lunedì 26 novembre 2012

l’Unità 26.11.12
Bersani «Ora più forti giornata straordinaria»
«Abbiamo fatto un bel regalo all’Italia»
«Senza doppio turno avrei già vinto: e c’era chi non lo voleva»
Gli auguri del Ps francese
di Simone Collini


Il segretario pronto al duello con il sindaco: «Ma nessuno mi rubi questa grande festa perché l’ho voluta io». Mercoledì il confronto su Raiuno

Prima di uscire di casa twitta col cellulare un «grazie a tutti i volontari che rendono possibile questa bellissima giornata di democrazia». Poi, insieme alla moglie Daniela e alle figlie Margherita ed Elisa, va a prendere la macchina per andare verso via XXIV Maggio. Jeans e pullover blu, Pier Luigi Bersani arriva al seggio di Piacenza ovest sorridente.
Un sorriso che non perde neanche a tarda sera, quando si vengono a sapere i dati definitivi di questa sfida: «È stata una giornata straordinaria, non me la si rubi perché l’ho voluta io». Il leader del Pd è primo, e anche se non è riuscito a chiudere la partita al primo turno parla di «risultato ottimo». Domenica prossima dovrà giocarsela con un Matteo Renzi che riparte forte di un risultato che era tutt’altro che atteso nei giorni precedenti al voto, ma Bersani si dice comunque soddisfatto per questo passaggio che, sottolinea, rafforza il suo partito e il centrosinistra in vista della sfida decisiva, le elezioni politiche. A urne chiuse riceve un messaggio dal segretario del Partito socialista francese Harlem Desir per l’«eccellente risultato»: «Vincerà ampiamente al secondo turno come François Hollande». C’è anche il tempo per una telefonata cordiale con Renzi: «Ti abbraccio». Però il suo sfidante dice che lei ha accettato la sua proposta di fare le primarie. «No, in amicizia ma questo non glielo consento», risponde lui che ha chiesto di modificare lo statuto del Pd per permettere al sindaco di Firenze di correre.
Domenica sera si saprà chi sarà il candidato premier del centrosinistra, ma intanto un «obiettivo è stato raggiunto», dice Bersani andando a incontrare poco prima di mezzanotte militanti e simpatizzanti al comitato di Piacenza. «Abbiamo contribuito a riavvicinare cittadini e politica». E se i commentatori che affollano le trasmissioni televisive post-voto si affrettano a dire che comunque vada tra sei giorni la sfida ai gazebo, il ruolo del sindaco di Firenze avrà un peso non indifferente in tutti i prossimi passaggi da qui al voto di marzo, Bersani a chi lo avvicina dice che «non ci saranno bilancini» e ricorda anche che il doppio turno è stato lui a volerlo nelle regole (Renzi era contrario), per dare al candidato premier una forte legittimazione popolare, superiore alla metà più uno dei voti degli elettori. «Se non ci fosse stato stasera avrei stravinto io», è il sottinteso.
UN COLPO ALL’ANTIPOLITICA
Se Bersani si dice soddisfatto per com’è andata questa giornata è perché è convinto che «il primo avversario» da combattere sia «la disillusione, l’indignazione, il distacco tra i cittadini e la politica». I resoconti che riceve fin dal primo mattino da tutta Italia parlano di file ai gazebo, tanto per votare quanto ancora per registrarsi. «Oggi è una festa. Abbiamo fatto, con le primarie, un regalo a noi e all’Italia perché la politica è partecipazione. Se mi aspettavo un’affluenza così alta? Certo. Le primarie le ho volute, e le ho volute aperte, per rompere il muro che c’è tra politica, istituzioni, e cittadini. C’è ancora tanto da fare contro l’antipolitica, perché il disagio che c’è in giro è enorme, ma un po’ di quel muro lo stiamo rompendo». Mancano ancora una decina di ore alla chiusura dei seggi e alla notizia che alla fine saranno quasi quattro milioni gli italiani che si sono messi in fila per decidere chi dovrà essere il prossimo candidato premier del centrosinistra. Ma l’aria che tira è già chiara, e per Bersani è un’aria di festa, «una festa della democrazia».
PRONTO AL BALLOTTAGGIO
Un braccio sulle spalle della figlia Margherita, Bersani entra nel seggio salutando e stringendo mani ed è inevitabile chiedergli un pronostico sull’esito del voto. Benché i sondaggi degli ultimi giorni lo abbiano dato a un passo dalla soglia del 50% necessaria per essere proclamati vincitori, il leader del Pd si mostra molto cauto: «Ritengo probabile il ballottaggio, ci sono tanti contendenti». Un sorriso, e poi: «Ma se le cose vanno così ne faccio sette di ballottaggi. Una settimana in più con un clima così non guasta».
Ed è con questo spirito che ora Bersani si prepara a giocare la sfida del secondo turno, «senza aprire tavoli» con Vendola o gli altri esclusi. In questi mesi ha accuratamente evitato di polemizzare con Renzi, e non intende cominciare ora. «Qualche sbavatura c’è stata, ma d’altro canto questa è una competizione vera. Ci siamo dati qualche calcetto e anche qualche calcione, ma sono cose che non mettono in discussione la lealtà di tutti e l’aiuto che ci daremo quando la competizione sarà finita». Anche se Renzi continuerà a definirla «usato garantito?». «No, lui dice usato sicuro, e non mi offendo mica io, sicuro è una gran bella parola».
Dopo aver votato al seggio di Piacenza Bersani risale in auto con moglie e figlie. Destinazione Bettola, il suo paese natale da dove ha fatto partire la sua campagna per le primarie (e dove ha vinto con 222 voti contro i 35 di Renzi). Pranzo a casa dei suoceri, Gino e Carla, con uno dei suoi piatti preferiti: il merluzzo in umido con la polenta. Poi in serata il ritorno a Piacenza e l’attesa del risultato finale guardando in televisione la partita Milan-Juventus (finita 1 a 0, cioè male per la sua squadra del cuore).
La strategia di Bersani, che stasera è a “Che tempo che fa”, come Renzi, col quale farà un confronto diretto mercoledì su Rai1, non cambierà in questi sei giorni. «Finora abbiamo mostrato di essere un popolo di progressisti, di gente che conosce le proprie responsabilità davanti al Paese». Continuerà a farlo fino a domenica. E poi, se gli elettori del centrosinistra lo vorranno, fino a marzo prossimo.

il Fatto 26.11.12
Ora il leader è più forte degli altri big
di Wanda Marra


Roma Se lo faccio ministro? Mica uso il bilancino. Ma oggi sono stracontento. Queste primarie le ho volute io, non ho ‘accettato’ la sua richiesta”. Sono le 11 di sera e Bersani davanti alle telecamere ostenta un sorriso. Rivolto ai suoi, a Renzi e a tutto il partito. Alla fine di una giornata lunghissima. “Un’altra settimana di quest’aria qui mica sarà male” aveva detto in mattinata, subito dopo aver votato. Maglioncino blu, colletto della camicia che spunta, si presenta al suo seggio di Piacenza, con la moglie e le due figlie. Senza fanfare, senza colpi di scena. “Al primo turno non si vince. Abbiamo voluto il secondo turno, siamo in cinque”, ci tiene subito a dire. Il suo modo di dare il la alla giornata e di dire che per lui va bene così. “La gente vuole partecipare, ne ero sicuro quando ho detto ‘facciamo le primarie, facciamole aperte’”. Si lascia andare a un commento anche la moglie: "Mio marito un usato sicuro? Direi serio". Poi i due spariscono dai riflettori. Il segretario va a casa, a Bettola, a mangiare. La scena – quella mediatica – è ancora tutta per lo sfidante. Tanto Renzi appare ossessivamente sui teleschermi per tutto il giorno, con l’ultimo show (quello della fila), i commenti, i dati, tanto Bersani è in silenzio, anche con i suoi fedelissimi. I primi numeri ad arrivare sono quelli dell’affluenza: si capisce a metà pomeriggio che la partecipazione è maggiore di quella che i bersaniani si aspettavano. Il dato finale si proietta rapidamente verso i 4 milioni ipotizzati dai renziani. Cresce la tensione: la maggior affluenza favorisce il sindaco di Firenze. Il ballottaggio è dato per certo. Ma l’impressione è che potrebbe essere un testa a testa. Sono le 19 quando nel Comitato Bersani, dietro al Pantheon, a Roma, cominciano ad affluire spontaneamente qualche militante e qualche dirigente. Ci sono i tre giovani del comitato Giuntella, Speranza e Moretti. C’è Roberto Seghetti, il capo ufficio stampa del Pd e Chiara Muzzi. Ci sono Paola Concia e la giovane Pina Picierno. “Vinciamo al primo turno”, dice arrivando Ugo Sposetti, l’ex tesoriere Ds, uno di quelli in odore di rottamazione. C’è anche Zoia Veronesi, la storica segretaria di Bersani, ora indagata per truffa, accompagnata da figlia e nipotina. I primissimi dati sono quelli dell’instant poll di Piepoli, poco dopo le 20: 44% Bersani, 36% Renzi. La tensione non si scioglie. Il comitato – in fondo pochi intimi, nessun dirigente di rilievo – mangia: pizza a taglio, supplì, un paio di tiramisù, e tanta birra. Dall’altra parte, a via Tomacelli, l’atmosfera è decisamente più ingessata. “Questo è il momento della tensione”, dice Chiara Geloni, direttrice di Youdem, vicinissima al segretario. Bersani? “Starà vedendo la partita”.
La garanzia della partita doppia
Sono le 21 e per avere un dato ufficiale bisogna aspettare un’altra ora. Commenta lo storico Miguel Gotor, intellettuale di riferimento: “A noi il ballottaggio va benissimo, politicamente l’abbiamo voluto. E vogliamo forti sia Renzi che Vendola”. I dati ufficiali – quelli delle 22 – su poco più di 3300 sezioni (1/3 del totale) fanno registrare un 44,6% di Bersani contro Renzi al 36, 9. Una forchetta decisamente più bassa rispetto a quella che i bersaniani andavano sbandierando nelle ultime settimane. “A me va bene anche un voto in più. E la penso come Bersani”, chiarisce Gotor. Dunque, bene anche i soli 4 punti di differenza delle rilevazioni renziane. Tradotto, politicamente: un Renzi forte, ma non vincente per il segretario è una garanzia di leadership sicura e molto più libera dai big. Ammesso di non fare i conti senza l’oste: il ballottaggio sarà una battaglia al fotofinish.

La Stampa 26.11.12
Bersani
Pronto lo scatto finale “Ora un atteggiamento presidenziale”
Il segretario: “Sono stracontento, abbraccio Matteo” E pensa già alle politiche: “Berlusconi? Non ho paura”
di Carlo  Bertini


Con la famiglia Piccolo contrattempo al seggio per Pier Luigi Bersani. Il segretario del Pd, che ha votato a Piacenza accompagnato dalla moglie e dalle due figlie, si è presentato davanti all’urna senza ricordarsi di ritirare la scheda elettorale Recuperata la tessera, fra le risate dei presenti, Bersani ha poi votato davanti ai fotografi.
Quale migliore distrazione di Juventus-Milan alle 20,45 per evitare di compulsare il cellulare con lo spoglio in diretta? Le due ore che fanno tremare tutto il Pd, decisive per sapere come è finita la partita della sua vita, Pier Luigi Bersani le passa così. Poi si riscuote dalla sconfitta dei suoi bianconeri, esce da casa, entra in auto e arriva nel centro di Piacenza in una stanzetta di dieci metri quadri traboccante di umanità varia e telecamere.
«Sono stracontento, giornata magnifica, non la si rubi perché l’ho voluta io», prima rasoiata amichevole a Renzi che rivendicava di aver imposto le primarie al Pd. «Abbraccio Renzi, è stata una bella competizione. Ma le ho volute io queste primarie aperte. Abbiamo vinto, la grande partecipazione non ha influito sul risultato come qualcuno diceva e nel sud siamo in netto vantaggio». Seconda rasoiata sulla vulgata secondo cui la maggiore affluenza avrebbe favorito lo sfidante. Terza rasoiata: «E poi questo ballottaggio c’era chi non lo voleva, se non ci fosse stato avrei stravinto, ma bisogna essere sicuri che il candidato dei progressisti abbia il 50% più uno dei voti dei progressisti». Ecco, se poi Bersani vuol mollare un altro schiaffetto a qualcuno è a chi teme vi sia ancora il rischio di spaccare il partito, «ma con un Pd che cresce così cosa si vuole di più, chi può dire qualcosa? ».
Bersani stasera sarà con Renzi da Fabio Fazio, intervistati prima uno e poi l’altro. Mercoledì ingaggerà il duello decisivo su Rai Uno: un’ora in diretta alle 21,15, risposte di due minuti l’una, più lunghe del format Sky e una strategia ben precisa in testa per quello che definisce «lo scatto finale»: tenere un atteggiamento sempre più presidenziale, stare sui contenuti, puntare su qualità chiare, affidabilità, credibilità, rassicurare e dare un’idea di cambiamento. «Perché governare significa chiedersi ogni giorno, oggi cosa cambio? ». Ed è con questi pensieri in testa che il leader trascorre in mezzo ai più cari affetti la lunga giornata del primo giro di boa. «Infrangibile»: si chiama così il quartiere di casa Bersani a Piacenza, villetta su due piani stile moderno, cancello automatico, filari di alberi e neanche un’anima viva in giro. Anni fa, la zona ospitava una fabbrica di vetri e quel nome è rimasto appiccicato al quartiere: fa un certo effetto, vista la natura del personaggio che vi risiede e che fin dall’inizio ha voluto dar mostra di saper reggere agli scossoni interni ed esterni, presentandosi come «l’usato sicuro» per un paese in bilico. All’ora di pranzo si fa mezz’ora di auto per andarsi a mangiare merluzzo in umido e polenta a casa della suocera a Bettola, sua città natale, con la moglie Daniela e le due figlie. Prima delle undici vota insieme alla famiglia nel suo seggio, maglione blu e giaccone, con la faccia distesa di chi sente di avere la vittoria in tasca e non si fa impensierire dalla parola magica, ballottaggio: che spera di sfruttare magari con l’endorsement a suo favore degli altri tre, Vendola, Puppato e Tabacci, per veder lievitare di qualche altro punto in sette giorni il «suo» Pd già dato oltre il 30%. Della partecipazione straordinaria non si stupisce «e una settimana in più con un clima così non guasta».
Sa che già stasera e mercoledì nel duello tv dovrà combattere senza mollare la presa, anche se spera di poter contare al secondo round sui voti di Vendola in libera uscita. Inevitabile a questo punto che la contesa si polarizzi, che Bersani accentui le differenze tra uno sfidante che piace molto a quelli di destra e lui che piace soprattutto a quelli di sinistra. Per questo già si è sbilanciato riaprendo la porta al figliol prodigo Di Pietro, pur con «molti se». Ma se ai suoi consiglieri più fidati confessa che il vero problema andando al governo sarebbe gestire la crisi economica che morde, almeno oggi Bersani è contento di poter affrontare la partita come leader rafforzato di una coalizione rafforzata; che ha colmato in qualche misura il gap tra politica e cittadini come dimostra questa gran voglia degli elettori di partecipare alle scelte cruciali. Sente insomma di aver in qualche modo indebolito il fantasma che aleggia sul suo capo di un Monti bis come esito inevitabile. E la fiducia di poter combattere la partita delle secondarie, se vincesse le primarie, avendo anche Renzi in campo, senza distacchi o rotture clamorose c’è: perché Bersani sa di doversi misurare con Matteo anche dopo, proprio perché è grazie a lui se queste primarie sono andate così bene. E quando si augura che «anche la destra faccia le primarie, è tutta salute», è perché vorrebbe un quadro nuovo. Quando i riflettori si spengono e sta per tornare a casa, spiega che «se c’è Berlusconi io non ho paura di misurarmi con lui, anzi. Ma spero per il bene di tutti che Alfano riesca a fare delle primarie, magari un po’ abborracciate, ma le faccia. Non gli sparo addosso perché se riesce a impannucciare un centrodestra non populista, europeista, è meglio per tutti perché all’estero ci guardano tutti assieme... ».

Repubblica 26.11.12
Bersani brinda allo spareggio “Il ballottaggio l’ho voluto io chi vince deve avere il 51%”
La soddisfazione per i voti del Sud: ho saputo ascoltare
di Michele Smargiassi


PIACENZA — È «stracontento» perché «abbiamo fatto un grande regalo a questo paese». Acclamato da una piccola folla in strada sotto gli ombrelli, Pierluigi Bersani sorride, il tono di voce forse un po’ meno squillante, «è stato un risultato molto forte». Ma non abbastanza... Il segretario tronca: «Va bene così. Il ballottaggio l’ho voluto io. Qualcun altro tra i contendenti non lo voleva, se vi ricordate. L’ho voluto io perché bisogna essere sicuri che il candidato premier del centrosinista sia nominato con più del 50 per cento. Se non l’avessi voluto io, il ballottaggio, in questo momento avrei stravinto».
Nella vetrina del microscopico comitato elettorale piacentino la foto di un Bersani sorridente prometteva «ci vediamo stasera alle 22.30». Il leader in ballottaggio arriva alle 11 passate da poco, quando ancora lo scrutinio è meno che a metà e il distacco tra lui e Renzi sta sugli otto punti. Nella sua città, certo, Bersani oscilla di qualche zerovirgola sopra la soglia del 50%, «fosse andata così ovunque», si mormora fra tensione e contenuta delusione. Bersani mantiene il suo stile: «E poi dicono che nessuno è profeta in patria...».
Non è ancora finita dunque la lunga battaglia nel centrosinistra. Anzi, forse è ancora tutta da giocare. Che farà Bersani, ora, corteggerà Vendola? «Ma no... non funziona così, non ci saranno tavolini. Io dirò la mia e la dirò a tutti. Certo, tra le cose che dico ce ne sono molte che stanno nelle corde di quella sinistra, lavoro, moralità, ma questa è una cifra mia, una sensibilità mia». Come si spiega il suo risultato migliore nel Meridione? «L’Italia soffre tutta, ma io il Sud l’ho girato, e ho visto la sua sofferenza speciale, io ho messo l’orecchio a terra in questi mesi, ho ascoltato bene i problemi più acuti di questo paese».
Ancora una settimana. Del resto, non è una sorpresa. Bersani lo aveva già messo in conto, e lo dice apertamente in mattinata, ancora a urne aperte: «Ballottaggi? Ne farei sette...», scherza con i giornalisti al seggio. Rilassato, verso le undici, si presenta al voto con la consorte e le figlie Margherita ed Elisa, quadretto di famiglia, programma da domenica di provincia: dopo il voto, un salto a Bettola a trovare i suoceri, in tavola merluzzo con polenta, poi nella sua casa alla prima periferia della città a guardare Milan-Juventus, come se fosse quella la partita che conta. Davanti all’urna, solo una svista tradisce l’emozione: dimentica di ritirare la scheda e deve tornare indietro a prenderla, qualcuno fa la battuta, «segretario, scheda bianca?». Ma l’atteggiamento è da comunque-vada- sarà-un-successo: «Oggi è una festa, credetemi, è stata una meraviglia di campagna».
Dunque agli elettori del centro-sinistra piace un po’ di più l’usato sicuro. «Usato serio», corregge la moglie Daniela. «Sicuro è una bella parola, non mi offendo», acconsente Bersani. Meno sicuro è che il verdetto rimanga lo stesso fra una settimana. I ballottaggi sono traditori, tutto può ancora succedere. Il candidato in pole position sdrammatizza: «Ci facciamo un’altra bella settimana di queste bellissime primarie». Sarà un supplemento di festa, o i toni cambieranno? Niente problemi se tutto andrà come è andato finora: «Qualche sbavatura c’è stata», minimizza Bersani, «d’altro canto questa è una competizione vera, di gente che conosce le proprie responsabilità. Ci siamo dati qualche calcetto e anche qualche calcione, ma non abbiamo messo in discussione la lealtà né l’aiuto che ci daremo dopo». Pensate a quel che succede dall’altra parte, dove «per fare le primarie dovrebbero prima liberarsi dell’imperatore».
Meglio noi, rivendica Bersani. La lealtà ha retto, finora. Renzi, gli riconosce il segretario, «è una persona combattiva », che ci ha messo «un’energia che ha dato vitalità alla battaglia», con «magari qualche sbavatura di troppo nei toni», ma alla fine, e comunque finisca, «anche Matteo sarà ancora più convinto che il Pd è una grande risorsa per il paese. Se invece andasse male a me, rimarrò a fare il lavoro che sto facendo ». Comunque vada, «a primarie finite chiamo Renzi, Vendola, Puppato e Tabacci attorno a un bel birrozzo. Offro io, anche se perdo».

l’Unità 26.11.12
Camusso: problema se vince Matteo Scoppia la polemica
«Renzi è un problema» Polemica su Camusso
In tv, intervistata da Lucia Annunziata, la leader della Cgil dice: «Ho votato Bersani»
Sul lavoro critiche al sindaco: «È molto lontano da noi»
di Massimo Franchi


Pressata da ben due direttori, Lucia Annunziata e Ferruccio de Bortoli, alla fine dei 30 minuti di intervista televisiva Susanna Camusso rivela di aver «votato Bersani». Lo fa a Mezz’ora su Rai Tre dopo aver ribadito la sua ritrosia a rendere pubblica la sua scelta, per evitare di continuare a tirare per la giacca la Cgil: «Io non sono un dirigente politico come Prodi (che De Bortoli, in un tweet letto in diretta da Annunziata aveva accomunato a Camusso nel non rendere pubblico il proprio voto, ndr), rappresento un’organizzazione sindacale e l’opinione del segretario generale può essere un condizionamento». Le motivazioni le aveva spiegate prima e in tanti comizi: «L’attenzione al lavoro», la prima richiesta che la Cgil aveva fatto a tutti e cinque i candidati delle primarie del centrosinistra.
E proprio sulle proposte sul lavoro c’è la distanza nei confronti con Matteo Renzi. «Se vincesse non sarebbe una tragedia, ma sarebbe un problema perché le sue ricette sul lavoro, quelle ascoltate all’ultima Leopolda, sono molto distanti dalle nostre». La seconda ragione è quella che il segretario generale della Cgil non crede «agli uomini soli al comando», sebbene «per arrivare a un nuovo governo ci sarà da ragionare in ogni caso e le proposte sarebbero mediate».
La risposta del sindaco di Firenze arriva all’uscita dal seggio di piazza dei Ciompi. Ed è durissima: «Per il bene della Cgil e dell’Italia, e del Pd, spero che arrivi presto il giorno in cui il segretario della Cgil non interviene il giorno delle elezioni, a urne aperte, in televisione pubblica, per endorsare al contrario un candidato. Quando il rapporto tra Pd e Cgil ha aggiunto sarà di grande correttezza e rispetto ma un po’ meno stretto di quello che abbiamo visto oggi (ieri, ndr) in televisione, sarà un bene per il partito democratico, ma soprattutto per la Cgil».
Le polemiche fra Renzi e Cgil nelle settimane scorse hanno riguardato soprattutto il ruolo di Pietro Ichino. Il giuslavorista deputato Pd appoggia il sindaco di Firenze e alla Leopolda ha rilanciato le sue idee in fatto di riforma del lavoro: contratto unico e critiche alla Cgil e Fiom sulla vicenda Fiat. Da Corso Italia si è risposto ribadendo le critiche alle idee di Ichino, senza però personalizzare la questione.
Su Vendola, l’unico candidato che ha esplicitamente difeso il «no» della Cgil all’accordo sulla produttività, i giudizi sono più sfumati: «Apprezzo sempre quando la politica si interroga sulle scelte della Cgil e prova anche a difenderle, ma preferisco quando si discute nel merito delle questioni perché troppo spesso sento un’aria di schieramento e in questo sento che si tira la giacca alla Cgil».
SUL LAVORO PRATICA COSTRITTIVA
Sulla cosiddetta doppiezza del Pd sulle questioni del lavoro, grandi critiche e cambiamenti ai provvedimenti del governo, ma voto a favore sulla riforma del lavoro, Susanna Camusso è prudente e concede molte attenuanti: «Siamo davanti a una pratica costrittiva del governo» che «mette in imbarazzo tutti i partiti», dovuta al fatto che «il governo Monti è arrivato per una stretta politica nel Paese» ed è figlio di «una maggioranza irragionevole».
Susanna Camusso aveva votato in mattinata «da fuorisede»: lei milanese si era attrezzata per poter mettersi in coda nel seggio di piazza Verbano, non lontano dalla sede della Cgil a Corso Italia. In queste settimane, ognuno a titolo personale, centinaia di migliaia di iscritti e dirigenti alla Cgil si sono mobilitati per queste primarie. Il motivo lo spiega Camusso: «Ci si sente orfani di una politica partecipata, di partiti che discutono».
Poi si passa a discutere del governo. Riguardo a quello futuro, Camusso è molto chiara: «Il sindacato ha bisogno di una politica che sia sponda». Sull’attuale idem: «Temo che potrebbe ancora fare dei guai, l’idea che non faccia più niente in attesa delle elezioni sarebbe forse una buona idea» perché «la stagione dei tecnici è stata troppo lunga». Per questo il segretario generale della Cgil ribadisce che «l’agenda Monti ha fatto male al Paese» e per il presidente del Consiglio parlare di Quirinale «è una discussione strana, visto che non si sa neanche quale sarà il governo: non ho nulla contro di lui personalmente, ma al Paese non gioverebbe una prosecuzione di quella esperienza».
Con Monti mercoledì sera al tavolo finale della produttività, Camusso conferma di aver avuto uno scambio di battute duro «quando il presidente ci ha chiesto di partecipare alla conferenza stampa finale, mentre noi decidiamo da soli quando parlare». Sulle ragioni della mancata firma, Camusso ribadisce di «aver chiesto di continuare a discutere nel merito, perché la produttività è usata come una parola magica mentre da 15 anni le imprese non investono e in Italia ci sono milioni di piccolissime imprese e solo 2mila che fanno la contrattazione aziendale e il governo investe 950 milioni per 16 milioni di lavoratori».

La Stampa 26.11.12
Le tre partite decisive per l’esito del ballottaggio
Mercoledì il faccia a faccia televisivo, le registrazioni di nuovi elettori e la strategia di “criminalizzazione”
di Fabio Martini


Erano da pochi minuti passate le nove della sera, in tutta Italia lo scrutino era ancora in altissimo mare, i fronti avversi stemperavano l’ansia scambiandosi compiacimento per il boom di partecipazione, quando sulle agenzie è comparsa una dichiarazione dell’onorevole Luca Sani, un albergatore maremmano che è stato sindaco e segretario dei Ds di Grosseto: «Nella nostra città c’è stato un voto fortemente inquinato per una massiccia presenza di elettori di centrodestra. Un’azione di disturbo studiata a tavolino». Difficile dire se l’onorevole Ciani, nell’uscire allo scoperto, disponesse di dati incontrovertibili, ma quella sortita è interessante perché rappresenta uno degli «squilli» di tromba più significativi in vista del ballottaggio. Nelle prossime ore Bersani e l’intero gruppo dirigente saranno chiamati ad una scelta delicata: se puntare o meno su un’arma antica, la «criminalizzazione del nemico». Armamentario proverbiale della tradizione comunista, trasformare chi dissente dalla linea in un «nemico del popolo»: una tentazione che ha già fatto capolino nelle settimane scorse, con l’Unità che aveva bollato Monti come un «fascistoide» e che lo stesso Bersani aveva provveduto a spegnere.
Ma sono tante le incognite che gravano su un ballottaggio che Pier Luigi Bersani si sarebbe risparmiato, che si profila insidioso e che - nelle intenzioni dell’entourage di Renzi - potrebbe diventare «una partita completamente diversa dalla prima fase». Sulla base degli strateghi dei due fronti contrapposti, la partita del secondo turno è destinata a giocarsi su molte variabili. Dando per scontato, già nelle prossime ore, il pronunciamento a favore di Bersani da parte di Nichi Vendola, Laura Puppato e Bruno Tabacci, tre sono le principali incognite. Anzitutto l’intensità del faccia a faccia televisivo che quasi certamente si svolgerà mercoledì su RaiUno in prima serata, davanti ad una platea che almeno sulla carta potrebbe essere quadrupla rispetto a quella del confronto a 5 che si è svolto su Sky. C’è poi l’incognita sulla quantità di nuovi elettori che si registreranno, giovedì e venerdì, prima del ballottaggio previsto per domenica. E tra le incognite decisive c’è anche l’efficacia della prevedibile campagna di criminalizzazione che incombe su Renzi.
Ma al primo posto tra le variabili che possono influenzare il voto, c’è sicuramente il duello televisivo. Nella prima fase è stato Bersani a tenere bassi i riflettori: è stato il suo staff a chiudere la porta a confronti a due tra candidati, chiedendo ed ottenendo che il confronto fosse a cinque. Ma la richiesta più qualificante è che il dibattito collettivo si svolgesse su una rete nazionale ma ad ascolto limitato come Sky. A dispetto delle cautele, il dibattito ha avuto un ascolto complessivo inatteso per quella emittente (1 milione e 800.000 spettatori), un successo che ha suscitato una forte reazione nei nuovi vertici Rai.
Se ne è parlato persino nel corso di una riunione del Cda Rai, nel corso del quale presidente e direttore generale hanno sottolineato l’occasione persa per il servizio pubblico, chiedendo che il duello tra gli eventuali sfidanti si svolga mercoledì in prima serata su RaiUno. Bersani, per evitare che si speculasse su un suo timore, già da qualche giorno ha dato la sua disponibilità, mentre Renzi, attraverso il suo portavoce Marco Agnoletti, ha fatto sapere che non avrebbe assunto «nessun impegno prima di sapere chi fossero stati i protagonisti del ballottaggio». Ieri sera Enrico Mentana, conoscendo la prenotazione della Rai, si è proposto per ospitare un secondo confronto su la 7 per sabato sera.
La seconda variabile riguarda i nuovi elettori. Nelle Primarie che hanno portato all’indicazione di François Hollande come candidato dei socialisti, nel secondo turno gli elettori sono aumentati, passando da 2 milioni e 600 mila a 2 milioni e 800 mila. Nei giorni scorsi, nelle trattative - Lino Paganelli, il responsabile delle Feste schierato con Renzi - è riuscito a ottenere la possibilità di una seconda registrazione, non online ma fatta di persona, che si potrà realizzare giovedì e venerdì prossimi.
Certo la tentazione di Renzi sarebbe quella di chiedere una riapertura dei termini, anche perché come dice lui stesso l’ostracismo dell’apparato è stato totale: «Avevamo contro 107 segretari provinciali su 110, mentre soltanto 123 parlamentari erano dalla nostra parte». Oggi i due leader e i due staff prenderanno le decisioni decisive e da stasera parte il rush finale.

Corriere 26.11.12
Vendola resta la terza forza

«Pier Luigi i miei voti se li dovrà conquistare»

ROMA — Ha sperato fino all'ultimo momento di andare al ballottaggio, Nichi Vendola: «Confido nel primo turno». Basandosi sul refrain di Sel «i sondaggi di solito ci danno perdenti e le urne ribaltano la previsione», lo ha ripetuto anche ieri mattina al seggio di Terlizzi dove ha votato prima di ritirarsi a casa della madre: una giornata in famiglia, insieme con il suo compagno Ed Testa, in attesa di raggiungere la sera il suo Comitato a Bari.
Ma l'alta affluenza registrata nella sua regione (oltre centodiecimila elettori alle 17) non è certamente bastata, e il presidente della Puglia si è fermato a un terzo posto che il suo staff durante lo scrutinio assicurava ammontare al 20 per cento. Quel terzo posto che nei giorni scorsi gli osservatori avevano pronosticato e che già all'inizio dello spoglio, mentre Vendola confessava «ho una lieve crisi d'ansia», era diventato certezza. In tarda serata, i dati reali di circa quattromila seggi fissavano il risultato al 15,1%, anche se mancava ancora lo scrutinio di molti comuni dell'Italia meridionale.
La questione principale ora si sposta sull'indicazione che il presidente della Regione Puglia darà per il ballottaggio di domenica prossima. Secondo alcuni l'esito raccolto da Vendola soprattutto al Sud ha fatto evaporare la possibilità per Bersani di vincere al primo turno. E, adesso che questo «tesoretto» di voti conterà non poco per la conquista della leadership del centrosinistra, certamente da Sel non ci saranno deleghe in bianco ma contrattazione serrata.
Il leader di Sinistra ecologia libertà dichiara di non «voler giocare da ago della bilancia», però è ben consapevole di poter basare la sua forza anche sul primo posto raccolto in Puglia («con una tendenza del 45%» alle 23 di ieri «grazie a otto anni di buon governo»), sul buon risultato della Campania e quello di Roma. «Si parte da zero. Ascolteremo con molta attenzione quello che nelle prossime ore diranno Bersani e Renzi - infatti afferma - e orienteremo il nostro sostegno a seconda delle parole che avremo ascoltato. Non c'è centrosinistra che possa vincere senza accogliere anche le nostre proposte». Se non rivela ancora dove vorrà destinare le preferenze raccolte ieri, Vendola non risparmia critiche alla «bolla mediatica» Renzi e alle forze finanziarie che lo hanno sostenuto, e avverte Bersani che «se li deve conquistare i voti venuti a me al primo turno».
Come tutti gli altri candidati, il presidente della Puglia è soddisfatto per il successo partecipativo delle primarie, pur sottolineando di aver «combattuto a mani nude contro due giganti» per disparità organizzativa ed economica: «Oggi il centrosinistra è un po' più forte perché ha ritrovato un popolo. Ora deve cercare di non abbandonarlo. Questa consultazione ha dimostrato che la politica può essere un modo di ragionare su questioni cruciali della vita del nostro Paese». Per Vendola la giornata ha fatto vincere la politica intesa come «passioni politiche e non come un codice di risentimenti, di rancori, di violenza verbale»: «La politica come discussione che la comunità fa sulla qualità della propria vita, sulla qualità dei servizi, sui diritti delle persone».
Non saranno stati risentimenti e rancori, ma il voto pugliese ha registrato qualche piccola polemica tra i concorrenti. Come il ricorso di Sel ai garanti nazionali per le primarie del centrosinistra perché ieri a Taranto circolavano, anche vicino ai seggi, alcuni camper promozionali di Matteo Renzi. O come gli scambi fra un tandem Comitato per Vendola e Comitato per Renzi contro i bersaniani in merito al presunto smarrimento di quattromila certificati elettorali nella sede del Pd a Manfredonia.
Daria Gorodisky

Repubblica 26.11.12
Il segretario ora punta su Nichi “Bisogna per forza trattare con Sel o al secondo turno si può rischiare”
E spunta un futuro da commissario Ue per il Governatore
Duello tv il 28 su Rai1. Pierluigi Bersani e Matteo Renzi si sfideranno in un faccia a faccia televisivo mercoledì in prima serata su Rai1, in vista del ballottaggio di domenica prossima 2 dicembre
di Goffredo De Marchis


ROMA — Nichi Vendola è ancora in campo per il ballottaggio. Intorno ai suoi voti (il 15 per cento) si gioca una partita in salita anche per il più scontato dei suoi alleati, Pier Luigi Bersani. Darà il suo sostegno esplicito al segretario del Pd per domenica? La risposta del governatore è tutt’altro che interlocutoria come ci si potrebbe aspettare da un professionista della politica. È il taglio secco di una rasoiata: «No». Ci sono quindi, per il momento, alcune centinaia di migliaia di consensi in libera uscita. O meglio, voti che possono diventare oggetto di una trattativa. Perché se l’obiettivo del secondo turno, nella testa di Bersani, era tenere dentro al centrosinistra Renzi e Vendola, e ancora di più un fronte che va da Vendola a Tabacci per dare l’idea di un centrosinistra ampio, adesso c’è un duello da vincere. E Matteo Renzi giocherà la partita fino in fondo.
L’80 per cento delle preferenze vendoliane viene considerato un facile bacino per il segretario. Lo dice anche il sindaco di Firenze che conta di recuperare solo una parte di quell’elettorato. «Chi vuole davvero il cambiamento, i giovani che stanno con Vendola, possiamo riprenderli», ripeteva anche ieri notte. Ma se il grosso finisce a Bersani la partita è indirizzata in maniera chiara da subito. Tanto più se il distacco del primo turno fosse nell’ordine dei dieci punti percentuali a favore del segretario come emerge dai dati reali delle schede scrutinate. Distacco molto diverso da quello sbandierato dal comitato Renzi che riduce la forbice a 5 punti. Ma il sostegno di Vendola resta determinante per oltrepassare l’ostacolo del 51 per cento. Una sfida che appartiene quasi per intero al campo del segretario.
Il «no» del leader di Sel appare come il primo passo di un confronto che si apre oggi. È una “vertenza” che preoccupa non poco gli uomini del leader democratico. Vendola rivendica un ruolo chiave nel futuro governo: programma, asse spostato a sinistra. Sempre più fitte però sono le voci di una trattativa, ovviamente riservata, sul suo possibile futuro. Nell’entourage pugliese da giorni si parla esplicitamente dell’aspirazione di Vendola per una poltrona di commissario europeo. Desideri e messaggi che filtrano attraverso i canali diplomatici che sono in piedi tra Pd e Sel.
Bersani può naturalmente sottrarsi a questo tipo di confronto, anche a un livello riservato. Chiedendo i voti direttamente agli elettori del governatore, in particolare al Sud dove Vendola è andato forte e dove tanti militanti e dirigenti del Partito democratico hanno convogliato le preferenze sul segretario di Sel. Anzi, il segretario seguirà sicuramente questa strada. Ma la pancia del Pd, il gruppo dirigente, gli consiglia di mettersi al sicuro. Un’analisi attenta del voto sul territorio, affidata a Maurizio Migliavacca e Nico Stumpo, farà capire fino a che punto sono necessari i voti di Sinistra
e libertà.
Il tempo dei rimpianti è finito. Ma già in queste ore il segretario sente il malumore di alcuni dei suoi. «Io sono sempre stato contro il secondo turno», dice Ugo Sposetti, il tesoriere dei Ds. «Bastava mettere la soglia al 40 per cento e oggi avremmo chiuso la pratica». La verità è che, persino a dispetto di Renzi, è Bersani a volerla tenere aperta. Perché, se vince, le porte per Renzi saranno quasi spalancate. «Per modificare gli equilibri interni al Pd», annunciano i bersaniani sapendo di dare un dispiacere a Rosy Bindi. «Per sfruttare l’energia di Matteo eliminando solo le scorie». Il secondo turno, nella testa di Bersani, funziona sì come legittimazione del candidato premier, ma anche come una polizza per la “ditta”. «Una competizione che si chiude con una vittoria piena, chiara, indiscutibile, tiene dentro tutti, da Vendola a Tabacci passando per Renzi». Il sindaco di Firenze perciò va salvato, in caso di successo bersaniano, dalla tendenza vendicativa di una parte del gruppo dirigente. «L’ideologia della rottamazione ci fa orrore — dice un bersaniano stretto —. Ma altrettanto orrore ci provoca l’idea che non si fanno prigionieri ». Quindi ai suoi compagni di partito Bersani chiederà lo stesso impegno di queste settimane. Lo farà con gli scettici e con i convinti. L’esame dettagliato dei voti e dei loro flussi ci sarà partire da stamattina. Ma l’attenzione andrà messa anche sui confronti tv. A partire da stasera a Che tempo che fa per finire a mercoledì con il faccia a faccia su Raiuno. Passaggi decisivi. Così come lo è quello della conquista dei consensi ottenuti dagli altri sfidanti.

Corriere 26.11.12
Ai gazebo blitz di elettori di destra «Hanno voglia di partecipare»
di Al. Ar.


ROMA — L'affluenza alle urne è uno dei dati che più lasceranno il segno in queste primarie del centrosinistra 2012. Ma accanto al dato generale, c'è quello dell'altra affluenza, quella che ieri ha visto gli elettori del centrodestra rimpolpare le già cospicue file negli oltre 9 mila seggi, disseminati in tutta l'Italia.
Tanti gli elettori che dall'altra parte della barricata hanno voluto depositare la scheda: «Ho votato per Renzi e l'ho fatto più per simpatia per l'uomo che per altro», ha esternato su Facebook Francesco Gamurrini, ex assessore di An allo sport nella giunta di Arezzo. E a lui hanno fatto eco due consiglieri comunali ex leghisti di Novi Ligure, Marco Bertoli e Giuseppe Dolcino, che però la scheda nell'urna non sono riusciti a depositarla, il loro voto è stato rifiutato.
Non è andata così nelle Marche dove Palmiro Ucchiello, segretario regionale del Pd, non ha esitato a dichiarare: «C'è una certa evidente presenza di elettori del centrodestra che vengono a votare a queste primarie. Mi hanno riportato che a Gabicce si è presentato chiedendo di votare il segretario del Pdl, ma alla fine non lo hanno fatto votare».
Ma le richieste da destra si sono susseguite in tutta Italia. «Questo succede per il gusto e l'amore di poter decidere direttamente», commenta Augusto Barbera, costituzionalista con un occhio attento alla politica. E aggiunge: «Gli elettori del centrodestra che hanno affollato i seggi delle primarie sono certamente quelli delusi dall'esperienza berlusconiana e, verosimilmente, sono andati a votare per Matteo Renzi».
Per Augusto Barbera non è un mistero il fascino che queste primarie hanno esercitato sull'altra metà della politica. Dice, infatti: «Il centrosinistra è l'unico che si sta esercitando in questa direzione. Dall'altra parte ci hanno provato, ma poi è arrivata la dichiarazione di Silvio Berlusconi che sconfessa Alfano e tutto il suo operato. Per chi ama la politica questo certo non è bello».
Anche a Firenze è stato denunciato un episodio di un elettore di centrodestra che voleva votare e gli è stato impedito, mentre a Parma il leader della destra, Priamo Bocchi, è stato costretto a disertare le urne ma ha voluto dichiarare: «Mi metto sul divano di casa e tifo Renzi».
Secondo Augusto Barbera gli episodi di provocazione erano da mettere nel conto «ma in una percentuale assolutamente marginale rispetto al fenomeno di massa che in questa tornata di primarie è, forse, la vera novità al di là di quale sarà il risultato».
Tanti elettori del centrodestra. E tanti, in assoluto, ad affollare le urne, le file ai seggi si sono protratte fino a sera. Chissà se faranno rumore e polemica le denunce di alcuni cronisti (o esponenti di partiti avversi) che hanno dimostrato di essere riusciti a votare due volte in due seggi differenti, nella stessa città.

l’Unità 26.11.12
Appello editori e giornalisti al Parlamento: «Pessima legge ritiratela»
di Natalia Lombardo


Hanno lanciato un appello congiunto contro il disegno di legge sulla diffamazione, la Federazione nazionale della Stampa e la Federazione degli Editori. Un «appello estremo al Parlamento e alle forze politiche perché si evitino, finché si è in tempo, soluzioni finali inappropriate». E si ritiri la legge «monstre» che oggi potrebbe essere votata nell’aula del Senato.
Lo sciopero dei giornalisti è stato solo rinviato, ma la mobilitazione non si ferma e stasera i giornalisti protesteranno in un presidio-fiaccolata in piazza del Pantheon, dalle 19 alle 21. E oggi scadono i 30 giorni di sospensione per l’esecuzione della condanna per diffamazione a 14 mesi di reclusione per Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, il quale ha dichiarato di non voler usufruire delle pene sostitutive e di voler andare a San Vittore.
L’appello «Dignità delle persone, diritto d’informare», inizia così: in occasione della discussione al Senato del ddl sulla diffamazione a mezzo stampa «la Fieg e la Fnsi si uniscono nel rinnovare al Parlamento e a tutte le forze politiche l’appello a non introdurre nel nostro ordinamento limitazioni ingiustificate al diritto di cronaca e sanzioni sproporzionate e inique a carico dei giornalisti con condizionamenti sull’attività delle libere imprese editoriali, senza peraltro che siano introdotte regole efficaci di riparazione della dignità delle persone per eventuali errori o scorrettezze di stampa».
Nell’aula del Senato è stata reintrodotta la pena del carcere, ma solo per il giornalista e non per direttori e vice, limitando così fortemente l’autonomia e la condizione di chi fa informazione d’inchiesta. Nell’appello Fieg-Fnsi, infatti, si sottolinea che le norme proposte, (sulle quali il governo era contrario) «hanno carattere di incostituzionalità e sono palesemente incoerenti con l’articolo 110 del Codice penale, nonché con l’articolo 57 relativo ai reati a mezzo stampa».
È quindi «una pessima legge che introduce norme assurde, rispetto alle quali le ragioni di protesta e la richiesta di ritiro di questo provvedimento sono comprese e condivise da Fieg e da Fnsi». E con le misure previste dal ddl (il carcere per i giornalisti, le sanzioni da 5mila a 50mila euro, l’obbligo di rettifica non commentata anche per il web e altro), si introducono «solo elementi di condizionamento, di paura per la possibile esplosione di querele temerarie e di controllo improprio che non possono essere condivisi».
Fieg e Fnsi riconoscono comunque che «equilibrate sanzioni economiche e rettifiche documentate e riparatrici» debbano essere in linea con «i principi europei delle nazioni più evolute», con il diritto all’informazione per i cittadini e la tutela della dignità delle persone.
Oggi quindi la giornata decisiva: in Senato nel pomeriggio è previsto il voto sull’articolo 1, il cuore del ddl, sul quale il Pd ha chiesto il voto segreto nella speranza che venga bocciato (sulla carta i numeri non ci sono). Se il ddl venisse levato dall’ordine del giorno, finirebbe nel cassetto. Nel caso invece che dovesse passare, la battaglia per affossarlo si sposterebbe alla Camera.
Vincenzo Vita, senatore Pd, auspica che venga accolto l’appello di Fnsi e Fieg e annuncia comunque che sarà «data battaglia per il ritiro del provvedimento. Se non accadrà, faremo di tutto per farlo cadere con il voto

Corriere 26.11.12
Quelle norme così sbagliate
di Luigi Ferrarella


Sembra quasi che sia un problema dei giornalisti la legge sulla diffamazione che il Senato si appresta a votare oggi. Invece è un problema dei cittadini il coacervo di contraddizioni e irrazionalità precipitate nel testo a forza di colpi di mano e spesso sotto il passamontagna del voto segreto: dalle multe anche di 50.000 euro (tali da ipotecare i bilanci di testate medio-piccole) al divieto di replicare alle rettifiche quand'anche espongano palesi falsità, fino al carcere per il cronista ma non per il direttore quando pure concorrano nella medesima diffamazione.
Questa legge riguarda tutti perché dal diritto di ricevere informazioni, necessarie a operare consapevoli scelte quotidiane, dipende la salute di una società. E per questo un organo di informazione che mente non è solo una bega tra giornalisti, ma un problema che avvelena l'intera collettività e fa perdere ai fatti il loro valore di realtà.
Nel contempo, in tema di libertà di manifestazione del pensiero, la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo raccomanda però che la misura dell'ingerenza punitiva dello Stato sia strettamente proporzionata alla tutela dell'onore e della reputazione, e non sconfini invece in sanzioni di per sé tali da dissuadere i media dallo svolgere il loro ruolo di controllori: perciò Strasburgo non include la diffamazione, ma solo l'istigazione all'odio e alla violenza, tra le circostanze eccezionali che giustificano il carcere per i giornalisti, e boccia persino le pene pecuniarie se sproporzionate nell'entità.
Ecco, dunque, che ad alimentare lo scombinato progetto normativo in cantiere resta solo la parimenti arrogante pretesa di impunità di un certo giornalismo, incline a spacciare le diffamazioni per «reati di opinione» e a chiamare diritto di critica la licenza di attribuire consapevolmente a qualcuno fatti falsi.
Più credibili sarebbero oggi le critiche alla legge se da parte dei giornalisti fosse stato sempre rigoroso il rispetto delle regole deontologiche. Tuttavia bilanciare due diritti garantiti dalla Costituzione non sarebbe impossibile fuori dalla presunzione di farne prevalere in maniera acritica uno sull'altro. In caso ad esempio di errore commesso in buona fede dal giornalista, a ripristinare verità e onore del diffamato gioverebbe, ben più del carcere o di un maxiassegno, un più responsabile esercizio del rimedio della rettifica, senza esagerate rigidità ma anche senza quelle furbizie che troppo spesso nascondono nell'angolo di un'ultima pagina ciò che di falso era stato gridato in prima.
In questi e altri analoghi gesti di autocorrezione nessuno potrebbe denunciare bavagli alla libertà di stampa. A patto che contemporaneamente sia finalmente prosciugata l'opacità dell'odierno (finto) proibizionismo: dando ai giornalisti un diretto e trasparente accesso agli atti della pubblica amministrazione, sulla scia americana del «Freedom of information act» datato 1966 e già nel 1974 contemperato con le esigenze della privacy; e arginando con un contrappasso le cause quanto più temerarie tanto più economicamente intimidatorie, cioè con la previsione di un risarcimento al giornalista in proporzione al valore della maxirichiesta danni che risulti palesemente infondata.

La Stampa 26.11.12
Diffamazione
Da editori e giornalisti appello contro il carcere
di Grazia Longo


Un appello al Parlamento contro il carcere per i giornalisti condannati per diffamazione. Tanto è doverosa un’informazione corretta, documentata, rispettosa della dignità delle persone, altrettanto necessaria è la tutela della libertà di stampa.
Sarà discusso oggi in Senato il decreto legge che prevede l’arresto per i giornalisti colpevoli di aver diffamato. Giornalisti ed editori colgono dunque l’occasione per un appello congiunto in nome di un giornalismo deontologicamente attento - anche nella fase della rettifica delle notizie - ma avulso da pene sproporzionate.
In un documento gli editori e i giornalisti «concordano sulla necessità di tutelare la dignità delle persone, tutela che si deve realizzare con azioni tese a sostenere un giornalismo etico e responsabile». Il comunicato spiega bene perché: «Nessuna legge che abbia come sanzione il carcere lo può alimentare. In questo modo, invece, si introducono solo elementi di condizionamento, di paura per la possibile esplosione di querele temerarie e di controllo improprio che non possono essere condivisi». In altre parole, Fieg e Fnsi «riconoscono che equilibrate sanzioni economiche e rettifiche documentate e riparatrici siano la strada principale di un ordinamento moderno del diritto dell’informazione che abbia come obiettivo la tutela della dignità delle persone. È necessario salvaguardare il bene informazione, la sua natura, il suo valore per una stampa libera, autonoma e pluralista. Occorrono leggi giuste e eque che tutelino efficacemente le persone ed esaltino le responsabilità e la funzione civica della stampa e del giornalista». E ancora: «Fieg e Fnsi rivolgono un appello estremo al Parlamento e alle forze politiche perché si evitino soluzioni non appropriate. L’Italia deve restare in linea con i principi del diritto europei delle nazioni più evolute». Fa discutere, inoltre, la norma «salva direttori» già approvata dal Senato che prevede che, per lo stesso reato di diffamazione, il giornalista vada in carcere fino a un anno, mentre al direttore e al vicedirettore responsabile tocchi solo il pagamento di una multa fino a 50 mila euro. La sanzione ipotizzata è stata, tra l’altro, ribattezzata «salva Sallusti», relativamente alla sentenza definitiva in Cassazione per Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, condannato a 14 mesi di reclusione senza condizionale.
La Fnsi, intanto, non ferma la sua protesta neanche oggi, giornata dello sciopero differito «proseguirà con molteplici iniziative, finché non sarà posto fine a un disegno che punisce il giornalismo investigativo, tutti i cronisti, tende a provocare l’oscuramento delle notizie scomode, propone solo propaganda e nessuna riparazione concreta ai cittadini eventualmente danneggiati nell’onore da errori di stampa». Dalle 7 alle 9 di stasera si svolgerà a Roma un presidio, in piazza del Pantheon. Ma per il relatore del provvedimento, Filippo Berselli (Pdl) « il ddl sulla diffamazione è sicuramente migliorabile, ma rappresenta una normativa migliore di quella in vigore».

Repubblica 26.11.12
Diffamazione una legge sbagliata
di Stefano Rodotà


NATA malissimo, la vicenda della nuova legge sulla diffamazione rischia di finire ancor peggio. Non era imprevedibile. Si erano subito sommati due pessimi modi di legiferare. La triste abitudine italiana alle leggi ad personam (non a caso si parla di “legge Sallusti”) e un modo di produrre il diritto contro il quale i giudici inglesi avevano messo in guardia fin dall’800, riassunto nella formula “hard cases make bad law” – dunque il rischio di una risposta legislativa distorta perché ritagliata su una situazione eccezionale o estrema.
Si potrebbe aggiungere un detto tratto dalla saggezza popolare: “La fretta è cattiva consigliera”. Una fretta, però, che al Senato è stata deliberatamente usata per cercare di imporre soluzioni inaccettabili, sfruttando come pretesto l’urgenza legata alla volontà di impedire che Alessandro Sallusti finisca in carcere.
L’ultimo episodio di questa brutta storia è rappresentato dalla approvazione di una norma chiamata “salva direttori”, un emendamento proposto dallo stesso presidente della commissione Giustizia, che esclude appunto il carcere per direttori e vice-direttori, ma lo mantiene per gli altri giornalisti. Si è cercato in questo modo di attenuare gli effetti dell’imboscata parlamentare con la quale, con un voto segreto, era stata reintrodotta la pena carceraria per tutti i giornalisti. In questo modo la vicenda non soltanto si aggroviglia sempre di più. Si manifesta una evidente contraddizione con il motivo per il quale si era deciso di modificare le norme sulla diffamazione, appunto l’eliminazione di quel tipo di sanzione. E, scegliendo questa strada, si introduce una ingiustificata discriminazione tra i giornalisti, con evidenti rischi di incostituzionalità della nuova disciplina, e si mantiene l’intimidazione nei confronti del sistema dell’informazione nel suo complesso.
Questo non è il solo aspetto negativo di un disegno di legge il cui iter parlamentare è stato tutto punteggiato da forzature, sgrammaticature tecniche, inconsapevolezza delle caratteristiche delle materie regolate. Si può apprezzare il senso di responsabilità dei giornalisti che, accogliendo l’invito del presidente del Senato, hanno rinunciato allo sciopero indetto per oggi, in attesa di quel che i senatori decideranno. Ma qualche aggiustamento dell’ultima ora non potrà rendere accettabile un testo che rimane inadeguato e pericoloso. L’unica dignitosa via d’uscita per i senatori è quella di abbandonare questo disegno di legge, che continua a rendere visibile lo spirito con il quale è stato progressivamente concepito: uno strumento per arrivare ad un regolamento di conti tra ceto politico e mondo dell’informazione.
Già la mossa iniziale di questa partita era stata rivelatrice. Il disegno di legge nasce da un improvvida iniziativa trasversale, o bipartisan che dir si voglia, del Popolo della libertà e del Partito democratico. Troppo lontani, infatti, si erano rivelati in questi anni gli orientamenti dei due partiti proprio nella materia della libertà d’informazione. Era prevedibile, quindi, che i non dimenticati propugnatori di una “legge bavaglio” avrebbero manifestato gli stessi spiriti in una occasione che apriva spazi inattesi per muoversi di nuovo in quella direzione. Ecco, quindi, l’apparire di norme che usavano l’arma della sanzione pecuniaria per intimidire editori e giornalisti; per distorcere il diritto di rettifica a vantaggio di chi pretende di stabilire unilateralmente quale sia la “verità” da rendere pubblica; per aggredire con imposizioni cervellotiche il mondo della Rete. Tutto questo è avvenuto in un clima di voluta confusione culturale, presentando come reato di opinione una diffamazione consistente nell’attribuire a una persona un fatto determinato del tutto falso.
Emergevano così i tratti di una disciplina tutta impregnata di voglia di rivincita, di ritorsione, di vera e propria vendetta nei confronti del sistema dell’informazione, che è stato il vero tratto bipartisan di questa vicenda e che ha avuto la sua più clamorosa e rivelatrice manifestazione con il voto che reintroduceva la pena carceraria. Le proteste venute dal Pd, pur sacrosante, sono apparse tardive, segno di una confusione apparsa durante la discussione parlamentare, ma che già si coglieva nel modo già ricordato di mettere la questione all’ordine del giorno del Senato. Eccesso di fiducia, ingenuità o piuttosto inadeguatezza dell’analisi di una questione davvero capitale per la democrazia?
La ripulitura del testo, prima degli incidenti di percorso, non lo ha depurato dei suoi molti vizi d’origine. Nulla, o troppo poco, di quello che sarebbe necessario per aggiornare le norme sulla diffamazione si trova nel disegno di legge sul quale oggi il Senato dovrà esprimere il suo voto. Pure, non erano mancate le indicazioni per imboccare una strada che avrebbe consentito di avvicinarsi almeno a una disciplina consapevole dei molti problemi sollevati in questi anni a proposito della diffamazione, apprestando strumenti adeguati e non inutilmente punitivi per garantire verità e rispettabilità delle persone e considerando pure le questioni, tutt’altro che marginali, delle denunce temerarie e delle sproporzionate richieste di risarcimenti, come mezzo non per garantire un diritto, ma per intimidire i giornalisti. E si erano pure suggeriti i criteri per una disciplina rapida e sobria che, eliminata l’inaccettabile carcerazione, poteva essere realizzata con pochi aggiustamenti delle norme vigenti. Se tutto questo non è avvenuto, significherà pure qualcosa. Una volta di più dobbiamo registrare malinconicamente un uso congiunturale e strumentale delle istituzioni, l’inadeguatezza politica e culturale che si annida in questo Parlamento. Limitiamo almeno i danni, e rinviamo una nuova disciplina della diffamazione a tempi sperabilmente più propizi.

l’Unità 26.11.12
Imu Chiesa, ancora caos sul regolamento
Il testo è la fotocopia di una circolare del 2009 firmata da Tremonti già bocciata dall’Ue
di B. Dig.


Sull’Imu è ancora caos che scontenta tutti: enti non profit, scuole paritarie, associazioni laiche, e soprattutto i Comuni, che dovranno applicare in tempi stretti un regolamento ambiguo e di difficile attuazione. L’unica certezza è che le indicazioni contenute nel decreto ministeriale sugli immobili della Chiesa e dell’associazionismo riscritto per la terza volta dall’Economia ricalca pari-pari una circolare del 2009 firmata Giulio Tremonti e già bocciata dall’Ue.
Dunque anche questo testo è a forte rischio bocciatura. Peccato però che i Comuni dovranno applicarne una parte (quella relativa allo status di attività commerciale) entro il 31 dicembre di quest’anno, applicando poi la norma retroattivamente per quest’anno. Solo la parte che riguarda il riparto tra metri quadri da assoggettare all’Imu e quelli da escludere si dovrà applicare dal primo gennaio del 2013.
DISPOSIZIONI
Finora i nodi che sono emersi riguardano il giro di vite sul non profit, e l’esenzione per le scuole paritarie (con il rispetto di tutte le regole previste per le pubbliche, dai contratti alle graduatorie) anche se faranno pagare una retta, purché questa sia simbolica, che copra solo una parte del costo del servizio senza essere inoltre direttamente riconducibile a quest’ultimo. Una disposizione di difficile applicazione, visto che è non è affatto facile stabilire il costo medio dei servizi. Difficile per chi deve pagare, ma altrettanto difficile per chi deve incassare. Come può un Comune sapere qual è il costo medio delle rette? Chi stabilisce le soglie?
Stesso problema per quanto riguarda l’altra parte del regolamento, quella che stabilisce i criteri per gli immobili misti: l’Imu sarà pagata secondo criteri proporzionali calcolati in base allo spazio, al numero dei soggetti coinvolti e al tempo di utilizzo. Anche qui i parametri sono assolutamente incongrui. Il Comune dovrà raccogliere informazioni (tra l’altro poco verificabili) anche sulle persone che frequentano un tale servizio. Roba mai vista.
Insomma, un vero pasticcio, nato male e finito peggio. Già per due volte il governo ha dovuto riscrivere il provvedimento, ma finora ha sempre scelto la strada dell’opacità. Per definire l’attività commerciale, ad esempio, si sarebbe potuto fare riferimento al codice civile (che indica fattispecie specifiche), o la legge fiscale sull’Iva, che ricalca la definizione europea (per l’Ue si definisce commerciale un’attività da cui si percepisce un guadagno duraturo e non occasionale). A questo punto si lamentano tutti. «Rimarranno aperte solo le scuole paritarie per ricchi», protesta l’associazione dei genitori cattolici. «Non c’è niente di peggio di un governo forte con i deboli e debole con i forti», protesta Antonio Di Pietro. Una vera Babele.

l’Unità 26.11.12
Basta violenze
Il mondo chiede scusa alle donne
L’appello di Ban Ki-moon. In Italia decine di iniziative
di Riccardo Valdes

Basta con la violenza sulle donne. L’appello viene dal segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, nel giorno in cui si è celebrata la Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne. Il numero uno di Palazzo di Vetro si è rivolto ai governi di tutto il mondo chiedendo loro di mantenere le promesse fatte per mettere fine a tutte le forme di violenza contro le donne e le ragazze. «Sollecito tutte le persone ha detto a sostenere questo importante obiettivo». L’appello di Ban Ki-moon è preliminare all’appuntamento del prossimo marzo, quando si riunirà la Commissione delle Nazioni Unite sullo stato delle donne, che per l’appunto concentrerà i propri sforzi sulla prevenzione ed eliminazione della violenza sulle donne. Ieri, alla vigilia della Giornata Internazionale, il ministro degli Esteri italiano Giulio Terzi ha ricordato che «l’impegno per contrastare tutte le forme di violenza che continuano a colpire milioni di donne nel mondo è una priorità assoluta dell’azione internazionale dell’Italia»
Una giornata planetaria, che in nel nostro Paese è stata celebrata attraverso flash-mob, incontri, mobilitazioni di ogni tipo, a cominciare da quella voluta dalla convenzione «No More» che ha avuto il plauso del presidente Napolitano, la prima in Italia dove gruppi trasversali di associazioni di donne (dall’Udi a Giulia-l’associazione delle giornaliste, da Usciamo dal silenzio all’Arci, fino alla Casa Internazionale delle donne che ieri è rimasta aperta per tutto il giorno.
Da Torino è partita la campagna «365 no» mirata, ha spiegato il sindaco Piero Fassino «a far sì che la battaglia contro questo tragico fenomeno diffuso in tutto il mondo, compreso il nostro ricco occidente, sia una battaglia quotidiana, combattuta sul campo ogni giorno, una battaglia delle donne e degli uomini per la libertà». Vi hanno già aderito ad oggi 8 città: Bari, Bologna, Genova, Milano, Napoli, Roma, Palermo, Venezia. L’acqua della fontana della centralissima piazza De Ferrari, davanti a Palazzo Ducale. è stata tinta di rosso. Contemporaneamente sono stati disposti intorno alla fontana centinaia di palloncini bianchi listati con una croce nera mentre a Palazzo Ducale è stata esposta l’installazione «Zapatos rojos», con oltre 100 paia di scarpe femminili, realizzata dell’artista messicana Elina Chauvet e curata da Francesca Guerisol.
Unanime e bipartisan l’adesione delle massime istituzione del Paese e del mondo della politica per fermare la strage delle donne. Una Spoon River drammatica, terribile.

l’Unità 26.11.12
Un «patto» per un Paese davvero civile
di Vittoria Franco


QUEST'ANNO SIAMO ARRIVATI ALL'APPUNTAMENTO CON IL 25 NOVEMBRE, GIORNATA INTERNAZIONE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE, CON IL PESO DI 113 FEMMINICIDI DALL'INIZIO DEL 2012.
Un peso insostenibile e un dramma intollerabile per un Paese civile. Le azioni possibili per affrontare e combattere questo fenomeno sono molte, e noi donne del Pd le elenchiamo spesso: ratificare subito la Convenzione di Istanbul contro la violenza domestica e sulle donne, investire sui centri antiviolenza, fare prevenzione, approvare le nostre proposte, da tempo depositate in Parlamento, per realizzare tutto questo. Ma il cambiamento necessario è di natura culturale, ne siamo consapevoli. Le donne italiane, con il loro traguardo di un peso specifico sempre più alto nella società, fondato sul successo nella scolarizzazione e nelle professioni e sulla fatica di interpretare sempre il welfare complementare, stanno mettendo in discussione l'ordine costituito, ma senza reale riconoscimento della loro dignità, del loro valore e del loro potere.
È per questo che serve un «patto» per un nuovo mondo comune. Patto fra uomini e donne che sono e si considerano pari. Un nuovo orizzonte anche per costruire un esito positivo della crisi economica. A differenza del contratto classico, il patto per un nuovo mondo comune viene stipulato espressamente fra donne e uomini e indica un orizzonte di conquiste da realizzare su un terreno diverso rispetto al passato, perché presuppone il contesto di una nuova cultura della convivenza, basata sull’eguale riconoscimento reciproco di libertà e dignità.
Patto per che cosa? Per condividere il potere in ogni settore di attività: nella rappresentanza istituzionale, sul mercato del lavoro e nelle carriere; per affermare una rappresentanza eguale nei luoghi in cui si assumono le decisioni; per condividere il lavoro di cura e la genitorialità, per realizzare la parità salariale. Insomma, per dare gambe e realtà al principio della democrazia paritaria. Tutto questo vuol dire ricontrattare i ruoli, scardinare la dicotomia tra sfera pubblica e sfera privata che si è creata all’origine dello Stato moderno e che si definisce in base a ruoli predefiniti dei due generi. Noi stiamo mettendo in discussione questo racconto archetipico per costruire una nuova storia, che racconta di un processo di democratizzazione nel quale l'uomo e la donna divengono «cofondatori» della cittadinanza universale stringendo un patto di non discriminazione, fondato sulla valorizzazione e il rispetto delle persone, delle competenze, del saper fare. Patto vuol dire allora, ad esempio, che il rispetto del corpo femminile entra nel lessico e nell'educazione. Patto significa che le donne cedono più spazio agli uomini per la cura familiare e gli uomini più spazio pubblico alle donne (e i congedi paterni obbligatori della legge Fornero, anche se da estendere, vanno in questa direzione). Insomma, il patto va insieme con la giustizia di genere e non solo più con la giustizia sociale. Cominciamo a parlarne.

l’Unità 26.11.12
Gemma Marotta: «Gli uomini devono finalmente crescere»
di Ludovica Jona


È docente di criminologia e sociologia della devianza all’Università La Sapienza di Roma. Ha una doppia laurea: in Giurisprudenza e in Psicologia

Sono 113 a oggi. Un’escalation. Una corsa che accelera al ritmo del 26% ogni anno e non sappiamo dove ci porterà. A crescere esponenzialmente è il numero di donne uccise per mano di uomini dal 2007 al 2011 in Italia «Per contrastare questa violenza è necessario lavorare sulla prevenzione, con la compartecipazione e la corresponsabilità di ciascuno», afferma Gemma Marotta, docente di Criminologia e sociologia della devianza all’Università La Sapienza di Roma. Delitti che non appartengono a mondi lontani, ma ci riguardano tutti e hanno le loro radici nella nostra quotidianità. «Ad esempio afferma Marotta, quando siamo protagonisti o assistiamo a una prevaricazione o all’umiliazione di una donna sul posto di lavoro».
A cosa può essere ricondotto questo vertiginoso aumento dei casi di femminicidio in Italia?
«Esiste una forte crisi della relazione di coppia. Cause scatenanti sono principalmente le richieste di separazioni e divorzi, che in Italia vengono presentate soprattutto dalle donne. E il senso di “onore ferito” che provocano, può portare alla tragedia. Alla base c’è questo retaggio nell’uomo, dello scambiare l’amore con il possesso. Prima dei delitti però, vi sono lunghi periodi di violenza domestica, anche psicologica perché umiliando una donna e facendole perdere autostima la si controlla o di molestie continuative e assillanti, anche dette stalking».
Ritiene che la legge sullo stalking, che nel 2009 ha introdotto il reato di «atti persecutori», sia uno strumento utile per proteggere le donne?
«Ho dei dubbi in proposito. La legge sullo stalking prevede un primo ammonimento orale da parte della polizia, e solo se il reato viene reiterato si può ottenere la reclusione. Questo rischia di far degenerare la rabbia dell’aggressore in omicidio. Ci sono stati casi di femminicidio seguiti a denunce per stalking. La legge sullo stalking funziona come deterrente solo in persone con un certo equilibrio. Il problema è che fino a che non viene commesso un atto violento, le forze dell’ordine non possono intervenire. E’ per questo che io dico sempre, che è la vicinanza, la partecipazione e la corresponsabilità della comunità, il modo più efficace di prevenire i crimini. Non abbiamo sempre un poliziotto dietro».
Nel suo libro Se questi sono gli uomini il giornalista Riccardo Iacona riporta le parole di un’amica di Vanessa Scialfa, la ventenne di Enna uccisa dal fidanzato un anno fa. La ragazza racconta di uomini che schiaffeggiano pubblicamente le fidanzate senza che nessuno intervenga. E commenta: «Vent’anni fa sarebbe stato uno scandalo. Ora non ci fa più caso nessuno».
«Ecco, questo in criminologia si chiama “effetto spettatore”: se si assiste a troppe scene di violenza, nella realtà o nella finzione, si rischia di non esserne più impressionati. In questo ha responsabilità soprattutto il piccolo schermo».
Quali interventi ritiene più urgenti, da parte delle istituzioni?
«Io credo che andrebbe fatto qualcosa per far incontrare le famiglie, creare luoghi in cui si può discutere. Soprattutto in questo momento di crisi economica che mette a dura prova i nuclei familiari. I corsi prematrimoniali, ad oggi praticati solo da coloro che si preparano a un matrimonio religioso, sarebbero utili anche in ambito laico. Perché molte unioni avvengono per infatuazioni, senza che ci sia vera consapevolezza dei problemi che una coppia deve affrontare. E andrebbe fatto soprattutto qualcosa in campo maschile, gli uomini sono oggi più fragili psicologicamente ad accettare un piano di parità»
In quali ambiti soprattutto, manca l’accettazione della parità?
«A partire dai contesti lavorativi. È necessario reagire agli atteggiamenti di supponenza, di sottovalutazione, alle battute volgari, alle avance fisiche e verbali. Una volta, in una classe di 50 persone con 2 sole donne, mi sono accorta che giravano disegni osceni con i quali le ragazze in minoranza venivano messe in imbarazzo. Me li son fatti consegnare e ho cambiato argomento della lezione, parlando del complesso edipico non risolto. Così li ho messi difronte alla loro meschinità. Umiliati, hanno finito per scusarsi pubblicamente».

Repubblica 26.11.12
Canale di Sicilia
Soccorsi 500 migranti in 48 ore ora è emergenza a Lampedusa
di Alessandra Ziniti


PALERMO — Quasi 500 migranti in 48 ore, il centro di prima accoglienza di Lampedusa oltre la capienza massima, condizioni meteo favorevoli almeno per altri due giorni. E il tam tam secondo cui dall’altra parte del Canale ci sarebbero di nuovo migliaia di persone in attesa di partire. In Sicilia è di nuovo emergenza immigrazione.
Dopo i 350 clandestini soccorsi dalla Guardia costiera sabato in due diverse operazioni di salvataggio tra Malta e Lampedusa, ieri mattina 80 migranti sono stati soccorsi all’1.30 del mattino nel Siracusano, 30 miglia a sud di Portopalo di Capo Passero. A bordo del gommone dal quale, con un telefono satellitare era partito l’allarme, c’erano anche 25 donne, una incinta. I profughi sono eritrei e somali, a differenza dei quasi 350 arrivati a Lampedusa negli ultimi due giorni: partiti quasi certamente dalla Libia e intercettati dalle motovedette a poche miglia dall’isola. La traversata è costata la vita ad almeno un uomo (ma altri due sono dispersi) tra quelli arrivati sulle coste agrigentine, a Montallegro. E il sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini, torna a lanciare l’allarme affinché riprendano i trasferimenti dei migranti ospitati nel centro di prima accoglienza che, dopo gli ultimi sbarchi, ha già superato quota 1.000 ospiti.

Corriere 26.11.12
Riconoscere i figli naturali va bene, «legalizzare» l’incesto è vergognoso
di Isabella Bossi Fedrigotti


Ci si chiede perché, a volte, il legislatore è così cieco e sordo alla realtà. Perché legifera esclusivamente concentrato sul codice senza alzare gli occhi sulla società, sulle eventuali, probabili conseguenze che l'introduzione della — sua — nuova norma potrebbe avere o, anzi, sicuramente, avrebbe. Perché gli è così cara la teoria al punto che, a volte, della pratica non si interessa proprio, fattore secondario, chissà, vile, con la quale non vede la necessità di sporcarsi le mani.
Domani, dunque, la Commissione Giustizia voterà alla Camera l'atteso testo sul riconoscimento dei figli naturali, da parificare in tutto con quelli legittimi. Peccato, però, che, nel suo passaggio al Senato, siano state apportate due modifiche sconcertanti secondo le quali i genitori — compreso, perciò, il padre — potranno riconoscere anche i figli nati da un incesto, ai quali, in più, verrà tolta la possibilità di avere un giudice specializzato che si occupi di loro.
Invano innumerevoli associazioni che tutelano i minori, Unicef compresa, hanno protestato chiedendo la revoca delle due paradossali modifiche in nome delle quali un padre incestuoso, figura dunque, pesantemente fuori dalla legge, potrà garantire giuridicamente per il figlio, quasi sempre frutto di una violenza esercitata sulla propria figlia, sorella o nipotina. Niente da fare, la Commissione ha tirato diritto. In nome dell'uguaglianza ovviamente: un'uguaglianza sulla carta che, però, porterebbe a micidiali diseguaglianze nella vita. I figli di questi soggetti verrebbero, infatti, inevitabilmente messi al corrente — dai documenti — delle scabrose vicende familiari che hanno portato alla loro nascita, costretti — per legge — a scoprire che il loro padre è, insieme, il loro nonno, zio o magari bisnonno. Molto meglio, allora, essere diversi se ciò significa non dover portare sulle proprie spalle il pesante — e discriminante — fardello di una simile consapevolezza.
Per non dire del fatto che l'incesto, una volta scritto negli atti e ufficializzato dalle carte, potrebbe alla fine sembrare una pratica meno perversa, meno infame, in via di depenalizzazione, quasi.

La Stampa 26.11.12
Israele-Gaza
Perché serve un accordo con Hamas
di Abraham B. Yehoshua


Durante la guerra di Indipendenza del 1948 la Giordania bombardò la zona ebraica di Gerusalemme per diversi mesi, pose la città sotto assedio e impedì i rifornimenti di acqua e carburante. Centinaia di civili rimasero uccisi sotto le bombe eppure Israele non definì i giordani «terroristi» e dopo il cessate il fuoco fu avviato un negoziato tra le parti al termine del quale fu firmato un armistizio.
Anche i siriani prima della guerra dei Sei Giorni bombardarono per anni la Galilea settentrionale uccidendo e ferendo molti civili. E un articolo della Costituzione del partito siriano Ba’ath prevede persino la distruzione di Israele.
Eppure gli israeliani non hanno mai definito «terroristi» i siriani. Li hanno sempre chiamati «nemici» e negli anni hanno raggiunto vari accordi con loro, fra cui il disimpegno dei rispettivi eserciti dopo la guerra del Kippur.
Gli egiziani guidati da Abdul Nasser proclamarono più volte di volere distruggere Israele, ed era questa la loro intenzione alla vigilia della guerra dei Sei Giorni. Eppure il dittatore egiziano non fu visto come un terrorista ma come un nemico.
Di più. Neppure i nazisti furono definiti terroristi. Commisero indicibili atrocità indossando un’uniforme e sottostando agli ordini di un governo riconosciuto. Sono stati i nemici più brutali nella storia dell’umanità ma non erano terroristi.
È arrivato perciò il momento di smettere di considerare Hamas un’organizzazione terroristica e di definirlo piuttosto un «nemico». L’uso inflazionato del termine «terrorista», tanto caro al nostro primo ministro, pregiudica infatti la possibilità di raggiungere un qualsiasi accordo a lungo termine con questo acerrimo nemico.
Oggigiorno Hamas è in controllo di un territorio, possiede un esercito, istituzioni governative, canali radiotelevisivi ed è riconosciuto da numerosi Paesi. Un’organizzazione responsabile di uno Stato dovrebbe essere definita «nemica», non «terroristica».
Ma perché è importante la terminologia? È solo una questione di semantica? Non esattamente. Con un nemico si può infatti instaurare un dialogo e concludere accordi anche parziali mentre tentare di dialogare con «un’organizzazione terroristica» non avrebbe senso e di certo non ci sarebbe nessuna speranza di accordo. Occorre pertanto legittimare il tentativo di stipulare un qualsivoglia accordo diretto con Hamas.
Non dobbiamo infatti dimenticare che i palestinesi saranno per sempre i nostri vicini e se non patteggeremo con loro una separazione ragionevole finiremo inevitabilmente per convivere in uno Stato binazionale, un’eventualità deleteria e pericolosa per entrambe le parti. Un accordo con Hamas è quindi importante non solo per normalizzare la situazione al confine con Gaza ma anche per creare la base di un eventuale Stato palestinese a fianco di quello israeliano.
Il regime di Hamas, eletto dopo l’evacuazione israeliana della Striscia di Gaza, mostra comunque preoccupanti segni di perdita del senso della realtà, di incapacità di comprendere ciò che è possibile e ciò che non è possibile. E le dure reazioni militari di Israele non solo non lo portano a rinsavire ma rafforzano il suo vittimismo aggressivo.
A cosa è dovuta la ferocia e la violenza di Hamas? Il fanatismo religioso è un fenomeno diffuso ma neppure un regime fanatico si esporrebbe alla reazione distruttiva di un esercito come quello israeliano, uno dei più forti al mondo.
Alla base del comportamento di Hamas c’è una contraddizione. Da un lato i suoi leader provano un giustificato senso di eroismo e di audacia per avere allontanato i coloni e l’esercito israeliano da Gaza, dall’altro avvertono una profonda frustrazione dovuta al duro isolamento imposto a una striscia di terra tanto stretta, distaccata non solo da Israele ma soprattutto dai palestinesi in Cisgiordania.
I leader di Hamas, incoraggiati dal successo del ritiro israeliano, ritengono di potere quindi cacciare i «sionisti» da tutti i «territori occupati», o per lo meno di costringerli a rimuovere il blocco. Non avendo fiducia nelle intenzioni di Israele, convinti che la separazione tra Gaza e la Cisgiordania serva gli interessi di quest’ultimo e consapevoli che lo Stato ebraico non tenterà più di riconquistare e di governare la Striscia di Gaza, anziché cercare di risollevare l’economia del territorio, di fermare la violenza, di costruire una vita normale e di convincere gli israeliani a consentire alla popolazione libertà di movimento scelgono la strada che si è dimostrata efficace in passato: una costante aggressione.
Ma nonostante il recente cessate il fuoco le due parti non hanno la sensazione che la spirale di violenza si sia conclusa. Il comportamento di Hamas denota un istinto suicida che, con l’incoraggiamento scellerato dell’Iran, potrebbe portare altra distruzione e morte. Occorre perciò fare uno sforzo per instaurare un vero e proprio dialogo con i suoi leader. E come «un’organizzazione terroristica» quale l’Olp si è trasformata nell’Autorità palestinese così Hamas dovrebbe essere considerata non «un’organizzazione terroristica» ma il rappresentante di un governo con il quale, mediante negoziati diretti, si possa giungere a un accordo basato su quattro principi:
1. L’accettazione da parte di Hamas di una rigorosa supervisione internazionale sullo smantellamento dei lanciarazzi nella Striscia di Gaza.
2. L’apertura del valico di frontiera tra Gaza e l’Egitto.
3. L’apertura del valico di frontiera tra Gaza e Israele per un transito controllato di lavoratori palestinesi.
4. L’apertura graduale di un corridoio sicuro tra Gaza e la Cisgiordania – in base alle norme stabilite a Oslo – perché venga ripristinata l’unità palestinese in vista di un negoziato con Israele.
L’Autorità palestinese non potrebbe infatti completare o concludere un accordo di pace con Israele senza la partecipazione attiva o passiva di Hamas. Una decisione su questioni nazionali di primaria importanza richiede un ampio consenso nazionale, come avviene in molti Paesi, tra i quali Israele.
Il dialogo con Hamas e un graduale ripristino delle sue relazioni con la Cisgiordania sono quindi condizioni essenziali per il raggiungimento di un accordo che preveda due Stati per i due popoli e che porti all’arresto di un’avanzata lenta ma costante verso uno Stato binazionale. È questo ciò che spera la maggioranza della popolazione israeliana.

Corriere 26.11.12
Barenboim, suono senza confini
Ha eseguito Wagner in Israele, ora sogna un concerto a Gaza
di Pierluigi Panza

Per la pace universale, per l'uomo completo, per l'arte come elevazione dello spirito e per l'educazione estetica: i tipici valori del Romanticismo tedesco di Schiller, Goethe e Schopenhauer sono quelli che animano il pensiero del direttore musicale della Scala, Daniel Barenboim, argentino di nascita, tedesco di adozione, apolide per definizione. Il pensiero che trapela dal suo nuovo libro (La musica è un tutto. Etica ed estetica, a cura di Enrico Girardi, Feltrinelli pp.122, 12), appare forgiato nella visione goethiana del mondo, finalizzato alla costruzione di una pienezza di vita che superi le divisioni tra esperienza artistica e vita «fattuale». Il testo è diviso in tre sezioni («Occasioni», «Conversazioni», «Epilogo») e raccoglie vari interventi degli ultimi anni, tra i quali le presentazioni all'Università Cattolica delle «prime», come quella che terrà martedì sul Lohengrin.
Delle molte suggestioni del libro accenniamo ad alcune. Anzitutto Barenboim critica quella forma di «asservimento e parcellizzazione» contemporanea che è la specializzazione, giudicata «una combinazione letale di conoscenza sempre più dettagliata applicata a un mondo sempre più ristretto». La specializzazione, fondamento degli avanzamenti scientifici, separa l'individuo da una conoscenza completa del mondo; sostanzialmente fa avanzare velocemente la conoscenza, ma riduce quella individuale.
L'ideale settecentesco di una pace universale e, di conseguenza, pace tra Israele e i palestinesi emerge in molte sue riflessioni. Presenta aspetti, condivisibili, che fanno di Barenboim un candidato al Nobel per la Pace scevro da ipocrisie alla moda, che smaschera il «politically correct» come atteggiamento di maniera e, per questo, pericoloso.
Sul conflitto mediorientale muove da due posizioni. La prima è che il «politicamente corretto prospera in una società governamentale che decide cosa sia giusto o meno, soffocando di conseguenza il pensiero del singolo individuo». È quasi una eco del pensiero migliore di Foucault: ogni assolutismo è pericoloso, anche quello «correct» di maniera. L'altro elemento da cui muove sono le posizioni dello storico Edward Said, con il quale Barenboim ha fondato West-Eastern Divan Orchestra (che riunisce musicisti israeliani e palestinesi). L'amicizia con lo storico gli impedisce di vedere le semplificazioni antioccidentali delle tesi di Orientalismo di Said, che riduce a una volontà di potenza eurocentrica e bianca le dinamiche del rapporto Oriente-Occidente. La tesi conclusiva del discorso di Barenboim sul conflitto mediorientale è cristallina: «L'unica soluzione è l'accettazione reciproca, in primo luogo a livello interpretativo e successivamente a livello pratico». Barenboim ricorda come anche Herzl e Buber sottolinearono i diritti dei palestinesi.
Barenboim, come lui stesso ricorda, è stato anche il primo ad eseguire Richard Wagner (il Preludio e morte di Isotta) in Israele con la Staatskapelle di Berlino nel 2001: un momento importante che sfatò un tabù. «Tenere ancora oggi in vita il tabù di Wagner in Israele equivale a dare ragione a Hitler quando considerava Wagner un profeta e un precursore dell'antisemitismo». Il desiderio futuro è quello di «portare a Gaza la West-Eastern Divan Orchestra». Barenboim si mostra inoltre molto preoccupato sugli esiti della «Primavera araba»; come ha dichiarato in occasione del conferimento del premio Willy Brandt: «Sono ancora incerti gli esiti che potrebbero anche rivelarsi molto negativi».
Le conversazioni dedicate alle presentazioni delle sue «prime» alla Scala (su Carmen, Die Walküre e Don Giovanni) mettono in luce alcuni aspetti della sua estetica, che è caratterizzata da un certo positivismo: eliminare il superfluo e il capriccio, idea di un pubblico come comunità consapevole e da educare, arte come ricerca di equilibrio tra intelletto ed emozione.
Il fine che Barenboim affida alla musica è quello dell'estetica di Schopenhauer: la musica «ha il potere di oltrepassare i limiti» individuali, ovvero elevare la coscienza dell'individuo dalla coercizione della quotidianità. Sebbene il suo fine sia la commozione d'animo, andrebbe insegnata nelle scuole poiché «lo Zeitgeist di oggi può essere captato dal sentimento, mentre lo Zeitgeist di ieri può solo venir capito».

La Stampa 26.11.12
Una vita normale senza fissa dimora
Incontro con Wainer Molteni, il clochard laureato: “Ti salvi solo quando non hai più niente da perdere”
di Alessandra Iadicicco


Di là dal muro La ricerca condotta dall’Istat sui «senza dimora» è la prima portata a termine nel nostro Paese sul popolo degli invisibili che vivono sulle strade delle città italiane
Il libro Wainer Molteni ha appena pubblicato «Io sono nessuno» (Baldini Castoldi Dalai, pp. 214, euro 16)

Io sono nessuno, afferma Wainer Molteni nel suo libro, con la mossa spiazzante di un Ulisse che disarma il ciclope. Con quella frase otto anni fa dichiarò la propria resa alla condizione di barbone. Non aveva più niente.
E, senza lavoro, senza famiglia, senza casa, non poteva che ammettere di non essere nessuno, se non un «homeless», un «senza tetto», un clochard. Aveva toccato il fondo. E aveva fatto il suo ingresso in quel nuovo stato dell’essere (o del non-essere), nello status di indigente e bisognoso, attraverso la porta girevole del centro di aiuto della stazione centrale di Milano: Sos Centrale. «È bene che impariate che c’è un simile punto di soccorso, di questi tempi», avverte beffardo oggi.
«Che ci faccio qui? Come è successo? Via, sarà per poco», diceva a se stesso negli estremi sussulti di resistenza al destino della strada. Esattamente le stesse domande e lo stesso timido tentativo di rassicurazione gli rivolse il sorridente impiegato del centro di accoglienza.
Il quale, prima di fornirgli l’elenco delle mense, i punti doccia, i guardaroba, i dormitori – gli indirizzi utili per chi non avrebbe altra scelta che fare dei vagoni fermi di notte sui binari la propria alcova e dei corridoi riscaldati della biblioteca comunale il proprio salotto -, prima di introdurlo sui binari dell’assistenza sociale istituzionalizzata, gli aveva chiesto di indicare quali tappe lo avevano condotto a quella svolta e a quel triste capolinea (anche ferroviario).
E così, dopo i numerosi frustranti tentativi di trovare un lavoro presentando in un curriculum il suo eccezionale iter di studi e esperienze, prima della stesura della sua strabiliante confessione-autobiografia («Io sono nessuno», appena uscita da Baldini Castoldi Dalai), il signor nessuno si era ritrovato a raccontare la sua storia.
Orfano dei genitori militanti di estrema sinistra espatriati a Marsiglia, cresciuto dai nonni a Mombello, sul Lago Maggiore, aveva dimostrato un certo talento fin da ragazzino. Studiava il minimo indispensabile e andava bene a scuola. Premiato da nonno Emilio col regalo di un formidabile impianto stereo – mixer a quattro canali, amplificatore, piastra di registrazione – si improvvisò deejay nelle balere e nei club della Brianza, e si fece notare e ingaggiare nelle discoteche milanesi di tendenza.
Lo appassionavano le storie di banditi, così si laureò «cum laude» in Sociologia e ottenne un dottorato in Criminologia alla Scuola Normale di Pisa. Il prestigioso istituto fu il suo trampolino di lancio verso gli Usa. Per tre anni frequentò un master a Quantico, in Virginia, al centro di ricerca e addestramento dell’Fbi. Poteva fermarsi là e fare carriera accademica. Ma accettò la proposta del padre di un amico che lo assunse come responsabile del personale di una catena di supermercati. Poco avventuroso, ma sicuro. Sembrava…
Finché la catena di grande distribuzione fece bancarotta e lui restò disoccupato. Iniziò allora in cammino in discesa del giovane «laureato, dottorato, masterizzato» che si vedeva respinto a tutti i colloqui perché troppo qualificato. I soldi - «li guadagnavo, li spendevo» finirono in fretta. I famigliari non c’erano più. Sugli amici non voleva pesare.
Piuttosto si sarebbe insediato – come fece – nella villa lasciata sfitta a Portovenere da due ricchi ottantenni americani. Ma «la Liguria non era il posto più stimolante del mondo» e, dopo tre anni da nullafacente, salì sul treno che da La Spezia lo condusse fino al suddetto Sos di Milano. Fino a quel fondo toccato giusto per risalire e riscuotersi.
«Clochard alla riscossa», appunto, è il nome del movimento cui Wainer Molteni, grazie alla sua intraprendenza e passione politica, si è messo a capo. In otto anni ha occupato dormitori. Ha organizzato distribuzioni di sacchi a pelo e pasti caldi. Ha collaborato con la giunta Moratti e Pisapia («Ma non da “consulente” come dicono: non mi hanno mai assunto, ci chiamano solo quando occorre»). Ha ottenuto un alloggio popolare e poi una fattoria nel Pistoiese, gestita da senzatetto come agriturismo («Abbiamo cinque stanze per gli ospiti, il frutteto, l’uliveto. Questa settimana abbiamo iniziato la raccolta delle olive»).
Ha dormito tante notti all’addiaccio. E proprio chiuso nel sacco a pelo ha iniziato ad annotare su foglietti sparsi il racconto della sua avventura. «Solo qualche mese fa, quando mi hanno regalato un computer, l’ho stesa per intero. La mia è una storia normale. Una vita normale - dice - può succedere a chiunque. In coda alle mense dei poveri oggi ci sono uomini con un passato manageriale e imprenditoriale».
Non è un malaugurio. Anzi: «La molla che fa scattare la rivalsa e permette di andare avanti è proprio la consapevolezza di non avere niente da perdere. Il bello di quando perdi ogni cosa è che puoi ricominciare da dove vuoi».

La Stampa 26.11.12
Siberia e libertà
di Luigi La Spina


Con Luciana Castellina, in una terra che per noi si identifica con il gulag, ma per i russi è un Far West dello spirito: ora quel viaggio è diventato un libro La partenza da Mosca, nel settembre dell’anno scorso: da sinistra Roberto Pazzi, Luciana Castellina, Luigi La Spina, Andrea Kerbaker e Marina Giaveri. In alto una veduta del lago Baikal, in Siberia: in primo piano un albero decorato con messaggi indirizzati agli spiriti di Olkhon, la maggiore isola del lago
Sul binario della Jaroslavskaja, una delle stazioni moscovite, il vagone con i tre colori della bandiera russa ci aspettava. Stavamo partendo per uno straordinario viaggio, sognato da sempre, e che, ora, si avverava: sulla Transiberiana, la linea ferroviaria più lunga del mondo. Nel gruppo di dieci italiani alla volta della Siberia, lei avanzava, appoggiandosi a una stampella per i postumi di una frattura, tra un tripudio di palloncini colorati e in mezzo ai suonatori della banda che festeggiava la nostra partenza. Avevo appena letto, di Luciana Castellina, la deliziosa autobiografia giovanile, intitolata Alla scoperta del mondo, in cui racconta le accanite partite di tennis con la figlia del duce, Anna Maria Mussolini, curiosa primissima presa di coscienza della politica nella sua vita. In imbarazzo, per la goliardica familiarità che, di lì a poco e per quasi tre settimane, mi avrebbe avvicinato a una delle più belle e affascinanti donne che abbia mai conosciuto, in soggezione per la disparità, tra noi, di esperienze umane e politiche, di cultura, di conoscenza sulla storia del paese che stavamo visitando, intimidito per l’ obbligatorio «tu» di colleghi giornalisti, la salutai rivolgendole la domanda più sciocca che potessi farle, anche per un tennista dilettante: «Scusa, tra te e la Mussolini, chi vinceva? ». Lei mi squadrò infastidita e rispose: «Sai che non lo ricordo? ».
Cominciò, così, davvero per me non nel migliore dei modi, l’affascinante avventura ferroviaria, attraverso cinque fusi orari e seimila chilometri, di una improvvisata compagnia di romanzieri, poeti e giornalisti, invitati a compiere un viaggio da Mosca fino a UlanUdé, ai confini della Cina e della Mongolia, là dove la Transiberiana si biforca. Un ramo, infatti, prosegue verso Pechino, l’altro arriva a Vladivostok. Di questa esperienza, Luciana Castellina ha scritto un altro bel libro che, in queste settimane, sta presentando in varie città italiane.
La storia dell’autrice fa sì che il suo diario di viaggio intrecci memorie di cose viste, lette e pensate durante la sua lunga esperienza politica e culturale, con emozioni e racconti di una scoperta, questa volta di «un altro mondo», la Siberia, che confessa di non aver mai visto prima. Perchè, come scrive, «non dite che siete stati in Siberia se ci siete andati con l’aereo: per esserci stati davvero occorre andarci con la Transiberiana».
Sulla copertina bianca del libro compare solo un colbacco, sul quale è spillata una piccola falce e martello, immagine felice e simbolica delle tracce di un comunismo vagheggiato e, poi, tradito e di un capitalismo arrivato nella forma più superficiale e deludente. Tracce che la Castellina, con il suo quadernetto di appunti sempre in mano, si ostinava a inseguire con domande incalzanti e appassionate, sulla politica e sull’economia della Russia, ai giovani che incontravamo, perché quel paese «ha una storia così incredibilmente diversa da quella di ogni altra, che è difficile da capire. E, infatti, poi, non si smette di cercare». Indagine destinata a rimanere vana, perché, come è costretta ad ammettere, «parlare di politica nella Russia d’oggi è difficile. Non per paura, ci mancherebbe, ma perché l’antipolitica ha conquistato questo popolo, e le cose del potere gli sono indifferenti. Difficile intavolare un dialogo, i nostri riferimenti sono troppo difformi».
Eppure, nonostante questa estraneità comunicativa, almeno una cosa Luciana Castellina, e noi con lei, l’abbiamo davvero scoperta: l’immagine capovolta della Siberia che ci si è rivelata, con imprevedibile chiarezza, durante il viaggio. Il pregiudizio occidentale su quella terra, nel ricordo della prigione di ghiaccio che stringeva le catene dei forzati nelle miniere dello zar e dei dissidenti nei gulag staliniani, si rovescia, per i russi, nel simbolo di un perenne Far West dello spirito. Come scrive l’autrice, la tajgà, l’immensa foresta di conifere che domina il paesaggio siberiano e la steppa, nella fascia più a Sud, sono i luoghi dove si può ricominciare una vita, luoghi «popolati di nomadi, gangster, vagabondi, cercatori d’oro avventurosi». Un mondo dove «ci si può occultare, sparire, perdere; dove una moltitudine di microcomunità umane è stata inghiottita, sottraendosi alla storia», ma pure dove «fra il 1861 e il 1914, anche grazie alla Transiberiana, quasi quattro milioni di persone emigrarono in cerca di fortuna». A questo proposito, l’autrice cita il principale storico contemporaneo della regione, Anthony Wood: «C’è un paradosso in Siberia, perché oltre al luogo della punizione, fu quello che più rapidamente si trasformò nella terra della libertà e delle opportunità per un crescente numero di rifugiati».
A una donna come Luciana Castellina, che confessa nel libro di non voler rinunciare alle rivoluzioni, «anche quando finiscono male, perché sono necessarie a pensare l’impensabile, a guardare al di là delle sbarre del presente», la Siberia deve avere catturato il cuore. Ed è bello vedere come, pur nel disincanto dei tempi presenti, lei non s’arrenda ai sogni della gioventù.

Corriere 26.11.12
Irène Némirovsky. Vi scrivo per sopravvivere
La voce della scrittrice nel gelo della prigionia nazista
Un messaggio sul mondo «posto di fronte al pericolo»
di Frediano Sessi


«Caro amore, non stare in pena per me. Sono arrivata bene. Al momento c'è disordine, ma il cibo è molto buono. Mi raccomando, non prendertela. Le cose si sistemeranno. Un bacio a te e alle bambine con tutta l'anima, con tutto il mio affetto».
È il pomeriggio del 15 luglio 1942 e Irène Némirovsky, trasferita al campo di Pithiviers, scrive al marito Michel Epstein, non ancora coinvolto negli arresti di ebrei da parte dei nazisti e dei gendarmi collaborazionisti di Vichy. Era stata arrestata il 13 luglio nella sua casa di Issy-l'Évêque dove si era rifugiata con le due figlie: Elisabeth e Denise, nel maggio del 1940, per sfuggire agli orrori della guerra.
La sua prigionia nella Francia che tanto amava, e che aveva eletto a sua patria, dura pochi giorni. La mattina del 17 luglio è già sul convoglio ferroviario diretta ad Auschwitz, dove arriverà due giorni dopo.
Le resterà un mese di vita. Il 19 agosto, alle ore 15.20, come attesta un documento del campo, Irène Némirovsky muore a causa di una un'epidemia di tifo. Poco prima di lasciare la Francia, aveva scritto ancora una volta ai suoi cari: «Mio amato, mie piccole adorate, credo che partiremo oggi. Coraggio e speranza. Siete nel mio cuore miei diletti. Che Dio ci aiuti tutti». Come nella precedente lettera da Pithiviers, parole di fiducia e di angoscia. Nei lunghi mesi del suo soggiorno/esilio in campagna (tra la noia mortale e l'isolamento, scriverà), aveva vissuto ore di totale disperazione, senza mai abbandonare l'idea che il successo letterario le consentisse di avere un trattamento privilegiato, nonostante le leggi sempre più restrittive contro gli ebrei stranieri. E, contro ogni misura repressiva, non aveva smesso di scrivere e di chiedere ai suoi amici editori (spesso appartenenti alla destra antisemita francese), spazio per continuare a pubblicare racconti e romanzi, oltre a un'opera cui lavorò intensamente, come la Vita di Cechov. Il progetto che la preoccupava di più, tuttavia, era la scrittura di una narrazione di grande respiro, che doveva comporsi di cinque volumi e superare le milleseicento pagine con titolo di Suite française. «Ciò che mi interessa a tal proposito — scrive Irène Némirovsky — è la storia di un mondo posto di fronte al pericolo», per raccontare, nel profondo, la reazione alla disfatta e all'occupazione dei diversi strati della società francese; gli avvenimenti storici di cui anche lei era vittima le sarebbero serviti da scenario, per disvelare il «cuore dell'uomo», lo scorrere della vita nel succedersi dei giorni e degli eventi.
Di questo grande progetto, realizzerà solo due parti: Temporale di giugno e Dolce. Al centro dei due romanzi, un rispetto assoluto della vita umana, lontano da ogni presa di posizione politica. A tal proposito, scrive che sarebbe necessario mostrare «parallelamente» alla morte del soldato francese, «quella del soldato tedesco, ambedue colmi di dolorosa nobiltà». Sarà con il terzo romanzo di Suite francese che Irène Némirovsky si porrà l'obiettivo di rendere più esplicita la sua posizione politica nei confronti dell'occupazione tedesca e del collaborazionismo. L'eroe del romanzo, dal titolo Captivité, doveva essere Jean-Marie Michaud, sempre più deluso dal regime di Vichy. Eppure, nonostante questo deciso j'accuse, la Némirovsky non si avvicinerà mai con sentimento positivo alla Resistenza; nemmeno a quella non comunista del generale De Gaulle.
Irène arriva in terra francese con la sua famiglia nel 1919, in fuga dalla Russia comunista, dopo aver soggiornato per un breve peridio in Finlandia e in Svezia. Come altri russi bianchi, il padre, Leon Némirovsky, non fuggiva a causa della miseria ma per allontanarsi da un regime che non era compatibile con la sua professione di ricco banchiere. Tuttavia, la famiglia non legherà né con gli immigrati russi ebrei, né con gli altri russi bianchi. Nel 1926, quando Irene ha 23 anni (era nata a Kiev il 24 febbraio 1903), l'incontro e il matrimonio con Michel Epstein, ebreo russo la cui famiglia è legata al mondo degli affari. A quel tempo la sua passione per la scrittura è già un dato di fatto e il romanzo Le Maletendu (pubblicato dall'editore Fayard) è considerato una rivelazione. L'anno successivo, lo stesso editore pubblica L'Enfant génial, una novella in ambiente ebraico e nel 1928 il romanzo breve L'Ennemi, che traccia il quadro al vetriolo di una madre le cui azioni hanno un effetto devastante sui figli. Ma è con il manoscritto dal titolo David Golder che la Némirovsky raggiungerà a soli 26 anni l'apice del successo letterario. Respinto in prima battuta da Fayard, perché troppo lungo, fu l'editore Grasset a pubblicarlo nel 1929. La storia dell'ebreo arricchito, che si muove con ambizione nel mondo degli affari e della speculazione, in quegli anni in cui la cultura antisemita di origine religiosa è assai diffusa, trova udienza nel pubblico conservatore che frequenta gli ambienti della destra e della grande e media borghesia e ne legge i giornali o i settimanali di punta: tra gli altri, «Candide», «Je suis partout», «Gringoire» (su alcuni dei quali la Némirovski pubblicherà molti racconti e romanzi prima di ristamparli in libro). Da questo momento, e fino al 1941, scrive un romanzo all'anno (a esclusione del 1932 che segna la morte del padre e del 1937, anno di nascita della seconda figlia Elisabeth). «Continuo a dipingere la società che conosco meglio, e che si compone di gente squilibrata, fuoriuscita da un ambiente in cui avrebbe vissuto normalmente e che si adatta alla nuova vita con sofferenza e traumi», dichiarò nel corso di un'intervista radiofonica. Ebrei affamati di denaro, donne e uomini che vivono nel matrimonio come ancora di salvezza della famiglia, ma tradendo per amore, per interesse o debolezza il loro consorte, sono alcuni dei personaggi dei romanzi che incanteranno il pubblico numeroso dei lettori: Il Ballo (1930), Jezabel (1936), Due (1939), I cani e i lupi (1940). Conversione al cristianesimo, successo di lettori e salotti della borghesia finanziaria e politica francese non le serviranno a salvare la sua vita e quella del marito deportato ad Auschwitz nel novembre del 1942. Il suo «penso e sogno in francese», non le servirà a rovesciare le sorti del suo tragico destino.

Corriere 26.11.12
Irène Némirovsky
I dilemmi e le contraddizioni di un'ebrea borghese
di Ida Bozzi


A settant'anni dalla morte ad Auschwitz nel 1942 e in vista dei centodieci anni dalla nascita, a Kiev nel 1903, una nuova iniziativa editoriale del «Corriere della Sera» proporrà una intera collana dedicata alla grande scrittrice Irène Némirovsky. Con le nuove presentazioni di importanti critici e firme del quotidiano, dal 1° dicembre saranno infatti in edicola tredici tra romanzi e novelle dell'autrice (a 7,90 euro più il prezzo del giornale).
Rappresentativa voce di un mondo travolto dalla catastrofe, la borghese Némirovsky, nata in Ucraina ma vissuta in Francia, descrive nei suoi grandi affreschi o nelle «miniature» perfette anche le contraddizioni del suo ambiente, il rapporto conflittuale con la propria origine ebraica, le inquietudini individuali del clima prebellico, il disastro del nazismo, il panico della Francia invasa. La prima uscita di sabato 1° dicembre sarà il suo titolo più celebre, Suite francese, con introduzione di Pietro Citati; seguiranno l'8 dicembre I cani e i lupi con l'introduzione di Isabella Bossi Fedrigotti, il 15 dicembre Due con l'introduzione di Giorgio Montefoschi, il 22 dicembre Il vino della solitudine con l'introduzione di Emanuele Trevi, e il 29 dicembre I doni della vita prefato da Stefano Jesurum, per continuare in gennaio e fino al 23 febbraio con le altre opere e le introduzioni inedite di Ranieri Polese, Paola Capriolo, Cristina Taglietti, Paolo Di Stefano, Cinzia Fiori, Marco Missiroli, Stefano Montefiori e Frediano Sessi. (Ida Bozzi)

Repubblica 26.11.12
Non hanno senso le accuse lanciate dalla vedova dell’autore di “Finzioni”
Il sodalizio fra i due scrittori era fatto di felici scoperte e di uno spirito beffardo
Le voci mescolate di Borges e Bioy Casares
di Alberto Manguel


Conobbi Adolfo Bioy Casares a metà degli anni ’60, quando, da adolescente affamato di letture, guardavo con curiosità a quella misteriosa genia di persone che i libri li facevano. Lo conobbi perché avevo conosciuto Borges, che cenava quasi ogni sera nell’appartamento di Bioy, quando era venuto a comprare libri nel negozio in cui lavoravo, e anche perché avevo conosciuto Silvina Ocampo, la moglie di Bioy, quando ero andato a chiederle un contributo per la rivista della scuola.
A metà pomeriggio, nel salotto del loro appartamento, immerso nella penombra, avevo parlato di letteratura con Silvina mentre Bioy e Borges lavoravano insieme in una delle altre stanze. Silvina teneva la luce bassa perché non amava che la gente la guardasse in faccia, che sapeva essere brutta, e preferiva che le guardassero le gambe, che sapeva essere belle. Scrosci di risate provenivano dalla stanza in cui lavoravano Bioy e Borges, mentre Silvina andava avanti a recitare, con voce profonda e incrinata, versi di Ronsard e Valéry. Alla fine i due uomini erano usciti dalla stanza ed eravamo andati tutti nella sala da pranzo per consumare un pasto insipido di verdure bollite, fettine di prosciutto e dulce de leche per dessert. Per un ragazzo di sedici anni, era tutto molto singolare.
Durante la cena, Borges guidava la conversazione, con Bioy che faceva da contraltare e la arricchiva e Silvina che di tanto in tanto se ne usciva con un commento criptico. Io, naturalmente, non dicevo nulla. In presenza di Bioy, Borges era più aperto del solito a nuovi argomenti, meno vincolato al suo consueto repertorio di osservazioni stringate. Le conversazioni di Borges non erano mai personali, nel senso di confidare qualcosa di intimo (di sicuro non quando c’ero io), ma sembrava abbassare la guardia in presenza di Bioy. È impossibile conoscere veramente la vita intima di chiunque, ma penso che Bioy fosse l’unico amico di Borges. E che le accuse lanciate a lui di recente dalla vedova dello scrittore di Finzioni siano senza senso.
La relazione fra Borges e Bioy era di vecchia data. Si erano conosciuti quando Bioy aveva diciassette anni e Borges già più di trenta, e a quanto sembra, dalla loro prima conversazione nella villa di Victoria Ocampo, sul Río de la Plata, non avevano mai smesso di parlare. Borges scrisse una volta di «quelle amicizie inglesi che cominciano escludendo le confidenze e finiscono evitando il dialogo». La sua amicizia con Bioy era semmai il contrario. Era fatta di dialogo e le cose scritte in comune erano una mescolanza delle loro voci parlanti. Leggendo le storie e i saggi di Bustos Domecq o Suárez Lynch (i loro alter ego sotto pseudonimo), sento le loro antiche conversazioni, ricche di scoperte felici, interruzioni argute, uno spirito beffardo.
Borges diceva che Bioy gli aveva insegnato a rispettare la psicologia di personaggi che a detta sua non lo interessavano, e i pregi di trame che liquidava come sentimentali o banali. Senza Bioy, Borges non avrebbe mai preso in considerazione Maupassant, Balzac, Manzoni, tutti scrittori che Bioy apprezzava. Solo Bioy poteva dire a Borges che alcune delle storie che quest’ultimo amava erano anch’esse troppo sanguinarie, troppo brutali, troppo disumane. Borges accettava le opinioni di Bioy, anche se rimaneva fermo sulle sue posizioni. Non l’ho mai sentito sposare con altrettanto rispetto le opinioni di qualcun altro.
Bioy era intelligente, convincente, affascinante, discreto, instancabilmente curioso del mondo circostante, dolorosamente consapevole del deterioramento portato dall’età. Confessò che amava tre cose sopra ogni altra: i libri, le donne e la terza non riusciva a ricordare quale fosse. Sentiva che la maturità che aveva gradualmente raggiunto come scrittore (non avrebbe mai parlato di “maturità”, gli sarebbe sembrata una vanteria: semmai di “mestiere”) era stata ottenuta al prezzo delle qualità fisiche che ne avevano fatto un formidabile seduttore fin dalla sua avvenente adolescenza. I suoi diari (pubblicati postumi) rivelano un successo sbalorditivo nelle conquiste amorose: disse una volta che le 10.000 donne con cui il priapeo Simenon diceva di essere andato a letto nel corso della sua vita non lo impressionavano, perché lui probabilmente aveva superato quella cifra. Ammirava Lord Byron, con cui sentiva di avere un’affinità fraterna tanto nella scrittura quanto nelle gesta amorose: nella visione di Bioy, si trattava di attività egualmente creative.
Quando lo vidi l’ultima volta, circa una settimana prima che morisse, reso zoppo da una caduta, diceva che gli mancava il fatto di non poter più viaggiare, andare in città straniere e conoscere nuove persone. A differenza degli scrittori che si accontentano del mondo sulla pagina (come Borges), Bioy apprezzava in egual misura il mondo in carne e ossa e il mondo in vetro e pietra. «Ogni volta che incontri una nuova persona inventi un nuovo personaggio», diceva. «E ogni posto nuovo ha qualcosa di un romanzo nuovo, non importa se scritto bene o male».
María Kodama, la donna che Borges scelse di sposare poco prima di morire, non nascose mai il suo odio verso Bioy, forse perché, in onore all’amicizia intima che intercorreva fra i due uomini da decenni, María veniva trattata come un’intrusa. (È gratificante leggere in quest’ottica il racconto di Borges dal titolo L’intrusa).
María probabilmente diffidava di chiunque potesse vantare dei diritti su Borges. Di sicuro la sua possessività, almeno in parte, era giustificata: era lei che aveva accompagnato ovunque lo scrittore, sempre più debilitato, durante gli ultimi anni, era lei che aveva lottato contro truffatori ed editori senza scrupoli per difendere i diritti letterari di Borges, era lei che aveva passato le notti insonni a vigilare sul grande scrittore mentre moriva a Ginevra, la città dove aveva scelto di trascorrere i suoi ultimi giorni. Bioy sosteneva che la decisione di lasciare Buenos Aires non era stata di Borges ma di María, ma era insincero da parte sua: nessuno era mai riuscito a far fare a Borges qualcosa che non voleva fare, era una delle persone più cocciute che abbia mai conosciuto. Ma perdere, per qualsiasi ragione, il suo affezionato e famoso amico era qualcosa che faceva soffrire Bioy.
María Kodama ora accusa Bioy di essere stato un codardo, sia in politica che nei rapporti personali. Al di là dell’odio che prova verso di lui, è un’accusa senza fondamento. Come una manciata di intellettuali argentini che hanno rifiutato di piegarsi al populismo, Bioy non ha mai strizzato l’occhio al regime peronista, ai simpatizzanti nazisti o ai fanatici comunisti. Non era uno da proteste di piazza, ma le sue opinioni etiche sono sempre state chiare. Quanto a comportamenti codardi nella sua vita privata, solo quelli che ne hanno fatto le spese possono sapere la verità. E nessuno, a quanto ne so, ha confermato le accuse di María.
Fortunatamente (per i lettori) le biblioteche non sono fatte dei pettegolezzi, dei vituperi o degli elogi ammonticchiati sui fantasmi degli scrittori. I libri che si lasciano dietro non vengono ricordati o dimenticati per la personalità e l’etica dei loro creatori. Degli scrittori che amo sono pochi quelli che hanno condotto vite senza macchia: Dante (secondo Boccaccio) era orgoglioso e ambizioso; Torquato Tasso era follemente suscettibile alle offese; Goethe voleva insegnare a suo figlio a giocare con una ghigliottina giocattolo; Verlaine prendeva a calci nello stomaco la moglie incinta; Virginia Woolf, quando venivano a cena i suoceri, diceva al marito Leonard: «Da’ da mangiare agli ebrei!»; Proust si divertiva a tormentare dei ratti in gabbia conficcandogli degli aghi nella carne; George Orwell tradì i suoi amici comunisti sul letto di morte; J. R. Ackerley amava masturbare il suo cane. Ma i libri, curiosamente, non sono influenzati dalla condotta degli autori, e se chi legge Céline o Heidegger si sente invadere da una sorta di nausea, dopo un po’ passa, o quantomeno alla fine non induce a condannare l’opera in sé e per sé. Nel mio lungo (anche se intermittente) rapporto con Bioy, ho imparato a conoscere un uomo generoso con i giovani aspiranti scrittori, un conversatore brillante, un lettore appassionato, uno scrittore autore di romanzi fantasiosi e ancora più bravo a scrivere diari e lettere. È così che lo ricordo.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 26.11.12
Il cosmopolitismo inizia dal basso
Identità culturali e capacità linguistiche

La lezione di Arjun Appadurai

Il cosmopolitismo tende a essere considerato una pratica strettamente connessa all’identità culturale e all’auto-miglioramento individuale. Di conseguenza non viene spesso collegato alla più vasta economia politica di diritti, risorse e riconoscimento. Questa, però, è una visione ristretta del cosmopolitismo. Infatti, tra i molti modi in cui, in particolare nelle democrazie multiculturali, ai poveri viene negato l’accesso ai benefici della partecipazione, c’è la loro esclusione sia dalle istituzioni che si occupano di educazione, carriera e specializzazione, sia dalle opportunità di accrescere la consapevolezza delle proprie possibilità di sviluppo personale. (...) Pensiamo ai vari tipi di pratiche attraverso le quali gli abitanti degli slum si sforzano di allargare i propri orizzonti culturali, a cominciare proprio del loro stesso mondo all’interno di Mumbai. Tali pratiche richiedono loro di immaginare la realtà quotidiana, e i
presupposti della loro stessa sopravvivenza e sicurezza, fin dall’inizio e in ogni momento, in uno spazio multilingue e multiculturale. Ciò è dovuto al fatto che in una città come Mumbai non è mai semplice separare lingua, casta e religione da questioni
di classe, potere e privilegio in termini di spazio. E neanche si possono delineare chiaramente i confini fra l’una e l’altra di tali differenze, per cui può accadere che i propri pari siano, in un modo o nell’altro, familiari culturali, mentre le autorità siano invece “gli altri” dal punto di vista culturale. Una qualsiasi differenza è sia orizzontale che verticale e i poveri (otto milioni, va ricordato) sono divisi fra loro in termini di lingua, religione e casta così come ciascuno di essi potrebbe esserlo dagli altri otto milioni di abitanti di Mumbai più benestanti di lui. Quindi: tutte le transazioni culturali richiedono una negoziazione e tutte le negoziazioni hanno una dimensione culturale.
La lingua è l’arena più visibile (e udibile) per tale negoziazione, ma serve anche come esempio di altri campi in cui si esplica la differenza, quali la regione d’origine, la religione o la casta, nessuna delle quali è irrilevante per i poveri delle aree urbane, per quanto indigenti possano essere.
Per questi motivi, la lotta per allargare i propri orizzonti culturali, dal punto di vista linguistico o altro, è non opzionale, e anche questo sotto due aspetti. È obbligatoria nell’ambito dello sforzo per costruire solidarietà orizzontali (...), ma è obbligatoria anche nel contesto dei loro sforzi per trattare con la polizia, le banche, le autorità municipali e le classi medie che dominano la politica cittadina. E, cosa più importante di tutte, in una società democratica, ampliare i propri orizzonti culturali è obbligatorio per i poveri delle città perché raramente la lingua delle politiche democratiche di massa è unica per tutti i partiti politici, i candidati e i collegi elettorali, specialmente in città come Mumbai. (...) La natura obbligatoria del cosmopolitismo per i poveri dei contesti urbani fa sì, però, che esso sia una risorsa più affidabile per le pratiche di democrazia profonda. La democrazia profonda è la democrazia più prossima, più a portata di mano, la democrazia del quartiere, della comunità, delle relazioni di sangue e dell’amicizia, che si esprime nelle pratiche quotidiane della condivisione delle informazioni, della costruzione delle abitazioni e dei servizi igienici, e del risparmio (visto come base su cui fondare una federazione all’interno di questo network globale). La democrazia profonda è la democrazia della sofferenza e della fiducia; del lavoro e della difesa dello slum (dalla demolizione e dall’evacuazione) ; del microcredito; e soprattutto del riconoscimento quotidiano, in tutte le attività organizzate all’interno di queste comunità, che le donne sono la fonte più vitale del senso di continuità e di comunità, la fonte della pazienza e della saggezza nella lotta quotidiana per mantenere la sicurezza a dispetto del senso di crisi e minaccia proveniente da molte direzioni. La democrazia profonda precede gli eventi che accadono nell’urna, durante la corsa elettorale e negli uffici governativi, ma dà loro sostegno ed energia. (...) La democrazia profonda è una democrazia pubblica in quanto interiorizzata nella linfa vitale delle comunità locali e divenuta parte, a livello locale, dell’habitus, nel senso reso celebre da Pierre Bourdieu.