrendo strade nuove, unendo la lotta ai cambiamenti climatici alla creazione di lavoro, allo sviluppo sostenibile, alla giustizia sociale, all’eguaglianza delle opportunità. Per questo sosteniamo Pier Luigi Bersani nelle prossime primarie per scegliere il candidato premier per il centrosinistra.
Insieme a noi, tra gli altri, i capigruppo delle commissioni parlamentari ambiente e attività produttive Raffaella Mariani, Andrea Lulli e Filippo Bubbico con i colleghi Bratti, Braga, Cenni, Margiotta e assessori regionali come Giancarlo Muzzarelli (attività produttive ed economia verde in Emilia Romagna), Anna Rita Bramerini (ambiente ed energia in Toscana), i liguri Renzo Guccinelli e Pippo Rossetti (sviluppo economico; bilancio e formazione professionale), Fernanda Cecchini (agricoltura e parchi in Umbria), il direttore di Aster Emilia Romagna Paolo Bonaretti, la neo rieletta consigliera regionale siciliana Concetta Raia, esperti come Gianni Silvestrini e Daniele Fortini insieme a numerosi altri amministratori locali, esponenti del mondo ambientalista, persone impegnate nell’unire rispetto dell'ambiente e sviluppo economico.
Ci vuole un nuovo modo di produrre e consumare, nuove forme di energia, uso efficiente delle risorse, recupero di materia. Una scelta chiara per l’economia verde per rafforzare la nostra vocazione naturale, dal nord al sud del Paese, in un quadro europeo di investimenti, dall’energia del futuro al recupero di materia, dalla chimica all’edilizia, dalla mobilità sostenibile all’agricoltura, dalle città «intelligenti» ai parchi.
È così che l’Italia torna a fare l’Italia, forte della sua industria manifatturiera, la sua bellezza, la cultura, la scelta della qualità e della tipicità. Siamo convinti che Pier Luigi Bersani abbia tutte le qualità per lavorare con efficacia in questa direzione, nella definizione di politiche industriali integralmente ecologiche, come proposto nella carta di intenti, e nella centralità dei beni comuni, primo fra tutti il territorio che va messo in sicurezza anche fermando il consumo del suolo e dicendo no a ogni condono. Il rispetto dell’ambiente come chiave di sviluppo, la riconversione in chiave ecologica dell’economia sono una priorità da affrontare con competenza.

La Stampa 23.11.12
Bersani cerca di vincere subito
Il leader, vicino alla soglia del 50%, spera di non andare al ballottaggio
Già un milione di iscritti ai gazebo
di Carlo Bertini

qui

Corriere 23.11.12
Legge elettorale, Bersani ottimista «Si può arrivare a una soluzione»


«Non dico che sono ottimista ma credo sia possibile arrivare a una soluzione in queste settimane». Lo ha detto ieri al Tg3 Pier Luigi Bersani parlando della riforma della legge elettorale. Il segretario del Pd ha ribadito la disponibilità dei democratici a lavorare per un'intesa: «Pensi un po' che disponibilità che abbiamo: pur di togliere il Porcellum discutiamo perfino di proposte che hanno quel protagonista...». Il «protagonista» in questione sarebbe Roberto Calderoli, autore del Porcellum e della proposta sul premio di maggioranza a scaglioni su cui Pd e Pdl sembrano vicini a un accordo. Ma, avverte Bersani, «con delle correzioni: la sera delle elezioni il mondo deve sapere che qualcuno è in grado di organizzare un governo». Poi ha aggiunto: «Chi pensa che da una situazione frammentata venga fuori un Monti bis non fa i conti né con la politica né con la matematica». L'esame della riforma elettorale riprenderà in commissione Affari costituzionali al Senato lunedì. Mercoledì il testo base approderà in Aula dove, secondo gli auspici del presidente Schifani, dovrebbe essere votato entro la fine della prossima settimana

il Fatto 23.11.12
“Se perdo, porterò i miei amici in Parlamento”
Primarie all’ultimo miglio: Renzi scivola in un fuorionda
Bersani spera nella vittoria al primo turno
di Wanda Marra


Se perdo porterò un po’ di amici miei in Parlamento, cercherò di avere dello spazio. Mica mi faccio comprare, non voglio diventare come loro”. Sulla classica buccia di banana Matteo Renzi ci scivola durante un Fuorionda a Radio 105 (che poi era un fuorionda registrato). E per la prima volta mette insieme il concetto di “amici” e “Parlamento”. Sorridono tra il divertito e l’irritato gli uomini di Bersani, che si vedono arrivare sul tavolo l’agenzia. Approfittano subito per fare dell’ironia Bindi e Fioroni, i primi minacciati ad essere mandati in soffitta dal Sindaco: “Ecco come rottamerà”, ma “le liste le fa il partito”. Nel clima convulso, surriscaldato da vigilia delle primarie, ognuno dei due candidati ha i suoi problemi da affrontare. Renzi, che è indietro in tutti i sondaggi, ieri si becca anche un esposto al comitato dei garanti da parte del comitato Bersani di Bologna. Che lo accusa di aver mandato in onda sull’emittente locale E tv uno spot a pagamento. Cosa vietata dal Regolamento. “Quale spot? - dice lui - era un documentario”. Reggi ammette che il filmato è andato in onda su più emittenti. Ma gratuitamente, dice. In realtà erano venti minuti del film sulla campagna in camper girato da Fausto Brizzi. Il direttore di E tv smentisce: “Lo spazio televisivo non è stato acquistato da alcuna società, ma fornito direttamente da E'Tv”. A metterci una pezza Reggi ci prova pure sulla questione amici in Parlamento: “Renzi ha anche detto che farà le primarie tra i candidati. Anche se è ovvio che noi che siamo suoi amici avremo più possibiltà”. E così la questione “composizione delle liste” entra per la prima volta nei discorsi dei renziani.
INTANTO Bersani si trova tra capo e collo l’ultima uscita di Napolitano, e le ombre del Monti - bis, che potrebbero vanificare il tutto. “Monti? Avrà un posto di grande rilievo”, dice. E pure lui tira dentro le tematiche tipiche da battaglia del Pd: “Se Renzi non vince le primarie immagino che continuerebbe a fare il sindaco. Dopodichè l’anno prossimo c'è il congresso... ”. Poi, “per dovere d’ufficio”: “Se dovessi uscire tra lui e Vendola al secondo turno voterei lui”.
Ancora, Renzi parla di eventuale sconfitta nella sua neswletter, E-news: “In teoria non c'è partita. Pensate ai parlamentari: con noi stanno in meno di 15 parlamentari del Pd su oltre 300, mentre il 95% dei parlamentari sta con Bersani. Poco diversa è la percentuale del gruppo dirigente".
Ha un bel incitare al tam tam telefonico, ma mette ampiamente le mani avanti.
I sondaggi d’altra parte sono sempre più favorevoli. D’Ali-monte ieri sul Sole 24ore scriveva che Bersani è in vantaggio (anche se lo sfidante avrebbe più possibilità di vincere le elezioni) con il 48% delle preferenze, contro il 38 di Renzi. Poi, ci sono gli indecisi (il 7). Stesso trend per la rilevazione Ipsos: 46 a 32. La vittoria al primo turno sembra a un passo. In effetti, tutti i sondaggi (che peraltro registrano una crescente motivazione ad andare a votare) hanno un’alta percentuale di indecisi: che se divisi tra gli sfidanti possono portare il segretario alla vittoria. Fatta salva l’imponderabilità di un’affluenza veramente alta. I registrati sono un milione. I bersaniani dicono che a votare saranno 3 milioni, i bersaniani 4. Al secondo turno potrebbe cambiare tutto, ma i bersaniani si appellano preventivamente al regolamento: “Il bacino è quello, è blindato. E i voti della Puppato e di Vendola non vanno certo a Renzi”. Proprio il regolamento è in via di semplificazione costante. Il Comitato per le primarie, una sorta di ministero dell’Interno che ha messo in piedi una macchina da 9100 seggi, 9000 uffici elettorali, 100mila volontari, più scrutatori, rappresentanti di lista, presidenti di seggio ieri ha diffuso una circolare “Taglia - file”, come la definisce Paganelli. In pratica si chiede di distribuire ai cittadini in fila il modulo di registrazione, insieme all’Appello pubblico e alla liberatoria per i dati della privacy, in modo che, mentre aspettano, possano intanto compilare e firmare questi documenti. In origine ci volevano quattro firme. Ha giocato di certo la paura che alla fine a presentarsi siano talmente tanti e la procedura di registrazione così farraginosa da far esplodere il caos. D’altra parte anche le primarie di Prodi e quelle di Veltroni fecero registrare file lunghissime e tempi sforati. Per ora di certo, assicurano che voterà chi è in fila: ma in una fila quanto lunga?

Corriere 23.11.12
Legge elettorale, Bersani ottimista «Si può arrivare a una soluzione»


«Non dico che sono ottimista ma credo sia possibile arrivare a una soluzione in queste settimane». Lo ha detto ieri al Tg3 Pier Luigi Bersani parlando della riforma della legge elettorale. Il segretario del Pd ha ribadito la disponibilità dei democratici a lavorare per un'intesa: «Pensi un po' che disponibilità che abbiamo: pur di togliere il Porcellum discutiamo perfino di proposte che hanno quel protagonista...». Il «protagonista» in questione sarebbe Roberto Calderoli, autore del Porcellum e della proposta sul premio di maggioranza a scaglioni su cui Pd e Pdl sembrano vicini a un accordo. Ma, avverte Bersani, «con delle correzioni: la sera delle elezioni il mondo deve sapere che qualcuno è in grado di organizzare un governo». Poi ha aggiunto: «Chi pensa che da una situazione frammentata venga fuori un Monti bis non fa i conti né con la politica né con la matematica». L'esame della riforma elettorale riprenderà in commissione Affari costituzionali al Senato lunedì. Mercoledì il testo base approderà in Aula dove, secondo gli auspici del presidente Schifani, dovrebbe essere votato entro la fine della prossima settimana

l’Unità 23.11.12
Produttività, il patto «storico» è già zoppo
Dopo la firma dell’intesa tutti tirano per la giacca il sindacato di Susana Camusso
Napolitano: «Importante che non manchi il contributo Cgil»
Bersani: «Negoziare ancora»
di Bianca Di Giovanni


ROMA Dopo la nottata di conferenze stampa separate, sulla produttività si scatena il dibattito politico, che lascia intendere in filigrana tutte le trame che si nascondono dietro l’intesa separata. Dal mondo delle imprese, invece, traspare preoccupazione. «L'accordo è un passo fatto, ma se la Cgil non entra, il rischio è che l'intesa venga applicata a macchia di leopardo e perda tutta la sua forza intrinseca. Il rischio è che sia insomma un passo zoppo», dichiara la presidente degli industriali torinesi Licia Mattioli. Per Alberto Bombassei il patto «è al di sotto delle aspettative».
Sopra le parti si staglia il presidente Giorgio Napolitano. «È un fatto importante dichiara e mi pare di capire che la porta è sempre aperta. Ci possono essere, e io mi auguro che accada, degli avvicinamenti, perché è importante che non manchi il contributo della Cgil». Sul ring della politica tutti tirano per la giacchetta l’unico sindacato che si è astenuto dalla firma. Il Pd, messo sotto tensione dalla scelta di Susanna Camusso, traccia una linea con Pier Luigi Bersani. «È stato fatto un passo, ma è necessario discutere ancora per raggiungere un'intesa più completa, l'anno prossimo», dichiara il segretario. Insomma, ci sono alcuni punti che vanno chiariti. «Bisogna che si parli di investimenti veri in innovazione, e questo è da verificare spiega il leader Pd e che ci sia un modello di rappresentanza dei lavoratori che possa vedere una loro partecipazione nelle scelte aziendali». Il partito si allinea. Da Stefano Fassina, che riconosce il passo avanti, ma spera in una «coerente applicazione del Protocollo del 28 giugno», fino a Sergio D’Antoni che parla di «accordo importante» e invita la Cgil a riflettere. «Finora il potere d’acquisto non è stato affatto difeso osserva l’ex leader Cisl oggi parlamentare Pd c’era qualcosa che non andava. Questo è un modo per rafforzare il potere d’acquisto».
Lo stesso rammarico per il no della Cgil arriva dalla ministra del Lavoro Elsa Fornero, mentre dal fronte del centrodestra si ricalcano i soliti slogan, sui sindacati che farebbero politica, e che esercitano potere di veto. Ma a fare politica, e tanta in questa vicenda, è il centro, anzi il «nuovo» centro, quello targato Montezemolo che sostiene il montismo. Lo si capisce dalla sottile irritazione che trapela dalle dichiarazioni dell’Udc, partito in «concorrenza» al centro. L'accordo sulla produttività è «un primo segnale importante di fiducia che viene dato alle imprese, ai lavoratori, al mercato che innova il mondo del lavoro e lo rende meno ideologizzato dichiara Pier Ferdinando Casini Non siamo tra coloro che non si rammaricano per la mancata firma della Cgil perché è miope sogghignare soddisfatti per la divisione del mondo della rappresentanza dei lavoratori». Una frase che non lascia spazio a molti dubbi, e che lancia una luce inquietante sulla sera dell’intesa. Fonti vicine alla trattativa parlano di un imbarazzato siparietto tra Monti e Camusso sull’opportunità di tenere una conferenza stampa insieme. E anche della decisione della Uil di declinare l’invito, dopo aver fiutato il rischio di un’operazione politica pro-Monti. Solo dietrologie?
IL SOSPETTO
Certo il partito di Casini ha esercitato un pressing senza precedenti per evitare la firma separata, che ha «regalato» fiato all’ipotesi Monti-bis. Corrado Passera si dichiara «molto dispiaciuto» del no della Cgil. Ma poi va all’affondo. «L' unità del sindacato non deve essere un valore tale da porre diritti di veto che non sono giustificabili», dichiara.
Intanto in casa Cgil si ripetono tutti i punti oscuri dell’intesa. In primo luogo, la platea a cui si riferiscono le risorse messe in campo, cioè quei 2,1 miliardi che Passera vorrebbe anche aumentare. Andranno ai 14 milioni di dipendenti privati, ai due milioni che hanno un contratto di secondo livello, ai 18 milioni che includono anche i pubblici? E ancora: con quali criteri verranno distribuiti? Il primo che arriva prende tutto? Infine, se come pare i pubblici sono esclusi, si provocherà un’altra divisione tra i due comparti. Oggi i dipendenti dello stato pagano il contributo di solidarietà (sospeso solo dopo due anni dalla Corte costituzionale) e hanno il blocco contrattuale. E da oggi in poi è possibile che non abbiano neanche lo sgravio per la produttività. Per la Cgil il comparto pubblico è una priorità. È di ieri l’allarme sui 230mila precari in scadenza, di cui 130mila a fine anno e 70mila a fine anno scolastico nella scuola. Il punto più debole riguarda la sanità, con 40mila posizioni che potrebbero essere cancellate. Altro che produttività.

La Stampa 23.11.12
La Cgil
E Camusso insiste “Così si abbassano i salari e la recessione peggiorerà”
Cresce il dissenso verso riforme e politiche economiche dell’esecutivo dei tecnici
di R. Gi.


Non è che sia ormai una grande novità, per la Cgil, trovarsi tagliata fuori da un accordo firmato da tutte le altre organizzazioni sindacali e d’impresa. Quella che un tempo veniva chiamata (per il suo potere e per la sua potenza monolitica) la «Triplice» di Cgil-Cisl-Uil, da un bel po’ fa notizia quando firma accordi insieme, non quando si spacca. Adesso è la volta dell’intesa sulla produttività, con una rottura che ieri in Cgil qualcuno sosteneva (molto sotto voce, per non incorrere in guai) che era tranquillamente evitabile.
Evitabile, sì. Anche perché è un fatto che più o meno tutti i protagonisti del negoziato, sia nei sindacati che nelle imprese in camera caritatis e senza mai rilasciare dichiarazioni - ai giornalisti dicono chiaro e tondo una cosa. Ovvero, che questa intesa, festeggiata come una novità storica, è piuttosto «purissima acqua fresca». Roba che verrà ricordata quanto l’allora celebrato «Patto di Natale» firmato ai tempi del governo D’Alema. Zero.
Il giorno dopo la rottura le agenzie di stampa non hanno registrato neanche una dichiarazione del vertice della Cgil, a partire dal segretario generale Susanna Camusso. Che nella serata di mercoledì però aveva bollato il protocollo firmato da tutti gli altri a Palazzo Chigi come «un attacco ai salari» e «un’operazione che aggraverà la recessione». Al di là dei contenuti di merito dell’intesa, in molti valutano che il «niet» del sindacato di Corso d’Italia dipenda molto dall’ormai radicale incomunicabilità instauratasi tra Cgil e il governo di Mario Monti. Dopo una brevissima fase di «ascolto», col passare dei mesi il dissenso Cgil nei confronti delle politiche economiche e delle riforme varate dall’esecutivo dei «tecnici» è cresciuto in modo esponenziale. In più, spiegano nei corridoi di Corso d’Italia, sulla questione della produttività non è andata giù la pressione fortissima e a volte «sgangherata» esercitata dal governo sul negoziato delle parti sociali. Ormai le relazioni con Monti e i suoi ministri sono davvero ai minimi termini. Firmare, sia pure un’intesa di «acqua fresca», era un «regalo» politico a Monti e al «montismo» che la Cgil non aveva proprio voglia di fare.
In casa di Cisl e Uil, tuttavia, ricordano che il testo finale consacrato a Palazzo Chigi in realtà ricalcava esattamente quanto concordato il 17 ottobre scorso dagli «sherpa» di Confindustria e sindacati. Un testo su cui aveva dato il via libera anche il «messo» di Susanna Camusso. Per quale ragione, allora, la marcia indietro della Cgil? «Quella era solo una bozza, un documento di lavoro - ha spiegato mercoledì sera Camusso La mattina dopo abbiamo fatto una valutazione politica più attenta, e quel testo non poteva avere il nostro consenso».
E adesso? «Adesso niente», replicava il leader Cgil. Nel senso che in Corso d’Italia pensano che sarà possibile depotenziare le parti sgradite dell’accordo, bloccando grazie alle regole del 28 giugno 2011 (che fanno pesare il numero degli iscritti) i contratti nazionali e aziendali che conterranno innovazioni non condivise. Come lo spostamento degli aumenti salariali dai contratti nazionali a quelli aziendali, e deroghe esagerate in quelli di secondo livello. Nella maggior parte dei casi, spiegano, è probabile che si procederà unitariamente. E poi il 10 marzo ci saranno le elezioni.

l’Unità 23.11.12
Scuola, effetto firma separata Domani sciopero Cgil e Cobas
Dopo l’incontro con Profumo Cisl, Uil, Gilda non protestano più
Cgil: è il gioco delle tre carte
Pantaleo (Flc): azzerato il fondo per l’offertta formativa, nessuna risposta sui precari
di Luciana Cimino


ROMA L’incontro di ieri fra governo e sindacati di categoria non è servito a fermare lo sciopero della scuola di sabato prossimo. Si sfilano tutti gli altri sindacati, soddisfatti dalle garanzie presentate dall’esecutivo.
Ma non la Cgil che conferma la mobilitazione e cambia solo la piazza: da piazza del Popolo a Piazza Farnese. E con essa scioperano i Cobas, gli studenti, i docenti, i precari. Aderiscono anche Sel e Idv. Soddisfatto dell’incontro si dice il ministro Profumo che parla di fatto «estremamente positivo con la condivisione di un percorso», mentre i sindacati che hanno sospeso la mobilitazione (Cisl, Uil, Snals Confsal e Gilda) spiegano: «avevamo due obiettivi e li abbiamo entrambi conseguiti », ha detto Rino Di Meglio, coordinatore della Gilda, mentre di «soluzione positiva» parla anche Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl, aggiungendo con una frecciata che «il confronto negoziale paga sempre al contrario di chi nel movimento sindacale insegue ancora soluzioni velleitarie o cavalca i movimenti con motivazioni politiche».
CHE DELUSIONE
Ma la FlcCgil di Mimmo Pantaleo tiene il punto. Si dichiara «delusa» dall’incontro. «Ci hanno proposto un atto di indirizzo all’Aran per trovare 480 milioni ma andandoli a prendere dal fondo del Mof (Miglioramento offerta formativa) e dal fondo di istituto ha spiegato il segretario nazionale ma solo per il 2011; poi bisognerà trovare le risorse per il 2012. Così si azzera quasi il Mof e il fondo per la contrattazione decentrata e per il resto restano solo briciole». «Non è una soluzione ribadisce Pantaleo – ma il gioco delle tre carte. L’onere del pagamento si scarica sui lavoratori che dovranno rinunciare a una parte del salario accessorio, quello finalizzato al miglioramento dell’offerta formativa cioè il valore aggiunto alla didattica. Gli scatti verranno pagati dagli stessi lavoratori ma anche dagli studenti che avranno meno offerta formativa».
La Flc – Cgil è insoddisfatta anche sul piano dell’occupazione: «questo ’’impegno’’ del Governo dovrà essere compensato da un aumento della produttività del personale docente e Ata: vale a dire lavorare di più a parità di salario. Il governo tace invece su precariato e piano di stabilizzazioni, tagli agli organici, finanziamenti, docenti inidonei e rinnovo del contratto». Insomma le ragioni lo sciopero rimangono e la Cgil «chiede ai lavoratori e alle lavoratrici, agli studenti e ai cittadini di aderire in massa per difendere la scuola pubblica e la dignità del lavoro». Intanto continuano le iniziative di protesta di insegnanti e studenti nelle scuole. Roma, dopo i fatti del 14 novembre, guida la mobilitazione con almeno 50 scuole “in stato di agitazione”. Ieri un cospicuo gruppo di universitari e studenti medi ha aperto gli ombrelli di fronte all’ingresso del ministero della Giustizia, esponendo un manifesto con la scritta “Piove: governo tecnico” (con il riferimento ai lacrimogeni sparati il 14 novembre). «Il 24 ci ricolleghiamo agli scioperi del 14 dove abbiamo ottenuto repressione ha affermato Gianluca, dell’Uds Abbiamo reagito con l’occupazione di decine di scuole per fare nel concreto quel modello di scuola che vogliamo».
A Roma La Sapienza ha deciso di sospendere la cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico 2012-2013 prevista per stamattina. «Troppa tensione a Roma – scrive in un comunicato l’ateneo Le gravi problematiche economico-finanziarie del Paese, con il disagio di tante famiglie, e lo stato di sofferenza della scuola pubblica stanno facendo salire la tensione con riflessi nella città universitaria. Per senso di responsabilità si soprassiede alla cerimonia». A Palermo altri cortei di studenti anche ieri.
MOBILITAZIONE IN TUTTA ITALIA
Ma in tutta Italia sono decine le scuole occupate. Secondo un sondaggio di Skuola.it la metà degli studenti italiani è coinvolta in occupazioni o autogestioni. In questo contesto ieri Profumo ha mandato una lettera a studenti e insegnanti dissociandosi dall’ex ddl Aprea. « L’attuale governo non ha nulla a che fare con il ddl 953 detto ddl Aprea – scrive il ministro Tale proposta è stata formulata e discussa in piena autonomia dal parlamento. Dunque non c’è alcuna diretta responsabilità del governo, né mia personale». Poi ribadisce la volontà di ascolto del governo alle forme di dissenso che si augura pacifiche.
«Anche dopo i cortei del 5 ottobre il ministro disse che era disponibile a discutere con noi – risponde Luca Spadon, portavoce nazionale di Link (rete di universitari e medi) dopodiché la realtà è diversa». «La legge Aprea non è dipesa da lui ma ha la possibilità di rimetterla in discussione, non vogliamo una lettera ma una presa di posizione chiara sul finanziamento alla scuola e al diritto allo studio».

l’Unità 23.11.12
Femminicidio, in Senato legge Pd
di Virginia Lori


ROMA Più di cento donne uccise dall’inizio dell’anno, due anche ieri, massacrate da uomini che le considerano di loro proprietà, senza riconoscere loro il diritto di dire di no. Domenica è la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne e ieri il Pd ha presentato in Senato una proposta di legge «per la promozione della soggettività femminile e il contrasto al femminicidio».
Prima firmataria la senatrice Pd Anna Serafini, che in una conferenza stampa ha spiegato come il ddl voglia «contrastare la violenza contro le donne e sostenere l’impegno e l’azione di tante associazioni e del Parlamento, che nelle scorse settimane ha portato alla firma della Convenzione di Istanbul». Il disegno di legge «tocca tutti i piani: certamente quello penale ma soprattutto quelli sociali e culturali», con un approccio «integrale e multidisciplinare al fenomeno» che fa riferimento alle più recenti Convenzioni internazionali e le Raccomandazioni del Comitato Cedaw (la Convenzione sull’Eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne).
Per quel che riguarda le norme penali, ha spiegato Serafini «si prevede un’aggravante comune per tutti i delitti contro la persona commessi mediante violenza, realizzati alla presenza di minori» e altre aggravanti per lo stalking (anche da parte del coniuge, anche separato solo di fatto). Pene estese al reato di maltrattamenti nei casi in cui la «persona di famiglia» non sia convivente (come indica la Convenzione). Si prevedono modifiche alla disciplina della violenza sessuale. E sono estese aggravanti «per discriminazione, previ-
ste tra l’altro dalla legge Mancino, anche alle discriminazioni di genere». C’è poi l’aspetto culturale da combattere, come l’uso deformante da parte dei media i termini come «delitto passionale» o «raptus della gelosia» e la rete dei centri antiviolenza.
Parallelamente, martedì è stato depositata una proposta di legge firmata da Giulia Bongiorno, deputata finiana, e Mara Carfagna, ex ministra del Pdl, per la pena dell’ergastolo per femminicidio. Secondo Serafini «l’ergastolo non è la soluzione al problema» perché «non considera che l’omicidio di una donna da parte di un uomo è in continuità con il brodo di coltura della discriminazione».
Elsa Fornero, ministro del Lavoro e delle Pari Opportunità è favorevole all’aggravante per «femminicidio» per i reati contro le donne e annuncia che «la convenzione di Istanbul sarà ratificata entro questa legislatura.
Anna Finocchiaro, capogruppo Pd al Senato, ha sottoscritto il ddl Serafini e si augura che il Parlamento ne inizi presto l’esame: «Il femminicidio, che vede le donne vittime di mariti, compagni, fratelli, amanti ed ex, ha profonde cause culturali che vanno contrastate non solo con il diritto penale, ma attraverso la prevenzione, il sostegno ai centri antiviolenza, la promozione di una cultura del rispetto del corpo femminile, il riconoscimento del reale valore e del ruolo che le donne hanno già assunto nella società. Anche da questo dipende il futuro del nostro Paese».
Bersani sollecita l’approvazione della ratifica della Convenzione di Istanbul entro la fine della legislatura», sulla quale il Pd ha premuto sul governo perché la sottoscrivesse, perché «l’Italia è troppo indietro su questi temi»

Repubblica 23.11.12
Se in tutto il mondo le donne ballano in piazza contro la violenza
Una giornata per dire basta al femminicidio
di Elena Stancanelli


NESSUNA di loro stava tradendo, o raccogliendo le sue cose per andarsene, quando è stata ammazzata. Cento donne inermi, uccise a freddo come farebbe un killer. Invece i loro assassini sono uomini che conoscevano bene. Cento donne diverse, giovanissime, madri, professioniste, migranti, e un’unica responsabi-lità: essere femmina.
Come si può comprendere e quindi combattere un crimine, che si fonda su una motivazione tanto spaventosa, irrazionale, disincarnata? Inaspriremo la pena, faremo del femminicidio un reato che prevede l’ergastolo. Ma questo orrore, questa mostruosa guerra civile, la si combatte soprattutto nella testa delle persone. Cosa dovremmo modificare, perché non si verifichino le circostanze che armano la mano di un uomo? Dovremmo imparare insieme a loro ad uscire da una relazione, così come ci sembra divertente e senza conseguenze entrarci. Quanto coraggio ci vuole a strapparsi via di dosso la persona alla quale hai dato tutta la tua intimità, i giorni, il corpo? Eppure dobbiamo riuscirci, se noi abbiamo prodotto questa serialità sentimentale, e fare in modo che quella disperazione non generi mostri, fantasmi. Un uomo che uccide una donna — la donna con cui un tempo faceva l’amore, figli, sogni — deve averla cancellata, non ricordare più neanche più il suo nome. Deve aver fatto di lei un simbolo, una sagoma di cartone sulla quale sparare per sfogarsi. Contro questa follia, il 25 novembre è stata proclamata la giornata internazionale contro la violenza sulle donne. E per tutta la settimana che segue ci saranno incontri, piazze, spettacoli, grazie alla devozione e la fatica di Snoq (Se non ora quando).
“Ferite a morte” è il titolo dello spettacolo scritto da Serena Dandini, dove le storie di cronaca verranno raccontate da intellettuali e attrici: Paola Cortellesi, Anna Bonaiuto, Concita de Gregorio... E sarà inoltre l’occasione per lanciare un’altra giornata, quella del 14 febbraio 2013. One billion rising: in piedi, e balliamo. L’ha immaginata Eve Ensler, l’autrice dei Monologhi della Vagina, e sarà una festa in tutto il mondo. Un giorno speciale nel quale le donne, e gli uomini, manifesteranno per lo sforzo di capirsi, di mettere da parte paure e reciproche diffidenze, e immaginare un riconoscimento del diritto ad amarsi e lasciarsi, ad essere felici e infelici. E dove tutto questo è ancora lontano a venire, semplicemente a poter essere femmina senza l’incubo dello stupro, la violenza, l’impossibilità di lavorare, camminare per strada da sola, vivere. Molte persone, famose e non, hanno già aderito, e balleranno. Di tutto quanto potrà essere fatto, questo ballo mondiale mi sembra che risponda con più precisione a quell’idea di libertà del corpo, a quella necessità di tornare a guardarsi come persone e non come fantasmi di un’ossessione. Racconta la mitologia che Tiresia, l’indovino, un giorno passeggiando vide due serpenti intrecciati in un amplesso. Ne uccise uno, per sfregio. La femmina. Per punizione fu tramutato all’istante in una donna. Da donna visse e amò per sette anni. Fin quando, incontrando di nuovo due serpenti avvinti in un identico accoppiamento, ne uccise di nuovo uno. Il maschio, stavolta. E per questo tornò a essere un uomo. Qualche tempo dopo Zeus ed Era lo interpellarono, non riuscendo a risolvere una disputa che li divideva: sono gli uomini o le donne a provare più piacere sessuale? Tiresia rispose che se il piacere potesse essere diviso in dieci parti, una sarebbe quella dell’uomo e nove quelle della donna. Era, furibonda, lo accecò: certi segreti non si rivelano. Zeus, per consolarlo, gli donò la facoltà di prevedere il futuro. Qualunque sia la verità, più o meno è questo il campo di battaglia. Quello che non sappiamo le une degli altri, un mistero che talvolta ci sembra sublime, e fa scattare il nostro desiderio, altre orrorifico. Un male dal quale non c’è scampo, se non attraverso la distruzione. Ma seppure il corpo è la contesa, il corpo, ovviamente, è anche il confine invalicabile. Scriveva Walt Whitman “If anything is sacred/the human body is sacred”.

l’Unità 23.11.12
Violenza squadrista
Roma, raid ultras contro «gli ebrei»
Supporter del Tottenham (club della comunità ebraica di Londra) attaccati da 30 persone con spranghe e coltelli
Un ferito grave. Due tifosi romanisti in manette
di Angela Camuso


ROMA Un’orda di barbari. Ultras, laziali e romanisti insieme. Armati di coltelli, bombolette di gas urticante, mazze e tirapugni. Secondi i testimoni urlavano «Via, voi ed ebrei», mentre si scagliavano contro le vittime designate: una decina di tifosi del Tottenham, squadra londinese ospite all’Olimpico.
Era l’una e trenta della notte tra mercoledì e giovedì e i supporter anglosassoni, notoriamente abitanti in una zona limitrofa al quartiere ebraico londinese, bevevano drink e calici di birra nel rinomato locale sempre pieno di turisti stranieri «Drunken Ship», al civico 21 di piazza Campo de’ Fiori, cuore della movida romana e teatro da anni di violenze ed eccessi che nessuna ordinanza comunale e nessun presidio delle forze dell’ordine sono riusciti ancora a debellare. Dieci minuti di guerriglia sono bastati a devastare il locale e spedire in ospedale sette inglesi, uno dei quali in codice rosso anche se non più in pericolo di vita dopo essere stato ferito con un coltello in corrispondenza di una vena tra il gluteo e la gamba.
I proprietari del pub, fondato 15 anni fa da un americana e ora gestito da due fratelli, Marco e Raffaele Manzi insieme al socio Gabriele Cannella, parlano di 20mila euro di danni. I picchiatori, coi volti coperti da sciarpe e caschi, avrebbero prima urlato: «È tutto uno scherzo...», per poi lanciare sgabelli contro le vetrate e sfondare l’ingresso secondario del pub, su vicolo del Gallo. Giù botte da orbi, a quel punto, contro i tifosi inglesi, che non avevano neppure indosso la maglietta della loro squadra e gridavano «You bastard!», cercando di fuggire a quell’inferno. Poteva finire in tragedia, perché i più violenti a un certo punto hanno afferrato sampietrini e oggetti di ferro che si trovavano sui banchi vuoti del mercato che ogni mattina si svolge sulla piazza e li hanno scagliati, alla cieca, contro i malcapitati.
La questura di Roma, già nell’occhio del ciclone per gli scontri al corteo dello scorsa settimana, ne esce piuttosto male dalla vicenda, anche se in fretta la Digos diretta da Lamberto Giannini è riuscita ad identificare almeno quindici partecipanti al raid, due dei quali (tifosi della Roma) nella serata di ieri erano finiti agli arresti.
Testimoni, infatti, hanno raccontato ai cronisti che in mezzo a quell’inferno c’erano all’inizio solo due, tre poliziotti. I residenti, affacciati alle finestre, imploravano invano: «Basta, fermatevi». E i dati forniti dalla questura, sulla base delle registrazioni delle chiamate al 113, sembrano confermare la circostanza: la prima chiamata di richiesta di intervento è avvenuta all’1.07 e all’1.14 è arrivata sul posto una prima volante. Solo una ventina di minuti dopo sono però arrivati i rinforzi, con cinque auto, comprese quelle dei carabinieri. Ma a quel punto il raid era pressoché compiuto, coi risultati voluti da chi lo aveva organizzato.
La matrice antisemita dell’agguato, nonostante gli insulti contro gli ebrei riferite ai cronisti dai testimoni, è solo una delle ipotesi alle quali stanno lavorando gli investigatori. L’attività della polizia, che ha fatto scattare una serie di perquisizioni, è andata avanti per tutta la serata e la nottata di ieri e oggi potrebbero esserci novità.
Di sicuro, c’è che i partecipanti al raid finora identificati sono sia tifosi giallorossi che laziali, il che per gli esperti non è un gran sorpresa, in quanto già in altre occasioni l’alleanza ha prodotto i medesimi effetti, quando ad esempio sono stati attaccati da laziali e romanisti insieme gli ultras del Napoli e contemporaneamente organizzate azioni violente contro gli agenti in servizio di ordine pubblico.
Ma tali episodi sono sempre avvenuti immediatamente prima o dopo le partite di calcio, nei pressi dello stadio o in luoghi solitamente presidiati durante i match considerati a rischio. Evidentemente, l’intelligence non aveva previsto un raid in piena notte all’interno di un pub nel centro storico di Roma.
Le manette, intanto, sono scattate per l’ultrà romanista Francesco Ianari, 26 anni, ambulante del famoso mercato dell’usato di via Sannio, già colpito da Daspo e con un precedente per guida in stato ebrezza e per Mauro Pinnelli, 27 anni, operaio in un’impresa edile e incensurato.
Sono stati incastrati dalle telecamere e da un sms che si sono scambiati durante l’agguato ed entrambi sono accusati di lesioni pluriaggravate. In più, a Ianari, è contestata anche la detenzione di marijuana e di oggetti atti ad offendere visto che nel suo appartamento sono stati trovati tirapugni, spranghe e altro materiale.

l’Unità 23.11.12
Quell’alleanza tra curve rivali nel nome dell’antisemitismo
L’estrema destra romana si è impossessata del tifo di Lazio e Roma
Divisi dai colori ma uniti dall’odio razziale e da un nemico comune: la polizia
Nel 2008 una retata di laziali e romanisti tutti di destra. Per loro ci fu l’aggravante di terrorismo
di Simone Di Stefano


Camerati del calcio, estrema destra e ultras. Un’ascesa che negli ultimi 15 anni ha riportato svastiche, coltelli e violenza dentro e fuori lo stadio. Era dagli ‘90 (con l’avvento di Meridiano Zero e Movimento Politico) che non si assisteva a una tale escalation dell’estrema destra nelle curve. La tessera del tifoso ha solo attenuato gli scontri, ma le minoranze restano. Roma è la capitale del tifo nero, una sottocultura da contestualizzare, tra le curve di Lazio e Roma e i nuovi gruppi di estrema destra. L’elemento in comune, che al fischio finale riesce a cancellare la fede calcistica.
Si tratta di giovani dai 16-17 anni ai 35-40, fascisti per scelta o per moda, fanno uso di droga, e quel che più colpisce è la grande affluenza di ragazzine, spesso fermate in possesso di armi bianche. Alcuni di loro durante la settimana consegnano volantini di Forza Nuova o affiggono manifesti di Casa Pound, la domenica sono lì che tifano o credono di farlo. La Curva Nord uscita da anni di monopolio Eagles-Irriducibili, la Sud più anarchica, fino a poco tempo fa dominata da Boys, Fedayn e Opposta Fazione, ora frammentata con Ultras Romani e Ultras Primavalle su tutti.
Il primo distinguo va fatto sulla tipologia del tifoso: da una parte chi va in curva perché ama il calcio e il calore della parte più chiassosa dello stadio, dall’altra chi lo fa perché attratto dal gruppo organizzato e dai suoi capi carismatici: ne accetta ideologia, cliché, stile di vita e concetti, modo di parlare. L’organizzazione è gerarchica, tentacolare, chi sgarra viene allontanato.
Negli ultimi tempi gli ultras si sono evoluti con il merchandising e la comunicazione. Facebook, i forum, i commenti, ma anche il ritorno dopo anni di oblio nelle radio e nelle tv sportive romane. L’esponente degli Irriducibili, Fabrizio “Diabolik” Piscitelli su quelle laziali, Guido Zappavigna, ex leader dei Boys (e candidato alle ultime regionali nella lista Polverini) in quelle romaniste. Il derby si gioca soprattutto tra frange ostili delle tifoserie. L’ultima stracittadina è stata segnata da un’escalation di tensioni nate dalla gara d’andata di Europa League della Lazio ad Atene, dove i tifosi del Panathinaikos e alcuni esponenti romanisti, in nome del loro gemellaggio, hanno mosso agguato ai laziali in trasferta. Nella gara di ritorno cento greci sono stati scortati dalle forze dell’ordine a braccetto con alcuni romanisti, gli scontri sono stati inevitabili.
Ma se il movente è politico, o mosso dall’odio verso le forze dell’ordine, non c’è derby che tenga. Durante la marcia degli ultras contro la tessera del tifoso nel 2009, erano ultras da tutta Italia, stesso coro: «Gabriele uno di noi». Dalla morte del tifoso laziale Gabriele Sandri, avvenuta nel 2007, quell’episodio accomuna qualsiasi frangia di ultras. In Nord fino al marzo 2011 c’erano gli Irriducibili eredi degli Eagles, ora di quel gruppo resta solo lo striscione, ma la imbologia nazista continua ad imperare nella curva e durante le partite della Lazio è facile sentire l’odioso coro «giallorosso ebreo», incubo dei tifosi veri, la maggioranza. Gli ispettori federali sono lì e appuntano. La Lazio paga. Nell’ultimo bilancio la società ha dichiarato di aver pagato 390mila euro per ammende e multe, e altri 110 mila euro per danni subiti dallo stadio, per un totale di 500mila euro, quasi quanto guadagna il tecnico Vladimir Petkovic.
Negli anni ’90 il razzismo sembrava superato, ma di pari passo con l’ascesa delle forze di estrema destra, a cavallo del 2000 è tornato prepotentemente in gioco. «Razzista e antisemita», così la stampa estera ormai definisce la Curva Nord laziale. Nel derby dell’ottobre 2011 fece il giro del mondo lo striscione «Klose mit uns», scritto con le “s” runiche che richiamava quelle delle SS naziste. Neanche un’idea geniale, visto che i primi a utilizzarlo furono i romanisti in un tristemente noto Roma-Livorno del 2006: «Gott mit uns», ma anche svastiche, celtiche, foto del Duce, questa fu l’accoglienza riservata agli ultras livornesi di estrema sinistra.
Il ritorno al razzismo per la Lazio sembra avere una data, il 10 ottobre 2001, quando all’esterno del Centro Sportivo di Formello apparvero alcune scritte contro l’allora biancoceleste Fabio Liverani: «Liverani negro», «Liverani raus». Prima di allora l’ultima vittima fu Aaron Winter negli anni ’90. Ma per capire il substrato criminale in cui opera il fenomeno ultras romano, basta tornare al febbraio 2008. Una maxi-operazione della Polizia che portò all’arresto di 20 ultras tra laziali (alcuni legati al gruppo «In basso a destra») e romanisti. Per molti di loro scattò l’aggravante del terrorismo per gli assalti al concerto della Banda Bassotti a Villa Ada e alle caserme della Polizia dopo la morte di Sandri.

l’Unità 23.11.12
È ora di fermare il rigurgito nero nella capitale e nel Paese
di Vittorio Emiliani


Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, la butta sul «tecnico», «teppismo da stadio trasferito nel centro storico». Non è così: il violentissimo, organizzato raid del pub «Drunken ship» sembra non avere granché a che fare col tifo laziale. La polizia propende per una matrice politica e razzista.
Tottenham è storicamente il quartiere della comunità ebraica e i bianchi, gli Spurs, ne sono calcisticamente il simbolo dalla fine dell’800. Il termine «ebrei» è risuonato distintamente fra le grida esagitate dei violenti che, spalleggiati da numerosi camerati rimasti fuori a bloccare il locale, hanno preso a mazzate i ragazzi inglesi seduti a bere e a cantare distruggendo il pub. Non a caso fra i primi fermati c’è un tifoso romanista. Quindi, la spedizione, chiaramente preparata e mirata, aveva una connotazione politica razzista, anti-ebraica. Altro che «teppismo da stadio».
La gara con Tottenham era stata pensata dalla società anche come occasione per festeggiare il ritorno a Roma di un campione inglese tanto geniale (e amato) quanto scervellato: Paul Gascoigne detto «Gazza» biancoazzurro per tre campionati.
Inoltre la Lazio punta a salire in alto in Europa dove si sta comportando molto bene. Non ha quindi nessun interesse ad arroventare la vigilia. È vero che in passato la tifoseria laziale più estrema aveva accolto a Roma con scritte antisemite un atleta esemplare, Aaron Winter, ebreo e nero. È vero che nella gara di andata a Londra i laziali avevano più volte fischiato due giocatori del Tottenham di origine israelita e lo stesso è avvenuto ieri sera con i cori razzisti urlati durante la partita. Ma il gravissimo episodio di Campo de’ Fiori ha connotazioni più prettamente «politiche». Lo dimostra anche il fatto che due degli arrestati per il raid al pub di mercoledì notte siano tifosi romanisti.
Da quando Gianni Alemanno ha salito la scala del Campidoglio salutato da una selva di saluti romani, la sottocultura della violenza politica, della compiacenza verso storia e attualità dello squadrismo è riemersa di continuo. A Casapound è stato lasciato fare, in pratica, di tutto, senza cercare di evitare il clima di scontro. La violenza in sé è stata minimizzata, nonostante aggressioni, ribalderie contro i «diversi», incursioni nelle scuole.
Comportamenti squadristici autorizzati dal lassismo (o nullismo) del Campidoglio. Del resto, quando questa giunta promuove ad incarichi significativi personaggi appartenuti al terrorismo «nero» (a Roma micidiale), essa dà un segnale preciso. Si è obiettato che avevano scontato le pene irrogate. Ma, a parte il fatto che non si trattava di dissociati (i Nar sono rimasti impermeabili alla dissociazione), promuoverli ad alti gradi, farne un pezzo di classe dirigente ha avuto un senso inequivocabile.
Come quando nel Comune di Affile (Roma) si è elevato al generale Rodolfo Graziani, colonialista spietato, firmatario dei famosi «bandi» di Salò, rastrellatore di partigiani, un sacrario con finanziamento della Regione Lazio. Come quando a Predappio si lasciano organizzare raduni «nostalgici» vergognosi lasciando sola l’amministrazione comunale di centrosinistra. Non è ancora giunta l’ora di fermare con decisione questo pericoloso rigurgito «nero», a Roma e nel Paese?

l’Unità 23.11.12
Diffamazione: lunedì 26 sciopero dei giornalisti
di Natalia Lombardo


ROMA La legge «Frankenstein» va avanti nel modo peggiore: Pdl e Lega hanno salvato i direttori dal carcere per diffamazione, mentre il giornalista può finire in galera. Una vera norma ad personam per salvare Sallusti, (norma che lui stesso disconosce) e contro la quale la Federazione della Stampa ha indetto uno sciopero per lunedì 26, quando il testo tornerà in aula al Senato. Un totale silenzio stampa che coinvolgerà tutti i media, per protestare contro quella che Siddi, segretario della Fnsi, definisce «un’aggressione a un’intera categoria professionale senza riparare eventuali lesioni della dignità e dell’onore delle persone per errori o orrori di stampa».
Una legge nata sull’onda del caso Sallusti per eliminare il carcere è diventata uno strumento repressivo, oltre che un mostro giuridico. Ieri l’ultimo blitz in Senato, dove è passato con 122 sì, 111 voti contrari e 6 astenuti l’emendamento del relatore del Pdl, Filippo Berselli, che esclude il carcere per i direttori ed i vice in caso di condanna per diffamazione (solo multe da 5000 a 50mila euro). Il governo, che aveva espresso parere contrario, è stato battuto in aula, a votare a favore Pdl e Lega, nettamente contrari il Pd, l’Udc e l’Idv, e anche l’Api di Rutelli.
Il Pd, che fa ostruzionismo da un mese, lo ha rafforzato e ha chiesto il voto segreto sull’articolo 1, che sarà votato lunedì, nella speranza di farlo saltare. Per la capogruppo in commissione Giustizia, Silvia Della Monica, del Pd, è un «testo con errori di carattere tecnico e con violazioni di carattere costituzionale». Un ddl diventato «ad personam, leggi di cui avevamo perso le tracce col governo tecnico e che vediamo risorgere in coda di legislatura». Se lunedì la legge passerà a Palazzo Madama potrebbe bloccarsi alla Camera, ed essere solo abolita la pena del carcere.
La Federazione della Stampa ha quindi indetto lo sciopero per giornali, tv, radio, agenzie, free lance e web. I giornalisti dei quotidiani si asterranno dal lavoro lunedì 26, quelli delle agenzie di stampa per 24 ore dalle 7 di lunedì alle 7 di martedì; lo stesso i giornalisti delle testate web e dei siti on-line (partendo dalle sei di mattina). Tutte le televisioni e le radio, sia Rai che private, si asterranno dal lavoro dalle 6 di lunedì alle 6 di martedì, anche senza il preavviso che i giornalisti della tv pubblica sono tenuti a dare. Solo notiziari ridotti all’osso.

il Fatto 23.11.12
Vini, regali e monasteri. La Margherita spendeva così
Alla scuola di Cacciari 720mila euro e 133mila in enoteca
di Marco Lillo e Valeria Pacelli


“Aridaje”. Si apre così la lettera di Francesco Rutelli in risposta all’articolo di ieri del Fatto nel quale davamo conto dell’elenco dei bonifici e degli assegni pagati dalla Margherita nell’era Lusi. Quella lista, stilata dal consulente tecnico del pm di Roma Stefano Pesci, include al quinto posto per importo tra i beneficiari il Centro per il Futuro Sostenibile presieduto da Francesco Rutelli con 1 milione e 126 mila euro. Rutelli non contesta la cifra ma la novità del dato. E sul punto ha ragione, salvo però poi far discendere da questa constatazione un’autoassoluzione totale un po’ generosa: “La conclusione delle indagini - scrive Rutelli - sul caso Lusi sarebbe l'occasione, anche per Il Fatto per evidenziare un fatto molto raro in Italia: che un'indagine capillare e sistematica svolta per 10 mesi dalla Procura di Roma... su bilanci, bonifici, conti correnti, fornitori della Margherita ha evidenziato che neppure un euro del partito ha preso una destinazione illecita o per interesse privato”.
UN’AFFERMAZIONE un po’ forte se si pensa ai 3 milioni e 600 mila ricevuti con bonifico dalla moglie di Lusi e ai 13 milioni e mezzo della società riferibile al tesoriere, la TTT srl. Rutelli, se fosse un giornalista del Fatto non si curerebbe di simili quisquilie ma darebbe questa lettura della chiusura indagine su Lusi: “Sarebbe l'occasione per fare ammenda per aver pubblicato più volte come credibili asserzioni dell'ex-tesoriere ladro, che le indagini hanno invece dimostrato essere calunniose. Invece... Il Fatto mi ha dedicato ieri l'ennesimo titolo a tutta pagina, corredato dall'ennesima falsa informazione (che le risorse attribuite al CFS siano state "330mila euro in più di quanto si sapeva finora"). Non è vero: anche quelle cifre figuravano nei rendiconti, regolarmente approvati e pubblicati, e riportati dalla stampa. Per precisione: nell'arco di 11 anni, risultano euro 6.619.010 destinati dalla Margherita ad associazioni, fondazioni, attività di formazione; tra questi - altro che "spese folli del tesoriere" - i contributi da voi citati al Centro Futuro Sostenibile e all'Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, come anche al CFP (scuola di formazione di giovani presieduta da Massimo Cacciari, destinataria di 720.497 euro) e a diversi altri soggetti. Sapete già che io non ho comperato una casa, né una casetta, né una cuccia per il cane, con i soldi della Margherita. Che non ho ricevuto un centesimo per il lavoro svolto per il CFS, cui ho anzi contribuito con donazioni personali”. Nessuno ha mai insinuato l’arricchimento personale del leader della Margherita e dell’Api ma sulla trasparenza dei conti e sul controllo dei fondi forse si poteva fare di più. Solo dopo lo scandalo Lusi e la pubblicazione di un articolo su L’espresso nel quale si svelava il flusso di bonifici per 860 mila euro da Margherita a Cfs - Rutelli aveva convocato una conferenza stampa nella quale era stata diffusa la cifra esatta e più alta di 1 milione e 126 mila euro, riportata allora dal Fatto e riproposta, senza ricordarlo, ieri. Resta però un passo ulteriore da fare sulla strada della trasparenza per Rutelli: rendicontare con esattezza su internet quello che ha fatto e quello che intende fare il Cfs con il milione e 126 mila euro di soldi pubblici ricevuti dalla Margherita e girati all’associazione ambientalista. E magari rendi-contare all’euro anche il destino dei 192 mila euro, annotati nella lista della procura di Roma, e passati dalla Margherita all’associazione Cento Città, vicina a Rutelli. Rutelli nella sua risposta aggiunge in compenso un dato interessante: la scuola di formazione politica presieduta da Massimo Cacciari, il CFP di Milano, ha incassato 720 mila euro. “A partire dal 2005”, spiega il direttore del CFP, Nicola Pasini, “siamo stati rimborsati dalla Margherita con 150 mila euro all’anno per i costi dei nostri corsi di formazione politica. Mi creda è tutto trasparente. Tutto on line. Anche la lezione di Luigi Lusi. Pensi che - conclude Pasini - il senatore venne a farci lezione sul finanziamento della politica. Era preparatissimo”.
CHISSÀ SE QUEL GIORNO Lusi agli alunni avrà spiegato il senso delle spese sostenute a carico del partito. Per esempio i 133 mila euro di soldi pubblici bonificati dalla Margherita alla Vino Vip che distribuisce vino e prodotti locali in tutta Italia. Lusi dal 2008 al 2010 spende circa 20 mi-la euro ogni anno agli inizi del mese di gennaio per saldare le fatture relative ai regali di natale. “Il senatore Lusi non ha mai comprato una bottiglia per se. Ordinava vini sempre di origine abruzzese che avrebbe dovuto regalare. Di solito, passavano a ritirare i pacchi regalo gli autisti di Lusi, spesso erano destinati ad esponenti del partito”. Passando al setaccio le spese dell’ex tesoriere della Margherita sorgono altri dubbi. A cosa servivano i 35 mila euro bonificati a favore della società Cantiere Navale, che si occupa di riparazioni di barche e yacht a Brindisi?
Lusi era comunque un uomo generoso, con i soldi pubblici, e forse un po’ preveggente. Il senatore cattolico dona 133 mila euro al monastero Visitazione S. Maria di Reggio Calabria e altri 50 mila euro all’Associazione di volontariato Liberi per liberare, che si occupa dei detenuti. Oggi il munifico tesoriere è agli arresti domiciliari in un monastero in Abruzzo.

La Stampa 23.11.12
«Eravamo con tipi «degni di attenzione psichiatrica»
D’Alema: io premier degli “squilibrati” Bellillo: scemenze
Nerio Nesi: si sentiva Napoleone...
di Jacopo Iacoboni


Dunque, D’Alema finalmente confessa tutto: governavo con una compagine «composta da squilibrati degni di attenzione psichiatrica che mi chiedevano di uscire dalla Nato e di dichiarare guerra agli Stati Uniti. Questo ci ha limitato molto». La frase, dalemismo puro, autorizza una domanda, qualche risposta e un paragone.
La domanda è semplice: con chi ce l’aveva l’ex premier nel colloquio col Mattino? Probabilmente coi comunisti italiani, che puntellarono il governo dopo la spaccatura di Rifondazione, e forse anche con i verdi. Un mondo pittoresco e poi sparito: c’era Oliviero Diliberto, Guardasigilli e capo del Pdci, oggi riapparso d’incanto a sostenere Vendola (premessa per il ritorno dei suoi in alleanza con Bersani). C’era Katia Bellillo, ministro degli affari regionali tra un match di kick boxing e l’altro con la Mussolini, oggi pensionata con due legislature (si occupa dell’orto e della mamma). C’era Laura Balbo, una professoressa verde cui vennero affidate le pari opportunità (oggi in cattedra a Padova, a Sociologia). C’era in maggioranza a guidare la commissione bilancio Nerio Nesi (oggi presidente della Fondazione Cavour). Cosa potranno rispondere? Diliberto fa filtrare: «A D’Alema ricordo che i problemi vennero dall’Udeur, non da noi», gli squilibrati. La Bellillo, pugilistica: «D’Alema torni a ragionare politicamente, se ne è capace, invece di fare lo scemetto. Il suo governo cadde per l’Udeur del suo amico Cossiga, non per noi pazzi». Anzi: «Quel poveretto di Cossutta faceva la spola per portare solidarietà al Kosovo sotto le bombe, che Diliberto gli fece bombardare, mentre Rifondazione ci dava dei traditori, bella gratitudine». Perciò Katiuscia (Nesi la chiamava così) si sente di consigliare: «D’Alema faccia come me, che è tempo, si ritiri e curi i suoi cari».
Laura Balbo - ricordate? viso triste, poche parole, capelli grigi viveva malissimo il fatto che a mesi dall’insediamento D’Alema ancora non le avesse mai neanche rivolto la parola: «Quella poverina di Laura - confida Bellillo - mi diceva “ma che gli ho fatto a st’ignorante che neanche mi saluta? ”». E gli aneddoti degli “squilibrati” potrebbero continuare. Il banchiere rosso Nerio Nesi narra che «i rapporti erano molto migliori con Cossutta che con D’Alema-Diliberto. D’Alema è sempre stato distaccato, e infine tradito da questa alterigia, si viveva come Napoleone... è stata la sua tragedia». Una volta Mattarella vide in aula sempre lei, la Bellillo, con l’ombelico di fuoriaccanto a Nerio e, appunto, al premier: «Le chiese di coprirsi, e lei lo sfotté: “Perché, non ti piace il mio ombelico? ”». Lo sventurato si ritirò, arrossendo.
C’è un paragone che viene in mente, con Cacciari, predecessore di D’Alema nel ramo, quandò vaticinò: «La sinistra? Un campo di capre pazze».

l’Unità 23.11.12
Bonino candidata a Roma? Spero passi dalle primarie
Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta risponde a Paolo Izzo

La buona notizia-speranza è che forse Emma Bonino sarà la candidata radicale alle elezioni per il nuovo sindaco di Roma e chissà mai che possa anche vincere, visto che alle scorse elezioni regionali c’è quasi riuscita. La cattiva notizia è che quasi non se ne dà e non se ne darà notizia. A meno che quegli «indignados» dei Radicali non digiunino a oltranza o non si incatenino alle porte del Campidoglio.
Paolo Izzo

Ho grande stima di Emma Bonino, ho votato (e lavorato) per lei nel 2010 e ho accolto con piacere la notizia della sua candidatura. In questa fase a me sembra importante però che questa candidatura sia vagliata all’interno di primarie in cui Emma si impegni confrontando le sue idee e i suoi programmi con quelli degli altri candidati. Avrebbe giovamento da questo confronto, che io spero sia aperto e tranquillo, su tutti i problemi di una città come Roma, anche il modo di porsi di un partito, come quello radicale, abituato a presentare le sue posizioni in modo, appunto, radicale, «o con me o contro di me», e a considerare con un certo fastidio l’idea per cui le decisioni, all’interno di una coalizione, vanno (andrebbero) prese tenendo conto delle opinioni di tutti. Diverso è, infatti, il governare dal proporsi come una persona o un insieme di persone libere da compromessi e fedeli solo alle cose di cui sono convinti fino in fondo: testimoniandone l’importanza con dichiarazioni e atti più o meno vistosi, dal digiuno alla dimostrazione pacifica. Benvenuta dunque la candidatura di una radicale storica come Emma Bonino che potrebbe con la forza delle sue idee confrontarsi nelle primarie, senza digiuni e senza incatenamenti, con gente che la stima e che lei può ugualmente stimare.

l’Unità 23.11.12
Khaled Meshaal
«Abbiamo resistito Israele non è riuscita a imporci le sue condizioni»
«Così è nata la tregua Non siamo più isolati»
di Umberto De Giovannangeli


Ha negoziato il cessate il fuoco di Gaza con il governo israeliano. È a capo dell’Ufficio politico di Hamas

Veste i panni del «generale» vincitore della «guerra di Gaza». Parla come se fosse lui, e non Abu Mazen, il vero presidente dei palestinesi. Di certo, piaccia o no, è l’uomo del giorno: il suo nome è Khaled Meshaal, capo dell’ufficio politico di Hamas. Nel 1997, ad Amman, sfuggì ad un attentato del Mossad ordinato da Benjamin Netanyahu, allora come oggi primo ministro d’Israele.
Dodici anni dopo, la diplomazia internazionale e Netanyahu hanno dovuto negoziare con lui una tregua. «E già questo rimarca Meshaal una vittoria di Hamas. Per anni hanno cercato in tutti i modi di annientarci: hanno assassinato il nostro fondatore (lo sceicco Ahmed Yassin, ndr) e molti dei nostri eroici combattenti; hanno provato con le odiose punizioni collettive inflitte ad una popolazione colpevole ai loro occhi di aver scelto Hamas nelle libere elezioni del 2006. Ci hanno provato in tutti i modi, ma hanno fallito. Perché Hamas è parte fondamentale del popolo palestinese e da questo trae la sua forza». Meshaal ha parole di elogio per il presidente egiziano, Mohamed Morsi: «Ha compreso le ragioni della resistenza palestinese e si è comportato da grande leader. A differenza di Mubarak, non ha sacrificato la causa palestinese per compiacere l’America e i sionisti».
Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e il ministro della Difesa, Ehud Barak, hanno affermato che Israele ha inferto colpi durissimi ad Hamas «Questa è propaganda, cattiva propaganda. La verità è che la tregua è una vittoria della resistenza palestinese, di cui Hamas è parte. È la vittoria di un popolo. Israele ha fallito tutti i suoi obiettivi».
Israele ha motivato le operazioni militari rivendicando il diritto all’autodifesa contro il lancio di missili palestinesi contro le città frontaliere.
«Per Israele tutto è “autodifesa”. Anche l’occupazione della Palestina, anche l’espropriazione delle terre palestinesi, anche la pulizia etnica condotta ad Al Quds (Gerusalemme, ndr). Annientare un popolo per loro è “autodifesa”. Per noi questa si chiama aggressione. Continua, martellante, criminale. Quella condotta in questi giorni dagli israeliani è stata un’aggressione a tradimento contro di noi a Gaza. Ci siamo difesi, e bene. Ed è stata la determinazione dei nostri combattenti a costringere Israele a trattare. Israele comprende solo il linguaggio della forza, e se tratta è solo perché non può fare altrimenti».
Lei ha ringraziato il presidente egiziano Mohamed Morsi per aver mediato il cessate-il-fuoco. Morsi viene dai Fratelli musulmani, di cui Hamas, alla sua nascita, ne è stata una costola...
«Un legame che ha resistito nel tempo e che oggi è ancora più forte. I palestinesi, e non solo Hamas, vedono nel presidente Morsi un sostenitore della causa palestinese, e lo stesso si può dire per i leader dei tanti Paesi arabi e musulmani che hanno sostenuto concretamente la nostra resistenza. E questa, a ben vedere, è l’altra grande sconfitta d’Israele: volevano isolarci, hanno ottenuto il risultato opposto». Tornando all’accordo sul cessate-il-fuoco. Quali sono i punti che Hamas ritiene espressione della sua “vittoria”?
«Lo stop agli omicidi mirati e all’invasione. L’apertura di tutti i valichi, e non solo di Rafah. Due condizioni volute da Hamas e che Israele ha dovuto accettare».
La tregua resta appesa a un filo...
«Le nostre armi taceranno se Israele farà altrettanto. Ma abbiamo dimostrato di saperci difendere e di avere acquisito i mezzi per farlo molto bene...».
Lei ha ringraziato l’Iran per il sostegno militare dato ad Hamas...
«È così, ma non è solo l’Iran ad averlo fatto. Una cosa è certa: se non ci sarà pace a Gaza, non ci sarà neanche a Tel Aviv».
Netanyahu non ha chiuso le porte ad uno Stato palestinese...
«Ma di quale Stato parla Netanyahu? La parola giusta è "bantustan". E come si può parlare di esempio di democrazia riferendosi a un Paese che ha segregato un altro popolo, lo ha depredato della sua terra, facendo carta straccia delle risoluzioni Onu, annettendosi Al Quds (Gerusalemme, ndr). Come si può chiedere, pregiudizialmente, che la vittima riconosca e legittimi il suo carnefice? In questa situazione, la resistenza resta la nostra unica alternativa».
Ma nel suo vocabolario politico, esiste un processo di pace. E se sì, quale? «Un "processo di pace" con i palestinesi non può fare neanche il primo minuscolo passo finché Israele non si ritirerà innanzitutto nei confini del 1967, smantellerà tutti gli insediamenti, rimuoverà tutti i soldati da Gaza e dalla West Bank, sconfesserà la sua annessione illegale di Gerusalemme, rilascerà tutti i prigionieri e metterà fine in modo permanente alla sua chiusura dei nostri confini internazionali, delle nostre coste, e del nostro spazio aereo. Questo fornirebbe il punto di partenza per negoziati giusti, e getterebbe le fondamenta per il ritorno di milioni di rifugiati. Dato quello che abbiamo perduto, è l’unica strada tramite la quale possiamo ricominciare a essere integri».
Lei parla di diritto di resistenza. Ma cosa c’entrano gli attacchi suicidi, gli attentati contro autobus come quello dell’altro ieri a Tel Aviv, con questo “diritto”? «Noi non abbiamo F16, artiglieria pesante, navi: la potenza di fuoco che Israele ha usato contro di noi e la nostra gente. Per resistere usiamo ciò che abbiamo, e in primo luogo il coraggio degli shahid (martiri) pronti a sacrificare la loro stessa vita in nome della Palestina».
Nei giorni scorsi, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmud Abbas, ha affermato che è giunto il tempo della riconciliazione con Hamas.
«A chiedere l’unità è il popolo palestinese. L’unità che si realizza nella resistenza all’occupazione e nel prendere atto del fallimento di una strategia che ha agevolato le mire espansioniste del nemico. Israele concepisce la “pace” come una resa e ogni disponibilità al compromesso come una debolezza su cui fare leva per ottenere sempre di più. Con Hamas non ha funzionato».
(ha collaborato Osama Hamdan)

l’Unità 23.11.12
Bene la tregua di Gaza ma da sola non basta
di Antonio Panzeri

Eurodeputato Pd

L’ACCORDO TROVATO PER LA TREGUA, DOPO OTTO GIORNI DI SCONTRI tra Israele e Hamas sulla striscia di Gaza, fa ben sperare: un obiettivo minimo, che è stato sollecitato anche dal Parlamento europeo con la risoluzione approvata a Strasburgo. Quello a cui abbiamo assistito in questa settimana é l'ennesimo, tragico capitolo di una guerra che non trova soluzione. Un conflitto che allarga il fossato tra arabi ed ebrei, religiosi e laici, nel quale rischia di prevalere la deriva integralista sia per Israele, dove si allarga il fronte di chi vuole il primato della legge ebraica sulle leggi dello Stato, sia per l'Islam politico.
Nel frattempo, però, il bilancio delle vittime, spesso bambini, si fa altissimo e questi due popoli si trovano a dover convivere quotidianamente con la precarietà dell'esistenza, senza alcuna certezza sul futuro, anche quello più immediato. Come ha dimostrato lo stesso attentato di Tel Aviv.
Tuttavia, bisogna essere consapevoli che oggi ci sono rilevanti novità rispetto al passato. Benché, infatti, il copione si ripeta identico da decenni, oggi più che mai il contesto geopolitico intorno è profondamente cambiato e porta con sè ulteriori preoccupazioni, che si aggiungono alle criticità già presenti. La primavera araba ha ridefinito l’assetto nell’area.
L’Egitto, in prima linea per la definizione di una soluzione pacifica del conflitto, vede al governo la Fratellanza musulmana, legata ad Hamas, che per questo cerca di mantenere un precario equilibrio tra il pericolo di uno scontro con Israele e la vicinanza ideologica con i Fratelli di Gaza. In Siria, devastata da una guerra civile che non ha trovato ancora una soluzione, continua a crescere la presenza di islamisti radicali. In tutto questo, l’Iran gioca un ruolo fondamentale sostenendo a distanza i fronti aperti nell’eterna «guerra fredda» con Israele. Scongiurato, almeno per il momento, lo scontro che avrebbe avuto maggiori ripercussioni per le forze internazionali (Israele versus Iran), di fatto le tensioni aumentano e questo contesto mutato non aiuta a decifrarne i possibili risvolti.
Dopo un primo momento di esitazione infatti gli attori internazionali, Usa in primis, hanno avviato tentativi diplomatici per contenere gli effetti devastanti che l’ennesima scintilla di questo conflitto avrebbe potuto e potrebbe provocare.
Mentre salutiamo positivamente l’intesa trovata, resta dunque, tuttavia, l’incognita del dopo. Questa triste parentesi del conflitto israelo-palestinese dimostra difatti quanto sia fuori controllo la situazione. Dopo la decisione degli Stati Uniti di «alleggerire» la presenza occidentale nel Grande Medio Oriente dopo undici anni di guerra al terrorismo e due problematiche campagne in Afghanistan e in Iraq ciò che è nato dopo la primavera araba necessita di essere accompagnato dal punto di vista politico ed economico, riconoscendo gli interlocutori, anche quelli sgraditi.
Oggi, più di prima, le forze internazionali (e fra queste l'Europa) devono assicurare la loro costante presenza per garantire che i conflitti in atto trovino una soluzione e per supportare i nuovi governi nell’avvio di processi democratici virtuosi.
È un lavoro lungo e faticoso ma necessario, che deve essere capace di compiere interventi nell’urgenza del momento e allo stesso tempo delineare le prospettive future.

Repubblica 23.11.12
Yossi Alpher, ex Mossad: “Il presidente dell’Anp delegittimato per la sua domanda di adesione all’Onu”
“Netanyahu ha emarginato l’Olp non vuole uno Stato palestinese”
di Alix Van Buren


«DUE elementi emergono con nitidezza all’indomani della tregua fra Israele e Hamas. Punto primo, Hamas risulta rafforzato con un ruolo da protagonista e una forma di riconoscimento. Punto secondo, il premier israeliano Netanyahu ha forse raggiunto uno dei suoi obiettivi: emarginare il presidente palestinese Abu Mazen e la sua richiesta di riconoscimento della Palestina all’Onu. Lo suggerisce il tempismo dell’operazione militare». Yossi Alpher, 12 anni al Mossad, ex consulente di Barak per i negoziati di pace israelo-palestinesi e direttore del Centro Jaffee di studi strategici, legge in controluce il quadro che va delineandosi.
Alpher, secondo lei Netanyahu è disposto a concedere, nientemeno, una parte di rilievo a Hamas?
«Perché tanta sorpresa? Uno degli effetti più evidenti dell’offensiva è la statura conquistata da Hamas, sia a Gaza che sulla scena internazionale. In questi giorni tutti erano a colloquio coi suoi leader: dal presidente egiziano Morsi al premier turco Erdogan agli inviati del Qatar. E nella stanza accanto c’era il Mossad. Questa è una forma di riconoscimento indiretto. A Gaza Hamas può presentarsi con gli allori di chi è sopravvissuto. Ha acquistato peso in tutto il Medio Oriente».
Questo a scapito dell’Olp e del presidente palestinese Abu Mazen? E cioè del primo interlocutore di pace d’Israele?
«Basta riflettere sulle azioni del governo israeliano nell’ultimo quadriennio per capire che Netanyahu non ha alcuna intenzione di trattare con Abu Mazen. Non lo interessa la soluzione dei due Stati, la restituzione del 95 per cento della Cisgiordania e di parte di Gerusalemme. Il suo desiderio è tutt’altro: appropriarsi della Cisgiordania e di Gerusalemme. Perciò preferisce Hamas come interlocutore al posto di Abu Mazen, tanto più che la sua richiesta di riconoscimento all’Onu era prevista entro pochi giorni».
Lei vede una coincidenza fra l’offensiva israeliana e la richiesta dell’Olp?
«Come non riconoscerla? Il 29 novembre Abu Mazen avrebbe depositato all’Onu la domanda di adesione della Palestina in qualità di Stato non membro. Questo preoccupa Israele: darebbe la possibilità all’Olp di ricorrere alla Corte internazionale di giustizia, esponendo una serie di accuse e reclami contro Israele. È probabile che uno degli obiettivi di Netanyahu fosse di minimizzare l’evento, di distrarre l’attenzione internazionale».

Corriere 23.11.12
Il super cattolico Borg Commissario Ue,  la competenza che batte l'ideologia
di Danilo Taino


Qualche volta anche i piccoli cacciatori di streghe finiscono faccia a terra. Quando ad esempio la competenza vince sull'ideologia. Può stupire ma è successo al Parlamento europeo: la nomina a commissario Ue per la Sanità e la Protezione dei consumatori di Tonio Borg, politico ultraconservatore cattolico di Malta, è stata accettata dai deputati con una larga maggioranza - 386 voti a favore, 281 contro, 28 astenuti - nonostante la campagna di opposizione condotta da gruppi pro-aborto e di difesa dei diritti degli omosessuali; e nonostante l'ostilità di buona parte dei parlamentari socialisti.
Quella di Borg, 55 anni, era in partenza una nomina difficile per gli standard di Strasburgo. Iscritto al partito nazionalista maltese, è contrario a leggi che consentono l'aborto, si oppone al riconoscimento delle unioni di fatto, in passato ha votato contro il divorzio. È rigido anche sulle politiche dell'immigrazione. Davanti al Parlamento europeo, si è trovato in una situazione simile a quella che l'ex ministro italiano Rocco Buttiglione dovette affrontare nel 2004: giustificare le proprie opinioni — non le proprie intenzioni nel ruolo di commissario — davanti a numerosi deputati che non le ritenevano degne di un europeo. Opposizioni, dunque, non alle politiche ma alla legittimità ideologica. Buttiglione finì stritolato, non entrò mai nella Commissione Barroso. Forte anche dell'esperienza dell'italiano, Borg ha invece affrontato i deputati garantendo che rispetterà rigorosamente le leggi europee e nazionali (promessa che aveva fatto anche Buttiglione) e soprattutto ha mostrato alta competenza politica e tecnica nel rispondere alle domande.
Alla fine, il Parlamento — compresi alcuni deputati del Pd — non ha dato retta agli indignati e ha guardato più ai meriti della persona che alla sua ideologia e religiosità: è cioè stato più liberale e rispettoso delle idee altrui di quanto di solito non lo sia Borg stesso. Ora sta al futuro commissario, non importa quanto integralista, mantenere le promesse di laicità.

La Stampa 23.11.12
Il diario cinese dell’ex ct Lippi:
io, i comunisti e il traffico di Canton
di Andrea Malaguti

qui

La Stampa 23.11.12
Parata e spettacoli alla presenza delle autorità politiche
In 250 mila per lo show del Cavallino Ferrari festeggia così 20 anni in Cina
di Barbara D’Amico


Le celebrazioni di Maranello a Canton per il salone dell’auto
Le Ferrari sfilano nello showroom di Guangzhou, in Cina

Celebrazioni in grande stile per i vent’anni di presenza Ferrari sul mercato cinese. La casa automobilistica di Maranello ha scelto la ex Canton, dove si è svolto il Salone dell’Auto locale, per far sfilare 130 Ferrari provenienti da tutta la Cina, guidate dai loro proprietari lungo la città meridionale cinese. Una parata in attesa dei festeggiamenti notturni culminati con la Canton Tower - il monumento più famoso della città - illuminato di rosso. Ad accogliere il presidente dellaFerrari, Luca Montezemolo, anche il segretario del partito comunista di Guanzghou che ha seguito la parata con altre 250 mila le persone (cui si aggiungono le 18 mila che hanno riempito lo stadio cittadino per lo spettacolo finale). Un successo confermato anche dagli oltre 300 mila cinesi che hanno visitato la mostra «Mito Ferrari» aperta meno di sei mesi fa a Shanghai. «Sono molto impressionato», ha detto Montezemolo definendo la risposta ai festeggiamenti la «dimostrazione di quello che la Ferrari è per la Cina e viceversa, un mondo di passioni e di entusiasmo». Montezemolo ha anche ricordato che il marchio sta per chiudere «un anno positivo nel paese. Abbiamo già 25 dealer in Cina e l’obiettivo è quello di arrivare almeno a una trentina nei prossimi mesi». Il piano ora è far diventare la Cina il secondo mercato mondiale della Ferrari dopo quello statunitense.

Repubblica 23.11.12
Obama alla guerra delle tasse
Il secondo mandato del presidente apre la stagione della “caccia ai ricchi”.
È una forte svolta a sinistra, per archiviare l’ideologia reaganiana. E rilanciare l’American Dream
Chi ha un reddito sopra i 200 mila dollari dovrà pagare di più
di Federico Rampini


NEW YORK Ma si tratta di una misurazione molto imprecisa. Anzitutto perché queste sono le statistiche derivate dall’imposta sul reddito delle persone fisiche: che in America sono inaffidabili quanto in Italia, anche se per ragioni completamente diverse. In Italia è a causa dell’evasione, in America perché i redditi sono un aspetto quasi marginale nelle diseguaglianze. Infatti lì dentro finiscono categorie sociali separate a loro volta da distanze abissali.
Poco sopra la soglia dei 200.000 lordi annui ci sono medici ospedalieri e ingegneri informatici, il capo dei pompieri di New York e quello della polizia, piloti aerei che fanno turni di lavoro sempre più massacranti. È gente che a fine mese, una volta detratte le tasse federali, quelle statali, quelle cittadine, la retta scolastica dei figli, l’assicurazione sanitaria, la rata del mutuo, possono far fatica a mettere da parte qualcosa per la pensione. È anche tra loro che si trovano tanti baby-boomer convinti a lavorare fino a 70 anni per “allungare” un fondo previdenziale troppo magro. Sono esponenti del ceto medioalto, certo, e anche benestanti. Ma ricchi?
Poi c’è un altro mondo. È quello dei chief executive che guadagnano 600 volte il loro dipendente medio, e quando vengono licenziati per scarso rendimento incassano il “paracadute d’oro” di decine di milioni di buonuscita negoziato ex ante dai loro potenti avvocati (Carly Fiorina di Hewlett-Packard, per esempio). Ci sono le fortune miliardarie dei Warren Buffett e Bill Gates, beneficiate dalla tassazione più agevolata di tutto l’Occidente sulle plusvalenze finanziarie. Sono il Gotha che compone lo 0,1% della società americana. Sono loro che fanno esplodere i prezzi delle case di lusso, fino ai 98 milioni per un appartamento sul nuovo grattacielo in costruzione fra la 57esima Strada e la Settima Avenue di Manhattan. In mezzo, fra il 2% e lo 0,1% c’è gente come Barack Obama, che grazie alle royalties sui suoi libri (più corpose dello stipendio da presidente) per diversi anni ha toccato o superato il milione di reddito: e non perde occasione per citare se stesso fra coloro che dovranno pagare di più al fisco. Per trent’anni furono venerati ai limiti dell’idolatria, grazie all’ideologia reaganiana che li identificava con i «creatori di ricchezza collettiva», e usava la celebre immagine della crescita come un’alta marea («innalza lo yacht del miliardario e la barchetta del pescatore, beneficiando tutti»). Oggi quelle leggende sono frantumate dalla realtà, e la caccia ai ricchi ha solide basi economiche. Dal 2000 al 2010 una famiglia tipica del ceto medio americano ha perso 3.837 dollari di reddito annuo. Nello stesso periodo, l’un per cento della popolazione più agiata si è accaparrata il 17,42% del reddito nazionale cioè il doppio rispetto agli albori dell’era reaganiana (1980). Una società dove crescono in questo modo le diseguaglianze non è solo eticamente ingiusta: è inefficiente e si condanna al declino. Lo afferma autorevolmente il Fondo monetario internazionale, non certo un’organizzazione della sinistra radicale. Tra le ragioni per cui le diseguaglianze uccidono il dinamismo ne basta una: l’indebolimento della meritocrazia. Perfino il sistema universitario americano,il migliore del mondo, subisce la deriva oligarchica. Nella selezione per entrare a Harvard, Yale, Princeton o Stanford, se tuo padre è un miliardario che ha donato fondi alla ricerca, verrai ammesso anche se non sei un ottimo studente. La cancrena delle diseguaglianze può uccidere l’American Dream. Perciò Obama fa delle politiche redistributive un cantiere del suo secondo mandato.Ma riuscirà anon penalizzare il piccolo imprenditore da 200.000 dollari annui mettendolo sulla stessa graticola di Larry Ellison, il chief executive di Oracle (e vincitore della “America’s Cup”) che ai 15 milioni annui di salario aggiunge 65 milioni di stock option? È giusto mettere sullo stesso piano il neurochirurgo che salva vite umane e il trader di uno hedge fund che vive di speculazione, e guadagna molto di più di chi sta in sala operatoria?
A lanciare una sfida a Obama Due è Daniel Altman, economista della Stern School of Business alla New York University. «Per ridurre le ineguaglianze tassiamo la ricchezza, non il reddito», propone Altman. «Il vero potere economico non si misura dal reddito ma dal patrimonio, è sul fronte delle ricchezze accumulate che si scavano le diseguaglianze più profonde». La prova: nel 1992 il 10% della popolazione più ricca in America controllava 20 volte più ricchezza del 50% dei ceti medio-bassi.
Oggi la sproporzione è salita a 65 volte. E questa diseguaglianza è tanto più anomala, in quanto non è la conseguenza “ineluttabile” di fenomeni come la globalizzazione (concorrenza dei salari cinesi per i colletti blu americani) o l’automazione tecnologica (che sostituisce macchine alla manodopera meno qualificata). No, sul fronte patrimoniale le diseguaglianze sono “fabbricate” proprio dalla politica fiscale. Sui patrimoni la tassazione è regressiva: toglie ai poveri per dare ai ricchi. Solo i Paperoni, infatti, hanno una quota predominante del loro reddito che proviene da dividendi e capital-gain (plusvalenze finanziarie). Oggi questi redditi sono colpiti dal prelievo del 15%, meno della metà dell’aliquota marginale sul reddito dei dipendenti medio-alti (35% più imposte locali). Un’analisi compiuta dal Tax Policy Center dimostra che i “veri” ricchi dello 0,1%, hanno risparmiato in media 356.000 dollari di tasse a testa, nell’anno fiscale 2011.
Ecco la proposta “rivoluzionaria” che Altman lancia a Obama:«Il patrimonio totale degli americani valeva oltre 58.000 miliardi di dollari a fine 2010. Una patrimoniale secca dell’1,5% sulle proprietà finanziarie ed altri beni (imprese, case, automobili) produrrebbe un gettito superiore a tutte le attuali imposte sul reddito, inclusa perfino l’imposta di successione». Per non colpire modesti risparmi familiari, Altman immagina che l’aliquota sia zero fino a mezzo milione di ricchezza, 1% dai 500.000 dollari al milione, e 2% sopra il milione di patrimonio. Per la maggior parte degli americani, lavoratori dipendenti e ceto medio, il risparmio fiscale sarebbe consistente. La patrimoniale sui “veri ricchi” consentirebbe di rilanciare altre politiche in favore di un’eguaglianza delle opportunità: investimenti nella scuola pubblica, nella riqualificazione professionale dei lavoratori licenziati.
Bisogna aspettarsi una controffensiva dello 0,1%. Snobbati da Obama che non li invita più alla Casa Bianca, i banchieri di Wall Street hanno altre difese in serbo. I loro potenti studi legali già preparano le scappatoie più sofisticate per sfruttare ogni cavillo giuridico e mettere al riparo in paradisi offshore i patrimoni minacciati. La caccia al ricco è appena iniziata, i colpi di scena non mancheranno.

Repubblica 23.11.12
L’economista James Galbraith: “Il banco di prova è sul ruolo dello Stato”
“Ma la lobby dei banchieri non rinuncerà al suo potere”
di Eugenio Occorsio


«Punire l’establishment finanziario e i ricchi? Non ci sono ancora le prove che Obama voglia intervenire con tanta fermezza. Io vedo un presidente ancora soggiogato da Wall Street». Ad esprimere quest’opinione controcorrente è uno degli economisti di più provata fede democratica, con un cognome che è una garanzia: James Galbraith, 60 anni, docente all’università del Texas, figlio di quel gigante del novecento che era John Kenneth, consigliere economico di John Kennedy e riferimento del partito dell’asinello per decenni. «Intendiamoci – chiarisce subito – io ho votato Obama con grandissima convinzione. Aveva di fronte un personaggio che prometteva mirabolanti performance finanziarie all’America in cambio della rinuncia a buona parte del welfare e dell’intervento pubblico. Per fortuna la gente non gli ha creduto».
Non a caso la finanza ha appoggiato Romney. E allora, professore?
«Gli sarebbe andata ancora meglio, forse. Ma anche con Obama non hanno nulla da temere né da perdere. Lo chieda ai magistrati di New York, quali acrobazie devono fare ogni volta che vogliono incastrare qualche delinquente finanziario e chiedono la collaborazione del governo federale. Sabotaggio alle inchieste, questa è la parola giusta».
Ma allora perché Obama ha convocato tutte le parti sociali tranne i banchieri?
«Ma cosa c’entra? Ha convocato chi era interessato direttamente alle questioni in discussione. Quando verrà il loro momento li convocherà, i banchieri, ne sia sicuro. Senta, il Dodd-Frank Act, quello che doveva essere la grande riforma regolatoria del mercato, è del 2010. Ma in massima parte è rimasto inattuato perché l’amministrazione non collabora. Voglio essere clemente: forse Obama personalmente sarebbe anche più incisivo, ma il ministero del Tesoro e tutto l’apparato di controllo che ruota intorno ad esso, è espressione diretta del mondo della finanza. Quindi, anche ammettendo che ne abbia la volontà, il presidente non può far nulla. Comandano loro».
In effetti Tim Geithner viene dalla Fed. Ora però ha annunciato le dimissioni: con il successore la musica cambierà?
«No, ne sono sicuro. Sceglieranno un altro uomo, o donna, proveniente dall’ambiente bancario. Vorrei sbagliarmi, ma so che sarà così. Lo chieda a Sheila Bair, che da presidente della Federal Deposit Insurance Corporation ha dovuto combattere epiche battaglie contro chi? Contro gli uomini del presidente, della Fed e del Tesoro. Finché si è dimessa nel 2011. Perfino nella sanità, giusto punto d’orgoglio di Obama, si infiltra il gruppo di potere che vuole compromettere l’intervento pubblico, a partire dai programmi sanitari Medicare e Medicaid, magari con la scusa del fiscal cliff. Il vero banco di prova per Obama sarà la riaffermazione della necessità e dell’opportunità di uno Stato ben presente nella vita della popolazione».
Anche il fiscal cliff è un falso problema?
«Ma certo. Sembra che il mondo precipiti se non si interviene entro fine anno. Invece non c’è nessuna fretta, né modifiche sostanziali del quadro politico con il nuovo Congresso che giustifichino l’urgenza. C’è tutto il tempo per riflettere e ponderare con attenzione le misure da prendere. E il tempo dobbiamo usarlo al meglio per valutare le decisioni più equilibrate. Nessuna emergenza».
Infine, i ricchi. Non le sembra basso il livello di 250mila dollari, insomma un segno che Obama vuole allargare la base imponibile in modo saggiamente progressivo?
«Macché. Arriviamo al 2% della popolazione. Tutto qui. E anche se ora finiranno gli incentivi di Bush, la tassazione tornerà ai livelli di Clinton. Questa sarebbe la grande riforma?»

La Stampa 23.11.12
Caro Vattimo, si può filosofare anche sul semaforo
“Non basta a tranquillizzarci che sia una convenzione”
Il punto cruciale: se si rinuncia ad affermare che tutto è interpretazione si può discutere la realtà
La replica di De Caro alla recensione di Bentornata realtà
di Mario De Caro


«Bruto è uomo d’onore» declama ripetutamente il Marcantonio di Shakespeare, nel suo discorso al rumoreggiante popolo romano, attonito per l’uccisione di Cesare e ancora indeciso sul da farsi. Ma in realtà, si sa, con la sua grande prova di eloquenza Marcantonio sta demolendo tutto quanto Bruto ha detto. Le sue lodi sono solo una captatio benevolentiae per i suoi uditori.
Mi dispiace dunque rischiare di apparire un tardo emulatore di Marcantonio se dico che ho sempre ammirato Gianni Vattimo per la chiarezza e la profondità delle sue idee (il suo libro su Heidegger, per esempio, mi è sempre sembrato quanto di meglio mai scritto sul criptico autore di Essere e tempo ). Data dunque la mia alta opinione che ho di lui, ho trovato francamente sorprendente l’intervento di Vattimo sulla Stampa di ieri, in cui menzionava la raccolta di saggi Bentornata realtà, che ho appena curato con Maurizio Ferraris per Einaudi.
In primo luogo mi è parso bizzarro che nel merito dell’antologia Vattimo si limiti a dire che essa contiene «scritti di vari autori». Tra questi «vari autori» figurano alcuni dei maggiori filosofi contemporanei (da Putnam a Eco, da Searle a Marconi), che forse avrebbero meritato una qualche menzione – al pari almeno di Arbasino, del quale Vattimo riporta il giudizio «Signora mia non c’è più religione», evidentemente ineludibile per comprendere la discussione contemporanea sul realismo filosofico.
In realtà, l’impressione è che Vattimo non abbia nemmeno aperto Bentornata realtà – o se l’ha fatto, ha tenuto il segreto ben chiuso in sé. Ed è un peccato, perché in quel volume ci sono discussioni e argomentazioni che potrebbero interessarlo. Nel suo ellittico pezzo Vattimo per esempio ha scritto: «Davvero dovremmo non fidarci delle misure di lunghezza né della longitudine e latitudine solo perché sono fondate su basi convenzionali? ». Da Wittgenstein a Quine, da Habermas a Kripke, sono decenni che nel mondo filosofico si discute dello statuto epistemologico delle convenzioni. Non avevo mai letto prima però che, siccome la convenzionalità del riferimento al metro di Sèvres è inoffensiva, allora non dovremmo preoccuparci del fatto che tutto è convenzionale. Cosa esattamente ciò significhi non mi è chiaro: è una sorta di argomento induttivo? Oppure vuole suggerire che il convenzionalismo in altri campi, per esempio in morale, è tanto poco pericoloso quanto quello rispetto alle unità di lunghezza? (Come se uno dicesse: «Io, a differenza di te, uso le yards invece dei metri e credo nella liceità dell’uxoricidio, tanto è solo questione di convenzioni»).
Vattimo scrive poi: «Abbiamo davvero bisogno di riferirci al diritto naturale, all’essenza dell’uomo, per non attraversare con il rosso? Certo che no». Magari mi sono perso qualcosa, ma non capisco bene chi nell’immensa discussione internazionale sul realismo abbia mai sostenuto la tesi che Vattimo critica. Tra i realisti contemporanei, Hilary Putnam è forse quello che ha indagato più in profondità lo statuto epistemologico delle convenzioni. E non solo rispetto ai semafori (che forse non sono il caso teoreticamente più urgente), ma in etica, in economia, in scienza. E a Putnam mai è passato per la mente di sostenere che siccome sostiene posizioni realiste in alcuni ambiti, allora dovrebbe negare il ruolo delle convenzioni in tutti gli ambiti.
C’è poi un punto cruciale che Vattimo trascura: la discussione contemporanea sul realismo non è una questione del tipo tutto-o-niente, come invece sembra essere l’antirealismo radicale che egli professa. Ciò che è interessante è proprio che, se si rinuncia a facili formule tipo «tutto è interpretazione», si può finalmente tornare a discutere con serenità di questioni come la realtà delle valutazioni morali, delle teorie scientifiche, dei giudizi politici. E ciò vuol dire che in alcuni casi si potrà prendere una posizione realista, in altri una posizione antirealista.
Nel suo articolo Vattimo si chiede infine con una qualche angoscia: «perché si insiste tanto a volermi far dire che se prendo aerei e treni devo credere che la scienza dice la verità, cioè rispecchia la “realtà” così com’è? ». Ecco, anche su questo Vattimo potrebbe utilmente leggere l’articolo di Putnam in Bentornata realtà (così non lascia nemmeno la copia intonsa). Scoprirà che, sebbene abbiamo ottime ragioni per ritenere che le nostre teorie subatomiche descrivano la realtà fisica, ciò non vuol dire affatto che le teorie scientifiche descrivano, e meno ancora che spieghino, tutta la realtà. Magari sarà contenta anche la signora di Arbasino.

Sette del Corriere della Sera 23.11.12
Olga, l’altra fragile metà del cielo di Pablo Picasso
di Francesca Pini

qui

La Stampa 23.11.12
“Per Losey l’esilio nel maccartismo diventò un bonus”
La vedova: le difficoltà lo resero più creativo
di Fulvia Caprara


Esiliato Joseph Losey, il grande regista statunitense bandito da Hollywood ai tempi del maccartismo, che si reinventò a Londra firmando capolavori come Il servo oMessaggero d’amore, è il protagonista della retrospettiva del 30° Tff.
È Joseph Losey, il grande regista statunitense bandito da Hollywood ai tempi del maccartismo, che si reinventò a Londra firmando capolavori come Il servo oMessaggero d’amore, il protagonista della retrospettiva del 30° Tff. A presentare la raccolta completa dei suoi film sarà a Torino la vedova Patricia Mohan Losey, che ha lavorato a lungo con lui.
Nel cinema di Losey le donne sono spesso presenze destabilizzanti. Che ci può dire di questa prospettiva?
«Non ricordo di aver mai avuto una conversazione con Losey, in termini generali, sulle donne. Così, qualunque cosa io dicessi adesso su questo tema, potrebbe essere arbitraria. Losey era un uomo della sua generazione e la sua educazione era avvenuta all’interno di un sistema maschile, compresi gli anni alla facoltà di medicina di Darthmouth dove non credo proprio che all’epoca, ci fossero donne. Immagino che fosse in qualche modo sconcertato, confuso, dalle donne, ma, siccome non smetteva mai di imparare e sperimentare, la sua visione del mondo femminile si sarà modificata con il passare degli anni».
Quanto ha influito il trauma dell’abbandono obbligato degli Usa nel maccartismo sul suo percorso artistico?
«Certo il suo sviluppo creativo fu immensamente influenzato dall’esilio forzato. Il contatto con la cultura europea e l’esperienza della regia lo portarono a ripensare il suo modo di lavorare. Diceva spesso che a Hollywood non avrebbe mai girato certi film. Ha sempre considerato il suo esilio come un bonus».
A quale dei suoi film era più legato?
«A questa domanda lui rispondeva, invariabilmente, “il prossimo”. Era molto legato a Eva per ragioni e emotive e perchè era stato brutalmente tagliato. Sentiva di essersi particolarmente esposto, ed era determinato a non lasciare che una cosa del genere si ripetesse».
Messaggero d’amore è tra le sue opere più celebri, come lo ricordava?
«Losey non era tipo da guardare troppo al passato. Certo Messaggero d’amore gli aveva procurato un grande piacere. Ho ritrovato tra i miei appunti un’annotazione che mi ha fatto sorridere. In un’intervista al settimanale belga Pourquoi pas, avrebbe detto “Grazie McCarthy” e il motivo per cui lo ringraziava era proprio quello di cui dicevo prima. E cioè che, se non avesse dovuto lasciare gli Stati Uniti agli inizi degli Anni 50, avrebbe guadagnato molto di più, ma non avrebbe mai girato “il genere di film che mi sono trovato a fare in Inghilterra”».
Come vi siete incontrati?
«Vivevo a Roma, stavo lavorando per Hugo Butler, lo scrittore messo all’indice dalle liste nere di MacCarthy, facevo ricerche per il film che lui stava scrivendo per Robert Aldrich. Hugo stava anche lavorando alla sceneggiatura di Eva e Joe venne a pranzo con noi».
Lei dice, a proposito di Steaming, che la vostra collaborazione era «all’insegna del conflitto». Su cosa litigavate?
«Le controversie su Steaming avevano soprattutto a che fare con le convinzioni degli uomini sulle donne. Produttore e regista, tutti e due maschi, pensavano che le loro idee sulle fantasie e sulle conversazioni delle donne sugli uomini fossero più valide di quelle di Nell Dunn, autrice del testo, e delle mie».
In Italia Losey girò il Don Giovanni. Conserva qualche ricordo particolare di quell’esperienza?
«Tanti... Nel mio libro che sarà pubblicato a marzo da L’Harmattan: Collezione Le Parti Pris du Cinema, titolo provvisorio My years with Joseph Losey, rievoco alcuni momenti. Per esempio la mattina in cui andammo alla Rotonda del Palladio, invisibile a causa della nebbia, fino all’attimo in cui non ce la trovammo improvvisamente davanti: c’erano incredibili ghirigori di nebbia davanti a ognuna delle quattro entrate. Era una vista bellissima. Salimmo sull’altra collina per vedere la villa Valmarana con i delicati affreschi del Tiepolo. Tornando indietro, il sole aveva spezzato la cortina di nebbia e la Rotonda ci apparve in tutta la sua luminosa gloria... E poi la prima notte di riprese nella Basilica di Piazza dei Signori a Vicenza. Fu necessario bloccare tutto perchè, un attimo prima del ciak, venne giù un temporale formidabile.. Tutti scoppiarono a ridere perchè sul set era stata preparata l’attrezzatura per la pioggia artificiale e i tecnici continuavano a scrollare le spalle dicendo “mah”. Tutti gli italiani sul set continuavano a ripetere che unapioggia così forte nella prima notte di riprese era un incredibile colpo di fortuna, che tutta quell’acqua avrebbe portato bene... E poi ricordo bene la festa per la fine delle riprese. C’era un po’ di malinconia, poi la troupe italiana, tecnici, elettricisti, regalarono a Joe una targa d’argento con il titolo Don Giovanni e la data. Ne fu così toccato che gli si inumidirono gli occhi, disse che per lui era più importante del premio ricevuto a Cannes. Come musica di sottofondo c’erano i Pink Floyd, poi cedettero il posto a Ruggero Raimondi che cantava Fin che c’han del vino e in quel momento partì un magnifico spettacolo di fuochi d’artificio. Restammo tutti lì in piedi ad ascoltare “Viva la libertà” per l’ultima volta insieme, come un vero gruppo».
C’è qualche erede di Losey oggi ?
«Non so. Il nipote di Losey, Marek, è a Torino con The Hide. Il film mi piace. Ci sono ovviamente tanti altri registi, ma io, è naturale, nutro speranze per lui».

Repubblica 23.11.12
In nome delle leggi
Perché la libertà dipende dai diritti
Esce un nuovo saggio di Stefano Rodotà sull’importanza politica e civile delle norme per tutelare le persone
di Roberto Esposito


Che succede al diritto in un mondo senza terra? Orfano di territori circoscritti in cui affondare le proprie radici e di tutela da parte di sovranità nazionali capaci di imporlo? Cosa ne è di esso, quando si interrompono le grandi narrazioni che per secoli ne hanno costituito lo sfondo? Sono queste le domande cruciali che Stefano Rodotà pone in un libro – Il diritto di avere diritti, appena edito da Laterza – in cui sembrano convergere, componendosi in un affresco di rara suggestione, le grandi questioni che egli ha sollevato in questi anni con coerenza e passione. Prima ancora che un vasto ripensamento del diritto nell’età della globalizzazione, sono in gioco i rapporti tra spazio e tempo, vita e tecnica, potere ed esistenza in una trama discorsiva che intreccia continuità e discontinuità senza assolutizzare né l’una né l’altra. Ciò che conferisce all’analisi forza e respiro è la consapevolezza che anche le più clamorose rotture sono percepibili solo in rapporto ai tempi lunghi entro cui si ritagliano. L’autore sa bene che passato e presente, origine e contemporaneità, si illuminano a vicenda e che anzi è proprio la loro tensione a rendere visibile l’effettivo movimento delle cose.
Rispetto alla radicale dislocazione che rimette in gioco l’intero ius publicum europaeum, in cui quella che è stata chiamata (da Bobbio) “età dei diritti” pare perdere terreno di fronte alle sfide della tecnica e dell’economia, Rodotà rifiuta entrambe le vie più facili – sia quella, regressiva, dell’arroccamento nei vecchi confini sovrani, sia quella, utopica, di un’immersione totale nel mare indistinto della rete. Certo la metafora della “navigazione” negli spazi infiniti di Internet, a dispetto delle guardie confinarie dei vecchi Leviatani, è suggestiva. Ma le parole con cui, qualche anno fa, John Perry Barlow apriva la Dichiarazione d’indipendenza del cyberspazio testimoniano come una straordinaria promessa possa rovesciarsi in una sottile minaccia: «Governi del mondo industriale, stanchi giganti di sangue e di acciaio, io vengo dal cyberspazio, la nuova dimora della mente. In nome del futuro, invito voi, che venite dal passato, a lasciarci in pace. Non siete benvenuti tra noi. Non avete sovranità suoi luoghi dove c’incontriamo». Contro gli occhiuti fantasmi del passato e le fughe in avanti in un futuro per nulla rassicurante, Rodotà coniuga al meglio attenzione al nuovo e consapevolezza delle sue ambivalenze, realismo e speranza.
La sua tesi centrale è che solo l’elaborazione di un rinnovato diritto possa riempire le faglie aperte dalle scosse telluriche in corso, ricostituendo quell’equilibrio tra politica, economia e tecnica che le dinamiche globali hanno forzato fino a sgretolarlo. Alle fine delle grandi narrazioni, l’unica che appare resistere – capace di rassicurare gli individui e mobilitare i popoli – è soltanto il progetto di estendere ad ogni essere umano i diritti faticosamente conquistati in una lotta che ha attraversato l’intera storia moderna. E ciò nonostante i limiti, le contraddizioni, le disillusioni che di volta in volta hanno dato una sensazione di insufficienza, di arretramento e perfino di tradimento delle conquiste precedenti. Il ragionamento di Rodotà si sviluppa per passaggi consecutivi che, nel momento stesso in cui profilano con nettezza la sua posizione, tengono però già conto, incorporandole, delle possibili obiezioni. Certo, il diritto non è in grado di coprire l’intera gamma dei nostri bisogni – e del resto una giuridicizzazione integrale dell’esistenza assomiglierebbe più a una gabbia che a un libero spazio di convivenza. Eppure solo esso è in grado di contenere la pressione sempre più invadente dell’economia e della tecnica. La prima attraverso uno scioglimento del mercato da qualsiasi vincolo sociale che rischia di spezzare il nesso moderno tra dignità e lavoro. La seconda attraverso un controllo pervasivo della vita da parte di apparati solo apparentemente neutrali, in realtà custoditi in poche mani, come accade per Facebook e Google. Che sarebbe di un mondo affidato a una lex mercatoria senza limiti o di una vita interamente esposta all’occhio di invisibili terminali elettronici che ne spiano ogni minimo movimento?
Naturalmente, perché il diritto possa esercitare una funzione non solo legislativa, ma compiutamente giurisprudenziale, deve passare dal piano di una legge imposta dall’alto a quello, immanente, di una norma che risponda ai bisogni materiali delle persone – proteggendo i loro diritti civili, politici, sociali e adesso anche informatici. Ma perché ciò assuma senso è necessario strappare la vecchia maschera della persona giuridica, incarnandola nel corpo dell’individuo vivente. Quanto ciò sia complicato è ben noto a chi conosce il ruolo discriminante, ed anche escludente, che il dispositivo romano della persona ha esercitato per secoli nei confronti di coloro che sono stati dichiarati di volta in volta nonpersone, persone parziali, semipersone o anche anti-persone. Ma l’uso della categoria assunto dalle Costituzioni e dalle Dichiarazioni postbelliche sembra voler aprire una nuova storia, che ha portato alla Carta dei diritti fondamentali proclamata a Nizza nel 2000 ed entrata in vigore col Trattato di Lisbona del 2009. A questo insieme di processi sociali, giuridici, semantici – che pongono al centro del diritto il corpo di donne e uomini liberi ormai anche dal vincolo di cittadinanza, perché cittadini del mondo – Rodotà dà il nome di costituzionalizzazione, collocandolo al cuore del libro. Proprio su di essa io credo si possa, e si debba, lavorare, spingendola sempre più avanti nella direzione di una connessione profonda tra diritto e vita. Che, naturalmente, non può fare a meno della politica, come ben riconosce l’autore. A tale proposito avanzerei due ulteriori osservazioni. La prima riguarda appunto il rapporto tra diritto e politica. Rodotà vede nel primo soprattutto una salvaguardia per la seconda, il cerchio di garanzia all’interno del quale il politico può svilupparsi legittimamente. Bene. Ma se quella sui diritti, come egli scrive, è una lotta – lotta per e sui diritti, il diritto non è a sua volta interno alla dinamica politica? Voglio dire che la stessa opzione per l’universalismo dei diritti passa necessariamente per un conflitto con coloro che lo negano – e dunque non può non assumere un profilo di per sé politico. Il “politico”, insomma, non è un ambito come gli altri, che il diritto possa limitarsi a garantire dall’esterno, ma è il grado di intensità della lotta che li percorre tutti, compreso quello del diritto. La seconda osservazione riguarda l’Unione Europea, cui Rodotà dedica la massima attenzione. Egli scrive che se l’Europa saprà pienamente riconoscersi nella Carta «troverà pure una via d’uscita da una sua minorità, dal suo continuare ad essere “nano politico”». Ho il timore che, per ridare un profilo politico all’Europa, ciò possa non bastare – se insieme non si mette in moto un processo costituente che restituisca, almeno nella fase di avvio, piena sovranità politica ai popoli europei in una forma non del tutto coincidente con una pura giuridicizzazione. C’è sempre un momento iniziale in cui il politico oltrepassa il giuridico o almeno lo forza in una direzione imprevista. Ovviamente domande del genere, che rivolgo all’autore, nascono dall’impianto stesso di una ricerca che per ricchezza, competenza e intelligenza, ha pochi uguali nel dibattuto giuridico contemporaneo.

Il saggio “Il diritto di avere diritti” di Stefano Rodotà è pubblicato dalla casa editrice Laterza (pagg. 448, euro 20)

Repubblica 23.11.12
Il brano tratto da un’intervista inedita fatta nel 1992 al celebre artista
Una breve storia della Sinistra secondo Gaber
L’utopia del signor G
di Laura Franza


“Qualcuno era comunista”. Partiamo da questa tua celebre canzone, diciamo canzone ma…
«È un monologo in realtà, non c’è la musica è solo un commento, un ambiente. Il testo non nasce da un’analisi vera e propria, nel senso che il più delle volte, anzi quasi sempre direi, il nostro lavoro (e dico nostro per tutte le cose firmate Gaber e Luporini) parte da una sensazione fisica, e non tanto da un’osservazione razionale. Vedevamo finire un periodo, una serie di sfaceli in giro per il mondo cominciati tanto tempo prima, non certo solo quelli degli ultimi due anni, un periodo in cui effettivamente c’è stato una specie di crollo generale. Ed ecco la sensazione fisica, un interrogarsi anche su noi stessi, su come hai vissuto, su come ti sei comportato, su come hai creduto, su come ti sei mosso insomma, e senti che la domanda nasce da un disagio, un malessere che riguarda sì in generale la perestrojka, ma anche prima, arriviamo alle Brigate rosse, e anche più indietro».
Quindi hai usato il termine comunista, ma per intendere tanto di più…
«Sì. La parola comunista in qualche modo andava intesa e spiegata. Il malessere di cui parlavo era dovuto se vuoi al Muro che cadeva, alla miseria nell’Unione Sovietica, alla sinistra in balìa da una parte di sensi di colpa… come dire: “Abbiamo sbagliato”, forse. Dall’altra parte con mancanze quasi propriamente fisiche, c’è gente che gli è mancata la mamma, è mancata la sicurezza».
… e con la scissione tra Pci e Rifondazione questa insicurezza è diventata più evidente…
«Sì, e a quel punto ecco, il malessere generale cui accennavo malamente, io l’ho provato. Con la sensazione che tutto quello che era accaduto in fondo doveva succedere, non ci sono rimpianti, non si può dire: “Era meglio che tutto rimanesse uguale”. Comunque penso che questo cambiamento così rapido lo pagheremo nei prossimi vent’anni, non è una cosa che ci lascerà indenni. È chiaro che una frattura del mondo nei due grandi blocchi, dove in uno si vive in un certo modo, nell’altro si vive in un altro non poteva durare, per carità. È chiaro che ci dovesse essere un cambiamento, anche perché le distanze si sono accorciate, i paesi sono più vicini, ci sono i satelliti, e tanti fattori che non potevano conservare questa sorta di “invulnerabilità”, di “intoccabilità” delle due parti, niente da obiettare. Però la sensazione era comunque sgradevole... Allora, mi sono un po’ interrogato, partendo da questo malessere, e mi è venuta fuori l’indispensabilità di chiarire non tanto il presente quanto il passato, perché in fondo il malessere ha radici nel passato e quindi andava visto lì, e ho avuto la netta sensazione che sulla parola “comunista” si siano creati negli anni grandissimi fraintendimenti. Non credo all’inizio, dove semmai i fraintendimenti erano probabilmente legati a una non conoscenza, ma comunque a posizioni molto legate al sovietismo in genere e alla Russia, alla dittatura del proletariato, a Lenin… In seguito nel dopoguerra, io non c’ero ma lo immagino, credo che il mito della Russia fosse molto presente. Poi negli anni in cui sono diventato un po’ più grande, quindi parliamo già dopo il ’56, questo “voto” a sinistra, questa adesione alla sinistra, che anch’io ho dato negli anni Sessanta, cominciava a diventare un voto “in più”, imprecisato, un voto di opposizione, un voto che teneva conto di alcune spinte ideali del comunismo, ma che si allontanava sempre più non dico dalla teoria marxista, ma da quella leninista. L’analisi di Marx sulla società, sul condizionamento dell’individuo alla produzione e gli altri concetti, forse essendo idee teoriche e lontane, in qualche modo venivano considerate filosofia, mentre l’applicazione naturalmente andava nella direzione di Lenin e del centralismo democratico russo. Ecco, questo tipo di posizione andava via via, secondo me, trasformandosi fino a raggiungere negli anni ’68-69 una diciamo “adesione” alla sinistra, di massa in questo caso, completamente diversa, molto confusa, molto più allargata».
Come se ognuno se la facesse su misura?
«Sì, diciamo che era come se ognuno in qualche modo ci mettesse le sue spinte ideali dietro le bandiere rosse, che a quel punto già si cominciavano a distinguere, perché c’erano quelle cinesi, quelle russe e quelle italiane, e Berlinguer che diceva, “al di là di Jalta” e “meglio al di qua”, cioè cominciava a fare dei distinguo sull’essere comunisti…». (...)
Allora potremmo chiederci come mai non si è creato un tessuto culturale di sinistra, tale da unire le varie posizioni, un nuovo progetto di sinistra. C’è stata ignoranza, scarsa sensibilità?
«Direi che essendo in atto un desiderio positivo molto forte, a nessuno conveniva creare dei distinguo sul modo di essere comunista, perché comunque sia era gente “contro”. Lo stesso Partito comunista, tanto per dirne una, allora era molto prudente sul ripudiare Stalin (poi l’ha fatto), come anche ad esempio sull’aderire alle istanze giovanili del periodo (che ha ripreso poi molto più tardi). (...) Fuori dal partito invece c’era una grossissima… chiamiamola “aggregazione comunista”, che passava attraverso le donne, l’autocoscienza, il personale è politico, tutta una serie di stimoli che allora il partito ignorava, perché aveva paura. Questo va avanti con grandi entusiasmi e fermenti, quindi grandi movimenti, fino alle Brigate rosse, quando vengono riproposti, in comunicati secondo me deliranti, concetti assolutamente legati alla vecchia logica della dittatura del proletariato, del partito che comanda le masse, la classe operaia… tutti discorsi che noi ormai, ovvero quella sinistra di cui stavamo parlando prima, un po’ vaga, un po’ come si dice tra virgolette “creativa”, aveva assolutamente abbandonato. Però la riproposizione a questo punto di una linea politica assolutamente tradizionale di comunismo appare molto più evidente, molto più forte, molto più espansiva, e provoca la fine del movimento. È chiaro che quando cominci a sparare gli altri sono completamente spiazzati. Il movimento, che si chiamava allora Movimento di sinistra, quindi era comunista con le bandiere rosse, ma non assolutamente soltanto legato al Partito comunista, era molto più allargato. Quell’area lì in qualche modo è ambiguo definirla con la parola comunismo. Devo dire la verità, è il periodo, e per poco tempo anche, in cui io mi sono sentito più vicino a quest’area, in quanto sentivo al suo interno, nella sua vaghezza, una serie di stimoli interessantissimi, che oggi sono ancora rimasticati e riportati fino al disgusto, sono cose dette e ridette, fatte, provate».
Ma non tradotte in azione politica.
«No, non tradotte in azione politica. E anzi direi che per quanto originali e interessanti nell’enunciazione, sono stimoli che sono stati logorati soprattutto da un uso spesso ideologico…
… «dai grigi compagni del Pci»…
«… non solo loro in particolare, sono discorsi che si facevano già allora. Il femminismo ha un momento di inaridimento, oppure di radicalizzazione inaccettabile, il discorso della psicoanalisi, che nasce in quel periodo, diventa un fatto da rotocalco, i discorsi sul corpo, tutte cose che alla fine uno dice: basta, per carità… non se ne può più! E diventano insopportabili proprio perché vengono sputtanate da tutti, a cominciare dai mass-media, che se ne sono appropriati. Ecco, secondo me quel tipo di tensione morale di sinistra così allargata, primo non è vero che si identificava con la militanza, secondo, conteneva dei segnali che sono anarcoidi, non anarchici, anarcoidi nel senso di “contro”, in maniera un po’ imprecisa, non con un progetto politico preciso, buoni comunque a riempire i sogni della gente per andare alle manifestazioni... Nel ’77 io sento che il movimento, che già comincia a rimasticare stimoli degli anni precedenti, va avanti per inerzia e faccio uno spettacolo che si chiama Polli di allevamento in cui ho anche rischiato e sono stato trattato malissimo perché dico: ragazzi, è finita, quella roba lì è finita… Ora, di quel periodo di vaghezza, ma comunque di slancio reale dentro, io sento la mancanza, perché in realtà quella cosa c’era... Di fronte alla sensazione che fra cinque anni tutto quello che abbiamo vissuto passerà come sciocchezze, come banalità, come insulsaggine, ho voluto riaffermare questa mia sensazione, questa mia certezza, che non era così e che dietro a quella parola, in quegli anni, c’erano stimoli, desideri, voglie, tensioni “morali” che ora non esistono più. E oggi è questo il vuoto che abbiamo, la mancanza della parola significa la mancanza dell’utopia…».

Corriere 23.11.12
Intervista - La ministra per la Cultura di Parigi, di origine italiana
«La mia Francia sfida Google e Amazon»
Aurélie Filippetti: senza un accordo con gli editori, obbligheremo i siti a pagare

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Repubblica 23.11.12
I requisiti del prof di religione
risponde Corrado Augias


Caro Augias, insegno da 15 anni in una scuola primaria. Ora, entrata in ruolo dopo un concorso, non posso più insegnare religione se non in possesso di apposita idoneità rilasciata periodicamente dalla diocesi di appartenenza. È il Concordato, bellezza, direbbe Bogart. Così ho deciso di frequentare un apposito corso. Subito ci sono state illustrate le novità contenute ne “L’intesa per l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche” firmata il 18 giugno 2012 dal cardinal Bagnasco e dal ministro Profumo. Ero contenta perché avevo tutti requisiti, poi è arrivata la sorpresa. Dopo l’annuncio di un esame (!?) finale ci viene detto che avremmo dovuto consegnare un attestato del parroco dove si dice che siamo “persone coerenti con la fede professata nella piena comunione ecclesiale”. Qualcuno ha obiettato, ma ci è stato risposto che il diritto canonico non transige sul punto. Trovo questa “patente di buon cattolico” un insulto alla Fede e al Concilio Vaticano II, oltre che illogica. Chi come me non va a messa e per di più convive non potrà averla; al suo posto verrà nominata una persona scelta dalla diocesi.
Barbara Castellari

La prof Castellari definisce il provvedimento illogico. In realtà è peggio: è anticostituzionale. L’articolo 33 della Carta stabilisce perentoriamente che “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. Vero peraltro che questa solenne dichiarazione è indebolita da un altro articolo della Carta, il discusso articolo 7, fonte di molte polemiche. L’articolo sembra aprire bene: “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”. Cavour sarebbe stato contento di leggerlo. Poi però arriva il secondo comma: “I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi” e questo mette in conflitto l’articolo 7 con l’articolo 33. Quale dei due vale di più? Una possibilità sembrerebbero darla le parole finali dell’articolo: “Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”. Con questa chiusa la questione da costituzionale diventa banalmente politica. Mettetevi d’accordo e cambiate, dice il costituente. Ma perché entri in azione la politica bisogna che ci sia la volontà, appunto “politica”, di farlo. Come accadde con Craxi presidente del Consiglio nel 1984 quando il Concordato venne rivisto lasciando cadere, tra l’altro, la nozione del cattolicesimo come “religione di Stato”. Non sembra questo il momento se si pensa che il ministro Profumo che ha co-siglato l’intesa con il capo dei vescovi è lo stesso che in settembre aveva dichiarato: “L’ora di religione così come viene insegnata non ha più senso”. Apriti cielo! S’è talmente aperto che siamo alla lettera della prof Castellari.

Repubblica 23.11.12
Comunicato dei Cdr del gruppo Espresso


IL COORDINAMENTO dei Cdr Espresso, Repubblica, Finegil e Elemedia esprime forte preoccupazione per le ulteriori riduzioni giornalistiche nel Gruppo. È stato dichiarato lo stato di crisi anche al settimanale L'Espresso, testata storica e marchio editoriale, che si aggiunge a quello appena attuato per l'Agl. Oggi l'Espresso non sarà in edicola in segno di protesta contro il pesante programma di tagli annunciato dall'azienda in assenza di un piano editoriale. Con questa azione i redattori dell'Espresso intendono tutelare il patrimonio di una testata che in questi anni ha continuato a distinguersi per le sue battaglie civili, le sue inchieste e la sua indipendenza da qualsiasi centro di potere. I tagli all'organico, nonostante un bilancio di gruppo in utile anche per il 2012, mettono a rischio il livello dell'informazione fino ad oggi garantito con autorevolezza sin dal suo primo numero, il 2 ottobre del 1955. Siamo di fronte all'ennesimo sacrificio richiesto alle redazioni dopo i ridimensionamenti a Radio Capital, al Piccolo di Trieste (che ha proclamato una nuova giornata di sciopero per il primo dicembre e dove è stato presentato anche un piano per la riduzione delle pagine e l'ampliamento dell'offerta su internet) a Bolzano-Trento, al Messaggero Veneto, nei Quotidiani veneti e confermato anche dalla cessazione dei contratti a termine alla Provincia Pavese, dalla chiusura della testata Velvet e, infine, dall'incertezza delle relazioni sindacali a La Nuova Sardegna. Ai colleghi va la solidarietà di tutti i Cdr del Coordinamento, che ribadiscono la necessità e l'urgenza di un piano di sviluppo editoriale non prescindendo dalla valorizzazione del primo patrimonio aziendale: i giornalisti. Per questa ragione si rinnova la richiesta di un incontro urgente dei Cdr del Coordinamento Gruppo Espresso e della Fnsi con i vertici aziendali che possa rilanciare il dialogo e abbia come primo obiettivo il consolidamento delle testate e la definizione di un progetto strategico con regole condivise sulla multimedialità. Il Coordinamento dei Cdr chiede altresì al Governo di non avallare stati di crisi in gruppi editoriali in attivo intervenendo in questo senso sul decreto Sacconi dell'8 ottobre 2009.
Il Coordinamento dei Cdr Espresso Repubblica-Finegil-Elemedia