martedì 27 novembre 2012

l’Unità 27.11.12
La sfida ricomincia da 9
È il distacco tra il segretario (44,9%) e il sindaco (35,5)
Al ballottaggio con 290mila voti di differenza
Il leader democratico: ora basta dire «noi» e «loro»
Vendola: non voterei mai Matteo ma Bersani ci convinca
Bersani: basta slogan si vota sul premier
Il leader Pd su Vendola: «Con lui ci sono assonanze»
«Domenica si sceglie chi è in grado di costruire attorno a sé un’alleanza capace di vincere, quello più credibile»
di Simone Collini


«Al primo turno si può anche votare per dare un segnale di un certo tipo, per far capire che la richiesta di rinnovamento è forte, ma al secondo turno no, si sceglie il presidente del Consiglio, quello in grado di costruire attorno a sé un’alleanza in grado di vincere le elezioni, quello più credibile e con la necessaria esperienza per governare». È questo il ragionamento che rassicura Bersani circa l’esito della sfida di domenica con Renzi, più dei trecentomila voti di vantaggio da cui parte, più anche dei segnali che arrivano dagli altri competitor ora usciti di scena, a cui pure guarda con attenzione, come dimostrano le parole riservate al rapporto con Sel: «Con Vendola non stiamo aprendo tavoli o tavolini. Ci sono però degli evidenti punti di assonanza, per esempio su scuola, centralità del lavoro, diritti. Sono cose precise su cui c’è convergenza. Si parla di politica, non stiamo facendo bilancini o Cencelli».
Il leader del Pd giocherà questo finale di partita mantenendo il profilo del candidato con maggior esperienza e capacità di costruire una coalizione coesa attorno a un progetto di governo. E poco male se Renzi insisterà nell’utilizzare l’espressione «usato sicuro», nel rivolgersi a lui. Sono altre le parole più offensive, o ambigue, che ha sentito pronunciare dal sindaco di Firenze. Come quel dire «abbiamo sfondato nelle regioni rosse», che sa tanto di «linguaggio berlusconiano». O come quel «mettete più seggi al secondo turno». Dice Bersani incontrando i giornalisti a Piacenza prima di andare a Milano per essere intervistato da Fabio Fazio a “Che tempo che fa”: «Con Matteo ci siamo mandati dei messaggini scambiati gli auguri. Certo, lui ha sempre questo difettuccio di dire “noi e loro”. Ma noi siamo noi, tutti noi, loro è Berlusconi, è la destra. Però sono sicuro che si correggerà. Non c’è bisogno di fuoco amico, gli avversari non ci mancano».
Renzi non si corregge e anzi poco dopo, a distanza, ribadisce il concetto. Bersani che incrociando poco dopo il sindaco di Firenze dietro le quinte di “Che tempo che fa” lo abbraccia dicendogli «dai che stiamo andando alla grande, siamo al 33%, non roviniamo il clima» è convinto che Renzi imposterà il resto della sua campagna continuando da un lato a insistere sul tasto del rinnovamento e, dall’altro, provando a sottrargli consensi lavorando a rafforzare il proprio fronte sinistro, su cui finora si è mostrato carente. Una strategia che il leader del Pd conta di smontare fin da subito.
IL CAMBIAMENTO E LE CHIACCHIERE
«Il cambiamento non si fa a chiacchiere», scandisce infatti nel corso della conferenza stampa convocata a Piacenza per commentare il risultato del primo turno delle primarie. «Il cambiamento non è fatto di slogan ma di coraggio e di saper dove mettere le mani. Bisogna che avvenga su dei fatti, accettando le sfide. Credo di avere l’esperienza e anche la determinazione per andare avanti su una strada di cambiamento di cui il Paese ha bisogno».
Coraggio e determinazione, che Bersani può rivendicare ricordando che è stato lui a volere le primarie, a chiedere di modificare lo statuto del Pd per permettere a Renzi di correre, a insistere (con il sindaco di Firenze che era contrario) perché ci fosse il ballottaggio nel caso nessun candidato ottenesse la maggioranza assoluta. «Se non ci fosse stato avrei già vinto. E invece si va fino in fondo, perché il processo democratico deve legittimare il candidato dei progressisti con oltre il 51%».
Bersani, che domani avrà un confronto televisivo “all’americana” con Renzi su Rai 1, ora riparte con in tasca un risultato che giudica «assolutamente incoraggiante», cioè con 9,4 punti percentuali di vantaggio (290.200 voti) e arrivato primo in 17 regioni, contro le 3 di Renzi. «Dice che avevo dalla mia l’apparato di partito? Strano, ho vinto nelle grandi città, dove c’è molto voto di opinione, non l’apparato, il partito con la falange».
Renzi, che vuole siano pubblicati on line i verbali di tutti i novemila seggi, ora chiede di riaprire le iscrizioni e di rendere possibile a chiunque di registrarsi fino a domenica. Bersani, a cui non piace che Renzi dica «si parte da zero a zero» («non mi sembra felice visto che hanno votato in 3 milioni) evita di entrare nella discussione, demandando ogni decisione al comitato dei garanti e invitando a «non mettere briciole di problemi in questa grandissima giornata»: «Ci sono i garanti, noi siamo gente per bene». Nel fronte che sostiene il segretario si insiste però sul concetto che la platea elettorale non può essere modifica, se si vogliono evitare infiltrazioni.
Quanto all’appoggio degli altri candidati non arrivati al ballottaggio, i segnali che arrivano da Tabacci («Bersani è più affine al mio modo di pensare») e da Vendola («mi impegnerò perché Renzi non vinca») fanno ben sperare. Ma l’obiettivo è incassare i voti dei loro elettori, in particolare quelli di Sel. Non a caso, una tappa in Puglia è già stata organizzata.

l’Unità 27.11.12
Le città col segretario «Il nuovo senza strappi»
Da Milano a Genova, da Roma a Napoli il «voto d’opinione» in gran parte al leader Pd
Piepoli: come Mitterrand dà un’idea di serenità
di Maria Zegarelli


Ci vorrà qualche giorno di lettura attenta del voto, dei flussi, dell’età di chi ha votato chi, ma intanto un dato sembra evidente: nelle grandi città, da Milano a Roma, da Napoli a Catanzaro, da Palermo a Cagliari a Genova, la maggioranza del popolo di centrosinistra alla primarie ha votato per il segretario Pier Luigi Bersani. Da Nord a Sud, eccezion fatta per Firenze città del sindaco Matteo Renzi e Bari, dove ha spopolato il governatore pugliese Nichi Vendolail cosidetto «voto di opinione» ha già dato un’indicazione chiara. Se il sindaco espugna molte città considerate rosse, tanti Comuni dell’Umbria governata dalla bersaniana Catiuscia Marini e molti Comuni della Toscana e delle Marche, il segretario conquista terreno soprattutto nel Sud, nel Lazio, in Abruzzo a L’Aquila lo scelgono il 45,6% degli elettori contro il 30 che opta per Renzi. Qui, nelle zone colpite dal terremoto hanno avuto un peso la presenza costante e le battaglie fatte dal segretario e dal Pd al fianco dei cittadini e del sindaco, contro la propaganda del governo Berlusconi che si è tradotta in una bolla mediatica e che ancora oggi grida vendetta.
Diversa la lettura delle altre città come Cagliari, Genova, Milano, Napoli, Catanzaro. Il sondaggista Nicola Piepoli dice che ci «vorrebbe una bella ricerca motivazionale» per capire cosa ha spinto gli elettori a scegliere un candidato anziché un altro. Eppure un’idea di massima se l’è fatta, grazie al lavoro di alcuni suoi collaboratori che domenica hanno seguito le primarie del centrosinistra andando nei seggi e parlando con gli elettori. Se per l’elettore renziano è complicato definire un archetipo, «un mio collaboratore ha lavorato su 800 di loro e non è riuscito a definire un profilo comune», è tutto sommato possibile comunque definire la percezione che hanno del messaggio che arriva dal proprio leader di riferimento. «Potremmo dire spiega che Bersani ricorda Mitterrand, “una forza tranquilla per il futuro”, mentre Renzi ha un approccio più Garibaldino, un inventore del futuro che dice ai suoi elettori “creiamolo insieme”. Un messaggio questo molto giovane eppure non attraente per tutti i giovani che in tanti hanno votato anche per il segretario». Bersani rappresenta per larga parte del voto di opinione la garanzia del cambiamento senza strappi e duratura nel tempo, in grado di guidare un governo per cinque anni anche durante un momento di crisi italiana e europea così acuta, mentre Renzi rappresenta un salto verso il futuro anche a costo di rompersi qualche costola.
Renato Mannheimer dice di non aver ancora guardato i dati e dunque preferisce non sbilanciarsi, come non si sbilancia Nico Stumpo, responsabile organizzazione del Pd, che spiega mentre sta per andare alla riunione del Coordinamento delle primarie: «Lo faremo con calma, adesso dobbiamo pensare al ballottaggio».
Prova a leggere il dato umbro, con un occhio particolare a Perugia, dove Renzi ha preso il 47,3% mentre il segretario si è fermato al 40,5%, Walter Verini, deputato Pd schierato con Bersani: «Intanto sfatiamo il luogo comune della Regione rossa perché in Umbria i Comuni in mano al centrodestra non sono afffatto pochi, da Orvieto a Montefalco, Bastia Umbra, la stessa Todi fino a 5 anni fa. In Umbria i segnali al gruppo dirigente ci sono da tempo, queste primarie non sono state che l’ultimo. Il messaggio al corpo dirigente è quello di dare un ulteriore segnale di innovazione e cambiamento».
Se l’Umbria e la Toscana sono state le note dolenti del segretario, tutta altra musica nelle città del Sud e delle Isole. Alfredo D'Attorre, commissario Pd della Calabria, definisce il risultato complessivo della Regione (Bersani al 54,7% contro il 22,7% di Renzi) «un risultato all'insegna dell'impegno dei gruppi dirigenti, ma anche di una spinta molto forte venuta dai territori, da tanti giovani dei gruppi dirigenti che abbiamo rinnovato con i congressi di circolo e con una rete di validi amministratori. In Calabria Vendola, con il 16,5%, è sopra la media nazionale mentre Renzi è al di sotto. Penso che, come nel resto d'Italia, a maggior ragione in Calabria vi sia un naturale terreno di convergenza degli elettori di Vendola con la proposta politica di Bersani che usa come parole chiave come lavoro, moralità, uguaglianza e Mezzogiorno». «Un voto ottimo, se togliamo Firenze che ha una situazione particolare, è arrivato da tutte le grandi città. Un voto rilevante da Nord e Sud e la risposta del Sud mi ha fatto piacere», commenta infatti il segretario Pd durante la conferenza stampa di ieri».
Diversa la lettura che ne dà Beppe Fioroni: «Soprattutto nelle grandi città del Sud si vince perché il Pd da di sé un’immagine plurale molto attenta alla sofferenza e ai bisogno degli ultimi e all’istanza di moralità e di cambiamento e al coraggio delle scelte che Bersani ha incarnato e non ha aiutato di certo Renzi il fatto che nel suo libroprogramma “Stil nuovo”, il Sud e i suoi problemi siano completamente assenti come gli amministratori del Sud non hanno dimenticato la sua avversione a che un sindaco di area metropolitana del Sud per la prima volta guidasse l’Anci essendo tutti gli organi del centronord». Il riferimento di Fioroni è all’elezione di Graziano Delrio per la quale si spese in maniera molto determinata contro il Sud che aveva come candidato Michele Emiliano. «Per quanto riguarda le aree metropolitane del centronord la partecipazione è stata caratterizzata da una valutazione dei progetti e soprattutto della prospettiva di vincere le secondarie scegliendo l’efficacia e la capacità ma anche l’equilibrio di chi sa tenere assieme una squadra composita».

l’Unità 27.11.12
Il Sud premia Bersani. Convince l’alleanza di governo con Sel
di Mario Castagna


Dei 300 mila voti di scarto tra Bersani e Renzi, ben 200 mila sono frutto del successo che il segretario democratico ha avuto nelle regioni meridionali, le stesse dove Nichi Vendola ha avuto il suo successo maggiore e ha bloccato la vittoria di Bersani al primo turno.
Sono diverse le regioni che vedono Pierluigi Bersani in testa, spesso con risultati al di sopra della maggioranza assoluta. In Calabria, in Campania, in Sicilia, in Basilicata ed in Sardegna il segretario democratico raggiunge sempre la soglia del 50%, con un risultato omogeno in tutte queste regioni. E il voto meridionale è un orgoglio rivendicato anche in conferenza stampa da Bersani che ha raccontato del suo viaggio tra le meraviglie e le debolezze del nostro Mezzogiorno. Un Meridione che potrebbe rivelarsi l’arma vincente in vista del ballottaggio del 2 dicembre, quando Nichi Vendola chiederà, molto probabilmente, di votare per lui. Dimostrazione che il legame tra Sel e Pd è molto più che un’alleanza elettorale ma un’esperienza di governo che ormai è un modello per diverse città del Meridione.
In Puglia è infatti Vendola ad arrivare secondo con poco più del 30% dei voti (a fronte del 36% circa che ha raccolto Bersani) mentre terzo si piazza Renzi, con poco più del 20%. Il rapporto di governo tra Sel e Pd è quindi un’alleanza consolidata che viene premiata, e non rottamata, dagli elettori del centrosinistra.
Un’analoga situazione si trova a Cagliari dove il sindaco Zedda, vincitore a sorpresa delle primarie, è oggi il sindaco di Sel sostenuto anche dal Pd. Anche qui è il segretario democratico ad arrivare primo, addirittura con più del 50% dei voti, seguito da Vendola che raccoglie circa un quarto delle preferenze: anche qui esce fuori un modello di governo premiato dall’elettorato.
Ci sarà bisogno di qualche giorno per fare analisi più ragionate sul successo che Bersani ha avuto nel Meridione. Pensare che sia solo espressione di un apparato che blocca gli elettori piuttosto che emanciparli è frutto di una lettura fuorviante. Non sarebbe stato altrimenti possibile il risultato di Catanzaro, dove il giovane candidato sindaco del Pd e sostenitore di Bersani, Salvatore Scalzo, 29 anni e un curriculum di studi ed esperienza lavorative per la maggior parte all’estero, ha mobilitato migliaia di giovani in questa competizione elettorale. Dopo il ricorso contro i brogli avvenuti alle ultime elezioni amministrative in alcune sezioni elettorali di Catanzaro, i giovani attivisti democratici hanno continuato la loro battaglia fino a vincere il giudizio dei fronte al Tar. E ieri, facendo vincere Bersani con circa il 60%, hanno dimostrato cosa significhi concretamente il cambiamento che il segretario Pd sta cercando di costruire nelle regioni del Sud.
In Basilicata troviamo la percentuale maggiore a sostegno di Bersani. Ben il 56,4%, premiato anche dall’impegno che il segretario regionale dei democratici, Roberto Speranza, ha profuso sinora nel comitato nazionale a sostegno di Pier Luigi Bersani. La piccola regione meridionale merita ancora una volta il titolo di «regione rossa del Sud».
L’affluenza ai seggi nel Meridione è stata poco al di sotto delle aspettative. Niente valanga di voti, quindi, capaci di pregiudicare la vittoria di questo o quel candidato, ma un risultato in linea con l’affluenza delle altre regioni.
Gli elettori meridionali saranno alla fine circa 800 mila, un dato più che giustificato dalla demografia del nostro Mezzogiorno. Questa volta quindi sarà difficile accusare Bersani di vincere solo con i voti del Sud. Se avverrà sarà non solo frutto della quantità di voti, ma anche dalla qualità di una proposta figlia di un nuovo impegno meridionalista del Partito democratico. Dopo molti anni di abbandono, anche grazie alle vittorie avvenute in Puglia, il meridione può tornare protagonista dello scenario politico nazionale.

l’Unità 27.11.12
Miguel Gotor: «Con Bersani per riunire partiti e società»
«La vera notizia è il grande successo delle primarie reso possibile da centomila volontari: altro che apparati contro cittadini. È l’ora di uno sforzo comune»
«La ricostruzione civica è già in atto, a cominciare dalla lotta per la legalità e contro la mafia»
di Francesco Cundari


ROMA «La notizia secondo me è il grande successo delle primarie», dice Miguel Gotor, storico dell’età moderna ma anche autore di diversi saggi su Aldo Moro e l’Italia degli anni Settanta, da mesi impegnato a sostegno della candidatura di Pier Luigi Bersani alle primarie, pur senza essere nemmeno iscritto al Partito democratico. «È un grande successo delle primarie come strumento di rilegittimazione di una politica ferita, per ricostruire un rapporto che non è stato mai così difficile nella storia repubblicana tra cittadini e istituzioni, società e democrazia rappresentativa. Primarie che sono state fortemente volute da Pier Luigi Bersani proprio con questa finalità».
Un successo dei gazebo contro le sezioni, dell’apertura alla società civile contro la chiusura degli apparati?
«In primo luogo, è stato un successo dovuto all’impegno di centomila volontari. Ma il punto è che in questi anni abbiamo avuto un discorso pubblico subalterno al berlusconismo, tutto impostato sulla contrapposizione tra partiti e società civile: i partiti come ferri vecchi di un Novecento perduto da un lato, dall’altro una società civile come la rosa del Piccolo principe, che sboccia ogni giorno nuova. Le cose non stanno così e lo dimostra proprio il successo delle primarie. Un successo che rivela come un partito consapevole dei propri limiti e capace di assumersi dei rischi è in grado di trasformarsi in infrastruttura di civismo e rinnovare l’offerta politica. Io resto convinto del fatto che con meno di questo non saremmo andati, e non andremmo, da nessuna parte».
Ma le primarie non sono anzitutto uno scontro tra due leader, un plebiscito, un confronto estremamente personalizzato. Nella retorica dei gazebo come alternativa al partito personale non c’è anche una qualche contraddizione?
«Le primarie non sono un fine, ma uno strumento. È evidente che in Italia, soprattutto in un certo mondo della comunicazione, c’è un diffuso desiderio di americanizzazione senza America, che inneggia alla competizione a parole ma nei fatti non vuole la concorrenza e non disdegna familismo e corporativismo. In questo quadro accolgo il rilievo: è chiaro che la sfida delle primarie espone anche a simili rischi, ma i vantaggi mi paiono largamente superiori ai costi. E il vantaggio principale è un sangue che ritorna in circolo e rivitalizza il corpo lesionato della democrazia italiana. Guai a fare delle primarie un’ideologia: sono un passaggio, uno snodo decisivo, necessario ma non sufficiente».
Non sufficiente per cosa?
«Io ho fatto una settantina di iniziative in tutta Italia: ho visto un Paese inquieto, impaurito, che ha bisogno di rassicurazione e di unità. Non è stato facile usare la parola “politica”, con questo clima, nell’Italia di oggi. È stato un esperimento molto interessante».
E cosa ne ha ricavato?
«Ne ho ricavato che tra gli italiani, accanto a una voglia evidente di rovesciare il tavolo, c’è anche voglia di ricostruzione, speranza, solidarietà. Dico tra gli italiani, e non soltanto tra i militanti, perché su circa settanta iniziative ne avrò fatte tre o quattro in sedi di partito. Ho attraversato l’Italia da Nord a Sud e quello che ho sentito di più nettamente è stata questa domanda di rassicurazione, attenzione: sia in quelli che ci danno fiducia, sia in quelli che vogliono rovesciare il tavolo. Tutti sono turbati: per il lavoro, per il futuro, per la mancanza di punti di riferimento. E questa percezione l’ho avuta soprattutto nelle grandi città. E penso che sia per questo che Bersani è andato meglio in quasi tutti i grandi centri». Qual è stato il suo ruolo in questa campagna?
«Ho un rapporto di fiducia e stima nei confronti di Bersani, a giugno mi ha chiesto di dargli una mano e ho accettato. Non sono iscritto al Pd, ho quarantuno anni, negli ultimi venti ho sempre studiato. Per me è stata un’esperienza molto bella e faticosa, ho fatto un viaggio attraverso l’Italia per far vedere che la ricostruzione civica non solo era possibile, ma si stava facendo. Penso per esempio all’iniziativa che abbiamo fatto a Villa Briano, in un bene confiscato alla mafia, come simbolo di un impegno per la legalità che è la base di ogni possibile ricostruzione».
Uno studioso prestato alla politica?
«La definizione non mi piace. La politica è un’arte che ha i suoi tempi e i suoi codici, che è bene restino autonomi rispetto a quelli dell’attività di ricerca e studio. Non credo agli intellettuali di partito né ai partiti degli intellettuali». Vuol dire che intende tornare ai suoi studi?
«Non ho mai smesso, anche se certo negli ultimi mesi ho dovuto rallentare un po’. In questi giorni, per esempio, sto curando un’introduzione a una raccolta di scritti di Enrico Berlinguer che devo consegnare all’editore giusto il 2 dicembre (giorno del ballottaggio, ndr), e sto lavorando anche a una voce sull’eretico cinquecentesco Bernardino Ochino per il dizionario biografico degli italiani».

il Fatto 27.11.12
Toni bassi e big fuori: obiettivo riportare tutti ai gazebo
Bersani ostenta sicurezza, cerca i voti di Sel, avverte: “Io sono il cambiamento, non a chiacchiere”
Molta tv per l’ultima settimana, nessuno spin doctor
di Wanda Marra


Roma Tutto sta andando come una biglia che scorre”. Questa volta la metafora la conia Miguel Gotor, intellettuale di riferimento, della cerchia più stretta di Pier Luigi Bersani. Il giorno dopo i bersaniani ostentano sicurezza, forti dei quasi 10 punti di differenza finali. Nonostante le incognite di un altro voto. Si devono riportare tutti ai gazebo, conquistare i consensi degli altri: se - ipotesi di scuola - si calcolassero i votanti al primo turno servirebbero a Bersani qualcosa meno di 1 milione e 600mila voti. Dunque, il segretario andrà avanti sulla falsariga della campagna condotta fino ad ora. Fair play, toni bassi, ma volontà di ferro e attacco deciso nella sostanza. “Aborro gli effetti speciali”, ha detto ieri sera da Fazio.
ALLE 15, appare in conferenza stampa da Piacenza. Anche stavolta in maglioncino (marrone), rigorosamente ed da solo (a ribadire che la battaglia è la sua, che se la gioca lui). Si presenta come “il cambiamento, non a chiacchiere”. Dice che Renzi la deve smettere di usare “il noi” e “loro” perché loro è Berlusconi. Poi, gli riconosce “un’energia che rimarrà”. Ne ha per Grillo, con il quale “bisogna dialogare su questioni, come la sobrietà della politica”, mentre condanna la sua uscita “sprezzante” sulle primarie. Soprattutto su Vendola dice: “Abbiamo delle convergenze, abbiamo lavorato per costruire la carta che fissa i paletti programmatici. Non stiamo aprendo tavoli e tavolini, non stiamo facendo bilancini”. Un modo per dire esplicitamente quello che tutti i suoi stanno ribadendo: in questa fase non ci sarebbe una trattativa vera e propria. Bersani, che gestisce in proprio i rapporti con Vendola, non vuole dargli altre assicurazioni sui contenuti (tipo un no più deciso all’Agenda Monti): rimane in piedi l’idea di fare un’alleanza con Casini. Certo, i voti gli servono: ne ha presi 1.393.000, 290.200 più di Renzi, Vendola ne ha 485.158. Ma nessuno è in grado di spostare in blocco i voti dei suoi, tanto più un voto d’opinione come quello. Tanto più che Vendola si esprimerà comunque per Bersani. In gioco c’è la sopravvivenza stessa di Sel, che appare più garantita dal segretario. Come, a livello di liste e di posti, si vedrà, meglio dopo la legge elettorale. Anche i voti di Puppato e Tabacci dovrebbero convergere su Bersani. Niente è automatico.
IERI si sono susseguite riunioni e telefonate tra i bersaniani. Questa settimana ci sarà molta televisione: domani c’è il confronto tv, giovedì Bersani va Porta a Porta; sabato Renzi insiste per accettare l’invito di Mentana: Pier Luigi non vuole, ma chissà che non ceda. Bersani ha perso in Toscana, Umbria e Marche. In queste due ultime regioni c’è andato ieri il Responsabile Enti Locali, Davide Zoggia. Il segretario dovrebbe andare in Toscana e in Puglia. In alcune zone verranno mandati giovani fidati come Stefano Fassina e Andrea Orlando a discutere con i territori. Neanche in vista di una settimana televisiva Bersani cederà a una preparazione “professionale”. Niente spin doctor ad hoc. Discuterà con il suo staff, soprattutto Stefano Di Traglia e Chiara Muzzi, ascolterà i consigli di quelli che gli stanno vicino, poi con gli appunti, ci ragionerà da solo (magari davanti a una birra, come è già avvenuto e universalmente immortalato). Da solo è la parola chiave: i big - a parte la Bindi e qualche battuta di Massimo D’Alema - tacciono tutti, improvvisamente fuori dai radar, consapevoli che in questo momento esporsi può essere un danno a loro stessi e al loro leader. Che peraltro rispetto a loro ha preso forza e non ci sta a farsi condizionare. La paura ulteriore è che Renzi, se perde le primarie, punti al Pd e faccia fuori tutti. Bersani a una domanda di Fazio ieri sera se la cava così: “Il partito dev’essere un’infrastruttura del civismo”.

La Stampa 27.11.12
Bersani dice cose di sinistra per sedurre Nichi e i suoi fan
Il segretario prende le distanze da Monti e prepara una trasferta in Puglia
di Carlo Bertini


La sfida Bersani-Renzi è già un ebook de La Stampa, scaricabile a 0,99 euro per tablet e smartphone Tutti i dettagli su lastampa.it/ebook Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani
Obiettivo numero uno, conquistare Vendola e i suoi voti, per cui dire, e fare, cose di sinistra. Numero due, portare a votare per la seconda volta i propri aficionados senza defezioni. Numero tre, non sbagliare un colpo da qui a sabato, pizzicando Renzi, ma con garbo. Esorcizzando qualunque ansia da sconfitta. Sotto una pioggia nebulizzata, Pier Luigi Bersani spegne il suo mezzo toscano e lo posa sul bordo di un camioncino, prima di salire i tre scalini dell’albergo dove al settimo piano lo aspettano i cronisti. E la fiducia di ritrovare quel sigaro per poterselo poi finire in pace è totale, la stessa che nutre di vincere il ballottaggio e potersi poi dedicare alla lunga regata verso Palazzo Chigi.
«Io non riesco proprio ad aver paura, non è presunzione, è un fatto cromosomico. Finirà come deve finire», azzarda il segretario Pd, forte dei sondaggi che lo danno vincente al doppio turno 55 a 45, senza colpi di scena. Prima di infilarsi in ascensore ride di gusto quando gli dicono che Nichi la prende larga, si è premurato intanto di far sapere che non farà un endorsement a Renzi.
Passo indietro: qualche ora prima, verso le undici, il gabinetto di guerra del leader si riunisce via Skype per pianificare tattica e strategia della settimana clou. Da Piacenza il portavoce Stefano Di Traglia, in contatto con casa Bersani, apre il pc e si collega con Roma, sede del comitato. C’è tutto lo staff, Moretti, Giuntella, Speranza, lo storico Miguel Gotor, uno dei consiglieri più ascoltati e Chiara Muzzi. Quindi, punto uno, prender le distanze da Monti che dice «il peggio è passato». E infatti Bersani poi lo critica anche da Fazio, «le sue parole sulla scuola sono uno schiaffo sbrigativo», dice dopo aver censurato quella cosa sulla crisi che è alle spalle: «Io non credo, l’effetto sulle famiglie sta arrivando ed è pesante». E comunque se vuole «ha tutti i diritti, ma non gli conviene mettersi nella mischia», lo avvisa. Punto due, fare il bonario con Renzi, e infatti Bersani «svela» che si son «mandati oggi sms d’amore, auguri, cose buone». Punto tre, dare un messaggio di cambiamento e rassicurazione. Ed è infatti un mix di rassicurazione e spontaneità la chiave di tutto, ma niente è lasciato al caso. Quando Bersani va da Fabio Volo e tra una battuta e l’altra si fa scappare tre volte «cazzo», è perché magari così cattura per un attimo i giovani... che magari apprezzano che anche Bersani dica le parolacce.
Dopo il primo giro di boa, il leader ritiene di non aver fin qui commesso errori, di aver indovinato il tono, le iniziative, i simboli e i luoghi dove è andato. Di esser riuscito a intercettare il voto di opinione, «abbiam vinto in tutte le grandi città...» e non solo quello d’apparato. Ora deve riuscire ad allargare il campo, a cominciare dagli endorsement degli altri candidati, i suoi uomini sanno che Nichi lo aspetta al varco e gli organizzano visite ad aziende in crisi, iniziative nelle periferie. La mission è precisa: fare e dire cose di sinistra, stare sui temi come lavoro, ambiente, diritti, politiche sociali e scuola; evitare un atteggiamento presuntuoso, fair play, attaccare solo se costretto; non cambiare slogan, «il coraggio dell’Italia» e veicolare il messaggio che chi vota sceglie il premier che guiderà il paese. Non eccedere in tv e calibrare il mix di apparizione sui media e territorio. Scegliere immagini simbolo, foto che parlino più di tante pagine di programma.
E nel day after in cui benedice il suo risultato, «ci avrei messo dieci firme quando siam partiti», allo sfidante lancia una rispostaccia, «noi siamo gente per bene e basta con questa polvere!», reagisce alzando la voce di fronte alla richiesta di Renzi di mettere on line i verbali dei seggi. E poi una pizzicata al suo «difettuccio», quel «tic di dire sempre noi e loro» che a Bersani fa venire l’orticaria. Perché al di là del fatto che «noi siamo noi, loro è Berlusconi», sentir dire a Renzi «la prossima volta mettete più banchetti ai gazebo» con l’aria di chi sembra un ospite nel Pd, fa venire forse un brividuccio alla schiena. Teme che tra una settimana questo clima di bon ton scompaia e magari Renzi si inventi qualcosa da solo o dia battaglia? Risponde con un proverbio padano, tradotto fa «quando ci son le difficoltà si litiga. Il problema è se si litiga quando non ci sono le difficoltà. Questo partito può vincere le elezioni e non conviene a nessuno assumersi la responsabilità di strappare...».
Gambe in spalla, al sud l’unica tappa sicura di questa settimana, in Puglia da Nichi. Alle malelingue garantisce «niente Cencelli o bilancini». Con lui ci sono «convergenze politiche», così le chiama Bersani.

Corriere 27.11.12
I sondaggisti: segretario avanti, ma il rivale può galvanizzare i suoi
Piepoli: risultato «assegnato»
L'Ipsos: parte dei vendoliani orientati al «fattore giovane»
di D. Gor.


ROMA — Sulle percentuali non si sbilanciano, perché fare sondaggi è una scienza, serve un lavoro lungo, complicato e costoso e i pronostici non si improvvisano né si elaborano senza che ci sia un committente.
Però la valutazione generale (e dichiaratamente generica) dei sondaggisti è che sarà Pier Luigi Bersani domenica prossima a vincere il secondo turno delle primarie del centrosinistra. «Come diciamo in gergo tecnico — spiega Nicola Piepoli, presidente dell'Istituto Piepoli — il risultato è "assegnato" a Bersani, e ci sarebbe da meravigliarsi se Matteo Renzi lo superasse. Naturalmente, tutto è possibile; ma, visti i grandi numeri di differenza tra i due, non sembra verosimile un esito diverso». Piepoli poi preferisce lasciarsi andare a racconti storici sui sondaggi, ricordando come sia stato un italiano «il primo al mondo, nel 1953, a mettere a punto una proiezione: era Celso Ghini, del Pci».
Renato Mannheimer, direttore dell'Ispo, condivide la previsione: «Sì, vincerà Bersani, forse 60 a 40, Gli esclusi dal primo turno collaboreranno alla sua vittoria». Ma poi anche qui c'è un ma: «Il rottamatore (Renzi, ndr) è un gran combattente. Ha perso il primo round con un sorriso e non si è arreso».
Il vantaggio per il segretario del Pd è fatto assodato e solido anche per la Swg. «Ma c'è anche la possibilità — dice Maurizio Pessato all'agenzia Adnkronos — che cambi la platea dei votanti: se Renzi galvanizzasse i suoi sostenitori e simpatizzanti, la partecipazione ai seggi potrebbe essere più massiccia». Un'ipotesi che dipenderà totalmente dalle regole del voto, e diventerà dell'irrealtà se avrà diritto alla scheda solo chi è già andato alle urne domenica scorsa.
Quel che davvero può far oscillare le percentuali riportate da ciascuno dei contendenti sono i voti dei tre candidati rimasti fuori dal ballottaggio. Lì le carte più forti le ha Nichi Vendola, e molti dei suoi hanno già fatto dichiarazioni a favore di Bersani. Ma — ancora ma — «una parte dell'elettorato di Vendola potrebbe essere orientato al cambiamento, al fattore giovane», commenta Luca Comodo dell'Ipsos. Dunque prudenza: i sondaggi sono una cosa seria.

Repubblica 27.11.12
Rivoluzionata la geografia del Pd azzerati big e vecchie correnti “Sì, abbiamo già cambiato pelle”
E il ticket Pierluigi-Matteo fa volare il partito nei sondaggi
di Giovanna Casadio


ROMA — La corrente dalemiana aveva la sua roccaforte in Puglia: non ce n’è più traccia. Di quella veltroniana è stata sancita la scomparsa la sera in cui Walter Verini, braccio destro di Veltroni, si recò alla riunione dei parlamentari bersaniani che stavano organizzando la campagna per le primarie. Chiese: «Posso partecipare?». Ma forse l’inizio della fine delle correnti del Pd va retrodatato, ancora un po’. Risale alla direzione di ottobre del partito, in cui un Bersani in trincea volle cambiare il codicillo dello Statuto, permettendo a Renzi di correre alle primarie. O è stato quando Veltroni ha detto in tv che tanto lui non si candidava in Parlamento, quindi la “rottamazione” aveva le armi spuntate. Oppure quando l’ha annunciato, sempre in tv ma su un’altra rete, anche D’Alema: «Non mi ricandido ma darò battaglia se Renzi vince».
Renzi non ha vinto alle primarie dell’altroieri, ma ha ottenuto quanto voleva: un secondo round in cui giocarsi il tutto per tutto. E il Pd che esce da questa sfida — in vista del ballottaggio di domenica prossima — ha già cambiato pelle. Per usare la definizione di un renziano (ex veltroniano), Paolo Gentiloni: «Ora esistono due campi: quello di Bersani e quello di Renzi. Non solo. Il risultato del primo turno delle primarie impone una specie di coppia di fatto, un ticket di fatto». Premier e vice premier? «Questo lo escludo, ma è doveroso che — chiunque vinca — Bersani e Renzi lavorino insieme. Un Pd che non avesse più le due facce tornerebbe alle percentuali del luglio scorso, del 25/26 per cento mentre ora è sopra il 32 per cento nei sondaggi».
Un Pd rinnovato, malgrado le resistenze. «Se vince Matteo sarà la rivoluzione, ma comunque abbiamo dato una bella mano a Bersani a fare il rinnovamento», commenta Marco Agnoletti, collaboratore del sindaco di Firenze, tra una riunione e l’altra a Saxa Rubra per preparare il duello tra i due, domani su Raiuno.
«Il vento non si ferma con le mani», è una delle frasi del gergo emiliano del segretario democratico. Infatti, sostiene Matteo Orfini, il cambiamento è ormai in atto. Orfini, “giovane turco” (cioè bersaniano rinnovatore), ex dalemiano è certo: «Sì, il Pd cambia pelle. Esce da queste primarie un gruppo dirigente diverso, si afferma il cambiamento». A Bersani proprio lui aveva chiesto di non coinvolgere, in un futuro governo di centrosinistra, chi già aveva fatto due volte il ministro.
Polemiche feroci. Peraltro, questo accadeva alla vigilia della festa del Partito democratico a Reggio Emilia, a settembre. Rosy Bindi chiese che le venissero porte le scuse. Bersani dal palco avvertì che «non bisognava mancare di rispetto» a chi tanto aveva dato e dava per fare grande il partito. Però accadde allora un altro fatto importante sulla strada della trasformazione del Pd: il segretario non volle sul palco, dove concludeva la festa, nessuno dei big: né Franceschini, né Bindi, né Fioroni, né D’Alema. Sul palco c’erano i volontari. C’era anche Stefano Bonaccini, il segretario regionale dell’Emilia Romagna che dava i dati della kermesse a parlava di programma. Dice adesso, Bonaccini: «Ci credo al rinnovamento, al partito che è cambiato ma non da oggi e non grazie a Renzi. Un esempio? Matteo Richetti, 35 anni, presidente dell’Assemblea legislativa dell’Emilia Romagna, ora renziano, l’abbiamo voluto noi. Io sono figlio di un camionista e di un’operaia, e sono diventato segretario del Pd a 33 anni con 200 mila voti».
Come dire, la trasformazione del partito arriva da quel dì. Non dovuta a quel “ragazzetto” di Renzi. Franco Marini, lo storico leader dei Popolari — pugnace almeno quanto Bindi e poco propenso a farsi “rottamare” — disse, proprio alla fine della direzione di ottobre, che non sarebbe certo stato il “ragazzetto” a mettere bocca nelle liste. Anche se Renzi perde, ormai il giro di boa c’è stato. «O sta per esserci», precisa cauto Orfini. Tuttavia, «se qualcuno dei vecchi dirigenti pensa che Bersani vince e loro tornano, ha sbagliato strada»: ragiona il renziano Gentiloni. Dove dovrebbe andare l’oligarchia democratica, in esilio? Scomparire per sempre? «Non dico che bisogna mandare in Siberia gli alti dirigenti, ma ci sono fasi in cui uno fa il presidente del Consiglio e fasi in cui si sta fra le seconde file», sostiene sempre Gentiloni, che del resto ha una sua ricca carriera politica alle spalle, e che sarebbe pronto a candidarsi come sindaco della Capitale. D’Alema e Veltroni «non sono scomparsi, non abbandonano la politica, solo la fanno in modo diverso», è l’osservazione dei bersaniani. Però sono scomparsi i dalemiani e i veltronani: questo è un fatto.
Né riuscirà facile ai franceschiniani, ai bindiani, ai fioroniani, agli stessi lettiani (gli amici del vice segretario Enrico Letta) che sono i più strutturati e ancora reggono, di sventolare le loro bandiere. A consigliare Bersani ci sono, e sempre più ci saranno, Paola De Micheli, Tommaso Giuntella, lo storico Miguel Gotor, il consigliere regionale dell’Emilia Romagna Miro Fiammenghi. Alessandra Moretti, vice sindaco di Vicenza, il segretario l’ha voluta portavoce del comitato per le primarie. Stefano Fassina, il responsabile economico del Pd, il più “gauchista” della squadra bersaniana, ha dato vita a infinite polemiche, ma il segretario l’ha sempre blindato. Poi ci sono Chiara Geloni, direttore di Youdem; Roberto Speranza, segretario del partito in Basilicata. Di nuovo Orfini: «Spero che Bersani vinca, ma è importante che ci sia il segno della discontinuità.
Bene se avanza la società civile, ma non quella dei salotti, bensì di chi si sta dannando in questa crisi. Si stanno facendo avanti i sindaci, gli amministratori locali».
Le primarie insomma sembrano essere state la cartina di tornasole di un processo già in corso, e Renzi il detonatore. «L’insieme delle correnti del Pd, nessuna esclusa — ricorda Gentiloni — non volevano in alcun modo queste primarie aperte. Alcuni l’hanno osteggiate in modo acceso, come Bindi, Fioroni, D’Alema; altri con toni moderati. Ogni giorno era una girandola di profezie di sventura: che una gara co più candidati democratici sarebbe stata uno spettacolo devastante, che ci saremmo guardati il nostro ombelico mentre il paese soffriva. Si sono sbagliati.
Bersani non si è fatto convincere». Renzi, si sa, ha nella “rottamazione” il suo vessillo e — dal primo appuntamento alla Leopolda nel 2010, quando ancora c’erano con il sindaco Pippo Civati e Sandro Gozi — ha individuato una nuova classe dirigente. Lo spartito del Pd è cambiato; la musica, si vedrà.

Repubblica 27.11.12
Il blogger Zoro: sogno un ticket tra i due sfidanti
“Non piacerà ai giovani ma il segretario si fa capire”


ROMA — Diego Bianchi in arte Zoro, blogger e autore tv si prepara a una sfida vera. «Per me la partita è aperta. Nel calcio come nella politica finchè l’arbitro non fischia tutto è possibile. E questa sfida non mi sembra così chiusa».
Sempre bersaniano?
«Sempre neutrale. Io stavo tra Vendola e Bersani, lì più o meno resto».
Quindi Bersani.
«Ma ci saranno dei vendoliani che voteranno Renzi. Contro l’apparato, per il nuovo».
Nel duello tv però vincerà Renzi.
«Perché, povero Bersani? Quella poca comunicazione di cui è capace, funziona. Magari non piace ai più giovani. Ma si faceva tanta ironia sulle persone anziane in fila. Eppure valgono anche loro, una testa un voto. Certo, mi aspetto un Renzi particolarmente vivace visto che deve rincorrere».
Il ticket Bersani-Renzi o viceversa è un inciucio?
«Assolutamente no. Una delle cose che dice sempre Renzi e non mi piace: chi vince fa e gli altri non devono rivendicare nulla per sé. Ma se uno è valido e rappresentativo di qualcosa come lo sono sia Renzi sia Bersani, scaricarlo non avrebbe nessun senso».
(g. d. m.)

Repubblica 27.11.12
De Benedetti: con le primarie rimessa in moto la politica


ROMA — «Grazie alle primarie del Pd ho visto rimettersi in moto la politica. È una cosa indubbiamente positiva». È la valutazione del voto di domenica di Carlo De Benedetti, presidente onorario di Cir e alla guida del Gruppo Espresso, che ha risposto ai giornalisti ieri a margine di un incontro alla Banca popolare di Sondrio. De Benedetti non si sbilancia su chi secondo lui vincerà al ballottaggio. Nel corso dell’incontro commenta anche una delle affermazioni di Mario Monti domenica scorsa a
Che tempo che fa:
«Condivido tantissimo di Monti, per il quale nutro grande stima, ma non sono assolutamente d’accordo con lui quando afferma che il paese è avviato verso la fine della crisi. Io penso invece che il 2013 sarà peggio del 2012 e non lo dico a caso, cito anche solo il calo dell’8% a ottobre del fatturato di Autostrade e dell’11% di Autogrill».

Repubblica 27.11.12
Segnale dalle regioni rosse
di Ilvo Diamanti


Tre milioni. Come alle precedenti Primarie del 2009, ma un po’ meno del 2007. Nonostante riguardassero solo il Pd, mentre nel 2005 la candidatura di Prodi aveva mobilitato oltre 4 milioni di elettori di centrosinistra. Ma erano altri tempi. Perché oggi la fiducia nei partiti, nei politici e nel Parlamento è ai minimi storici. Eppure ci sono ancora 3 milioni di persone e oltre disposte a uscire di casa, la domenica, per recarsi ai seggi, dopo essersi iscritte alle liste. Facendo la fila, anche due volte. (Le complicazioni burocratiche hanno influito anch’esse, sulla partecipazione.) E ci sono decine di migliaia di volontari ai seggi. Il sabato, la domenica magari anche il lunedì. È una buona notizia. Per nulla scontata. Per la nostra democrazia, prima ancora che per il Pd. Il quale, peraltro, ne ha beneficiato in modo evidente. Non solo perché il numero di cittadini che si è recato alle urne è stato di 3,6 volte superiore al numero di iscritti al Pd. (Come ha annotato l’Istituto Cattaneo nel suo Report.) Ma anche perché, negli ultimi mesi, il Pd, nelle stime elettorali, è risalito di quasi 10 punti percentuali. Oggi è oltre il 32% (secondo Ipsos). Per questo il ballottaggio fa bene al Pd. Perché allunga i tempi della mobilitazione, ma anche dell’attenzione mediatica. Che alimentano il consenso. Ragionando sui risultati, mi pare emergano alcuni aspetti, (solo) in parte sottolineati dalle analisi proposte “a caldo”.
1. Il ballottaggio rivela una competizione di leadership reale, dentro il Pd. Fino ad oggi le Primarie non avevano mai avuto storia. Oggi appaiono aperte. E anche questo spiega l’interesse e la partecipazione che le hanno caratterizzate. Certo, Bersani è il favorito. Ma non il vincitore annunciato. Perché Renzi ha conseguito un risultato ragguardevole. Circa il 36%: 9 punti meno di Bersani. Tanto, ma non troppo. Nelle competizioni a doppio turno, infatti, ogni turno fa storia a sé. Ed è improprio calcolare voti “esterni” ai due candidati del ballottaggio in base alle indicazioni dei leader. Così, i voti di Vendola non sono, automaticamente, trasferibili a Bersani. Molti suoi elettori del primo turno, come emerge dai messaggi in rete, potrebbero, infatti, orientarsi verso Renzi, perché esprime meglio la domanda di “rottura” con il passato. Con le burocrazie di partito.
2. Peraltro, se ripercorriamo il risultato dei due principali candidati su base territoriale, emerge una geografia significativa. E non del tutto prevedibile. Bersani prevale in 17 regioni su 20. Nel Nord e soprattutto nel Mezzogiorno. In Calabria, Sicilia, Sardegna e Campania, Basilicata. Dove supera la maggioranza assoluta. Renzi, invece, avvicina Bersani nel Nord, soprattutto in Piemonte e nel Veneto. E, paradossalmente, si afferma nelle Regioni Rosse – esclusa l’Emilia Romagna. In Toscana, ma anche in Umbria e Marche. Proprio lui, sospettato di “berlusconismo”. Bersani, presumibilmente, cumula e associa due modelli di radicamento tradizionali nel Pd. A) L’elettorato orientato dagli apparati e dall’organizzazione sul territorio. B) L’elettorato post-comunista, passato attraverso i Ds. Renzi, invece, si afferma nelle (ex)zone di forza della Margherita, nel Nord (Cuneo, Asti, la pedemontana veneta). E attira componenti di elettori critici verso la classe politica e verso i gruppi dirigenti del Pd. Soprattutto dove sono al governo (le zone “rosse”). Come mostrano i dati di alcuni sondaggi.
3. L’alternativa fra i due candidati, dunque, riflette la distinzione vecchio/ nuovo (agitata da Renzi, attraverso lo slogan della “rottamazione”). Rispecchia, inoltre, la frattura destra/sinistra, evocata da Bersani, Vendola e Camusso. Per marcare l’estraneità di Renzi rispetto alla tradizione del centrosinistra. Ma lo schieramento a favore o contro i due candidati è dettato anche da altre componenti, legate alla personalizzazione e allo stile di comunicazione che caratterizzano le Primarie. Ciò rende interessante e aperto il voto di domenica. Che potrebbe essere influenzato dal confronto faccia-a-faccia di mercoledì prossimo sulla prima rete Rai.
4. Anche per questo ritengo che le Primarie, fino al ballottaggio, imprimano all’opinione pubblica e alla stessa logica istituzionale una dinamica presidenzialista. Secondo il modello americano oppure quello francese (per quanto diversi).
Comunque vada il ballottaggio, credo che il Pd debba guardarsi, in seguito, da due rischi. a) Il calo della passione e della mobilitazione dopo mesi di partecipazione, al centro dell’attenzione pubblica e mediatica. Per questo deve “normalizzare” e interiorizzare il modello sperimentato in questi mesi. E se la vita politica non può trasformarsi in un’eterna primaria, non deve neppure ridursi alla routine dei discorsi e dei negoziati nel chiuso delle sedi di partito, dei gruppi dirigenti, dei soliti noti. b) Nel Pd occorre fare attenzione a non trasformare la competizione fra i “duellanti” in antagonismo. Renzi e Bersani e, soprattutto, i mondi che si sono aggregati e mobilitati intorno a loro: non debbono diventare alternativi. Ed esclusivi. C’è il rischio, altrimenti, che si elidano a vicenda. E che, invece di favorire la partecipazione larga e paziente di questo periodo, producano disincanto e frammentazione. Divisione.
In fondo, il Pdl, o ciò che ne resta, è lì. Alla finestra. Sospeso tra voglia e paura delle Primarie. Perché ancora oggi è un partito personale e mediale. Senza società e senza territorio. Il Pd e il centrosinistra, al contrario, sono nati e cresciuti nella società e nel territorio. Ma se ne sono dimenticati. Ora che sono tornati (nella società e nel territorio), ebbene, ci restino.

Repubblica 27.11.12
Perché il Pd ha cambiato pelle
di Claudio Tito


Lo schieramento progressista e in particolare il Pd ha cambiato pelle. Sicuramente non è più lo stesso partito che eravamo abituati a conoscere e a descrivere. Gli oltre tre milioni di elettori che domenica scorsa si sono messi in fila davanti ai seggi, hanno determinato un risultato senza precedenti consegnando di fatto le chiavi di questa “fabbrica” ancora in costruzione a Pierluigi Bersani, ma anche a Matteo Renzi.
Certo, i 9,5 punti percentuali che staccano il segretario dal sindaco appaiono una misura considerevole. I dati oggettivi che riguardano la distribuzione delle preferenze sull’intero territorio nazionale costituiscono un elemento interpretativo fondamentale. Il leader democratico ha vinto in 18 regioni su 20, nella stragrande maggioranza delle province e nei grandi centri urbani. Milano, Roma, Torino, Napoli hanno segnato il successo bersaniano. In Emilia Romagna, Lazio e Lombardia c’è una consistente prevalenza di Bersani. Lo sfidante ha la meglio in Toscana. Ma queste quattro realtà rappresentano quasi i due terzi degli elettori regolarmente registrati. Ed è lì che si vince o si perde. La battaglia per il ballottaggio si giocherà in queste regioni. Ma visti i dati di partenza, per Renzi si tratta quasi di una corsa ad handicap. ma come accade in tutti i ballottaggi non impossibile.
Una difficoltà acuita da un regolamento che non permetterà di aprire il voto di domenica prossima a “nuovi” partecipanti. La platea elettorale non cambierà, se non in minima parte. La polemica su questo punto è già infuocata. È evidente che per il sindaco di Firenze si tratta ormai di una questione di vita o di morte. Solo ampliando la base dei votanti, può sperare di recuperare terreno. Contando sulla sua capacità di penetrare anche quella porzione di cittadinanza tradizionalmente non di sinistra. Ma l’obiettivo resta comunque arduo. In assenza di una modifica – ormai impossibile – al regolamento, cercherà allora di inseguire il “voto d’opinione”. Si lancerà su quel 15% che ha scelto Vendola e che solo in minima parte è formato da militanti di partito. Un’operazione piuttosto complicata. Basti pensare che il distacco tra i due contendenti al momento è in termini assoluti di oltre 290 mila voti e il leader di Sel ne ha raccolti in tutti 485 mila. E per risalire la china, Renzi dovrebbe farli convergere tutti su di se. Senza contare che il Governatore pugliese ha già fatto una sorta di endorsement nei confronti di Bersani. Certo, il ballottaggio riserva spesso delle sorprese. Non tutti quelli che hanno riempito i gazebo domenica scorsa, lo faranno anche tra quattro giorni e molti di coloro che hanno votato per Vendola, Puppato e Tabacci potrebbero rimanere in casa. Non a caso il primo obiettivo che in questa ultima settimana di campagna elettorale si sono fissati i duellanti è proprio quello di motivare i propri sostenitori e quelli dei tre “eliminati” nel tentativo di evitare sgradevoli fuoriuscite e di non abbassare troppo la soglia dei partecipanti.
Ma se la rincorsa di Renzi si presenta piena di incognite, si evidenziano alcune certezze. Che riguardano, appunto, entrambi gli sfidanti e attengono al futuro politico e organizzativo del campo progressista. Il segretario, con un milione e quattrocento mila preferenze, si è indubbiamente rafforzato. Nel partito e in tutto il centrosinistra. Soprattutto si è emancipato da quel blocco che ha controllato il Partito democratico ora e i Ds prima. Quei voti sono suoi e non provengono da nessuna corrente o da nessun “grande vecchio”. Non deve la sua vittoria a qualche leader storico. Si tratta di una vera rivoluzione per una struttura che si è connotata in questi venti anni per il dualismo D’Alema- Veltroni. Quel 45% Bersani lo potrà gestire in completa autonomia e senza forme di dipendenza. Questo successo gli permette di superare ogni precedente assetto. Una svolta vera e propria che si sta accompagnando con un’altra novità: un neonato patto generazionale. All’ombra del duello Bersani-Renzi, infatti, si è chiuso un accordo trasversale che mette insieme tutti – o quasi – i giovani del centrosinistra. Interessati in primo luogo ad un ricambio effettivo e a tutti i livelli. E del resto, il primo a beneficiare di questo mutamento è proprio Bersani: in occasione del voto delle primarie. Ma anche in futuro farà valere il nuovo corso. basti pensare a quel che accadrà al momento di stilare le candidature per il Parlamento. Il segretario – grazie allo scontro di questi giorni – sarà meno pressato dai “big” del partito e avrà la possibilità di non fare concessioni gratuite a quegli esponenti che – resistendo – restano il simbolo di un’altra stagione. In questo quadro il segretario del Pd non potrà che accelerare da lunedì prossimo le sue tappe di avvicinamento proprio nei confronti di Renzi. Cercherà di coinvolgerlo, di renderlo partecipe – nel rispetto dei risultati delle primarie – nella gestione del nuovo centrosinistra. Anche perché il sindaco di Firenze si trova – con le dovute proporzioni –nella stessa situazione di Bersani: ha raccolto un milione e centomila preferenze, non pochi. E si tratta anche in questo caso di voti suoi, non di altri. Un risultato che lo pone di fatto come seconda “architrave” del Partito democratico. Ma soprattutto nessuno può pensare che quel milione di elettori possano essere dispersi o trascurati nella corsa verso le elezioni politiche del prossimo marzo. Senza contare che in termini percentuali, in occasione del ballottaggio, il 45% di Bersani e il 36% di Renzi sono destinati a crescere. Formando di fatto il nuovo asse che piloterà il centrosinistra nei prossimi anni. E sicuramente da qui alla formazione del prossimo governo.

l’Unità 27.11.12
Ballottaggio, non si può cambiare la base elettorale
di Andrea Giorgis

Docente di Diritto costituzionale

LA STRAORDINARIA PARTECIPAZIONE ALLE PRIMARIE DEL CENTROSINISTRA È SENZA DUBBIO UNA VITTORIA DELLA DEMOCRAZIA E, PRIMA ANCORA, la conferma della possibilità di ricostruire un rapporto di fiducia nei corpi intermedi e in particolare nei partiti politici. Naturalmente la strada da percorrere è ancora lunga: la ricostruzione democratica ha bisogno di partiti rinnovati e trasparenti, capaci di includere e di offrire soluzioni praticabili; e soprattutto di partiti che non abdicano al loro ruolo, non cedono alle tentazioni demagogiche e populiste, non rinunciano ad organizzare la partecipazione, a strutturare il legame sociale e, in tal modo, a dare sostanza ai diritti politici dei cittadini.
In questa prospettiva si comprende l’importanza e il valore delle regole che sono state definite per disciplinare lo svolgimento delle primarie. Non si è trattato infatti solo di trovare delle soluzioni capaci di incentivare una partecipazione consapevole e sincera, e di mitigare i rischi di interferenze esterne, né solo di garantire alla maggior parte di coloro che si riconoscono nella coalizione il diritto di esprimere il candidato a presiedere il governo, ma si è trattato di definire il ruolo dei corpi intermedi e, in ultima istanza, il modello di democrazia che si intende praticare.
In tema di elettorato attivo, a esempio, se non si chiede agli elettori di dichiarare pubblicamente, prima del voto, e a prescindere dai risultati, la propria adesione al progetto politico della coalizione (e a ciò che accomuna le proposte dei diversi candidati), si finisce con il mettere in ombra il profilo «collettivo» delle candidature e dell’offerta politica: si finisce con il trasformare la consultazione in una sorta di investitura «carismatica» del singolo in quanto singolo e non in quanto espressione di una forza politica organizzata e di una coalizione di forze politiche, che per quanto siano plurali presentano un profilo identitario.
Dare una qualche attuazione al cosiddetto «Albo pubblico delle elettrici e degli elettori» chiedendo a tutti coloro che intendono partecipare alla consultazione di registrarsi (in un momento precedente o comunque distinto da quello del voto) dichiarando di essere elettori della coalizione, così come il prevedere che all’eventuale secondo turno possano votare solo coloro che hanno votato al primo turno o si sono registrati, e che tra un turno e l’altro non si possa più effettuare (in linea di massima) alcuna nuova registrazione, non è insomma questione di interesse di uno dei candidati, né di chiusura o di apertura a nuovi possibili consensi, ma di modello di rappresentanza, di caratteristiche della partecipazione alla vita politica, di autonomia dei processi democratici e delle istituzioni che traggono la loro legittimazione dal consenso popolare.
Ora che un primo passo è stato compiuto e che i cittadini hanno dimostrato di apprezzarlo manifestando la disponibilità a partecipare a un processo collettivo di ricostruzione è importante non invertire la rotta e non riaprire a consultazione avviata una discussione sulle regole e su chi abbia diritto di partecipare al ballottaggio, avanzando suggestive ma indebite analogie con la disciplina delle elezioni politiche; ma semmai di spiegare che il rinnovamento dei partiti e della politica può essere meglio sostenuto e sollecitato dai cittadini se nessuno di loro sentirà di poter votare alle primarie del centrosinistra senza assumersi contemporaneamente l’impegno morale di sostenere in ogni caso, alle successive elezioni per il rinnovo delle Camere, chi otterrà la maggioranza dei voti.

Corriere 27.11.12
Duello sulle regole. Sì ai nuovi elettori solo se «giustificati»
Berlinguer: dovrà essere valutata la causa della mancata registrazione
I renziani: norma da cambiare
di Alessandro Capponi


ROMA — Ma dunque sono «briciole di problemi» come dice Bersani o «altro che briciole, un filoncino», come ribatte Renzi? Il pane del Pd, come spesso in queste primarie, è lo scontro sulle regole.
Quelle per il ballottaggio di domenica prossima fanno discutere, ed è così che il fair play del giorno di voto appena trascorso lascia spazio alla polemica. Può votare chi non l'ha fatto al primo turno? Il sindaco di Firenze è per il sì, chiede di cambiare le regole — «Spero che prevalga il buon senso e si consenta di preregistrarsi fino a domenica, non sono numeri decisivi ma strumenti per favorire la partecipazione» — ma il bersaniano Matteo Orfini è chiaro: «Renzi piagnucola su regole e dati, farebbe meglio a parlare di politica. Perché le regole ci sono già. Se in venti giorni non ti sei registrato devi spiegare perché non ci sei andato, devi portare una carta. Se eri all'estero bisogna far vedere i biglietti. Non puoi dire che eri negli Stati Uniti e invece stavi passeggiando. In ogni caso ci vuole una giustificazione formale». Il presidente dei garanti, Luigi Berlinguer, in un primo momento dichiara che il Pd «non chiederà il certificato medico...», e poi però precisa: «La causa della mancata registrazione» al primo turno «dovrà essere valutata» dagli uffici elettorali provinciali per consentire la registrazione e il voto al ballottaggio. Quindi chi ha saltato il giro domenica scorsa ha adesso due giorni di tempo, giovedì e venerdì, per chiedere di votare il 2 dicembre: «L'aspirante elettore andrà all'ufficio (uno per ogni capoluogo di Provincia, ndr) e il collegio della commissione elettorale si pronuncerà sulla base dell'attendibilità della motivazione», spiega Berlinguer. Come la decisione dei garanti sia accolta al comitato Renzi è nelle parole di Lorenza Bonaccorsi, coordinatore per Renzi nel comitato regionale del Lazio: «Ma cos'è, il comitato per la salute pubblica di Robespierre? Si deve portare la giustificazione? Firmata dai genitori?». E Roberto Reggi, il portavoce per la campagna delle primarie per Matteo Renzi: «È la prima volta che succede nel mondo che tra il primo e il secondo turno si impedisca agli elettori, se non portando un certificato medico, di poter votare. Cosa facciamo domenica, se vengono a votare in tanti che non c'erano al primo turno, li mandiamo via?». La polemica non si ferma, il senatore Stefano Ceccanti accusa un sms del comitato Bersani: «Non corrisponde alle norme quanto scritto, e cioè che "solo in casi eccezionali l'ufficio può derogare"». In serata, dopo la decisione dei garanti, Ceccanti è amareggiato: «Sindacare le motivazioni mi sembra una blindatura eccessiva. Sbagliato avere paura, la posizione non è sostenibile. Credo questa norma cambierà, è interesse di tutti fare primarie più aperte possibile. Peccato ogni volta arrivare a dei cambiamenti dopo tentativi di chiusura. E pensare che l'interpretazione autentica che fu data da Enrico Letta diceva di non voler creare fili spinati contro gli elettori...». Uno dei dirigenti per Bersani ammette: «Con gli elettori del primo turno vinciamo, se riaprono le iscrizioni potrebbero esserci problemi».
C'è anche una polemica nata dalla richiesta di Renzi di mettere online i verbali dei seggi. Per Berlinguer «c'è una quantità di materiale che è un problema realizzare un'informatizzazione completa». Del resto, per Berlinguer «i garanti si attengono a regole non contestate da nessuno». Però le cose sono cambiate, adesso; nel coordinamento nazionale, in serata, i renziani attaccano: «La regola per il ballottaggio va cambiata». Ma il vertice non modifica le regole. Briciole o filoncino, lo scontro sulle regole è il pane del Pd.

Corriere 27.11.12
Stumpo, l'inflessibile «In viaggio all'estero? Portateci i biglietti»
«Chi era altrove, lo dovrà dimostrare»
di Fabrizio Roncone


ROMA — (Comitato primarie del Pd, via Tomacelli, quinto piano, corridoio lungo, luci al neon. Segretaria imbarazzata: «Mhmmm... Stumpo? Lei sta cercando Stumpo? Beh, no, perché, sa, forse...». Poi compare Roberto Cuillo, il responsabile della comunicazione. «Che domande vorresti fargli, eh?». Le domande sembrano ragionevoli. Mezz'ora dopo, siamo seduti intorno a un enorme tavolo rettangolare. Stumpo — un quarantenne calabrese cresciuto nei ranghi del partito, coordinatore nazionale di queste primarie e responsabile organizzazione del Pd, tra i colonnelli di Bersani il più intransigente e concreto — ha gli occhi cerchiati e un sorriso ironico).
«C'è qualche problema?».
C'è un po' di confusione sul meccanismo di voto che domenica prossima...
«No, guardi, non può esserci confusione: e sa perché? Perché è tutto già scritto, da tempo, nel regolamento».
I renziani però...
«I renziani hanno copia del regolamento. Basta che lo leggano».
Quindi?
«Quindi saranno ammessi al voto del ballottaggio gli elettori che hanno votato al primo turno e anche tutti coloro che avevano già effettuato la registrazione entro le ore 20 di domenica scorsa e che non hanno però esercitato il diritto di voto...».
Poi c'è la delibera numero 21.
«Giusto. La delibera dice che possono tuttavia partecipare al voto pure coloro che dichiarino di essersi trovati, per cause indipendenti dalla loro volontà, nell'impossibilità di registrarsi entro domenica scorsa».
Spieghi bene questo passaggio.
«In ogni capoluogo di Provincia, nei giorni di giovedì 29 e venerdì 30, sarà aperto un apposito ufficio elettorale dove i ritardatari dovranno spiegare, documentandola, la causa della loro mancata registrazione. Il collegio della commissione elettorale si pronuncerà poi in base all'attendibilità della motivazione».
Faccia un esempio.
«Se arriva uno e sostiene di essere stato a New York, e già gli si potrebbe dire che però a New York i computer ci sono e lui avrebbe potuto registrarsi online... comunque se arriva uno e dice, scusatemi, ma ero a New York, ecco, questo signore deve fornirci almeno i biglietti dell'aereo».
Sarete rigidi.
«Siccome queste primarie sono una cosa seria, saremo seri».
(A questo punto si sente un «bip!» provenire dal cellulare di Stumpo: gli è appena arrivata un'agenzia di stampa in cui Matteo Renzi polemizza con Bersani, sostenendo che, durante lo spoglio dei voti, si sono verificati alcuni problemi. Stumpo diventa paonazzo, sbuffa, deglutisce).
«Ecco qui, legga... Ma cosa vuole Renzi? Vuole cambiare le regole? No, non si possono cambiare le regole a piacimento! Vuole dati ufficiali dopo nemmeno quindici ore? E manco questo si può fare! Perché stiamo lavorando con centomila meravigliosi volontari, e i dati definitivi li avrà quando sarà umanamente possibile».
Renzi chiede che siano pubblicati online i verbali dei 9 mila seggi.
«Ah ah ah!...».
Renzi è un tipo tignoso.
«Sì sì... ma dico: sa cosa significa mettere in rete 9 mila verbali? Tecnicamente serviranno giorni e giorni...».
Renzi si è pure lamentato perché ha impiegato due ore per votare.
«Io, al posto di Renzi, viste le code bellissime che ci sono state ovunque in Italia, code non troppo prevedibili, sarei stato innanzitutto molto soddisfatto. Tutto si è svolto più o meno velocemente, qualcuno ha aspettato mezz'ora in più, e se è vero, come è vero, che proprio dove ha votato Renzi c'è stata poi qualche coda troppo lunga, che posso dire? Mi spiace, posso dire che mi spiace. Ma, nel complesso, sono soddisfatto perché tutto è filato liscio come l'olio».
Domenica la posta in palio è alta: teme possano esserci brogli? A Napoli, due anni fa, ci furono...
«Dobbiamo abbassare la tensione. Dobbiamo rendere questo ballottaggio una festa della democrazia».
(Cuillo, accigliato, annuiva).

Corriere 27.11.12
Un segretario tranquillo affronta un'offensiva destinata ad inasprirsi
di Massimo Franco


Sono state elezioni primarie vere. A livello nazionale non era mai successo, perché in precedenza si trattava soltanto di consacrare candidati di fatto già scelti dal centrosinistra. E sul piano locale si erano risolte spesso con risultati clamorosi, che smentivano le indicazioni del Pd. Da questo punto di vista, quanto è accaduto domenica rappresenta un successo. Le parole offensive e irridenti del comico Beppe Grillo e del suo Movimento 5 Stelle vanno interpretate come un gesto di nervosismo di fronte a oltre tre milioni di persone in fila per votare: un passo falso che il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, non manca di sottolineare. «Queste uscite sprezzanti», dice, «sono francamente incomprensibili».
Ma di qui al ballottaggio di domenica si preannuncia uno scontro con spruzzi di veleno, tutto interno. Bersani ha avuto il 44,9 contro il 35,5 del sindaco di Firenze, Matteo Renzi, il quale ha interesse a radicalizzare lo scontro; e dunque ad alzare i toni che gli hanno fatto raggiungere un risultato di peso. Al segretario che gli contesta garbatamente di parlare del Pd definendo i propri seguaci «noi» e gli altri «loro», Renzi replica rivendicando questo lessico perché ormai «si tratta di un aut aut». Nelle sue parole, l'alternativa sarebbe «fra usato sicuro e innovazione». Si tratta di uno schema destinato a lasciare una coda di malumori, nel Pd; ma al quale Renzi non può e non vuole rinunciare, spinto dalla voglia di «andare a caccia» degli elettori dei tre candidati esclusi dal ballottaggio: Nichi Vendola, Laura Puppato e Bruno Tabacci.
I prossimi giorni delineano la sfida fra un segretario che sa di avere ottime probabilità di successo, e dunque sceglie un profilo inclusivo e sornione; e uno sfidante che gioca su un linguaggio duro al limite della provocazione, per seguire il filone del picconatore fino in fondo. Anche se Renzi ora fa notare di avere vinto in alcune realtà locali governate dalla sinistra: vuole correggere la silhouette di candidato «di destra». Eppure, parte della sua affermazione si deve proprio allo spazio che il Pd e Vendola gli hanno lasciato sul versante moderato.
Renzi si è potuto presentare come il nemico dell'apparato e il difensore dell'agenda del governo di Mario Monti, presidiata negli ultimi mesi a intermittenza dai vertici del partito. Su quel fianco Bersani ha permesso che si creasse un vuoto, riempito abilmente dal sindaco di Firenze. Adesso che deve conquistare voti a sinistra, però, Renzi invita a guardare i consensi ottenuti nelle cosiddette «regioni rosse». Insinua qualche dubbio di «errore» nel conteggio dei voti di domenica, chiedendo che i verbali dei risultati «vengano messi online». E intensifica quello che Bersani definisce «fuoco amico». In realtà, l'alleanza con Vendola garantisce al segretario margini di manovra che il suo avversario faticherà a bilanciare.
Renzi punta dunque sulla conflittualità per giocare il tutto per tutto; o per uscire da sconfitto ma con il profilo da leader di partito agli antipodi rispetto a Bersani. La tesi che il «primo cittadino» di Firenze cerca di accreditare è che una sua vittoria alle primarie renderebbe più facile un successo alle elezioni politiche di marzo: saprebbe pescare, assicura, anche fra i delusi del centrodestra. Ma se esiste un problema di credibilità all'estero per l'eventuale successore del premier Mario Monti, la breve storia politica di Renzi rischia di confermare le perplessità internazionali nei confronti dell'Italia postelettorale.

il Fatto 27.11.12
La grande caccia da destra a Vendola “Prendiamo i delusi”
Le mosse di Matteo Renzi “Voglio anche i consensi andati al segretario”
E poi attacca: “Al ballottaggio devono poter votare gli assenti del primo turno”
di Giampiero Calapà


Rimangono cinque giorni per recuperare 290 mila voti, nove punti percentuali. Matteo Renzi ci crede e il tormentone è già stato scelto: il sindaco e i suoi non perderanno occasione per contrapporre l’idea della rottamazione all’usato sicuro bersaniano, nuovo contro vecchio. Questa la decisione, perché alla fine questo paga, è convinto Renzi. E per affinare questa strategia in un’altra epoca ci sarebbe stata una grande cartina sul tavolo, oggi gli uomini del sindaco che vuol essere 2.0 maneggiano smart phone e tablet, ma alla fine si ritorna all’antica: “Il ballottaggio è aperto, ma occorre una mobilitazione pazzesca: dobbiamo andare casa per casa, porta a porta, sui luoghi di lavoro e tra gli amici”, comanda Renzi.
Voglia di elettori berlusconiani
“La vulgata giornalistica che ci voleva di destra deve fare i conti con la nostra straordinaria affermazione nelle regioni rosse”, ha esultato Renzi, ma non è un mistero che la macchina renziana sia a caccia dell’elettorato di destra. Il segretario toscano del Pd, Andrea Manciulli ha accusato: “Contiealtrinobilitoscani hanno votato per Renzi”. Al che Roberto Reggi, coordinatore della campagna del sindaco, risponde piccato: “Manciulli deve capire che quei voti contano quanto il suo. È chiaro che ci rivolgiamo ai delusi del Pdl. Le elezioni si vincono così. In Italia esiste un 40 per cento di indipendenti che di volta in volta decidono da che parte stare”. D’altra parte, ieri mattina, Silvio Berlusconi ha ammesso una voltadipiùdiprovareundebole per il boy scout: “Spero vinca Renzi, con lui l’Italia potrebbe avere un partito socialdemocratico che non si rifaccia all’ideologia comunista”.
Alla conquista dei voti di Nichi
Se altri voti di destra si possono recuperare lasciando aperte fino al giorno del ballottaggio le registrazioni per chi non ha votato al primo turno – cosa che Renzi chiede con forza, mentre era prevista solo una finestra giovedì e venerdì – al quartier generale di via Martelli dichiarano di voler “rubare voti anche a Bersani”, e vogliono anche parte del 15 per cento di Vendola; 460 mila voti non impossibili da conquistare, a sentire Simona Bonafè, diventata la vice-Renzi quanto ad apparizioni tv: “Il voto a Vendola è in gran parte non militante come si potrebbe pensare, ma d’opinione”. Cosa ribadita dallo stesso Renzi: “So che chi ha votato Vendola è più propenso ad un cambiamento di facce, al rinnovamento, quindi sceglierà noi”. Perché, aggiunge Reggi, “siamo più accattivanti”. E affronta il punto debole rispetto all’elettorato di sinistra, cioè le idee sul lavoro, che Renzi incarna in quelle liberiste di Pietro Ichino. “Noi vogliamo tutelare anche precari e disoccupati, la posizione di Bersani non è affatto chiara, invece”.
Faccia a faccia in televisione
L’ordine è: più confronti tv con Bersani si fanno meglio è. Rai, La7, Mediaset, di nuovo Sky, Renzi prenderebbe tutto (avrebbe affrontato Bersani anche ieri sera da Fabio Fazio, “invece l’ho incontrato solo al bagno, gli ho fatto: bu! ”, scherza). Convinto com’è di bucare lo schermo molto meglio dell’avversario. Il sindaco ha studiato guardando i dibattiti americani, accetta tutti i consigli possibili dei suoi, ma l’ultima parola per gli allenamenti pre-dibattito la lascia allo spin doctor Giorgio Gori, l’ex direttore di Canale5. Le ultime indicazioni sono quelle di rivolgersi a Bersani cominciando con una gentile carota da sostituire prontamente con una bastonata, violenta ma non troppo. “Perché apparire troppo aggressivi – spiegano i suoi – potrebbe spaventare una parte di elettorato moderato: già è forte la sua immagine di cambiamento, quindi bisogna rassicurare il telespettatore”.
L’asso nella manica dell’ultimo momento, il colpo mortale, potrebbe riguardare – vista la deflagrazione dell’inchiesta giudiziaria a Taranto – i finanziamenti della famiglia Riva (quelli dell’Ilva) al segretario Bersani.
L’arma mortale e i finanziamenti
Ma, almeno per adesso, dallo staff del sindaco negano “nel modo più assoluto” che si possa usare questo tema. E le donazioni, a proposito, questa settimana serviranno eccome. Quella promessa da Davide Serra, il golden boy della finanza titolare del fondo Algebris sull’asse Londra-Cayman, non è ancora arrivata: “Non ho ancora deciso quanto – afferma Serra – ma un po’ di benzina al camper ce la metto sicuro. Il mio impegno civile contro l’usato sicuro”. Ma il camper ormai è già in garage e Renzi si fa vedere in bicicletta tra i turisti giapponesi a Firenze.

il Fatto 27.11.12
Solo delusi?
Pdl, Fiamma, Cl: gli infiltrati del sindaco
di Davide Vecchi


Milano Da Palermo a Treviso, passando per Toscana ed Emilia, patrie rosse di Matteo Renzi e Pier Luigi Bersani, le primarie del Pd hanno raccolto il voto anche di molti esponenti del Pdl e di mondi piuttosto distanti dal Partito democratico. Come quello della Destra Fiamma Tricolore di Roberto Jonghi Lavarini che a Milano, oltre a esprimere la sua preferenza per il sindaco di Firenze, ha inviato una mail a tutti gli iscritti del movimento, non certo vicino al centrosinistra, per “invitare a votare Renzi”. Anche il sindaco di Gorle in provincia di Bergamo, Marco Ugo Filisetti, ha chiamato i suoi a sostenere Renzi. Nulla di strano, se non fosse che Filisetti è del Pdl. Come lui moltissimi consiglieri comunali, provinciali e regionali. Persino il capogruppo in Lombardia, Paolo Valentini, ieri ha espresso la sua soddisfazione per il risultato delle primarie del Pd. Ma all’ombra del Pirellone molti hanno deciso di versare i 2 euro e scegliere tra Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi. Il mondo ciellino, ormai orfano di Roberto Formigoni, sta scegliendo su chi puntare. Gabriele Albertini è la prima scelta, ma anche il centrosinistra più moderato potrebbe andar bene per una stagione, tant’è che se l’ex sindaco di Milano non si candiderà, piuttosto che Roberto Maroni l’universo di don Giussani opta per Umberto Ambrosoli.
Perché non guardare anche al governo centrale? Così domenica i ciellini hanno votato in massa alle primarie. Riccardo Bonacina, direttore del periodico Vita, ha anche incitato gli amici su facebook: “Primarie Pd, Milano centro, non ero registrato. In tutto 12 minuti, si può fare eddai”. Anche da Sec, società di comunicazione strettamente legata all’universo formigoniano, si sono mossi verso le urne. Fiorenzo Tagliabue, fondatore e presidente dal 1989, ha confidato ad alcuni dei collaboratori che sarebbe andato e avrebbe scelto Renzi. Poi però al seggio non si è visto. E’ andato invece Gabriele Pertipaglia e l’ex consigliere di Forza Italia, Arrigo Frassi.
Dalla Lombardia alla Toscana l’interesse è lo stesso. Con la differenza che molti esponenti del Pdl locali sono stati allontanati dai seggi. Nella “valle rossa”, dove Renzi ha vinto con il 60%, a Prato hanno votato 24mila persone: quasi il doppio di quanti votarono per il sindaco. Nel Chianti stessa storia. “Tanti del Pdl, tanti hanno tentato ma li abbiamo mandati indietro”, dice il responsabile locale del Pd, Patrizio Mecacci. Ma da queste parti ha votato Riccardo Fusi, il costruttore condannato a due anni di carcere con l’accusa di concorso in corruzione sulla vicenda della Scuola dei Marescialli di Firenze. A Palermo, invece, i neonati comitati per la candidatura di Giorgia Meloni hanno seguito l’esempio dell’ex ministro e sono andati ai seggi. Per allenarsi.

il Fatto 27.11.12
L’intervista. Rosy Bindi
“Matteo è il grimaldello di chi vuole spaccare il Pd”
di Marco Palombi


Ho resistito vent’anni a Berlusconi, posso provarci per un’altra settimana con Renzi”. Rosy Bindi è destinata ad avere rapporti burrascosi coi ‘grandi comunica-tori’: successe con le battutacce machiste del Cavaliere, accade oggi col sindaco di Firenze, che l’ha eletta a simbolo della rottamazione necessaria insieme a Massimo D’Alema. Lei, però, non cede: battaglia, ribatte, presenzia in tv e qualche volta – come domenica sera al Tg3 – le scappa un “vaffa”.
Sembrava parecchio nervosa.
Mi dispiace perché non lo ero affatto, non ne avevo motivo: c’era stata grande affluenza alle primarie, Bersani era nettamente in vantaggio, il ballottaggio l’ho sempre dato per scontato e pure le percentuali di Renzi erano attese.
E allora?
Io non sono la persona più paziente del mondo e mi sono innervosita in quel contesto. In quello studio ero di fatto sotto attacco: a me venivano rivolte le domande più scomode e si dava come per scontato che dovessi interpretare la parte della sconfitta. Va tutto bene, ma se poi non mi fai parlare e mi interrompi cinque volte può succedere che saltino i nervi. Non mi sento di rimproverarmi più di tanto, ma chiedo scusa.
Non le scoccia essere un facile argomento di campagna elettorale? “Rosy è attaccata alla poltrona”.
Ho resistito vent’anni a Berlusconi, posso provarci per un’altra settimana con Renzi… Mi dispiace di essere in cima ai suoi pensieri e vorrei che capisse che la mia vicenda personale non è il più grave dei problemi del paese. Comunque il suo obiettivo non sono affatto io.
No?
La rottamazione non vuol dire affatto fare a meno di alcune persone, è molto di più: è un giudizio sommario sul lavoro ventennale di una classe dirigente, ritenuta in blocco corresponsabile con Berlusconi di quanto successo in questo paese.
Qualche errore l’avete fatto.
Molti, e li conosco meglio di Renzi, ma questo mettere tutti sullo stesso piano non è accettabile: io sono responsabile della mia riforma della sanità, non di quella della scuola della Gelmini. Il mio partito deve dare un giudizio condiviso su questi anni: noi abbiamo combattuto il berlusconismo, siamo portatrice di idee vere di cambiamento; ho amato la Costituzione studiandola con chi l’aveva scritta, magari ad altri - cresciuti negli anni 80 con la tv di Berlusconi – potrebbero essere utili le categorie culturali con cui lo abbiamo sconfitto.
Il sindaco ha preso il 35% dei voti: qualcosa nel Pd dovrà cambiare.
Certo, il partito non può essere impermeabile a quel che viene fuori da queste primarie, ma l’unità del Pd si farà attorno alla linea politica che vince. Non ridiscuteremo il programma per accogliere le idee dei testimonial di Renzi (Serra, Zingales, Ichino) ispirate da quel tardo-liberismo che ha prodotto i disastri che sono sotto gli occhi di tutti.
E gli organismi interni?
Io presi mezzo milione di voti in primarie non contendibili (quelle vinte da Veltroni nel 2007, ndr) e non cambiai certo gli equilibri interni: per quello c’è il Congresso.
Il successo di Renzi nelle ‘regioni rosse’ direbbe che il congresso è già iniziato.
In quelle zone, secondo me, è stato sostenuto da molti che lo hanno visto come il grimaldello con cui scardinare un partito che è percepito ancora come la continuazione dell’asse Pci-Pds-Ds, dove le sedi del Pd sono le case del popolo, le feste democratiche sono dell’Unità e quando si parla della storia dei democratici si inizia dalla Bolognina… Questa cosa dovrà cambiare. In quelle regioni, dove il Pd è più pluralista, Renzi non ha vinto.
Nella sua Toscana, però, Renzi ha stravinto.
Guardi, io ho sempre fatto politica nazionale e nel partito a Siena o in regione non ho responsabilità. Comunque, siccome nei paesi ci si conosce, le posso dire che c’è stato anche molto, molto voto di centrodestra: gente che non ci voterà comunque alle politiche, anche se il candidato fosse Renzi.
Le truppe cammellate di Verdini?
No, la destra adesso non è in grado di organizzare alcunché. Penso piuttosto a quell’elettorato che in quelle regioni è da decenni in minoranza e ora è allo sbando ha votato per far perdere la sinistra. Diciamo che ha capito il vero messaggio di Renzi.
Per chiudere, lei chiederà la deroga per essere ricandidata.
Certo, la scelta la deve fare il partito: non può essere una persona o uno slogan a decidere tutto.

La Stampa 27.11.12
Un elettore su cinque “estraneo” al centrosinistra
Tanti i nuovi votanti: nel 2008 il 10% si era astenuto e l’8% aveva scelto la destra
Il 42% dei suoi elettori non aveva mai partecipato alle primarie
 77% dei votanti non è iscritto ad alcun partito I pro-Monti scelgono Renzi
di Marco Castelnuovo


Tre milioni e centomila elettori alle primarie del centrosinistra. Chi sono? Da dove vengono? E soprattutto, con chi vanno? La Sisp, Società italiana di Scienza Politica, ha istituito un gruppo di ricerca sulle primarie, guidato da i professori Luciano Fasano e Fulvio Venturino, che in collaborazione con «Il Mulino» ha sondato i votanti del centrosinistra. Scoprendo che non tutti sono dei militanti di sinistra, anzi. La scelta del candidato premier ha attratto anche chi nel 2008 aveva votato l’Idv (3,5% del totale): otto elettori su cento avevano votato il centrodestra, il 10 per cento non aveva votato.
Come già più volte evidenziato, Matteo Renzi, rispetto agli altri candidati, è stato più in grado di attrarre voti «nuovi». Il 16% del suo elettorato, quattro volte più di Bersani. «Questa è una capacità innata di Renzi spiega Fasano -. Anche nelle primarie per il sindaco di Firenze più di un elettore su dieci proveniva da chi in passato aveva votato per il centrodestra». L’esatto opposto di Bersani, che ha un elettorato più militante (l’88% è del Pd contro il 64% del «rottamatore»). È anche per questo che quasi la metà (il 42%) dei sostenitori di Renzi è «matricola», non aveva cioè mai votato prima alle primarie; mentre Bersani ha fatto il pieno tra i «veterani» (85% come Puppato, tra l’altro), coloro che avevano già votato nel 2005 per la scelta del premier o nel 2007 (o nel 2009) per la scelta del segretario del partito. Per Fasano, «la distinzione fra veterani e matricole demarca una sorta di confine fra i candidati che raccolgono consensi prevalentemente nel tradizionale recinto dei partiti di una coalizione che ha ormai familiarizzato i propri elettori al rito delle primarie e candidati che, viceversa, sono in grado di mobilitare un elettorato nuovo rispetto a questo tipo di consultazione».
Il 77% dei votanti non è iscritto ad alcun partito. Secondo Fulvio Venturino, «per costoro, cioè il bersaglio grosso, Renzi è il candidato preferito, mentre Bersani risulta essere sottorappresentato. Il segretario del partito è invece molto popolare fra gli iscritti al Pd, che sono un quinto del totale, ma ben un terzo dei suoi votanti». Gli iscritti al Pd, però, «sono abbastanza ecumenici, visto che si distribuiscono in una certa misura anche fra gli altri due candidati del partito, Renzi e Puppato». All’opposto, tutti gli iscritti a Sel hanno votato compatti per Vendola.
Gli elettori di Bersani sono più «anziani» rispetto a quelli degli altri candidati. Ha più di 55 anni il 56% dei suoi votanti (il 28% tra 55 e 64 anni, il 28% oltre i 65 anni), Renzi e Vendola, invece, hanno un’equa distribuzione del proprio elettorato. Infine il giudizio su Monti: spiega Venturino che, nel complesso, «l’operato di Monti riceve un giudizio positivo dal 69% dei votanti. Questa ampia maggioranza di cittadini vota in modo pressoché indifferenziato per i due candidati del Pd. In questo segmento si riscontra in realtà una lieve prevalenza di Renzi su Bersani, troppo lieve però perché qualcuno possa ergersi a unico erede dell’agenda del Professore. Come da aspettative, coloro che riservano un giudizio negativo all’operato di Monti sono maggiormente propensi a votare per Nichi Vendola». Sei su dieci bocciano il professore.

La Stampa 27.11.12
La fronda dei vendoliani tentati dal rottamatore
In molti hanno punti in comune con gli elettori renziani
di Jacopo Iacoboni


Vendola. Oppure Matteo Renzi. Non è affatto scontato - per parafrasare il fortunato slogan della campagna di Nichi, «oppure Vendola» - che gli elettori di Sel al ballottaggio si facciano dire in massa di andare a votare Bersani. Specialmente nelle città i due elettorati, anche se distanti ideologicamente, presentano sovrapposizioni interessanti quanto a stili di vita, letture, rifiuto degli schemi più tradizionali della politica. Dire vendola-renzismo è troppo, ma tra chi ha scelto quei due candidati qualcosa in comune c’è, un certo gusto dell’eresia, e una stella polare: è gente che non voleva votare Bersani, dunque Matteo o Nichi? Prendete Napoli. Alle comunali Sel aveva il 3,5%, modestissimo: il leader pugliese è andato molto oltre, intercettando, suggerisce Francesco Nicodemo, «un voto d’opinione meridionale urbano, quel voto che invece al Nord premia Renzi». Appunto.
Domenica, all’uscita del seggio dei fuori sede di via Toledo, quello dove Nichi è arrivato secondo di un soffio davanti a Matteo - pieno centro, voto borghese, colto, mobile - Angela e il suo compagno avevano votato lei per Renzi, lui per Vendola, e lui spiegava: «Al ballottaggio io Bersani non lo voto». Vota Renzi?!? Sorriso: «Penso di sì». Nicola Fratoianni, consigliere del governatore, lo sa bene e lo dice così: «Non contate automaticamente sui voti a Bersani dei vendoliani». Una nota signora napoletana, proprietaria di una celebre boutique in corso Vittorio Emanuele, ha votato per Vendola, ora non è impossibile vederla scegliere il sindaco di Firenze. Casi singoli, ovvio, non una statistica; ma se non è semplice immaginare un travaso in massa a Renzi, è da escludere che i radical accettino di votare da truppe ordinate per il segretario del Pd. Molti non voteranno, è la cosa più probabile; il resto è imprevedibile, specialmente tra i venti-trentenni.
Può succedere, ma non è detto, che certe fedeltà siano più solide nella Bari di Nichi. Ma anche lì non è scontato, pensarlo significherebbe ragionare con i lego in un’epoca post Play Station. Giovanni Sasso, il fondatore di Proforma, l’agenzia che escogita le bellissime pubblicità di Sinistra e Libertà, lo suggerisce chiaramente, a chi gli faceva notare che la ragazza testimonial dell’ultimo spot per Nichi indossa la collanina filo d’argento e il maglioncino grigio, risponde ironico ma pronunciando una verità ovvia: «Non ci sono più le ragazze di sinistra di una volta, con la kefiah e la maglietta di Che Guevara».
Se ne prende atto inesorabilmente anche altrove. A Milano tra gli universitari dell’Isola, per esempio. A Torino in una discussione animata con gruppetto di elettori vendoliani non ancora trentenni, seggio di via Matteo Pescatore: tutti dicono che voteranno Renzi. A Padova dove l’architetto Giovanni Menzani assicura: «Il mio voto a Vendola lo porto a Renzi». Il segretario del Pd è ottimista perché esiste un sondaggio secondo il quale i due terzi dei vendoliani voteranno per lui. Eppure non è dato sapere con esattezza quanti la pensano esattamente come Nicola Poletti, che ragiona così: «Al primo turno voto per Vendola perché mi rappresenta di più (non in toto, ma chi potrebbe?). Al secondo, tra Renzi e Bersani scelgo il primo perché credo e spero in un Pd rivoluzionato dall’interno». O Francesca Cavallo, romana, che suggerisce: «Io sono proprio una di quelle che, se non si fosse candidato Vendola, un po’ a malincuore avrebbero votato Renzi».
Il dilemma del vendola-renzismo è tutto qui: la cornice del voto è la presunta lotta antiliberista o la voglia di rupture col passato? Tra parentesi, i radical più radical hanno già abbandonato Nichi quando ha scelto di stare col centrosinistra. Guardate lo spot-satira dei 99 Posse, band storica dell’antagonismo napoletano: sfottono il Pd, «Yes weekend», ma tutto il Pd. Quindi anche il suo segretario.

l’Unità 27.11.12
Diffamazione, il Pd sventa il blitz
Bocciata la legge contro la stampa
Affossato al Senato il testo inutile anche come «salva Sallusti»
La Fnsi: ora si pensi a una legge liberale
di Natalia Lombardo


ROMA La legge sulla diffamazione a mezzo stampa, che non è riuscita neppure a salvare Sallusti, è stata affossata dal voto segreto chiesto dal Pd, ieri nell’aula del Senato. Bocciato l’articolo 1, il cuore del ddl, con 123 contrari, 9 astenuti e solo 29 voti a favore. Cade così la legge «manetta» che avrebbe imbrigliato l’informazione, per dirla con Beppe Giulietti di Articolo21, un testo nato dall’urgenza di fermare la condanna al direttore del Giornale (da ieri agli arresti domiciliari) e che non solo ha occupato per oltre un mese i lavori di Palazzo Madama, ma è peggiorata ogni giorno di più: dal ritorno del carcere (il blitz della Lega votato dal Pdl e dall’Api) al mandare in galera i giornalisti e non i direttori, dalle intimidazioni ai «bavagli» per il web.
Una legge «Frankenstein» l’ha definita Anna Finocchiaro. E proprio la capogruppo Pd ha tenuto il punto ieri sulla richiesta di voto segreto, avanzata per far convergere tutti gli oppositori al ddl, tanto più dopo l’appello congiunto lanciato dalla Federazione della Stampa e da quella degli Editori perché il Parlamento fermasse il testo.
«Il caso è chiuso. Grazie anche a una bella manciata di senatori della destra che ha votato contro l’articolo 1. Abbiamo vinto, perché decaduto l’articolo 1 decade tutto»: è uscito trionfante dall’aula Vincenzo Vita, senatore Pd che molto si è battuto contro la legge, soddisfatto della «scelta tattica» democratica, dopo che per «due o tre volte la partita sembrava persa». Il Pdl si è trovato nel caos anche su questo fronte, dopo aver fatto passare le norme restrittive per la libertà d’informazione. Ma il tweet di Sallusti sulla condanna esecutiva ha gettato nel panico il capogruppo Gasparri, consapevole di non essere riuscito a evitarla. Così il vicecapogruppo Quagliariello ha chiesto il voto palese, proposta non accettata. La democratica Anna Finocchiaro ha spiegato che la richiesta del Pd «nasce da quel voto segreto, non contestato affatto dal senatore Quagliariello, su un emendamento che, come tutti sanno, ha travolto l'unico punto su cui pareva ci fosse accordo in quest’aula, e cioè l’esclusione della pena detentiva per il reato di diffamazione». A quel punto l’ormai disperato Gasparri ha «invitato» il Pdl a non partecipare al voto dell’articolo 1 (che avrebbe salvato il direttore, forse, ma intaccato la libertà di stampa). Ma, come si è potuto vedere dalla schermata dell’emiciclo al momento del voto, dai banchi del Pdl si sono accese molte luci per un voto contrario. Così, naufragato il Titanic, il presidente Schifani ha sospeso per poco i lavori d’aula e poi è passato ad altro.
IL TESTO NEL CESTINO
La Federazione della Stampa ha mantenuto comunque il sit in al Pantheon, più di festa e meno di protesta, per ribadire il diritto alla libertà d’informazione. Franco Siddi, segretario della Fnsi, ringrazia istituzioni e forze politiche e si impegna come sindacato a lavorare per una riforma equilibrata: «Non si risolve il nodo del carcere per i giornalisti, visto che si torna verso la legge precedente, ma almeno si evita che il rimedio sia ingiusto e peggiore del male».
Enzo Iacopino, presidente dell’Ordine dei giornalisti, commenta che «c’è stato un recupero di dignità da parte del Senato» contro una legge «assurda»; certo, resta la legge attuale del Codice Rocco, «la numero 47 del 1948», che prevede il carcere da uno a sei anni, fa notare Iacopino, che sollecita il governo a fare un decreto «per il diritto ai cittadini di una informazione libera», come l’ha fatto per banche e assicurazioni. In effetti l’ipotesi di un decreto governativo per eliminare la detenzione e salvare Sallusti era stata presa in considerazione, ma a questo punto sembra superata, così come un altro testo da discutere alla Camera, se ne riparlerà alla prossima legislatura. Persino Filippo Berselli, relatore Pdl e autore dei vari peggiorativi, sbotta esausto: «Non parlatemi più di diffamazione».

l’Unità 27.11.12
Rossanda, addio polemico al manifesto
di Ella Baffoni


Si può pensare il manifesto senza Rossana Rossanda? Da oggi sì. Fino a ieri sarebbe stato, per quel giornale da sempre eretico, un’eresia. Invece è così. Con cinque smilze righe su Micromega la fondatrice del manifesto, che ha a lungo diretto, si è congedata dalla redazione. «Preso atto della indisponibilità al dialogo della direzione e della redazione del manifesto, non solo con me ma con molti redattori che se ne sono doluti pubblicamente e con i circoli del manifesto che ne hanno sempre sostenuto il finanziamento, ho smesso di collaborare al giornale cui nel 1969 abbiamo dato vita. A partire da oggi un mio commento settimanale sarà pubblicato, generalmente il venerdì, in collaborazione con Sbilanciamoci e sul suo sito www.sbilanciamoci.info». Ecco tutto.
Per la comunità del manifesto è un terremoto. È vero, diverse persone hanno lasciato il vascello pirata, negli anni. Qualcuno si è messo alla prova su altre testate, altri hanno cambiato obiettivi di vita, Aldo Natoli se ne andò in silenzio, grande stile. La morte di Luigi Pintor è stato un implacato dolore, come quella di Lucio Magri. Pure, che fare contro la morte? L’addio di Rossana, invece, per il modo e per i tempi, è piombato come una bomba.
Infatti. Riunione straordinaria, giornale straordinario. La notizia sarà in prima, all’interno due pagine e un editoriale del direttore, Norma Rangeri. Il fatto è che venerdì scorso e poi domenica, in una delle torrenziali assemblee del manifesto, è stato votato a larga maggioranza un percorso di uscita dalla liquidazione coatta, la fondazione di una nuova cooperativa con dipendenti ridotti all’osso (una trentina). Per il Cdr una soluzione che, sia pur dolorosa, avrebbe consentito la prosecuzione di questa avventura più che quarantennale. «È stato – dice un rappresentante del Cdr – il punto di arrivo di una discussione di mesi. È vero, Rossana ci ha inviato – e noi l’abbiamo pubblicato – un lungo documento programmatico, “Da dove ricominciare”. Forse non siamo riusciti a sostanziare la discussione che pure ha suscitato tra noi, e la difficoltà di organizzare il dibattito è stata letta come indisponibilità. Eppure alla direzione va riconosciuto di aver tenuto in piedi per 9 mesi questa baracca».
E ora? Ogni scenario è aperto, il dibattito continuerà. Non aiuta l’abbandono recente di Vauro, di Marco D’Eramo, di Joseph Halevi, peccato. Ma l’addio di Rossana sembra davvero indigeribile.

il Fatto 27.11.12
In fondo a sinistra
Il manifesto perde i pezzi Lascia anche Rossana Rossanda
di Silvia Truzzi


La ragazza del secolo scorso se ne va. L’ennesima porta che sbatte è un rumore sinistro, là in fondo a sinistra. Dalle parti del manifesto, quotidiano comunista, giornale laboratorio, culla di illustri firme, minuscolo solo per vezzo. Un luogo dove negli ultimi quarant’anni le idee hanno trovato (quasi) sempre cittadinanza, nonostante il paradosso dell’ideologia. Dal ‘69, anno dei primi vagiti a oggi, è successo di tutto. E da tutti i punti di vista, compreso quello finanziario (ora la testata è in liquidazione coatta): alzi la mano chi non ricorda i mille “allarmi chiusura”, “cinquanta mila lire per il manifesto”, poi cinquanta euro, le raccolte fondi come “Fateci uscire”. E poi i troppi congedi: alcuni fisiologici, altri opportunisti, altri ancora traumatici. Come l’ultimo. Rossana Rossanda – giornalista, scrittrice, parlamentare e soprattutto fondatrice del giornale insieme con Luigi Pintor (scomparso nel 2003), Valentino Parlato, Luciana Castellina e Lucio Magri – lascia un laconico addio e un vuoto spaventoso: “Preso atto della indisponibilità al dialogo della direzione e della redazione del manifesto, non solo con me ma con molti redattori che se ne sono doluti pubblicamente e con i circoli del manifesto che ne hanno sempre sostenuto il finanziamento, ho smesso di collaborare al giornale cui nel 1969 abbiamo dato vita. A partire da oggi, un mio commento settimanale sarà pubblicato, il venerdì, in collaborazione con Sbilanciamoci e sul suo sito www.sbilanciamoci.info”  . Cioè non solo se ne va, ma scriverà regolarmente altrove. È un giorno che assomiglia a una resa. Molti telefoni suonano a vuoto, quelli che rispondono pretendono l’anonimato: nessuno, tra chi è passato dalla fu via Tomacelli, ha dimenticato: il manifesto è stato per tanti un primo, grande, amore. “Per conquistare Rossana bisognava impegnarsi tutti i giorni, non era mai una conclusione scontata”, ricorda una ex firma. “A parte nei primi anni, in cui era centrale il legame profondo che aveva con Pintor, ha sempre avuto un rapporto di vicinanza-lontananza con il giornale”. Può essere, ancora oggi, una rottura ideologica, in un’area di riferimento spaccata tra Vendola e Ferrero? O una diversità di vedute sul metodo? “Per paradosso, anche se ovviamente è una persona che viene letta come ideologica, è più laica di molti altri”.
Eppure qualcosa deve essere successo. “Qualcosa” deve essere - per la prima volta - una lettera firmata dalla Rossanda, indirizzata un mese fa al giornale e mai pubblicata. Nel frattempo hanno abbandonato il manifesto anche altre importanti firme, “con la sensazione di essere diventati ospiti, e non sempre graditi”. La matita di Vauro, il buongiorno al vetriolo, ha traslocato al Fatto. Marco D’Eramo, dopo 32 anni di strada percorsa insieme ha detto “io non ci sto più”. E poi l’economista Joseph Halevi, che venerdì scorso ha spedito, al circolo del manifesto di Bologna, la seguente mail: “Care compagne e cari compagni, non so se avete visto l'andazzo del manifesto nelle ultime settimane. È peggiorato ulteriormente dopo il 4 novembre. Scandalose le linee di commiato a Marco D'Eramo, quelle della redazione, non quelle di D'Eramo. Consiglierei di rompere, perché non si tratta più di un collettivo, ma di un manipolo che per varie ragioni si è appropriato del giornale. Anch'io me ne vado, senza alcuna lettera. È inutile”. Halevi aveva firmato, con moltissimi altri “amici” del manifesto, una lettera in-dirizzata alla direttrice Norma Rangeri. Con Nadia Urbinati, Giulio Giorello, Barbara Spinelli (impossibile citare tutti) per protestare contro la risposta “liquidatoria” data alla lettera d’addio di D’Eramo: “Senza grazia, senza stima, senza affetto, con tre righe secche e fredde in calce alle lettere al giornale, in quattordicesima pagina, dopo due necrologi e con un titolo che si discosta poco da un necrologio”. Oggi il direttore replicherà, in un editoriale in cui, pur chiedendo alla Rossanda un ripensamento, respinge le accuse: “Non condividiamo la critica sull'indisponibilità al dialogo: è ingenerosa e ingiusta. La verità è un'altra: esistono idee diverse su cosa deve essere il manifesto. ne abbiamo preso atto. Nella convinzione che le differenze potessero convivere, come è sempre stato”. Non è una rottamazione, di sicuro l’apice di una crisi identitaria. “Di discussioni, caroselli, eroi quel ch'è rimasto dimmelo un po' tu...”.

La Stampa 27.11.12
Rossanda, addio polemico al Manifesto
«Io non sono per l’antipolitica. Con il giornale che ho fondato non c’è più dialogo»
Scriverà sul sito Sbilanciamoci
di Riccardo Barenghi


Non è l’ultimo pezzo raro che perde ma certo si tratta di un abbandono pesantissimo. Parliamo di Rossana Rossanda che lascia il manifesto, giornale che ha fondato nel 1969 (come rivista) e poi nel 1971 come quotidiano. Non è l’ultimo perchè in redazione c’è ancora Valentino Parlato anche lui fondatore di quella originale impresa politicogiornalistica. Ma a scorrere questi quattro e più decenni di storia del manifesto balzano agli occhi i tanti che se ne sono andati (qualcuno per sempre, come Luigi Pintor nel 2003 e Lucio Magri pochi mesi fa), altri a lavorare altrove, i più recenti sono Vauro, Marco d’Eramo e Joseph Halevi, e che hanno lasciato quel giornale sempre più povero di idee e di energie.
Rossanda ha 88 anni, da sei vive a Parigi, ma non ha mai mancato di far sentire la sua voce scritta sul suo giornale. Negli ultimi tempi però i rapporti con la direzione, composta da Norma Rangeri, che lavora lì da poco dopo la fondazione e che con Rossanda ha sempre avuto un rapporto molto stretto, e il relativamente giovane Angelo Mastrandrea, si sono deteriorati. Tanto che la fondatrice, circa un mese e mezzo fa, ha scritto un articolo in cui dettava quella che considerava la giusta linea politicoeditoriale. «Ma nessuno mi ha degnato di una risposta», ci dice al telefono. E così venerdì scorso ha spedito una letterina che verrà pubblicata oggi: «Preso atto della indisponibilità al dialogo della direzione e della redazione del manifesto, non solo con me ma con molti redattori che se ne sono doluti pubblicamente e con i circoli del manifesto che ne hanno sempre sostenuto il finanziamento, ho smesso di collaborare al giornale cui nel 1969 abbiamo dato vita. A partire da oggi, un mio commento settimanale sarà pubblicato, generalmente il venerdì, in collaborazione con Sbilanciamoci e sul suo sito». Non è uno scherzo per un giornale che da mesi sta lottando tra la vita e la morte e che il 31 dicembre prossimo rischia di trovarsi messo in vendita dai liquidatori inviati per verificare se l’impresa può ancora stare in piedi di fronte a un congruo calo delle vendite e una pubblicità che è sempre stata scarsa. Potrebbe essere l’ultimo atto di una storia gloriosa oppure, chissà, magari una nuova cooperativa composta dagli stessi redattori potrebbe rilevare la testata impegnando le loro liquidazioni.
Si vedrà. Intanto la lettera di Rossanda ha lasciato tutti sotto choc. Norma Rangeri, che oggi le risponderà con un editoriale, spiega che «sono accuse ingiuste e ingiustificate. Ma la decisione di Rossana ci addolora anche perché arriva nel momento più difficile della storia del giornale. Il problema non è la mancanza di dialogo, bensì che non siamo d’accordo. Rossanda e Valentino e altri hanno ancora in testa uno schema vecchio di 40 anni, che oggi non ha più senso. Noi invece cerchiamo di fare un prodotto che viva in rapporto stretto col mondo che cambia. Un giornale autonomo e plurale, di sinistra, ma non un giornale-partito».
Rossanda al telefono ha la voce stanca, ha ricevuto decine di chiamate: «Non voglio condividere più la responsabilità di quanto viene scritto. Ho diritto di esprimermi dove e quando voglio senza doveR partecipare a un progetto politico che non è il mio». Non vuole gettare altra benzina sul fuoco, però una mezza frase la dice: «Io non sono per l’antipolitica». Dunque, il manifesto è accusato di strizzare l’occhio a Grillo. Un fatto che per una persona cresciuta nel Pci di Togliatti, di cui è stata anche responsabile della cultura, non è tollerabile. Chi conosce la storia di quel giornale sa che non è certo questo il primo abbandono di Rossanda. Tanti ce ne sono stati. E tanti sono stati gli scontri con Pintor. Lei che vedeva il giornale come strumento di una battaglia politica organizzata, lui che invece lo considerava una forma originale della politica. Ma tra i due non ci fu mai una rottura definitiva, avevano lavorato insieme per decenni, insieme erano stati cacciati dal Pci, insieme sono rimasti fino alla morte di Pintor. Ma adesso, Rossanda, il tuo è un addio per sempre? «Ho un’età tale che... ».

Corriere 27.11.12
L’addio con amarezza di Rossana Rossanda
Rossanda sbatte la porta: «manifesto» irriconoscibile, addio
La fondatrice: «Direzione indisponibile al dialogo». Rangeri: decisione che ci addolora
di Paolo Conti


Rossana Rossanda lascia il manifesto dopo mesi di divisioni, con parole dure. Lei, 88 anni, che lo fondò nel 1969 con Luigi Pintor, Aldo Natoli, Valentino Parlato, Luciana Castellina.sima pagina, dopo due necrologi e con un titolo che si discosta poco da un necrologio”. Oggi il direttore replicherà, in un editoriale in cui, pur chiedendo alla Rossanda un ripensamento, respinge le accuse: “Non condividiamo la critica sull'indisponibilità al dialogo: è ingenerosa e ingiusta. La verità è un'altra: esistono idee diverse su cosa deve essere il manifesto. ne abbiamo preso atto. Nella convinzione che le differenze potessero convivere, come è sempre stato”. Non è una rottamazione, di sicuro l’apice di una crisi identitaria. “Di discussioni, caroselli, eroi quel ch'è rimasto dimmelo un po' tu... ”.
Una parola per tutte, ma incandescente: «manipolo». Per l'economista Joseph Halevi, università di Sidney, storico collaboratore de il manifesto, la direzione dell'ultimo quotidiano comunista su piazza sarebbe nelle mani «non più di un collettivo ma di un manipolo che per varie ragioni si è impossessato del giornale». Dunque, addio manipolo. L'accusa di Halevi appare sul sito di Micromega proprio sotto l'altro e ben più clamoroso commiato, fino a ieri impensabile: quello di Rossana Rossanda, 88 anni, Madre Fondatrice nel 1969 del giornale con Luigi Pintor, Aldo Natoli, Valentino Parlato, Luciana Castellina.
Rossanda è durissima e insolitamente sintetica: «Preso atto della indisponibilità al dialogo della direzione e della redazione de il manifesto, non solo con me ma con molti redattori che se ne sono doluti pubblicamente e con i circoli che ne hanno sempre sostenuto il finanziamento, ho smesso di collaborare al giornale cui nel 1969 abbiamo dato vita. Ogni mio commento settimanale sarà pubblicato, generalmente il venerdì, in collaborazione con Sbilanciamoci e sul suo sito www.sbilanciamoci.info» Davvero una madre che chiude i rapporti con un figlio per lei diventato irriconoscibile.
Oggi il quotidiano pubblica una risposta del direttore Norma Rangeri: «La decisione ci colpisce e ci addolora. Per mille e una ragione. Perciò speriamo in un ripensamento, perché sappiamo che il suo contributo intellettuale è importante per noi, per la sinistra italiana, per il Paese». Rangeri però respinge al mittente l'accusa di chiusura: «La direzione e la redazione hanno mantenuto aperto il dialogo e il confronto dentro e fuori il manifesto, con decine di assemblee interne e anche con assemblee esterne. E al tempo stesso si sono fatte carico di pensare, scrivere, fare uscire il manifesto ogni giorno, nonostante le difficoltà, le avversità, l'amministrazione controllata». Il riferimento al «manipolo» e allo «sciocco» la dice lunga sul clima soprattutto umano in redazione.
Rossanda lascia il manifesto dopo mesi di dilanianti divisioni e di emorragie di firme. Marco D'Eramo se n'è andato dopo 32 anni: «Sento con dolore che questa esperienza umana e politica sta finendo male, come spesso accade in regime di scarsità e penuria». Sullo sfondo c'è infatti, a fine anno, la vendita della testata dopo «il purgatorio della liquidazione coatta amministrativa», come avevano scritto recentemente il direttore Rangeri col vice Angelo Mastrandrea. D'Eramo aveva speso prosa, sentimenti, rimpianti. Invece due righe dalla redazione, gelide è dir poco. Controreplica di D'Eramo: «La collocazione e la risposta che avete voluto dare al mio addio spiega le ragioni del mio commiato più di ogni mia parola». Non fosse fin troppo banale, verrebbe voglia di tirare in ballo la tragedia greca: un massacro tra chi ha lavorato insieme per una vita. Una resa dei conti nell'ultima «famiglia» comunista.
Conferma Vauro, un trentennio di manifesto alle spalle, che ha lasciato il 1° ottobre accusato dalla redazione di essere un venduto: «La parola "manipolo" descrive bene cos'è accaduto lì. E lo dico senza alcuna soddisfazione. L'idea che una storia così intensa e importante per il giornalismo e la politica in Italia finisca così squallidamente e desolantemente, mi procura solo profonda tristezza. Il manifesto di oggi è irriconoscibile da tempo, dilaniato da una piccola lotta di potere. Perché, poi? Per impossessarsi di un cadavere?»

Repubblica 27.11.12
Strappo di Rossanda “Dialogo impossibile addio al Manifesto”
Il direttore: accuse ingenerose, ci ripensi
di Alessandra Longo


ROMA — Se ne va a 88 anni e il tono non è stanco ma rabbioso. Rossana Rossanda lascia il manifesto, la creatura che, assieme a Luigi Pintor, Valentino Parlato e Lucio Magri, ha contribuito a fondare. Un addio polemico, pesante, comunicato con una lettera che è pubblicata oggi sul giornale. Eccola: «Preso atto della indisponibilità al dialogo della direzione e della redazione del manifesto, non solo con me ma con molti redattori che se ne sono doluti pubblicamente e con i circoli del manifesto che ne hanno sempre sostenuto il finanziamento, ho smesso di collaborare al giornale cui nel 1969 abbiamo dato vita. Un mio commento settimanale sarà pubblicato, generalmente il venerdì, in collaborazione con Sbilanciamoci e sul suo sito www. sbilanciamoci. info». Stop, fine di ogni rapporto. Una durezza che non sorprende chi ha seguito le tormentate vicende del quotidiano comunista, in amministrazione controllata, ormai in liquidazione, con il rischio concreto di chiudere il prossimo mese. Ed è proprio in questa cornice che si è consumato lo scontro con l’attuale direzione di Norma Rangeri e Angelo Mastrandea. Scontro sul futuro del giornale, sulla sua capacità di interpretare i mutamenti della società, sulle ragioni e «lo scopo» politico del collettivo. Rossanda ne aveva parlato in un lungo editoriale il primo novembre scorso che ha funzionato da innesco: «La discussione sul manifesto — scriveva — è partita male. La prima domanda non è “di chi è” ma “che cosa è” il manifesto ».
Un’analisi lucida del perché il cosiddetto «restyling» del prodotto non basta mai ad evitare il fallimento se dietro non c’è più un progetto, una passione, una visione. Da lontano, dalla sua casa di Parigi dove vive, Rossanda tentava di raddrizzare provocatoriamente la rotta come già era successo nella lunga storia di dialettica, anche aspra, che ha contraddistinto il quotidiano. Ma questa volta il meccanismo della comunità si è definitivamente rotto, la crisi ha aggravato le divisioni, i personalismi, i rancori, nelle assemblee di redazione il documento dell’autorevole collega pare sia stato ignorato (al punto che anche Valentino Parlato si era esposto per difenderla). Il risultato è questo addio, ufficializzato ieri ma nell’aria. Lo scorso ottobre, in una lettera personale, Rossanda era già pronta al passo: «Vi prego di astenervi dal citare il mio nome — scriveva alla direzione — considero chiuso ogni residuo legame con il vostro giornale». Il «vostro» non più il suo.
A Norma Rangeri non resta che trarre pubbliche conclusioni (sempre sull’edizione di oggi): «La sua scelta piomba come un macigno sul presente del giornale in uno dei momenti più difficili. Spero in un ripensamento. Il tempo del confronto non è scaduto». E ancora: «Dirci che siamo chiusi al dialogo è ingeneroso e ingiusto». Toni risentiti a voce: «Sparare con il cannone adesso è grave ed è evidente che certe decisioni peseranno sulle sorti del quotidiano e su chi ci lavora».
Un momento drammatico, «una catastrofe», come la definisce Valentino Parlato che riassume: «La nostra è una crisi di soldi e soldati. Una crisi dannosa per tutta la stampa italiana». Non solo Rossanda anche altri hanno «abbandonato la nave che affonda» (parole del direttore) per motivi diversi: da Vauro a Marco D’Eramo, a Joseph Halevi il quale definisce l’attuale gruppo dirigente addirittura «un manipolo che si è appropriato del giornale» (e si becca l’epiteto di «sciocco» nel fondo della Rangeri).
Il 31 dicembre si va alla liquidazione. Non ci sono imprenditori e cordate, sarà difficile mettere insieme una cooperativa nuova che per forza deve congedare decine di giornalisti e poligrafici. Gabriele Polo, già direttore, si chiama fuori, andrà in disoccupazione: «Per me la storia del manifesto finisce il mese prossimo. E l’addio di Rossana certifica la mutazione genetica del giornale». Rossanda se ne va senza sentimentalismi, parole come pietre. «Per il momento escludo che ci ripensi», assicura Parlato. Fausto Bertinotti è colpito, addolorato: «Se davvero è così è un disastro. Rossana e il manifesto sono la stessa cosa, Rossana è il manifesto, lei più di altri, anche di Pintor». La conclusione non è meno amara: «La sinistra del Novecento, così come l’abbiamo conosciuta noi, è finita».

l’Unità 27.11.12
Imu Chiesa: «Un pasticcio statale che scontenta tutti»
di Laura Matteucci


MILANO «La questione essenziale è che l’Imu deve tornare in capo ai Comuni. In tutto e per tutto».
Graziano Delrio, sindaco di Reggio Emilia e presidente dell’Anci, torna a dare voce alla protesta dei Comuni, proprio mentre il Senato sta vagliando quella legge di Stabilità di cui chiedono modifiche in più punti, e oggi si inizia a votare il decreto legge sui costi della politica, che potrebbe contenere qualche novità in materia di imposta sugli immobili.
È proprio il «nuovo» regolamento sull’Imu per la Chiesa e gli enti non profit, pubblicato sabato scorso in Gazzetta ufficiale, l’ultimo spunto per le polemiche, perché è ambiguo, di difficile attuazione, e oltretutto è pure la fotocopia di un testo di Tremonti del 2009 già bocciato dalla Ue. Adesso la palla è passata a Bruxelles, infatti: sono i commissari europei a dover vagliare in questi giorni il documento e decidere se chiudere la procedura d’infrazione aperta contro l’Italia già nel 2007. Presidente, è stato pubblicato il regolamento che doveva fornire lumi sull’applicazione dell’Imu agli enti non profit e alle scuole paritarie, la cosiddetta Imu-Chiesa. I Comuni che cosa ne pensano, è tutto chiaro o le cose si complicano?
«La titolarità dell’Imu deve essere dei Comuni, anche per il regolamento. Per averne uno corretto ed efficace, devono redigerlo i Comuni, come accadeva con l’Ici. Anche perché non vorremmo mai penalizzare scuole d’infanzia e non profit. Invece il regolamento l’ha fatto il ministero, e questo perché l’Imu è una tassa nata solo per fare cassa. Ovvio sorgano problemi interpretativi ed attuativi: le imposte comunali non possono venire regolamentate a livello statale». Un altro regolamento confuso: però voi entro il 31 dicembre dovrete applicarne almeno una parte, quella relativa allo status di attività commerciale. «Infatti, siamo i attesa degli incontri tecnici e delle circolari interpretative da parte del ministero. Confuso è la parola giusta. Prendiamo le scuole paritarie: sugli immobili misti, ad esempio, per la formulazione dei pagamenti dovremmo basarci sul costo delle rette, ma non sono specificate soglie, né criteri di valutazione. Ai Comuni si chiede di raccogliere informazioni, ma non è né banale né semplice. È un pasticcio tutto statale, che rischia di scontentare un po’ tutti, laici e cattolici, e non si capisce nemmeno se risponda alle sollecitazioni dell’Unione europea».
Ma non siete stati interpellati nella stesura di un regolamento che poi sono i Comuni a dover applicare?
«Mai. Forse non mi sono spiegato bene: la questione di fondo è che l’Imu è stata fatta per fare cassa, in senso letterale, il che significa che tutto è funzionale al limitare al massimo la diminuzione del gettito. Ricordo che l’Imu vale qualcosa come 21 miliardi, è la voce più pesante nell’abbattimento del debito pubblico».
Se il Senato non modificherà la legge di Stabilità, e se l’Imu non verrà restituita ai Comuni a partire dall’anno prossimo, avete promesso di dimettersi in massa: promessa sempre valida? Dopo la manifestazione di Milano, s’è aperto qualche spiraglio? «Certo che è sempre valida. Solo in Italia si continua a pensare che la crescita possa partire da Roma. In tutto il resto del mondo si è capito che sono le città il vero volano di qualsiasi possibile sviluppo. Ma le città sono allo stremo. Ora, non è che dopo aver imposto sempre più tasse ai cittadini, possiamo anche chiudere i servizi: c’è un limite alla tenuta della coesione sociale, e di sicuro noi non vogliamo certificare la morte della convivenza civile. Se la manovra uscirà dal Senato così com’è entrata, che venga qualcun altro a farlo al posto nostro, che vengano i prefetti». È un braccio di ferro che va avanti da mesi...
«Come andrà a finire si vedrà nel giro di qualche giorno, i contatti per sciogliere questi nodi sono avviati, e del resto lo sa anche il ministro dell’Economia, Grilli, che la nostra situazione è grave. Il governo deve far partire da subito l’attivazione delle imposte comunali sul territorio, non possiamo aspettare oltre. Quest’anno l’Imu sulla prima casa ci è stata tolta, e pure quella sulla seconda casa è andata, per metà, allo Stato. La questione politica fondamentale è che i proventi dell’Imu devono tornare completamente a noi già dal 2013. Stesso discorso anche per il Patto di stabilità che frena gli investimenti: per ora non ci sono novità, stiamo lavorando, i risultati li vedremo».
Gli incontri con i segretari di partito avuti nei giorni scorsi come sono andati?
«C’è stata senza dubbio grande attenzione, ma ancora una volta saranno i fatti a dover parlare. Perché noi i bilanci mica li facciamo a parole».

il Fatto 27.11.12
Imu alla Chiesa, un regolamento pieno di imbrogli
di Marco Politi


Finisce in un gigantesco pasticcio il dossier Imu-Chiesa. Il governo Monti regala agli enti ecclesiastici una nutrita serie di scappatoie per esentarsi dall’Imu e le scuole confessionali protestano sostenendo che si tratta di una condanna a morte. “Tutte le scuole cattoliche sono in fallimento”, ha dichiarato alla Radio Vaticana padre Francesco Ciccimarra, presidente dell’Associazione dei gestori degli istituti dipendenti dall’autorità ecclesiastica, profetizzando “Le chiuderemo in un anno, licenzieremo duecentomila persone”. In realtà la gerarchia ecclesiastica si appresta a negoziare quanta più immunità fiscale possibile.
Il vero scandalo sta nel Regolamento varato il 19 novembre scorso dal ministero dell’Economia e Finanze. Avrebbe dovuto recepire le indicazioni del Consiglio di Stato, che invitava il governo a rispettare le norme europee senza concedere agevolazioni ingiustificate agli enti ecclesiastici, invece per decisione politica del premier Monti è una manna per azzeccagarbugli. Impresentabile in Europa.
CHI PENSAVA che le attività commerciali della Chiesa – come previsto dalla legge del febbraio scorso – avrebbero dovuto pagare semplicemente l’Imu, deve ricredersi. Gli enti assistenziali e sanitari cattolici (non accreditati o convenzionati con lo Stato e gli enti locali) diventano “non commerciali” ed esenti dalla tassa, se le prestazioni “sono svolte a titolo gratuito ovvero dietro versamento di corrispettivi di importo simbolico e, comunque, non superiore alla metà dei corrispettivi medi previsti per analoghe attività svolte con modalità concorrenziali nello stesso ambito territoriale”. Nessuno conosce la media dei prezzi in uso nelle singole regioni ed è facile immaginare la corsa a dimostrare che i pagamenti richiesti rientreranno nella fascia esentasse. È il primo imbroglio, anche perché il concetto di beneficenza e non lucro non implica l’idea che si può “lucrare a metà”.
Secondo imbroglio. Lo stesso vale per attività culturali, ricreative e sportive. Tra l’altro nessuno sa cosa significhi il cosiddetto “ambito territoriale”, in cui si dovrebbero misurare la media dei “prezzi”. Terzo imbroglio. Le scuole paritarie cattoliche non pagano l’Imu se (oltre ad adottare un regolamento che garantisce la non discriminazione degli alunni e l’accoglienza dei portatori di handicap e l’applicazione del contratto nazionale al personale docente e non docente e la pubblicità del bilancio) l’“attività è svolta dietro versamento di corrispettivi tali da coprire solamente una frazione del costo effettivo del servizio, tenuto anche conto dell'assenza di relazione con lo stesso”. È chiaro che tutti gli istituti si precipiteranno a strappare la possibilità di applicare rette, considerate soltanto una mitica “frazione” del costo di servizio. Un arzigogolo nel quale nemmeno la parte ecclesiastica più favorevole all’accordo sa come orientarsi. Inoltre il Regolamento non contiene nessuna norma che faccia decadere automaticamente l’esenzione in caso di finanziamenti statali, regionali e locali (che di per sé falsano la concorrenza).
Ultimo imbroglio. Sono esenti anche le attività alberghiere se dimostrano di esigere corrispettivi non superiori ai famosi “corrispettivi medi” delle attività svolte sul libero mercato. Con questa chicca: che negli edifici a “uso misto” si calcola l’Imu dovuta “limitatamente” agli specifici periodi dell'anno in cui si svolge l’attività commerciale. Come se i normali esercizi privati stagionali potessero permettersi di pagare l’Imu soltanto per certi mesi e altri no. Esistono – è vero – suore esemplari che in un edificio alberghiero di cinque piani tengono per sé l’ultimo e pagano senza fiatare per i primi quattro. Ma è un atteggiamento notoriamente non maggioritario tra gli enti ecclesiastici, i cui amministratori – i casi di Verzé e dell’Idi insegnano – amano spesso aggirare la legge. C’è poco da commentare: la mostruosità giuridica e la lontananza dagli standard europei è tale che appare evidente l’intenzione politica di fare un omaggio alla Chiesa istituzionale. Regalo utilissimo in vista di un reincarico di Monti. Regalo aggiuntivo al privilegio – unico in Italia – di non aver dovuto pagare per l’anno 2012.
Un’ultima annotazione: i soldi per le scuole cattoliche ci sono. Basta che la Chiesa (modificando l’accordo concordatario) dirotti sui suoi istituti una parte dell’8 per mille, notoriamente sproporzionato rispetto alla “congrua” percepita fino al 1984. Per l’esattezza: cinque volte più di prima.

il Fatto 27.11.12
Rappresaglia: l’ILVA chiude
Ora Bersani restituisca i soldi a Riva
7 arresti per concussione e veleni L’azienda caccia 5 mila lavoratori
Il Gip: “Vendola regista delle pressioni sull’Arpa”
Lettera della proprietà al segretario Pd (finanziato con 98 mila euro nel 2006-2007) per bloccare la battaglia ambientalista del suo parlamentare Roberto Della Seta
Il dovere della trasparenza
di Antonello Caporale


È il sapore acre della rappresaglia. È la manifesta volontà di rispondere all’inchiesta della magistratura con la più minacciosa delle ritorsioni possibili. Chiudere l’Ilva a Taranto significa non solo mandare nella disperazione cinquemila famiglie, ma mettere i lucchetti ad altri cinque stabilimenti in Italia e provocare, alla vigilia di Natale, il più acuto dei conflitti sociali. La famiglia Riva chiude i cancelli dopo la pubblicazione dei faldoni che raccontano le collusioni e connivenze di cui hanno goduto. Sputare sulla verità, piegarla quotidianamente agli interessi di chi da quel veleno ha tratto milioni di euro di profitti, sembra sia stato il compito dell’azienda, aiutata da una fetta del mondo sindacale, da una parte del giornalismo e naturalmente dalla politica. I Riva hanno sempre goduto di vasti appoggi. E spesso, benché lontani dal mondo romano, hanno trovato ascolto le loro perorazioni, le richieste continue alla diluizione nel tempo delle minime, essenziali opere di messa in sicurezza del lavoro di migliaia di operai e della tutela della salute di una intera città. Era questo il sistema Taranto. E oggi cosa dice Pier Luigi Bersani, cosa pensa di dire davanti a questa crisi di legalità se egli stesso si trova a essere il destinatario di un dono, pari a 98 mila euro, che i Riva hanno sottoscritto in favore della sua campagna elettorale del 2006? Non serve a molto aggiungere che il patron dell’Ilva ha naturalmente garantito un assegno (ben più cospicuo: 245 mila euro) a Forza Italia. E che le due donazioni erano legittime e previste dalla legge e tutte documentate.
La vicenda è purtroppo una bomba che torna a scoppiare nelle mani del segretario del Pd e proprio mentre è impegnato nella decisiva battaglia per la leadership del centrosinistra. È una questione irrisolta, una domanda inevasa: può un dirigente di sinistra e riformista accettare un sostegno economico da un imprenditore discusso senza essere coinvolto (e un po’ travolto) dal destino di costui? L’inchiesta oggi rivela che un secondo candidato alle primarie, il governatore della Puglia, Nichi Vendola, ha elargito simpatie quantomeno inopportune e disponibilità irrituali. Bersani, prima di illustrare quali sono stati (se ci sono stati) rapporti e richieste dei Riva, dovrebbe restituire al mittente con un tardivo, ma necessario atto riparatore, la somma ricevuta. E Vendola spiegare più approfonditamente se le sue telefonate con i dirigenti dell’Ilva, e le premure e le rassicurazioni, hanno avuto seguito. E se il tono delle sue conversazioni private sia plausibile. Oggi chiede a Bersani di dire parole che emanino “un profumo di sinistra”. Gli chiediamo: quale profumo e quale sinistra?

il Fatto 27.11.12
Le richieste a Bersani e le promesse di Vendola
Il Gip: Al governatore pugliese “la regia” delle pressioni
La lettera per dire a Pier Luigi “di non fare il coglione”
di Antonio Massari


Nell’estate 2010 il gruppo Riva si giocava tutto. E giocava su tutti i tavoli: minacciava di far saltare il ministro Stefania Prestigiacomo, gongolava per il “regalo” ricevuto da Silvio Berlusconi, scriveva a Pier Luigi Bersani per bloccare il senatore del Pd Roberto della Seta, spingeva sul governatore pugliese Nichi Vendola per “frantumare” il presidente dell’Arpa Puglia Giorgio Assennato, incassando - su quest’ultimo progetto - la complicità della Cisl. E nessuno – a giudicare dagli atti – che osasse contraddirli. Il tutto sotto la regia di Girolamo Archinà, dirigente Ilva per le relazioni istituzionali.
Il regalo di Berlusconi
Il senatore del Pd della Seta si oppone al disegno di legge che agevola l’Ilva sulle emissioni di benzo(a) pirene. Fabio Riva parla con suo padre Emilio e gli dice “Archinà vuole che lui (Emilio) faccia una lettera a Bersani, in merito alla polemica sul benzoapirene (…). Fabio dice che il senatore Della Seta ha detto delle falsità assolute (…) che Berlusconi ha fatto un regalo all'Ilva e aggiunge che la lettera serve per dire a Bersani di non fare il ‘coglione’”.
Caro Pierluigi
L’email viene spedita: “Mi rivolgo a lei per un episodio di cui è stato protagonista il senatore Della Seta che mi ha molto sconcertato (…) Scusi lo sfogo ma, proprio per
quello che negli anni di reciproca conoscenza, ha potuto constatare in merito a come la mia azienda opera, confido che saprà comprenderlo…”. Tra gli anni di reciproca conoscenza, spicca il 2006, quando il gruppo Riva finanziò la campagna elettorale di Bersani con 98mila euro.
Far uscire il sangue a Della Seta
E mentre i Riva pensavano di scrivere a Bersani, il deputato del Pd Ludovico Vico veniva intercettato. E, parlando con un dirigente Ilva, commentava: “Ora, a questo punto… lì alla Camera dobbiamo farli uscire il sangue a Della Seta…”.
Salta la Prestigiacomo
Tra gli obiettivi dell’Ilva, nel 2010, c’è l’acquisizione di un’Aia (Autorizzazione integrata ambientale) favorevole al gruppo. L’avvocato Franco Perli riferisce a Fabio Riva di essersi mosso con Luigi Pelaggi, capo dipartimento del ministero dell’Ambiente, retto all’epoca dalla Prestigiacomo e in cui lavorava con la qualifica di direttore generale, l’attuale ministro Corrado Clini (che ha sempre declinato qualsiasi responsabilità nelle procedure sull’Ilva). L’Aia fu firmata nel 2011 e, secondo l’accusa, fu “rilasciata aderendo il più possibile alle richieste dell’Ilva”. Un anno prima l’avvocato Per-li diceva a Fabio Riva: “Gli ho detto (a Pelaggi, ndr) che i Riva sono incazzati come delle bisce (…) hanno già scritto a Letta... gli ho detto che se le cose stanno così (…) noi mettiamo in mobilità 5 o 6mila persone... gli ho detto guarda che su sta roba qui salta la Prestigiacomo… cazzo gli ho detto, scusa è da novembre che io vengo qui in pellegrinaggio da te..... è una roba allucinante! Cioè cosa dobbiamo fare di più, ve l’abbiamo scritta noi! ”.
Le pressioni su Pecorella
Archinà al telefono è irrefrenabile. Contatta il senatore Pdl Pietro Franzoso (scomparso a novembre 2011): è il segretario della commissione parlamentare d’inchiesta sui rifiuti. È a lui che affida il compito di fare pressioni sul presidente della Commissione, Gaetano Pecorella, che intende accollare ai Riva i costi delle bonifiche. Archinà dice della visita della Commissione parlamentare all’Ilva: “É tutto pilotato”.
È sempre l’Aia il pallino dei Riva. E gli inquirenti – spiegando le pressioni su Giorgio Assennato, presidente dell’Arpa Puglia – scrivono che le sollecitazioni, su iniziativa dell’Ilva, non giungevano solo dai palazzi pugliesi, ma anche direttamente dal ministero dell’Ambiente.
“Non mi sono defilato”
“Archinà”, dice al telefono Nichi Vendola col manager Ilva, “State tranquilli, non è che mi sono scordato”. Archinà l’ha incontrato pochi giorni prima, per segnalargli che Assennato gli sta creando problemi. Invece che difendere il lavoro di Assennato, Vendola elogia i Riva: “L’Ilva è una realtà produttiva cui non possiamo rinunciare – dice il governatore – e quindi, fermo restando tutto, dobbiamo vederci … dobbiamo ridare garanzie, volevo dirglielo perché poteva chiamare Riva, e dirgli che il presidente non si è defilato”. Non si defila, Vendola, ma non si espone: “Ho paura che metto la faccia mia e si possono accendere ancora più fuochi”. Vendola ieri ha assicurato di non aver mai fatto pressioni su Assennato. Eppure, nella ricostruzione offerta dagli atti, dopo queste conversazioni, Assennato viene effettivamente redarguito da Vendola e dal suo staff. Ed è lo stesso Assennato a confermarlo in un’intercettazione con Archinà. Per l’accusa è “la prova dell’avvenuto intervento di Vendola”.
“Sono senza palle”
il 23 giugno 2010 Assennato chiama Archinà: “Girolamo sono molto incazzato! La dovete smettere di fare così (…) andare dal presidente e dire che siete vittima di una persecuzione dell’Arpa (…). Vendola questa mattina ha convocato Massimo Blonda (direttore scientifico dell’Arpa, ndr) … vi siete trovati di fronte a persone senza palle! ”.
“La Fiom è vostra alleata”
Nel frattempo Vendola trova il modo di dire ad Archinà: “I vostri alleati principali, in questo momento, lo voglio dire, sono quelli della Fiom”. E di aggiungere: “Le ho fatte veramente le battaglie… le difese sulla vita e sulla salute”. Archinà, in Vendola, però intravede un altro aspetto: “Lui ormai aspira e penso che è di levatura nazionale… secondo me lui ci riesce … ad avere dei successi … per cui a noi della Puglia va bene un discorso del genere”.

Repubblica 27.11.12
Riva: “Due tumori in più? Una minchiata” e nelle carte spunta il nome di Vendola
Il gip: il governatore regista delle pressioni. La replica: falso
di Carlo Bonini e Giuliano Foschini


TARANTO LA MAGISTRATURA di Taranto riscrive la storia dell’acciaio. Cinquecentotrenta pagine di ordinanza di custodia cautelare firmate dal gip Patrizia Todisco accusano l’Ilva e la famiglia che ne è proprietaria, i Riva, di essere stata, per 17 anni, «un’associazione per delinquere». Che ha silenziosamente avvelenato gli operai della fabbrica, la gente di Taranto, un intero ecosistema, con fumi di diossina e idrocarburi.
CHE, nel tempo, si è macchiata di «delitti contro la pubblica amministrazione, quali corruzioni, falsi, abusi di ufficio», fino a farsi «aberrante» Sistema. Utile ad ammansire i “rompiscatole” e a manipolare poteri pubblici, sindacati, amministratori locali, dal sindaco della città Enzo Stefano, al governatore della Regione Puglia Nichi Vendola, parlamentari, alti dirigenti del ministero dell’Ambiente, prelati, affinché l’acciaieria godesse di un’immunità che consentisse «la prosecuzione dell’attività produttiva senza il rispetto, anzi in totale violazione e spregio della normativa vigente».
LA FRASE SHOCK DI RIVA JR
All’Ilva — scrive il gip — in quale conto fossero tenute le conseguenze nocive della produzione è documentato da un brandello di conversazione telefonica intercettata la sera del 9 giugno 2010. Fabio Riva, figlio del patron Emilio, e già vicepresidente e amministratore delegato della società, discute con l’avvocato Perli dell’ennesimo passaggio stretto che l’azienda deve affrontare per poter continuare a tenere in esercizio lo stabilimento: il parere della Commissione Ambiente del Senato e le osservazioni del ministero dell’Ambiente propedeutiche al rilascio dell’Aia (Autorizzazione integrata ambientale). Perli — osserva il gip — è il professionista «che garantisce ai Riva ampia capacità di penetrazione al ministero dell’Ambiente» e raccomanda al suo interlocutore che «la “roba” della Commissione va un po’ pilotata». Anche perché c’è un problema. Il direttore generale dell’Arpa Puglia, Giorgio Assennato, si sta mettendo di traverso con dati allarmanti sul superamento delle soglie di inquinamento ambientale dello stabilimento e sugli effetti catastrofici per la popolazione. Fabio Riva chiosa: «Due casi di tumore in più all’anno... Una minchiata».
L’OBBEDIENZA DEL MINISTERO
E del resto, che quell’Assennato sia visto come una fastidiosa mosca di cui liberarsi o comunque da ammansire, è nel tono di una seconda conversazione intercettata in cui, il 22 luglio del 2010, Perli rassicura Riva di quale livello di obbedienza abbia raggiunto Luigi Pelaggi, capo segreteria dell’allora ministro dell’Ambiente Prestigiacomo. Perli spiega di averlo messo in riga, sollecitandolo a fare “quel che deve”: «Gliel’ho detto a Pelaggi: “Cazzo, è da novembre che io vengo in pellegrinaggio qui da te. Una roba allucinante. Che cosa dobbiamo fare di più? Ve l’abbiamo scritta noi la cosa. Vi tocca solo leggere le carte, metterle in fila e gestire un po’ il rapporto con gli enti locali».
“VENDOLA HA FRANTUMATO ASSEN-NATO”
Di sistemare Assennato, si occupa Girolamo Archinà, capo delle Relazioni esterne dell’Ilva. Di fatto, il facilitatore e plenipotenziario dell’Azienda nei suoi rapporti con gli Enti locali, i sindacati, la stampa locale, le autorità ecclesiastiche (gratifica in occasione delle feste comandate l’allora arcivescovo di Taranto Benigno Papa con offerte in contanti “per opere di carità”, tra i 3 e i 10 mila euro, che vengono depositate su un conto intestato allo stesso prelato), un ispettore della Digos, e finanche il consulente tecnico della Procura Lorenzo Liberti cui consegna 10 mila euro in contanti per ammorbidire la sua perizia. Ebbene, il 30 giugno del 2010, Archinà, al telefono con il segretario provinciale della Cisl, Daniela Fumarola, racconta che «l’avvocato Manna (all’epoca capo di gabinetto del governatore Nichi Vendola) e l’assessore Fratoianni sono stati incaricati di frantumare Assennato» e comunque «cercheranno di farlo fuori». E lo stesso Vendola, il 6 luglio 2010, al telefono con Archinà, lo rassicura sulla sua attenzione all’Ilva: «Siccome ho capito qual è la situazione, mettiamo subito in agenda un incontro con l’ingegnere (Riva, ndr)...
Noi dobbiamo fare ognuno la sua parte. A prescindere da tutti i procedimenti. L’Ilva è una realtà produttiva cui non possiamo rinunciare. Dica a Riva che il Presidente non si è defilato». Parole neutre, dirà Vendola in serata. Che non suggerirebbero alcuna pressione da parte sua su chicchessia, ma testimonierebbero solo «il dovere istituzionale di parlare con i vertici della più grande azienda italiana». «Assennato — spiega il governatore — può raccontare se ha mai subito o pressioni o tirate di orecchi da parte mia. Le mie pressioni sono andate sempre nella direzione di essere inflessibili sull’ambientalizzazione».
LA LETTERA A BERSANI
In quel 2010, Archinà si sbatte al telefono anche con gli onorevoli Ludovico Vico (Pd) e Pietro Franzoso (Pdl, scomparso nel novembre 2011) per rintuzzare il presidente della commissione ambiente del Senato Gaetano Pecorella. E, nel settembre di quell’anno, suggerisce ai Riva di inviare una lettera al segretario del Pd, Pierluigi Bersani («finanziato nella sua campagna elettorale del 2006 dall’Ilva con 98 mila euro regolarmente dichiarati», chiosa la Finanza nella sua informativa alla Procura) per convincerlo «a non fare il coglione» e a contenere le iniziative del senatore Roberto Della Seta che ha accusato Berlusconi di «aver fatto un regalo all’Ilva». Lettera che Emilio Riva effettivamente manderà a Bersani l’1 ottobre 2010. Di cui la magistratura intercetterà una copia nella casella di posta elettronica di Archinà, ma di cui ignora l’esito.

il Fatto 27.11.12
Diario dal Guatemala
Candidarmi in politica? Non ci penso proprio
di Antonio Ingroia


Nell’estate 2010 il gruppo Riva si giocava tutto. E giocava su tutti i tavoli: minacciava di far saltare il ministro Stefania Prestigiacomo, gongolava per il “regalo” ricevuto da Silvio Berlusconi, scriveva a Pier Luigi Bersani per bloccare il senatore del Pd Roberto della Seta, spingeva sul governatore pugliese Nichi Vendola per “frantumare” il presidente dell’Arpa Puglia Giorgio Assennato, incassando - su quest’ultimo progetto - la complicità della Cisl. E nessuno – a giudicare dagli atti – che osasse contraddirli. Il tutto sotto la regia di Girolamo Archinà, dirigente Ilva per le relazioni istituzionali.
Il regalo di Berlusconi
Il senatore del Pd della Seta si oppone al disegno di legge che agevola l’Ilva sulle emissioni di benzo(a) pirene. Fabio Riva parla con suo padre Emilio e gli dice “Archinà vuole che lui (Emilio) faccia una lettera a Bersani, in merito alla polemica sul benzoapirene (…). Fabio dice che il senatore Della Seta ha detto delle falsità assolute (…) che Berlusconi ha fatto un regalo all'Ilva e aggiunge che la lettera serve per dire a Bersani di non fare il ‘coglione’”.
Caro Pierluigi
L’email viene spedita: “Mi rivolgo a lei per un episodio di cui è stato protagonista il senatore Della Seta che mi ha molto sconcertato (…) Scusi lo sfogo ma, proprio per
quello che negli anni di reciproca conoscenza, ha potuto constatare in merito a come la mia azienda opera, confido che saprà comprenderlo…”. Tra gli anni di reciproca conoscenza, spicca il 2006, quando il gruppo Riva finanziò la campagna elettorale di Bersani con 98mila euro.
Far uscire il sangue a Della Seta
E mentre i Riva pensavano di scrivere a Bersani, il deputato del Pd Ludovico Vico veniva intercettato. E, parlando con un dirigente Ilva, commentava: “Ora, a questo punto… lì alla Camera dobbiamo farli uscire il sangue a Della Seta…”.
Salta la Prestigiacomo
Tra gli obiettivi dell’Ilva, nel 2010, c’è l’acquisizione di un’Aia (Autorizzazione integrata ambientale) favorevole al gruppo. L’avvocato Franco Perli riferisce a Fabio Riva di essersi mosso con Luigi Pelaggi, capo dipartimento del ministero dell’Ambiente, retto all’epoca dalla Prestigiacomo e in cui lavorava con la qualifica di direttore generale, l’attuale ministro Corrado Clini (che ha sempre declinato qualsiasi responsabilità nelle procedure sull’Ilva). L’Aia fu firmata nel 2011 e, secondo l’accusa, fu “rilasciata aderendo il più possibile alle richieste dell’Ilva”. Un anno prima l’avvocato Per-li diceva a Fabio Riva: “Gli ho detto (a Pelaggi, ndr) che i Riva sono incazzati come delle bisce (…) hanno già scritto a Letta... gli ho detto che se le cose stanno così (…) noi mettiamo in mobilità 5 o 6mila persone... gli ho detto guarda che su sta roba qui salta la Prestigiacomo… cazzo gli ho detto, scusa è da novembre che io vengo qui in pellegrinaggio da te..... è una roba allucinante! Cioè cosa dobbiamo fare di più, ve l’abbiamo scritta noi! ”.
Le pressioni su Pecorella
Archinà al telefono è irrefrenabile. Contatta il senatore Pdl Pietro Franzoso (scomparso a novembre 2011): è il segretario della commissione parlamentare d’inchiesta sui rifiuti. È a lui che affida il compito di fare pressioni sul presidente della Commissione, Gaetano Pecorella, che intende accollare ai Riva i costi delle bonifiche. Archinà dice della visita della Commissione parlamentare all’Ilva: “É tutto pilotato”.
È sempre l’Aia il pallino dei Riva. E gli inquirenti – spiegando le pressioni su Giorgio Assennato, presidente dell’Arpa Puglia – scrivono che le sollecitazioni, su iniziativa dell’Ilva, non giungevano solo dai palazzi pugliesi, ma anche direttamente dal ministero dell’Ambiente.
“Non mi sono defilato”
“Archinà”, dice al telefono Nichi Vendola col manager Ilva, “State tranquilli, non è che mi sono scordato”. Archinà l’ha incontrato pochi giorni prima, per segnalargli che Assennato gli sta creando problemi. Invece che difendere il lavoro di Assennato, Vendola elogia i Riva: “L’Ilva è una realtà produttiva cui non possiamo rinunciare – dice il governatore – e quindi, fermo restando tutto, dobbiamo vederci … dobbiamo ridare garanzie, volevo dirglielo perché poteva chiamare Riva, e dirgli che il presidente non si è defilato”. Non si defila, Vendola, ma non si espone: “Ho paura che metto la faccia mia e si possono accendere ancora più fuochi”. Vendola ieri ha assicurato di non aver mai fatto pressioni su Assennato. Eppure, nella ricostruzione offerta dagli atti, dopo queste conversazioni, Assennato viene effettivamente redarguito da Vendola e dal suo staff. Ed è lo stesso Assennato a confermarlo in un’intercettazione con Archinà. Per l’accusa è “la prova dell’avvenuto intervento di Vendola”.
“Sono senza palle”
il 23 giugno 2010 Assennato chiama Archinà: “Girolamo sono molto incazzato! La dovete smettere di fare così (…) andare dal presidente e dire che siete vittima di una persecuzione dell’Arpa (…). Vendola questa mattina ha convocato Massimo Blonda (direttore scientifico dell’Arpa, ndr) … vi siete trovati di fronte a persone senza palle! ”.
“La Fiom è vostra alleata”
Nel frattempo Vendola trova il modo di dire ad Archinà: “I vostri alleati principali, in questo momento, lo voglio dire, sono quelli della Fiom”. E di aggiungere: “Le ho fatte veramente le battaglie… le difese sulla vita e sulla salute”. Archinà, in Vendola, però intravede un altro aspetto: “Lui ormai aspira e penso che è di levatura nazionale… secondo me lui ci riesce … ad avere dei successi … per cui a noi della Puglia va bene un discorso del genere”.

l’Unità 27.11.12
Il compito dei cattolici che scelgono il Pd
di Michele Nicoletti

Docente di Filosofia politica

DOPO LA FIRMA DEL MANIFESTO PER LA TERZA REPUBBLICA DA PARTE DI AUTOREVOLI RAPPRESENTANTI DI ASSOCIAZIONI CATTOLICHE, SI È RIAPERTA, ANCHE NEL PARTITO DEMOCRATICO, la discussione sul rapporto tra cattolicesimo politico e democrazia italiana.
Personalmente ritengo che la democrazia italiana (e non solo italiana) abbia bisogno del contributo di credenti. Non solo di credenti cattolici, naturalmente, ma certamente anche di questi. Ha bisogno di persone che credono che la storia dell’umanità non sia abbandonata al caso né sia condannata al male, e che quindi vivono sorretti da un’incrollabile speranza che l’offesa nei confronti di un essere umano non costituisca l’ultima parola della nostra esistenza; che un’altra vita diversa da quella umiliata dal dolore e dalla morte sia possibile; che l’amore per l’altro non sia atto da idioti ma il senso più alto che possiamo dare alla nostra esistenza; che ogni persona la più piccola, la più debole o deforme abbia una dignità infinita e che davanti ad essa la politica non possa che mettersi in ginocchio a servirla e che quindi ogni società, ogni istituzione, ogni denaro, ogni cosa non sia che uno strumento, perché la vita delle persone possa meglio fiorire liberamente. È contro la creazione mettere le persone al servizio delle cose e non viceversa e la politica, come tutte le cose, è affare umano e non sacro, e quindi criticabile, modificabile, limitabile, insomma radicalmente secolare, appartenente a questo tempo che passa.
Sulla base di queste e tante altre belle idee, e nonostante i loro innumerevoli vizi e limiti, i credenti assieme a tanti altri si intende hanno potuto dare un contributo importante alla costituzionalizzazione del potere politico, insomma a quel processo teso a contenere la tendenza assolutistica e dispotica del potere, a mettergli dei limiti affermando il valore infinito della persona, la natura incomprimibile della sua libertà, l’uguaglianza di ogni essere umano, la natura plurale della società, il valore della legge e l’importanza dell’autentico consenso popolare.
Ora, in questo lavorio di costituzionalizzazione del potere politico, ossia di sua relativizzazione, ci dobbiamo mettere anche la costruzione di una democrazia dell’alternanza, ossia di quella democrazia moderna che in nome di una radicale uguaglianza tra governanti e governati vuole evitare che si cristallizzi in modo permanente e inamovibile un gruppo sociale al potere e tende invece a favorire l’alternarsi di gruppi diversi, proprio per evitare il concentrarsi del potere nelle stesse mani per un periodo troppo lungo. Inoltre, nella dialettica tra maggioranza e opposizione si esprime anche quell’idea di relatività di ogni posizione politica che per sé non può mai rivendicare la rappresentanza del tutto, ma sa di essere sempre una parte, e di essere perciò obbligata ad ascoltare le ragioni dell’altra parte e poi, al popolo piacendo, a cedervi il passo.
Per questo i cattolici democratici hanno dato il loro contributo assieme ad altri a costituzionalizzare il potere politico, lottando prima contro il totalitarismo, quando il potere si era fatto assoluto, e sforzandosi poi di portare la democrazia italiana a compimento in una matura democrazia dell’alternanza. Con altri hanno combattuto il fascismo, hanno scritto quella che a ragione Pier Luigi Bersani definisce la «più bella Costituzione del mondo», hanno cercato di sviluppare la democrazia in Italia fino a comprendere con Moro, Ruffilli, Elia, Scoppola e molti altri che il compimento del loro contributo di cattolici democratici alla democrazia italiana doveva essere quello di realizzarne le condizioni di funzionamento attraverso un moderno sistema di partiti. Partiti aperti, puliti, popolari, stabili, europei che non cambiano ad ogni stagione.
Nel centrosinistra i cattolici democratici hanno contribuito assieme ad altri a costruire il Partito democratico. Lo hanno voluto «democratico» senza aggettivi e quindi non «cattolico democratico», «liberaldemocratico» o «socialdemocratico», perché nella democrazia si inverano tutte queste correnti e in questo orizzonte più inclusivo ognuno può riconoscersi, può essere se stesso e con altri diversi grazie a Dio da lui può pensare e costruire opere più larghe di se stesso. Se nel centrodestra altri cattolici facessero qualcosa di simile e riuscissero a costruire una forza moderata, stabile e democratica, sarebbe un servizio per l’Italia.
Sarebbe davvero paradossale se giunti alla stretta finale di questa lunghissima transizione italiana alla «normalità», se al momento di europeizzare davvero la politica italiana portando dentro l’Europa tutta l’originalità del nostro Paese, i cattolici democratici perdessero di vista quest’obiettivo (la costituzionalizzazione del potere politico attraverso il compimento della democrazia dell’alternanza) e ridessero fiato a centri equidistanti, a sistemi elettorali incapaci di garantire governabilità e riconsegnassero la politica italiana a soluzioni emergenziali, a formazioni politiche dai contorni ideali incerti, a partiti che si fanno e si disfano a ogni convenienza elettorale. Non sarebbe un servizio all’Italia, ma la sua condanna all’irrilevanza.
Con tutti i limiti che ogni impresa politica e tanto più partitica porta con sé, il Partito democratico è frutto di questa speranza e di questa fatica di tante generazioni diverse e ci ha fatto fare un grande, incommensurabile passo avanti se solo volgiamo lo sguardo alle divisioni passate tra le grandi correnti democratiche. E se hanno un senso le istituzioni e strutture politiche è proprio quello di consentire a chi viene dopo di non dover ricominciare da capo. La costituzionalizzazione del potere non si ha facendo piazza pulita ad ogni piè sospinto di ciò che si è raggiunto, ma attraverso accumuli pazienti e nuove lotte più avanzate, lo stesso che avviene nella difesa dei diritti.
Dunque cerchiamo di allargare il campo e guai a noi se cadessimo nell’errore di non vedere il nuovo che sta fuori, ma teniamo la barra dritta verso la meta che ci siamo dati, quella democrazia dell’alternanza in cui i credenti, liberati da ogni tentazione temporalistica, sanno stare dall’una e dall’altra parte, con umiltà e speranza.

il Fatto 27.11.12
Mary Pound de Rachewiltz: “Casa Pound, casa di ladri”
di Maurizio Chierici


HANNO rubato il nome di mio padre. Ignoranti, soprattutto ladri”. Mary Pound de Rachewiltz ha 87 anni. Raccoglie e traduce gli scritti del poeta in un castello sopra Merano, sottile come un campanile sgretolato dall’abbandono. Anni fa scopre in un mercatino di Natale il ritratto del padre nella cornice rosso e nera di Casa Pound. Cosa fare? Pound è morto nel ‘72, i diritti d’autore durano 50 anni, Mary è l’erede universale. Ma non sa chi sono “i ladri”. Si rivolge a Giano Accame, profugo dalla Repubblica di Salò e appassionato alle tesi economiche con le quali Pound immaginava di rovesciare il mondo. “I giornali parlano di naziskin... ”. La risposta di Accame sconsola: “Bisogna ringraziare in questi anni difficili i giovani che difendono certi ideali”. “Non capisco quali siano gli ideali di chi ha rubato il nome di mio padre senza chiedere permesso. Odiava la violenza, lo ha ripetuto a Pier Paolo Pasolini nell’intervista che ha girato il mondo e leggo che la violenza attira come il miele le mosche di Casa Pound”: botte e occhi neri perfino ai camerati che non la pensano come loro.
LE PARLANO di Gianluca Iannone, leader carismatico del “fascismo del Terzo millennio”. E la signora va a Roma per capire. “Arrivano questi rapati, giubbotti di pelle scura. Ne ascolto i discorsi: santo cielo che ignoranza. Non sanno niente del pensiero di Pound. Voglio dare un consiglio: non usatelo come paravento per chissà quali intenzioni. Leggetelo e poi dite se il suo pensiero si avvicina alla vostra nostalgia”. Alle proteste della figlia rispondono con la furbizia di un certo tipo di italiani: Casa Pound diventa Casapound, una sola parola, poeta trasformato in appendice con la “P” minuscola che allunga le distanze quel tanto che basta per mettere dribblare chi rompe le scatole “Questa la loro rivoluzione? ”. Mary si meraviglia “di Accame e della gente che li prende sul serio”. Mormora qualche nome, la voce trema. “Forse non sanno cos’è stato il fascismo. Allora perché dare corda al movimento dell’ambiguità? ”. Troppo isolata e troppo onesta per sciogliere le matasse della strategia della confusione. Qualche mese dopo, Casapound si riunisce a Parma: corriere che arrivano dal Veneto, “Cuori Neri” di Milano, soprattutto Roma. Cantano “Le donne non mi vogliono più bene – perché porto la camicia nera”.
CHIEDO all’angelo custode di Iannone se è informato che la loro sede si trova in via ammiraglio Luigi Mascherpa, fucilato dai fascisti di Salò per aver resistito ai tedeschi nel ’43. Dirimpetto alla vetrina Casapound una piccola forca impicca la targa della strada dedicata a Mascherpa. L’angelo custode si arrabbia “vuol provocare? ”. Sale i tre gradini che ci separano dal monumento Iannone: “di marmo” come appunta nel suo blog. Iannone va a parlare con la polizia e un Digos in borghese mi ordina di sgombrare. “La strada è di tutti”, provo a dire. “Non vogliamo disordini”. Come ricorda la figlia di Pound “sono sempre mescolati a cose così”.

Corriere 27.11.12
Monti e il caso dei «prof conservatori»
Gli insegnanti rispondono al premier. «Guardi i colleghi universitari»
di Mariolina Iossa


ROMA — Il premier Monti da Fazio a «Che tempo che fa» dice di aver trovato nella scuola, parlando degli insegnanti, «grande conservatorismo e indisponibilità a fare anche due ore in più alla settimana che avrebbero permesso di aumentare la produttività». Si rammarica, il presidente del Consiglio, che «i corporativismi spesso usano anche i giovani per perpetuarsi». Gli dà ragione il capo dello Stato Giorgio Napolitano, lo dice al Quirinale ricevendo i nuovi Cavalieri del lavoro, che nella scuola «non si può restare prigionieri di conservatorismi e corporativismi, come proprio ieri ha sottolineato il presidente Monti». Anche se poi aggiunge che lo Stato deve fare di più «per la scuola e soprattutto per l'università e la ricerca».
Corporativi? Conservatori? Di qualunque idea politica siano gli insegnanti, ieri in massa, si sono rivoltati a queste parole. Come del resto hanno fatto sindacati e partiti politici, dal Pd al Pdl. Hanno scritto, indignati, i loro commenti sul profilo Facebook della trasmissione di Fazio. Hanno criticato duramente anche Fazio che non ha concesso un contradditorio, e pretendono adesso che questo torto venga riparato, chiedono di andare in studio a spiegare le loro ragioni.
I commenti su Facebook sono un fiume in piena. Scrivono i professori che quelle di Monti sono «affermazioni false e diffamatorie: le ore pretese erano 6 e non 2, differenza non certo irrilevante». Inoltre, «quale categoria, per giunta mal pagata, con contratto nazionale e stipendi bloccati dal 2009 (e secondo la legge di stabilità resteranno bloccati fino al 2014), accetterebbe di lavorare 6 ore in più a settimana, ovvero il 33 per cento in più a stipendio invariato?». E ancora: «Come si fa a pensare di aver ragione quando si scavalca il contratto nazionale e si vuole cambiare il rapporto di lavoro unilateralmente, senza contrattazione, senza uno straccio di tavolo, con una legge d'emergenza?».
«Lasci da parte gli odiosi luoghi comuni — dice Francesco Scrima, Cisl —. Non chieda solo alla scuola di dare al Paese ma ci dica anche che cosa il Paese intende dare alla scuola». «Parole offensive e gravissime — commenta Mimmo Pantaleo, Cgil — che confermano il carattere autoritario e liberista del governo Monti, espressione dei banchieri e dei poteri forti». «Il governo si impegni per i veri corporativismi che non sono stati toccati», ribatte Massimo Di Menna, Uil. E Rino Di Meglio, Gilda: «Prima di accusare gli insegnanti di corporativismo conservatore Monti dovrebbe chiedere lo stesso sacrificio ai suoi colleghi universitari».
S'indignano anche gli studenti, che in questi giorni occupano le scuole, spesso protestando accanto ai loro insegnanti. «Il presidente del Consiglio farebbe bene a chiedersi perché scendiamo in piazza a protestare. Non siamo manipolati dai docenti ma vediamo e subiamo sulla nostra pelle lo sfascio della scuola italiana», dicono Udu e Rete degli studenti.

Corriere 27.11.12
Palestina all'Onu: gli europei divisi, l'Italia in bilico
Giovedì voto sullo status di osservatore
di Francesco Battistini


GERUSALEMME — Questi fantasmi. Giorni di revival. A Ramallah riesumano la salma di Arafat, alla ricerca del veleno che forse l'uccise. All'Onu si dissotterra lo status della Palestina, antidoto alla frustrazione d'uno Stato che non c'è. Quale spettro impensierisca di più Abu Mazen e gl'israeliani, si vedrà: «Vado a New York a chiedere una pace giusta e basata sulla legittimazione internazionale — dice il successore d'Arafat — per giungere a uno Stato palestinese indipendente con Gerusalemme capitale». Parole enfatiche: giovedì, il leader palestinese tornerà al Palazzo di vetro per chiedere il riconoscimento di Stato osservatore, non membro, un po' com'è il Vaticano. L'anno scorso, la sua intifada diplomatica s'incagliò nelle procedure. Stavolta, i Paesi dell'assemblea Onu diranno sì e per Abu Mazen sarà comunque un successo: la Palestina non diventerà uno Stato, ma potrà adire organismi come la Corte penale dell'Aja e chiedere sanzioni contro Israele, contro l'occupazione della Cisgiordania, contro l'espansione delle colonie illegali.
Il giorno scelto per il riconoscimento internazionale, 29 novembre, non è casuale. Nel 1947, fu in quella data che le Nazioni Unite (33 sì, 13 no) votarono la partizione della Palestina ex mandato britannico, riconobbero il diritto d'Israele a esistere, scatenarono l'ira del mondo arabo. Non è in discussione il risultato: Abu Mazen ha già il sostegno d'almeno 130 dei 193 Stati membri. La battaglia è sul peso di certi voti: i palestinesi pensano d'arrivare a quota 150, gl'israeliani sperano d'indebolirne il sostegno a 120, sotto la soglia necessaria. La partita si gioca con l'Europa, come al solito divisa: sono per il sì una quindicina di governi, tra questi la Francia, la Spagna, l'Irlanda, il Portogallo, gli scandinavi; per il no, Repubblica Ceca e pochi altri; per l'astensione, la Germania, Londra, l'Olanda. Anche l'Italia, che lo Stato ebraico spinge a schierarsi sul fronte del no, è per astenersi: così ha fatto capire Mario Monti un mese fa, nella sua visita a Gerusalemme, una posizione che gli è costata qualche editoriale ostile («era meglio Berlusconi», ha scritto il più diffuso giornale israeliano). È probabile che molti Paesi rivedano la loro posizione, se passa la soluzione «ex nunc» suggerita nelle ultime ore dal presidente francese, Hollande: sì alla Palestina nell'Onu, ma col diritto di ricorrere all'Aja solo per violazioni future, escludendo così i ricorsi sugl'insediamenti e sulle operazioni militari israeliane del passato.
Il pressing diplomatico, Usa in testa, è notevole. A metà novembre, Obama ha telefonato ad Abu Mazen per convincerlo a recedere. Inutile: in difficoltà interna, il presidente dell'Anp ha bisogno d'un successo immediato e ha già ricevuto l'insperato sostegno di Hamas e Jihad, un tempo contrari all'intifada diplomatica. La settimana scorsa Hillary Clinton, atterrata per la tregua di Gaza, l'ha ripetuto: se passa lo status all'Onu, addio soldi americani all'Anp. Potrebbe essere «riconsiderata» anche la presenza d'un ufficio Olp a Washington. In verità, gl'israeliani considerano queste dichiarazioni solo di facciata, ritenendo che la Casa Bianca appoggi nei fatti la svolta. Prova ne sarebbe la richiesta della Clinton, a Bibi Netanyahu, d'evitare comunque contromosse immediate: contenendo a fatica i suoi ministri Lieberman e Steinitz, che chiedono d'interrompere ogni rapporto con l'Anp («Abu Mazen s'è travestito da Hamas!») e considerano l'iniziativa all'Onu «più pericolosa dei razzi da Gaza», lo stesso Bibi preferisce aspettare di capire a che cosa porterà, in concreto, questo nuovo status. Rivedere Oslo? Annettere le colonie? «È una risoluzione puramente simbolica — ha confidato il premier — se poi ricorreranno all'Aja, allora la considereremo una rottura unilaterale delle regole. E romperemo le regole pure noi».

Corriere 27.11.12
I due terzi di «sì» sono già garantiti


Per diventare membro osservatore la Palestina deve ottenere il sì da due terzi dei 193 Stati dell'Onu. Almeno 130 hanno già assicurato il voto, lo stesso numero di Paesi che riconosce uno Stato di Palestina (confini del '67). L'Anp punta a 150 sì, Israele spera di indebolirne il sostegno a 120
Il «no» e le pressioni degli Stati Uniti
Washington è contraria alla richiesta palestinese: a metà novembre Obama ha chiamato Abu Mazen per convincerlo a rinunciare, senza successo. Giorni fa la Clinton ha minacciato di tagliare i fondi Usa all'Anp e di chiuderne l'ufficio a Washington
L'Unione dei 27 spaccata sul voto
Tra i Paesi Ue la Palestina dovrebbe ottenere tra i 12 e i 15 «sì». A favore, tra gli altri, Francia, Spagna, Portogallo, Irlanda e Paesi scandinavi. Chiaramente contraria la Repubblica Ceca. Astenuti (o indecisi): Italia, Germania, Regno Unito e Olanda

Corriere 27.11.12
La seconda guerra di Gaza e le lezioni del passato
risponde Sergio Romano


Perché i palestinesi della Striscia di Gaza si sono messi d'accordo con gli israeliani se non hanno avuto nulla in contropartita, visto che gli israeliani non ci sono più a Gaza da anni? Per quale motivo gli islamici hanno lanciato i razzi su Israele se poi, costretti a obbedire a un cessate il fuoco, si sono dichiarati vittoriosi? Ho la sensazione che Israele non sia caduta nel trabocchetto di invadere via terra la Striscia di Gaza e così i fondamentalisti, non avendo potuto dichiarare la guerra santa, hanno fatto buon viso a cattiva sorte.
Roberto Pepe

Caro Pepe,
Credo che lei dovrebbe considerare gli avvenimenti da un altro punto di vista. Ciò che è accaduto a Gaza negli scorsi giorni non è sostanzialmente diverso da ciò che accadde nella guerra d'Israele contro il Libano del 2006 e nell'operazione «piombo fuso» contro Gaza del 2008. Nella prima il governo israeliano reagì con una offensiva militare alle frequenti incursioni degli Hezbollah libanesi sulla frontiera dei due Paesi. Voleva annientare l'organizzazione militare sciita e costringere il governo di Beirut a sbarazzarsi di un movimento che era divenuto ormai uno Stato nello Stato. L'offensiva durò dal 12 luglio al 14 agosto e si concluse grazie all'intervento dell'Onu e di alcuni Paesi fra cui, in particolare, l'Italia. Venne deciso di rafforzare Unifil, la forza d'interposizione dell'Onu, e di autorizzarla a usare le forza per impedire nuove incursioni contro Israele. La guerra lasciò sul terreno circa 1.300 libanesi e 165 israeliani. Hezbollah non è stato annientato ed è oggi una decisiva componente politica del governo di Beirut.
«Piombo fuso» è il nome dell'operazione contro la Striscia di Gaza con cui il governo di Ehud Olmert, nel dicembre del 2008, reagì ai razzi che l'ala militare di Hamas e Jihad islamica lanciavano contro le cittadine israeliane al di là del confine. I bombardamenti e le incursioni delle truppe israeliane durarono dal 27 dicembre al 18 gennaio. I morti furono 13 nel campo israeliano e circa 1.300 in quello palestinese. Ancora una volta l'intervento dell'Onu e di altre potenze, fra cui in particolare l'Egitto di Hosni Mubarak, produsse una sospensione delle ostilità che avrebbe dovuto interrompere lo stillicidio dei razzi palestinesi contro il territorio israeliano. Quella tregua, come sappiamo, è stata più volte violata, soprattutto nella fase che ha preceduto l'operazione israeliana degli scorsi giorni. Esistono buoni motivi per pensare che il nuovo accordo abbia migliore fortuna? Non credo che il governo israeliano si faccia illusioni. Credo piuttosto che anche in questo caso, come in quelli precedenti, sia stato costretto a interrompere le sue operazioni dalla constatazione che la vittoria militare sarebbe stata ottenuta soltanto a un prezzo moralmente inaccettabile. I dati sulle vittime del conflitto hanno dimostrato che il rapporto, nei conflitti fra Israele e i suoi vicini, è sempre drammaticamente sproporzionato: più di 1 a 100 nel caso di «piombo fuso», più di 1 a 10 negli altri conflitti. In queste condizioni la vittoria, per un Paese democratico e civile come Israele, diviene impossibile.
Anche in questo caso gli sconfitti si sono proclamati vincitori: un atteggiamento che a molti osservatori è parso una ridicola millanteria. Commettono un errore. I conflitti asimmetrici, come quello che si è combattuto tra Israele e i palestinesi di Gaza, hanno regole alquanto diverse dai conflitti simmetrici. Se non riesce ad annientare l'avversario, la potenza maggiore ha perso politicamente la guerra; se riesce a sopravvivere, la potenza minore ha vinto.

Corriere 27.11.12
La destra del Pci nella tenaglia
di Antonio Carioti


A volte ci si domanda se in Italia sarebbe stato possibile, dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine del blocco sovietico, avviare il superamento della divisione tra socialisti e comunisti, evitando la deriva che portò all'implosione del Psi e che ha poi ridotto la sinistra italiana ad essere la più debole e scalcagnata d'Europa. Probabilmente la risposta è negativa: non c'erano le condizioni storiche necessarie. Ma bisogna riconoscere a Emanuele Macaluso di essere stato tra coloro che con più coerenza e serietà si adoperarono per raggiungere quell'approdo, rimasto però un miraggio.
Dall'alto della sua lunga esperienza, l'ex dirigente del Pci ricorda la battaglia condotta assieme agli altri «miglioristi» (ma lui preferisce il termine «riformisti») del suo partito, da Gerardo Chiaromonte a Luciano Lama, in un lucido e vivace libro intervista con l'ex direttore dell'«Unità» Peppino Caldarola: Politicamente s/corretto (Dino Audino Editore, pp. 95, 9,90). Dopo la morte di Enrico Berlinguer, dalle cui posizioni di ostilità verso il Psi si erano distinti, gli esponenti di quella componente comunista si trovarono presi, ricorda Macaluso, in una sorta di tenaglia: da un lato erano visti come un pericoloso fattore d'inquinamento filocraxiano dalla maggioranza del Pci, che li emarginò a tutti i livelli; dall'altro lo stesso Bettino Craxi li considerava potenziali transfughi, da attirare gradualmente nelle file del Garofano in una logica di annessione.
Nemmeno la trasformazione del Pci in Pds cambiò la situazione: Macaluso non ha torto quando sostiene che senza l'azione del gruppo «migliorista», guidato da Giorgio Napolitano, la svolta di Achille Occhetto «si sarebbe arenata». Ma gli ostacoli a un ricongiungimento tra i due partiti della sinistra italiana nel quadro del socialismo europeo rimanevano enormi.
Come osserva lo studioso Andrea Spiri in un saggio che uscirà prossimamente sulla rivista «Ventunesimo Secolo», tra il 1989 e il 1992 Psi e Pci si collocarono agli antipodi su temi cruciali: l'informazione televisiva (legge Mammì), la politica estera (prima guerra del Golfo), le riforme istituzionali (ipotesi presidenzialista e referendum sulla preferenza unica). Non c'è da stupirsi che l'«unità socialista» predicata all'epoca dal Psi sia rimasta «un'astrazione», benché Craxi, negli appunti successivi su cui Spiri ha condotto la sua ricerca, rivendicasse la serietà delle sue intenzioni.
Il colloquio di Macaluso con Caldarola non è tuttavia soltanto una riflessione sul passato. Interessanti e condivisibili sono anche i passi critici verso l'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia della Procura di Palermo e più in generale verso l'impostazione distorta per cui alle aule dei tribunali viene affidato il compito di «ridare un senso alla politica». Quando alle sorti del Partito democratico, Macaluso si mostra assai scettico e insiste sulla necessità di guardare al socialismo europeo. Ma il gruppo dirigente del Pd ha preferito mettere in piedi una formazione che s'ispira semmai, prima di tutto nel nome, al modello americano. Una scelta che, avendo l'Italia un sistema politico e istituzionale lontano anni luce da quello degli Stati Uniti, genera gli scompensi continui sui quali Macaluso esercita la sua vena polemica.

Corriere 27.11.12
«Come i servizi segreti usano i media»
Una chiave per capire «cosa c'è sotto» la notizia
di Ranieri Polese


Si scrive Osint, si legge Open sources intelligence, ovvero l'uso che i servizi segreti fanno delle notizie apparse sui media. Nell'epoca delle intercettazioni a tutto campo e della incontrollabile vastità della Rete, questa prospettiva nello studio dei servizi di intelligence va al di là dell'immagine tradizionale che mostra i servizi interessati a fornire ai media notizie manipolate, false. Qui invece l'intelligence ottiene informazioni dalle «fonti aperte» grazie a uno speciale filtro di lettura.
Il nuovo saggio di Aldo Giannuli, Come i servizi segreti usano i media (Ponte alle Grazie), vuole insegnare ai lettori quel metodo, per aiutarli ad analizzare le notizie, smontarle, confrontarle, leggerle fra le righe. Docente alla Statale di Milano, consulente delle commissioni parlamentari d'inchiesta sulle stragi e sull'affare Mitrokhin nonché consulente giudiziario in vari processi (fra gli altri, piazza Fontana e piazza della Loggia a Brescia), Giannuli offre alcuni esempi di questa lettura. Come il caso di Dominique Strauss-Kahn, la morte di Osama bin Laden, la caduta dell'astro nascente del comunismo cinese Bo Xilai.
Gli chiediamo di leggere notizie uscite quando il libro era già stampato, come l'affaire Petraeus e il sequestro del ragionier Spinelli. «Per come le abbiamo ricevute dai mezzi di informazione, ci appaiono costruite in modo che nemmeno un bambino di 5 anni ci potrebbe credere. Prendiamo Petraeus: l'Fbi, su sollecitazione di una donna che dice di essere molestata dall'amante del capo della Cia, entra nella sua mail; lui non si accorge che la sua cassetta postale è stata «bucata»; anzi usa la mail della Cia per messaggi privati anche con la sua amante. Non regge niente in questo racconto. Ovviamente c'è molto di non detto. Per esempio, la signora Broadwell, l'amante di Petraeus, forse era una spia, ma allora la Cia che ci sta a fare se non sa neppure che la donna con cui il suo capo ha una relazione è al servizio del nemico?
È l'Fbi a scoprirlo. Ma allora perché non va dal presidente degli Usa? Di certo c'è che è in atto una lotta fra i servizi segreti americani; che il disastro di Bengasi (nell'attacco al consolato americano restano uccisi l'ambasciatore Christopher Stevens e due marine) è l'episodio che scatena la resa dei conti; che la nuova amministrazione Obama sta procedendo a una riorganizzazione degli assetti».
E Spinelli? «Stesso grado di incredibilità per questa storia. Tutti i dettagli raccontati sono pazzeschi, l'offerta della chiavetta, la recita del rosario eccetera. Si può pensare che era in atto un ricatto al Cavaliere. Ma per cosa? Dopo le storie del bunga bunga, difficile trovare qualcosa di più clamoroso di quello già uscito. Anche il sospetto giro di coca, insomma, non scandalizzerebbe più di tanto. Forse, azzardo, ci potrebbe essere un tangentone di qualche miliardo di euro. Però non sottovaluterei il fatto che fra le ragazze sul libro paga di Spinelli due sono legate al clan barese di Savinuccio Parisi, un manager del crimine del calibro di Messina Denaro o Riina. Insomma, l'idea precisa è che sotto questa storia ci sia qualcosa di veramente grosso ma che per ora è difficile cogliere». Fra Petraeus e il caso Spinelli-Berlusconi c'è anche un'altra affinità: le donne, il sesso. «Sì, assistiamo da qualche tempo a un'epidemia di sesso compulsivo che colpisce uomini di potere in tutto il mondo. Da Berlusconi a Strauss-Kahn, dal capo della Cia all'ex presidente israeliano Katzav. Fino a non molto tempo fa, i servizi segreti conoscevano le storie private dei politici ma erano molto discreti. In America tutti sapevano che il capo del Fbi Hoover era gay, ma nessuno ne parlava; Hoover a sua volta conosceva i nomi di tutte le amanti di J.F. Kennedy, ma i media non ne scrivevano. In Italia, dopo il caso Montesi (il Pci cavalcò la storia della ragazza trovata morta sulla spiaggia di Torvajanica l'11 aprile 1953 ), si stipulò una sorta di tregua durata molti anni. Era successo che l'avvocato Giuseppe Sotgiu, comunista, difensore dei giornalisti che accusavano il figlio del ministro dc Piccioni, risultò da un'indagine della questura un frequentatore con la moglie di una casa d'appuntamenti». E oggi? «Da un lato assistiamo a una moltiplicazione di servizi segreti; si nota un abbassamento del livello di professionalità dell'intelligence; gli uomini di potere sono in preda a una sindrome di sesso compulsivo e le storie di sesso, che prima erano tenute come carte di riserva dai servizi, circolano apertamente.
Dall'altro lato, però, è avvenuto un cambiamento nei rapporti fra politica ed economia, «prima erano distinte, oggi l'economia, o meglio la finanza, ha preso il posto della politica, decide i governi e la loro durata, regola i rapporti internazionali. Ai politici non resta che usare i propri privilegi per far soldi e cercare avventure sessuali sempre più spinte».

Il libro di Aldo Giannuli, «Come i servizi segreti usano i media», Ponte alle Grazie, pp. 240 13,50, è presentato oggi dall'autore alla Libreria Centofiori di piazzale Dateo 5, Milano, alle 18.30, con Luca Sofri e Giuliano Tavaroli

l’Unità 27.11.12
Il principe indiano fuori dal palazzo
Parla Silvia Ronchey che, con Paolo Cesaretti, torna su Barlaam e Joasaf
La vita bizantina del Buddha
L’autrice: «Questa è la storia delle storie, uno dei pochi elementi comuni tra il Dna culturale orientale e occidentale»
di Chiara Valerio


«PER RISPECCHIARE QUESTA PECULIARITÀ DEL BARLAAM E IOASAF NEL 1979-1980 GLI AUTORI DELLA PRESENTE TRADUZIONE AVEVANO ADOTTATO, NELLA RESA ITALIANA, UN ANALOGO ARCAISMO STILISTICO. SCELTA CHE OGGI, A POSTERIORI, PUÒ FORSE CONSIDERARSI DETTATA DA UN ECCESSO DI ZELO GIOVANILE...». Paolo Cesaretti e Silvia Ronchey, a distanza di più di trent’anni, e senza «lo zelo giovanile», (auto)sanzionato in una nota, tornano su Barlaam e Joasaf (Storia di Barlaam e Ioasaf. La vita bizantina del Buddha, Nuova Universale Einaudi, 2012), aggiungendo così il loro personale tassello al libro-intarsio che ha raccolto, inglobato e ispirato le concrezioni di pensiero, ossessione ed estetica di schiere di studiosi, di appassionati e di scrittori.
Non è falso tuttavia scrivere che al centro de la Storia di Barlaam e Ioasaf sta assiso un principe indiano che, rinchiuso dal padre in un palazzo meraviglioso perché non conosca dolore, vecchiaia e morte, e che, per questo, «ha ricevuto in sorte il dono dello stupore», sfugge al proprio destino di grazia e intraprende, forse scalzo, un cammino di conoscenza, di altrove e di solitudine. Non è falso, ma non è tutto, come si capisce per sempre leggendo il Buddha bizantino, l’introduzione di Ronchey che, sotto l’esergo da La tempesta di Shakespeare «il passato è un prologo» racconta con acribia filologica e nitida tensione narrativa quanto una storia «la stringa genetica delle storie» anticipi o segua certe migrazioni, di genti, di idee e di culti, di sistemi politici pure, e di quanto le intenzioni narrative «perché la purezza non venga contaminata dalla cognizione del dolore» nascano assolte ma attraverso il tempo e le conoscenze, si ibridino, diventino altro. Di quanto, per esempio, già per gli studiosi di fine ottocento la storia del Barlaam e Joasaf echeggiava quella del Buddha.
Nella prefazione di Ronchey, l’eco diventa però un percorso dimostrativo di una somiglianza per ibridazione o per frequentazione. Questa dimostrazione potrebbe avere natura di filologia, di glottologa, o di teologia e invece ha essenza narrativa. Perché, ancora, aggiunge un tassello, entrando così a comporre l’oltrevita di Barlaam e Joasaf, dove, finalmente «non si può smettere di sapere quello che si sa». E per questo, la ripubblicazione de La storia di Barlaam e Joasaf, con la nuova introduzione di Ronchey, è, in questo nostro fosco periodo di assenza di responsabilità e dunque di conseguenze, un gesto rivoluzionario. Qual è il senso bizantino della parola «conoscenza»?
«La conoscenza è reminiscenza e trasmissione».
Chi è «il guaritore dei racconti»?
«Forse questo libro stesso, forse il suo autore, forse Bisanzio. Certo è l’incarnazione di una sapienza che sta nel curare le domande per guarire le risposte e, come sta scritto alla fine dell’introduzione, “far uscire il discorso dall’impasse in cui è caduto e guarire il dialogo malato, evitando il degenerare dei conflitti”. È una sapienza greca, socratica, e bizantina, platonica. Molte le applicazioni attuali della Terapia Bizantina».
Nel suo Il romanzo di Costantinopoli (Einaudi, 2010), lei parla di Costantinopoli come “la città delle città”, come “una irregolare figura perfetta”, quanto «La storia di Barlaam e Joasaf» è la storia delle storie?
«Lo è stata sempre, e non solo a partire dalla riscoperta del buddhismo negli studi orientalistici ottocenteschi e di qui nella filosofia moderna. È uno dei pochi elementi comuni tra il Dna culturale orientale e occidentale. Così come di due braccia due gambe e una testa, l’essere umano è universalmente dotato della capacità di comprendere la sua vana condizione esistenziale al di là del velo delle apparenze. La “stringa originaria” della storia del principe Siddharta Gautama figlio di Suddhodana re Sakya di Kapilavastu fa parte del genoma culturale della specie».
E perché?
«Perché ogni storia parte dalla scoperta della morte, perché solo la vicinanza con la morte permette la vita, perché non si è vivi senza la morte e perché come cantava Caterina Caselli “si muore un po’ per poter vivere”».
Qual è il suo senso della conoscenza?
«Caccia grossa al dettaglio».
Perché la cultura è riscritta?
«Perché tutto è già stato scritto e come diceva l’Ecclesiaste non c’è nulla di nuovo sotto il sole». Che differenza passa tra un intellettuale contemporaneo, come lei, e un intellettuale bizantino, come Eutimio?
«Siamo sulla stessa barca. Ci troviamo in condizioni simili, davanti a un archivio del sapere immenso. Nel X secolo bizantino è cambiato il “medium”, c’è stata una trascrizione completa di tutti i manoscritti antichi nella nuova scrittura, e quando c’è un cambiamento di “medium”, siamo in odore di rinascenza. La stessa cosa sta accadendo oggi con la digitalizzazione del sapere. D’altronde le vecchie vie di trasmissione sono bloccate. Con eccezioni, non funziona la scuola, non l’università, non l’editoria, non i giornali, ma nonostante questo siamo alla vigilia del sapere. Ogni minuscola biblioteca della provincia australiana o qualsiasi associazione di lettori ha messo online i libri tutto tranne quello che è ancora sotto diritti e ciò significa che un bambino di un villaggio indiano ha davanti la Biblioteca di Babele. Che ognuno di noi si trova davanti alla Biblioteca di Babele. E a parte il pessimismo sulla vita e sulla natura, io credo molto all’impegno politico ed etico, e credo che sia importante quando si parla di qual è la differenza dire che siamo intellettuali bizantini se vogliamo esserlo. Bisanzio è stata la grandissima astronave che ho portato tutta la tradizione classica, greca in particolare, attraverso i secoli. Possiamo leggere l’Iliade perché materialmente il libro è arrivato da Bisanzio. Il nostro rinascimento viene da lì, perché da lì sono arrivati i libri».
Chi è Eutimio?
«Un monaco, come me: un “monachòs”, un “solo”, il Solitario di Goethe».

STORIA DI BARLAAM E IOASAF. LA VITA Silvia Ronchey e Paolo Cesaretti, pagine 313 euro 35,00 Einaudi
Capofila di tutte le storie cristianizzate del Buddha, questo testo bizantino degli anni intorno al Mille ha una genesi affascinante tra il Caucaso e il Monte Athos, in un intreccio di lingue, culture e religioni diverse.
A questo proposito l’introduzione di Silvia Ronchey è un «romanzo di filologia» che mostra come lo studio della tradizione dei testi possa toccare il cuore degli snodi culturali e, in questo caso, degli intricati rapporti fra Occidente e Oriente. La «Storia di Barlaam e loasaf» racconta di un principe indiano che, grazie agli insegnamenti di un anacoreta, fugge dal palazzo dove il padre l’ha rinchiuso per proteggerlo dai mali del mondo, abbandona il destino regale e avvia il suo percorso mistico-eremitico.

Scene di vita di Siddharta
NELLA VALLE DELLO SWAT, TRA LE MONTAGNE AI CONFINI CON L’AFGHANISTAN, L’EQUIPE DI ARCHEOLOGI ITALIANI, tra cui il barese Francesco Genchi, hanno riportato alla luce due scene della vita di Siddharta: la «Grande rinuncia» e la «Grande partenza». Due chiari esempi dell’arte del Gandhara, rara espressione dell’incontro tra il mondo greco e la spiritualità buddista, tra la dominazione di Alessandro Magno e le popolazioni Pashtun, i cui primi contatti risalgono ai primi anni del IV secolo a.C. La scoperta è avvenuta nella città indo-greca Barikot: è qui che è ritrovato il Vihara, tempio buddista di una corte domestica, decorato alla base dai bassorilievi risalenti all’età Kushana, tra il I e il III secolo d.C.

Corriere 27.11.12
Cultura Riabilitiamo Bismarck Non c'entra con Hitler
Fu un realista spietato, ma assomigliava a Cavour
di Paolo Mieli


A porre per prima il tema di una continuità tra Bismarck e Hitler, il fondatore dello Stato tedesco e il sanguinario dittatore del Novecento, fu la «cartolina di Potsdam», che allineava i profili di Federico II, del creatore della Germania unita e del più spietato despota del XX secolo. Hitler, in effetti, al suo ingresso in politica si presentava come il «nuovo Bismarck». In un comizio ai veterani del fallito colpo di Stato del novembre 1923, il dittatore nazista (nel decennale del tentato putsch) attribuì al «cancelliere di ferro» l'originaria concezione di quelli che sarebbero stati i suoi propositi: «Il nome di colui che ha fondato questo impero lo conoscete tutti… non è democrazia, è Bismarck. Un individuo ha dato al popolo tedesco un nuovo Reich e, cosa ancor più importante, con il nuovo Reich, ha dato al popolo tedesco un nuovo orgoglio nazionale, una nuova concezione dell'orgoglio nazionale». Hitler, appena preso il potere, si autoproclamò dunque erede di Bismarck. In parte perché temeva di non essere accettato dagli autentici epigoni di Bismarck. Fu questo genere di preoccupazioni che ispirò la «giornata di Potsdam», il 21 marzo 1933: il maresciallo von Hindenburg e il neo cancelliere Hitler presero parte a una cerimonia davanti alla tomba di Federico II nella Garnisonkirche e, per l'occasione, fu data alle stampe la cartolina di cui si è detto che — alla maniera in cui i russi celebravano la continuità tra Marx, Engels, Lenin e Stalin — presentava la discendenza del nuovo dittatore dai fondatori del Reich.
Fu anche per colpa di quella cartolina che in questo dopoguerra il fondatore (nel 1871) dello Stato tedesco, Otto von Bismarck, è stato più volte presentato dagli storici alla stregua di un precursore di Adolf Hitler. In modo più sofisticato, nel 1946, da Friedrich Meinecke che, ne La catastrofe della Germania (La Nuova Italia), pose la questione in questi termini: «Lo svolgimento della Prima guerra mondiale, e poi della Seconda, ci impone di chiederci se i semi della tragedia futura non fossero già presenti nel Reich bismarckiano». Domanda a cui Meinecke rispondeva positivamente, a dispetto dei tentativi di altri storici, quali Gerhard Ritter, Hans Rothfels, Franz Schnabel, di tenere ben distinta l'immagine di Hitler da quella di Bismarck. Ancora negli anni Sessanta il nesso di Meinecke fu riproposto da Fritz Fischer nel libro Assalto al potere mondiale (Einaudi), che approfondiva le responsabilità della Germania nello scoppio della Grande guerra, tratteggiando, appunto, una linea di continuità tra il Reich bismarckiano e quello hitleriano. E, in termini assai più sottili, da Hans-Ulrich Wehler, il quale in Nazionalismo. Storia, forme, conseguenze (Bollati Boringhieri) ipotizzava che, instaurando un potere fondato sul carisma personale, Bismarck avesse bloccato l'evoluzione della Germania verso la democrazia e aperto, di conseguenza, la via a Hitler. Più rozzi i modi in cui pose la questione il russo Arkadij Samsonovic Erusalimskij, che stabilì un rapporto di continuità tra «i due cancellieri» fin dal titolo di un suo celebre libro: Da Bismarck a Hitler. Tra l'altro questo saggio fu proposto in Italia dalla casa editrice del Partito comunista, Editori Riuniti, arricchito da una prefazione di Ernesto Ragionieri che plaudiva incondizionatamente alle argomentazioni del collega moscovita. A rafforzare, pur in modo non esplicito, la tesi di uno stretto legame di discendenza tra i due cancellieri venne poi, nel 1965, un discorso di Willy Brandt, nel quale l'esponente socialdemocratico fece sue le tesi di Wehler: «Per l'evoluzione democratica della Germania», disse, «Bismarck, con la sua rappresentazione di uno Stato al di sopra dei cittadini, fu una sciagura».
Ci volle, nel 1980, il monumentale Bismarck di Lothar Gall (Rizzoli) per tracciare una linea di netta demarcazione tra i due grandi protagonisti della storia tedesca. Bismarck e Hitler, documentò Gall, erano agli antipodi l'uno dell'altro. E, cosa assai importante, il modo di Gall di guardare alla storia della Germania fu fatto proprio, nel mondo comunista, da due insigni storici della Repubblica democratica tedesca: Ernst Engelberg e Ingrid Mittenzwei. Il cambiamento di giudizio aveva contagiato anche la sinistra. Ancor più esplicito in questo genere di lettura del passato tedesco è ora Jean-Paul Bled, nel Bismarck che sta per essere pubblicato dalla Salerno editrice. Le considerazioni iniziali di Hitler su Bismarck, scriveva già Lothar Gall, erano solo «tattiche». Nella sua marcia verso il potere, a Hitler era necessario «essere inquadrato nella tradizione prussiana». E ancora nel 1932, quando il Partito nazionalsocialista ottiene il 30 per cento dei voti, Hitler ritiene che, per arrivare alla Cancelleria, gli sia indispensabile «un'alleanza con i nazionalisti tedeschi depositari di tale tradizione». La composizione del suo primo governo, in cui siedono diverse personalità vicine alla corrente dei nazionalisti conservatori, riflette tale preoccupazione. Di qui il richiamo costante a Bismarck. Ma, sottolinea adesso Bled, già alla fine degli anni Trenta Hitler manda in soffitta l'immagine di quello che fin lì aveva presentato come un suo precursore.
L'allontanamento dei generali von Blomberg e von Fritsch consente al capo nazista di rimettere in riga l'esercito: omaggi a Bismarck torneranno solo in occasione dell'Anschluss (l'annessione dell'Austria al Reich nel 1938) e, l'anno successivo, con il battesimo di una corazzata che portava il nome del cancelliere prussiano. Nel contempo, la sua grande statua, che fino ad allora aveva troneggiato davanti al Reichstag, veniva «relegata nell'anonimato del Tiergarten». Poi «pian piano il silenzio cala intorno al grande cancelliere». Il suo culto verrà alimentato non negli ambienti hitleriani, bensì in quelli dei cospiratori che, guidati da Claus von Stauffenberg, il 20 luglio del 1944 ordiranno un colpo di Stato per disfarsi di Hitler.
Va messo in chiaro una volta per tutte, scrive Bled, che «quando Hitler annette l'Austria al Reich e dichiara di aver portato a termine l'opera che Bismarck aveva iniziato, il suo è nient'altro che un tipico esempio di falsificazione della Storia». La concezione razziale della nazione, sottintesa dall'Anschluss e dalla successiva annessione dei Sudeti, «è totalmente estranea al cancelliere di ferro». Le annessioni bismarckiane, tutte «ascrivibili in un quadro territoriale chiaramente tracciato», prosegue Bled, non hanno niente in comune con «la sete di conquista che porta Hitler fino alle pianure della Russia». Va poi ricordato che «laddove Bismarck definisce dopo il 1871 la Germania come una "nazione satura" e adatta la sua politica a tale constatazione, Hitler non pone limiti alla sua volontà di potenza». Allo stesso modo va stabilito che «si cercherebbe invano una pur minima influenza di Bismarck sull'impresa genocida, cuore del sistema nazista»: anche se «è esagerato definire il grande cancelliere un filosemita, egli vanta diversi amici ebrei nel suo entourage e, soprattutto, in nessun momento l'antisemitismo ha ispirato la sua politica».
Quel grande cancelliere era dunque altra cosa da come troppo a lungo è stato rappresentato in questo dopoguerra.
Otto Eduard Leopold von Bismarck era nato il 1° aprile 1815 (due mesi e mezzo prima che Napoleone fosse sconfitto a Waterloo) a Schoenhausen, nell'antica Marca di Brandeburgo, sulla riva destra dell'Elba. Suo padre, Ferdinand, apparteneva a una famiglia abbastanza ricca di Junker, i proprietari terrieri, ma con un albero genealogico dal quale erano del tutto assenti capi militari, grandi professori universitari, ministri o funzionari di rango; lui stesso, nel 1795, aveva abbandonato l'esercito e si era ritirato nei suoi possedimenti per condurre una vita da gentiluomo di campagna. La madre di Otto, Wilhelmine Mencken, vantava invece antenati illustri (suo padre era stato capo di gabinetto di Federico Guglielmo III), era molto ambiziosa e non sopportava di vivere tra boschi e campagne. Fu dunque lei che nel 1822 impose alla famiglia di trasferirsi a Berlino e fu sempre lei che decise di mandare il figlio, che aveva allora sette anni, nel severissimo istituto Plamann, dove il piccolo avrebbe avuto occasione di conoscere il Drill, la disciplina militare prussiana.
Otto reagisce idealizzando il padre e odiando la madre, la città e gli studi. Man mano che cresce, per lui conta solo il principio di autorità: non va nel 1832 alla festa di Hambach, dove gli studenti sventolano la bandiera dai tre colori (nero, rosso e oro) del liberalismo tedesco, e durante le lezioni di storia manifesta repulsione per figure ribelli come quelle di Bruto e Guglielmo Tell; all'università diserta le lezioni del grande giurista Friedrich Karl von Savigny e dell'altrettanto grande storico Leopold von Ranke. Mostra interesse solo per la storia pragmatica e non ispirata dalla filosofia idealista del settantenne Arnold Heeren, che è tra i primi a mettere in risalto i legami tra economia e politica. Dopo l'università fa un iniziale apprendistato nell'amministrazione giudiziaria (ad Aquisgrana), poi ha un incarico di governo a Potsdam, quindi trascorre un anno nell'esercito, finché nel 1839, in seguito alla morte della madre, è richiamato alla gestione dei possedimenti di famiglia. Nel 1845 muore anche suo padre e lui, all'età di trent'anni, si proietta — con una scelta che crede essere definitiva — nella vita del proprietario terriero. Ma già negli ultimi anni di vita del padre aveva scoperto quanto ci si poteva annoiare in quel mondo di «cani, cavalli, signorotti di campagna», a lungo idealizzato ai tempi della scuola. Conosce bene francese e inglese, così appena può si mette in viaggio alla volta di Francia, Inghilterra, Scozia, Svizzera, poi in Egitto, India. Soffre di depressione. Beve. Lo salva un'amica, Marie von Thadden, che lo avvicina ai circoli pietisti, una corrente del protestantesimo che predica una fede staccata dal dogma, il dovere della preghiera e la lettura quotidiana della Bibbia. Nel 1847, dopo la morte di Marie, Otto sposa Johanna von Puttkammer, anche lei appartenente a una famiglia di Junker, che gli darà tre figli e sarà fondamentale per il resto della sua vita.
Matrimonio e ingresso nella vita pubblica avvengono nello stesso tempo. Il 1847 sarà anche l'anno, oltre che delle nozze, del suo ingresso in politica. Sono i circoli pietisti che lo portano all'attenzione di Ludwig e Leopold von Gerlach, capi indiscussi dei conservatori prussiani. E sono i von Gerlach che lo mandano al Parlamento, perché sostenga i diritti della corona (Federico Guglielmo IV) contro una maggioranza di deputati schierata a favore dei princìpi costituzionali. Otto assolve al compito con energia ed efficacia fino al giorno in cui Federico Guglielmo, che ha avuto il tempo di notarlo e apprezzarlo, scioglie il Parlamento. Dopodiché il sovrano lo incontra casualmente a Venezia, dove è in viaggio nuziale con Johanna, gli esprime considerazione per la condotta che ha avuto contro i liberali e lo invita a entrare nel circolo ristretto dei propri intimi. Ma già l'anno successivo Bismarck mette a repentaglio quel suo rapporto con il re, quando, nel 1848, Federico Guglielmo sembra cedere e in parte cede ai rivoluzionari: Bismarck prende le distanze dal potente «amico», è uno dei due deputati che in Parlamento si oppongono pubblicamente alle concessioni del re. Biasima persino il fatto che il sovrano si sia inchinato davanti alle spoglie delle vittime dei moti del 1848. «Il mio cuore gronda veleno al cospetto dello scempio che quegli assassini hanno fatto della mia patria», afferma. Per poi aggiungere: «La corona ha essa stessa gettato terra sulla propria bara». Si dichiara poi, il 5 dicembre, contrario alla concessione della Costituzione. Prova a convincere alcuni generali a ordire un colpo di Stato per «riportare Federico Guglielmo alla pienezza dei propri poteri», tenta di organizzare una controrivoluzione degli Junker, si avvicina al principe di Prussia, fratello del re, Guglielmo, che, per la sua irriducibile ostilità alla rivoluzione, è stato costretto ad abbandonare Berlino. Federico Guglielmo lo rimprovera per questi suoi atteggiamenti («Ho bisogno di sostegno e di devozione attiva, non di critiche», gli dice) e quando i conservatori propongono il suo nome tra i candidati a un posto di ministro, dice di no e annota a fianco del suo nome: «Da utilizzare solo quando i fucili regneranno sovrani».
Tale coerenza, però, darà immagine a Bismarck, che già a quei tempi ha in mente l'unificazione della Germania a guida prussiana, anche se non ancora nel disegno che diverrà più preciso solo dopo il 1866. E quando, nell'ottobre del 1848, l'Ungheria di Lajos Kossuth proclama la secessione dall'Austria, il giovane politico suggerisce al re di prendere esempio da Federico II, che nel 1740 aveva approfittato di un momento difficile per Maria Teresa e si era impadronito della Slesia. Ciò che lo porta a una quasi rottura con il partito dei von Gerlach, che vorrebbe regolare le relazioni con Vienna sulla base della «solidarietà degli interessi tra conservatori» tedeschi e austriaci. Rapporto, quello con i conservatori prussiani, che, in ogni caso, verrà presto recuperato. Federico Guglielmo darà poi l'ordine di occupare l'Assia-Kassel, ma sarà costretto a una umiliante capitolazione.
È in quei giorni che emerge il Bismarck statista: «La sola base di un grande Stato», proclama, «è l'egoismo, non la sensibilità». Bismarck, nota Bled, «è intervenuto nel dibattito non come singolo oratore ma come portavoce dei conservatori», una scelta rivelatrice del ruolo che ormai riveste sulla scena politica; anche il re lo guarda con occhi diversi, dimentica il feroce critico della politica condotta dal marzo 1848 per concentrarsi sulle sue doti venute alla luce nell'ultima fase della crisi. Si è fatto la fama di «paladino degli interessi dei conservatori» prussiani, anche a dispetto della loro consapevolezza, e ha avuto il coraggio di darsi le parvenze di «irriducibile reazionario». Il re lo compensa nominandolo rappresentante della Prussia alla Dieta federale di Francoforte, una delle cariche più alte della gerarchia diplomatica.
A Francoforte Bismarck ha come interlocutore l'austriaco Friedrich Thun-Hohenstein, che affronta a testa alta: se Thun fuma mentre presiede la Dieta, anche lui si accende un sigaro; se Thun lo riceve in maniche di camicia, anche lui si toglie la giacca. E lo stesso farà con il successore di Thun, il barone Prokesch von Osten. Si distingue poi sulla questione francese. Napoleone III è considerato dalla Prussia il grande rivale. Ma Bismarck pensa soltanto alla futura Germania e si mostra duttile nei confronti del sovrano francese. «Sono convinto che sarebbe una sventura per la Prussia se il suo governo dovesse allearsi con la Francia, ma, anche se dobbiamo cercare di evitarlo, non possiamo non considerare che potrebbero presentarsi delle condizioni per cui si sarà costretti a scegliere il male minore». E più tardi: «La Francia? Dato che esiste, noi non possiamo evitare di fare politica con la Francia; non possiamo tenerla fuori dalla scacchiera politica». In che senso? «Non si può giocare a scacchi se 16 delle 64 caselle sono escluse dal gioco». Ciò che lo mette, ancora una volta, in urto con Leopold von Gerlach e i conservatori, i quali continuano a perorare la causa della restaurazione dell'unione tra le potenze conservatrici, nello spirito della Santa Alleanza. E che per questo sono tutti filoaustriaci.
Bismarck è e resta un grande conservatore, dotato di un altrettanto grande pragmatismo e senso delle opportunità. Poco prima di diventare capo del governo (1862), avrà un cordiale incontro persino con il capo dei socialisti Ferdinand Lassalle. La duttilità gli consente di destreggiarsi in politica anche quando è in minoranza. E nel contempo di unificare la Germania con tre guerre vittoriose: contro la Danimarca (1864), l'Austria (1866) e la Francia (1870-71). A suo modo è un «rivoluzionario». Che però governerà portandosi ai limiti della Costituzione, essendo spesso tentato di sospenderla e alla fine — dopo le elezioni del febbraio del 1890 — di condurre una «politica sporca» (così la definisce Bled) spingendosi fino alle soglie di un colpo di Stato. Putsch che sarà evitato solo dalle sue forzate dimissioni.
È un uomo spietato, Bismarck. Nel 1863, quando un'insurrezione nella parte russa della Polonia investe la Prussia, dice apertamente: «Colpiremo i polacchi fino alla morte! La loro situazione mi impietosisce, ma se vogliamo sopravvivere non abbiamo altra scelta che sterminarli». Per poi così giustificare l'uso di quel verbo: «Il lupo non è responsabile di essere stato creato da Dio come è, eppure è bene ammazzarlo quando è possibile». È vero, commenta Jean-Paul Bled, «che tale dichiarazione non deve essere presa alla lettera, ma, anche con questa premessa, essa testimonia una durezza poco comune». Durezza che spinse Bismarck a pronunciare le sue parole più celebri: «Le grandi questioni dei nostri tempi non si risolvono né con i discorsi né con i voti della maggioranza, ma con il ferro e con il sangue». E che gli inimica gli intellettuali: «Quando sento uno Junker tanto mediocre come questo Bismarck pavoneggiarsi con il "ferro" e con il "sangue" con cui conta di sottomettere la Germania», afferma lo storico Heinrich von Treitschke, «mi sembra che il ridicolo superi la detestabilità di tale proposito». Un altro studioso del passato, Heinrich von Sybel, accusa Bismarck di essere «senza fede né legge». Altrettanto severo un terzo storico, Johann Gustav Droysen. L'organo dei liberali renani, la «Koelnische Zeitung», suggerisce al sovrano di «affidare la direzione dello Stato a un ministro meno geniale» (va ricordato che quando Bismarck sale al potere, nel 1862, il giornale dei conservatori, la «Kreuzzeitung», vanta appena 200 mila lettori, mentre i fogli liberali, che lo avversano, di lettori ne hanno un milione e 250 mila). Bismarck perde le elezioni del 1863, ma insiste nella sua politica. E, dopo i primi successi militari, sono gli intellettuali a ricredersi sul suo conto. Adesso Treitschke confida a un amico: «La politica di Bismarck mi colpisce, non solo è ragionevole ma ha una levatura morale, essa mira a ciò di cui abbiamo bisogno, ci avvicina al grande obiettivo dell'unità tedesca». E, all'apice del successo di Bismarck, un altro ex critico, von Sybel, si domanderà pubblicamente: «Come abbiamo potuto meritare la grazia divina di assistere a così grandi avvenimenti?». Solo il giovane Friedrich Nietzsche continuerà a manifestare dubbi sulle politiche del grande cancelliere.
Quando le vittorie militari si riverberano nel voto politico, portando i conservatori al grande balzo nelle elezioni del 1866 (da 35 a 142 seggi), Bismarck a sorpresa apre ai liberali sconfitti (ai quali tornerà ad avvicinarsi più volte negli anni successivi). Anche Droysen rivede il suo giudizio: «Bisogna convenirne, il conte Bismarck possiede il raro dono dello statista, che sarebbe ingiusto valutare a partire da sedicenti princìpi, opinioni precostituite e rigide o conclusioni tratte da antichi pregiudizi; ciò che importa è andare avanti, non solo intravedere delle nuove prospettive ma realizzarle. Arso da una fiamma fredda, appassionatamente moderata; indifferente agli amici come ai nemici, ai partiti come ai princìpi, interamente radicato nei fatti, nella realtà dello Stato, questo uomo è in grado di agire». E perciò merita ammirazione.
Né Treitschke tornerà a ripetere le osservazioni critiche ricordate poc'anzi, quando nel 1870, dopo la vittoria del generale von Moltke sui francesi a Sedan, Bismarck dirà che tutti i franchi tiratori dovevano essere giustiziati all'istante; che i soldati africani andavano trattati come «bestie da preda» ed erano da «abbattere» senza alcun processo e che i militari prussiani che li avessero fatti prigionieri andavano arrestati: quando poi, ad Ablis, i francesi catturarono sessanta soldati tedeschi, Bismarck diede ordine di impiccare tutti gli abitanti maschi della città. L'ordine fu eseguito e né Treitschke né i suoi colleghi ipercritici fino a pochi anni prima trovarono nulla da ridire. Anzi Treitschke mise la sua scienza storica a disposizione per dare un contributo a piegare l'Alsazia, refrattaria a essere annessa alla futura Germania: «Noi tedeschi, poiché conosciamo bene sia la Francia che la Germania, sappiamo ciò che è meglio o peggio per gli alsaziani, e anche contro la loro volontà intendiamo riportarli verso la loro vera identità», scrisse; «lo spirito di un popolo non abbraccia solo la popolazione presente, ma anche le generazioni passate, quindi noi invochiamo la volontà dei morti contro la volontà dei vivi».
Alle elezioni del 1871, dopo le strepitose vittorie e la fondazione del Reich, i liberali conquisteranno la maggioranza del Parlamento. E in quelle stesse elezioni, al suo debutto, otterrà un buon risultato (24,7 per cento) il Centro cattolico guidato da Ludwig Windthorst, destinato a crescere ancora nel 1877 e nel 1878. Ma, grazie all'accorta navigazione di Bismarck, i conservatori nel 1879 riprenderanno la maggioranza e non la perderanno più fino al 1918.
Con l'età, però, l'inclinazione bismarckiana al dispotismo, scrive Bled, «si accentua fino a diventare un'ossessione, poiché il cancelliere non tollera più dai ministri né che lo si contraddica, né che si prendano iniziative individuali». Lo stesso Bled è costretto ad ammettere che in tarda età «il desiderio di conservare il potere induce Bismarck a commettere bassezze e meschinità». Ma a quel punto, a seguito della morte nel 1888 del sovrano Guglielmo I (il quale, nei 26 anni di convivenza, era solito ripetere: «È difficile essere imperatore sotto Bismarck»), viene allontanato dal comando. Lo stesso sistema che lui ha fondato e munito di anticorpi, proprio in virtù di quegli anticorpi, è in grado, nel 1890, di estrometterlo dal potere. Anche se il suo grande prestigio continuerà a rimanere tale pur dopo l'estromissione e persino a crescere dopo la sua morte (1898).
Certo, Bismarck ebbe dalla sua un sovrano che gli coprì le spalle e militari capaci di vincere le guerre. Ma adesso gli storici riconoscono che è a lui, al suo impasto tra coerenza ai valori originari del ceppo di appartenenza, duttilità politica e capacità di sfidare il senso comune degli intellettuali e dei media del suo tempo, che si deve la fondazione di una destra tedesca in grado di durare. E di evolversi nel secondo dopoguerra, a dispetto dell'ingombrante passato hitleriano, in un moderno partito di governo. Certo, la sua lunga vita politica fu favorita, come si è detto, da Guglielmo e dalle fortune militari, mentre le nuove esperienze nella seconda metà del Novecento si sono giovate del fecondo incontro tra destra e cultura cattolica. Ma non si possono disconoscere in questa costruzione i meriti riconducibili alla sua persona. Ciò che induce ancora una volta a riflettere sul danno arrecato alla storia d'Italia dalla prematura scomparsa dell'uomo che Bismarck aveva considerato un modello e che forse avrebbe saputo strutturare la politica italiana in modi non troppo dissimili da quelli tedeschi: Camillo Benso conte di Cavour.

Repubblica 27.11.12
Due scatti nella Storia
Il libro di Belpoliti e una raccolta di saggi rileggono le foto-icone degli anni di piombo
Sono documenti che continuano a incombere sull’immaginario di un intero Paese
Le polaroid di Moro che segnarono il destino delle Br
di Michele Smargiassi


Il sequestro di Idalgo Macchiarini dura solo venti minuti di quel 3 marzo del 1972. Il tempo di trascinare il dirigente della Sit-Siemens nel vano soffocante di un furgone Fiat 850. Il sequestrato viene avvertito che sarà rilasciato subito dopo lo scatto di «una fotografia che avrebbe riprodotto in milioni di copie, su tutti i giornali, il nostro messaggio», rievocherà vent’anni dopo Renato Curcio. Il furgone è un set. La pistola che nell’immagine appare minacciosamente puntata alla testa del prigioniero è un attrezzo di scena, «un vecchio arnese rugginoso che forse non poteva neanche sparare. Gli spiegammo che quel gesto simbolico non significava minimamente una minaccia per lui».
Jean Baudrillard non aveva ancora scritto le sue Strategie fatali, ma le incipienti Brigate Rosse già le praticavano artigianalmente, mutando la rivoluzione in simulacro, in immagine prodotta e da consumare come puro spettacolo. Sei anni dopo, quella strategia culminerà nelle due fotografie più drammatiche e indimenticabili della nostra storia recente: le due polaroid di Aldo Moro nel carcere brigatista di via Gradoli.
Le due Sindoni della prima Repubblica. Due immagini che continuano a incombere sull’immaginario di un intero paese, a tormentare molte coscienze (incluse quelle di alcuni politici viventi) e a sollecitare letture intenzionate a svelare almeno un po’ il potere misterioso che emanano ancora, trentacinque anni dopo. Due libri quasi in contemporanea ci provano adesso: Le polaroid di Moro, volume a più voci riunite da Sergio Bianchi e Raffaella Perna per Derive Approdi, la casa editrice che eredita la cultura dei movimenti degli anni Settanta; e Da quella prigione di Marco Belpoliti, riscrittura, per Guanda, di un piccolo saggio già uscito alcuni anni fa. Un punto di vista politico, un punto di vista analitico che convergono nel racconto di una vera e propria guerra di, per e con le immagini, dalla quale i brigatisti uscirono imprevedibilmente sconfitti, e non dal mostro- Stato che doveva essere colpito al cuore, ma dal semplice sguardo dell’uomo che fu scelto per esserne il simbolo sacrificale.
Quelle due istantanee avevano, entrambe, uno scopo primario molto pratico. Dovevano certificare l’esistenza in vita del leader democristiano, la prima subito dopo il rapimento sanguinoso, la seconda dopo la falsa notizia della sua esecuzione con seppellimento al lago della Duchessa. Ma le immagini non sono mai puri documenti, sono veicoli di sensi sovrapposti, alcuni deliberati, altri nascosti e preterintenzionali. Per i carcerieri di Moro, l’immagine del «gerarca teorico e stratega del regime», in abiti dimessi, sovrastato dalla stella proletaria, aveva anche una missione iconografica chiara: detronizzare simbolicamente il sovrano, umiliare la sacralità del potere. I «fotografi pubblicitari delle Br», come li qualifica senza ironia Belpoliti, gestivano una comunicazione visuale parallela a quella dei prolissi comunicati numerati della loro “direzione strategica”, una sfida più sottile, perché meno carica di retorica ideologia, rivolta al mondo dei media, che in quei cinquantacinque giorni fu il vero campo della battaglia. Ne erano sicuramente consapevoli, perfino con ironia (la prima polaroid fu fatta trovare sopra una cabina per fototessere in un sottopasso di largo Torre Argentina).
La posta in gioco era molto alta e il gioco molto sofisticato. Noi parliamo di “due polaroid”, ma come tali quasi nessuno le ha mai viste. Gli originali a colori di quelle immagini, prodotte grazie alla tecnologia delle foto a sviluppo istantaneo, che elimina il ricorso a un laboratorio (come ricorda Giovanni Fiorentino, una qualità cara ai gitanti, ai pornografi casalinghi e, appunto, ai rapitori), giacciono ancora, inaccessibili, nei faldoni della magistratura. Le due immagini di Moro che milioni di persone hanno scolpite nella memoria sono in realtà i cliché retinati, in bianco e nero, che apparvero sulle prime pagine di tutti i giornali italiani, e poi continuarono a riapparire in infinite repliche, via via iconizzate come sfondi di telegiornale, manchette di quotidiano, illustrazioni per poster, striscioni, volantini. L’ebbrezza di Curcio nell’immaginare quella «riproduzione in milioni di copie» si concretizzava trionfalmente. La stella a cinque punte (che solo alcuni giornali stranieri, chissà perché, ebbero l’idea di rifilare via dalle immagini pubblicate) diventava così un brand rivoluzionario di successo, gratuitamente moltiplicato e universalmente diffuso a cura del nemico stesso.
Erano, ad essere onesti, immagini mediaticamente perfette, perfino nella loro imperfezione tecnica, anzi lo erano proprio per questo, come se fossero state progettate pensando a Warhol (ipotesi che Belpoliti non scarta), erano votate a un potenziale destino da icona pop, come il volto del Che o di Marilyn: non sembri irrispettoso, è invece la prova della loro potenza suggestiva, che uno strascico di ri-mediazioni artistiche (da Rotella a Schifano fino a Cattelan) ha poi portato alla luce.
Ma quello degli iconografi brigatisti fu un trionfo apparente ed effimero. Lo avessero chiesto a un fotografo come Tano D’Amico, che sa quanto sia difficile produrre immagini davvero contro il potere, glielo avrebbe spiegato lui, come fa ora nel primo dei due libri. I brigatisti, dice, apprendisti stregoni dell’immagine, non capirono che la fotocamera non è una cameriera ottusa e ubbidiente. Che la costruzione di un’immagine è un processo che sfugge, in gran parte, all’uomo che spinge il bottone. Che entrano in scena altri attori, altri ingredienti, che giocare con l’immaginario diffuso è difficile. Che il soggetto dell’immagine può essere così forte da rovesciare il gioco. E Aldo Moro lo fu. Spogliato dagli addobbi della casta politica, in quella camicia bianca spiegazzata, non impersonò il potere umiliato ma il cittadino comune, il “povero cristo”. Lo capirono subito un vignettista e un foto-cultore, con due immagini-parodia accolte allora come irriverenti, in realtà geniali: la copertina del Male di Vincino con il fumetto «Scusate, abitualmente vesto Marzotto», e il collage di Ando Gilardi con il volto di Moro sostituito, appunto, da quello dell’uomo della Sindone.
Ma fu soprattutto lo sguardo di Moro, e il mezzo sorriso che asimmetrico pare piegargli gli angoli della bocca in un’espressione di dignitosa resistenza umana e perfino di superiore compatimento, quell’espressione così intensa e diversa dal tumefatto terrorizzato stupore dei suoi predecessori iconografici (Sossi, Amerio, il tedesco Schleyer), che non sfuggì a nessuno, da Montale a Sciascia fino all’uomo della strada, fu quello sguardo a ribaltare il segno emotivo di quelle immagini. E in fotografia, l’emozione è tutto.
Fu dunque Moro, riassume D’Amico, il vero autore di quelle due immagini. Nelle quali depositava, in modo forse inconsapevole, l’irriducibile «appello assoluto della vittima». Furono, quelle due foto, veri “documenti del contrappasso”, per riprendere la definizione che Sciascia attribuì alle sole lettere dal carcere dello statista. Agli italiani in ogni caso giunse non il ritratto di un satrapo defenestrato, ma l’icona dell’inattingibilità della vita, quasi una trascrizione visuale del monito marxiano, che i brigatisti stavano stracciando, a non trattare l’uomo come mezzo, ma solo come fine.
La storia di quelle immagini non finì come quella di Macchiarini. La “minaccia simbolica” non si fermò sulla superficie della fotografia-simulacro, tornò ferocemente nel mondo del reale. Con l’esecuzione della loro sentenza capitale i carnefici firmarono la propria sconfitta morale e politica, e lo sapevano. Ma se avessero avuto occhi, l’avrebbero già vista in quelle due immagini. O forse fu proprio perché ce la videro che premettero il grilletto.

Repubblica 27.11.12
I colori della passione
Così l’Occidente ha dipinto i sentimenti
di Daria Galateria


Michel Pastoureau è uno studioso che si è occupato di come è cambiato l’uso delle tinte nella storia della rappresentazione
“Abbiamo perso il blu ed è scomparso il verde, indice degli affetti nascenti“
A metà ’800 si passa ai toni pastello e alle righe, prima riservate solo aireietti“

Michel Pastoureau, storico e paleografo, studioso degli emblemi medioevali, con
Blue La stoffa del diavolo, con cui inaugurava la serie affascinante degli studi sui colori, ha conosciuto la fama mondiale.
I colori dei nostri ricordi (Ponte alle Grazie, traduzione di Laura De Tomasi), l’ultimo suo libro pubblicato in Italia, è il diario cromatico della sua vita: offre, come sempre, una superba lettura erudita, leggera e arguta, a cui qui si aggiunge una nota sentimentale. A Roma per una conferenza al Centre Saint Louis sulla storia degli emblemi dal Medioevo a oggi, gli abbiamo chiesto di parlarci del simbolismo dei colori in amore.
È cambiato dal Medioevo il significato amoroso dei colori?
«Sì. Nel Medioevo c’è un forte simbolismo dei colori dell’amore che si protrae a lungo, fino all’epoca moderna. Ci sono almeno quattro colori da considerare. Il verde è il colore dell’amore allo stadio nascente – il verde era un colore instabile: facile da ottenere con i vegetali, ma difficile da stabilizzare, stingeva facilmente. Il blu è il colore dell’amore ordinario, ragionevole – quello coniugale per esempio. Il rosso è il colore evidentemente dell’amore passionale: dell’erotismo, della lussuria; e si può aggiungere il grigio e il nero, che sono i colori dell’amore infelice. È una tavolozza variegata. L’amore platonico
poi era associato al colore bianco; solo il giallo non è associato all’amore, perlomeno in Occidente. Oggi di questo codice restano il rosso per la passione e il grigio e il nero per la pena d’amore. Invece abbiamo perso il blu ed è scomparso il verde – se ne parla solo per l’amore infantile e adolescenziale. Baudelaire dice: “Il verde paradiso degli amori infantili”».
«La nostra civiltà urbana in cerca di clorofilla ne ha fatto un simbolo di salute e di giovinezza» – cito dal Verde del suo Couleurs.
Il costo dei colori incide su questi simbolismi amorosi? Il blu, colore molto costoso che si ottiene dal lapislazzulo, diventa il colore dei re: si può immaginare un lato sociologico, un prezzo dei colori amorosi?
«Oggi il costo non incide più perché si riescono a ottenere colori sintetici a basso prezzo in tutta la gamma cromatica. Nel passato non era così. Per esempio fino al XIX secolo era difficile tingere in bianco e in nero; costava molto. È per questo che in Europa fino alla fine del Settecento le spose di origine contadina si sposavano in rosso: perché i tintori nella gamma del rosso riuscivano a ottenere con poca spesa dei bei colori. Questo fino al 1830, quando la chimica dei coloranti ha fatto dei progressi e ottenere il bianco è diventato più economico. Ma quando si parla di simbolismo il lato materiale, la tecnica non hanno una rilevanza assoluta».
L’amore passionale ha cambiato colore? Qual è il ruolo del rosa?
«Il rosa è stato molto recentemente associato all’omosessualità. A lungo considerato sfumatura non satura del rosso, dal Settecento il rosa era simbolo della femminilità (ma a volte con una nota negativa di sdolcinatezza), e poi, solo ai nostri giorni, delle bambine. Ma ora l’emblema dell’omosessualità ha virato sull’arcobaleno».
Uno degli strumenti della seduzione è la biancheria, di cui lei ha scritto. Quali colori erano considerati attraenti? E oggi?
«Per secoli tutto quello che toccava la pelle doveva essere o non tinto o bianco – o meglio, quasi bianco, perché era difficile tingere in bianco; e questo valeva per la camicia, le lenzuola, gli asciugamani. Solo nella seconda metà dell’Ottocento si passa alle tinte pastello: le mezze tinte, il celeste, il verde, il giallo pallido; o perfino le righe per le camicie maschili, il materasso – le righe erano un tempo riservate ai reprobi, ai reietti: carcerati, deportati, ebrei, lebbrosi, prostitute, buffoni; poi da segno di disordine e trasgressione sono diventate emblema di igiene e di ordine (bandiere, segnali stradali). A partire dal 1950 il colore ha finalmente potuto toccare il corpo, non era più scandaloso; la biancheria assume colori vivaci e si propongono nei cataloghi lenzuola nere. Per l’erotismo, di contro al bianco dominante, le professioniste della dissolutezza all’inizio del Novecento si distinguevano per indumenti intimi rossi e neri; ora questo si è attenuato: entrano in gioco considerazioni come la resistenza al lavaggio automatico. La palette si è diversificata; il bianco dell’estrema giovinezza si è dotato di una connotazione erotica che non aveva un tempo; il codice qui si è rovesciato».
I ricordi sentimentali hanno dei colori speciali?
«Il libro I colori dei nostri ricordi ha in epigrafe una frase del poeta Gérard de Nerval, che scrive nel 1848 a un amico pittore, Paul Chenavard: il re di Francia Luigi Filippo gli aveva proposto di fare qualche scena della storia di Francia per il castello di Versailles. Il pittore esitava; e allora Nerval lo incoraggia a dipingere questi quadri “prima che si perdano nell’eternità del silenzio i colori dei nostri ricordi”: una frase magnifica. I ricordi hanno in effetti dei colori – per i sogni sarei più esitante; ma i ricordi sono colorati
e spesso fortemente colorati. Più che delle donne amate, ho ricordi colorati insistenti delle mie due bambine: volevo vestirle con colori diversi, e per me una bimba è blu, l’altra rossa. Mia madre era farmacista e le scatole dei medicinali erano un gioco magnifico per un bambino. Anche oggi i calmanti hanno scatole blu, gli eccitanti arancioni, i lassativi marrone; su un armadio c’era scritto in rosso: Veleni. In famiglia poi c’erano molti pittori, e nei loro atelier ero libero di sporcare coi tubi di colori…».
Parliamo di pena d’amore. Il sonetto El desdichado (Il diseredato) di Nerval parla del “sole nero della malinconia” di cui lei ha dato, nella Storia simbolica del Medioevo,
una famosa interpretazione.
«Il sonetto è del 1864-65; ma i versi di Nerval mi ricordavano alcune miniature di un famoso codice del 1360 che Nerval ammirava alla Biblioteca nazionale. Nerval ha avuto un’infanzia infelice, poi si è innamorato senza troppa fortuna di un’attrice, Eugénie: nelle opere celebra la malinconia in tutte le sue forme; malinconie blu o grigie, e il sole nero. Il desiderio per lui come per certi troubadours era più importante del piacere: Nerval desidera il desiderio; era innamorato dello stato amoroso».
La Riforma protestante ha diviso i colori in leciti e illeciti. Esistono differenze di questo genere per i colori della passione d’amore?
«Sì e no. L’amore passionale è già in sé qualcosa d’illecito per la maggior parte delle società; per il buon ordine sociale occorre che resti entro certi limiti. È vero che nella riforma protestante si tende a distinguere colori che sono onesti e altri meno, e la controriforma cattolica riprende i colori degni di un buon cristiano – di un buon cittadino semplicemente – che sono il bianco, il nero, il blu, il grigio e il bruno, colori saggi che non si notano; mentre colori disonesti erano il giallo e il verde, troppo vistosi: e il rosso violento, colore, in Europa, dell’amore passionale».
La globalizzazione crea problemi alla nostra simbolizzazione dei colori sentimentali?
«Per noi occidentali non penso; ne creerà nelle altre culture. La mondializzazione va sempre in favore delle pratiche e dei codici dell’occidente, anche in tema di colori».

l’Unità 27.11.12
La mente artistica
I sistemi neuronali che il cervello attiva per fruire di un’opera, un suono, una poesia
di Alessandro D’Ausilio


Per studiare le «scintille» cerebrali che si attivano quando si produce o si ascolta musica, i ricercatori di neuroscienze sono usciti dal laboratorio e hanno iniziato a frequentare i teatri

MUOVERSI INSIEME NON È FACILE. PRENDIAMO AD ESEMPIO I MUSICISTI DI UN’ORCHESTRA, QUALE OPERA COMPLESSA DI INTERAZIONE RIESCONO A METTERE IN ATTO. Ma non è solo una questione da «professionisti». Immaginiamo di spostare un tavolo pesante ed appare evidente come sia essenziale nella vita di tutti i giorni la coordinazione tra individui. Sapere quando, dove e quanta forza viene applicata dai compagni è fondamentale. Un processo complesso eppure tanto semplice per la natura. La coordinazione nei movimenti di decine o anche centinaia d’individui, in ogni specie, è una costante più che un’eccezione. A tal proposito è interessante ricordare quello studio geniale che mise indosso a dei piccioni dei sensori Gps descrivendo le complesse interazioni gerarchiche nella dinamica del loro volo. In quello studio c’era tutto, interazioni complesse, coordinazione motoria, organizzazione sociale e perché no, vera e propria comunicazione. Ma come riusciamo a coordinarci in modo così sofisticato?
A lungo si è ritenuto che il cervello funzionasse in modo quasi linguistico. Ogni movimento osservato del proprio «compagno d’azione» sarebbe tradotto in una sequenza di simboli mentali su cui poter applicare computazioni cognitive, poi da ri-tradurre in movimento da eseguire. Ma questo non è semplicemente possibile. Troppo lento e inefficiente un processo del genere. Non sarebbe possibile spostare un tavolo figuriamoci per un’orchestra suonare qualcosa per cui valga il prezzo del biglietto. La soluzione invece è lasciare tutto in un unico codice, quello che sia il più vicino possibile allo scopo che ci prefiggiamo, e cioè muoverci con gli altri nel mondo.
A tal proposito sono passati 20 anni dalla descrizione dei neuroni specchio da parte del gruppo di Parma, ossia della popolazione di cellule nervose attive sia per esecuzione che per osservazione della stessa azione eseguita da altri. Cellule queste che dimostrano l’implausibilità di computazioni simboliche e che invece riassumono i due mondi della visione e dell’atto motorio in una semplice unità neurale. Un processo veloce, automatico e semplice. Esattamente quello che è necessario per la coordinazione tra individui.
Bellissimo in teoria ma la pratica è sempre molto meno poetica. Misurare l’interazione tra diversi individui è tecnicamente complesso. Il tipico laboratorio è una stanzetta piena di computer e attrezzature, una sedia e un monitor. Voi siete seduti su quella sedia, indosso numerosi sensori, dovete solo guardare delle immagini sullo schermo. Quelle immagini causeranno impercettibili effetti sulla vostra fisiologia. Il tutto centinaia di volte, perché solo le molte ripetizioni permetteranno la potenza statistica adeguata a differenziare ciò che è interessante da un semplice artefatto. Ma dov’è l’interazione sociale di cui sopra? Detto questo, per studiare questi fenomeni forse il laboratorio non è il luogo migliore. Così come i piccioni di quel lavoro sono stati studiati nel loro volo libero, è forse ora di «liberare» il soggetto sperimentale dal laboratorio di ricerca e portare l’esperimento in un contesto naturale. Esattamente quello che abbiamo iniziato a fare portando il laboratorio in teatro e registrando il movimento di musicisti d’orchestra e quartetti durante la loro naturale performance musicale. Metodi complessi di analisi matematica ci hanno già permesso di descrivere la complessa interazione tra conduttore e musicista e come l’efficacia di tale interazione abbia un effetto sulla qualità percepita della musica prodotta. Nuovi metodi matematici e nuove tecnologie permettono forse oggi l’inizio di una nuova era per lo studio dei fenomeni complessi di interazione e comunicazione tra individui in contesti naturali.

l’Unità 27.11.12
Pier Paolo Pasolini un profeta corsaro

L’attualità mirabile delle sue analisi
Un intellettuale in grado di anticipare perfino le inchieste. Dall’economia alle stragi fasciste, dal caso Eni alla traduzione delle contestazioni giovanili
di Gianni Borgna


VI È UNA RICORRENTE VOCAZIONE A SMINUIRE IL VALORE TEORETICO DEGLI SCRITTI DI PASOLINI. ANCHE TRA CHI NON NE DISCONOSCE LA GRANDEZZA ARTISTICA, SPESSO SI SENTE RIPETERE CHE LE SUE ANALISI ERANO FRUTTO DI UNA VISIONE PURAMENTE POETICA. Fu Pasolini stesso, del resto, a capirlo e a scrivere nel 1966: «Mi offende molto che tutto quello che faccio e dico venga ricondotto a spiegare il mio stile. È un modo di esorcizzarmi, e forse di darmi dello stupido: uno stupido nella vita, che è magari bravo nel suo lavoro. È quindi anche un modo per escludermi e di mettermi a tacere».
Accade invece che persino dai cultori di discipline specialistiche si parla di lui come di chi, pur senza possedere i ferri del mestiere, ha intuito lucidamente la presenza di nodi e questioni di particolare rilievo. Esemplare, in tal senso, lo studio che qualche anno fa un importante economista come Giulio Sapelli ha dedicato al poeta-corsaro: Modernizzazione senza sviluppo. Il capitalismo secondo Pasolini (Bruno Mondadori). Un saggio di grande spessore che, se non sbaglio, non ha avuto al suo apparire l’attenzione che meritava, e che è stato quasi del tutto trascurato dai tanti esegeti dell’artista. Un saggio in cui uno studioso di economia mette in rilievo come anche le analisi economiche, sociologiche e antropologiche di Pasolini siano in genere molto profonde.
Già nei primi anni 60 Pasolini è forse il solo intellettuale italiano a comprendere il senso e la portata delle trasformazioni in atto e a cogliere i pericoli insiti nel neocapitalismo italiano: un «modello di sviluppo» basato sulla quantità più che sulla qualità, sull’accumulazione di beni superflui più che su un progresso culturale e morale, e che, a differenza di Paesi come la Gran Bretagna e la Francia, si è imposto non gradualmente nel corso di secoli ma violentemente dall’alto in pochi anni. Con il risultato di distruggere culture, stili di vita, linguaggi, a vantaggio di un nuovo e uniforme modello umano di riferimento, quello piccolo-borghese (veicolato ideologicamente qui Pasolini ha un’intuizione geniale prima di tutto dalla televisione, cui si deve la nostra vera unificazione linguistica).
Sapelli mette benissimo in luce che Pasolini, pur amandoli, rifiuta gli stilemi figurativi e raffigurativi del neorealismo, che criticavano la miseria come condizione materiale, perché la sua critica è invece rivolta prima di tutto alla miseria spirituale, morale, frutto della modernizzazione accelerata e della distruzione antropologica. E che prima di Ragazzi di vita nessuno in Italia aveva mai scritto un romanzo che sembrasse un prodotto estraneo al mondo letterario. «I romanzi di Pasolini degli anni cinquanta dice benissimo Sapelli sono molto simili a quelli della beat generation americana».
IL MALESSERE SOCIALE
Anche le nuove forme di malessere sociale che si accompagnarono alla rivoluzione studentesca del Sessantotto sono, per Pasolini, frutto di questa modernizzazione imposta dall’alto. Pasolini intuisce che il ’68 italiano è in realtà una rivoluzione di classi medie, nella quale la borghesia si rivolta contro se stessa e non ha più bisogno né del rapporto con gli intellettuali né del rispetto per la scienza, ma solo di distruzione e violenza. Queste considerazioni aggiunge Sapelli «rivelano la grandezza dell’analisi antropologica di Pasolini: la piccola borghesia mima i comportamenti che storicamente sono stati della destra, convinta di appartenere a uno schieramento di sinistra, combattendo la destra e la sinistra storica, in particolar modo i comunisti, in quanto anch’essi fanno parte del vecchio sistema e aderiscono a vecchie norme».
Parole, per Sapelli, «straordinariamente preveggenti», in quanto effettivamente i gruppi clandestini hanno finito per codificarsi, per fissarsi, mentre comunemente, durante tutti gli anni settanta, «si è ritenuto che il terrorismo fosse un fenomeno di estremismo, di instabilità».
Anche il Sessantotto italiano è dunque un fenomeno di modernizzazione senza sviluppo: la politica si separa dall’intelligenza culturale e diventa pura lotta per il potere. In Scritti corsari e nel romanzo postumo Petrolio Pasolini va ancora più a fondo nell’analisi del «modello italiano» (basti leggere il mirabile «articolo delle lucciole»). Il razzismo dell’edonismo interclassista sta nel fatto che l’unico modello accettato è quello della normalità piccolo-borghese (perfettamente veicolata dalla televisione e dalla pubblicità). Ma il risultato (il tema verrà successivamente studiato solo da un antropologo francese, Georges Ohnet) è penoso, perché un giovane povero di Roma, ad esempio, non è in grado di realizzare quei modelli.
Non solo dunque Pasolini si distacca dal neorealismo, ma è anche lontano da ogni concezione che concepisca l’uguaglianza come livellamento, spirituale prima e più che materiale. E che identifichi il progresso con lo sviluppo. Ma allora è anche più chiaro perché Pasolini fu avversato da tanta parte della sinistra. E perché è invece oggi così attuale. Forse che, per fare solo un esempio, la dolorosa vicenda dell’Ilva di Taranto non parla proprio di questi problemi? Il discorso non cambia se passiamo dall’economia alla politica. In Segreto di Stato (Einaudi) il senatore Giovanni Pellegrino, all’epoca presidente della Commissione parlamentare sulle stragi, ricorda che Pasolini, in uno dei suoi celebri «scritti corsari», notava, pochi mesi dopo la strage del treno Italicus (1974), che, se le stragi del 1969 erano state anticomuniste, quelle del 1974 erano antifasciste. «Dal momento che sostiene Pellegrino mi pare molto probabile che anche la strage di Brescia sia stata compiuta nel maggio 1974 da uomini della destra radicale, continuavo a domandarmi che cosa volesse dire Pasolini nel sottolineare la logica antifascista...». Ma oggi continua Pellegrino «sono in grado di dare una risposta». Il senatore chiarisce che innanzitutto si devono identificare i diversi obiettivi che avevano i vari protagonisti di quella strategia. L’obiettivo della manovalanza neofascista era quello di provocare allarme e di fare in modo che, al dilagare della protesta studentesca e operaia, si reagisse con una risposta d’ordine. Le loro azioni, quindi, erano funzionali al progetto di «un vero e proprio colpo di Stato». A un secondo livello, quello degli «istigatori», si pensava, invece, di affidare alla tensione lo stesso ruolo che aveva avuto il «tintinnare di sciabole» del 1964: favorire, cioè, uno spostamento in senso conservatore dell’asse politico del Paese. Al terzo livello, quello internazionale, c’erano interessi geopolitici volti a tenere comunque l’Italia in una situazione di tensione e di instabilità interna. Il tentativo in direzione del colpo di Stato, vero o anche solo minacciato, durò abbastanza poco, sostanzialmente dalla strage di piazza Fontana al fallito golpe Borghese.
IL SANGUE IN PIAZZA
A livello politico, sia interno sia, soprattutto, internazionale, si capì che l’Italia non era la Grecia, che da noi non era importabile il regime dei colonnelli, perché sarebbe scoppiata la guerra civile: un prezzo troppo alto da pagare. «Dunque conclude Pellegrino da quel momento ha inizio una nuova fase, sia pure ovviamente non lineare: quella dello sganciamento dalla manovalanza neofascista. Lentamente, gli uomini della destra radicale sono richiamati all’ordine, si comincia a instillare loro l’idea che un piano golpista non può essere attuato fino in fondo, che è necessario fare un passo indietro. E loro reagiscono. Con una serie di attentati in qualche modo di ritorsione che segneranno la loro fine: li lasceranno fare, probabilmente, proprio per poterli liquidare». Era questa, dunque, l’intuizione di Pasolini. Ma ancora più sbalorditivo, anche per Pellegrino, è che Pasolini era arrivato quasi in tempo reale laddove la Commissione giungerà solo dopo anni e anni di ricerche.
Cambiamo parzialmente scenario. Il procuratore di Pavia che riaprì l’inchiesta sul caso Mattei stabilendo che la morte del presidente dell’Eni non era stata accidentale ma dovuta al sabotaggio del suo aereo ebbe a dichiarare che, quando lesse Petrolio, rimase scioccato nel rilevare che Pasolini era giunto alle stesse conclusioni della sua lunga inchiesta ma con venticinque anni di anticipo! E che nel romanzo era descritto fin nei minimi particolari l’«impero privato» di Eugenio Cefis, l’uomo che prese il posto di Mattei all’indomani della sua morte. Pasolini aveva compreso il ruolo-chiave di Cefis nell’additare una svolta autoritaria non più basata sulle stragi ma sul restringimento della democrazia e sulla dittatura dell’economia globale e transnazionale. Esattamente i nodi attorno a cui ci dibattiamo in questo momento.

il Fatto Lettere 27.11.12
Per non pagare l’Imu potrei anche farmi prete

di Paolo Izzo
Comincio a tremare, nella mia piccola soffitta. Non è per il freddo, ché il clima a Roma è ancora clemente, bensì perché si avvicina la fatidica scadenza per pagare l'ultima rata dell'Imu. Ancora non è chiaro a nessuno quanto si debba pagare: forse il minimo e poi il resto l'anno prossimo, con una multa? Tremo, ma non è neanche per questo: su 20 metri quadri di casa, la cifra sarà bassa. Però gira voce che la Chiesa, ancora una volta e contro il parere dell'Unione europea, non pagherà quella tassa per le decine di migliaia di immobili che possiede sul territorio italiano. Con una scusa o con l'altra, per un inchino o per l'altro dei nostri governanti, dal Vaticano non arriverà nemmeno un fiorino... La cosa mi puzza d'incenso e allora comincio a tremare. Perché penso che - se non voglio, da laico, vendere profezie, organizzare osanna o fingere miracoli - l'unica soluzione per salvare i miei risparmi sia proprio quella di farmi prete. E allora chissenefrega dei diritti civili: i miei reati diventerebbero peccati e le mie bugie, misteri della fede. E se anche decidessi di non pagare l'Imu, al più mi sposterebbero di parrocchia e amen. Paolo Izzo