domenica 25 novembre 2012

l’Unità 25.11.12
Bersani «Garantirò il cambiamento»
Omaggio a Pertini
In Liguria la conclusione della campagna del leader Pd «Abbiamo il coraggio»
Sulle pressioni della finanza mondiale: «C’è Grillo, c’è Berlusconi e vi preoccupate di noi?»
A chi chiede di alleanze con l’Idv: «Con molti se»
di Simone Collini


«Ci abbiamo messo coraggio a fare le primarie, ma ci abbiamo preso». È già soddisfatto per come sono andate le cose, comunque vada oggi e quale che sia il risultato finale, stasera. O stanotte, viste le previsioni che si fanno circa gli elettori totali che oggi andranno ai gazebo e i tempi necessari ai volontari per scrutinare tutte le schede. Pier Luigi Bersani queste primarie le ha volute e le ha difese anche di fronte a dirigenti del Pd che ci vedevano più rischi che opportunità. Perché conosceva il «distacco enorme tra la politica, le istituzioni, e i cittadini», perché sapeva che «il primo avversario da battere sarà quel blocco di sfiducia, distacco, rabbia e indignazione che c’è in giro».
Lo strumento scelto per tentare di colmare quel distacco e per combattere quell’avversario sembra essere quello giusto. Oltre un milione e mezzo di persone già registrate è un successo, che sicuramente aumenterà di dimensioni nel corso della giornata di oggi. Centomila volontari a garantire le operazioni di voto in diecimila gazebo sono una prova di vitalità di un partito (la maggior parte delle disponibilità sono arrivate da militanti e simpatizzanti del Pd) e di una coalizione (anche Sel e Psi e associazioni e movimenti al centrosinistra si sono mobilitati) che si candida a guidare l’Italia.
UN IMPEGNO PER IL CAMBIAMENTO
Bersani sa che governare il Paese non sarà «rose e fiori», e non a caso la parola che più ripete nel giorno in cui chiude la sua campagna per le primarie è «coraggio». La pronuncia soprattutto visitando la casa di Sandro Pertini, a Stella, in provincia di Savona. «Pertini ci indica ancora la strada del coraggio», scrive il leader del Pd sul registro dell’abitazione-museo che fu della famiglia del Capo di Stato più amato dagli italiani. Il Presidente partigiano è per Bersani il simbolo di una generazione che «ha avuto coraggio, gente che non è mai invecchiata rimanendo giovane dentro».
Un simbolo che deve servire da sprone a quanti guardano con sfiducia ai prossimi mesi, vista una crisi che non smette di mordere e istituzioni che sembrano distanti dai problemi dei cittadini. «Adesso tocca a noi avere coraggio, il coraggio di guardare in faccia il disamore e la rabbia. Di non voltarci dall’altra parte. Ci sono tante ragioni per essere disamorati ma così non si risolvono i problemi che abbiamo davanti. La prossima legislatura, se tocca a me, sarà sotto queste due parole: moralità e lavoro. Noi dobbiamo metterci tra l’esigenza di governo e di cambiamento. Se gli elettori scelgono me sappiano che il mio impegno è quello di governare ma anche quello di cambiare, perché senza cambiamento non può esserci governo. Se scelgono me è per questo, perché dove sono stato ho sempre cambiato, non ho mai lasciato le cose come le ho trovate».
SONDAGGI FAVOREVOLI
Bersani viene dato in testa da tutti i sondaggi, e la particolarità degli ultimi diffusi Swg l’altro ieri, Tecné ieri è che il leader del Pd viene dato vicino alla soglia del 50% necessaria per essere proclamati vincitori al primo turno (Tecné ha registrato il 47,4% dei favori per Bersani, seguito da Renzi al 30,5%). Però dice che l’incognita del secondo turno è «l’ultimo» dei suoi pensieri, che le primarie hanno fatto bene al Pd e che in quanto segretario di questo partito lui ha «già vinto».
Le primarie sono per Bersani la prima tappa della campagna elettorale, ed è quindi la sfida per Palazzo Chigi il suo vero obiettivo. Il leader del Pd ci vuole arrivare con una coalizione coesa come quella dei progressisti impegnata nelle primarie, di cui l’Idv potrebbe far parte «con molti se», perché «stavolta non si può scherzare», perché di fronte alle posizioni che Di Pietro ha preso in questi mesi «bisogna che ci siano dei gesti politici significativi che correggano». Bersani vuole arrivare al voto di marzo con un credito di «credibilità» da giocare di fronte agli elettori italiani e agli osservatori internazionali. E nel comizio di chiusura che fa in un’affollata Sala della chiamata del porto di Genova, critica le pressioni arrivate dall’estero e dal mondo della finanza sulla politica italiana. «Se Standard & Poors e Moody's lo consentono andiamo a votare», dice con amaro sarcasmo. «Per un po’ di tempo è sembrato che fosse l’incubo mondiale se l’Italia andava a votare. Se permettono, votiamo. Dopodiché non vengano a far finta di non capire. Guardatevi bene attorno. C’è Grillo che dice via dall’euro e non paghiamo i debiti, c’è Berlusconi, e con tutta ‘sta roba qua vi preoccupate di noi?».
Oggi il leader del Pd voterà a Piacenza, dove poi rimarrà ad aspettare il risultato delle primarie. E Alfano che ha escluso partecipi a quelle del Pdl se ci saranno candidati indagati? «Noi non abbiamo questo problema, veda lui».

l’Unità 25.11.12
L’Italia ai gazebo. «Almeno 3 milioni»
«Sarà un successo straordinario», prevede Nico Stumpo. 100mila volontari, 9239 seggi in tutto il Paese
di Maria Zegarelli


ROMA Le primarie nelle mani di tre donne, bella notizia questa. Vero, il deus ex machina resta sempre Nico Stumpo, responsabile organizzazione del Pd, ma stavolta sono loro tre, Varina Rapetti, Elettra Pozzilli e Graziella Falconi, ad avere il controllo dell’enorme macchina organizzativa messa in piedi dalla coalizione di centrosinistra, Pd Sel-Psi. La previsione, nessuno fa numeri ma le ipotesi circolano, è di un’affluenza di almeno di tre milioni di elettori, oltre un milione e mezzo quelli che risultavano registrati ieri tra on line e cartaceo.
Nico Stumpo parla dalla grande sale riunioni del centro raccolta dati al quinto piano di via Tomacelli, là dove un tempo c’era la sede del Manifesto. Sobrietà è la parola d’ordine, già a partire dagli interni: il minimo indispensabile, anche in termini di risorse umane, perché tutto è concentrato e dirottato nei circoli e negli uffici elettorali. Sarà qui che domani sera dalle 8 in poi confluiranno i dati da tutta Italia, il sistema informatico è sotto il controllo di Varina Rapetti, 31 anni. Resta in conferenza stampa il tempo di illustrare come funziona il trasferimento dei dati dai seggi al cervellone centrale e poi scappa via. Nella scala affianco al primo piano gli operai stanno ancora lavorando per allestire la sala stampa ed è prevedibile che andranno avanti tutta la notte. «Il nostro tratto distintivo è la sobrietà, spese ridotte al minimo e tanto volontariato perché noi non siamo il Viminale e non abbiamo l’esercito», racconta Stumpo. Ringrazia i partiti, i candidati, parla di un «clima sereno» e di grande rispetto.
I numeri di queste primarie già ora raccontano l’enorme sforzo messo in campo: 9239 seggi ed altrettanti uffici elettorali (dove sarà possibile registrarsi anche oggi) in 7949 Comuni sul totale di 8215. Più seggi itineranti che copriranno con diverse fasce orarie i centri più piccoli, possibilità di voto anche a domicilio per chi è impossibilitato per motivi di salute a spostarsi dalla propria abitazione; possibilità di voto fuori sede per studenti e lavoratori. 135 i seggi e gli uffici elettoriali istituiti in 19 Paesi del mondo, 110 le città coinvolte, oltre seimila coloro che dall’estero votano on line (in alcuni paesi il voto è iniziato già la scorsa notte), oltre 100mila i volontari che garantiranno il regolare svoglimento del voto. Stumpo definisce quello che sta per consumarsi «un evento straordinario che è già un successo». E forse è davvero così in tempo di antipolitica e disaffezione dei cittadini alle urne. Se coloro che si sono pre-registrati sono oltre un milione e mezzo (550mila on line) non è bizzarro immaginare che oggi si rechino a votare almeno il doppio. Un piccolo indizio arriva proprio dagli italiani residenti all’estero: si sono registrati on line 6405, il triplo di quelli che lo fecero nel 2009, lo stesso numero del totale degli elettori di quella tornata che decise la segreteria Bersani.
E le temute file? Stumpo dice che sarebbe preoccupante se non ci fossero, poi aggiunge che ne ricorda «di bellissime» nelle scorse primarie, «con la gente che conversava mentre aspettava il suo turno». Come a dire: abbiate pazienza e approfittatene per socializzare. Nel frattempo per evitare intoppi Graziella Falconi ha inviata un’altra delle sue preziose direttive ai comitati provinciali e ai presidenti di seggio invitando a prendere misure di snellimento delle code. Se tutto filerà liscio, se non ci saranno file nei seggi alle 20 di sera, intorno alle 22-22.30 si potrà sapere il risultato, se sarà ballotaggio o se già stasera si saprà chi è il candidato premier del centrosinistra. Ogni presidente di seggio sarà dotato di un proprio codice di riconoscimento con il quale avrà accesso ad un risponditore automatico di un numero verde istituito ad hoc e al quale dovrà comunicare i risultati. Dal data base verrà trasmesso un messaggio di conferma dei dati e un codice da riportare sul verbale di seggio. I dati che affluiscono saranno visibili in diretta a partire dalle 21 e comunque quando arrivano i risultati di almeno 300 seggi) sul sito www.primarieitaliabenecomune.it e sul sito de l’Unità.
Tra le città estere da segnalare il Cairo, Tunisi e Amman (dove le operazioni di voto sono garantite da cooperanti): malgrado i rischi e le tensioni in corso gli italiani hanno comunque garantito l’apertura di un seggio, come spiega Eugenio Marino, responsabile Italiani all’estero per il Pd.
Roberto Cuillo, responsabile comunicazione, tiene le dita incrociate. Racconta che l’altro ieri a causa dei tantissimi contatti sul sito del Comitato il sistema ad un certo punto è andato in tilt ed è stato necessario incrementare di altre quattro macchine di supporto. Oggi, giornata internazionale contro la violenza sulle donne il centrosinistra diffonderà materiale informativo ai gazebo.

il Fatto 25.11.12
Volontari della democrazia
di Antonio Padellaro


Forse saranno tre milioni gli italiani che oggi parteciperanno alle primarie del centrosinistra, forse anche di più ma se anche si presentasse ai seggi soltanto quel milione e mezzo di persone che si sono già iscritte al voto sarebbe un miracolo della democrazia. Non veniamo forse dagli anni più bui della politica italiana? L'orgia del potere berlusconiano, le leggi vergogna, la corruzione elevata a principio, il denaro pubblico sperperato da cricche e caste, il duplice, infame record dell'evasione fiscale e della pressione fiscale, le imprese che chiudono, i lavoratori a spasso e dei giovani, poveri giovani che ne parliamo a fare? Insomma, lo sfacelo civile e morale davanti al quale una parte della nazione reagisce mettendosi in fila e poi rimettendosi in fila sopportando lunghe attese e complicazioni burocratiche con l'unico, evidente scopo di scrivere un nome sopra una scheda. Perché lo fanno? Già qualche leader, passato o futuro prova a gonfiare il petto per accaparrarsi il merito per quelle benemerite file. Per favore, non ci provino. In queste settimane, al di là delle varie storie politiche (alcune dignitose, altre meno) il dibattito tra Bersani, Renzi, Vendola, Puppato e Tabacci è sembrato abbastanza fumoso e senza una idea una sul futuro dell’Italia capace di fare battere il cuore. Del resto, questo è quello che passa il convento e l'imbarazzante piazzata per strapparsi una comparsata al Tg1 la dice lunga su certi vizi duri a morire. Ma no, il merito di questa grande testimonianza democratica è quasi esclusivamente di quel milione e mezzo di persone che si sono messe in fila per votare che oggi potrebbero diventare molti di più. Dice un vecchio aforisma che democrazia è il nome che diamo al popolo ogni volta che abbiamo bisogno di lui. Per il popolo rispondere anche stavolta è quasi una forma di eroismo dopo i tanti schiaffi ricevuti. Chi vince ne tenga conto e non disperda gli impegni nella solita nuvola di parole al vento. L'impressione è che difficilmente avrà (e avranno) una prova d'appello.

il Fatto 25.11.12
Bersani
“Non voglio piacervi, ma essere creduto”
di Wanda Marra


“Sei bellissimo”, gli urlano dal pubblico. Lui si schernisce, sorride: “Sono moderatamente bersaniano, lo sapete”. Così Pier Luigi Bersani inizia l’ultimo comizio della sua campagna per le primarie. Nella sala Chiamate, sede degli scaricatori portuali della Culmv, a Genova. Perché “siccome mi viene sempre in testa che bisogna dire la cosa essenziale e la cosa essenziale si chiama lavoro, allora mi viene in mente Genova”, motiva lui. Tirato, ma a suo agio, con la cravatta rossa, nella variabile a pois. Prima era andato a Stella, a casa di Pertini (“Ci indica ancora la strada del coraggio”, scrive sul libro degli ospiti) e poi sulla sua tomba. “Non si possono avere foglie nuove se si tagliano le radici. Altrimenti sono foglie degli altri, non sono le tue”. Una scelta simbolica: un presidente della Repubblica, non comunista, ma socialista, un luogo con le bandiere italiane, e non quelle di partito.
NEL LINGUAGGIO, nei contenuti, nello stile, la campagna di Bersani finisce così com’era iniziata: in mezzo alla gente, cercando di trasmettere senza fuochi d’artificio un paio di messaggi chiari. A “Che tempo che fa”, la domenica dopo l’Assemblea che aveva dato il via ufficiale alle consultazioni aveva detto: “La realtà è più importante dell'immaginazione”. Partendo da Bettola, dalla pompa di benzina del padre aveva dichiarato: “Chi si presenta agli italiani deve dire certo quel che farà, ma soprattutto quel che è stato e quel che è”. Ieri chiarisce: “Se toccherà a me dirò che non intendo piacervi ma essere creduto”. Anche questo un concetto che è andato ripetendo nei comizi in giro per l’Italia, lui “l’usato sicuro”, contro il rottamatore rischioso. Insieme a lui in Liguria sono andati i fedelissimi: il portavoce Stefano Di Tra-glia con Chiara Muzzi, dell’ufficio stampa, la direttrice di Youdem, Chiara Geloni, e Miguel Gotor, l’intellettuale, i giovani del comitato, Alessandra Moretto e Tommaso Giuntella. Raccontano che era contento, soddisfatto. Lui rivendica: “Queste primarie le ho volute io, le ho volute aperte”. E infatti, lui si gioca una partita importante: se vince, è il leader indiscusso (almeno del Pd), più forte di quando ha vinto il congresso, con una libertà rispetto ai “vecchi” del partito che prima non aveva; se perde, è una sconfitta secca. La parola sconfitta - comunque - in questo momento non esiste tra i bersaniani: il segretario è saldamente in testa in tutti i sondaggi, addirittura a un soffio da una vittoria al primo turno. Anche se nel suo staff frenano: si andrà al ballottaggio, cinque candidati sono troppi per vincere già oggi. Intanto, proprio nella conferenza stampa che precede il comizio di chiusura, Bersani riapre una porta all’Idv: “Un’alleanza? Sì ma con molti se.. ” precisa, chiedendo “gesti politici significativi che chiariscano e correggano”. Il leader dell’Idv aveva invitato a votare per lui (e comunque non per Renzi). Voti che evidentemente servono anche oggi.
Il segretario vota stamattina a Piacenza, e poi rimane lì, a casa sua. Forse in serata, a risultati noti, andrà al Comitato locale a commentarli. Nessuna uscita, nessuna tv, neanche ieri. Nel-l’intervista più o meno collettiva di venerdì sera al Tg1 d’altra parte l’espressione tra l’annoiato e lo scocciato la diceva lunga.
NEL COMIZIO finale, Matteo Renzi, come al solito, neanche lo nomina. Punta sulla serietà del “cambiamento”: “Se gli elettori scelgono me sappiano che il mio impegno è quello di governare, ma anche quello di cambiare”. E la battuta che ha fatto più volte nell’ultima settimana: “Questa cosa dei vecchi e dei giovani è roba da psicanalisi”. Poi: “Tutti assieme ne verremo fuori non con un uomo solo al comando”. Lo stile Bersani è servito.

«Dare il nome giusto alle cose – diceva Rosa Luxemburg – è un atto rivoluzionario».
l’Unità 25.11.12
Gianrico Carofiglio
Lo scrittore: «Una politica davvero nuova è quella che parla il linguaggio della verità La verità è un atto rivoluzionario»
«È il progetto di Bersani che può cambiare il Paese»
di Salvo Fallica


È finalmente il tempo del centrosinistra. Il populismo berlusconiano con le sue grossolane semplificazioni, le sue menzogne, la sua manipolazione della realtà e del linguaggio è arrivato al collasso. Le primarie faranno bene al Paese». Così lo scrittore e senatore Pd, Gianrico Carofiglio, inizia il colloquio con l'Unità.
Il celebre avvocato Guerrieri, protagonista dei suoi gialli filosofici, per chi voterebbe alle primarie del Pd?
Carofiglio fa una pausa, sorride. «Spero che faccia quello che gli dico io, ma non sono così sicuro...»
Qual è la scelta dello scrittore-senatore Carofiglio?
«Bersani, ma non è stata una decisione scontata. Molte cose della proposta di Renzi mi piacciono, trovo che lui abbia un notevole talento politico e non credo affatto che se vincesse come qualcuno ipotizza sarebbe la fine del Pd. Credo però che il progetto di Bersani sia più solido e abbia maggiori possibilità di produrre i cambiamenti di cui il Paese ha bisogno».
Con quale linguaggio? Con quale parole guida?
«Un importante studioso della comunicazione politica ha scritto: “Non c’è nulla che emozioni quanto dire la verità”. Sono d’accordo: una politica davvero nuova è quella che parla il linguaggio della verità e chiama coraggiosamente le cose con il loro nome. Dare il nome giusto alle cose – diceva Rosa Luxemburg – è un atto rivoluzionario».
Dopo lo svolgimento delle primarie, la chiama il vincitore. Le chiede uno slogan per la campagna elettorale del centrosinistra. Cosa risponde?
«Ce l’ho uno slogan. Se il vincitore mi chiama glielo dico, molto volentieri». Lei aveva profetizzato il declino di Berlusconi e del berlusconismo quando erano all'apice. Si aspettava questa rapida debacle?
«Francamente sì. Volendo giocare con le metafore e le analogie io vedo una sorprendente somiglianza fra il collasso della finanza mondiale dovuto all’offerta dei cosiddetti titoli tossici e il collasso della destra italiana dovuto a un’offerta politica contraffatta e anch’essa tossica. Tutti e due i fenomeni erano ampiamente prevedibili».
Mentre il berlusconismo declina, avanzano i grillini. Che idea si è fatta della crescita elettorale del M5S?
«Il movimento di Casaleggio e Grillo è tecnicamente un’agenzia del risentimento, cioè un soggetto organizzato che maneggia le rabbie sociali e individuali, le alimenta con propagande manipolatorie e le organizza proponendo pseudosoluzioni. In periodi difficili come quello che stiamo vivendo le agenzie del risentimento conoscono una speciale prosperità».
Crescono i casi di aderenti al M5S che stanno dimostrando non solo di essere culturalmente diversi da Grillo, ma addirittura si ribellano ad alcuni suoi divieti. E in qualche caso, come in Sicilia, mostrano una volontà di confronto. Qual è la sua opinione? «È già stato detto ma voglio ripeterlo: una cosa è il messaggio violentemente populista di Casaleggio e Grillo un’altra sono le buone ragioni che inducono parti vitali della nostra società a rivolgersi in quella direzione. Si tratta di forze che bisognerà coinvolgere, rispettandone la diversità, in un grande progetto di riforma della politica e del Paese. Da questo punto di vista la straordinaria partecipazione che si annuncia alle primarie del centrosinistra fa ben sperare»

La Stampa 25.11.12
Pier Luigi Bersani
La sfida del leader, unire il Pd per non far crollare il sistema
L’uomo meno interessato alle poltrone ultimo argine della politica classica
L’ultimo assalto. Non abbiamo fatto questa gara per avere un premio dalla critica
di Federico Geremicca


Ora, a Pier Luigi Bersani si può naturalmente dire di tutto. Che è un bell’esempio di «usato sicuro» (con questo intendendo un ferrovecchio, o giù di lì). Che il suo appeal è quello che è, che l’idea di politica che ha in testa è una roba da secolo scorso, da treno a vapore, e via proseguendo: ma bisognerebbe almeno ammettere - cioè dovrebbero ammetterlo quelli che hanno tentato in ogni modo di tenerlo lontano da queste primarie - ecco, almeno bisognerebbe ammettere che aveva ragione lui: «Se facciamo le cose perbene, dopo queste primarie non ci ammazza più nessuno». Lo disse - mentre cercava di convincere altri leader recalcitranti ad accettare la sfida del giovane Renzi a modo suo: ma ci aveva visto giusto. Oggi, infatti, Pier Luigi Bersani è il segretario di un partito che i sondaggi danno non solo primo, ma in frenetica crescita: e gli stessi sondaggi, quale più quale meno, lo indicano avanti (in alcuni casi molto avanti) anche nell’insidioso testa a testa col sindaco di Firenze. C’è da esser soddisfatti. Meglio: ci sarebbe da esser soddisfatti. Perchè il leader dei democrats, naturalmente, ancora non lo è.
Non è solo questione che la partita delle primarie sia ancora tutt’altro che chiusa. E’ che continua ad avvertire, nel gruppo dirigente che lo attornia - e perfino in fasce del partito - timidezze e impacci che non gli piacciono. Non a caso, ha voluto metterlo nero su bianco nel registro dell’abitazione-museo di Sandro Pertini, che ha visitato giusto ieri: «Pertini ci indica ancora la strada del coraggio». E ai cronisti che gli chiedevano che cosa intendesse, ha spiegato: «Ci abbiamo messo un po’ di coraggio a fare le primarie, ma ci abbiamo preso... Ora, però, ci vuole il coraggio di affrontare la disaffezione e la rabbia di molti cittadini: il coraggio di dire loro che rabbia e disaffezione non risolveranno i nostri problemi».
La disaffezione verso la politica e la rabbia verso i partiti (messi assieme alimentano la disperata voglia di un ricambio) sono il vento che ha gonfiato le vele di Matteo Renzi in questi due mesi e mezzo di campagna; la drammaticità della crisi, invece, la voglia di guide affidabili, credibili e sicure, sono stati - al contrario - benzina per la corsa del segretario: «Certo, un cambiamento ci vorrebbe - è il ragionamento di molti - ma come si fa, in una situazione così e col Paese in queste condizioni, a mettere il governo in mano ad un giovanotto come Renzi? ».
Eppure le primarie sembrano non decise. Pier Luigi Bersani sa che dentro e fuori del Pd e del centrosinistra, si guarda a lui come all’ultimo argine possibile per la tenuta e la difesa di un sistema sul punto di collassare. Se infatti il segretario perdesse, a vantaggio di Matteo Renzi, nulla sarebbe più come prima, nè nel Pd nè nell’intero centrosinistra: i democrats probabilmente si dividerebbero, nascerebbero nuovi raggruppamenti, le alleanze fin qui ipotizzate andrebbero in malora. E in fondo è forse questa la preoccupazione maggiore per Bersani: che per il resto, probabilmente, farebbe senza traumi un passo indietro, essendo - tra i leader in campo - il meno storicamente legato a poltrone e posizioni di potere.
Non è dunque solo del destino di Pier Luigi Bersani che decidono queste primarie. Il segretario lo sa, come sa bene che una sua vittoria non significherebbe automaticamente riprendere a passeggiare su un tappeto di rose. Molti dei leader della sua maggioranza non hanno apprezzato il sì alla sfida con Renzi (che Bersani avrebbe potuto evitare semplicemente appellandosi allo Statuto del Pd) ; e molti altri non hanno gradito lo “spostamento a sinistra” dell’asse del partito dovuto in parte - alle elezioni ormai vicine: ma anche, se non soprattutto, alla necessità di contrastare e distinguersi dal “moderatismo” di Renzi. Con i primi e con i secondi, i conti toccherà farli...
E poi, naturalmente, ci sarebbe da combattere e vincere le “secondarie”, cioè le elezioni di primavera. La strada sembrerebbe in discesa ma i confusi processi di ristrutturazione del centrodestra e l’onda impetuosa del fenomeno-Grillo non possono far dormire sonni tranquilli. In più, c’è il delicato capitolo delle alleanze, con il centro che - tra partiti vecchi e nuovi, e l’incognita Monti - sembra un vulcano in eruzione. Infine, la delusione e i problemi legati alle scelte ed ai tentennamenti dell’Udc di Casini (spesso attaccato da Renzi), rilevantissimo nella strategia sia politica che elettorale di Bersani: prende un’altra via e tradisce le intese che sembravano fatte? Chissa. Certo una delusione per il segretario. Che con qualche sgomento - ma alla fine sorridendo - ha appreso la notizia battuta ieri a metà pomeriggio dalle agenzie: il segretario dell’Udc di Ravenna scoperto mentre cercava di registrarsi per poi votare Renzi. Roba da non crederci, se non fosse tristemente vero...

Repubblica 25.11.12
Bersani e la vittoria a un passo “Sento una responsabilità enorme tanti già chiedono un aiuto a me”
Omaggio a Pertini. Poi a Genova: la priorità è il lavoro
di Goffredo De Marchis


STELLA (Savona) — Nell’auto che sfreccia in mezzo alla nebbiolina della pianura Padana, Pierluigi Bersani giura di non sentire il pathos della competizione, il timore di non essere primo, di aver corso tanto e non arrivare infine al traguardo massimo. «Non ci penso. Anzi, non ci riesco a sentire il brivido di poter perdere tutto. Ho la ditta e i problemi dell’Italia nel sangue. Non c’è posto per altro», dice. Forse esorcizza i fantasmi mentre guarda fuori dal finestrino le migliaia di capannoni che sono il senso e il paesaggio di questa parte di Paese che è la sua. Stamattina si va a Stella, un comune arrampicato sulle colline dell’entroterra ligure dove nacque Sandro Pertini, il soldato semplice, il prigioniero delle carceri fasciste, il partigiano, il presidente della Repubblica. Una storia avventurosa ed esemplare, un’altra tessera del Pantheon da mettere accanto a Papa Giovanni. E pensare che il leader socialista era un mangiapreti. «E’ vero — sorride Bersani — altro che. Allora facciamo così: mi dissocio da questo pezzo della vicenda politica di Pertini». Ha appena cantato Bella ciao raccolto davanti alla tomba di famiglia, dove la targa più bella accanto a quelle dell’Anpi è una in ottone che ricorda il grande amore di Sandro e Carla. Nella casa museo tenuta benissimo, tra le fotografie del secolo scorso, Bersani si è anche un po’ commosso e ha rivendicato un coraggio minore rispetto a quello dei partigiani: il coraggio di fare le primarie. Già questo è un successo.
La lunga corsa è finita. Finisce simbolicamente qui, tra le montagne della Resistenza con la tappa finale a Genova. «Perché Genova? Perché per la sinistra è da sempre la città del lavoro. E ora della crisi». Le primarie sono un vanto. Il secondo turno, a cui è probabile che si andrà domenica prossima, pure. «Ce ne vorrebbero quattro o cinque di turni. Fanno così bene al partito», scherza allargando le braccia. Non le volevano D’Alema, Bindi, Franco Marini, la pancia del partito in periferia. Ma adesso, chi può dirne male? Qualcuno lo ha anche chiamato, in questi giorni, per confessargli: «Avevi ragione tu, Pierluigi». «E’ vero, in tanti mi dicono che abbiamo fatto bene». Niente nomi, per carità. Bersani sembra non smettere mai di pensare alla tenuta complessiva del partito. «Le preoccupazioni erano quasi tutte oneste», dice. In quel quasi un rivendicazione minima. «Infatti gli scettici al dunque ci hanno messo consapevolezza e disciplina». Chi ci ripensa, chi oggi dà valore allo strumento che inizialmente rifiutava, riceve da Bersani l’altra guancia. «Sa come gli rispondo? Avevi ragione anche tu a scegliere di venirmi dietro senza essere convinto».
A Stella, un paesino di anziani che nella quiete della provincia vive uno strano momento, con le ronde di cacciatori che girano la notte perché troppo spesso i ladri entrano nelle case, il segretario del Pd si ferma a salutare i giovani democratici, abbraccia la sindaca, si fa accompagnare dal segretario del Psi Nencini. Scendendo dal cimitero, Bersani racconta. «Ho pensato chissà se a Pertini sarebbe piaciuto il governo Monti, per esempio. Ho pensato che oggi, al massimo tra sette giorni, ci sarà il primo candidato premier di queste elezioni». Un di più di responsabilità, un catalizzatore diverso
dal governo per le proteste, per la rabbia. «E’ una responsabilità enorme, ma già mi fermano in tanti per chiedermi un aiuto. Adesso si devono muovere anche gli altri, entro dicembre il quadro dev’essere chiaro. Con un Paese già sbandato, non si può cincischiare».
Si sfreccia sull’autostrada che va a Genova per il comizio finale nella sala della Chiamata al porto, il quartier generale dei camalli. Tantissime persone, le foto di Togliatti, Lenin e Guido Rossa vegliano sullo stanzone, seminascoste dalle bandiere. La mezza apertura all’Idv è solo un passaggio: «Sì a Di Pietro con molti se». Semmai colpisce che Bersani parli apertamente degli ostacoli interni e internazionali a un governo di centrosinistra. Lo ha fatto il giorno prima persino con gli allevatori del Caseificio Razionale di Novi di Modena. Gli incontri con gli ambasciatori che sta tenendo in queste settimane lo choccano. E’ tutto vero: gli chiedono cosa succederà dopo Monti, se il centrosinistra sarà quello della vicenda Dal Molin, per esempio, quando il raddoppio della base Usa restituì l’immagine di un governo che dice sì e di ministri che scendono in piazza per il no. «Ma anche noi — spiega Bersani — siamo quelli dei tecnici, di Prodi, Padoa Schioppa, Ciampi, Visco. Siamo quelli dell’euro. E vi preoccupate del centrosinistra quando avete dall’altra parte Grillo o Berlusconi, di cui spero il buon Dio abbia smarrito lo stampo?». Se è Vendola il problema, alle cancellerie, attraverso i canali diplomatici, Bersani ricorda che governa la regione più ricca del Sud da 7 anni. «Se non ci siamo noi, l’Italia diventa un problema per l’Europa». Ma evidentemente la questione dell’affidabilità esiste e per far tornare il sorriso serve don Ivo, anziano parroco della Bassa, che Bersani abbraccia. «Poi mi inviti a pranzo a Palazzo Chigi neh». Senza farlo sapere a Pertini però.

Corriere 25.11.12
Daniela Ferrari
La farmacista comunale che sogna con Jane Austen
di Elsa Muschella


Nessuno si aspettava le scintille di Liz Taylor e Richard Burton e però, a dirla tutta, neanche l'elettrocardiogramma piatto. Con Pier Luigi Bersani e signora proprio non c'è verso: la risultante pubblica di un amore solidissimo che dura da più di 40 anni è un combinato disposto di sobrietà e discrezione capace non solo di ammazzare qualsiasi gossip ma persino di demotivare ogni personale indulgenza al pettegolezzo. Con questa coppia qui bisogna farsi bastare quel che abbiamo tutti: fuori i gioielli faraonici, i bicchieri di scotch e le piazzate in strada, dentro la quotidianità. La colpa (solo nel processo di resa mediatica, naturalmente) è sempre della moglie. Cosa scrivono i giornali di lei? Daniela Ferrari, 61 anni, nata a Bettola, lavora da una vita in una farmacia comunale di Piacenza. Capelli in piega, trucco quanto basta, gonna con l'orlo al ginocchio in alternativa ai jeans, si muove nelle abitudini di una mamma italiana che fa la spesa alla Coop, schiva senza rimpianto le Prime della Scala una stagione via l'altra e cresce le due figlie, Elisa e Margherita, intorno al tavolo da pranzo o davanti alle repliche Rai della principessa Sissi. Allora è chiaro che, da lettori, la signora Bersani ci è parente: è nostra madre che stira cantando Loredana Bertè, è la zia col sorriso pronto a partire sotto uno sguardo severo, è una di famiglia, insomma, che dice di voler fare un monumento al microonde, che fantastica rileggendo Jane Austen, che se col marito impegnatissimo a Roma si vede una volta a settimana poco male, dormo così comoda. Pure il ricordo dei due diciottenni che si conoscono e si sposano dopo 10 anni di fidanzamento è casalingo, alla buona come quello dei nostri genitori: sul pullman dei pendolari da Bettola a Piacenza, nell'anno di grazia 1970, un Cary Grant emiliano finalmente si decide a sedersi accanto alla ragazza che gli piace e avanza richiesta di un fiammifero per accendersi la sigaretta. Lui — che all'epoca, «se ci si divide in belli, medi e brutti, quando avevo i capelli, ero bello» — non ha mai avuto dubbi: «Mia moglie è bellissima!». In sostanza, come diceva la nonna del segretario — bracciante, sarta e avanguardia domestica di un'innegabile passione per le metafore — «ce n'è abbastanza da fare l'orlo al Po» di questo matrimonio all'antica che a finire in copertina neanche per idea. Abbiamo capito il tipo. Anche senza prendersi la briga di smentire Chi, com'è stata costretta a fare all'inizio di novembre, nessuno può credere che dopo aver parcheggiato un secondo in sosta vietata, per entrare al volo in una profumeria di Ponte dell'Olio, la first consorte abbia potuto rispondere «Lei non sa chi sono io» alla vigilessa verbalizzante: «La multa era giusta e l'ho pagata, ma non mi passa per l'anticamera del cervello di usare un'espressione arrogante e caricaturale come quella che mi hanno attribuito». Signora Daniela, non c'è bisogno, ci fidiamo.

Repubblica 25.11.12
Porcellum, Giachetti allo stremo “Ma la mia battaglia non è servita”
Digiuna da 84 giorni. “Il Pd mi ha lasciato solo”
di Alessandra Longo


ROMA — In tre mesi e mezzo ha mangiato venti giorni (era agosto, a Parlamento chiuso). Roberto Giachetti, deputato Pd, ha fatto tutto questo, com’è noto (ma non troppo) per imprimere un’accelerazione al varo di una nuova legge elettorale. Adesso potremmo essere agli sgoccioli della legislatura e certo Giachetti è agli sgoccioli della sua personale resistenza: «Non sono né un martire né un eroe. Vediamo se ce la faccio per un’altra settimana, quella che pare serva per chiudere al Senato. Me lo diranno i medici se posso continuare. Una cosa comunque già la dico: il mio bilancio politico è negativo».
Giachetti, scusi, lei rischia sul suo corpo. Ha ancora senso? »
«Guardi, in un altro Paese un’iniziativa così sarebbe stata degna di cronaca».
Forse mancano alla sua protesta le tinte forti.
«Infatti, dovevo fare bunga bunga o aprire il mio Ipad alla Camera su un sito porno per aver spazio sui giornali. Vorrei che fosse chiaro che questa battaglia non l’ho fatta per me, né per avere una legge a mia immagine e somiglianza. L’ho fatta perché non basta condannare i Lusi e i Fiorito, bisogna anche restituire nei fatti credibilità alla politica. E il Porcellum è un’indecenza. C’erano undici mesi di tempo per cambiarlo».
E adesso?
«E adesso noi siamo trascinati in questa melma di accordi e accordicchi».
Dice noi del Pd?
«Sì. Ci troviamo di fronte a questo bel capolavoro politico: o facciamo saltare la riformaccia che si profila, che è solo un lifting del Porcellum, oppure ci intestiamo il Porcellum che abbiamo sempre combattuto. Un cul de sac incredibile, una cosa ridicola».
E lei non mangia da 84 giorni.
«Continuo finché il medico non dice stop. Confesso però che comincio ad essere spaza
ventato. Martedì farò una colonscopia e mi diranno se ce la faccio ad andare avanti fino a venerdì quando è previsto il voto al Senato. Anche se in queste ore gira voce che Calderoli voglia chiedere una settimana di rinvio per arrivare a dopo il ballottaggio delle primarie. In questo caso farò una conferenza stampa per annunciare la sospensione del digiuno. Non posso più scherzare».
Ma la faranno poi questa legge?
«Se si arriva all’Election Day, la Camera ha una decina di giorni veri per esaminare il testo... E se cambia qualcosa della legge bisogna tornare al Senato, veda un po’ lei... ».
Tempo fa lei aveva anche «messo in vendita» il suo corpo...
«Sì, ma la provocazione non ha funzionato. Nessuno mi ha comprato! Come politico onesto non valgo niente».
Bilancio negativo, sindrome da isolamento?
«Assolutamente sì. Con me si son fatti vivi il presidente della Repubblica, tramite il portavoce, il presidente della Camera e l’altro giorno anche Angelino Alfano. In 120 giorni non ho mai avuto un cenno dal mio segretario di partito».
E Renzi?
«Mi ha chiamato e mi ha anche mandato la clip della sua campagna elettorale».
Morale?
«Alla luce di tutto ciò non posso far finta di nulla».
Dalle primarie arriverà la conferma di un equilibrio o il gradimento per altri interlocutori.
«Appunto per questo voglio ancora riflettere sul da farsi».
Frustrato?
«Beh, non sono stato ascoltato. Mi hanno fatto interviste che non sono mai state trasmesse o pubblicate e il silenzio riguarda anche il giornale del mio partito».
Il digiuno ha l’imprinting delle sue origini, è molto radicale...
«Il Pd dovrebbe essere proprio questo: confluenza di tradizioni culturali e politiche diverse ».
Prossimo digiuno?
«Per carità! Ci sono tanti altri modi di dare battaglia. Il digiuno è una forma estrema quando rimane poco tempo... «.
Il tempo c’era.
«Appunto. Guardi che capolavoro politico hanno fatto».

l’Unità 25.11.12
Cortei e proteste, il mondo della scuola non si ferma
Studenti e prof si riprendono le piazze
Cortei pacifici e colorati a Roma e in tutto il Paese Presidio Cgil: basta tagli
Il cartello ironico: «Semo venuti già menati»
Mobilitazione in tutta Italia. A Roma migliaia di ragazzi e insegnanti, ma nessun incidente
Il presidio della Flc-Cgil. Pantaleo: «Vogliamo difendere la scuola dai tagli devastanti del governo»
di Luciana Cimino


ROMA «Siamo venuti già menati». Il cartello esposto sopra il furgoncino verde che apriva il corteo degli studenti di Roma, a poche ora dall’inizio della manifestazione era una delle foto più diffuse sui social network. Un piccolo pezzo di cartone è diventato il simbolo ironico e irriverente della manifestazione di ieri, come i disordini di quella del 14 novembre. Ieri nessun momento di tensione, nessun scontro con le forze dell’ordine. A metà del lungo percorso alcuni studenti hanno attaccato sulle camionette blindate gli adesivi della campagna per l’identificazione della polizia, gli agenti in tenuta antisommossa li hanno lasciati fare. Il clima era diverso. Da un lato Piazza Farnese era occupata dal presidio della Flc-Cgil, «abbiamo ribadito la necessità di difendere la scuola pubblica dai tagli devastanti e dal progetto di privatizzazione del governo Monti», ha detto il segretario nazionale Mimmo Pantaleo ad una piazza gremita. «Nei prossimi giorni continueranno le mobilitazioni nelle scuole e nei territori, non lasceremo soli gli studenti e con loro la Flc-Cgil intende ricostruire un Paese più giusto, più uguale e più libero attraverso la conoscenza come bene comune».
Dall’altro c’erano appunto gli studenti, medi e universitari. Partiti da Piramide hanno concordato metro per metro il percorso con le forze dell’ordine. Un lunghissimo arzigogolare per le vie di Roma, lontanissimo dai palazzi del potere se non per il passaggio da via Arenula, dove ha sede il ministero della Giustizia dal quale il 14 novembre sarebbero stati lanciati dei lacrimogeni sulla folla. Sale un boato rivolto ai balconi del Guardasigilli, scoppia un petardo, poi compare un cartello con un disegno delle angolazioni dei lanci da un edificio e la scritta: «semo fisici nun ce fregate». Nessuno ha il casco in testa, molti hanno degli scolapasta colorati. I volti sono tutti scoperti. A reggere i «book block» (gli scudi di gommapiuma e cartone a forma di libro), che alla scorsa manifestazione avevano formato una testuggine, c’è ora Elena, 15 anni di Maccarese: «reggere lo scudo è stata una mia scelta dice non ho paura perché siamo tanti».
Di sicuro non sono soli: in mezzo a loro decine e decine di insegnanti e genitori. Lo spezzone degli studenti del X Municipio lo guida il professore di matematica del liceo Artistico. «Non è paternalismo spiega alla scorsa manifestazione c’eravamo pure noi e li hanno manganellati lo stesso, oggi a manifestare della nostra scuola siamo in 85 docenti su 130, pacifici e con la nostra faccia». Paolo, insegnante di educazione fisica è qui «perché per i ragazzi è una lotta importante, le dinamiche dei cortei sono complesse, voglio dare il mio contributo». Simone di 18 anni come gli altri suoi compagni è arrivato da Pomezia con i suoi genitori. In mezzo ai 10mila che sfilano ci sono anche Annamaria e Emanuela, entrambe in pensione, «i ragazzi italiani sono senza futuro, noi siamo al loro fianco, voglio che mia nipote lo sappia perché la solidarietà tra generazioni è fondamentale». E Giulia e Federico che studiano filosofia e biologia alla Sapienza, «il 14 novembre sono stati fatti tanti errori, sarà stato brutto per molti 14enni ma ci fa piacere vedere che sono venuti lo stesso».
Un gruppo di ragazze, in vista della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne di oggi, corrono incontro ai poliziotti con il loro striscione rosa che recita «Picchiami sono una donna». Guido, 21 anni, dei Giovani Democratici commenta: «L’altra manifestazione è stata rovinata da un atteggiamento sbagliato di alcuni e delle forze dell’ordine, oggi si vede solo il bello e il buono della protesta, che è tanto». Roberto Campanelli, portavoce nazionale dell’Unione degli studenti, si compiace della gente che applaude dai balconi al passaggio degli studenti, «ci vedono come una speranza perché contrastiamo le politiche di austerity, la migliore risposta che potevamo dare dopo la repressione del 14 era un coinvolgimento ampio della società civile, il movimento studentesco ha fatto emergere dei problemi. Ora se ne deve accorgere il governo».
Manifestazioni studentesche si sono tenute anche nel resto d’Italia. Migliaia i manifestanti a Palermo e Catania, tra la folla anche una bara di cartone simbolo della «morte della scuola pubblica». A Napoli, dove sul Castel dell'Ovo è stato affisso lo striscione «Cultura contro austerità» e gli operai della Fiom si sono schierati con gli studenti. Tra loro anche Sebastiano, uno dei 19 lavoratori iscritti alla Fiom che dovranno essere assunti, su decisione della magistratura, nella fabbrica di Pomigliano, «orgoglioso di essere al fianco di ragazzi che lottano per il diritto allo studio». A Firenze, dove hanno sfilato in 2.500, un gruppo di circa 500 studenti ha bloccato per mezz’ora la partenza di un treno ad alta velocità. Nessuna tensione ma 3 manifestanti sono stati denunciati. Su un treno gli studenti hanno affisso il cartello «gli studenti hanno un difetto, sanno pensare». A Pisa alcuni giovani sono entrati all'interno dei palazzi di Provincia e Comune e hanno appeso striscioni di protesta. Per Francesca Puglisi, responsabile scuola Pd, ieri «è scesa in piazza l'Italia migliore».

l’Unità 25.11.12
«Dopo gli incidenti siamo tornati con più consapevolezza»
«Siamo arrabbiati perché quello che ci attende è solo precariato: nelle università come al lavoro»
«Per noi arrivare sotto i palazzi del potere non significa metterli a ferro e fuoco, noi cerchiamo la politica del dialogo e del confronto»
di Lu. Ci.


Le manganellate non ci hanno spaventato ma ci hanno convinti ancora di più a lottare». Francesca, 18 anni fra due settimane, frequenta il Liceo Linguistico Russel, a Roma. Si considera una attivista. «La prima volta che sono scesa in piazza è stata al primo liceo con l’Onda, poi nel 2010 contro la Gelmini e adesso di nuovo con il governo tecnico che continua ciò che ha cominciato Berlusconi, tagliare una scuola pubblica già ridotta all’osso». Della manifestazione di ieri è «soddisfattissima». «In corteo c’erano tutte le realtà della scuola: studenti medi, universitari, professori, precari, penso sia stato un bel messaggio». Sapeva che non ci sarebbero stati scontri, «dopo il 14 novembre siamo stati più attenti, abbiamo avuto come si dice “200 occhi per uno”, eravamo concentrati e compatti nel coordinare il corteo». E parla di «paranoia da zona rossa che deve rimanere inviolata», spiegando: «per noi arrivare sotto i palazzi del potere non vuol dire metterli a ferro e fuoco, noi facciamo e cerchiamo la politica del dialogo e del confronto, non la guerra ma volevamo arrivare sotto il Parlamento per fargli vedere che siamo sempre di più e sempre più convinti». Confessa che sono due
anni che studia per superare i test di ammissione a medicina, «la mia passione insieme all’attivismo». «Studierò tantissimo perché l’unico modo per andare avanti è la cultura». Però si sente defraudata. «Io non immaginavo da piccola che crescendo non avrei avuto un presente e neanche un futuro». «Quando usciremo da scuola ci aspetterà una università sempre più precaria e un mondo del lavoro sempre più precario, per questo siamo arrabbiati, non avere certezze è spaesante». «Crescendo mi sono formata una coscienza politica e sono anche più convinta, leggo i giornali e proprio non capisco come no riescano a mettere la patrimoniale o a tagliare gli stipendi dei parlamentari invece di accanirsi sulla scuola, è buon senso». Ma di partiti politici non ne vuole sentire parlare. «Frequento il movimento studentesco ma tessere delle giovanili di partito non ne ho prese perché non mi sento rappresentata da nessuno. Non fanno il bene del paese, tagliano sempre istruzione, sanità, lavoro, i punti nevralgici. Io non voto nessuno che leda la scuola pubblica». Dal corteo di ieri si aspetta tanto: «io spero che quanti erano alla loro prima manifestazione il 14 novembre e comprensibilmente hanno avuto paura tornino in piazza, spero anche che il Governo ritorni sui suoi passi. Le persone si stanno svegliando, hanno capito che c’è una questione scuola, se vuoi fare gli interessi del Paese devi ascoltarlo»

Repubblica 25.11.12
Un nuovo vento che unisce l’Europa
di Ulrick Beck


“SIAMO in piazza per protestare contro la legge che taglia i finanziamenti alla scuola pubblica: come facciamo ad andare avanti se nella nostra scuola non ci
sono abbastanza banchi?”.
Così uno studente di Torino giustificava la sua partecipazione allo sciopero europeo della scorsa settimana. Giusto un anno e mezzo fa siamo stati spettatori di una primavera araba con la quale assolutamente nessuno aveva fatto i conti. Di colpo, regimi autoritari crollarono sotto la spinta dei movimenti democratici di protesta organizzati dalla “Generation Global”. Dopo la primavera araba potrebbe arrivare un autunno, un inverno o una primavera europea? Gli scioperi delle ultime settimane ne sono stati i segnali?
Naturalmente, negli ultimi due o tre anni abbiamo visto ragazzi di Madrid, Tottenham o Atene protestare contro gli effetti delle politiche neo-liberali di risparmio e attirare l’attenzione sul loro destino di generazione perduta. Tuttavia, queste manifestazioni erano in qualche modo ancora legate al dogma dello Stato nazionale. La gente si ribellava nei singoli paesi alla politica tedesco- europea del rigore, adottata dai diversi governi. Ma quello che è accaduto la scorsa settimana parla un’altra lingua: 40 sindacati di 23 paesi hanno indetto una “giornata di azione e solidarietà”. I lavoratori portoghesi e spagnoli hanno chiuso le scuole, hanno paralizzato il traffico e hanno interrotto i trasporti aerei nel primo sciopero generale coordinato a livello europeo. Benché il ministro degli Interni spagnolo abbia parlato di «proteste isolate», nel corso dello sciopero solo a Madrid sono state arrestate 82 persone e 34 sono rimaste ferite, fra cui 18 poliziotti. Queste proteste diffuse in tutta Europa sono avvenute proprio nel momento in cui molti credevano che l’Europa avesse finalmente trovato la soluzione magica per la crisi dell’euro: la Banca centrale europea rassicura i mercati con il suo impegno ad acquistare, in caso di necessità, i titoli degli Stati indebitati. I paesi debitori – questa è la promessa – devono “soltanto” adottare ulteriori e ancor più incisive misure di risparmio come condizione per l’erogazione dei crediti da parte della Bce, e tutto andrà bene.
Ma i profeti tecnocratici di questa “soluzione” hanno dimenticato che qui si tratta di persone. Le politiche rigoriste con le quali l’Europa sta rispondendo alla crisi finanziaria scatenata dalle banche vengono vissute dai cittadini come un’enorme ingiustizia. Il conto della leggerezza con cui i banchieri hanno polverizzato somme inimmaginabili alla fine viene pagato dal ceto medio, dai lavoratori, dai pensionati e, soprattutto, dalla giovane generazione, con la moneta sonante della loro esistenza.
Se ora la Spagna, la Grecia e il Portogallo, ma anche l’Italia e la Francia vengono scosse da scioperi organizzati dai sindacati, non si deve interpretare ciò come una presa di posizione contro l’Europa. Le immagini dell’ira e della disperazione dicono piuttosto che è venuto il momento di invertire la rotta. Non abbiamo più bisogno di salvataggi delle banche, ma di uno scudo di protezione sociale per l’Europa dei lavoratori, per il ceto medio, per i pensionati e soprattutto per i ragazzi che bussano alle porte chiuse del mercato del lavoro. Questa Europa solidale non tradirebbe più i propri valori agli occhi dei cittadini. Perché essi vedano nell’Europa qualcosa che ha senso, il suo motto dovrebbe essere: più sicurezza sociale con un’altra Europa! La questione sociale è diventata una questione europea, per la quale non è più possibile nessuna risposta nazionale. Per il futuro sarà decisivo che questa convinzione si affermi. In effetti, se gli scioperanti e i movimenti di protesta prendessero a cuore l’“imperativo cosmopolitico”, cioè cooperassero in tutta Europa al di là delle frontiere e si impegnassero assieme non per meno Europa, ma per un’altra Europa, si creerebbe una nuova situazione. Un’“altra” Europa dovrebbe sostanzialmente essere costruita in base a un’architettura ispirata alla politica sociale e andrebbe rifondata democraticamente e dal basso.
Alla fine l’Europa – la crisi dei debiti dimostra proprio questo – dipende dal denaro dei singoli Stati. Pertanto, un’Europa democratica e sociale avrebbe bisogno di un fondo comune. Ora, non è difficile immaginarsi come reagirebbero i cittadini se dovessero rinunciare a una parte del loro reddito per questa “addizionale di solidarietà” o se si aumentasse l’imposta sul valore aggiunto affidando la gestione degli introiti supplementari alla Commissione europea. A questo punto si potrebbero prendere in considerazione la tassa sulle transazioni finanziarie, una tassa sulle banche o un’imposta europea sui profitti d’impresa. In questo modo, da un lato, si riuscirebbe ad addomesticare il capitalismo del rischio scatenato, addossando le responsabilità delle conseguenze della crisi a coloro che l’hanno provocata e, d’altra parte, l’Europa sociale diventerebbe finalmente una realtà tangibile ed efficace.
Se si formasse un’alleanza tra i movimenti sociali, la generazione europea dei disoccupati e i sindacati - da un lato - e gli architetti dell’Europa nella Banca centrale europea, i partiti politici, i governi nazionali e il Parlamento europeo - dall’altro -, nascerebbe un movimento possente, capace di imporre una tassa europea sulle transazioni finanziarie contro l’opposizione dell’economia e l’ottusità degli ortodossi dello Stato nazionale.
Se questo riuscisse, sarebbe addirittura possibile guadagnare due nuovi alleati per un’altra Europa: in primo luogo (per quanto ciò possa risultare paradossale), gli attori dei mercati finanziari globali, che forse acquisirebbero nuova fiducia di fronte a una chiara scelta di campo per l’Europa delle politiche sociali e investirebbero in essa, poiché sarebbe chiaro che c’è un’istanza che in caso di crisi risponde delle possibili perdite. E, in secondo luogo, le popolazioni degli Stati debitori oggi attratte dal nazionalismo e dalla xenofobia, che si impegnerebbero nel proprio interesse bene inteso per il progetto di un’Europa sociale e democratica. Una primavera europea, dunque?
(Traduzione di Carlo Sandrelli)

l’Unità 25.11.12
CasaPound fa flop. Poco più di duemila persone al corteo
Per le urne Iannone «arruola» Mussolini
Il leader: «Devo essere libero di rifarmi a lui»
Antifascisti in strada
di Massimo Solani


Doveva essere una prova di forza in vista delle elezioni amministrative a cui si presenteranno con la propria lista, è stato poco più di un flop. Dopo settimane di tensioni, polemiche e paura, il corteo di CasaPound si snoda ordinato attraverso il quartiere Prati di Roma, lontano dalla sede di via Napoleone III e dal percorso previsto inizialmente e lontano, soprattutto, dalla manifestazione antifascista
convocata dai movimenti e dall’Anpi e a cui hanno aderito anche Idv, Pd, Pdci, Prc, Sel, Verdi e sindacati. «Siamo seimila», gridano al microfono dal furgone che apre il corteo. Ma è una esagerazione evidente. Duemila, duemila e cinquecento persone al massimo, sicuramente poche per una mobilitazione stile chiamata alle armi che per settimane ha invaso i social network. In fila ordinata per cinque, bandiere con la tartaruga al vento, i «fascisti del terzo millennio» sfilano dietro lo striscione iniziale («facciamoli piangere», c’è scritto sotto le foto di Fornero, Monti, Bersani e Alfano) e scandiscono slogan contro il governo, le banche, la crisi, l’ex governatore del Lazio Polverini e il sindaco Alemanno. Una irriconoscenza bella e buona, visto che il primo cittadino della Capitale da mesi si dà da fare per infilare nei bilanci comunali il modo per «regalare» al movimento guidato da Gianluca Iannone la sede nazionale occupata nel quartiere Esquilino (valore 11 milioni di euro) e un doppio casale nel parco della Marcigliana. C’è la campagna elettorale, e non c’è spazio per la riconoscenza.
ALEMANNO RINNEGATO
Così, meglio prendere le distanze da Alemanno e dal suo disastro (anche se poi il figlio del sindaco, Manfredi, è parte attiva di «Blocco Studentesco», la formazione giovanile di CasaPound) e presentarsi agli elettori senza padroni e padrini. Per la rivoluzione, quella che cantano in tutti gli slogan, c’è tempo: meglio pensare subito alle elezioni. «Il senso di questa manifestazione è che siamo contro il governo tecnico, non deciso dai cittadini: per risolvere problemi creati dalla Banca mondiale sono stati messi dei suoi esponenti spiega Iannone saltando da un microfono all’altro C'è chisirifàaPolPot,chiaMarxechia Ford. Io voglio avere la libertà individuale di rifarmi a Benito Mussolini sia a livello filosofico che per come concepiva lo stato sociale. Ci candideremo alle comunali e alle regionali stiamo mettendo su delle liste importanti spiega Vogliamo essere in piazza per dimostrare il nostro peso perché qualcuno vuole fare passare l’idea che siamo un gruppetto disorganizzato e sparso. Storace non ci piace e neanche Alemanno. Ci vogliono sempre mettere insieme a qualcuno». Dagli altoparlanti, intanto, la musica del gruppo «cult» dei SottoFasciaSemplice diffonde la voce di Mario Vattani l’ex console italiano in Giappone (ed ex consigliere di Alemanno tanto al ministero dell’Agricoltura quanto al Campidoglio, guarda caso) richiamato in Italia dalla Farnesina perché sorpreso, da l’Unità, a duettare proprio con Iannone durante una festa fasciorock organizzata da CasaPound.
Si arriva a Ponte Milvio fra i fumogeni tricolore e la manifestazione si chiude senza incidenti. Pericolo sventato soprattutto per il pressing della Questura che ha spinto Casapound a rinunciare all’idea originaria di sfilare in centro, pericolosamente vicino al sit in organizzato dai movimenti antifascisti e dall’Associazione Nazionale Partigiani. Un presidio che in breve diventa corteo, quando si aggiungono i ragazzi delle scuole reduci dalla manifestazione della mattina, e che a piazza Vittorio, e poi per le strade adiacenti, raduna migliaia di persone. Si arriva fino al Colosseo dove sarebbe dovuta concludersi in origine la manifestazione di CasaPound, e il lungo serpentone si è gonfiato di persone e colori. «Roma è antifascista», ricorda lo striscione d’apertura. Dovrebbe essere scontato, ma ripeterlo giova.

il Fatto 25.11.12
L’Italia si scopre in marcia verso il feudalesimo
L’accordo di Palazzo Chigi sulla produttività rimette indietro di 150 anbni le lancette della storia
E “facciamo scuola” nel mondo
di Giorgio Meletti


Una generazione cresciuta nell’attesa della rivoluzione rischia di invecchiare con l’incubo di uscire dal capitalismo marciando verso un nuovo feudalesimo. Non è uno scherzo, come non lo è l’accordo che le parti sociali hanno firmato mercoledì scorso a palazzo Chigi. Il punto 7 rimette indietro di 150 anni le lancette della storia: “Le parti ritengono necessario che la contrattazione collettiva si eserciti, con piena autonomia, su materie oggi regolate in maniera prevalente o esclusiva dalla legge”. I sindacati ottengono di vedersela con i padroni, liberamente, senza che la forza della legge intralci il libero dispiegarsi dei rapporti di forza su materie come l’orario di lavoro e il cosiddetto demansionamento, che oggi il codice civile semplicemente vieta.
Lo scoop di Karl Marx
Questa storia l’ha già raccontata centocinquant’anni fa un giornalista di moderato successo, Karl Marx. Nel 1848 in Gran Bretagna stava per entrare in vigore la legge che limitava a dieci ore la giornata di lavoro. L’Europa era in mezzo a una lunga crisi economica, e gli operai erano in difficoltà, tentati dall’idea di lavorare oltre le dieci ore per qualche penny in più. Gli industriali cercavano di convincerli a protestare insieme contro una legge che irrigidiva il mercato. “Riguardo alla mezza dozzina di petizioni nelle quali gli operai furono costretti a lamentarsi della ‘loro oppressione sotto quell’Atto’, gli stessi petitori dichiararono che le loro sottoscrizioni erano state estorte”, racconta Marx nella sua opera più nota, “Il Capitale”. Le analogie con il presente non mancano. La crisi, lo stato di bisogno dei lavoratori e la tentazione di subire il ricatto in nome del realismo. Gli ispettori del lavoro, che nella Londra del XIX secolo erano più attenti che nel-l’Italia del XXI, si interrogavano: “Si può ritenere illogico che abbia luogo un qualsiasi sovraccarico di lavoro in un momento nel quale il commercio va così male; ma proprio questa cattiva situazione sprona gente senza scrupoli a trasgressioni”. Per Marx quelle norme consolidavano un sistema capitalistico nel quale la classe operaia era sfruttata ma anche inclusa nella società (con identità e rapporti definiti con le altre classi) e garantita da leggi che governavano i rapporti di forza.
Due libri usciti da poco ci aiutano a comprendere i rischi di ritorno al feudalesimo evocati l’accordo sulla produttività di palazzo Chigi. Il primo, “Manifesto capitalista” (Rizzoli), è di Luigi Zingales, economista padovano, docente alla Chicago University. Zingales è un liberista estremo che scrive per mettere in guardia i lettori. Il sogno americano (capitalismo, concorrenza, meritocrazia, opportunità per tutti) può svanire. L’America, scrive amaramente, rischia di diventare come l’Italia, un paese dove le carte del mercato sono truccate. Per Zingales l’Italia paga la sua storia: il clientelismo strutturale ce l'ha regalato la Chiesa medievale, con campioni come il papa Borgia e i suoi figli.
I nostri poteri medievali
I retaggi di quell’epoca ci assediano. Un papa tedesco, come nell’XI secolo, definisce atmosfere pre-luterane. La Chiesa è potente come non mai, incassa le sue decime (l’8 per mille più tutto il resto) e resta esente dall’Imu. Benedice il potere politico, che si inginocchia. La democrazia è un miraggio per i secoli venturi. Al Quirinale c’è un “re taumaturgo” con poteri miracolosi. Le sue massime più scontate vengono studiate da eserciti di teologi (i monaci costituzionalisti). Egli nomina il suo Richelieu e vassalli che portano il titolo di “ministro tecnico”. Le elezioni e le primarie che le propiziano sono riti di preghiera rivolti al sovrano che decide, affidando il governo a chi non si è candidato. Si coniano nuovi titoli nobiliari: “riserva della Repubblica”, “risorsa preziosa”. La disputa teologica sulla eleggibilità del senatore a vita riproduce la concretezza del concilio di Nicea (787 d. C.). Il popolo disorientato viene indirizzato a guaritori in grado di resuscitare aziende automobilistiche decotte. Il parlamento non è eletto ma nominato, come prima della rivoluzione industriale. L’idea di restituire al popolo quel potere estremo detto “preferenza” fa inorridire i feudatari che si difendono dall’orda dei parvenu, degli arricchiti, come Maria Antonietta nel 1789.
Sventolando il tablet, siamo in marcia verso il feudalesimo, ma la classe dirigente ha una bomba sociale sotto le sue poltrone. Il terzo stato non c’è più: stranieri, plebe, servi della gleba tutt’al più, un popolo di esclusi che si allarga giorno per giorno a schiere di insegnanti, impiegati, laureati senza chance. Chi solleva dubbi è liquidato come peccatore, populista, demagogo. Eppure il liberista Zingales, defensor inesausto del capitalismo, ci racconta proprio di una bomba da disinnescare, e non solo in Italia, dove siamo più avanti verso il neo-feudalesimo, ma negli Stati Uniti.
A partire dal 1973 (prima crisi petrolifera) produttività e salari hanno smesso negli Usa di andare a braccetto, e si è aperta la forbice: la produttività ha continuato a crescere impetuosamente (è più che raddoppiata in quarant’anni), i salari reali si sono fermati. Il lavoro prendeva il 40 per cento del prodotto dell’industria, adesso il 25 per cento. La distanza tra ricchi e poveri aumenta, il ceto medio, architrave del capitalismo, scompare. Quel che è peggio, si riduce la mobilità sociale. Per chi nasce “sfigato” aumentano le probabilità di restarlo.
Gli americani, spiega Zingales, sono un popolo scappato dal-l’Europa in cerca di un’occasione, e le cose sono andate bene grazie alla comune fede nella regola base: se si gioca pulito c’è una chance per tutti. Oggi contro i bari (banchieri, manager strapagati, politici corrotti) sta esplodendo in America una reazione viscerale, scrive Zingales, quella di un popolo che non crede più a un gioco dove perde sempre. Il capitalismo, di corruzione, può anche morire. Il timore, per Zingales, è che il popolo americano semplicemente si ritiri dal gioco. L’ammutinamento silenzioso è una bomba sociale innescata, più insidiosa dei moti di piazza.
I precari della gleba
Il libro “Precari” (Il Mulino) l’ha scritto un economista del lavoro, l’inglese Guy Standing, ideologicamente di sinistra, agli antipodi di Zingales. Per Standing il precariato rappresenta ormai un quarto della popolazione occidentale, ma non è una classe sociale vera e propria, in quanto “frammentata”, composta “da persone che non intrattengono alcuna relazione che supponga una legittimazione reciproca né con il capitale né con lo Stato”. I precari hanno una vita segnata dall’insicurezza e senza speranze di carriera, sono dei non-cittadini, non hanno identità professionale, non riescono neppure a immaginare il futuro, soffrono di ansia e depressione.
Questo capitalismo somiglia a un nuovo feudaleismo. Per Marx, in questo concorde con gli economisti classici, la dialettica capitale-lavoro è “diritto contro diritto, entrambi consacrati dalla legge dello scambio di merci”. Il capitalismo è una società conflittuale, ma anche compatta, organizzata, integrata, che dà al proletario identità, dignità, cultura. Adesso, invece, per Standing cresce nel ventre stesso dell’Occidente una “classe esplosiva”. Come gli americani di Zingales, i precari di Standing si allontano dal “capitalismo clientelare”, non fanno vita sindacale né politica. Vivono in un ignoto altrove politico-sociale.
La società di Bloch, forse una profezia
“La società feudale” fu scritto all’inizio del ‘900 dal grande storico francese Marc Bloch. Descrive un sistema che non crede nell’innovazione e non vi investe, dove girano pochissimi soldi e si fa ricorso, piuttosto, all’autoconsumo: “Grandi e miseri vivevano alla giornata, obbligati ad affidarsi alle risorse del momento e quasi costretti a consumarle subito”.
“Alla giornata”, cioè senza futuro, cioè da precari. La società feudale nasce dalla ritirata dello Stato, il Sacro Romano Impero, che abbandona a se stesse relazioni economiche dominate da rapporti di lavoro servili. Un mondo bloccato, con poca industria, senza mobilità sociale, con deboli pilastri culturali. Scrive Standing: “Una lezione dell’Illuminismo è che l’essere umano dovrebbe essere in grado di guidare il proprio destino, evitando di demandarne il controllo a Dio o alle forze naturali. Al precario viene però detto che deve accogliere in tutto e per tutto le forze del mercato come propria guida”. Le leggi del mercato imposte come superstizione autoritaria ci guidano verso il futuro.

il Fatto 25.11.12
Incompatibilità
I tre schermi che dividono l’Italia
di Furio Colombo


Immaginate un grande schermo diviso in tre, anzi, guardatelo, perchè davvero il grande schermo della nostra vita è diviso, e sconnesso. Nella prima sezione dello schermo vedete i politici. Eseguono rituali che di volta in volta vengono richiesti, senza conoscere o voler conoscere le ragioni o le conseguenze. Pensate all'obbligo, divenuto impegno costituzionale, di pareggio di bilancio. Significa che non puoi più decidere se spendere o risparmiare, se punire o premiare. Nelle mani dei politici non è rimasto alcun potere. Divampano le lotte per la leadership, dette “primarie”.
Forse porteranno grandi conseguenze, ma solo nell'acquario delle stanze interne alla politica. Probabilmente, molti cittadini parteciperanno, una specie di danza della pioggia, un esorcismo per fare accadere qualcosa nel mondo reale. Ma tutto avviene di là dal cristallo che separa la politica dai cittadini. Il secondo schermo dimostra che ogni rapporto fra politica e realtà, in questo momento, è impossibile.
Infatti una telecamera fissa, come quelle delle banche, ci mostre la strana realtà del governo tecnico. Da un lato è così debole che ascolta in auricolare ciò che deve dire di volta in volta. Dall'altro è così forte che non discute con la politica e i partiti. Ordina e aspetta rapida e precisa esecuzione.
QUI MANAGERS e docenti danno ordini da managers e giudizi da docenti, in un tipico modo che non concepisce obiezioni, perchè non si tratta di professioni che accettano cedimenti o patteggiamenti. Nello stesso tempo, abbiamo detto, noti uno sdoppiamento. Comandano ma anche ubbidiscono, con la stessa prontezza e lo stesso rigore.
Non sappiamo nulla, tecnicamente, della gravità della situazione o di come tutto sia improvvisamente precipitato in modo tanto drammatico (sto parlando di Europa e del mondo; quanto al rovinoso governo dell'Italia, fino a poco fa, sappiamo fin troppo).
Sappiamo però che i punti di analisi, di visione, di decisione, sono al di là del governo tecnico, che è tecnico anche nel senso di essere un esperto intermediario: conosce la materia e può esporla bene. Ma porta non le sue decisioni, ma decisioni già prese e che non sono in discussione. In questo schermo apprendiamo che ogni cosa si conta, si valuta, si approva o respinge a seconda del costo, e non ci sono spazi che non siano contabili, non ci sono misuratori che non siano i conti, e non ci sono idee se non sono esprimibili in termini quantità. E che le quantità o sono tollerabili (che vuol dire accettate dalle voci che parlano negli auricolari dei “tecnici”) o non se ne deve neppure discutere. In altre parole l'intero mondo dei progetti detti riformismo deve essere cancellato.
L'economia non è negoziabile. O i valori sono giusti o non lo sono. Se non lo sono non resta che spostare, cambiare, comprimere o tagliare fino a che i valori sono (o tornano ad essere) quelli giusti. Quali siano quelli giusti non tocca nè ai politici nè ai cittadini decidere. Il secondo schermo ci avverte infatti che, una volta entrati nel territorio tecnico dei numeri e del governo economico, la democrazia non conta, nel senso che non puoi votare ciò che non hai, o non hai diritto (lo dicono i conti) di avere.
La democrazia resta un rito di parlamento per dire disciplinatamente “va bene” a ciò che prescrivono gli esperti in base alle loro tabelle. E alle istruzioni che ricevono da quella voce nell'auricolare. Che non è la voce di Dio o la trama di un complotto. Semplicemente, per qualche ragione e molti errori, abbiamo trasferito il punto di autorità nel cielo di alcuni organismi internazionali che dirigono il traffico della ricchezza senza sapere, o poter sapere, che ricchezza è, di chi è, come sia stata accumulata, e a chi sia stata eventualmente sottratta.
SI CONOSCONO solo i limiti di spesa consentiti. E così tu vedi, nel terzo schermo, la lotta disperata che si estende per le strade, giovani e non giovani, operai e gente che non lavora più o non ha quasi mai potuto lavorare, e gente che all'improvviso ha perso tutto, lavoro, pensione e casa e, come se non bastasse, scopre di avere torto. E vedi l'abbandono umiliante dei disabili, le carrozzelle e i corpi dei malati gravi senza sostegno perché il costo non è previsto, lo stivaggio barbaro dei detenuti, i bambini senza scuole e i malati senza letti. Niente, nel terzo schermo, ha a che fare con il primo e il secondo.
Nessuno sembra sapere o voler sapere niente degli altri, tranne coloro che si azzuffano. I politici restano nell'acquario e si parlano senza che si senta la voce. I “tecnici” ascoltano dall'auricolare e riferiscono con cura, ma anche con fermezza non discutibile, ai politici e ai cittadini. La democrazia? È caotica, a momenti insidiata dalla violenza, dalle troppe cariche e dalla solitudine. Ma resta solamente nelle strade.

il Fatto 25.11.12
Imu, giro di vite per le scuole paritare. Protesta la Chiesa


GIRO DI VITE per gli Enti no profit: non pagheranno l’Imu solo le attività non commerciali. In caso di immobili misti quindi si prevede che il pagamento sia “proporzionale” in base allo spazio, al numero dei soggetti e al tempo di utilizzo. Lo prevede il regolamento del Tesoro pubblicato in Gazzetta ufficiale. Le scuole paritarie non pagano l'Imu se l’attività è svolta a titolo gratuito o se il “corrispettivo simbolico è tale da coprire solo una frazione del costo del servizio, tenuto conto dell’assenza di relazione con lo stesso”. “Nessuna scuola è gratuita, i docenti chi li paga? Con quali soldi? Tutte le scuole sono in fallimento, le chiuderemo in un anno, licenzieremo 200 mila persone, così tutti quanti saranno contenti”. Interpellato da RadioVaticana, il presidente dell’Agidae, Associazione Gestori Istituti Dipendenti dall’Autorità Ecclesiastica, padre Francesco Ciccimarra, commenta i contenuti del il regolamento del ministero sull'Imu alla scuole paritarie.

Corriere 25.11.12
L'allarme delle scuole cattoliche Quel bivio tra rette e «utili zero»
di M. Antonietta Calabrò


ROMA — È arrivata la stretta sull'Imu per le scuole paritarie cattoliche e non profit che saranno esentate solo nel caso la loro retta sia gratuita, oppure «dietro versamento di corrispettivi di importo simbolico tali da coprire solo una frazione del costo effettivo del servizio». In ogni caso per avere diritto all'esenzione dovrà essere presentato un apposito statuto nel giro di poco più di un mese, cioè entro il 31 dicembre. Ma i sette articoli del nuovo decreto del ministro dell'Economia — riscritto dal governo dopo un primo parere negativo e un secondo pesantemente condizionato della sezione consultiva del Consiglio di Stato — hanno già creato allarme nel mondo cattolico. «Non può essere il criterio della gratuità del servizio quello che porta a stabilire se una scuola cattolica debba essere o meno sottoposta al pagamento dell'Imu» ha affermato ai microfoni della Radio Vaticana il presidente dell'Associazione Gestori Istituti Dipendenti dall'Autorità Ecclesiastica, padre Francesco Ciccimarra.
«Nessuna scuola — spiega — è gratuita, i docenti chi li paga? Con quali soldi?». Il criterio corretto — secondo Scuccimarra — «dovrebbe essere la produzione o meno di utili». «Tutte le scuole cattoliche — ha sottolineato ancora padre Ciccimarra — sono in fallimento, le chiuderemo in un anno, licenzieremo 200 mila persone, così tutti quanti saranno contenti». Secondo il presidente dell'Agidae, «una cosa così — dice — ci distrugge tutti. Io giro l'Italia per fare contratti di solidarietà, con riduzioni dello stipendio del 25 per cento. Questa sarà la fine delle opere cattoliche in Italia».
Meno drammatizzata l'analisi tecnica del Regolamento che si trova da ieri sera sul sito web del quotidiano della Cei Avvenire. In ogni caso il commento mette in evidenza l'ambiguità giuridica che ancora rimane nella formulazione del decreto, che tuttavia non ha recepito la posizione tranchant della recente sentenza del Consiglio di Stato. «Quel parere viene citato in premessa, ma le modifiche non seguono pedissequamente le osservazioni in esso contenute. Ed è un bene», scrive in un'altro articolo che comparirà oggi anche sull'edizione cartacea, Luigi Corbella
Eppure i rischi rimangono «perché gli istituti paritari già oggi non arrivano sempre a coprire i costi d'esercizio con le rette. E se quest'ultime dovessero essere pari a zero o meramente simboliche per continuare a godere dell'esenzione Imu, la loro sopravvivenza sarebbe a rischio». «C'è da osservare, però — continua il commento — che l'aggettivo "simbolico" (che recepisce un'indicazione del diritto europeo) va correlato alla coordinata "e tali da coprire solamente una frazione del costo effettivo". Quale frazione, fino a quale entità? Questo resta da chiarire».
«Il regolamento per l'Imu su non profit andrà letto con attenzione, siamo consapevoli che molta parte del terzo settore rischia di essere messo in crisi da un costo ulteriore ed insostenibile», ha dichiarato Cecilia Carmassi, responsabile Welfare del Pd.

Repubblica 25.11.12
Disattese le richieste Ue. Istituti esentati dal tributo se l’attività didattica è gratuita
Il governo aiuta la Chiesa “Mini Imu” per scuole e cliniche
La Chiesa non pagherà l’Imu su tante scuole e cliniche ampi margini di esenzione
di Valentina Conte


ROMA — Il governo “grazia” la Chiesa sulla Imu per gli immobili appartenenti ai beni del Vaticano. Il regolamento di applicazione della nuova imposta, che per molti italiani ha rappresentato una stangata, prevede infatti una mini Imu per scuole e cliniche, due attività certamente profittevoli per la Chiesa. E per gli istituti dove l’attività didattica è gratuita viene prevista la esenzione completa dal nuovo tributo. In questo modo sono state disattese le richieste della Ue. E non si è tenuto conto dei due pareri negativi del Consiglio di Stato.
Alla fine il regolamento del governo sull’Imu per la Chiesa e gli altri enti no profit arriva in Gazzetta ufficiale. Esattamente dieci giorni dopo la seconda e netta bocciatura del Consiglio di Stato del 13 novembre. E con una stesura praticamente identica.
Come se i rilievi dei giudici amministrativi non ci fossero mai stati. Ma nella convinzione però di averli assolti. Il testo del decreto dell’Economia, a firma del ministro Grilli, di fatto ricalca quello respinto. E rischia di gettare nel caos chi dovrebbe pagare l’imposta nel 2013 e forse continuerà a non farlo, chi la paga e non capisce il motivo degli sconti per gli altri, i Comuni bisognosi di chiarezza sui gettiti. Con l’eventualità concreta di ricorsi a non finire. La scelta di campo del governo è dunque chiara. E ruota attorno alla definizione di “non commerciale” e quindi di presenza o meno di profitto. Se l’ente non fa utili, o non li distribuisce o li destina alla solidarietà o anche li reinveste nelle sue attività educative, sanitarie, alberghiere, culturali, sportive, non pagherà l’Imu. A patto, dice il governo, che i servizi siano erogati gratis o con un prezzo “simbolico” e in ogni caso “non superiore alla metà della media” di mercato. Oppure tali da coprire “solamente una frazione del costo effettivo del servizio”. Criteri giudicati dal Consiglio di Stato, in entrambi i pareri negativi, “eterogenei” e con “profili di criticità”. Ma soprattutto non attinenti alla nozione di impresa come “entità che esercita un’attività economica” (non “commerciale”) adottata da tempo dall’Unione europea. Attività che consiste “nell’offrire beni e servizi in un mercato”. A prescindere se faccia o meno utili. Anche perché se il bilancio d’impresa fosse in rosso, non per questo quell’impresa sarebbe esentata dall’imposta. Grazie al regolamento confezionato dal governo, al contrario, alla fine anche attività che hanno costi e ricavi, dunque che stanno con evidenza sul mercato, potranno non versare l’Imu. Uno sconto a cui l’Europa guarda con attenzione, visto che sull’Italia pende l’infrazione per aiuti di Stato illegittimi (al Vaticano). E che potrebbe costare caro al nostro Paese, anche fino a 3,5 miliardi, se consideriamo (come stima il ministero dell’Economia) mancate entrate per 300-500 milioni all’anno, da restituire a partire dal 2006 (anno della prima legge in materia di Imu al no profit). A difendere le posizioni della Chiesa, padre Ciccimarra, presidente Agidae (gestori degli istituti cattolici): «Tutte le scuole sono già in fallimento, così le chiuderemo in un anno, licenzieremo 200 mila persone». Mentre il Pd, con la responsabile del welfare Cecilia Carmassi, ricorda la necessità di «salvaguardare il patrimonio sociale».
Sanità. “Convenzionate” esenti anche se applicano il ticket.
IL CONSIGLIO di Stato lo scriveva in modo chiaro, nel suo secondo parere: «Soggetti in apparenza “non commerciali” possono in taluni casi, trovarsi a svolgere attività economiche in concorrenza con analoghi servizi offerti da altri operatori economici». E in quanto tali devono pagare l’Imu. Invece il governo ha tirato dritto. Nel nuovo testo del regolamento, in vigore dall’8 dicembre, per quanto riguarda cliniche e strutture assistenziali e sanitarie il concetto rimane identico alla versione bocciata. Se sono accreditate, basta che i servizi siano gratuiti, «salvo eventuali importi di partecipazione alla spesa previsti per la copertura del servizio universale». Se non sono accreditate, per non pagare l’Imu la retta deve essere zero o simbolica «e comunque» non oltre la metà della media di mercato (ovvero i prezzi scelti da altre simili strutture del territorio). I giudici amministrativi facevano notare che in entrambi i casi - accreditamento o meno - l’attività economica non solo non è esclusa, ma è rivelata da una «non meglio precisata possibilità di partecipazione alla spesa» e dal calcolo astruso e fumoso (come la metà della media) «di difficile applicazione», aperto a molte furbizie.
Ricavi inferiori ai costi e l’imposta non è dovuta.
Scuole. ANCHE per le scuole, i cambiamenti apportati dal governo nel nuovo regolamento sono solo lessicali. Nella versione bocciata dal Consiglio di Stato, si esentavano dall’Imu quelle strutture paritarie che svolgono l’attività gratis «ovvero dietro versamento di rette di importo simbolico e tali da non coprire integralmente il costo effettivo del servizio». Oltre al fatto che non discriminano tra gli alunni da accettare, accolgono quelli con handicap, applicano i contratti collettivi ai dipendenti, hanno strutture adeguate, pubblicano il bilancio. Quell’espressione cruciale ora diventa «tali da coprire solamente una frazione del costo effettivo del servizio». Il Consiglio di Stato sosteneva nel suo parere che questa espressione (del tutto analoga nelle due versioni) smentisce nella sostanza la presunta gratuità. E dunque il criterio «non sembra essere compatibile con il carattere non economico dell’attività ». Anche perché il fatto di non coprire per intero i costi, «ricalca il concetto di servizi finanziabili prevalentemente da genitori e alunni, per il quale gli organi dell’Unione europea escludono il carattere non economico dell’attività». Ancora una volta, anche qui, l’Imu sarebbe dovuta.
Alberghi. Parametri molto generici così molti non verseranno.
ANCHE le correzioni del Consiglio di Stato sul capitolo “attività ricettive” sono rimaste lettera morta. Il riferimento ad un prezzo «non superiore alla metà dei corrispettivi medi» di altre attività concorrenziali del territorio rimane. Senza essere completato da un’espressione raccomandata dai giudici amministrativi in grado di fugare ogni dubbio sul carattere non economico dell’attività, «come definito dall’Unione europea». Le strutture esenti da Imu, nelle intenzioni del regolamento, sarebbero solo quelle stagionali (“discontinuità nell’apertura”) e con “accessibilità limitata ai destinatari delle proprie attività istituzionali” (case vacanza per religiosi, ad esempio) oppure quelle che offrono un tetto “anche temporaneo” agli svantaggiati. Il timore del Consiglio di Stato è che inserendo un parametro di costo, lo sconto Imu si possa estendere anche ad altre strutture che quel bonus non lo meritano. Non contento di ciò, il governo ha poi fatto “copia e incolla” dell’espressione sulla “metà della media” anche per le attività culturali, quelle ricreative e infine le sportive. Non c’era, ora c’è. Una porta spalancata, anche qui, ad abusi e scappatoie dall’Imu.

Repubblica 25.11.12
Lo strano modo di applicare il rigore
Il governo ignora il Consiglio di Stato e fa il contrario di quanto chiesto dalla Ue
di  Gianluigi Pellegrino


AVEVAMO parlato di bluff scoperto. Ma ora è un piano ordito e consumato. Sembrava incredibile e irriguardoso sospettarlo invece il governo lo ha fatto. Contro un doppio parere del Consiglio di Stato.Contro la Commissione Europea e contro una legge che il Parlamento aveva finalmente approvato, ha emesso un regolamento che può comportare un’esenzione totale dell’Imu alla Chiesa e comunque un gran caos applicativo buono per far passare in cavalleria il versamento 2012 e magari anche il 2013. Il rigore economico si scioglie come neve al sole se a chiedere sono le gerarchie cattoliche. La credibilità europea può pure andare in cantina se a pretendere favori è quel mondo ben visibile che proprio alla convention per il Monti bis della settimana scorsa non ha lesinato partecipazione entusiasta.
Fosse anche solo per questo, per evitare quest’immediato accostamento, l’esecutivo del professore avrebbe dovuto pensarci dieci volte prima di mandare in Gazzetta Ufficiale un testo che fa l’esatto contrario di quel che ci ha chiesto l’Europa, la cui prevedibile ira sanzionatoria gli alti uffici di Monti evidentemente confidano di tacitare o più semplicemente rinviare a dopo le elezioni. L’immagine è dirompente: come il più classico dei governi politici in vista delle urne, attento a curare le sue più pretenziose clientele. Ma anche se l’Europa chiudesse due occhi, quel che è avvenuto è profondamente ingiusto per gli italiani. Per le imprese e le famiglie che l’Imu la stanno pagando sino all’ultimo euro, per gli esodati beffati, per i malati di Sla costretti a mortificanti esibizioni, per i Comuni che boccheggiano, per il paese intero insomma che può sopportare la stretta di cinghia fino all’ultimo buco ma non che gli si sbatta in faccia un così monumentale disuguaglianza all’insegna di una patente ipocrisia.
Perché di questo si tratta. Qui nessuno discute lo straordinario serbatoio di solidarietà e servizi che viene dal mondo cattolico e dagli enti no profit. Il punto è un altro. Le norme europee ma anche i nostri fondamentali principi costituzionali ci dicono che se un ente svolge attività benefica in un determinato immobile è senz’altro possibile esentarlo dalla relativa imposta. Ma se invece svolge attività economica che produce ricavi, lì deve pagare l’Imu come chiunque altro. Pretenderne l’esenzione solo perché i ricavi andrebbero (in teoria) in un complessivo gruppo che fa anche beneficenza vuol dire abusare del buon senso prima ancora della legge. Perché a quel punto la beneficenza non la fanno loro ma noi cittadini e le nostre pubbliche casse. Io offro e tu paghi, non va bene al bar; e va ancora peggio nei rapporti che formano il contratto sociale di una comunità, di uno Stato.
Questo dice l’Europa quando giustamente evidenzia che non basta che un’attività non produca profitti e dividendi per potersi dire “non economica” e quindi giustificare l’esenzione. Ed è questo che il Consiglio di Stato ha per ben due volte intimato al Governo di garantire.
Invano. Il Governo avrebbe dovuto almeno dichiarare lealmente il proprio dissenso dal parere dei giudici e spiegarne le ragioni se mai ve ne fossero di ostensibili. Invece dichiara di adeguarsi ma poi volutamente lo elude e contraddice nei punti essenziali; sostanzialmente rieditando la circolare Tremonti che aveva dato luogo all’avvio della procedura di infrazione europea.
Gravissima è pure la ferita nei rapporti istituzionali. Finalmente le camere approvano una legge che prevede uguaglianza sull’Imu. L’Europa apprezza e ferma la procedura sanzionatoria. Ma il Governo che fa? Si auto attribuisce con un codicillo una delega per ridare alla Chiesa il regalo indebito che le Camere finalmente avevano tolto. Ora quel decreto legge è all’esame del Senato per la conversione. Se ci fosse un rigurgito di dignità dei partiti dovrebbero loro far saltare il codicillo invalidando con esso le norme regolamentari che recano l’incredibile ampia esenzione e che l’esecutivo si è affrettato a mandare in Gazzetta volendo all’evidenza far leva sul fatto compiuto. Sogniamo ad occhi aperti un finale inaspettato. I partiti spreconi e clientelari che in un rigurgito di dignità tirano le orecchie al governo del rigore pescato su uno scivolone di spreco e disuguaglianza. Ovviamente non avverrà.

l’Unità 25.11.12
La nostra battaglia per la stampa libera
di Franco Siddi

Segretario Fnsi

La proclamazione di uno sciopero generale dei giornalisti contro una legge impresentabile e improponibile come quella sulla diffamazione a mezzo stampa che vuol mandare in galera i giornalisti e oscurare le verità ha prodotto un primo grande risultato: domani tutto il mondo dell’informazione italiana sarà protagonista di una protesta non violenta.
Per contrastare con la forza delle idee e con la luce delle notizie una proposta di legge che, se approvata, farebbe retrocedere di almeno trenta punti il nostro Paese nelle classifiche mondiali sulla libertà di stampa. Per la Fnsi differire la data di uno sciopero indetto per una ragione così delicata non è stato semplice. Ma il sindacato unitario dei giornalisti ha ben chiaro che lo sciopero è uno strumento di lotta, quello estremo, per far valere le ragioni in cui si crede, spesso anche solo per ottenere ascolto o per contrastare con la massima energia quanto si ritiene assolutamente negativo non solo per la categoria, ma per il bene pubblico rappresentato dall’informazione libera.
La proposta di legge, al punto in cui è arrivata in Senato, non risolve alcuno dei problemi per i quali si erano mossi in prima battuta i senatori Chiti e Gasparri, nel tentativo di bloccare sul nascere un grave problema d’immagine e trasparenza democratica anche rispetto alle istituzioni straniere, dopo la condanna a 14 mesi di carcere del direttore de Il Giornale, Sallusti.
Il proposito iniziale, opportunamente corretto per bilanciare il diritto all’onorabilità con il diritto-dovere dell’informazione libera, è finito per essere travolto in Senato da una serie di emendamenti presentati col proposito dichiarato di regolare i conti con la stampa «irriverente» che ha messo a nudo il disagio, le criticità e anche la fragilità di una politica rilevatasi povera e inadeguata. Il principio, apparentemente condiviso da tutti, che le pene per i giornalisti e per la stampa non possano mai essere quelle del carcere è caduto miseramente. Con il voto segreto è stato introdotto di nuovo il carcere. Ora, per riparare a un danno, se ne sono creati almeno altri due: un emendamento propone che il carcere venga eliminato solo per i direttori e i vicedirettori, mentre sia condizione possibile per tutti i cronisti. A rischio finiranno quelli più deboli, i precari, i freelance e i giornalisti di frontiera, cioè quanti si occupano di giornalismo investigativo. Le minacce nei loro confronti già oggi sono innumerevoli e le «querele temerarie» ne sono l’espressione più evidente. A questi problemi è necessario mettere mano. Ma il rimedio proposto, con l’intento di salvare un direttore dal carcere, è peggiore della malattia che si voleva estirpare. Nonostante ciò lunedì pomeriggio è previsto il voto finale sull’articolo 1 di questa legge che cerca di alimentare improprie e impraticabili divisioni tra i giornalisti, indebolendo con le minacce delle sanzioni ingiuste del carcere tutto il
sistema della libera informazione.
Il danno è per una categoria professionale, ma soprattutto per i cittadini che hanno diritto ad un’informazione competente, corretta, leale che può essere garantita solo se esercitata in condizioni lontane dalla paura e dal pericolo di intimidazioni tanto più gravi se incardinate in una legge dello Stato. Il governo ha riconosciuto l’impraticabilità sostanziale di questa legge. Siamo sicuramente lontani dalla Costituzione e dai suoi principi fondamentali. Per queste ragioni quel disegno va fermato. I giornalisti registrano una condivisione della loro preoccupazione e dei loro appelli. Questo è un elemento importante della riflessione avviata dopo la dichiarazione della Federazione editori, che si è detta pronta a condividere forme adeguate di contrasto a questa proposta di legge, e dopo la disponibilità espressa dal presidente del Senato di ascoltare le ragioni della
protesta.
La scelta della Fnsi di differire la data dello sciopero e di indicare per domani la giornata di mobilitazione nazionale aperta ai cittadini, all’associazionismo democratico e civile, è un atto di responsabilità che rafforza l’impegno in questa direzione. Non ha nessuna ragione d’essere il tentativo di attribuire al sindacato disegni di altro tipo. Sui principi di libertà, di convivenza civile, sulle autonomie e sul pluralismo dell’informazione non esistono differenze di atteggiamento per la Federazione della stampa. Il comportamento è e sarà sempre coerente. L’Italia deve restare in linea con i principi europei e con le nazioni più evolute: questo è il senso di un appello e di una protesta.

l’Unità 25.11.12
Riyad Malki: «Il seggio Onu alla Palestina è per la pace»
Il ministro degli Esteri dell’Autorità nazionale palestinese:
«La nostra strategia non nasce ora, è lo sviluppo del percorso iniziato da Arafat»
«La tregua è il primo passo, riparta il negoziato ma basta con gli insediamenti israeliani»
«Abu Mazen non è isolato. Lo confermerà il voto del 29 novembre alle Nazioni Unite»
di Umberto De Giovannangeli


L’«intifada diplomatica» non si ferma. E avrà un suo passaggio cruciale il 29 novembre prossimo al Palazzo di Vetro. «I riscontri che abbiamo ci inducono all’ottimismo: riteniamo di avere i voti sufficienti per far sì che la Palestina diventi Stato non membro dell’Assemblea generale delle nazioni Unite». A sostenerlo è Riyad Malki, ministro degli Esteri dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), impegnato nei giorni scorsi a Roma nella riunione della Commissione mista Italia-Territori palestinesi.
Signor ministro, dopo otto giorni di guerra a Gaza, è stato raggiunto un accordo di tregua tra Israele e Hamas. Diversi analisti sostengono che si tratta di una vittoria di Hamas a cui corrisponde una marginalizzazione dell’Anp del presidente Abbas (Abu Mazen).
«Si tratta di una lettura forzata della realtà. Il 29 novembre alle Nazioni Unite si discuterà, e voterà, la nostra richiesta di riconoscere la Palestina come Stato non membro delle Nazioni Unite. Siamo molto ottimisti di avere i voti sufficienti per ottenere questo riconoscimento. Di fronte a questa realtà di fatto, è davvero singolare parlare di una emarginazione dell’Anp. La grande maggioranza degli Stati membri dell’Onu sostiene la nostra iniziativa che non ha nulla di estemporaneo, ma è legata ad una strategia politica che non nasce oggi ma è lo sviluppo di un percorso avviato da Yasser Arafat. Noi crediamo che l’unica via per dare pace e stabilità nella Regione è realizzare un accordo fondato sulla legalità internazionale e sul principio “due Stati per due popoli”. Questa linea gode del sostegno della maggioranza del popolo palestinese. Mi creda, non ci sentiamo affatto isolati».
Israele considera la richiesta palestinese all’Onu come una forzatura unilaterale. «Votare il riconoscimento della Palestina come Stato non membro, è votare per la pace. È un voto “per” il dialogo e non “contro” Israele. Ed è proprio per questo che chiediamo all’Italia, come agli altri Paese dell’Unione europea, di sostenerci. In questo senso, riteniamo di grande significato il fatto che il Parlamento europeo abbai votato (con 447 voti a favore, 113 contrari e 65 astensioni, ndr) un paragrafo con cui si dichiara il sostegno alla candidatura della Palestina come Stato non membro osservatore permanente alle Nazioni Unite».
In questi giorni al centro dell’attenzione internazionale sono stati i leader di Hamas, Khaled Meshaal, Ismail Haniyeh. E il presidente Abbas?
«Di certo non è restato a guardare. Il presidente ha compiuto due mosse importanti: ha invitato a un incontro tutti i movimenti palestinesi per discutere come rispettare la tregua e promuovere gli sforzi per la riconciliazione. Al tempo stesso, il presidente Abbas ha chiesto alla Lega araba la convocazione di una riunione urgente per esaminare le continue aggressioni di Israele a Gaza e le sue azioni nei Territori occupati. Il presidente Abbas sta agendo per la riconciliazione nazionale, assumendosi la responsabilità di indicare una strategia che rafforzi, ad ogni livello interno e internazionale, la causa palestinese».
Perché ritiene così dirimente la luce verde al Palazzo di Vetro?
«Perché rappresenterebbe un segnale tangibile che la diplomazia non si piega alla forza delle armi e alla logica del più forte. Questo per noi è davvero un momento della verità. Il voto all’Onu non sarà solo per la Palestina ma per la pace».
La tregua come primo passo....
«Un primo passo necessario, fondamentale ma non esaustivo. Perché la tregua deve servire a riaprire il tavolo delle trattative. I contenuti per un compromesso accettabile ad ambedue le parti sono da tempo definiti. Non c’è nulla da inventare. Ciò che continua a mancare è la volontà politica da parte israeliana di muoversi con convinzione su questa strada. Ma noi non desistiamo. Non esiste un’alternativa alla pace. Chi pensa di poter perpetuare lo status quo coltiva una illusione, una tragica illusione. Il diritto alla sicurezza per Israele e il diritto del popolo palestinese ad uno Stato indipendente sono tra loro indissolubilmente legati. Non ci può essere pace senza giustizia. Ai governanti israeliani chiediamo di realizzare quella “pace dei coraggiosi” che fu avviata da Yasser Arafat e Yitzhak Rabin».
Signor ministro, cosa intende per «Stato indipendente» di Palestina?
«Uno Stato che ha il pieno controllo di tutto il suo territorio nazionale. Uno Stato sui territori occupati nel ‘67, con Gerusalemme città aperta e capitale condivisa. Al tavolo negoziale è possibile discutere su una “ricalibratura” contenuta dei confini dei due Stati, sulla base della reciprocità. Ma perché ciò possa realizzarsi, Israele deve porre fine alla politica degli insediamenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Pace e colonizzazione sono tra loro inconciliabili. Lo stop agli insediamenti non è una nostra pregiudiziale per il negoziato, ma è il rispetto di accordi già sottoscritti da Israele».

il Fatto e The Independent 25.11.12
Uri Avnery
Il combattente della pace contro l’ “apartheid israeliano”
Pace e terra. Uri Avnery chiede chiedere uno Stato palestinese entro i vecchi confini del 1967
di Robert Fisk


© The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Uri Avnery ha 89 anni, è un personaggio leggendario ed è ancora un combattente. Il famoso scrittore, pacifista e uomo politico di sinistra è tra i pochi che continua a chiedere con insistenza la pace con i palestinesi, con Hamas e uno Stato palestinese entro i vecchi confini del 1967. Avnery è più che mai convinto che Israele potrebbe firmare un trattato di pace domani o la prossima settimana. “È questa la disgrazia di essere un inguaribile ottimista”, commenta. A guardarlo non è cambiato affatto da quando l’ho visto l’ultima volta, una trentina di anni, fa impegnato a giocare a scacchi con Yasser Arafat in mezzo alle rovine di Beirut. Oggi ha i capelli e la barba bianchi ma conserva la rabbia e il senso dell’umorismo di sempre.
Chiedo che stanno facendo Benjamin Netanyahu e il governo e quale era lo scopo di questo attacco a Gaza? “Parti dal presupposto che sappiano quello che fanno e che vogliano la pace. Partendo da questo presupposto la loro politica appare stupida o folle. Ma se parti dal presupposto che a loro la pace non interessa affatto e che vogliono uno Stato ebraico che vada dal Mediterraneo al fiume Giordano, allora quel che fanno acquista un senso e diventa comprensibile. Il guaio è che ciò che fanno ci sta portando in un vicolo cieco. Abbiamo già uno Stato in tutta la Palestina storica: per tre quarti è lo Stato ebraico di Israele, per un quarto è costituito dai territori occupati della Cisgiordania e della Striscia di Gaza”.
Uri Avnery parla scandendo le parole e con estrema chiarezza e lucidità. “Se annettessero la Cisgiordania come hanno annesso Gerusalemme est, il risultato sarebbe più o meno lo stesso”, aggiunge. “Il problema è che nel territorio attualmente sotto la dominazione israeliana la popolazione è costituita per il 49% da ebrei e per il 51% da arabi. Lo squilibrio demografico è fatalmente destinato ad aumentare a favore degli arabi. Il problema è che al momento il nostro è uno Stato fondato sull’apartheid: un apartheid totale nei territori occupati e una apartheid crescente in Israele. Continuando così diventerà un regime di apartheid in tutto il territorio”. Il ragionamento di Avnery è chiaro. “Se agli arabi fossero concessi i diritti civili e politici, alla Knesset ci sarebbe una maggioranza araba che per prima cosa cambierebbe il nome del paese da Israele in Palestina. Certo nel 21° secolo la pulizia etnica di massa è impensabile. Ma la demografia è un dato di fatto”. Ma non si parla in Israele di questo tema? “No, c’è una sorta di rimozione collettiva. Nessun partito politico parla di questo problema e la parola “pace” non compare in alcun programma elettorale, forse con la parziale eccezione di Meretz”.
E LA SINISTRA ISRAELIANA? “Sta in ibernazione. È stata uccisa da Ehud Barak nel 2000. Barak tornò da Camp David e ci raccontò che lui era il solo che voleva la pace, ma che non avevamo un interlocutore. Questo fu il colpo mortale. A dire queste parole non è stato Netanyahu, ma il leader del Partito Laburista. E così è morto il movimento Peace Now”.
Scuote la testa, riflette un attimo poi riprende a parlare riuscendo miracolosamente a recuperare un po’ del suo ottimismo: “quando nel 1982 incontrai Arafat le condizioni c’erano già tutte. La situazione oggi non è cambiata: uno Stato palestinese con la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme est come capitale accanto a uno Stato israeliano. Qualche piccola concessione territoriale e una soluzione simbolica al problema dei profughi. Ma questa soluzione – che è già matura da 30 anni – sta appassendo come un fiore come un fiore lasciato in un vaso senza acqua. È vero che abbiamo lasciato Gaza, ma solo per tenerci ben stretta la Cisgiordania”.
Avnery è convinto che Hamas accetterebbe queste condizioni. “Quando nel 1993 ne parlai, in ebraico, nel corso di una conferenza a Gaza davanti a 500 esponenti dell’ala più radicale di Hamas, venni applaudito e invitato a pranzo”. Gli ricordo che lo statuto di Hamas non prevede la possibilità di una pace con Israele. “Parole, solo parole. Se si firmasse una tregua della durata di 50 anni andrebbe benissimo, al di là delle parole”. Un’ultima cosa: come mai non c’è stata la temuta invasione di terra? “Dobbiamo ringraziare e santificare Goldstone. È stato il suo rapporto sui crimini commessi a Gaza durante l’Operazione piombo fuso del 2008-2009 a dissuadere gli israeliani dall’invadere la Striscia”. Sono in molti in Israele ad augurarsi che Avnery viva ancora a lungo.

Corriere 25.11.12
Mistero Arafat, ora si cerca il veleno. La vita e la lotta per la Palestina
Martedì la riesumazione per stabilire se fu ucciso con il polonio 1929-2004
di Francesco Battistini


RAMALLAH (Cisgiordania) — Non può stare nella sua terra neanche da morto. Fin là sotto, un erratico destino perseguita Yasser Arafat. Tre strati di cemento, otto anni di cerimonie e di scolaresche, corone di fiori e delegazioni, un amore di popolo che in mancanza di sostituti non s'è mai distratto, tutto questo non è bastato a seppellire le liti, i dubbi, i misteri intorno al modo in cui se ne andò. Martedì, dopo due mesi di negoziati, un imponente servizio di polizia chiuderà alla curiosità del mondo il mausoleo della Muqata, rimuoverà la solenne lapide dedicata ad Abu Ammar Al-Walid, il Padre Fondatore, e una squadra di magistrati francesi e palestinesi, di scienziati svizzeri e russi ne riesumerà la salma. Un prelievo sui resti, «basteranno poche ore». Perché se incerto era il certificato di nascita d'Arafat, che si faceva passare per uno di Gerusalemme pur essendo d'origini egiziane, ancora più insicuro è il referto della sua morte: fu avvelenato? L'Arafat Day era fissato per domani, ma coincidenza (o forse no) ha voluto che la nuova autopsia fosse rinviata al giorno dopo: quando il presidente Abu Mazen – che della Grande Kefiah è il successore – dovrà partire per New York e perorare la nuova causa del riconoscimento palestinese all'Onu. «Questa riesumazione è una necessità dolorosa», dice Tawfiq Tirawi, capo della commissione d'indagine di Ramallah che sogna anche «un'indagine internazionale, come s'è fatto in Libano per l'assassinio Hariri». La necessità è capire che cosa ci sia di vero nel reportage di Al Jazeera, in onda a luglio, che fece esaminare a un istituto di radiofisica di Losanna alcuni oggetti usati negli ultimi due mesi di vita dal vecchio Yasser: lo spazzolino da denti e la kefiah. La tv denunciò d'avere riscontrato tracce di polonio-210, il veleno che nel 2006 uccise anche Alexandr Litvinenko, la spia russa rea d'avere svelato i malaffari ceceni. Kefiah e spazzolino sono spuntati dopo molto tempo dalla casa maltese di Suha, la vedova, assai detestata dalle autorità di Ramallah che l'hanno sempre liquidata come una profittatrice: cittadina francese e con ambizioni politiche, s'è rivolta ai giudici parigini per avere un'inchiesta indipendente. I risultati richiederanno mesi: il polonio con gli anni s'annulla, non sarà facile reperire nuove tracce.
«Sono sulla mia terra e in mezzo al mio popolo: di che cosa dovrei aver paura?», diceva Arafat pochi mesi prima di morire. Parole incaute, forse. Cinquanta medici che lo visitarono, 558 pagine di cartelle e radiografie, tre commissioni d'inchiesta palestinesi non hanno mai del tutto spiegato che cosa fosse la malattia del sangue che in poche settimane lo portò a spegnersi a Parigi. Gli trovarono l'Hiv: «Ma lui non è morto di Aids — è sicuro Ashraf al-Kurdi, per quasi 20 anni il medico personale —, il virus fu iniettato per coprire l'avvelenamento».
Del veleno è sempre stato certo il nipote, Nasser al Kidwa. «Se c'è stato un crimine — dice Suha —, bisogna saperlo», laddove il sospettato numero uno, anche se non unico, è Israele: il polonio non è roba che si produce in casa, viene estratto dall'uranio degli impianti nucleari. «E fu il premier Sharon — scrive la stampa palestinese — a confessare che esisteva un accordo con gli Usa per non eliminare Arafat, ma d'essersi pentito d'averlo sottoscritto». Scampato a decine d'attentati, diffidente perfino dei piloti, al punto di consegnare i piani di volo una volta decollato, Abu Ammar era circondato di nemici: «Ci sono mani palestinesi in quest'omicidio», disse una volta un capo di Hamas, Salah Bardawil. «Che interesse aveva Israele a ucciderlo? — si chiede un analista israeliano, Alex Fishman —. Arafat era ormai isolato, malconcio. Straparlava. E poi, chi ci dice dove sono stati tenuti in tutti questi anni, quella kefiah e quello spazzolino?».

Muhammad Abdel Rahman Raouf Arafat Al-Qudwa Al-Husseini nasce al Cairo il 24 agosto 1929 da genitori palestinesi. Nel 1959 fonda il movimento Al Fatah
La causa causa palestinese. Nasce l'Organizzazione per la liberazione della Palestina. Nel 1969 viene nominato capo del comitato esecutivo dell'Olp
Prima intifada
Dopo dieci anni di vita in Libano nel 1982 viene espulso dal Paese ed è costretto a rifugiarsi in Tunisia. Nel 1987 lancia la prima intifada
La pace di Oslo
Nel 1993 Arafat firma con Rabin la pace di Oslo e subito dopo riceve il Nobel per la pace. Nel 1996 viene eletto presidente dell'Anp. Nel 2000 scoppia la seconda Intifada. Dal 2001 vive confinato nella Muqata a Ramallah
La malattia
Il 25 ottobre 2004 si ammala improvvisamente, viene portato in Francia dove muore l'11 novembre

Corriere 25.11
Il passaporto «allargato» della Cina una Provocazione per gli altri Stati
di Marco Del Corona


Chiamarla la guerra dei passaporti forse è eccessivo. Certo è che l'ultima mossa della Cina, impegnata in una serie di contese territoriali con i Paesi vicini, complica ulteriormente una partita diplomatica su più tavoli, tutti difficili. E' successo che Pechino abbia emesso nuovi passaporti in cui la pagina 8 riporta una mappa standard della Repubblica Popolare, come in Cina se ne vedono a milioni: con i confini che includono zone rivendicate dall'India e tutte le isole del Mar Cinese Meridionale, dall'arcipelago delle Paracel alle Spratly. La Cina reclama l'Arunachal Pradesh, stato dell'India, chiamandolo «Tibet meridionale»: la sua lunga frontiera nell'Himalaya orientale è stata oggetto di una guerra di cui è da poco trascorso il cinquantenario. L'Aksai Chin, al contrario, è controllato da Pechino ma l'India lo considera parte del suo Kashmir. E per gli atolli del Mar Cinese Meridionale — che sulla carta geografica sono inclusi nei famigerati «nove tratti»: una lingua tratteggiata che arriva quasi a lambire Singapore — con la Cina litigano a vario titolo Vietnam, Filippine, Malaysia e Brunei (più Taiwan). Ironia della sorte, il Giappone ammette di non potersi lamentare: più a nordest le minuscole isole Senkaku/Diaoyu, motivo di tensione acuta, non sono state disegnate.
La decisione di esibire una rappresentazione della Cina non condivisa è stata considerata una provocazione. Prime a infuriarsi, le Filippine: «Una violazione del diritto internazionale». New Delhi è andata oltre. L'ufficio che a Pechino gestisce le pratiche consolari per conto dell'ambasciata indiana ha cominciato a emettere visti che mostrano una mappa in cui Arunachal Pradesh e Aksai Chin compaiono come indiani. Ritorsione senz'altro meno cruenta di un'operazione militare che ragionevolmente nessuno dei due Paesi ha interesse a mettere in atto. Eppure è tutto il gioco del nazionalismo ad apparire per nulla rassicurante, oltre che inutile. Quando un cartografo gioca a fare il piromane, non è solo la carta che rischia di bruciare.

l’Unità 25.11.12
La Spoon river delle donne
Femminicidio: una parola che dà senso all’orrore
Uccise, massacrate, violate
Chiediamo agli uomini un atto di responsabilità per non essere complici dei killer. E per denunciarli
di Sara Ventroni


ROMA FINCHÉ LE COSE NON HANNO UN NOME NON ESISTONO. SCIVOLANO NELL’OMBRA, NELLA VERGOGNA, NEI SENSI DI COLPA. Finché le cose non hanno un nome, nessuno sa riconoscerle. Allora le cose ci inghiottono nel loro buco nero. In solitudine. Poi è troppo tardi. Poi non c’è più fiato per dire che no, quello non era amore.
Femminicidio (o femicidio) è una parola che dà fastidio. È una parola che suona male, che si stenta a pronunciare perché per alcuni puzza di femminismo. Ha la stessa radice, lo stesso scandalo. Eppure è proprio dal momento in cui questa parola è stata detta, che si è potuto finalmente dare un nome a un fenomeno che ci si ostinava a non voler vedere: la violenza degli uomini sulle donne. Un fenomeno globale, che ogni anno uccide più del cancro. Che entra nelle statitische ma non può essere risolto con i numeri, perché si tratta di una disfunzione relazionale, di una malformazione culturale che richiede uno sguardo acuto come un bisturi.
La parola femminicidio è stata coniata da femministe e attiviste messicane che hanno trovato il coraggio di denunciare l’uccisione in massa di donne, massacrate nel silenzio per l’unico motivo di essere femmine.
Siamo a Ciudad Juarez, una piccola città al confine tra il Messico e gli Stati Uniti. Nessuno ne ha mai sentito parlare. Nessuno ha mai ricevuto notizia del fatto che dal 1992 più di 4.500 donne sono scomparse. Nessuno ha mai indagato sui corpi abbandonati nel deserto. Nessuno ha mai voluto capire quale fosse il denominatore comune che permetteva alle forze dell’ordine di non vedere, ai cittadini di non sapere, alla magistratura di insabbiare. Una complicità silenziosa, pacata, micidiale.
Poi l’attivista Marcela Lagarde, in seguito eletta parlamentare, ha messo in fila i dati. Ha dato un senso politico ai fatti, fino ad allora anonimi e isolati, ha indicato i motivi di fondo per cui una comunità di responsabili, di corresponsabili, di complici involontari ha potuto tranquillamente ignorare il fenomeno. Si tratta di femminicidio. E ci riguarda tutti.
L’ALIBI DELL’AMORE
Dal Messico all’Italia, ci è voluto del tempo prima di riuscire a scrostare la patina pruriginosa, da feuilleton, dei luoghi comuni che giustificano la morte di centinaia di donne, ogni anno: l’amore molesto, la gelosia, il senso del possesso, il raptus. Tutte falsificazioni per assopire la coscienza collettiva. L’adagio implicito è che sono fatti così, i nostri uomini, e se lanciano un ceffone o una coltellata al cuore lo fanno per troppo amore.
Fino a poco tempo fa in Italia, è bene ricordarlo, le notizie dei femminicidi erano derubricate nelle pagine della nera. Dettagli conturbanti raccontati in cronache rosso sangue, oppure inquadrati in casi clamorosi, come l’omicidio Reggiani, branditi come una clave mediatica, per cui tutto si risolve con una massiccia operazione di ordine pubblico contro la barbarie culturale degli stranieri. Degli altri. Un brutto affare che non ci riguarda.
Invece ormai ne abbiamo le prove: l’assassino ha le chiavi di casa.
Mariti, compagni, ex conviventi, morosi: da gennaio a oggi sono 106 le donne uccise in Italia. E non si tratta del degrado delle periferie. I dati di Telefono Rosa parlano chiaro: le donne uccise hanno un’età compresa tra i 35 e i 60
anni e provengono da ogni classe sociale. Sono laureate, casalinghe, studentesse, donne in carriera. Gli assassini sono spesso insospettabili professionisti. Le violenze si consumano tra le mura domestiche.
Non si tratta solo di rapporti di coppia. C’è anche la violenza dei padri verso le figlie. Come dimenticare Hina Saleem, ragazza di origine pakistana, italiana, che voleva decidere della propria vita, che vestiva all’occidentale, e per questo è stata uccisa dal padre e seppellita nel giardino di casa?
Le femministe direbbero che si tratta di una mentalità patriarcale dura a morire. In effetti sono davvero pochi gli anni trascorsi dalla ratifica del nuovo diritto di famiglia del 1975. Ed è troppo vicino il ricordo del vecchio ordine, quando il marito era il capofamiglia e le donne passavano dalla tutela del padre a quella del marito. Prendevano il cognome dell’uomo certificando, così, il passaggio di proprietà. Il marito aveva potere su tutto: decideva dove abitare, come gestire i soldi e cosa fare della dote della moglie; esercitava la patria potestà sui figli, decidendo per tutti, senza che la moglie potesse dire la sua. Ed è passato troppo poco tempo, era il 1981, dall’abrogazione dell’articolo 587 del Codice penale che garantiva le attenuati all’uomo che uccideva la moglie, la figlia o la sorella in nome della rispettabilità: era il delitto d’onore...
È una storia recente che evidentemente ancora incide, come un palinsesto, sulla formazione degli italiani. Non c’è da meravigliarsi, dunque, se nel fermento degli anni Settanta esplose il femminismo per prendere le distanze dalle clamorose rimozioni dei furori rivoluzionari dei maschi.
RIVOLUZIONE MANCATA
Noi oggi siamo qui. Evidentemente la rivoluzione dei sessi è ancora di là da venire.
Su questa linea, che è un solco profondo e non un segno labile di lapis, il movimento Se non ora quando ha lanciato la sua campagna «Mai più complici».
Un progetto che schiva la retorica vittimistica e che interroga direttamente la cultura, spingendo tutti a un esame profondo. Come è accaduto negli incontri, affollatissimi, di Merano, di Torino (con la messa in scena della pièce L’amavo più della sua vita di Cristina Comencini) o nella recente partita della Nazionale giocata a Parma, quando i calciatori di Prandelli hanno ascoltato in silenzio un testo scritto dalla filosofa Fabrizia Giuliani, letto da Lunetta Savino.
La violenza sulle donne è un problema degli uomini. Ora è chiaro. Ma la strada è ancora lunga. In Senato è in discussione il ddl Serafini, un proposta di legge contro il femminicidio. La ministra Fornero ha promesso di ratificare la Conferenza di Istanbul contro la violenza sulle donne firmata a settembre. L’anno scorso il Cedaw (Commissione per l’eliminazione delle discriminazioni contro le donne) ha ammonito pesantemente l’Italia. Siamo ancora indietro. Troppo indietro nel processo di partecipazione.
Oggi è la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne.
Ci sono iniziative in tutta Italia e i media stanno sul pezzo. Anche gli uomini rompono il silenzio e fanno autocoscienza: dal gruppo «Maschileplurale» a Riccardo Iacona, a Sofri. È un passo avanti. Siamo certe che la parola «femminicidio» verrà accolta come neologismo dallo Zingarelli, ma non ci basta. Occorre stabilire un nuovo nesso, per trovare il senso. L’esclusione delle donne dalla piena partecipazione democratica è infatti strettamente legata a una visione paternalistica, che può assumere anche un volto violento. Non si tratta di amore malato che finisce in tragedia. Le donne, questo, lo hanno capito.

La Stampa 25.11.12
Violenza sulle donne
Fuori dal cerchio dell’oppressione
Oggi è la giornata mondiale per l’eliminazione della violenza sulle donne: le sfide di chi si ribella a colpi di blog e di chi sostiene

di Mariella Gramaglia

La bambina e l’orco. La donna e l’aguzzino. La relazione stretta fra chi esercita la violenza e chi la patisce disegna una spazio claustrofobico, un cerchio chiuso. Ci si conosce, si ha consuetudine l’una dell’altro. Come in una narrazione crudele e ripetitiva, si dicono le stesse parole e si compiono gli stessi gesti fino all’autodistruzione.
Spesso accade così in Italia e in altri Paesi che si vorrebbero avanzati. Una cupa rivincita del privato e della segretezza sembra mettere in scacco il discorso pubblico. Le operatrici dei centri italiani contro la violenza ci ricordano che, nell’ottanta per cento dei casi, il teatro della crudeltà è la famiglia.
E se spalanchiamo i portoni del mondo, come oggi ci chiede la giornata internazionale contro la violenza sulle donne? Forse la perfidia del potere (quando non si tratta del segreto dominio privato) è ancora più spietata, ma un esercito di ragazze percorre le strade della terra senza abbassare lo sguardo. Sembrano pronte alla sfida.
Malala Yousafzai, la studentessa pachistana di 15 anni che ha rischiato la vita in un attentato talebano per continuare ad andare a scuola, ce la farà a sopravvivere. Il suo blog testimonia, fin da quando aveva 11 anni, la determinazione a studiare e a far studiare le altre ragazze. Il suo desiderio di vestirsi di rosa, la leggerezza cui non rinuncia. La sua candidatura al Nobel per la pace, l’autorevolezza che si è conquistata combattendo senza armi.
Savita (la chiameremo così per proteggerne l’anonimato), 16 anni, nata a Dabra, in Haryana, uno degli stati più poveri dell’India dove l’aborto selettivo delle bambine è la normalità, ha superato con successo pochi giorni fa gli esami di storia, di economia e di sanscrito. Nulla di eroico, se non fosse stata violentata il 7 settembre scorso da una banda di balordi di «casta alta» che hanno creduto buona e moderna l’idea registrare su un dvd le loro prodezze. Troppo. Il padre della ragazza si è suicidato per l’orrore, centinaia di persone del villaggio hanno manifestato e chiesto giustizia. Benché Savita sia una dalit (intoccabile), sette giovani nobilastri della casta Jat sono stati arrestati. E lei non ha smesso un solo giorno di studiare.
Dana Bakdounis, 21 anni, siriana, vuole sentire il vento tra i capelli. No, non come quelle ragazze che amano correre in motorino senza casco. Si è fatta fotografare su Facebook senza velo e con le braccia protese a mostrare il suo passaporto accompagnato da un manifesto politico vergato a mano: «Sostengo l’Intifada delle donne perché per 20 anni non mi hanno permesso di sentire il vento nei capelli e sulla pelle». Dal 22 ottobre scorso la foto scompare, viene oscurata e ricompare nella pagina Facebook «L’Intifada delle donne nel mondo arabo». Centinaia di ragazze seguono il suo esempio, aggiungendo alla sua immagine la propria e il loro sintetico credo politico. «Sostengo l’Intifada delle donne perché il mio corpo e il mio futuro sono miei». «Sostengo l’Intifada delle donne perché non voglio più indossare tutto questo nero».
Salwa Husseini, 20 anni, egiziana, studentessa, protagonista della ribellione nel suo Paese, è stata arrestata il 9 marzo 2011. Perquisita, costretta a spogliarsi, sottoposta un test forzato di verginità, deve questo trattamento al disprezzo dei militari per l’autonomia femminile. «Questa ragazza – ha spiegato un generale ai giornalisti – non è come mia figlia o vostra sorella, era diversa, stava insieme a degli uomini in un tenda».
Razan Ghazzawi, 31 anni, nata negli Stati Uniti, blogger, «citizen journalist», mito della primavera araba, è stata arrestata due volte: la prima volta il 30 novembre 2011 e la seconda nel febbraio scorso. «Al confine siro-giordano il cecchino misericordioso spara sempre alla stessa ora», scriveva sul suo blog. Ma di lei, benché rilasciata, non ci sono notizie rassicuranti: é uno dei personaggi sorvegliati speciali su cui Amnesty International lancia l’allarme e chiama alla solidarietà in questa giornata mondiale.
Così come lo fa per Nasrim Sotoudeh, 49 anni, la più adulta della lista, eroica avvocata per i diritti umani in Iran, arrestata nel 2011 ed esposta ai rischi di un lungo sciopero della fame. Erede di un nobile lignaggio di donne coraggiose (fra cui la Nobel Shirin Ebadi), il 26 ottobre scorso ha vinto il premio Sakharov per la libertà di pensiero insieme al regista e suo compatriota Jafar Panahi, poeta finissimo del dolore e della libertà femminili.
Finaliste, insieme a loro, erano le magnifiche «impure folli» che hanno osato invocare la Theotokos, la vergine Maria, perché le liberasse da Putin e dal patriarca Cirillo. Sono Nadia Tolokonnikova e Maria Alyokhina, rispettivamente 23 e 24 anni, più note come Pussy Riot, blasfeme, teppiste, istigatrici all’odio religioso.
Camminano così, talvolta ribalde, per le strade del mondo, le nuove ragazze. Osano sfidare e persino scherzare. Nel «Saudiwoman’s weblog», pericolosissimo anfratto della rete dove le donne saudite osano fotografarsi a vicenda mentre guidano la macchina, le redattrici disegnano i loro visi in verde e blu sotto il velo, in stile Andy Warhol. Ridono. Con gli ombrelli aperti si riparano da una pioggia di minuscole automobili che arriva su di loro come una promessa certa di futuro. La composizione si chiama «Ottimismo».

l’Unità 25.11.12
Il vento antisemita arriva da lontano
di Bruno Bongiovanni


La settimana scorsa ci si è occupati del sionismo. Passiamo ora all’antisemitismo. Quello che va dall’ Affare Dreyfus ad Auschwitz è certamente cosa più che nota. Pare comunque che sia stato lo studioso ebreo austriaco Moritz Steinschneider, nel 1860, ad adoperare per primo l’aggettivo «antisemitico», riferendolo ai pregiudizi espressi da Renan in merito all’inferiorità delle razze semitiche nei confronti della razza ariana. Allora si faceva finta di non sapere che le razze non esistono. Fu poi probabilmente l’antisemita Wilhelm Marr a coniare il sostantivo corrispondente Antisemitismus in La strada verso la vittoria del Germanismo sul Giudaismo (1879). Il razzismo, punto di arrivo della mitopoietica romantica del sangue e della nazione, era entrato in una fase di grande diffusione nei circoli culturali. Semitico, in quel contesto, era ormai diventato sinonimo di ebraico. Si trattava di un uso improprio del termine, dal momento che si sarebbe dovuto riferire a gruppi linguistici comprendenti anche gli arabi. A partire da Marr, comunque, la parola fu scelta dai sostenitori delle tesi razziste antiebraiche per la propria autodefinizione. Questo antisemitismo moderno venne generalmente separato dall’antico antisemitismo religioso, o, meglio, antigiudaismo. All’antico antigiudaismo e all’antisemitismo razziale moderno sono state infine aggiunte, a partire dalla seconda metà del ‘900, nuove forme di antisemitismo. Non di rado l’opposizione allo Stato d’Israele ha infatti affiancato gli argomenti antisemitici moderni all’antisionismo, ossia all’antisemitismo contemporaneo. Sul versante opposto i sostenitori più intransigenti della politica di potenza israeliana hanno poi finito per bollare come antisemitismo anche le molte critiche senza tale matrice. Il nazionalismo del Likud ha così configurato l’antisemitismo, sfruttandone la forza evocativa, nei termini universali con cui era stato promosso dagli scrittori antisemiti.

La Stampa 25.11.12
Polemica: Vattimo risponde a De Caro
Il “nuovo” realismo? Operazione di marketing
di Gianni Vattimo


Il mio articolo sul «(nuovo?) realismo» pubblicato il 22 novembre scorso è apparso erroneamente come una recensione alla raccolta Bentornata realtà curata da Ferraris e De Caro. L’avevo scritto prima di vedere il libro, e al puro scopo di «attualizzarlo», ho aggiunto imprudentemente una parentesi richiamando il titolo del volume, per cui De Caro si è sentito legittimato a discuterlo appunto come una recensione.
Non intendevo né intendo recensire l’antologia di Ferraris-De Caro perché non vedo nulla di nuovo negli scritti in essa riuniti. Alcuni degli autori (penso a Eco per esempio, ma anche a Putnam) dicono esplicitamente che le posizioni espresse nei loro testi sono già note da anni attraverso altre opere. Il «realismo negativo» di Eco mi risulta formulato per la prima volta in pubblico in occasione di una serie di lezioni da me tenute, proprio su suo invito, all’Università di Bologna alla fine degli Anni 90, e poi in un dibattito a cui partecipò Gadamer. Il «nuovo» realismo non è tanto nuovo, e il volume non spiega perché lo dovremmo considerare tale.
Così, «l’immensa discussione internazionale sul realismo» a cui De Caro immodestamente si annette, non è una discussione sul «neo» realismo che «ritorna»; è una discussione che risale ai Greci, tanto che non si vede perché Ferraris e De Caro non abbiano incluso anche qualche testo dello Stagirita o di San Tommaso. Il «nuovo» realismo appare qui solo per quel che è: una riuscita operazione di marketing, a cui viene fatta servire anche la mia pseudo recensione; e che ha certo la sua legittimità e utilità, ma non aggiunge nulla al dibattito filosofico.
Quanto al diritto naturale e ai semafori, De Caro svela molto ingenuamente la sua fede assolutista: se non c’è un fondamento assoluto (divino? scientifico?) e c’è «solo» convenzione (signora mia, caro Arbasino!), allora si potrebbe giustificare l’uxoricidio. Già, ma il rosso del semaforo è appunto convenzione, e non si vede perché De Caro lo rispetti. Attenzione, non salire in auto con lui, nemmeno nel campus della sua Tufts University!

La Stampa 25.11.12
Schnitzler e Freud fratelli di sogno
di Alessandra Iadicicco


Con gli occhi «chiusi e spalancati» lo scrittore viennese Arthur Schnitzler (1962-1931), figlio di un medico ebreo e medico a sua volta, colse con sguardo più profondo gli abissi dell’anima, gli oscuri recessi della coscienza, le inquietudini serpeggianti nella società europea fin de siècle di cui, negli stessi anni, Sigmund Freud stava diagnosticando le patologie. Con gli Eyes Wide Shut, come si espresse genialmente Stanley Kubrick, che dalla novella Doppio sogno di Schnitzler trasse il suo ultimo film, l’autore austriaco concepì la forma e la sostanza di tante commedie e narrazioni. Leggendo le sue opere, il padre della psicanalisi credette di trovare una fondazione letteraria delle proprie teorie e, con estremo disagio, ammise di riconoscere nel loro autore il proprio sosia.
La conferma di questa straordinaria somiglianza, dell’incredibile coincidenza per cui, contemporaneamente e indipendentemente l’uno dall’altro, il letterato e lo scienziato giunsero a identiche conclusioni sulla natura della psiche, è offerta oggi, dalla pubblicazione dei Traumtagebücher, i Diari dei sogni di Schnitzler. Finora inediti, conservati tra i dieci volumi dei diari della sua vita «diurna» nell’Archivio letterario di Marbach, vedono la luce in Germania, da Wallenstein, a 150 anni dalla nascita dell’autore.
Se L’interpretazione dei sogni di Freud uscì nel 1899, di oltre vent’anni lo precedette lo scrittore che, già nel 1875, appena tredicenne annotò il racconto della sua prima visitazione notturna. «Ero alla finestra e lei arrivò planando. Io l’abbracciai, la baciai con ardore, e lei ricambiò il mio bacio. Restammo per qualche attimo così, baciandoci ancora e ancora. Esultavo». L’esultanza si sciolse in lacrime quando, al risveglio, vide svanire l’oggetto delle sue fantasie. Innumerevoli amanti avrebbe poi incontrato nel sonno (e anche da sveglio). Avrebbe suonato il pianoforte con Alma Mahler, o con Beethoven. Rifuggito il padre autoritario, o certi soldati antisemiti in uniforme ornata di svastica. Assistito al proprio funerale badando bene a registrare i nomi dei donatori di corone. Aspettato nella sala d’attesa «un po’ teatrale» del dottor Freud, «chiedendomi come poter descrivergli le sofferenze della mia anima senza scoppiare a piangere».

Corriere Salute 25.11.12
Avicenna
Il filosofo arabo che scrisse la «bibbia dei medici»
di Armando Torno


La vicenda inizia a Bukhara, oggi Uzbekistan, in un anno poco prima del Mille. Un giovane abita qui, si chiama Ibn Sîna. Studia il Corano, anzi a dieci anni lo conosce a memoria, eccelle in letteratura, geometria, calcolo indiano e ben presto avrà anche una formazione filosofico-scientifica. A sedici anni divora opere di medicina, metafisica, diritto. A diciassette è chiamato come medico alla corte del sovrano Nûh ibn Mansur e lo guarisce da un male che lo tormentava. Per tale motivo gli vengono aperte le porte della ricca biblioteca reale, dove potrà studiare ulteriormente e approfondire quanto desidera, tanto che a diciotto anni — si mormora — conosceva ogni scienza. Ma il giovane non è mai sazio di sapere. Dalla sua autobiografia, conservataci dal discepolo Giûzgiânî, sappiamo che legge per quaranta volte la Metafisica di Aristotele: si tormenta su questo testo perché non ne comprende il senso ultimo, o almeno crede che gli sfugga. Non ne descriveremo tutta la vita, ci accontentiamo dopo queste premesse di ricordare che nella lingua arabo-spagnola il nome diventerà «Abensîna». Il medioevo latino lo conoscerà come Avicenna.
Perché occuparsi di lui? Per un semplice motivo: Olga Lizzini, che con Pasquale Porro aveva tradotto dieci anni fa la sua Metafisica, ora ha pubblicato una monografia su questo filosofo e medico. Nella collana «Pensatori» dell'editore Carocci è uscito, appunto, Avicenna. Un ritratto che spazia dalla logica all'antropologia, dalle definizioni della natura ai percorsi metafisici. La Lizzini, che insegna Filosofia dell'Islam medievale ad Amsterdam, ci offre un saggio basandosi sulle opere. Noi dell'immenso lascito di Avicenna ricordiamo in questa occasione il suo Canone della medicina, tradotto da Gherardo Cremonese a Toledo in latino nella seconda metà del secolo XII e migliorato dal medico bellunese Andrea Alpago (morto a Padova nel 1521), opera che diventerà il testo di riferimento nelle università. Venne considerata «la bibbia dei medici».
Il Canone era diviso in cinque trattati: comincia con la medicina teorica e pratica in generale, inclusa l'anatomia del corpo umano; prosegue con i medicamenti semplici, mentre la terza parte fu dedicata alle malattie di una determinata parte del corpo; si trovano poi le sezioni sulle patologie non particolari e si conclude con la composizione e applicazione dei medicamenti. Avicenna ha intuizioni avanzate. Per esempio, raccomanda al chirurgo di trattare il cancro nelle sue fasi iniziali, invitandolo ad accertarsi della rimozione completa del tessuto malato. Ricorda l'importanza della dieta, l'influenza del clima e dell'ambiente sulla salute; inoltre parla degli anestetici orali e del valore medico della musica, la quale ha un effetto particolare sullo stato fisico e psicologico dei pazienti.
Una bolla di papa Clemente del 1309 cita il nome dell'arabo accanto a quello di Galeno. Lo si valorizza particolarmente a Bologna e a Montpellier, anzi nella città francese è addirittura ritenuto superiore ai testi della medicina greca onorati dalla tradizione (in verità è anche accostato alle opere del clinico Abu Bakr Razi). Sarà adottato sino al XVII secolo; il programma di una scuola medica che lo esclude reca la data 1557, anche se in quel tempo è continuamente stampato, come prova la superba edizione in folio che esce a Roma nel 1593. Si può affermare che per secoli nessun medico avrebbe potuto ignorare il suo insegnamento teorico, come d'altra parte ricorda Chaucer nel prologo dei Racconti di Canterbury. L'influenza esercitata in Europa cominciò nella prima metà del Duecento, allorché se ne segnala la presenza negli scritti del medico danese Henrik Harpaestraeng. D'altra parte, del Canone si contano poco meno di 90 traduzioni.
E questo anche se un sommo conoscitore dei corpi umani quale Leonardo da Vinci rifiutava le concezioni anatomiche del maestro arabo e il medico alchimista Paracelso, morto nel 1541, nel giorno di San Giovanni del 1527 — così vuole la tradizione — con esuberanza e tra gli applausi degli studenti ne bruciò pubblicamente le opere a Basilea. Al di là dei critici, tuttavia, Avicenna penetra profondamente nel sapere europeo. Alberto Magno era ricorso alle sue opere per gli scritti scientifici e, inoltre, lo consegnò al pensiero di Tommaso d'Aquino; la scolastica latina non è pensabile senza la sua filosofia e gli influssi giungono sino alla Scuola di Oxford e fanno eco le lodi che gli dedica Ruggero Bacone, il quale non esita a porlo accanto ad Aristotele e a Salomone. E questo senza contare le tracce che si ritrovano nei testi dei filosofi francescani. Dante, inoltre, lo situa tra i sommi uomini di scienza. I teologi dell'età di mezzo consultano senza requie il Libro della guarigione, o come avrebbe lui detto il Kitâb al-Sifâ, che nelle biblioteche dei monasteri era noto con il titolo Liber sufficientiae: si tratta di una enciclopedia filosofica, la cui parte riguardante «la scienza delle cose divine», è la ricordata Metafisica.
Non sono che esempi. E quando si svilupperà, sotto lo sguardo vigile della Compagnia di Gesù, la Seconda Scolastica, Avicenna è ancora presente nelle immense chiose offerte all'opera di Tommaso. Soltanto nel periodo illuminista, in quel Settecento permeato di scienza che con il medico militare La Mettrie intenderà il corpo umano come una macchina, il maestro arabo cederà definitivamente il passo. Si ritirava nella storia. Dopo aver avvisato l'umanità che un «dottore ignorante è l'aiutante di campo della morte».

Corriere Salute 25.11.12
Nel Medioevo e nel Rinascimento in Italia fondamentali anche i «dottori rabbini»


Accanto alla medicina (e alla filosofia) degli arabi, non vanno dimenticate quelle degli ebrei. Medioevo e Rinascimento vedono in innumerevoli città italiane, a cominciare dalla Roma dei Papi, la presenza di medici rabbini, ovvero di eminenti figure che oltre ad essere guide spirituali delle loro comunità praticano l'arte di Ippocrate utilizzando il vasto sapere della tradizione ebraica. Ora un volume, curato da Myriam Silvera, in cui sono raccolti gli atti di un convegno tenutosi nel settembre 2008 presso l'Università degli Studi di Roma Tor Vergata, dal titolo Medici rabbini. Momenti di storia della medicina ebraica (Carocci, pp. 168, 19), consente di conoscere protagonisti e riflessi di una storia che merita attenzione. Ecco allora riapparire figure quali Nathan ha-Meati da Cento, traduttore dall'arabo del Canone di Avicenna e dal greco degli aforismi di Ippocrate; oppure Calonimos ben Calonimos, che ci lascia una traslazione di alcuni testi di Galeno. Si giunge anche in periodi più vicini, per esempio con personaggi quali Isacco Lampronti, al quale, nel volume di Carocci, David Gianfranco Di Segni dedica un saggio. Attivo a Ferrara, dove morì nel 1756, fu autore di una celebre enciclopedia talmudica, Pahad Izchak, che espone in ordine alfabetico questioni di natura rituale, religiosa, medica e scientifica (in Israele, nel 1942, è stata pubblicata una nuova edizione). Una lapide in via Vignatagliata 33 lo ricorda: ma, come riferisce Di Segni, fu affissa nel 1872, «dopo la fine del potere temporale della Chiesa, perché il clero, poco prima che Lampronti morisse, aveva vietato le lapidi alle tombe ebraiche»; anzi, quelle presenti nel cimitero della comunità furono «utilizzate per altri scopi, come per esempio lastricare strade». Ma il ricordo di questa figura resta soprattutto legato alla sua idea di «missione»: esercitò la professione sia tra gli ebrei che i non-ebrei, tanto che questi ultimi lo chiamavano «il famoso medico». Il libro di Carocci non si limita comunque ai personaggi. Si trovano, per esempio, notizie sulle biblioteche dei medici ebrei negli anni che seguono l'espulsione dalla Spagna o questioni di etica, come il saggio di Giuseppe Veltri, sulla medicina nella riflessione talmudica.

Una imponente bibliografia di riferimento di Avicenna è disponibile in italiano, presso Bompiani, Metafisica, con testo arabo e latino a fronte; dall'editore Zamorani si trova Il poema della medicina. Fra i ricordati traduttori vale la pena di segnalare il saggio di Francesca Lucchetta Il medico e filosofo bellunese Andrea Alpago (1522) traduttore di Avicenna del 1964, ancora segnalato nel catalogo di Antenore. Il saggio di Olga Lizzini, ricordato in questa pagina ed edito da Carocci, ha una accurata bibliografia alle pagine 307-334 che può rispondere alle numerose esigenze. Per i medici rabbini è sempre possibile partire dalla Jewish Encyclopedia (del 1906, ma è disponibile online).
Resta importante il saggio di Cecil Roth The Jews in the Renaissance, uscito a Philadelphia nel 1959, ristampato nel 1977. Inoltre, per il mondo rinascimentale e per i molteplici aspetti che influiscono ancora sul nostro sapere, sono importanti i due volumi, curati da Germana Ernst e Guido Giglioni, intitolati I vincoli della natura e Il linguaggio dei cieli (entrambi pubblicati da Carocci, rispettivamente di pp. 320, 25 e di pp. 344, 29).
In essi si possono trovare saggi come quello di Hiro Hirai, Medicina e astrologia. Aspetti della medicina astrale platonica o altri dedicati a superstizioni, credenze popolari, segreti di natura.

Corriere La Lettura 25.11.12
Le Avanguardie della Cia
Da Pollock a Rothko, molti artisti trasgressivi vennero sponsorizzati dai servizi segreti Usa
di Pierluigi Battista


Nell'ultimo romanzo di Ian McEwan, tradotto e pubblicato da Einaudi con il titolo Miele, Serena Frome viene arruolata dall'agenzia di intelligence britannica. Ma la sua non è una storia di spie come tutte le altre. La missione cui è chiamata agli inizi degli anni Settanta, un'epoca di grande turbolenza sociale e culturale, è una missione ideologica: deve conquistare alla causa dell'Occidente, in funzione anticomunista, scrittori e intellettuali capaci di diffondere il verbo delle «società libere». «Libertà di parola, libertà di riunione, diritti legali, sviluppo democratico: non sono cose molto apprezzate oggigiorno da molti intellettuali», le dice il capo dei servizi segreti. Per questo il compito della neo-spia è di assoldare, a loro insaputa, esponenti della minoranza culturale attestata su posizioni filo-occidentali.
Fantapolitica, fantastoria, deformazione letteraria della realtà? No, e infatti nel romanzo di McEwan viene esplicitamente menzionata la rivista «Encounter», molto elegante e molto cool, già diretta da Stephen Spender, che nel 1966 venne travolta da una clamorosa rivelazione: finanziatrice della rivista era la Cia, attraverso le sue fondazioni. E pagate dalla Cia, si rivelò allora, erano state tutte le riviste legate al «Congresso per la libertà della cultura». Compresa una rivista bellissima e controcorrente in Italia, «Tempo presente», diretta da Nicola Chiaromonte, da Ignazio Silone e da Gustaw Herling, il grande intellettuale polacco che aveva raccontato il Gulag e che, a Napoli, sposò una figlia di Benedetto Croce. Dopo quella rivelazione «Tempo presente» entrò in uno stato di agonia. Lo stesso Chiaromonte, combattente antifascista nella guerra di Spagna, amico degli intellettuali anticonformisti negli Stati Uniti, a cominciare da Hannah Arendt e Mary McCarty, critico teatrale, polemista, nemico di ogni totalitarismo, di quello fascista e di quello comunista, morirà qualche anno dopo, stroncato da un infarto in un ascensore della Rai, dove si era recato per trattare per qualche collaborazione, oramai isolato nella comunità culturale orientata a sinistra.
McEwan, cioè, fa esplicito riferimento a uno degli episodi controversi di una grande «guerra fredda culturale» che ha diviso il mondo intellettuale lungo tutto l'arco temporale del mondo spaccato in due blocchi, quello occidentale e quello comunista. Una storia ricostruita, da due punti di vista opposti, da Massimo Teodori, filo-americano, nel suo libro Benedetti americani, e da Frances Stonor Saunders, che con il suo La guerra fredda culturale (tradotto e pubblicato in Italia dall'editore Fazi) ha rivisitato l'intera vicenda sottolineando l'aspetto scandaloso di intellettuali che hanno prestato la loro opera generosamente finanziati nientemeno che dalla Cia, considerata la quintessenza di ogni nefandezza illegale dell'Occidente, un centro di provocazione permanente, una rete perennemente impegnata nella destabilizzazione delle democrazie.
E infatti, quando vennero rivelati i finanziamenti della Cia, lo scandalo fu generale (se ne adontò persino Isaiah Berlin, dichiarando che, ad averlo saputo, non avrebbe mai collaborato con «Encounter»). Ma non tutti conoscono l'ampiezza degli interventi della Cia sulla cultura. E non è esagerato constatare, come si evince dai libri appena citati, che vennero foraggiati dal servizio segreto americano non soltanto un Koestler, veementemente impegnato nella battaglia culturale anticomunista, ma una buona parte dell'avanguardia artistica e musicale, americana ed europea. «Se si leggono i nomi dei membri dei vari comitati del Museum of Modern Art di New York (Moma)», scrive Saunders, «si scopre una proliferazione di collegamenti con l'Agenzia» e già dal 1948 le opere di molti «maestri del modernismo», da Matisse a Chagall a Kandinsky, «furono scelte dalle collezioni americane e inviate in Europa». Allo stesso Andy Warhol non furono lesinati aiuti e sostegni. Vennero promosse mostre ed esibizioni in tutto il mondo occidentale di Jackson Pollock, di De Kooning, di Mark Rothko. Un forte sostegno, ovviamente segreto, venne anche garantito sia a musicisti d'avanguardia che a storiche orchestre sinfoniche, come quella di Boston, di cui furono messe a punto lunghe e fruttuose tournée in Europa. L'aiuto non mancò nemmeno a molti maestri del cinema come John Ford, e molte opere americane destinate a importanti Festival del cinema, a cominciare da quello di Cannes, avevano ricevuto fiumi di denaro di provenienza Cia.
In Italia, la rivista «Tempo presente» era molto snobbata dalla cultura di sinistra. Gravava su Silone l'eterno sospetto riservato agli ex comunisti che, rompendo con il partito, avevano scelto una presenza militante nel campo opposto. L'onestà intellettuale di Chiaromonte era cristallina. Ma le rivelazioni pesarono moltissimo, e negativamente, sui destini di quel gruppo intellettuale sospettato di essersi messo al servizio dell'«imperialismo americano». Ma bisogna capire che le ragioni per le quali la Cia finanziava tante iniziative culturali non coincidevano con una forma di disinteressato mecenatismo. Gli Stati Uniti, intelligentemente e con grande lungimiranza, volevano dimostrare che la cultura libera dell'Occidente non aveva paura delle innovazioni formali e dell'anticonformismo delle avanguardie. E che nell'Occidente si respirava tutt'altra aria rispetto a quella, soffocata dall'oppressione e dalle regole ferree del «realismo socialista», che dominava le società comuniste obbedienti a Mosca. Di qui la libertà, di là la repressione e l'asservimento degli intellettuali al regime: questo era il motivo per cui le amministrazioni americane ritenevano indispensabili le armi della «guerra fredda culturale». Lo stesso motivo che è alla base dell'arruolamento di una giovane dinamica e vivace nell'intelligence britannica in funzione anticomunista. Una guerra militare. Una guerra psicologica. Una guerra culturale. Il mondo finito con il crollo del muro di Berlino e con la fine dell'Unione Sovietica si divideva anche nelle arti, nei suoni e nelle lettere. E tutto aveva un prezzo.

Corriere La Lettura 25.11.12
Derrida e Foucault oltre l'Atlantico E gli Usa ridiventarono una coloniaFrançois Cusset analizza l'influenza del pensiero radicale parigino sul mondo accademico americano. Che mise in scacco l'umanesimo

di Guido Vitiello
qui

Coirriere La Lettura 25.11.12
John Brown, lo Spartaco d'America
di Maurizio De Giovanni


Fanatico religioso, attaccò un arsenale militare per distribuire le armi ai neri della Virginia, che però non raccolsero l'appello alla ribellione Condannato per insurrezione e omicidio venne giustiziato sulla forca ma ben presto il conflitto tra Nord e Sud avrebbe realizzato il suo sogno
P otete guardarlo negli occhi, John Brown. Sorprendentemente la Rete restituisce molti dagherrotipi dell'epoca — si chiamavano così — in cui quest'uomo segaligno, dalla fronte altissima e la mascella larga, fissa gli occhi scuri e un mezzo sorriso nell'obiettivo dell'antica camera fotografica. Non certo un bel tipo, John Brown. Si capisce anche da queste antiche progenitrici della fotografia che aveva il fuoco in corpo. Che c'era un motivo per cui nelle varie fasi della sua non lunga vita si è sentita la necessità di farne un simbolo di lotta.
Alcune delle immagini che troverete su Internet, quelle che si riferiscono agli ultimi anni, lo ritraggono con una lunghissima barba bianca, come un profeta dell'Antico Testamento; eppure la storia dice che John Brown morì prima di compiere sessant'anni.
Impiccato. All'alba del 2 dicembre del 1859.
Probabilmente senza saperlo, tutti quelli che sono stati ragazzi negli anni Sessanta e Settanta hanno cantato la storia di quest'uomo magro e dagli occhi di fuoco, al campeggio o sulla spiaggia, perfino a scuola sotto la direzione attenta di una maestra di sinistra. Glory, glory, alleluja: John Brown giace nella tomba là nel pian, ma l'anima vive ancor. Perché l'uomo è stato ed è ancora uno dei grandi simboli della rivolta verso uno Stato oppressore e ingiusto, per cui le note della marcetta si affiancarono, in quegli anni di ideali ribollenti, a quelle dell'autoctona Bella ciao, per rievocare la possibilità, se non la necessità, della lotta armata.
In sintesi, John Brown fu un rivoluzionario. Nato in un'America in cui la schiavitù era una condizione ammessa e talvolta imposta dallo Stato, era un fanatico religioso; non poteva ammettere un tale crimine contro il volere di Dio, che invece aveva detto che gli uomini erano tutti uguali. A seguito di ciò raccolse attorno a sé un piccolo esercito, coinvolgendo alcuni degli stessi suoi figli (ne ebbe una ventina da due matrimoni), e diede inizio alla sua personale guerra civile. Fece proselitismo, raccolse fondi con i quali approvvigionò i suoi accoliti di armi e munizioni; assaltò le piantagioni facendo fuggire gli schiavi, e poi li difese; preparò agguati contro gli schiavisti. Molte delle sue azioni lasciarono a terra cadaveri, in una scorreria cinque sudisti furono uccisi senza pietà. John Brown ammazzava per il proprio ideale; la sua era una guerra, e in guerra si uccide o si viene uccisi. Con lui c'era poco più di una banda di fuorilegge, però: né più né meno di quelle che infestavano i territori semidisabitati di un Paese neonato, attraversato dalla miseria e dalla delinquenza. Se si vuole cambiare la storia, serve un esercito. E un esercito ha bisogno di armi.
Così John Brown, preso dal delirio del proprio ideale, decise e pianificò un'azione che, nelle intenzioni, avrebbe potuto portare addirittura alla liberazione di tutti gli schiavi della Virginia, uno degli Stati più ricchi del Sud. Il 16 ottobre del 1859 assaltò l'arsenale federale di Harper's Ferry; nei giorni precedenti aveva fatto passare tra gli schiavi neri della regione l'informazione, convinto che la contemporaneità della rivolta e della disponibilità di armi avrebbe portato a una vittoria facile e veloce.
Che naturalmente non ci fu. Gli schiavi, terrorizzati dalla sicura rappresaglia, fiaccati nella volontà da una condizione dalla quale non pensavano di potersi affrancare, non si sollevarono. In compenso le truppe federali arrivarono tempestivamente, spegnendo nel sangue l'attacco dei rivoluzionari. Sul terreno rimasero i corpi di due marines e di dieci seguaci di Brown, che fu catturato insieme ad altri cinque. I capi di imputazione erano: cospirazione, omicidio, insurrezione armata. Tutto vero. Condanna a morte e impiccagione.
Nel breve tempo intercorso tra la cattura e l'esecuzione, l'azione di Brown ebbe risonanza planetaria, perché la schiavitù era un orrore sanguinante nella mente e nel cuore di ogni intellettuale. Victor Hugo scrisse una lettera aperta, pubblicata sui principali giornali del mondo, in cui testualmente diceva: «Lasciate che gli Stati Uniti pensino che c'è qualcosa di più spaventoso di Caino che uccide Abele, ed è Washington che uccide Spartaco», e parlava di «una scossa alla democrazia americana». Così fu: poco più di un anno dopo quel 2 dicembre, iniziò la guerra di Secessione, e a quattro anni di distanza dalla morte del rivoluzionario la schiavitù fu abolita.
Di uomini così la storia non smette mai di dare definizioni. Nel corso del secolo e mezzo passato fino a oggi, Brown è passato dalla santificazione libertaria alla dannazione terroristica, con tutte le sfumature possibili tra le due posizioni; gli studiosi, i romanzieri e i politici gli hanno dato dell'eroe, dello squilibrato, del martire, del fanatico, del sognatore, dell'assassino. Impossibile determinare con certezza chi fu questo strano figlio del suo tempo. Inevitabile che il Sessantotto e i movimenti di rivolta che seguirono ne facessero un simbolo, ripescandolo dalla soffitta delle antiche battaglie combattute e provvisoriamente perdute.
Paradossalmente, John Brown assunse un secolo dopo la sua morte una valenza quasi religiosa, lui che proprio dalla religione era stato mosso fin da bambino. Ma la religione che lo prese a simbolo era fortemente laica, distante da ogni forma di trascendenza. La lotta contro la schiavitù, portata avanti con lo strumento delle armi e non della parola; la battaglia del proletario Davide contro il Golia dello Stato burocratico e ottuso, votato al profitto e al disprezzo della giustizia sociale; il prendere le parti dei deboli, dei diseredati, degli infelici e degli affamati contro i latifondisti e i ricchi interessati al mantenimento dello status quo; e infine il martirio, il sacrificio estremo per il proprio ideale. Caratteristiche perfette per i ragazzi che scendevano in piazza con le molotov nei primi anni Settanta. La stessa canzoncina che rievocava la morte di Brown è infarcita, a ben ascoltare, di elementi religiosi, da una morte e una sepoltura che assomigliano tanto a una crocifissione fino al Gloria e all'Alleluja del ritornello. Parabole come quelle di John Brown sono destinate a un perenne andirivieni nelle mitologie di cui la storia ha bisogno; probabilmente la verità storica non sarà mai definita con precisione, e forse non ce n'è nemmeno reale necessità.
Possibile però, e anzi doveroso, è porsi una domanda tragicamente attuale: quanto è lecito perseguire un ideale con un'arma in mano, per quanto nobile esso sia? Ciclicamente appare impossibile attendere i tempi della democrazia e della politica per la risoluzione di situazioni drammatiche la cui conclusione appare indifferibile. E per quanto da quelle mani inerti lungo il corpo, che oscilla appeso a una corda, scorra del sangue forse innocente, si comprende quanto sia stato facile pensare a Brown come a un combattente di una guerra santa: non c'è delitto peggiore della privazione della libertà e della discriminazione razziale.
Personalmente, osservando quegli occhi infuocati e quel mezzo sorriso che mi fissano dalle immagini del passato, non riesco a non provare un po' di disagio. Si legge la determinazione assoluta, in quello sguardo. Una forza inestinguibile, quella della fede assoluta e incrollabile che non accetta discussioni. E se c'è una cosa che mi terrorizza più delle discriminazioni di Stato, è appunto la fede assoluta e incrollabile che non accetta discussioni.

Il personaggio
John Brown era nato nel 1800. Dedicò la vita alla causa antischiavista, che perseguì anche attraverso la lotta armata. Fu impiccato dopo un tentativo d'insurrezione
L'inno
La canzone di John Brown nacque tra i soldati unionisti del Nord nel 1861, all'inizio della Guerra civile americana. La musica apparteneva a un inno del culto religioso metodista. Nella illustrazione in alto si leggono il testo originale in inglese, che subì in seguito un gran numero di modifiche e adattamenti, e quello italiano adottato come canto degli scout
Il saggio
La figura di John Brown resta molto controversa tra gli storici. In Italia se n'è occupato lo studioso Giulio Schenone nel libro «John Brown. L'apostolo degli schiavi» (Mursia, 1984)

Repubblica 25.11.12
La società orizzontale
Dalla scuola ai sindacati, dai partiti agli editori fino ai critici, le istituzioni sono sempre più discusse
In nome di un presunto rapporto diretto che cancella la mediazione
di Massimo Recalcati


La funzione di figure, ruoli e soggetti che fanno da tramite è anche quella di costruire una traduzione simbolica delle cose, perché ci obbligano a non ridurre la vita alla nostra esperienza
Mettere tutto e tutti sullo stesso piano, pensando in questo modo di rifiutare gerarchie e doveri per avere una maggiore libertà, azzera i legami di una comunità Che invece sono decisivi come collanti sociali

Nel nostro tempo spira un vento forte in direzione contraria alla funzione sociale delle istituzioni. Gli esempi sono molteplici e investono anche la nostra vita collettiva: dalla famiglia alla Scuola, dai partiti ai sindacati, dall’editoria alla vita affettiva, assistiamo ad una caduta tendenziale della mediazione e della sua funzione simbolica. Di fronte ad una bocciatura i genitori tendono ad allearsi con i loro figli più che con gli insegnanti; possono cambiare scuola o impugnare la loro causa rivolgendosi ai giudici del Tar; il ruolo educativo da parte di un adulto suscita spesso il sospetto di un abuso di potere; la Rete offre la possibilità a chi ritiene di essere uno scrittore di farsi il proprio libro online senza passare dal giudizio degli editori; la figura del critico, che faceva da ponte tra opera e pubblico, è oramai azzerata; le amicizie non passano più dalla mediazione indispensabile dell’incontro dei volti e dei corpi, ma si coltivano in modo immateriale sui
social networks; di fronte alla dimensione necessariamente snervante del conflitto politico si preferisce l’opzione della violenza o dell’insulto. Anche i sintomi che affliggono la vita delle persone hanno cambiato di segno; mentre qualche decennio fa apparivano centrati sulle pene d’amore, sull’importanza irrinunciabile del legame sociale, oggi non è più la rottura del legame a fare soffrire, ma è l’esistenza del legame che viene avvertita come fonte di disagio.
Un disagio diffuso soprattutto tra i ragazzi. Milioni di giovani vivono, nel mondo cosiddetto civilizzato, come prigionieri volontari. Hanno interrotto ogni legame con il mondo, si sono ritirati nelle loro camere, hanno abbandonato scuola e lavoro. Questa moltitudine anonima preferisce il ritiro, il ripiegamento su di sé, alla difficoltà della traduzione imposta dalla legge della parola. È un segno dei nostri tempi. Il Terzo appare sempre più come un intruso. Eppure non c’è vita umana che non si costituisca attraverso la mediazione simbolica dell’Altro. Il pianto angosciato di un bambino nella notte ci chiama alla risposta, alla presenza, ci convoca nella nostra responsabilità di accogliere la sua vita. Il mito del farsi da se stessi, dell’autogenerazione, come quello del farsi giustizia da sé, è un mito che il liberismo contemporaneo ha assunto come un suo stemma. In realtà nessuno è padrone delle sue origini, come nessuno può essere salvatore del mondo. Non esiste comunità umana senza mediazione istituzionale, senza mediazione simbolica, senza il lavoro paziente della traduzione della lingua dell’Altro. Divento ciò che sono solo passando dalla mediazione dell’Altro (famiglia, istituzioni, società, cultura, lavoro, ecc.) e non solo attraverso le esperienze personali che ho fatto. Nel nostro tempo questa mediazione necessaria alla vita è in crisi. Nel nome di una società orizzontale che esalta i diritti degli individui senza dare il giusto peso alle loro responsabilità evapora la dimensione della mediazione simbolica: fare gli interessi della collettività è percepito come un abuso di potere contro la libertà dell’individuo. Questo declino della mediazione simbolica non significa solo che il nostro tempo ha smarrito la funzione orientativa dei grandi ideali della modernità e scorre privo di bussole certe al di fuori dei binari solidi che le grandi narrazioni ideologiche del mondo (cattolicesimo, socialismo, comunismo, ecc) e le sue istituzioni disciplinari (Stato, Chiesa, Esercito) assicuravano, ma manifesta una sorta di mutazione antropologica della vita. L’individualismo si afferma nella sua versione più cinica e narcisistica investendo la dimensione della mediazione simbolica di un sospetto radicale: tutte le istituzioni che dovrebbero garantire la vita della comunità non servono a niente, sono, nella migliore delle ipotesi, zavorre, pesi arcaici che frenano la volontà di potenza dell’individuo o, nella peggiore delle ipotesi, luoghi di sperpero e di corruzione osceni. Ma come? Non è compito delle istituzioni, come dichiarava Lacan, porre un freno al godimento individuale rendendo possibile il patto sociale, la vita in comune?
La violenza di questa crisi economica ha prodotto giusta indignazione e sfiducia verso tutto ciò che agisce in nome della vita pubblica, verso tutto ciò che sfugge al controllo diretto del cittadino. Le istituzioni non l’hanno saputa avvertire, frenare, governare. Il caso della politica si impone come esemplare. Il luogo che secondo
Aristotele deve riuscire a determinare l’integrazione pubblica delle differenze individuali sotto il segno del bene della polis – il luogo più eminente della traduzione simbolica – si è rivelato corrotto dalla affermazione più scriteriata degli interessi individuali. Il politico liberato dal peso dell’ideologia si è ridotto a un furfante che ruba per se stesso. Eppure non si può rinunciare così facilmente alla politica, l’arte della mediazione.
Perché i rischi sono evidenti, li abbiamo visti in questi anni, tra leadership carismatiche e fondazioni mitiche. Li vediamo oggi quando avanza un nuovo populismo che si appoggia sulla democrazia tecnologica garantita dalla Rete per evitare la “truffa” della mediazione politica. Ma il populismo non è forse una forma radicale di pensiero anti-istituzionale che rigetta la mediazione simbolica affermando l’illusione di una democrazia diretta puramente demagogica?
In questo senso il liberale conservatore Lacan replicava alle critiche degli studenti del ’68 che gli rimproveravano di non autorizzare la rivolta contro le istituzioni che non esiste alcun “fuori” dalla mediazione imposta dal linguaggio. Il destino degli esseri parlanti è infatti quello della traduzione. Lacan disillude l’impeto rivoluzionario degli studenti: non esiste possibilità che una rivolta animata dalla rottura con il campo istituzionale del linguaggio non ricada nella stessa violenza dalla quale avrebbe voluto liberarsi. La rivoluzione porta sempre con sé un nuovo padrone. L’invocazione di una democrazia diretta che reagisca in modo anti-istituzionale alla debolezza e alla degenerazione
insopportabile delle istituzioni rischia di spalancare il baratro di un populismo che finisce per gettare via insieme all’acqua sporca anche il bambino. Il grillismo sbandiera una forma di partecipazione diretta del cittadino che rifiuta, giudicandola un ferro vecchio della democrazia, la funzione sociale dei partiti.
Ma è un film che abbiamo già visto. È una legge storica e psichica, collettiva e individuale insieme: chi si pone al di fuori del sistema del confronto politico e della mediazione simbolica che la democrazia impone, finisce per rigenerare il mostro che giustamente combatte. Non è solo un insegnamento della storia ma anche, più modestamente, della pratica della psicoanalisi. La rabbia verso i padri, il puro rifiuto di tutto ciò che si è ricevuto, il disprezzo dell’eredità, rischia sempre di generare una protesta sterile, che impedisce di discriminare l’oro dal fango, che fa di tutta l’erba un fascio, e, dulcis in fundo, che mantiene legati per sempre al padre di cui ci si voleva liberare, rieditandone il volto mostruoso e autoritario.

Repubblica 25.11.12
I pericoli di un mondo “individuale” in cui ognuno rappresenta solo se stesso
di Tzvetan Todorov


In un’epoca ipertecnologica le relazioni danno spesso l’illusione di uno scambio E questo ha delle conseguenze nella visione dell’etica e della responsabilità

Se si ha l’impressione di un tracollo dell’etica nel mondo in cui viviamo – di uno smarrimento del senso di responsabilità e di comunità –, ciò non dimostra che questa crisi sia realmente in atto. Si sente dire spesso: nel nostro secolo gli interessi materiali regnano incontrastati, e si dimenticano i valori spirituali. Ma è mai esistita quell’età dell’oro di cui si sogna?
Di fatto però, nel nostro mondo e nel nostro tempo, stanno avvenendo mutazioni che hanno probabilmente un impatto negativo sul senso morale della popolazione. Perché la morale ha anche a che fare con dei valori condivisi: non è una semplice proiezione individuale, provoca pensieri, relazioni e azioni che hanno conseguenze sociali. L’invenzione dei computer e la loro messa in rete influenzano profondamente le nostre attività di comunicazione, e quindi i rapporti tra gli individui e il nostro agire morale. Un secolo fa, l’informazione era scarsa, il telefono difficile da ottenere; le notizie arrivavano a rilento. Oggi l’informazione è permanente e pletorica; ognuno di noi è collegato in permanenza a vaste reti e comunica con un gran numero di persone. Ma al tempo stesso le popolazioni europee, le stesse che fruiscono di queste tecnologie, si lamentano di un crescente senso di solitudine, di isolamento, di abbandono. Il trionfo della comunicazione e la sua sconfitta sembrano avanzare di pari passo.
Ci si rende conto allora che il termine di comunicazione si riferisce a due funzioni ben distinte: la prima consiste nel trasmettere un’informazione, la seconda nel partecipare alla formazione della persona. Quando parlo con qualcuno, posso comunicargli una serie di dati sull’oggetto del nostro colloquio, ma al tempo stesso mi metto in rapporto col mio interlocutore, anticipo la sua reazione e mi adatto a lui; e così facendo mi trasformo, pur cercando al tempo stesso di influenzarlo a mia volta. Nulla potrà mai sostituire la prossimità di un volto, le sensazioni uditive, olfattive, tattili che risentiamo nel corso di un incontro fisico. Senza di esse viviamo nell’illusione di uno scambio, ma il nostro slancio è devitalizzato. Finiamo per dimenticare che siamo fatti dagli altri, e che la chiave della nostra fragile felicità è nelle loro mani.
La politica non va confusa con l’etica,ma è quest’ultima a conferirle un orizzonte. Dalla caduta del muro di Berlino, che ha dato il via all’ascesa di un neoliberismo sempre più potente, assistiamo in Europa a un cambio di prospettiva: come se il tracollo dell’impero sovietico avesse dovuto comportare un deprezzamento dei valori di solidarietà, di uguaglianza, di bene comune, preconizzati ipocritamente da quello Stato e dai suoi satelliti. Secondo la dottrina neoliberista che sottende le decisioni politiche dei nostri governi, l’essere umano è autosufficiente, e gli interessi economici devono prevalere sui nostri bisogni sociali. Ma in un mondo in cui il soddisfacimento dell’individuo è il solo valore condiviso non c’è più posto per l’etica, il cui principio sta nel tener conto dell’esistenza degli altri.
L’etica entra in crisi in un Paese in cui nessuno si preoccupa più di tutelare le proprie risorse naturali, mettendo così a repentaglio la salute e la stessa sopravvivenza delle generazioni future; che rifiuta di investire in infrastrutture accessibili e utili a tutti; che professa il disprezzo per i deboli e i poveri, tacciati di pigrizia o stupidità; che induce a vedere il diverso da noi come una minaccia. Uno Stato che appare immorale erode anche le basi dell’etica dei suoi abitanti.
Non siamo di fronte alla minaccia di un tracollo definitivo dell’etica, la quale è inerente alla coscienza umana. La sua scomparsa significherebbe una mutazione della nostra specie in quanto tale. Ma nel breve termine siamo chiamati a reagire a queste trasformazioni. Quella dovuta allo sviluppo tecnologico esige un maggior dominio delle nostre nuove capacità – così come si impara a guidare un’automobile per non mettere in pericolo la propria vita. Mentre le mutazioni originate da un’ideologia comportano di riflesso la necessità di un’altra ideologia, più vicina alla verità delle nostre esperienze, che veda nell’economia un mezzo e non un fine, e riconosca che è l’interumano, il rapporto con l’altro, a fondare l’umano.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)