mercoledì 28 novembre 2012

l’Unità 28.11.12
Renzi all’attacco delle regole Bersani: non si cambia in corsa
Ballottaggio: il sindaco vuole che voti chiunque. Ma il regolamento (approvato da tutti) fissa criteri precisi
«Il regolamento votato all’unanimità non si cambia in corsa»
Il leader: ora basta, non siamo un porto di mare
di Maria Zegarelli


Come era prevedibile adesso è braccio di ferro sulle regole per votare al ballottaggio. Matteo Renzi e il suo Comitato chiedono di cambiarle in corsa e permettere a chiunque voglia, senza dover portare alcuna “giustificazione”, di iscriversi ex novo anche domenica al ballottaggio per il candidato premier del centrosinistra «È allucinante. Abbiamo visto tutti quello che è successo ma va bene così polemizza il sindaco fiorentino. Ci dicano solo quando ci si può registrare. Noi tenteremo di lottare fino all’ultimo giorno contro l’apparato».
Il suo spin doctor Giorgio Gori incalza: «C’è un sacco di gente che vuole dare il proprio consenso a Bersani o a Renzi domenica e che non ha senso di tenere fuori dai seggi». La prima risposta arriva dal presidente del Comitato dei Garanti, Luigi Berlinguer: «Le regole per lo svolgimento delle Primarie sono state definite nel regolamento approvato all’unanimità dal Consiglio dei Garanti lo scorso 15 ottobre. Una volta iniziata la partita le regole non si possono cambiare tra il primo e il secondo tempo. Questo non è un principio derogabile, è l’architrave della certezza del diritto». Dunque, chi non ha potuto registrarsi entro il 25 novembre per motivi indipendenti dalla sua volontà potrà farlo domani e dopodomani nell’Ufficio elettorale del proprio Comune. Secca la replica anche del segretario Pd, Pier Luigi Bersani: «Non possiamo fare le regole a step, credo che 3,2 milioni di elettori non sarebbero soddisfatti se cambiassimo le regole. È un concetto basico delle democrazie, il regolamento non è proprietà di quelli che sono arrivati al ballottaggio... Non mettiamo temi che non esistono, stiamo al punto, abbiamo dato 21 giorni a tutti, compresa la domenica, per registrarsi». La stoccata finale: «Poi è una stupidaggine che se viene tanta gente, perde Bersani. Cerchiamo di fare le cose serie. Le primarie sono aperte ma non sono un porto di mare dove ognuno viene quando vuole». E se Bersani e Renzi l’altra sera negli studi di Fabio Fazio si sono abbracciati, i fan dell’uno e dell’altro, di abbracci se ne danno davvero pochi. Giuliano Da Empoli, infatti, risponde: «Ma che porto di mare: le primarie sembrano più delle “case chiuse”»
Roberto Reggi contesta: «Al ballottaggio delle Comunali va a votare anche chi non lo ha fatto al primo». Ecco la replica di Roberto Cuillo, responsabile comunicazione del Coordinamento delle primarie: «Al ballottaggio delle Comunali possono andare anche gli elettori che non hanno votato al primo turno purché siano iscritti alle liste elettorali. Il centrosinistra ha definito le sue il 25 novembre e da quel momento sono chiuse, tranne che per casi eccezionali».
Dal Comitato Renzi parlano chiaramente di norme «restrittive», fatte dice Roberto Reggi «da Bersani e i suoi amici».
Intanto Lino Paganelli sospetta brogli al secondo turno e mette le mani avanti: «Vogliamo conoscere il numero esatto dei certificati elettorali non utilizzati rimasti dopo il primo turno e dove attualmente si trovino. Con riferimento alle operazioni elettorali relative al secondo turno delle primarie che si terrà domenica 2 sono a richiedere l'esatta determinazione del numero dei certificati elettorali stampati e distribuiti ai coordinamenti provinciali e regionali ed utilizzati per la registrazione degli elettori del centrosinistra. Oltre al numero chiedo anche di sapere quanti ne sono stati utilizzati fino a domenica 25 novembre alla chiusura delle operazioni di voto, quanti ne sono rimasti, dove sono attualmente le rimanenze e le persone fisiche responsabili della conservazione degli stessi». Reggi apre un altro fronte: chi si è registrato on line entro il 25 ma non ha votato al primo turno potrà farlo al secondo andando a ritirare il certificato elettorale al gazebo. «Se c’è questa possibilità per chi si è registrato on line chiede , perché non dare la stessa opportunità anche a chi non ha potuto nei tempi stabiliti?». Cuillo spiega: «Perché chi si è registrato on line quando va al gazebo può versare i due euro e chiedere il proprio certificato elettorale ad uno dei volontari addetti al seggio in quanto già iscritto nelle liste elettorali del centrosinistra».
Il clima non è esattamente disteso e nulla lascia presagire che cambi nei prossimi giorni. Ci si gioca tutto domenica, Renzi vuole pescare i voti nel bacino di Vendola ma sa che ha bisogno di portare ai gazebo tanti nuovi elettori, anche gli scontenti del Pdl, per colmare la distanza che lo separa da Bersani. Bersani dal canto suo dice di non essere affatto preoccupato da possibili «scalate ostili» ma molto di più da un cambio in corsa delle regole che invece devono essere certe. Dai territori i Comitati dei due contendenti se le dicono di santa ragione per tutto il tempo. Da Roma Nico Stumpo assicura che i verbali del voto di domenica verranno messi on line (il sindaco gli aveva proposto di comprare lui uno scanner) con i dati ufficiali. Reggi chiama a raccolta i suoi: domenica occhi aperti ai seggi. Vietato distrarsi. Ne sentiremo delle belle.

l’Unità 28.11.12
I giuristi: la platea elettorale non cambia in corso d’opera
I pareri concordi di Cheli, Onida, Rodotà e Luciani: le norme possono essere interpretate, non sostituite
di Andrea Carugati


Non si possono cambiare le regole delle primarie in corso d’opera». Su questo punto dirimente le opinioni dei giuristi sono chiare. Dal costituzionalista Enzo Cheli all’ex presidente della Consulta Valerio Onida nessuno ha dubbi sul fatto che non si possa riaprire, o meglio liberalizzare, la platea degli aventi diritto al voto al secondo turno.
L’opinione condivisa è che il regolamento approvato dal Collegio dei garanti vada applicato «alla lettera». E quel regolamento prevede che per due giorni, prima di domenica (e dunque non il giorno del ballottaggio) possano iscriversi all’Albo degli elettori coloro i quali «dichiarino di essersi trovati, per cause indipendenti dalla loro volontà, nell’impossibilità di registrarsi all’Albo entro il 25 novembre». «Una regola», spiega Cheli, «che definisce qual è il corpo elettorale legittimato a votare al secondo turno». Una regola, suggerisce, «che non può essere modificata ma semmai interpretata dai responsabili degli uffici elettorali». «È chiaro che c’è la possibilità di iscriversi solo in casi eccezionali». Che fare, dunque? «Le situazioni vanno risolte caso per caso, con saggezza ed equilibrio, da parte dei responsabili degli uffici elettorali». Il problema dunque è di interpretazione di una norma che lascia aperti margini di ambiguità. E cioè se basti dichiarare l’impedimento oppure se sia il coordinamento provinciale (come recita una delibera del coordinamento nazionale delle primarie approvata il 26 novembre) a stabilire se le motivazioni addotte dall’aspirante elettore siano da accettare oppure no. Secondo Cheli, però, un punto è dirimente: «Le regole fissate prima del 25 novembre non possono essere cambiate, perché il procedimento elettorale è unitario, anche se articolato in due fasi. E un cambiamento in corsa rischierebbe di invalidare anche il primo turno». Insomma, dice Cheli, «la ratio della norma è chiara: la platea elettorale più di tanto non può variare e i margini interpretativi non possono essere ampi».
Sulla stessa lunghezza d’onda il professor Stefano Rodotà: «Le regole scritte in comune prevedono che non sia possibile iscriversi al secondo turno liberamente, non si cambiano le regole in corso, abbiamo un passato alle spalle che ci impone di essere severissimi su questo aspetto. C'è una regola e va rispettata». Anche Valerio Onida, ex presidente della Corte Costituzionale, invita alla prudenza: «Mi atterrei rigidamente al regolamento, evitando gli eccessi opposti: non si può liberalizzare in modo estensivo il secondo turno, perché la premessa del regolamento era un’altra. E tuttavia non si può neppure dare un’interpretazione troppo restrittiva a quella «autodichiarazione» del cittadino a proposito dell’impedimento. A me pare molto difficile una verifica sulla effettività dell’impedimento, ad esempio chiedendo di portare certificati medici o giustificazioni. Faccio un esempio: una mamma vuole votare e dice che il giorno in cui aveva deciso di registrarsi il bambino è stato male. Chi può dire che non è vero ed escluderla dal voto? È un meccanismo che aprirebbe la strada a contestazioni infinite».
Massimo Luciani, docente di diritto costituzionale alla Sapienza, sottolinea che «cambiare le regole comporterebbe una disparità di trattamento verso chi ha corso al primo turno e nei confronti degli elettori stessi. Le primarie non sono infatti una questione privata tra Renzi e Bersani, i soli candidati del Pd. C'erano altri candidati che hanno condiviso regole che non possono che rimanere inalterate». Secondo Luciani, dunque, «la “oggettiva impossibilità” del cittadino a registrarsi prima del 25 novembre alla luce dei principi regolamentari non può essere solo dichiarata, ma va anche dimostrata dall’aspirante elettore».
Di opposto avviso il senatore e costituzionalista Stefano Ceccanti, sostenitore di Renzi, che contesta il ruolo di «filtro» dei coordinamenti provinciali rispetto alle auto-dichiarazioni degli elettori: «La delibera del 26 novembre presenta una forzatura, e cambia in modo sostanziale quanto previsto dal regolamento che parlava di una “autocertificazione”». Perché? «Si introduce un controllo delle motivazioni da parte dell’organismo provinciale, e peraltro all’unanimità, da parte dello stesso organismo. Insomma, proprio chi dichiara di non volere cambiare le regole in realtà lo sta facendo surrettiziamente».

l’Unità 28.11.12
Il segretario deve mostrare che è la vera alternativa
di Michele Prospero


Per soli 159.794 voti Pier Luigi Bersani non ha preso la maggioranza assoluta. Al ballottaggio per trasformare una vittoria prevedibile in un successo reale deve però riuscire a mobilitare le sue truppe e convincerle di nuovo a muoversi. Serve uno scatto. Ben altra cosa rispetto alla litigiosità, la polarizzazione delle opzioni culturali è la via maestra per mostrare la nettezza della proposta e il senso vero della sfida.
Per motivare una nuova partecipazione, Bersani deve mostrare di essere proprio lui la profonda alternativa che il Paese cerca rispetto alle politiche sconfitte dalla crisi. Il principio di realtà, che la crisi ridesta, deve imporsi sulla costruzione mediatica di devianti figure che ripropongono il già visto sotto ammaglianti metafore. Su temi caldi, come quelli delle politiche del lavoro, la distanza tra Renzi e Bersani non è certo inferiore a quella che ovunque in Europa separa le forze liberali-moderate e i partiti della sinistra. Le proposte di Ichino e Giavazzi non solo spezzano la coalizione sociale della sinistra ma rivelano la loro debolezza nel risolvere la crisi.
Sui temi del lavoro, del pubblico, della scuola, della ricerca, delle libertà civili, della precarietà Bersani può rimarcare una netta discontinuità. Questo suo cuore lavorista è il solo modo per far saltare l’astuzia della penetrazione renziana: liberista in economia e anticasta in politica. Togliere il velo superficiale della rottamazione e mostrare il senso residuale dei diritti del lavoro: questo esercizio liberatorio può provocare una crepa in un elettorato giovanile, condannato alla precarietà e però attratto dai miti di un cambiamento facile.
In alcuni territori dell’Italia centrale le primarie si sono trasformate in un regolamento di conti interno al ceto amministrativo. Renzi va sfidato perciò nella sua pretesa di maneggiare il meccanismo del dentro e fuori. Con questo gioco può sparare contro il quartier generale e poi pretendere la postazione di comando. Con il sindaco che indossa anche lui gli abiti di partito e depone le armi dell’estraneità si svuota la metafisica della rottamazione.
Con la proposta della rifondazione di una democrazia costituzionale, proprio Bersani è il leader più attrezzato per garantire unità, compattezza e successo alla coalizione. Occorre superare la fallimentare stagione del partito personale per conferire basi solide alla partecipazione democratica, per impostare un dialogo con gli attori sociali, le associazioni civiche, i movimenti. Bersani può parlare la lingua comune della sinistra europea. Il nuovo che Renzi propone è invece il vecchio paradigma della
comunicazione di un capo solitario. L’agenda di Bersani è la sola garanzia di una discontinuità radicale con la Seconda Repubblica a democrazia opaca e dominata da potenze arcane. Per restituire dignità e autonomia alla politica occorre mutare alla radice culture, attori, luoghi, interessi sociali.
La più grossa balla oggi in circolazione? La mistificazione circa la pretesa minore capacità competitiva di Bersani rispetto a Renzi, dipinto come un leader post-ideologico che proprio in virtù della leggerezza della proposta sarebbe in grado di sfondare nell’elettorato moderato. Queste virtù taumaturgiche della narrazione appartengono al pittoresco mondo delle leggende: non si può mai conquistare nuovo spazio abbandonando il proprio mondo. Il consenso è sempre un lento processo incrementale, non esiste un magico trasporto della fiaba che surroga analisi, azioni coerenti, proposte efficaci.
La pretesa di rivolgersi al serbatoio della destra con un messaggio senza ideologie, con un programma privo di radici sociali in un tempo che proprio la crisi rende incandescente è del tutto improduttiva. In difficoltà nelle metropoli e nei luoghi del disagio, Renzi del resto sfonda nelle Regioni che già sono rosse, dove la sinistra è ormai una istituzione che va strattonata.
Bersani non è l’usato sicuro, è piuttosto la grande innovazione capace di memoria e di ancoraggi sociali. Egli, dopo lo smarrimento che non ha risparmiato la sinistra, offre un equilibrio tra la necessità di dare un senso al proprio mondo, rinverdendo le appassite radici, e quella di aggiornare la proposta verso nuove figure sociali e sensibilità politiche. Su queste basi di mutamento sostanziale Bersani può spiazzare la spoliticizzazione che ha l’abito del tecnico o la maschera del comico.

l’Unità 28.11.12
Bersani: io le riforme le ho fatte davvero
Risposta a muso duro allo sfidante che lo accusa di non aver cambiato niente
Domani sul palco con Vendola a Napoli per parlare di lavoro e di diritti
«Con me il voto d’apparato? Ma se a parte Firenze ho vinto in tutte le grandi città...»
di Simone Collini


ROMA «Ho fatto più riforme io di quante ne chiacchierino tanti altri». Non ci sta a passare per «catenacciaro», non gli piace lo «stereotipo» che gli vuole appicciare addosso Matteo Renzi, che a Porta a porta dice che «Bersani non è l’uomo del cambiamento». Il leader del Pd ha deciso di giocare la parte finale della partita sul terreno scelto dal sindaco di Firenze, e proprio insistendo sul fattore «cambiamento» punterà a convincere elettori che al primo turno hanno votato per Renzi a cambiare idea, domenica prossima. Per questo già stasera, nel confronto tv su Rai 1, Bersani ricorderà le «lenzuolate» che hanno portato alla cancellazione dei costi per le ricariche telefoniche e delle licenze del piccolo commercio, la portabilità dei mutui, l’abrogazione delle spese di chiusura dei conti correnti e della commissione di massimo scoperto. «Questi sono fatti, gli slogan, le parole, non mi interessano».
L’altro bacino di voti a cui Bersani proverà ad attingere per vincere il ballottaggio è quello incassato al primo turno da Vendola. Ed è funzionale a questo obiettivo l’iniziativa organizzata per domani sera a Napoli, che varrà più di un semplice endorsement a parole: il leader del Pd e quello di Sel saranno insieme sul palco del Teatro Politeama a parlare di Mezzogiorno, lavoro, diritti e a rilanciare la «carta d’intenti» che costituisce la base valoriale e programmatica della coalizione dei progressisti. Insistere sui contenuti e mostrare che soltanto con una sua vittoria è possibile dar vita a un’alleanza in grado di vincere le elezioni sono le armi che Bersani intende usare in questo rush finale.
NEANCHE UN CENT
Il leader del Pd, che nel corso di una videochat con il sito web Corriere.it dice che non scommetterebbe neanche un centesimo sulla vittoria di Renzi (per non dire dello sfoggio di latino nell’ironizzare sul suo «mica siam qui a pettinare le bambole», tradotto «pettere pupas») in queste ore sta studiando le analisi del voto fatte da diversi istituti di ricerca. Come il Cattaneo di Bologna, che ha notato come queste primarie abbiano mobilitato un terzo (per l’esattezza il 32,8%) degli elettori che avevano votato Pd e Sel nel 2009 e che il numero dei cittadini che è andato ai gazebo è stato 3,6 volte superiore rispetto agli iscritti del partito di Bersani. «A me il voto d’apparato? dice giudicando infondata l’analisi proposta da Renzi ma se esclusa Firenze che è un caso a parte ho vinto in tutte le grandi città, dove c’è molto voto d’opinione e non il partito con la falange». Da un’altra indagine emerge poi che nelle roccaforti operaie come Pomigliano, Marghera, Melfi, il segretario del Pd ha superato abbondantemente il 50% dei voti: 58,4% a Pomigliano, media del 52,5% a Marghera, 50,4 a Mirafiori ed è primo anche a Melfi col 47,6%.
Renzi in questi ultimi giorni dovrà provare a coprirsi maggiormente sul fronte sinistro, dove si è dimostrato carente. E non a caso ora dice, puntando a conquistare anche consensi andati a Silvio Bersani, che il suo «primo punto sarà il lavoro».
Il leader del Pd però non si mostra troppo preoccupato per questo. E non solo perché ieri ha incassato il sostegno di ex leader sindacalisti di Cgil, Cisl e Uil come Giorgio Benvenuto, Pierre Carniti, Sergio Cofferati, Sergio D’Antoni, Guglielmo Epifani e Franco Marini, che tra l’altro segue di poche ore l’invito a «votare senza riserve» per lui diramato con una nota dall’Adusbef e da Federconsumatori. Bersani, che venerdì andrà a fare campagna elettorale in Toscana (Empoli e Livorno) per poi passare in Umbria e Piemonte, è convinto che l’operazione “conquista a sinistra” non possa riuscire a Renzi, almeno finché si mostrerà più interessato alle presenze televisive che al confronto diretto con i lavoratori. Il sindaco di Firenze spinge infatti per fare altri confronti tv, oltre a quello di stasera su Rai 1, mentre Bersani fa notare che «cè la tv ma c’è anche il Paese, bisogna darsi una misura, non rinuncio ad un incontro su una situazione difficile per una ospitata televisiva».
TRA I LAVORATORI DELL’IDI
Come ieri, quando il leader del Pd è andato a incontrare i lavoratori dell’Idi che da quattro mesi non ricevono lo stipendio. «Se qualcuno ha imbrogliato deve andare in galera», dice dopo aver ascoltato i racconti di alcuni dei 1800 medici ed operatori sanitari riuniti in assemblea. Bersani telefona anche al prefetto di Roma e al commissario del governo per il servizio sanitario Enrico Bondi per chiedere che vengano sbloccati i circa 7 milioni di fondi che potrebbero servire a pagare gli stipendi dei dipendenti. Ci sono marito e moglie entrambi assunti qui che confessano di non sapere come andare avanti, c’è una bambina che racconta di volere per Natale due cose: una bambola rossa e lo stipendio per la mamma. «La vostra situazione è drammatica, si deve alzare il tono perché il Paese ne prenda atto».
È di storie come queste che per Bersani si deve occupare chi si candida a governare il Paese. Per questo non gli è piaciuta tutta la polemica innescata sulle regole. Ma il leader Pd non intende attaccare Renzi, sa che farebbe soltanto il suo gioco. Però al sindaco di Firenze che in queste ore dice che un suo partito potrebbe ottenere il 25% manda a dire, parlando con sostenitori che incontra in un circolo Pd di Roma (e al quale a sorpresa compare per una chiacchierata anche l’attore Riccardo Scamarcio, elettore di Vendola): «Un piccolo partito può pensare a se stesso ma uno grande deve pensare all’Italia. Noi siamo il primo partito, cerchiamo di avere un po’ di autostima».

l’Unità 28.11.12
Salvatore Scalzo: «Il Sud premia il leader Pd perché se ne occupa»
Il giovane candidato di Catanzaro: «La vera partita è tra Monti-bis e governo Bersani. Questo spiega un certo tifo contro il segretario»
di Maria Zegarelli


Salvatore Scalzo ha 29 anni ed è di nuovo in corsa per la poltrona di sindaco a Catanzaro, ora che il Tar ha annullato il voto in otto sezioni elettorali. E dal momento che il sindaco di centrodestra, Sergio Adamo, ha superato il quorum del 50% con soli 129 voti, la partita è davvero aperta. Così di campagne elettorali ne sta facendo due: per le primarie e per la poltrona di sindaco. Scalzo, lei appoggia Bersani. Come direbbe Renzi le piace l’usato sicuro? «Questa è un’espressione che in generale non mi piace. Sono per una candidatura autorevole, quella di Pier Luigi Bersani, che ha dimostrato di saper condurre il rinnovamento nell’organizzazione, un concetto di rinnovamento che resta, che affonda le radici e si radica nei territori».
Le foglie con radici robuste?
«Diciamola in un altro modo: mi piace la capacità di fare sintesi tra le diverse sensibilità costituzionali. Siamo in una fase in cui le tendenze distruttiviste prevalgono in Italia quando le forze progressiste hanno la reale possibilità di andare al governo. Tendenze esterne ma alcune interne alla stessa coalizione».
Si riferisce a chi lavora per il Monti-Bis?
«Mi riferisco a chi lavora per impedire ai progressisti di andare al governo. In Bersani, invece, vedo la forza tranquilla di chi ci può portare al governo affrontando i problemi del Paese con l’esperienza necessaria e la giusta dose di innovazione».
Lei, 29 anni , non trova nulla di interessante in quello che propone Renzi?
«Credo che Renzi sia uno stimolo molto importante per tutta la coalizione, quindi ha fatto bene Bersani a volere queste primarie che hanno suscitato un grande interesse intorno al centrosinistra e al Pd. Adesso gli elettori devono scegliere tra due visioni politiche diverse. Da una parte c’è Renzi che guarda al mercato con maggiore fiducia, dall’altra c’è Bersani che punta sul lavoro, sulle regole, sulla Costituzione. Stiamo assistendo ad un dibattito politico vero anche se Renzi molto spesso lo sposta su temi strettamente congressuali».
Giusta o sbagliata la battaglia sul rinnovamento?
«Sacrosanta, ma si può fare in molti modi. Noi, qui a Catanzaro, siamo l’esempio di come si può rinnovare profondamente una classe dirigente senza spaccare tutto e le ultime elezioni ci hanno dato la conferma che la gente ha capito il lavoro che abbiamo fatto e il progetto che abbiamo in testa per la città».
A proposito, ha sentito il Comitato Renzi della Calabria, che chiede le dimissioni del Commissario Pd, D’Attorre? «Contestano a D’Attorre di aver detto che il voto delle primarie ha difeso la Calabria da Renzi ma io ho letto l’intervista e D’Attorre non dice affatto quelle cose. Io considero Renzi una risorsa per il partito e non una minaccia ma è normale che in queste primarie ognuno scelga con chi stare».
Perché Renzi non ha convinto il Sud?
«Se noi smettessimo di considerare questa competizione come un fatto interno al partito ci renderemmo conto che le persone giudicano i candidati sui programmi e le loro idee. Bersani ha dato segnali forti nell’inclusione della
Calabria e del Mezzogiorno nei processi nazionali e il Sud ha mandato un segnale altrettanto forte: non crede che il modello vincente per la società e gli individui sia quello liberista. Non ha visto in quella strada il proprio riscatto, nello sgretolamento del modello di sviluppo, in assenza della costruzione dei beni pubblici e della coesione sociale del Paese, ha visto il declino del Sud. Credo che il Sud stia scommettendo su un diverso modello di sviluppo, quello che il segretario incarna con il suo programma. Qui non si giudica il Pd, qui si giudica cosa sia migliore per far ripartire tutto il Paese e quindi anche questa parte dell’Italia».
L’ultima polemica in corso riguarda le regole sul ballottaggio. Devono potersi registrare tutti e fino a domenica, come chiede Renzi?
«Le regole in una competizione come questa devono esserci e devono essere serie, ma, aggiungo, anche ragionevoli. Se un elettore non ha potuto votare prima credo debba poterlo fare domenica. Non penso che possano esserci “incursioni”. Bersani vincerà in ogni caso perché è il candidato più credibile».

Corriere 28.11.12
Bersani, un leader inclusivo contro disuguaglianze e corporazioni
di Salvatore Bragantini


Caro direttore,
smaltiti gli entusiasmi dello stato nascente, il Pd aveva deluso tanti, ma dopo anni di imboscate fra fazioni armate e tanta pioggia, le primarie ci hanno regalato una giornata di sole frizzante: ne aveva bisogno non il Pd solo, ma tutta la nostra vita pubblica. Onore ai meriti: di Tabacci e della sua corsa, generosa perché senza prospettive, come quella di Puppato; di Vendola, abile nell'agganciare alla vita democratica fette di società che altrimenti potrebbero staccarsene. Di Renzi, che con coraggio risoluto ha dato sapore ad una corsa altrimenti sciapa; infine di Bersani, che questa corsa l'ha voluta, senza farsi scudo dello statuto che in automatico lo candidava al governo. Egli ha imposto, in caso di mancata conquista della maggioranza assoluta, il ballottaggio; dopo le esperienze comunali, ciò ribadirà ad un Paese impitonito nell'attesa della nuova legge elettorale che si può combinare il fedele censimento dei consensi con l'espressione, chiusi i seggi, di una maggioranza chiara.
Domenica sapremo solo chi ha vinto le primarie, poi ci sarà la vera prova, le elezioni: ma il difficile sarà il dopo. Bersani mi pare, più di Renzi, capace di affrontarlo, tenendo assieme un Paese «troppo lungo», infestato da campanilismi e corporazioni ma che pure contiene energie che vanno sprigionate da quei vincoli. Magari meno avvincente, egli è più unificante di Renzi, i cui motti sarebbero efficaci, se la crisi finanziaria non li avesse resi obsoleti; gli Anni 90 non torneranno. Bisognerà dire amare verità, attentamente dosando il risanamento con l'indilazionabile sostegno ai deboli; dare prospettive a chi altrimenti si sentirebbe respinto dalla società non vuol dire riandare alle passate spensieratezze. La disoccupazione giovanile al 30% uccide la coesione, va affrontata anche investendo: se gli stessi mercati tardano a riconoscere i nostri progressi è perché temono il rigetto di un'austerità insostenibile.
Anche se non è di casa a Bruxelles, Bersani sa che la partita si gioca nel Consiglio europeo assai più che nel Consiglio dei ministri; speriamo lavori non ai sogni (gli Stati Uniti d'Europa), ma a mete raggiungibili in tempi umani. Inclusivo, egli non accende le tifoserie ma sa ascoltare, ha bisogno di una squadra ma non di devoti. Per attraversare questi anni aspri, in cui alla delusione e all'ansia sta succedendo la rabbia, servono le sue doti: tenacia, pazienza, esperienza, soprattutto affidabilità. Bisogna disboscare una rete opaca che a nessuno risponde e strozza il Paese tirandone nell'ombra i fili; e magari ricordare che il Vaticano è sede non solo della religione più professata in Italia, ma anche di uno Stato estero (assolutista e teocratico) che non deve interferire con le nostre questioni interne.
I mezzi vanno aggiornati ai tempi, ma i fini restano. Se i dipendenti non lo meritano, non van difesi per forza, ma Libertà, Eguaglianza, Fraternità non sono slogan vuoti; resistono da due secoli, ci sarà un motivo. Si parla tanto di libertà, poco di eguaglianza e fraternità. Sarà bene ricordare che sanità e istruzione pubbliche sono essenziali per ridurre le disuguaglianze nel lungo termine, ma non sono al servizio di chi ci lavora.
Serve sensibilità alle disuguaglianze di ricchezza e di reddito, causa ignorata della crisi. Lo Stato non deve sprecare, ma le leggi fiscali devono riequilibrare i pesi. Se non si recupera davvero l'evasione che sarebbe umoristica se non fosse tragica, rischiamo grosso. Il profitto serve a tutti perché porta investimenti che portano lavoro; la sequenza salta se essi sfuggono alle tasse e gli investimenti vanno nel lontano altrove. La ricerca individuale del guadagno deve tornare ad avere quel senso generale di cui scrisse Adam Smith. Accorciare le disuguaglianze, ridurre le differenze nelle basi di partenza, riportare la finanza al ruolo di ancella, non padrona, dell'economia, è solo buon senso. Bersani dà garanzie di tenere questa difficile rotta in mezzo a mille difficoltà. Egli sa, infine, che la legittimazione derivante da questo voto gli consente, anzi gli impone di innovare radicalmente modi e persone, anche «includendo» l'outsider Renzi; sarà molto più facile farlo per lui di quanto lo sarebbe, a parti invertite, per l'altro. Anche questo è un buon motivo per augurarsi che vinca.

l’Unità 28.11.12
Pd, nulla sarà come prima «Ma decide il congresso»
Le primarie hanno aperto nuove dinamiche dentro il partito e nel centrosinistra
Ma comunque vada domenica, tutti escludono il ticket Bersani-Renzi
di Ninni Andriolo


Il Pd ha cambiato «pelle». Il 25 novembre, anzi, «è nato di nuovo». I giornali fotografano così i 3 milioni in fila per la prima tappa della corsa di Renzi e Bersani. Riflettori puntati sugli equilibri interni al Partito democratico nelle istantanee di stampa che si avventurano verso i possibili scenari del dopo, immaginando perfino ticket tra il sindaco di Firenze e il segretario. «Nulla di tutto ciò», sottolinea Roberto Speranza, del comitato Bersani. «Abbiamo voluto le primarie per avvicinare la politica ai cittadini commenta Il più grande partito del Paese ha costruito la condizioni per un bagno di democrazia». «Un errore», quindi, leggere le primarie con la lente «deformata» delle dinamiche interne al Pd. Per definire gli assetti del partito, continua Speranza, bisognerà attendere il congresso del 2013. Al di là di questo, però «il dato importante è che abbiamo rimesso il partito al centro dell’agenda politica» e «il merito va a Bersani che ha voluto cambiare lo stesso Statuto del Pd».
Anche il versante renziano non pone l’accento sugli equilibri di partito. «Siamo perfettamente consapevoli che questo non è mica un congresso sottolinea Roberto Reggi, responsabile della campagna del sindaco di Firenze Chiaro, però, che un milione e centomila elettori non sono una cosa da ridere e dovrebbe essere interesse di tutto il partito valorizzare questo serbatoio..». Tandem Bersani-Renzi in vista delle politiche? «Matteo ha sempre detto che non accetta premi di consolazione replica Reggi Lui punta a vincere, ma qualora dovesse perdere continuerebbe a fare felicemente il sindaco di Firenze senza ticket». Nessuno dei renziani al governo, quindi, in caso di vittoria di Bersani alle primarie e alle successive politiche? «Questo dipende da chi vince, sarà lui che dovrà farsi carico di chi perde. Nel caso vincesse Matteo sarà così e penso che sarà così anche se dovesse prevalere Bersani. Lui, anzi, dovrebbe farlo due volte, come segretario e come candidato premier. Chi vince vince e chi perde aiuta ricorda Reggi Noi siamo in questo spirito, non ho ancora capito se lo è anche Bersani...».
Si meraviglia «che ci si meravigli» del Pd, Francesco Boccia, vicino alle posizioni di Letta. «Già il congresso fondativo del partito aveva chiuso con i vecchi gruppi dirigente dei Ds e della Margherita» e da Veltroni in poi «sul rinnovamento si è fatta molta strana». Il processo che si è innestato è sbocciato, poi, con Bersani. «Oggi continua Boccia c’è una classe dirigente nuova a livello regionali, nazionale e di amministratori locali». Renzi? «Chi ottiene più di un milione di consensi rappresenta un pezzo del mondo del centrosinistra, come lo rappresenta per altri versi Vendola, con i suoi 480.000 voti. E Boccia spera in Bersani candidato premier, certo che il segretario «terrà conto del dibattito che si è sviluppato in queste settimane e degli altri candidati alle primarie». L’asse Bersani-Renzi-Vendola, secondo il parlamentare pugliese, «rafforzerà il profilo riformista del centrosinistra che guarda al mercato come strumento ridistributivo e alle fasce più deboli della popolazione».
Anche per Ettore Rosato, deputato friulano vicino a Dario Franceschini, in queste settimane non si sta celebrando «un congresso del Pd» e «sarebbe un errore definire sulla base delle primarie maggioranze e opposizioni interne al partito». Come avviene in ogni occasione elettorale «sicuramente c’è un cambiamento» ed «emergono figure nuove» mentre «altri escono di scena o si ridimensionano». Il Pd «è un grande partito che deve rappresentare la casa di tutti», continua Rosato. L’ipotesi di un ticket Bersani-Renzi avanzata da qualche giornale? «Solo fantapolitica». Il sindaco di Firenze? «Se dovesse prevalere farà il candidato premier, naturalmente. In caso contrario bisognerà capire meglio». Anche perché, secondo Rosato, «Renzi rilascia dichiarazioni che spesso smentisce». Prima «dice di non essere interessato alle liste elettorali sottolinea Poi avverte che è interessato a fare sia le liste che i parlamentari. Bisognerà aspettare che si consolidi il suo pensiero prima di immaginare il futuro».
Un Pd che ha cambiato pelle il 25 novembre 2012? «Rispetto alla rappresentazione che qualcuno si ostinava ad avere in testa, fatta da quelle correnti e da quei leader, il Pd di oggi è già una cosa diversa spiega Matteo Orfini, esponente dei cosiddetti giovani turchi vicini a Bersani Ma, anche qui, non ci si può limitare a dire che la ruota girerà e che abbiamo fatto il rinnovamento. A questo, infatti, dovrà corrispondere un equilibrio dei poteri reali dentro il partito». Vero che la mappa del Pd è diversa, afferma Orfini. Ma «questo è avvenuto perché nelle battaglie di questi mesi, nel rapporto con l’opinione pubblica e con le primarie si sono affermate realtà nuove». E «un grosso passo avanti», secondo l’esponente della segreteria Pd, riguarda «l’articolazione delle cosiddette nuove leve» e il fatto che l’aggregazione interna «non avviene più come affiliazione a questo o a quel leader ma intorno a posizioni politiche di merito».
«Noi cosiddetti giovani turchi ci siamo incamminati su una linea e intorno a quella abbiamo aggregato continua Orfini Anche Renzi ha cominciato così, pur muovendosi su un’opzione politica antitetica alla nostra». E oggi, almeno, «si parla di politica», non «di chi è fedele a chi». Il Pd è diverso da quello di tre anni fa, sottolinea Orfini, «ed è bene che questa diversità venga certificata, anche al momento delle scelte che riguarderanno la composizione di un eventuale governo». Renzi? «Se perde potrà tornare magari a fare il sindaco di Firenze, ma ci dovrà pur essere qualcuno dei suoi ad interpretare quella linea anche nella battaglia del centrosinistra per il governo del Paese». Anche per Orfini «il tema di adesso» non sono gli assetti interni del Pd ma «vincere le elezioni»

La Stampa 28.11.12
Campi: ecco perché gli elettori di destra potrebbero votare
“Sono interessati al benessere del sistema politico: io l’ho fatto, e ho scelto Renzi”
di Fabio Martini


Alessandro Campi Intellettuale di centrodestra, da direttore della Fondazione Farefuturo, negli anni scorsi, ha animato la stagione culturalmente più vivace di Gianfranco Fini
Professor Campi, poi ha dato seguito, alla annunciata tentazione di votare per le Primarie di centrosinistra?
«Certo ed è stata una esperienza interessante ed anche simpatica», risponde Alessandro Campi, intellettuale di centrodestra che da direttore della Fondazione Farefuturo, negli anni scorsi ha animato la stagione culturalmente più vivace di Gianfranco Fini.
Esperienza simpatica?
«Il seggio elettorale di Perugia nel quale potevo votare, era ospitato in una sede di Sel e lì sono stato accolto in modo molto garbato. Mi hanno riconosciuto tutti, anche perché Perugia è una piccola città, si è presentato il segretario, un omone con i baffi, mi ha stretto la mano e mi ha detto: professore, è un onore averla qui».
Altrove si è assistito a qualche “respingimento”...
«Ma si trattava di cose diverse. Effettivamente ho letto che, applicando alla lettera lo statuto, da qualche parte ci sono stati presidenti di seggio che hanno rifiutato di far votare persone che sono state riconosciute come esponenti impegnati nel centrodestra, con tanto di incarichi».
Lei perché è andato a votare?
«Anzitutto mi è parso doveroso, in un clima di antipolitica, con tanta gente che immagina la politica come irredimibile, incoraggiare e partecipare ad una esperienza che, quasi a prescindere dai propri convincimenti, valorizza la discussione e la partecipazione. Sotto questo punto di vista le Primarie sono state una esperienza molto importante».
Oltre ad un civismo da partecipazione cosa altro l’ha spinta?
«Quella in corso è una competizionevera. Tra persone, ma anche tra idee, prospettive politiche diverse. Esattamente come dovrebbe essere, sempre, la politica».
Ma un elettore di centrodestra potrebbe limitarsi ad applaudire a distanza, ma se decide di partecipare, deve avere una forte motivazione: seminare zizzania? Oppure favorire un candidato?
«Certo, volendo, si può anche partecipare per rompere gli equilibri degli altri, in questo caso del centrosinistra e del Pd. Ma questo è uno spirito settario, un approccio polemico-calcistico, da curva Sud. E invece si può decidere di partecipare per il benessere complessivo del sistema politico: queste sono Primarie per il candidato premier in pectore del centrosinistra, la personalità che in teoria potrebbe governarmi e decidere dei miei destini. È evidente che un elettore di destra ha un’idea della sinistra che gli piacerebbe e non è vero che è la sinistra perdente. Insomma il ragionamento di fondo è questo: se proprio deve vincere la sinistra, fare in modo che vinca una certa sinistra anziché un’altra. E’ lo stesso ragionamento che potrebbe fare un elettore di centrosinistra, rispetto ad una competizione, che so io, tra Crosetto e la Santanchè».
E lei, professor Campi, per il «benessere del sistema Italia», vede meglio Renzi o Bersani?
«Ho votato per Matteo Renzi. Ho una simpatia politica per lui e per la sfida politica che incarna. Tra l’altro sono convinto che, rafforzandolo anche se poi perdesse, in qualche modo già si è dato un segnale di cambiamento. Un segnale che il Pd non potrà non recepire. Se Bersani è un leader dotato di un minimo di senso pratico, come sembra, qualcosa della sfida di Renzi la recepirà».
Scusi, ma se invece Renzi vincesse le Primarie, a quel punto lei lo voterebbe anche alle elezioni politiche?
«Il mio personale voto dipenderà dall’offerta politica. Ma se l’unica cosa seria che si fosse materializzata nel Paese fosse il Pd guidato da Renzi, in maniera molto pragmatica, potrei decidere di votarlo. Tanto più se dall’altra parte non ci dovesse esser nulla. In questo momento abbiamo una destra allo sfascio e al psicodramma, incerta se fare le Primarie, divisa in 2-3 ipotetici partiti e un Centro privo di una sua progettualità autonoma» E se Monti si volesse guadagnare il bis per via elettorale?
«L’unica variabile potrebbe essere proprio la decisione di Mario Monti di scendere in partita, qualificando l’offerta politica centrista. Se il 10 gennaio Monti annunciasse di entrare in partita - due mesi prima delle Politiche, avendo davanti a sé lo stesso lasso di tempo che nel 1994 passò tra l’annuncio di Berlusconi e la sua vittoria - allora molte cose potrebbero cambiare».

La Stampa 28.11.12
E nel faccia a faccia in tv si annuncia l’addio al fair play
Sms del sindaco al segretario. Ma la risposta è secca: no ai porti di mare
di Federico Geremicca


Il momento è arrivato e tutti - dunque - si preparino al peggio, se si può definire peggio un confronto che muta radicalmente di tono e di stile, cresce in decibel ed in malizie, ma d’altra parte non si poteva immaginare che si continuasse ad andare avanti con «Renzi è una risorsa» e «mi fido di Pier Luigi». Ed è stasera, precisamente stasera, che la metamorfosi potrebbe rivelarsi, nel faccia a faccia su Rai1 che potrebbe avere una audience perfino doppia rispetto alla platea dei votanti al primo turno delle primarie: per Renzi che è dietro e insegue - un’occasione da non fallire. Non foss’altro che perchè potrebbe essere l’ultima: almeno, come si dice, a questo giro...
Il tempo del fair play, dunque, è finito: questa è l’aria che si respira nell’entourage dello sfidante (Renzi). Ma sembra essere finito anche il tempo della bonaria pazienza del campione (Bersani). Ieri se ne è avuta qualche avvisaglia: Renzi è arrivato a contestare al Bersani ministro i poteri attribuiti all’invisa Equitalia, ricevendone in cambio una stretta sulle regole per il ballottaggio («Su quello non tratto») e una battuta irridente («Non scommetterei un cent sulla vittoria di Renzi»). Toni più alti, insomma: eppure il bello - com’è di moda dire adesso - forse deve ancora venire...
La vigilia del campione e dello sfidante, per altro, non è stata precisamente identica. Per Bersani il tepore del risultato del primo turno ed un diluvio di endorsement a suo favore (da quello di un altro ex competitor alle primarie, Vendola, al sostegno di dirigenti sindacali, parlamentari ex sindacalisti, dirigenti di altri partiti e perfino di intere associazioni come l’Adusbef e la Federconsumatori) ; per Renzi solo un diluvio, invece: quello che si è abbattuto su Firenze, portandola all’emergenza e rischiando di fargli fare la figura di chi si va trastullando con le cose di partito mentre i fiorentini annegano (per fortuna la situazione, in serata, è stata riportata alla normalità).
I Comitati dell’uno e dell’altro, in mezzo a mille baruffe, preparano l’appuntamento di stasera: sedi aperte e maxischermi per assistere al duello tv. Spin doctors e consiglieri sono già al lavoro, ma il livello di serenità non è uguale nei due quartier generali. In quello di Renzi, per esempio, c’è una discreta agitazione, dovuta ad un sospetto: che il leader Pd conosca le domande che verranno rivolte, mentre questa informazione è stata negata al loro. Vero? Falso? Impossibile dire. Ma vale la pena citare l’episodio perchè è utile a intendere la rapidità con la quale le gentilezze tra “Pier Luigi” e “Matteo” stiano lasciando il posto ai veleni.
Molto del nervosismo che anima la squadra dello sfidante è dovuto allo scontro sulla questione-regole per il voto al ballottaggio. Ieri mattina, Renzi ha spedito un sms a Bersani di questo tenore: caro Pier hai vinto al primo turno, sei in vantaggio, puoi esser sereno; ora mi aspetto da te un atto di disponibilità che permetta a quanti più cittadini di votare al ballottaggio domenica... «Mi ha risposto dalla chat del Corriere - annota Renzi - dicendo che le primarie non sono un porto di mare e che le regole non si cambiano in corsa. Non è un atto distensivo: la polemica, gli attacchi li ha cominciati lui... ».
Chiunque abbia cominciato, era inevitabile finisse così. La partita, infatti, è ormai una sorta di lotta per la sopravvivenza. Vecchio contro nuovo - o nuovo contro vecchio - è uno slogan affascinante: ma che non ammette mediazioni. O di quà o di là: un referendum, come lo ha definito lo stesso Renzi, che non potrà mai concludersi con un pari, e nemmeno con un armistizio. «Io ho cambiato tante cose in vita mia, e innovato - ha ripetuto ieri Bersani -. Non accetto che si raccontino favole». «Se vuole la lista delle cose che non ha cambiato, gliela portiamo al confronto tv», ha replicato Giuliano da Empoli. Un antipasto a quel che potrebbe essere stasera. E molto probabilmente sarà...

La Stampa 28.11.12
Tra i duellanti è scattata l’ora dei colpi bassi
di Marcello Sorgi


Nelle primarie del Pd è l’ora dei colpi bassi tra i due candidati in corsa verso il ballottaggio di domenica. Il fair play del primo faccia a faccia, quello con tutti e cinque i concorrenti del primo turno, dovrebbe essere archiviato stasera, quando Bersani e Renzi si affronteranno su Rai1 alle 21,10, davanti a una platea prevedibilmente più vasta dei tre milioni di elettori di tre giorni fa. Un dibattito che per forza di cose non potrà limitarsi al tema della rottamazione, che ha tenuto campo in gran parte della campagna per il voto del 25 novembre. Ma dovrà essere allargato ai prossimi programmi di governo dei due candidati, costringendo così Bersani e Renzi a scoprire tutte le loro carte.
Renzi preme per un allargamento delle regole che mirano a evitare grandi scostamenti tra gli elettori del primo e secondo turno. E già ieri sera, a Porta a porta, ha attaccato Bersani sostenendo che Equitalia, realizzata dal governo Berlusconi, fu in realtà concepita quando il segretario era al governo con Prodi e Visco. Ma Bersani, forte dei suoi nove punti di vantaggio sullo sfidante, finora s’è mostrato molto sicuro di sé e ha detto che non scommetterebbe un centesimo su un’eventuale rimonta dell’avversario.
Anche i sondaggisti, al lavoro già all’indomani del primo risultato, la considerano molto difficile. L’elettorato s’è già riposizionato per il ballottaggio e solo un 8 per cento dichiara di essere ancora indeciso. Il sindaco di Firenze, stando ai primi polls, difficilmente riuscirebbe a portare dalla sua parte più del 2 per cento degli elettori di Bersani. Potrebbe forse intercettare fino a una metà dei voti andati a Vendola, ma non basterebbero a portarlo al primo posto. La sua speranza resta legata a una fortissima crescita dell’affluenza, che non è affatto da escludere, dato che la sfida a due attira molto di più di quella a cinque e il faccia a faccia televisivo di stasera eserciterà un forte richiamo per tutti quei sostenitori dell’uno e dell’altro che domenica scorsa non sono andati a votare.
Sia Bersani che Renzi continuano ad escludere un compromesso a due dopo il voto, basato sul fatto che il partito, fino a prima delle primarie diviso tra un’infinità di correnti, da lunedì 3 dicembre avrà soltanto un leader e un capo della minoranza che peserà quasi metà del Pd. Ma si sa, in questa fase non possono dire altro. Ed è davvero difficile credere che dopo aver messo su un putiferio come questo, Matteo Renzi, in caso di sconfitta, se ne torni a Firenze.

Corriere 28.11.12
L'asse possibile tra gli sfidanti che mette in ansia la vecchia guardia del Pd
di Maria Teresa Meli


ROMA — Oggi in televisione potranno anche darsele di santa ragione, ma poiché in politica non tutto è bianco o nero, la verità è che i rapporti tra Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi sono migliori di quelli che intercorrono tra tanti loro supporter. Tant'è vero che persino un partigiano come Roberto Reggi dice: «Il Pd può giocare con un buonissimo attacco a due punte». Ovvio che poi per l'ex sindaco di Piacenza, il ruolo di «centravanti» lo debba ricoprire Renzi, ma questa è comunque una frase indicativa.
E Bersani (che chiaramente immagina se stesso a fare il centravanti) la vede come Reggi. Il segretario, infatti, da politico lungimirante qual è, ha capito perfettamente che il primo cittadino di Firenze è utile al Partito democratico «perché dialoga con settori che non sono i nostri». E per un leader che ha voluto le primarie non solo per risolvere i rapporti di forza interni («se vinco si fa come dico io»), ma anche — e soprattutto — per colmare il divario tra la politica e gli elettori, questo è un fatto importante. Perciò Bersani, che è sicuro di vincere, ritiene che dopo non si possa «liquidare» Renzi, ma che in qualche modo occorra «coinvolgerlo». Per questa ragione il segretario non vede di buon occhio tutti quelli che attaccano a testa bassa il primo cittadino del capoluogo toscano. Non è così che si fa, perché «giochiamo tutti nella stessa squadra». Il riferimento vale pure per Renzi, che ogni tanto sembra smarcarsi dal partito.
Insomma, dopo il 2 dicembre il segretario ha intenzione di andare all'accordo con il sindaco, perché, in fondo, «la sua spinta a rinnovare può riversarsi in una fiducia che sia poi io a farlo questo rinnovamento». Ed è questo, in realtà, più ancora degli atteggiamenti di Renzi, a preoccupare i maggiorenti del Pd, che temono di venire emarginati da un'eventuale intesa Bersani-Renzi. Già, perché, come sottolineava ieri il direttore dell'Unità Claudio Sardo, bersaniano di ferro, è vero che le primarie «non sono un congresso, ma hanno cambiato i termini del congresso». Il che vuol dire che potrebbero modificare gli equilibri. Del resto Matteo Renzi non ha mai nascosto di voler portare alcuni dei suoi sostenitori in Parlamento. Per questo farà pesare i voti delle primarie: quale che sia la percentuale, 30 o 40 per cento. E l'accordo passerà anche per questa strada.
Non sarà una corrente organizzata, quella del sindaco, ma poco ci manca. E quindi dei posti in lista — e nemmeno pochissimi — dovranno essere ceduti ai renziani. Con conseguente scoramento della vecchia guardia. Di cui anche Bersani, peraltro, voleva disfarsi per mettere gente nuova, giovani, e creare così una futura classe dirigente. Solo per Rosy Bindi il segretario sembra fare un'eccezione. E su questo Renzi, che invece non la pensa come lui, continuerà a punzecchiarlo. Ma c'è un altro punto su cui le strade del sindaco di Firenze e il leader del Partito democratico inevitabilmente divergono. Bersani vorrebbe coinvolgere Renzi nel Pd, metabolizzandolo. Per il primo cittadino del capoluogo toscano invece l'accordo di reciproca convenienza si ferma alle porte di Firenze. Ci saranno sì dei renziani a Roma e in Parlamento, ma lui continuerà a fare il suo mestiere di sindaco, intensificando nel frattempo la presa sul partito. Missione impossibile? Chi lo conosce bene ricorda: «Da sindaco ci ha messo pochissimo a smantellare la vecchia cupola del Pci di Firenze».
Alla sua età, comunque, si può aspettare ancora un po' prima di provarci di nuovo. Tanto più che nelle previsioni del sindaco rottamatore — e non solo nelle sue — i prossimi saranno due anni difficili per l'Italia e un governo Bersani-Vendola, pur con l'apporto dell'Udc non avrà vita lunga. Insomma, il ragionamento è questo: se il segretario vince alle primarie le strade sono due, o mette su un esecutivo fragile, o, come osserva Reggi, cede il passo a un Monti bis. In entrambi i casi il sindaco è disposto ad aspettare. Ciò non significa che Renzi non punti ancora a vincere. Mira al voto d'opinione di Vendola, a quelli, come Margherita Hack, che cercano il «nuovo». «Diciamo la verità — spiega lui agli amici — Bersani e i suoi, dopo quel risultato non certo eclatante, visto che avevano tutto l'apparato, hanno paura. Per questo cercano di complicare le regole del secondo turno».
Da questo orecchio, però, Bersani non ci sente: la vittoria sarà sua. Ne è certo. Anzi, certissimo.

Repubblica 28.11.12
La paura del leader nelle regioni in bilico “Non mi bastano i voti di Vendola”
E Matteo ora medita una virata a sinistra
di Goffredo De Marchis


ROMA — Bersani non si fida. Non è sicuro che i voti di Nichi Vendola siano sufficienti a conquistare la vittoria finale anche perché, va dicendo ai suoi collaboratori con fare scherzoso, «vedrete la virata a sinistra che farà Renzi. Finisce che ce lo ritroviamo in Rifondazione».
Che la svolta del sindaco di Firenze porti qualche vantaggio è tutto da dimostrare. Che la minaccia di un partito nuovo, nei sondaggi renziani dato tra il 12 al 25 per cento, sia una cosa seria pure. «Punta solo a scaldare l’ambiente. Ma io non ho mai avuto segnali di questo tipo parlando con Matteo», è il pensiero del segretario. Semmai sono i fedelissimi bersaniani a coltivare il sospetto che il sindaco abbia mire fuori dal Pd. Comunque il problema oggi è un altro: se i voti di Sel non sono sufficienti, bisogna lavorare sui consensi di Matteo Renzi. Lì dove ha vinto o ha sfiorato la vittoria: Umbria, Piemonte e Toscana.
La strategia del recupero sui renziani poggia su due pilastri. Primo: sottolineare il robusto ricambio su cui Bersani lavora da tempo. «Un rinnovamento nei fatti, non a chiacchiere». Volti nuovi nel suo comitato, negli organismi dirigenti locali, nella scelta degli ospiti Pd che vanno in televisione. Da giorni ormai, nei talk show, si fa largo una nuova generazione di democratici: da Stefano Bonaccini a Paola De Micheli, da Antonella Moretti a Stefano Fassina a Matteo Orfini a Tommaso Giuntella. Sono scomparsi quasi del tutto gli appartenenti alla cosiddetta nomenklatura.
Si vuole dimostrare così che sono morte le correnti, che non esistono più dalemiani, veltroniani, bindiani, che il distacco di Bersani da una stagione
del passato non è più solo quello lampante della non ricandidatura di D’Alema e Veltroni o dei rapporti non idilliaci con Rosy Bindi. È in atto una rottura vera e profonda con i vecchi schemi, questo è il messaggio. «Dobbiamo convincere che la nostra non è solo tattica, che il rinnovamento c’è già e va avanti», dice un fedelissimo del segretario. «E non si torna indietro». Come dire che la classe dirigente del centrosinistra degli ultimi due decenni non rispunterà all’indomani del voto di domenica.
Questo pilastro è strettamente legato all’altro. L’analisi del voto, secondo i bersaniani, dimostra che una parte delle preferenze a Renzi rientra in un gigantesco regolamento di conti tra correnti a livello locale. Per esempio in Toscana, dove Bersani
non immaginava una sconfitta tanto bruciante (52 per cento Renzi, 35 lui). O in Umbria. O in Piemonte. Tutte regioni che Bersani toccherà nei prossimi giorni. «Non ci sono dubbi. In alcune realtà, il voto a Renzi non è contro Bersani ma contro alcuni dirigenti eterni, contro logiche superate — spiega Giovanni Lolli, deputato abruzzese e bersaniano che fu l’uomo macchina della segretaria Veltroni nei Ds —. La novità è che stavolta, invece di mollare tutto, i militanti delusi hanno trovato un’alternativa dentro al partito grazie a Renzi. Le primarie sono state anche una grande valvola di sfogo».
Così si spiega il giro di Bersani nelle swinging regions (le regioni in bilico) e il messaggio su una “rottamazione” soft che deve continuare. Dall’altra parte appare scontato un viaggio di Matteo Renzi al sud. Il sindaco ha riunito ieri a Firenze tutti i coordinatore regionali. Riunione blindata nella notte dopo aver affrontato l’emergenza pioggia. Alla rete locale lo sfidante chiede come virare a sinistra sui temi concreti senza diventare ideologico e senza tracimare nel campo dell’anti-Monti, bandiera del vendolismo. Una piccola componente dei voti Sel può automaticamente andare nel bacino di Renzi: sono quelli per il ricambio generazionale, quelli contro l’apparato. Ma certamente non sono il grosso dei consensi finiti al governatore pugliese. Il comitato di Bersani guarda con molta diffidenza certe mosse del sindaco, compresa la riunione di ieri sera. «Se fa le primarie per creare un nuovo partito, ne risponderà agli elettori», dicono alcuni fedelissimi del segretario. Ma Bersani si rifiuta di credere a un’ipotesi del genere. E non solo per una questione di fair play.

l’Unità 28.11.12
Il Consiglio di Stato: il Lazio al voto subito
Respinto il ricorso della Polverini: entro cinque giorni dovrà indire le elezioni
I giudici: «Acclarata la violazione del termine legale»
di Tullia Fabiani


Ha cinque giorni di tempo Renata Polverini, presidente dimissionaria della Regione Lazio, per indire le elezioni regionali. Così ha deciso ieri il Consiglio di Stato, respingendo il ricorso presentato dalla Regione, perché ritenuto «infondato» e confermando «integralmente», invece, la sentenza del Tar dello scorso 12 novembre. Per i giudici della V sezione di Palazzo Spada, presieduta da Stefano Baccarini, che il 16 novembre avevano accolto la richiesta cautelare della Regione di sospensione della sentenza del Tar, «si deve reputare che una lettura che non imponesse un vincolo temporale per la celebrazione delle elezioni, rimettendo detta scelta all' incondizionata discrezionalità del Presidente dimissionario della Regione, non assicurerebbe il rinnovo in tempi ragionevolmente brevi degli organi e, con esso, il soddisfacimento dei valori costituzionali sottesi all'espressione della volontà popolare secondo il meccanismo della democrazia elettorale» e, dunque, «risulta acclarata la violazione del termine legale».
A questo punto, dunque, viene rimesso in discussione anche l'iter indicato dal governo di un election day il 10 e 11 marzo. I cittadini del Lazio, dovranno essere chiamati alle urne prima, probabilmente nella seconda metà di gennaio, al massimo i primi di febbraio, in date comunque diverse da quelle di Lombardia e Molise, le altre due Regioni chiamate a rinnovare giunta e consiglio.
«Una buona notizia per i cittadini del Lazio», ha detto Nicola Zingaretti, candidato del Pd alla presidenza della Regione, e «una buona notizia per coloro che hanno chiesto il rispetto della legalità, per le imprese, per gli artigiani, i commercianti e gli operatori della sanità che hanno considerato un elemento di stravaganza che una Regione importante come il Lazio potesse chiudere per otto-nove mesi».
E pensare che Renata Polverini aveva già cantato vittoria: «La battaglia demagogica della sinistra è finita con la netta sconfitta di chi intendeva trascinare il Paese in una interminabile e costosa campagna elettorale: si voterà, dunque, il 10 marzo in un'unica tornata per il rinnovo dei consigli regionali». Questo aveva dichiarato un paio di settimane fa alla notizia della sospensione della sentenza del Tar che le imponeva, accogliendo il ricorso del Movimento di difesa del cittadino, di indire le elezioni entro cinque giorni. Una dichiarazione che anticipava la decisione prevista per ieri del Consiglio di Stato, mettendo in discussione secondo Gianluigi Pellegrino, avvoca-
to del Movimento, lo Stato di diritto. Perciò, appresa la notizia della sentenza, lo stesso Pellegrino ha poi commentato: «È stata sconfitta la protervia del potere. I diritti dei cittadini, i principi costituzionali e il buon senso della Costituzione prevalgono sempre». Insomma tutt'altro che «una battaglia demagogica della sinistra». Pellegrino ha poi continuato: «Si deve votare a gennaio; altrimenti si commetterà un reato penale. La presidente Polverini dovrà indire le elezioni entro cinque giorni in caso contrario, dovrà provvedere il ministro dell'Interno».
Di una sentenza che apre il campo «alla più totale incertezza», parla però Federico Tedeschini, l'avvocato che rappresenta la Regione Lazio: «Se fosse impugnata in Cassazione e la Suprema Corte accogliesse la tesi del difetto di giurisdizione, avremmo il paradosso di elezioni che si sono tenute e poi vengono annullate», sostiene l'avvocato. E aggiunge: «Non so cosa deciderà di fare la Regione, questa è una decisione politica. Dal punto di vista giuridico la Regione ha due strumenti per contestare la sentenza del Consiglio di Stato: il ricorso per Cassazione o il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato di fronte alla Corte Costituzionale». I cittadini, intanto, stanno a guardare.

l’Unità 28.11.12
Non si chiuda con quell’accordo
È sbagliata l’idea che per essere più competitivi l’unica via sia quella di comprimere i diritti e di agire sui costi
Con la detassazione delle tredicesime si favorirebbero i bassi redditi e quelli tagliati dai lunghi stop produttivi
di Susanna Camusso


Anticipiamo l’editoriale di Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, che apparirà sul prossimo numero del settimanale della confederazione, “Rassegna sindacale”.

L’ACCORDO SULLA PRODUTTIVITÀ SOTTOSCRITTO DALLE ASSOCIAZIONI DATORIALI, DA CISL, UIL, UGL e assunto dal governo è sbagliato non solo nei contenuti ma anche nella filosofia di fondo che lo orienta. Il documento si muove in continuità con le scelte che ispirarono l’accordo del 2009; con l’idea, cioè, che per essere più competitivi e più produttivi l’unica strada sia quella di comprimere i diritti e di agire sui costi. Oggi come allora l’intesa sottoscritta sottende la convinzione che la produttività sia determinata pressoché esclusivamente dal lavoro, e non dall’insieme dei fattori che concorrono
alla produzione.
Il risultato è un documento monco che non pone nessun rimedio a quasi due decenni di mancati investimenti da parte delle aziende.
E non pone nessun rimedio neanche allo spostamento dei profitti verso la rendita, alla progressiva diminuzione della dimensione di impresa, alla mancata riforma della Pubblica amministrazione, all’assenza di una programmazione infrastrutturale. Sono in gran parte nodi che non vengono affrontati per esplicita scelta di un governo che ha deciso di agire quasi esclusivamente sul lato dell’offerta e che considera il sostegno della domanda (aggregata e per consumi) contrastante con la sua politica.
È un approccio con non consente di sperimentare un’idea innovativa di contrattazione, non mobilita investimenti, non incentiva alcun tipo di innovazione, sia questa di prodotto o di processo, non favorisce una crescita delle retribuzioni.
Fatta salva una parentesi durante i governi del centrodestra che, mentre la produzione crollava, dirottarono gran parte delle risorse di cui disponevano agli straordinari, gli incentivi alla produttività sono operanti fin dal 2007. I risultati sia dal punto di vista del numero degli accordi e sottoscritti e dei lavoratori coinvolti, che da quello dell’effettiva crescita della competitività paiono tuttavia essere stati assai deludenti. C’è dunque da chiedersi per quale motivo si sia scelto di imboccare una strada simile, riducendo la certezza del potere d’acquisto a molti, per trasferire a pochi quelle risorse, nell’idea che un eventuale vantaggio retributivo derivi non da una maggiore erogazione di salario, ma dalla defiscalizzazione.
Qui sta la prima ragione di non condivisione di un’intesa che assume i tratti di un’ulteriore scelta recessiva. L’Italia di tutto ha bisogno tranne che di una ulteriore riduzione del potere d’acquisto delle retribuzioni che si aggiungerebbe al blocco contrattuale nel pubblico impiego che già oggi contribuisce non poco alla frenata dei consumi e alla stagnazione della produzione.
A chi sostiene che l’effetto non sarà quello di una riduzione del monte salari, vanno riproposte le domande a cui il governo non ha ancora dato risposta: se si fanno accordi «di produttività» per 16 milioni di lavoratori privati con quali risorse si defiscalizzano? E se le risorse sono quelle definite dalle leggi di stabilità con quali criteri si definisce chi ne può usufruire e chi ne resta escluso? Ancora, quale contrattazione si immagina possa svilupparsi se questa dipende dalle risorse disponibili e dal loro effettivo stanziamento? Infine, non c’è forse il rischio di incentivare rilevanti forme di elusione spostando fittiziamente parte delle retribuzioni sulla quota defiscalizzata del salario?
Il governo ha rinviato ai decreti attuativi i chiarimenti su questi interrogativi e la definizione delle regole necessarie a rendere i provvedimenti operativi, rifiutandosi al contempo di prendere in esame la detassazione delle tredicesime come misura per incentivare la domanda, misura che consentirebbe di prestare attenzione ai bassi redditi, a quelli tagliati dalle lunghe fermate produttive e dagli ammortizzatori e provando così ad intervenire su una parte del lavoro precario ancora una volta escluso dalle politiche di sostegno al reddito.
Non essendo di una manovra strutturale, la defiscalizzazione potrebbe utilizzare i proventi della lotta all’evasione e all’elusione fiscale, dando così al provvedimento il carattere dell’equità e della giustizia, dando così coerenza alle tante affermazioni del governo, rimaste sino ad oggi lettera morta, e con i tanti ordini del giorno del Parlamento che si muovevano nella stessa direzione.
Proprio perché in continuità con accordi separati precedenti e, in prospettiva, schema per la contrattazione, l’intesa ha la caratteristica di stabilire procedure per i contratti o gli accordi aziendali. Tutto andrà gestito nella futura negoziazione e ovviamente non ci sottrarremo a nessun confronto, ma lavoreremo per ricondurre ad una condizione utile le norme contrattuali che si determineranno, nella logica di trovare forme incentivanti la produttività ed eliminare le dispersioni e le inefficienze di una distribuzione di risorse a pioggia sottratte ai contratti. In questa prospettiva il tema della rappresentanza, della rappresentatività e della democrazia diventa fondamentale. Chi rappresenta chi, in nome di chi agisce, come si decide e come ci si assumono le responsabilità sono le premesse necessarie alla validità e all’esigibilità degli accordi.
Viviamo una stagione in cui si critica molto l’autoreferenzialità e nessuno può sottrarsi al tema. Le ricette in campo sono molte ma tra tutte, l’unica non praticabile è che la rappresentatività derivi da un muto riconoscimento delle controparti o del governo. Anche per questo non avere affrontato il tema è l’altra grande ragione che ci ha portato a non condividere l’intesa.
Per un sindacato un accordo è la massima espressione della sua funzione, è l’esercizio della sua responsabilità. Per questo, perché per la Cgil gli accordi fatti si onorano, se non condividiamo il merito lo dichiariamo e verifichiamo le nostre scelte con chi rappresentiamo. Il metodo della verifica delle decisioni non è più rinviabile, pena la riduzione della contrattazione e la scelta di inseguire opportunisticamente la fase politica del momento. Ma di questo, credo, nessuno sente il bisogno.
Abbiamo sempre detto che l’accordo del 28 giugno va nella giusta direzione, ma bisogna applicarlo. Bisogna determinare regole e modalità attuative, estenderlo a tutti i soggetti contrattuali. La sua applicazione è la strada obbligata che dobbiamo percorrere. Lo dobbiamo fare anche per dare concretezza al nostro agire, per evitare che ci sia chi, strumentalmente, possa dire che un’intesa vale un’altra, tanto sarà sempre possibile farne di nuove perché quelle sottoscritte non hanno valore.
Abbiamo cercato di raggiungere questo risultato per via negoziale, ma tutte le volte ci siamo scontrati con una mancanza di volontà che è diventata via via sospetta, come le vicende Fiat sono lì a dimostrare. Se avessimo compiuto scelte chiare avremmo non solo dato soluzione a una problema essenziale per le relazioni sindacali, ma salvaguardato anche l’intervento legislativo in materia da possibili distorsioni.
Sono questi i punti che più di altri non abbiamo condiviso nel documento presentato e assunto dal governo. Abbiamo detto e pensiamo che questa discussione sia stata un’occasione persa per dare equità alle misure economiche, imprimere una forte azione antirecessiva, risolvere le annose ed essenziali questioni che coinvolgono la nostra democrazia, dare coesione e unità al Paese. È sfumata una chance importante per ridare slancio e senso agli atti negoziali. È indubbio che la contrattazione nazionale e quella di secondo livello hanno assunto sempre di più una caratteristica difensiva: il sindacato nella tutela del ruolo e della funzione del contratto; le imprese, in una logica di salvaguardia degli spazi di deroga, per proseguire la strada della diminuzione dei costi.
Il risultato è una progressiva diminuzione delle capacità innovative del sistema delle relazioni industriali, con un grave danno alla capacità di regolare e per questa via di aumentare, rendere efficace ed efficiente, l’utilizzo dei fattori. Allo stesso tempo il ritirarsi nella difesa dei propri interessi immediati ha prodotto un’idea non inclusiva della negoziazione, mentre parte della non crescita di produttività deriva dalla progressiva frantumazione del mercato del lavoro, in un’idea di forme di assunzioni a breve senza investimento sulla qualità del lavoro, della formazione, della innovazione e della creatività.
Un accordo sbagliato non è di per sé un dramma. Si può correggere se si ha voglia e coraggio di confrontarsi sul merito e cercare le strade giuste, quelle che non sacrificano le condizioni di lavoro e del salario, ma facciano fare a tutti un salto di qualità nell’affrontare la crisi anche come occasione per disegnare il futuro. Quelle che non si è voluto affrontare nel corso di questo negoziato.

l’Unità 28.11.12
Ilva
Nazionalizzare non è un’eresia
di Paolo Bonaretti


LA QUESTIONE ILVA CI RIPROPONE IN MODO DRAMMATICO LA TOTALE ASSENZA DI UNA SCELTA DI POLITICA INDUSTRIALE DEL PAESE, e contemporaneamente ci mette di fronte ad una volontà politica di non agire, di non utilizzare strumenti adeguati alla gravità della situazione.
La chiusura dell’Ilva mette in ginocchio un’intera città; ed un territorio ben più vasto rischia di essere impoverito per lunghi anni e di veder minata la propria coesione sociale. Non solo la già gravissima perdita di cinquemila posti di lavoro diretti, ma anche la scomparsa di tutti i servizi connessi dalla logistica alla manutenzione, la probabile crisi dell’attività portuale di Taranto, una drastica riduzione della domanda e dei consumi delle famiglie con conseguente contrazione dell’attività commerciale.
Soprattutto la chiusura dell’Ilva significa un colpo durissimo all’intera industria nazionale. Nei fatti significa un effetto domino che rischia di azzerare i tre quarti della siderurgia italiana e dell’indotto, con pesanti ripercussioni sugli approvvigionamenti e sull’industria manifatturiera; una probabile lievitazione dei prezzi dell’acciaio per le nostre imprese, in una situazione di tensione già grave sui mercati internazionali delle materie prime.
Significa un costo immediato tra gli 8 e 10 miliardi per il Paese, con un probabile impatto occupazionale che nel medio periodo può comportare una perdita di 30-40.000 addetti. Inoltre avrà un effetto pesantemente negativo nelle partite correnti, sulla bilancia commerciale; sia per la riduzione delle esportazioni, sia per l’aumento delle importazioni in sostituzione della mancata produzione degli stabilimenti.
L’Ilva di Taranto è il secondo impianto siderurgico del continente e la siderurgia non è certo un settore in crisi: può avere certamente oscillazioni, ma rimane un settore strategico fondamentale per lo sviluppo in un mercato internazionale che, seppur rallentato, continua a crescere. Non si può permettere che il combinato disposto di una magistratura eccessivamente rigida, di una proprietà irresponsabile che opera solo attraverso ritorsioni, e dell’inazione governativa producano un disastro di queste proporzioni.
La sensazione è che vi sia una invisibile barriera ideologica all’intervento del governo, che impedisce di fare la cosa giusta. Too big to fail si direbbe con il pragmatismo tipico dei Paesi anglosassoni. Obama si è preso le quote del fallimento Chrysler, piuttosto che chiudere un’azienda manifatturiera di quel peso, trovando poi un partner industriale per la ristrutturazione. Cameron ed Osborne, di fronte al default inevitabile di Bank of Scotland, l’hanno di fatto nazionalizzata e ristrutturata, rimandando a tempi migliori la collocazione delle quote azionarie.
Poiché tutti continuano a ripetere che non possiamo essere messi di fronte all’alternativa tra salute e lavoro, in presenza di una tragedia sistemica di queste proporzioni, allora si facciano scelte giuste anche se non convenzionali. Si trovino le forme opportune, ma lo Stato proceda immediatamente alla bonifica coatta dell’Ilva, mantenendone in funzione gli impianti e l’attività, operando uno scambio tra i costi della bonifica e le quote azionarie di proprietà, commissariandone la gestione ed avviando un programma di sviluppo e riqualificazione produttiva.
Alla fine, probabilmente, poiché il valore della bonifica e dei costi connessi sarà tale da lasciare in mano allo Stato la maggioranza della proprietà, allora si procederà a trovare un partner industriale serio, in grado di rilanciare ulteriormente l’Ilva sul mercato internazionale, nel rispetto delle persone, del territorio, dell’Italia e degli italiani. Certo, questa strada, così come altre possibili, possono somigliare a una nazionalizzazione temporanea ma sono necessarie. Le scelte coraggiose e pragmatiche pagano in termini di risultati economici,ambientali e sociali; le scelte difensive, ideologiche e pavide portano solo all’agonia e al declino della nostra industria nazionale.

il Fatto 28.11.12
Codice tra le mani. Paradossi di Stato
Legalizzare gli omicidi, l’unica idea del governo
di Bruno Tinti


I genitori sanno che si deve essere uniti davanti ai figli. La madre castiga? Il figlio fa capricci? Il papà conferma il castigo. Quando il figlio dormirà, cercheranno un accordo. Se invece uno dei due lo proteggerà, vanificando rimproveri e castighi, il bambino crescerà senza educazione e sicuro dell’impunità. Le sue ribellioni saranno sempre più gravi. Da adulto sarà una persona insofferente delle regole, prepotente e aggressivo. Questa banale riflessione, trasportata a livello istituzionale, consente analogie illuminanti. Parlamento e governo fanno le leggi e le fanno rispettare; la magistratura ne sanziona la violazione. Cosa succede se i cittadini violano le leggi e, quando i giudici li puniscono, governo o parlamento dicono che la sanzione non va applicata e che è meglio farsi promettere che, da ora in avanti, si comporteranno bene?
SUCCEDE che i cittadini continueranno a violare le leggi, tanto sanno che uno dei genitori, qualsiasi cosa facciano, li proteggerà sempre. Tutto questo sta avvenendo con l’Ilva. Dopo anni di omicidi impuniti, i giudici l’hanno sequestrata con divieto di continuare l’attività. L’Ilva ha disobbedito e ha prodotto una certa quantità di acciaio, perseverando nell’inquinamento ambientale, causa degli omicidi. I giudici hanno sequestrato l’acciaio prodotto perché provento di reato. I proprietari dell’Ilva si sono molto arrabbiati e hanno annunciato che chiuderanno l’azienda, mettendo sul lastrico circa 20 mila persone. Il ministro Clini è intervenuto e ha spiegato che “già giovedì il governo interverrà con un provvedimento che consenta di superare questa situazione, coniugando lavoro e salute con una soluzione ad hoc”. Come tutti sanno benissimo la cosa è impossibile. L’Ilva, se produce, inquina e ammazza. Perché non ammazzi occorre un risanamento che richiede anni di lavoro e molte centinaia di milioni di euro. Ammesso che i soldi siano disponibili (il che non è), non si può comunque produrre fino a che il risanamento non è completato: se lo si fa prima si ammazza. Quindi, dire che esiste una soluzione è una bugia. Quello che Clini vuole fare, in realtà, è permettere all’Ilva di produrre in cambio della disponibilità a risanare. E anche se tale disponibilità ci fosse (ma non c’è, la proprietà ha promesso e mentito per anni), un provvedimento del genere significherebbe legalizzare gli omicidi che si verificherebbero tra la ripresa della produzione e l’avvenuto risanamento. Clini questa cosa la sa benissimo; ed è per questo che, fino ad ora, una legge che dica sostanzialmente: “L’Ilva può produrre anche se la magistratura dice di no” non ha avuto il coraggio di farla. Ma, siccome è furbo, ha fatto in modo di far capire all’Ilva che lui è il genitore buono e che la magistratura è quello cattivo: piangi e protesta e io cercherò di aiutarti. E perché questa cosa sia creduta non solo dall’Ilva, ma anche dai cittadini, va in giro a raccontare che il provvedimento della magistratura di Taranto “è in conflitto con l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) che è legge, che la strada maestra è applicarla e che, altrimenti, prenderemo provvedimenti”. In conflitto perché? In fondo l’Aia è solo un insieme di prescrizioni che, da sole, non eliminano l’inquinamento e non impediscono gli ammazzamenti. Si applichi e, quando le sue prescrizioni saranno osservate (tutte, nessuna esclusa), allora si potrà riprendere l’attività. Ma Clini dice che il provvedimento della Procura di Taranto “rende molto difficile l’applicazione dell’Aia, dell’unica norma che consente il risanamento ambientale”.
LO DICE ma non spiega perché. Però è molto puntiglioso: “Il compito di stabilire le procedure, le norme tecniche e le prescrizioni per rispettare l’ambiente e per proteggere la salute è delle amministrazioni competenti, in questo caso del Ministero dell’Ambiente”. Insomma la magistratura non rompa le scatole, stabilendo “norme quasi (?) in concorrenza con quelle delle amministrazioni competenti”.
La proprietà, ben lieta di avere un papà così buono e fiducioso (promettete e noi vi faremo riprendere l’attività), aspetta di vedere come va a finire. Potrebbero intervenire i nonni, saggi e giusti. Ma il presidente della Repubblica, agitando la mano, ha detto: “La situazione è troppo complicata per mandare messaggi”.

Repubblica 28.11.12
“I veri padroni siamo noi” l’orgoglio degli operai abbandonati dall’azienda
Taranto, niente blocchi in città. “Stavolta si va aRoma”
di Adriano Sofri


TARANTO C’ERA il furgone dei “Liberi e pensanti”, c’erano soprattutto gli operai della Movimentazione Ferroviaria. Loro sono i compagni di Claudio Marsella, di Oria, 29 anni, locomotorista, si chiama così, morto lo scorso 30 ottobre col torace schiacciato durante la manovra di aggancio di un carro. Lo avevano trovato agonizzante, perché all’Ilva per quel lavoro pesante e pericoloso si era lasciato solo un operaio per turno. Quella notte c’erano stati altri due “incidenti” gravi, un operaio ustionato, uno intossicato dal gas. Oggi qualcuno ricorda quella giornata, la protesta dei compagni di lavorazione cui si era unito il sindacato di base, l’assenza di troppi altri, per non dire della città. Bisognava continuare con lo sciopero, dicono anche, come stanno facendo a Genova. Io sono qui, dice uno, anche se è il mio compleanno, e tira fuori la carta d’identità per provare che è vero. È vero, ha 37 anni, se ne ricorderà di questo compleanno, gli dicono, tanti auguri. Per un momento, le facce serie serie si fanno allegre. Sono serie anche le facce dei carabinieri e dei poliziotti in borghese che stanno anche loro a far capannello sul marciapiede: se non lo dicessero, sembrerebbero piuttosto operai. Polizia da disordine pubblico non ce n’è, se non in qualche blindato parcheggiato distante, ma non ce n’è bisogno. È tutta un’altra aria.
A mezzogiorno di ieri, all’ingresso della Direzione dell’Ilva, occupata e già disoccupata, e ora presidiata da capannelli di operai e di intervistatori di operai, ho pensato di trovarmi di fronte a una ricapitolazione della storia del capitalismo. C’erano gli operai, buttati più o meno sul lastrico alla vigilia — “messi in libertà”, notevole espressione. Migliaia di messi in libertà, un’amnistia generale, un giubileo alla rovescia. C’era lo strato della famosa polvere rossa, accumulata sulle sbarre dei cancelli, su cui passare il dito e guardarsi attoniti il polpastrello arrugginito. Il capitalismo, sia detto senza offesa, spreme e scarta e impesta: ma qui, in questa istantanea di mezzogiorno di un giorno di novembre senza qualità, c’è qualcosa di più e di peculiare, che riguarda il rapporto fra il capitalismo e i capitalisti. I quali sono in galera, o in fuga dalla galera, o appena di qua dalla galera, il vecchio padrone e i suoi figli, i suoi manager, i suoi faccendieri — e poi i suoi uomini di vetrina, già prefetti, già candidati del centrosinistra, già. Forse la siderurgia, che era già finita tristemente a Bagnoli e agonizza a Piombino e fa agonizzare Trieste, sta tirando le cuoia oggi a Taranto e a Genova e nelle altre filiali italiane, in un disastro che non risparmia nessuno, compresi i burattinai, impigliati nei loro fili.
La lavorazione dell’area calda era interdetta dai magistrati, salvo il minimo necessario alla tenuta degli impianti. Invece si produceva come se niente fosse, anzi. «Il materiale è sempre arrivato, al Terzo Sporgente, e fino a ieri si facevano gli straordinari.
Dovevamo bloccarla noi, la spedizione, prima della magistratura». Lunedì, quando l’ennesimo e drastico ordine della magistratura ha bloccato il materiale prodotto contravvenendo al sequestro, c’erano quattordici navi in attesa d’essere caricate, e sono lì, inutili. Dicono, gli operai dichiarati inutili: «Sono mesi che andiamo a lavorare, sapendo che cosa ci aspetta, non sapendo niente di che cosa ci aspetta, come se ogni giorno in più fosse un giorno guadagnato. Con questa sensazione di assurdità». Sono giovani, all’Ilva, figli di pensionati e prepensionati, sì e no 35 anni di età media, non è questione di guadagnare giorni o di pensionarsi in anticipo.
Dicono che ai padroni interessa solo di tirare avanti. Che investono solo per il ripristino delle macchine, che continuino a produrre. Il resto, che vada in rovina. Ci sono sette caricatori al porto, i più moderni risalgono al 1982. E i capannoni di stoccaggio, ci piove, sui rotoli a freddo che non si dovrebbero bagnare. Dove vuole andare un’azienda che pensa solo alle tonnellate, che non si preoccupa dello stoccaggio dei suoi prodotti e li manda così ai suoi clienti nel mondo?
A Taranto non si sa se il mare circonda la fabbrica, o la fabbrica accerchia e soffoca il mare. L’odore del mare sì, è stato rotto e sgominato da quello dell’Ilva. Ma il mare, i famosi due mari di Taranto, si insinua continuamente nei pensieri e nelle frasi delle persone. Sono qui dentro da vent’anni, che cosa andrò a fare? Le cozze sono amare, i pesci impiombati. («La cozza è la cattiva coscienza di Taranto… »). L’azienda è allo sbando, dicono. È come nella stiva di un peschereccio, coi pesci tirati in secco e boccheggianti e però quelli grossi continuano a mangiare quelli piccoli.
Sono molto arrabbiati, gli operai. Forse per questo non è successo niente, ieri. Non è successo nemmeno, però, che la direzione e i capi li abbiano spinti a fare casino di strada, rifocillati dall’azienda e col salario pagato, come in qualche incresciosa giornata di primavera. Forse i padroni se lo aspettavano, dopo la messa in libertà, forse non sanno più che pesci pigliare, o sono gli operai a non abboccare. Per la prima volta, dicono, anche ai capi è stato fatto sentire che se ne vanno a casa, e il badge è stato staccato anche agli impiegati. La confusione è grande. Stamattina, agli operai che hanno occupato il territorio della direzione, i sindacalisti hanno comunicato che ai “messi in libertà” saranno pagate le giornate fino alla decisione del riesame, aspettata per martedì prossimo. Rumori, qualche petardo, poi l’uscita. Amarezza di molti, ai quali sembrava che si fosse accettata una mancia. «Perdiamo il posto di lavoro, e ce ne torniamo a casa per qualche giorno di salario». Confusione. I badge, dicono, erano stati cambiati di recente: se lo aspettavano già. «A qualcuno il badge non marca, a qualcuno sì. A qualcuno dell’area a freddo hanno detto di venire, ma a fare che cosa? Ai più non hanno detto niente. Dicono che chi ha ferie da fare se ne sta a casa, chi non ne ha entra: poi chiamano chi ha 200 ore di ferie, e lasciano fuori chi ne ha 20».
Sono già cominciate le ritorsioni, dicono. Domani, giovedì, c’è l’incontro romano con un governo che più latitante di così non si potrebbe, e corrono voci diverse sulla partecipazione degli operai. Qualche sindacalista trascrive i nomi di chi andrà a Roma, come se si trattasse di una delegazione ristretta. Hanno detto che al massimo ci saranno dieci pullman, dice qualcuno, e dieci pullman sono appena 500 persone. Dev’essere un desiderio del governo, che non facciamo troppo rumore. Noi, dice Francesco B., delegato Fiom, ci auguriamo che venga il maggior numero. «Tanto — dicono — se fanno i furbi, veniamo con la nostra auto. Essere o non essere a Roma, è decisivo. Non a fare i vandali, a mostrare che ci siamo, e con quelli di Genova e tutti gli altri». Essere o non essere, è decisivo.
All’Ilva come alla Fiat, la domanda è se non aspettino che un alibi — il sequestro dell’area a caldo qui, la Fiom là — per andarsene. Nel frattempo, grattano il fondo del barile. Ieri, quando rientravano i 19 di Pomigliano, i 5mila di Taranto uscivano: usati tutti come ostaggi di gare e rese dei conti altrui, concorrenze economiche, impunità giudiziarie, fine dei diritti. Si capisce che rabbia e demoralizzazione vadano assieme. A chiedergli quanti sono gli operai che ormai si augurano, o sono rassegnati, che la fabbrica chiuda, rispondono all’unisono: Nessuno. Qualcuno, aggiungono risentiti, che si sta assicurando il suo vantaggio privato. Non c’è oggi, qui almeno, alle porte della città d’ombra che vuole ingoiare l’altra, la contrapposizione fra lavoro e salute, e nemmeno la loro alleanza. Chi chiede se abbiano votato per le primarie si sente mandare a quel paese. Quelli si tengono alla larga da noi, dicono. Nessuno dice che i candidati al ballottaggio dovrebbero misurarle anche su questo marciapiede le loro intenzioni: in effetti dovrebbero, credo. Ci sono tribune che vale la pena di frequentare, anche se promettono fischi. I fischi possono essere la premessa di una riaffezione alla buona politica.

l’Unità 28.11.12
Lettera aperta al presidente Monti sui professori
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Egregio presidente del Consiglio, nell’intervista rilasciata domenica alla trasmissione “Che tempo che fa” lei ci ha definiti conservatori, ci ha offesi definendoci «strumentalizzatori dei giovani», e ha sostenuto che due ore in più di lezione, se accettate da parte dei docenti, avrebbero contribuito a liberare risorse e a migliorare la scuola.
Franco Fiorentino

«Anche questa affermazione, continua il lettore, fa capire quanto lei sia lontano dal mondo della scuola. Parlo di quella scuola di frontiera (e oramai lo sono quasi tutte) dove nessun ministro, nessun governante osa mettere piede per vedere “di che lacrime grondi e di che sangue” e non per colpa, mi creda, dei docenti conservatori, ma di miopi, o forse anche troppo svegli, governanti». Il che, a mio avviso, è vero perché sono obbligato da sempre, per la professione che faccio, a occuparmi di quello che  accade in queste “scuole di frontiera” dove, con una spaventosa povertà di mezzi, gli insegnanti sono costretti a confrontarsi ogni giorno da soli (i governanti hanno quasi del tutto eliminato gli insegnanti di sostegno; i servizi per la salute mentale sono paurosamente sotto organico) con il problema dei bambini maltrattati e/o degli adolescenti problematici oltre che della crescita, il più armoniosa possibile, dei loro alunni più fortunati. Un governo di tecnici dovrebbe sentire il dovere di entrare in queste scuole prima di rilasciare interviste così pesanti su argomenti che non conosce o che conosce in modo molto approssimativo. Un governo di docenti universitari dovrebbe sapere che il numero delle ora di lezione non corrisponde, per un professore serio, a quelle di lavoro e che la qualità della scuola dipende soprattutto dalla capacità di lavorare: in contatto con i testi prima della lezione e con le difficoltà reali degli studenti e delle famiglie durante e dopo.

il Fatto 28.11.12
Marco D’Eramo
“Brutta aria al manifesto: chi fa fuori chi?”
di Silvia Truzzi


Il clima, si capisce dopo un paio di telefonate, è parecchio invelenito. Via mail volano paroloni, tipo “querele” e “tradimento”. Ma una storia gloriosa come quella del manifesto non può annegare tra insulti e carte bollate. E nemmeno in invettive a suon di uff: in due pagine ieri la redazione spiegava l'uscita di Marco D’Eramo pubblicando uno scambio di mail privato tra il giornalista e la direzione. Ne veniva fuori che l'addio sarebbe stato causato dall'intollerabile taglio di un editoriale, nell'attacco. La parola “uff” non piaceva a Norma Rangeri: lei l’ha depennata, lui se n’è andato. Forse sarebbe stato meglio non pubblicarlo, questo scampolo privato di una vicenda pubblica: quando finiscono le storie, di solito restano le miserie. Ma il manifesto non è Chi. “La direzione sostiene di avermi supplicato di ritornare sulle mie dimissioni. Io ricordo una sola telefonata di Norma Rangeri, di un minuto. Manco mi ha chiesto perché me ne andavo”, spiega D’E-ramo, che dopo 32 anni ha detto addio al giornale .
Guardando da fuori (in questo caso non è un particolare) sembra che i livelli di rottura siano due: uno riguarda quel che il manifesto sarà e l'altro la visione politica.
No, non si può parlare di dissenso politico: non abbiamo di fronte una visione della realtà coerente. Voglio dire: so perfettamente che visione della realtà ha il Fatto o Repubblica. Del manifesto non so più dirlo.
Strano però: la testata "quotidiano comunista" suggerirebbe il contrario.
Errore: l'aggettivo “comunista” ha concesso al giornale di essere amorfo, tanto stava tutto dentro “comunista”. Si può dire tutto e il contrario di tutto, tanto c'è il “comunista”. E questo vale per l'economia, per la politica interna e la politica estera... È solo una foglia di fico.
Il manifesto può fare a meno di Rossana Rossanda, di Vauro, di Halevi, di lei?
I cimiteri sono pieni di gente insostituibile, diceva un grande scrittore francese. Io dubito della capacità del giornale di sopravvivere in generale, ma per ragioni diverse: c'è un problema di sostenibilità economica. Non vende così poco: 18 mila copie tra edicola e abbonamenti. Ma i dipendenti sono 70. Chiunque lo voglia comprare deve tagliarne 45: il clima interno è “chi fa fuori chi”.
Nemmeno i compagni si salvano dal “mors tua vita mea”?
Non si può metterla così. Loro dicono: noi abbiamo accettato di auto-licenziarci, quindi è un atto d'amore. Un autore inglese del Settecento diceva che il patriottismo è l’ultimo rifugio dei malandrini. E così quando la gente comincia parlare di atti d'amore io m’insospettisco...
Ha ragione chi dice “Dio è morto, Marx è morto e quindi è sensato che il manifesto non si senta troppo bene”?
Io so ancora di essere anti-capitalista, non so più dire cosa significa essere comunista. E comunque, due anni fa avevo proposto di abolire il “quotidiano comunista” dalla testata, perché nasconde opportunismi e moderatismi. Mi sembrava più onesto e ci avrebbe obbligato a posizioni più coerenti. Mi hanno risposto Rossana e Marco Bascetta. Per il resto, silenzio.
Proviamo a bestemmiare: non è che perfino i lettori più fedeli si sono stancati di questo sguardo autocentrato e delle incessanti discussioni del manifesto sul manifesto?
Assolutamente sì. La cosa che fa rabbia è che fare un giornale oggi potrebbe essere entusiasmante.
Pintor, se fosse vivo, che direbbe?
Lui aveva un metodo di gestione delle crisi che consisteva nel presentare le proprie dimissioni. Alla prima assemblea andava in minoranza, si dimetteva, faceva passare un paio di settimane. A quel punto, ceneri in capo, tutti andavano a Canossa. Lui tornava sempre. Alle sue condizioni, ovviamente.

La Stampa 28.11.12
Approvata la legge
Stessi diritti per i figli dentro e fuori il matrimonio
Non ci saranno più i figli di serie A e quelli di serie B
Diventa legge il riconoscimento di quelli naturali
di Flavia Amabile


Legame di sangue Gli effetti del riconoscimento si propagheranno anche sui parenti del genitore La gioia delle donne «Si cancella finalmente una norma anacronistica che creava profonde discriminazioni» Norma di civiltà Da più parti espressi pareri favorevoli sulla nuova normativa
Non è stato facile, ma alla fine l’aula della Camera dei Deputati ha approvato il testo unico che cancella i figli di serie A e di serie B dalle leggi italiane. A questo punto i diritti dei figli naturali e quelli dei figli legittimi, ovvero nati all’interno del matrimonio, sono gli stessi.
Il disegno di legge è passato con 366 favorevoli, 31 contrari, 58 astenuti ed è stato approvato in terza lettura dall’aula di Montecitorio senza modifiche rispetto al precedente passaggio in Senato e nonostante la contrarietà dell’Udc condivisa anche da molti esponenti del Pdl sulla norma che estende la possibilità di riconoscere anche i figli nati da incesto. L’Udc aveva chiesto lo stralcio e il voto segreto.
La famiglia e, soprattutto, il legame di sangue, prendono il sopravvento rispetto agli interventi esterni che spesso, in caso di problemi, sradicano i minori dalla loro vita e li portano altrove. Il testo è il frutto di un lavoro trasversale che fonde le sei proposte di legge sul tema presentate da centrodestra e centrosinistra. È composto da sei articoli e modifica il codice civile per eliminare le distinzioni tra status di figlio legittimo e status di figlio naturale.
Il vincolo di parentela sussisterà tra le persone che discendono da un medesimo stipite, indipendentemente dal fatto che ci si stia occupando di un figlio legittimo o naturale. In questo modo si crea un rapporto di parentela tra il figlio naturale e la famiglia del genitore. Quando si riconosce un bambino, quindi, gli effetti non ricadono soltanto sul genitore che esprime la sua volontà ma anche sui parenti del genitore stesso. È una novità di notevole importanza che privilegia il legame di sangue e fa sì che, ad esempio, in caso di morte dei genitori, i bambini potranno essere affidati ai nonni e non dati in adozione o affidati ad un istituto.
Il figlio naturale ha il diritto ad essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni; anche dal punto di vista ereditario ai figli naturali saranno assegnati pieni diritti.
Il figlio nato fuori dal matrimonio potrà essere riconosciuto dalla madre e dal padre anche se erano uniti in matrimonio con una persona diversa all’epoca del concepimento. Si modifica quindi l’articolo 250 del codice civile.
Festeggiano le donne che hanno portato avanti insieme questa battaglia anche se militano in partiti molto diversi. «Abbiamo approvato norme moderne che cancellano, una volta per tutte - ha dichiarato il capogruppo del Pd nella Commissione Giustizia Donatella Ferranti - quella distinzione anacronistica tra figli nati all’interno del matrimonio e figli nati in coppie non sposate».
«Spero che sia solo il primo di una lunga serie di provvedimenti coraggiosi, capaci di eliminare le profonde discriminazioni che esistono ancora nel nostro Paese», afferma la portavoce di Fli, Giulia Bongiorno. «Una legge di civiltà», è d’accordo anche Rosi Bindi del Pd. Si allinea Carolina Lussana della Lega Nord: «Viene finalmente data la priorità alla dignità della persona».
Ma non tutti sono d’accordo, nelle dichiarazioni riecheggiano i dissensi che hanno contrassegnato il lungo iter. «Si sdogana l’incesto - avverte Paola Binetti dell’Udc -. Il vero paradosso è che questa legge nata per riconoscere ai figli naturali il diritto ad una famiglia, ha distolto la sua attenzione mettendo in primo piano la drammatica patologia di una famiglia colpita da uno dei crimini più gravi che si conoscano: l’incesto». Parla di «sacralizzazione dell’incesto» anche l’esponente del Pdl Alfredo Mantovano, che ha commentato l’approvazione da parte della Camera come «l’ossequio a quell’ideologia sessantottina che continua a fare danni».

La Stampa 28.11.12
Uno su quattro da coppie non sposate, identikit di un fenomeno
Modi nuovi di essere madri e padri
di Rosaria Talarico


L’Italia sarà pure un Paese cattolico, ma il numero di bimbi nati da coppie non sposate è in aumento. Un fenomeno che si avverte meno nel Sud tradizionalista, mentre il vero boom negli ultimi anni si è verificato proprio al Centro-Nord, dove i nati da genitori non coniugati sono attualmente quasi il 30%. Secondo l’Istat appartengono a questa categoria di «famiglie di fatto» circa 134 mila neonati. Il dato è relativo al 2011 e l’ultimo report su natalità e fecondità rileva come il numero sia in linea con l’anno precedente. L’incidenza del fenomeno è triplicata rispetto al 1995, quando soltanto l’8,1% delle nascite avveniva al di fuori del matrimonio. Nella geografia al contrario non si registrano variazioni, con valori decrescenti man mano che si procede da Nord verso Sud. Alle regioni in cui tradizionalmente la propensione ad avere figli al di fuori del matrimonio era già più elevata (47% nella Provincia Autonoma di Bolzano, 37% in Emilia-Romagna e Valle d’Aosta, 35% in Liguria, 34% in Toscana e 32% in Piemonte) si sono aggiunte tutte le altre.
Il fenomeno si è diffuso con rapidità anche nelle aree caratterizzate storicamente da comportamenti familiari più tradizionali come il Veneto, regione in cui l’incidenza dei nati fuori dal vincolo matrimoniale è più che triplicata (dal 6,8% del 1995 al 26,3% del 2011). Al Centro hanno raggiunto percentuali paragonabili a quelle del Nord Toscana (32,3%) e Lazio (28,6%). Alle Marche spetta il primato dell’incremento più sostenuto: la percentuale dei nati da genitori non coniugati è quintuplicata, passando dal 5,3% del 1995 al 26,2% del 2011. Tutt’altra la tendenza del Sud e delle isole, che presentano incidenze molto più basse: dal 1995 al 2011 sono passate rispettivamente dal 5,2% al 15,3% e dall’8,7% al 20,3%.
Spetta alla Basilicata il livello minimo (10,3%) e alla Sicilia l’incremento minore (dall’8,7% al 18,0%). Nel caso di coppie miste italiano-stranieri, circa il 38% dei bambini nasce al di fuori del matrimonio. Trattasi spesso di una seconda unione, in cui è meno frequente il fenomeno delle seconde nozze. Figlio sì, recidiva matrimoniale no.
Mai più figli e figliastri. Ora anche in Italia i figli naturali sono equiparati ai figli legittimi, nati all’interno del matrimonio. Sì della Camera alla nuova legge.

La Stampa 28.11.12
Cancellate tante parole inutili
di Elena Loewenthal


La Camera ha approvato in via definitiva l’equiparazione dei figli «legittimi» a quelli «naturali». La prima giustizia di questo provvedimento è di ordine semantico: il «figlio naturale», nato fuori dal matrimonio, era infatti una definizione tanto ovvia quanto assurda nel suo presupporre, per opposizione, l’esistenza di figli «artificiali». Ma l’aggettivo «naturale» era comparso nel 1975 in sostituzione del drastico «illegittimo», che sanciva la venuta al mondo di un bambino i cui genitori non erano sposati.
Naturale, come a dire spontaneo (scappato fuori…) o illegittimo (dunque carico di una colpa congenita), questo bambino subiva fino a ieri una serie minuziosa di limitazioni. Innocue e trascurabili, se viste nell’ottica gioiosa di una nascita, ma pesanti magari al momento di una successione. A incominciare dall’inizio, perché il figlio «legittimo» è automaticamente riconosciuto da entrambi i genitori, mentre quello naturale va attestato con una firma, che al di là del suo valore simbolico significa avviare in modo diverso la genitorialità. D’ora in poi, un figlio potrà essere riconosciuto anche da genitori sposati con «terza persona» al momento del concepimento: in sostanza, a discrezione di chi lo mette al mondo, sparisce la figura del bastardo.
La modifica è importante soprattutto sul piano della famiglia, dentro la quale non ci saranno più d’ora in poi differenze fra figli di matrimonio e figli di convivenza. Spariscono i casi limite di nonni cui non possono essere affidati bambini orfani perché per legge non sono parenti, in quanto i genitori non erano sposati. Sparisce soprattutto il diverso trattamento in merito all’eredità che nel contesto della successione all’interno di una famiglia era riservato al figlio nato fuori da un «regolare» regime matrimoniale.
Ma questa discriminazione era innanzitutto anacronistica, in un’Italia di oggi in cui ci si sposa sempre meno ma si convive sempre più, costruendo famiglie di fatto non meno stabili e degne di tale nome. In un’Italia sempre più piena di quei cosiddetti figli naturali che, a guardarsi intorno, popolano le classi di scuole, si affacciano al mondo del lavoro, piangono parenti morti, costruiscono a loro volta una famiglia. Non sono dei fantasmi, ma una realtà viva e indistinguibile dall’altra che vanta lo status di legittimità. Questa legge non viene a gratificare una marginale minoranza di cittadini italiani: rispecchia invece una realtà sociale che da tempo esigeva un aggiustamento giuridico. Con un auspicio che dovrebbe essere la diretta conseguenza di questa doverosa «modernizzazione» del nostro diritto di famiglia: che questa modifica del codice civile sia il preludio a una legislazione in merito alle coppie di fatto quelle cioè che stanno «a monte» dei figli naturali: che li hanno voluti, concepiti, messi al mondo, riconosciuti. E cui prodigano amore e cura in misura non diversa da quella che ricevono i figli nati nel matrimonio.

Corriere 28.11.12
I figli diventano tutti uguali. I naturali equiparati ai legittimi
Novità estesa anche ai nati da incesto e violenza: è polemica
di M. Antonietta Calabrò


ROMA — Riforma epocale, con forte polemica. I figli sono tutti uguali, anche quando sono frutto di violenza o di incesto. L'Aula della Camera ha approvato in via definitiva una riforma del diritto di famiglia che equipara i figli naturali a quelli legittimi (i primi sono stati 134 mila nel nostro Paese nel 2011, il 24,5 per cento di tutti i bambini). Nonostante sia un fenomeno di cui si parla sui media quasi esclusivamente quando si tratta di personaggi da copertina, come è accaduto, per citare un caso su tutti, anni fa con il figlio naturale di Diego Armando Maradona.
Le norme approvate ieri però si estendono anche ai figli nati da violenza o incesto, una possibilità che ha visto un duro scontro a Montecitorio. Un fronte parlamentare guidato dall'Udc (Paola Binetti, ma anche Alfredo Mantovano del Pdl) ha infatti cercato di bloccare questa possibilità rivendicata dal centrosinistra e in particolare dai deputati del Pd (Donatella Ferranti, Maurizio Turco) e di Fli (Giulia Bongiorno, Benedetto Della Vedova) ma alla fine è prevalsa la linea già passata a Palazzo Madama, dove non erano mancate violente polemiche.
L'attuale testo dell'articolo 251 del codice civile vieta infatti che possano essere riconosciuti i figli nati da persone unite da vincolo di parentela in linea retta all'infinito (padre-figlia ecc...), in linea collaterale nel secondo grado (fratello-sorella), e tra affini in linea retta (suocero-nuora). L'eccezione a questa regola è che entrambi i genitori, o almeno uno di essi, all'epoca del concepimento, avessero ignorato il vincolo. La nuova disposizione prevede invece che il figlio nato anche in questi casi può essere riconosciuto sia pure previa autorizzazione del giudice avuto riguardo all'interesse del figlio e alla necessità di evitargli qualsiasi pregiudizio. Stessi diritti, insomma, senza distinzioni: sono figli e basta.
Con le nuove norme viene riconosciuto quindi a tutti i figli, anche quelli naturali, un unico status giuridico e i bambini nati fuori dal matrimonio potranno avere nonni, zii, fratelli, e più in generale vincoli parentali che prima erano loro negati in assenza di legittimazione. Assicurato per tutti i figli, dunque, il vincolo di parentela, come stabilito dall'articolo 1 della legge, nel quale si stabilisce che «la parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite, sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all'interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo». Il figlio nato fuori del matrimonio può essere adesso riconosciuto dalla madre e dal padre «anche se già uniti in matrimonio con altra persona all'epoca del concepimento» e il riconoscimento «può avvenire tanto congiuntamente quanto separatamente». Inoltre, con l'uniformazione del vincolo di parentela, si stabilisce che tutti i figli «hanno lo stesso stato giuridico» e che, in caso di riconoscimento in un secondo momento, da parte del padre, il cognome della madre non sarà mai cancellato, ma il figlio potrà affiancargli quello paterno. L'articolo 1 introduce infine i «diritti e i doveri del figlio».
Uno dei decreti attuativi che dovranno essere emanati dal governo riguarderà la disciplina delle successioni e delle donazioni, ai fini dell'eredità.

Corriere 28.11.12
Naturali e legittimi, una Legge civile, ora con i figli conta solo l’affetto
di Silvia Vegetti Finzi


Si è scritta ieri, nel nostro statuto giuridico, una pagina di civiltà. È stato infatti approvato in via definitiva il testo unificato sull'equiparazione tra figli naturali, nati fuori dal matrimonio, e figli legittimi. Come ricorda Anna Maria Bernardini De Pace: «Figlio naturale un tempo significava figlio di serie B». Il Nuovo diritto di Famiglia, del 1975, parificava le due condizioni ma solo rispetto ai genitori, per cui i figli naturali non avevano, dal punto di vista giuridico, fratelli, cugini e nonni.
Ora non è più così e le conseguenze sono rilevanti, anche sul versante psicologico. D'ora in poi i nati da una coppia coniugata o meno, naturali o adottivi, saranno sempre e soltanto «figli». Non si tratta di una mera semplificazione terminologica ma di una conferma di identità e di una attribuzione di soggettività. Il figlio è un soggetto che, indipendentemente dalla sua condizione di nascita, è portatore, in proprio, di diritti e di doveri. Tanto che il diritto di essere cresciuto ed educato viene sottoposto a una condizione di grande portata: «Nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni». Si può dire che la famiglia verticale, storicamente fondata sull'autorità paterna e, in seguito, genitoriale, è divenuta davvero paritetica. Anche nel senso di attribuire ai figli non solo diritti ma anche doveri per cui devono non soltanto rispettare i genitori, ma contribuire, in base alle loro possibilità, al mantenimento della famiglia in cui convivono. Significativo è infine il diritto del minore, anche inferiore ai 12 anni, di essere ascoltato in tutte le questioni che lo riguardano. In particolare nei casi di separazione familiare. In conclusione mi sembra che i rapporti familiari, liberati in gran parte dai vincoli giuridici, siano posti nella condizione di esprimere il potenziale affettivo che li anima.
Resta un elemento controverso, quello relativo al riconoscimento dei figli nati dall'incesto, sul quale si è già espressa in queste pagine Isabella Bossi Fedrigotti e su cui bisognerà ulteriormente riflettere.

Repubblica 28.11.12
Il movimento di estrema destra si presenta alle elezioni regionali: “Corriamo per vincere”
Alba Dorata sbarca in Lombardia “Puntiamo al Parlamento, come in Grecia”
di Paolo Berizzi


MILANO — Alba Dorata Italia si presenterà alle elezioni regionali in Lombardia. È la prima discesa in campo del movimento di estrema destra nato sull’esperienza del partito greco - xenofobo e antisemita - che ha scalato il parlamento piazzando 18 deputati e distinguendosi per un mix esplosivo di pestaggi di immigrati, slogan razzisti e iniziative di populismo solidale (riservate ai greci). Una deriva dalla quale gli omologhi italiani, ufficialmente, prendono le distanze («la violenza non serve, noi siamo per la concretezza e i diritti sociali», ripete il segretario nazionale Alessandro Gardossi, triestino, un passato tra Lega e Forza Nuova). Ebbene, dopo avere raccolto adesioni in molte regioni d’Italia, dopo avere aperto sedi in cinque città lombarde (Milano, Lodi, Varese, Brescia, Mantova) adesso Alba Dorata Italia punta diritto alle istituzioni cercando di cannibalizzare Forza Nuova e Destra. Primo banco di prova, appunto, le regionali di aprile.
«Stiamo raccogliendo le firme e scegliendo i candidati per il Pirellone. Faremo anche noi le nostre piccole primarie», anticipa Gardossi a Repubblica.
Sono tre i “camerati dorati” che si contendono la maglia di candidato governatore. Daniele Granata, il segretario regionale, 41 anni, di Varese, operatore nella comunicazione; il segretario milanese Giorgio Borghesi, 51 anni, titolare di un’agenzia di viaggi; e Antonio De Domenico, 45 anni, di Brescia, autista ed ex sindacalista
autonomo. Vengono da esperienze diverse: non tutti dall’estrema destra, e cioè il bacino «di delusi» da cui sta pescando Alba Dorata. De Domenico, per esempio, ha militato a lungo nella Lega.
Che cosa propongono i “dorati” lombardi, un partito il cui leader ha dichiarato di essere antisionista, di volere una «dittatura dell’intelligenza» e di avere ammirazione per la politica economica di Hitler e lo stato sociale di Mussolini? Trasformazione della Lombardia in un cantone autonomo («il Kosovo è un precedente nel diritto internazionale») dotato di moneta parallela (sul modello del sardex.net sardo); abolizione delle Province e lotta allo strapotere delle banche e dei sindacati. E poi, ovviamente, lotta all’immigrazione e alle mafie («ripuliremo la Lombardia da queste metastasi»). Pronti a misurarvi con le polemiche? «Pronti - dice Andrea Bubba, vice segretario nazionale di Alba Dorata Italia. «Partiremo dalla Lombardia per puntare al parlamento. Come in Grecia».

Repubblica 28.11.12
Ungheria, proposta shock: schediamo gli ebrei
Iniziativa in Parlamento dell’estrema destra. Condanna del governo solo dopo le polemiche
di Andrea Tarquini


BERLINO — «È ora di censire gli ebrei viventi nel nostro paese, facciamo liste almeno di quelli che lavorano nel governo e per il parlamento, sono un rischio potenziale per la sicurezza della nazione ». Non è una citazione di Hitler o di Goebbels. La frase è stata pronunciata lunedì sera tardi nello Orszaghàz, il Parlamento dell’Ungheria membro della Ue e della Nato. Da Marton Gyoengyoesi, numero due di Jobbik, il partito neonazista, terza forza del paese. E la risposta a caldo del rappresentante dell’esecutivo alla seduta, il sottosegretario agli Esteri Zsolt Németh, è stata nulla: «Non posso appoggiare la sua proposta, non è inerente al tema del dibattito, cioè la crisi in Medio Oriente». Solo ieri, con ore di colpevole ritardo, il governo nazionalconservatore ed euroscettico della Fidesz, il partito del premier-autocrate Viktor Orbàn, ha denunciato quella frase.
«Condanniamo nei termini più forti possibili le parole di Gyoengyoesi, il governo è contrario a tutte le forme di estremismo, razzista e antisemita, e farà tutto quanto è in suo potere per combatterlo», dice il comunicato emesso solo ieri, dopo un lungo silenzio. Lunedì sera, Németh non se l’è sentita di rispondere duro a Gyoengyoesi, come qualsiasi politico conservatore europeo, dalla Merkel a Cameron (la Fidesz è nei Popolari europei), avrebbe fatto. Non basta: nessun deputato Fidesz ha protestato. Il presidente del Parlamento (Fidesz anche lui), Koever, che pochi giorni fa aveva espulso dall’assemblea un deputato socialista per un discorso fattualmente critico della politica economica antisociale del governo, è stato zitto.
Ungheria, vigilia triste di Natale 2012: il paese centroeuropeo, che nell’Impero del Male sovietico era chiamato «la migliore baracca del Gulag», oggi con Orbàn sta diventando il peggio del mondo libero, l’angolo del cuore d’Europa dove deliri nazisti entrano nei salotti buoni. L’Unione europea tace. Rimprovera i greci spendaccioni, non i neonazi di Jobbik, né Orbàn che parla del comunismo come «unica macchia nera», tace sull’attivissima partecipazione magiara all’Olocausto, parla di nazione come entità etnica e «spazio vitale», riabilita Horthy, il dittatore fedele alleato di Hitler. Invano la comunità ebraica ha duramente protestato, invano il presidente del World Jewish Congress ha appena invitato Orbàn ad agire contro gli ultrà razzisti. Dell’opposizione d’ultradestra spesso Orbàn imita slogan e idee, sparando a zero sull’Europa “fallita” di Merkel e Draghi da cui incassa grassi aiuti, e sulla “finanza internazionale”.
Nelle stesse ore, la maggioranza ha approvato una dura legge elettorale: registrazione obbligatoria degli elettori con notai inviati in ogni casa, campagna di soli 50 giorni, spot solo sulla tv pubblica in mano alla Fidesz e alla Nmhh, l’autorità-bavaglio. E un diktat ha imposto alla Banca centrale di tagliare i tassi. La recessione infuria e distrugge destini, Orbàn dice che «la gente sta bene»: una menzogna, secondo la Sueddeutsche Zeitung,
peggio di quando Berlusconi diceva che con lui gli italiani stavano meglio dei tedeschi.

La Stampa 28.11.12
Palestina all’Onu, il sì di Parigi
Anche Madrid, Vienna e Lisbona a favore dello status di “osservatore”
di Alberto Mattioli


La Francia rompe gli indugi e annuncia che domani, all’Assemblea generale dell’Onu, voterà sì alla risoluzione che riconosce la Palestina come «Stato osservatore»: non è ancora lo status di membro delle Nazioni Unite, ma è più di quello di «ente osservatore» che la Palestina aveva finora. Fra molte invocazioni al negoziato fra israeliani e palestinesi, il ministro degli Esteri, Laurent Fabius, ha spiegato all’Assemblée nationale che Parigi voterà sì «per coerenza». In effetti, la Francia è sempre stata favorevole al riconoscimento della Palestina e già nel 1982 François Mitterrand andò a dirlo nella sede che meno l’avrebbe apprezzato: la Knesset israeliana. Ma la posizione francese è bipartisan, dato che è stata ribadita dalla presidenza Sarkozy l’anno scorso, in occasione dell’ammissione della Palestina all’Unesco. Del resto, il riconoscimento figura nel programma elettorale di François Hollande, che peraltro, si dice, di suo è più filoisraeliano della media dei politici di gauche.
Ricevendo all’Eliseo Benjamin Netanyahu, il 31 ottobre scorso, Hollande era sembrato dubbioso, perché il Quai d’Orsay teme che il riconoscimento possa essere l’ennesimo bastone nelle ruote del negoziato. Ma la crisi di Gaza ha dato la spinta decisiva al sì. Hollande vuole sostenere il presidente Abu Mazen (e soprattutto il suo pragmatico primo ministro, Abu Fayyad, ben visto a Parigi) in un momento in cui sembra messo nell’angolo da Hamas. Né ci sono scrupoli a dividere l’Unione europea, che sull’argomento si è spaccata da tempo. Alcuni Paesi hanno già annunciato il loro sì, come Spagna, Portogallo e Austria, altri sceglieranno probabilmente l’astensione, come la Germania e l’Italia.
Insomma, l’Ue procede in ordine rigorosamente sparso. La posizione più insolita è quella della Gran Bretagna che, e questa è una novità, potrebbe votare sì. Ma a due condizioni che difficilmente i palestinesi accetteranno: prima, Abu Mazen dovrebbe impegnarsi a riprendere, subito e senza condizioni, i negoziati con Israele; seconda, la Palestina dovrebbe impegnarsi a rinunciare a far parte della Corte penale internazionale e della Corte internazionale di giustizia, in modo da impedire che possa tentare di processare Israele.
L’esito del voto è praticamente scontato. Secondo l’ambasciatore palestinese al Palazzo di Vetro, Ryad Mansour, la domanda di riconoscimento è sponsorizzata «da circa 60 Paesi» e si prevede che almeno 130 voteranno a favore. Isolando, insieme a Israele, anche gli Stati Uniti, che restano assolutamente contrari e minacciano rappresaglie in caso di vittoria del sì. Il ministero degli Esteri israeliano, in ogni caso, non perde il sense of humour e diffonde un paio di divertenti videoclip. In uno, si ironizza sulla politica della sedia vuota (al tavolo dei negoziati) scelta dall’Autorità nazionale palestinese. Nell’altro, l’autobus palestinese va fuori strada per colpa di un autista imprudente che ha la faccia di Abu Mazen.

l’Unità 28.11.12
Uno Stato palestinese all’Onu: l’Italia dica sì
Tra i firmatari Bersani, Vendola, Ovadia, Camusso, Beni, Raciti
La Palestina all’Onu: l’Europa divisa alla prova
Al Palazzo di Vetro il voto sul riconoscimento richiesto da Abu Mazen
A favore 150 Paesi, tra i contrari gli Stati Uniti
La Francia per il sì, la Germania si astiene. L’Italia pure. Critico il Pd
di Umberto De Giovannangeli


L’«intifada diplomatica» vivrà domani il suo momento della verità, quando l’Assemblea generale delle Nazioni Unite sarà chiamata a pronunciarsi sulla richiesta avanzata dall’Autorità nazionale palestinese (Anp) per il riconoscimento della Palestina come Stato «non membro» al Palazzo di Vetro.
«Abbiamo i numeri necessari», anticipa a l’Unità – nel giorno in cui a Ramallah veniva riesumata la salma di Yasser Arafat alla ricerca di prove di un sospetto avvelenamento il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat che, pressato, azzarda anche un numero: «Riteniamo di poter contare sul sostegno di 150 Stati (su 193)». Tra questi conta due membri permanenti del Consiglio di sicurezza (Russia e Cina), il Sudafrica, il Brasile, il blocco dei Paesi «non allineati», oltre quelli arabi e musulmani.
Le votazioni dell'Assemblea non sono soggette al veto dei membri del Consiglio di sicurezza e questo consente all’ambasciatore Ryad Mansour, osservatore permanente dell’Anp al Palazzo di Vetro di affermare: «Il prossimo 29 novembre prometto che avverrà un evento storico». «La modifica dello status palestinese a Stato non membro dell' organizzazione internazionale spiega è un momento storico sia per le Nazioni Unite che per il nostro popolo. La soluzione dei due Stati, da una prospettiva Onu, diventerà una realtà». «Quello che stiamo facendo conclude è legale, democratico e multilaterale». Per Mansour «la prima priorità per Abu Mazen è negoziare, la seconda negoziare, la terza negoziare» per arrivare alla soluzione dei due Stati.
L’Europa si presenta in ordine sparso al voto. La Francia voterà in favore della concessione dello status di «Stato non membro per la Palestina all'Onu». Ad annunciarlo è il ministro degli Esteri, Laurent Fabius che ha ricordato la «posizione costante» di Parigi in favore del riconoscimento di uno Stato palestinese, fin dal discorso del 1982 dell’allora presidente, Francois Mitterrand. Il titolare del Quai d’Orsay, parlando davanti ai deputati in Assemblea nazionale, ha quindi annunciato formalmente che la Francia voterà «sì» alla risoluzione Onu sulla Palestina.
La decisione di Parigi amplifica la prospettiva di una nuova spaccatura fra i Paesi Ue su un importante dossier di politica estera. Anche la Spagna, stando ad una anticipazione di El Pais on line, voterebbe a favore, così come l’Austria. La Gran Bretagna apre, ma ad una condizione. Due i caveat al suo sì: che l'Anp si impegni a riprendere subito, senza condizioni, i negoziati di pace con Israele e che l’Anp si astenga dal chiedere di entrare alla Corte Penale Internazionale e alla Corte Internazionale di Giustizia, istituzioni che potrebbero essere usate per mettere Israele sul banco degli imputati per crimini di guerra. Richieste queste che troverebbero ascolto nella dirigenza palestinese. Un’altra condizione è che la risoluzione dell’Assemblea Generale non richieda al Consiglio di Sicurezza di seguirne le mosse.
LE CONDIZIONI DI LONDRA
La svolta britannica è delle ultime ore e fa seguito a colloqui dell’altro ieri del ministro degli Esteri, William Hague con il presidente dell'Anp, Abu Mazen e con il collega francese Laurent Fabius. Abu Mazen ha chiesto a Londra di appoggiare la sua richiesta all’Onu invocando la speciale responsabilità della Gran Bretagna come ex potenza coloniale nei confronti della Palestina. Finora il Foreign Office aveva sempre opposto resistenza alla risoluzione, citando le obiezioni di Stati Uniti e Israele e il timore di danni a lungo termine nelle prospettive di negoziato. Un sì all'Onu di Londra, quindi, è condizionato a modifiche nella richiesta dell’Anp che domani verrà messa ai voti dell’Assemblea delle Nazioni Unite.
Stati Uniti e Israele hanno prospettato pesanti rappresaglie in caso di approvazione della risoluzione e la posizione della Gran Bretagna è tesa a ridurre il rischio di queste minacce.
Sul fronte opposto, quello dei «no», ci sono gli Stati Uniti e, naturalmente, Israele che per bocca del suo ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman ha bollato come una «grave provocazione che non resterà senza conseguenze» l’iniziativa palestinese. L’azione unilaterale dell’Anp all’Onu perché lo status della Palestina sia portato da osservatore a Stato non membro è definito «un errore» dalla portavoce del Dipartimento di Stato Usa, Victoria Nuland. «Non pensiamo che questo passo porterà il popolo palestinese più vicino a uno Stato» afferma. Per concludere: «Crediamo sia un errore e ci opponiamo».
E l’Italia? Bocche cucite alla Farnesina, ma a quanto risulta a l’Unità l’opzione più accreditata in queste ore è quella dell’astensione, che sarebbe condivisa dalla Germania. Ma questa linea che non convince il partito democratico che con il suo responsabile Esteri, Lapo Pistelli insiste perché l’italia sostenga la richiesta di Abu Mazen.
L’Europa si presenta dunque divisa ad un appuntamento cruciale. E questo è di per sé l’indice di un fallimento politico. L’ennesimo sullo scacchiere internazionale.

l’Unità 28.11.12
Il documento
L’Italia sostenga la richiesta dell’Anp


QUATTRO ANNI FA, IN QUEI DRAMMATICI GIORNI CHE seguirono l’assedio di Gaza, lanciammo un appello dal titolo: «La questione morale del nostro tempo». Rappresentava il tentativo non solo di uscire dalla spirale della guerra, ma anche dai rituali dello schierarsi con le parti in conflitto per provare ad indicare una prospettiva diversa, capace di modificare il nostro sguardo su un conflitto che affonda le proprie radici nel cuore di tenebra dell’Europa e del suo Novecento.
Si avviò una carovana. Si nutriva di culture e di storie che la guerra intendeva cancellare, di resistenza nonviolenta a dispetto della chiamata alle armi, di relazioni fra territori e persone nell’intento di valorizzare luoghi e saperi che nell’intreccio del Mediterraneo hanno costruito straordinarie civiltà niente affatto in conflitto. Una rete fittissima di esperienze che hanno interagito con la «primavera araba» dopo la quale niente è più come prima. Oggi la storia sembra ripetersi, quasi a voler abbattere i ponti di dialogo costruiti a fatica nel contesto dei grandi cambiamenti di questo tempo. Di nuovo assistiamo impotenti al dilagare della guerra. Le popolazioni civili vedono aggiungersi nuove sofferenze e nuove distruzioni, tanto in Palestina dove nuovi lutti si aggiungono ad una interminabile lista del dolore, quanto in Israele dove un numero pur minore di vittime non attenua lo stato di tensione e di paura. Per entrambi, l’insicurezza e l’incertezza del domani avviliscono l’esistenza ed offuscano le menti.
Ora che i bombardieri tacciono e la tregua sembra reggere, dobbiamo sapere che i problemi sono immutati e che il campo della belligeranza si è fortificato, che i sondaggi di opinione danno in crescita i falchi ottusi e le tendenze estreme. I proclami di guerra e di odio hanno contaminato il linguaggio quotidiano, costringendo in una posizione minoritaria la ragionevolezza e il buonsenso, mentre tutti noi diventiamo vittime collaterali. Eppure siamo consapevoli che la guerra non porta da nessuna parte, tanto è vero che gli ultimi conflitti nel Vicino Oriente si sono risolti in un vano e catastrofico esercizio di potenza, deteriorando situazioni già intollerabili, impoverendo di umanità e di intelletto popolazioni già provate e allontanando l’orizzonte di pace e serenità per una vita dignitosa. E che il dialogo è l’unica alternativa alla guerra.
In queste ore, con un nuovo appello vorremmo essere vicini a tutti, gettare una pietra nello stagno che ci ha trasformato in impotenti spettatori o in agguerriti tifosi.
Noi sappiamo che nel diritto, nella legalità internazionale e nelle sue molteplici convenzioni, esiste uno spazio di vita e di dignità per tutti. Sappiamo anche che il Mediterraneo è uno spazio non solo geografico ma anche culturale e politico nel quale costruire una prospettiva di incontro e convivenza fra i popoli. Così come sappiamo, infine, che «la pace dei coraggiosi» continua a rappresentare l’unica scelta possibile per una vita in sicurezza, per la dignità, la crescita umana e culturale di entrambi i popoli. Per questo siamo a chiedere la convocazione di una nuova conferenza internazionale per la pace che riparta da dove i colloqui si sono interrotti. Chiediamo all’Italia e all’Europa di sostenere, presso l’Assemblea generale delle Nazioni Unite la richiesta di Abu Mazen a nome di tutto il suo popolo per il riconoscimento dello Stato palestinese entro i confini del 1967, come contributo a rafforzare la pace in tutta una regione oggi segnata dall’instabilità, dal soffocamento violento delle istanze di libertà e di democrazia. Questo passaggio aiuterà altresì le nuove democrazie nel mondo arabo ad evolversi verso un vero stato di diritto e getterà le basi per una proficua cooperazione regionale e mediterranea, nel quale le grandi risorse umane e materiali siano valorizzate a favore della vita e dello sviluppo umano.
Con il nostro appello intendiamo dare vita ad un presidio permanente contro la guerra a favore della pace in Palestina e Israele, sulla base della legalità internazionale. Ci rivolgiamo a tutti, in modo particolare a tutti i giovani, senza distinzione di fede o nazionalità, che hanno ereditato un mondo dilaniato dalla guerra e depauperato da scelte politiche insensate, perché il nostro Mediterraneo riacquisti il suo splendore. (Per adesioni: mezzalunafertile.wordpress.com)
Moni Ovadia, Ali Rashid, Fausto Raciti, Paolo Beni, Antonio Bassolino, Pierluigi Bersani, Mercedes Bresso, Susanna Camusso, Nandino Capovilla, Raya Cohen, Andrea Cozzolino, Rosario Crocetta, Leonardo Domenici, Vasco Errani, Stefano Fassina, Lorenzo Floresta, Roberto Gualtieri, Antonio Liaci, Federica Martiny, Davide Mattiello, Gennaro Migliore, Michele Nardelli, Matteo Orfini, Antonio Panzeri, Gianni Pittella, Alessandro Portinaro, Enrico Rossi, Pasqualina Napoletano, Nichi Vendola.

il Fatto 28.11.12
Arafat e il plutonio che avvelena ancora i palestinesi
Suha, vedova del leader palestinese, critica sulla riesumazione
di Roberta Zunini


La vedova di Yasser Arafat, Suha Tawil, ha fatto sapere di essere rimasta sconcertata dalla decisione dell'Autorità nazionale palestinese di inserire anche degli esperti russi nel team di anatomopatologi incaricati di prelevare campioni di tessuto dalla salma del marito, riesumata ieri per scoprire se il leader palestinese fosse stato avvelenato con il polonio radioattivo, come la spia russa ribelle Alexander Litvinenko. Era stata proprio Suha, lo scorso anno, a chiedere l'apertura di un'indagine per accertare le cause della improvvisa quanto rapida morte di Arafat, avvenuta 8 anni fa dopo un mese di ricovero presso l'ospedale militare di Parigi. Secondo i medici si trattò di un ictus ma la diagnosi alimentò subito dubbi perché i sanitari incaricati di stilarla, avevano dichiarato di esserci arrivati per esclusione. Senza, peraltro, aver fatto l'esame autoptico.
Il sospetto della vedova è diventato quasi una certezza quando, dopo aver consegnato gli indumenti indossati dal marito negli ultimi giorni di vita a un istituto di ricerche svizzero, si scoprì che erano presenti tracce di polonio radioattivo. Ma per avere la certezza che la dose fosse stata letale bisognava riesumare la salma, e in tempi brevi. Se la magistratura francese ad agosto ha aperto un'indagine, se i tempi di riesumazione sono stati rispettati, se il team di esperti chiamati a fare i prelievi di campioni organici è formato da svizzeri, francesi e poi da russi, perchè allora la signora Arafat ha criticato duramente l'Anp? Risposta: “Nessuno mi ha avvisata. Forse perché sapevano che non sarei stata d'accordo. Del resto come si può essere d'accordo quando si sa che i russi sono esperti nell'avvelenare i nemici con il polonio, quando si sa che i russi dalla fine della Guerra fredda non sono più alleati dei palestinesi. Mi chiedo perché farli partecipare all'esame. Forse Abu Mazen mi vuole nascondere qualcosa? ”.
I rapporti tra l'ancora giovane vedova di Arafat - accusata di aver voluto impalmare l'allora anziano leader dell'Olp per ereditarne il patrimonio milionario e di intromettersi nella sua agenda politica – e l'Anp sono sempre stati pessimi ma dopo questa accusa al presidente Abu Mazen, è probabile che verranno definitivamente interrotti. “Se avessi voluto avrei potuto bloccare la riesumazione”, ha ribadito Suha. La ragione vera della sua rabbia, a sentire il suo entourage, è la consapevolezza che, qualora Arafat fosse stato avvelenato, indipendentemente se da Israele (che ovviamente nega) o da una fazione interna contraria alla sua linea politica, ciò sia stato possibile solo grazie a “una mano palestinese”. Nel 2004, il leader era avvicinabile da poche persone della sua cerchia più ristretta perché prigioniero alla Mukata, circondata dai tank israeliani.
Le parole della vedova – riprese dal Figaro – dispiaceranno doppiamente alla dirigenza palestinese che si trova in una congiuntura molto delicata. A poco più di un anno dalla contrastata richiesta, avanzata ufficialmente da Abu Mazen in persona all'assemblea dell'Onu, di concedere “la promozione” dell'Autorità nazionale palestinese da entità a Stato non membro, domani arriverà la risposta. Se fosse positiva, l'Anp acquisirebbe il diritto di appellarsi ad alcuni organismi Onu, tra cui il Tribunale penale internazionale, possibilità che impensierisce Israele. E forse lo preoccuperà ancora di più se, fra qualche mese, le analisi confermeranno che Arafat è stato avvelenato: “Porteremo il caso davanti al Tribunale penale - ha dichiarato Tawfiq Tirawi, capo della Commissione creata per indagare sulle circostanze della morte di Arafat - e citeremo in giudizio coloro che sono dietro l’assassinio”.

La Stampa 28.11.12
Cina, la politica della burocrazia
Pechino cambia la geografia sui nuovi passaporti
Isole e regioni contese diventano cinesi nelle mappe. Insorgono i Paesi vicini
di Ilaria Maria Sala


I nuovi passaporti cinesi sono riusciti a far arrabbiare un po’ tutti: la cartina della Cina impressa sul documento infatti riporta sotto il territorio cinese tutte quelle aree al centro di contese con altri Paesi e la cosa ha creato un terremoto diplomatico che sta avendo anche ripercussioni pratiche su turisti e viaggiatori alle frontiere internazionali.
La piccola mappa – che potrebbe anche sfuggire ad occhi distratti – non solo include come territori cinesi le due regioni himalayane che la Cina e l’India si contendono ma riporta anche la «lingua di mucca», o linea a nove trattini, che comprende tutte le isole che sia Pechino sia i Paesi vicini del Sud Est asiatico reclamano come propri possedimenti. I primi ad alzare la voce, e a dire che non avrebbero timbrato dei passaporti con quell’immagine per non correre il rischio di convalidare «l’espansionismo territoriale cinese», sono stati i vietnamiti, che sono ricorsi allo stratagemma di approvare l’ingresso di viaggiatori cinesi con i nuovi passaporti timbrando i visti su un foglietto volante a parte. Nel frattempo, hanno richiesto alla Cina di rimuovere dai passaporti il «contenuto erroneo».
L’India, invece, ha preparato visti appositi per i nuovi passaporti cinesi, con stampata la mappa dell’India secondo la versione di New Delhi: un adesivo con l’Arunachal Pradesh e l’Aksai Chin dentro le frontiere indiane, da incollare sui passaporti dei viaggiatori cinesi che richiedono un visto all’ambasciata indiana a Pechino. Il ministro degli Esteri indiano, Salman Khurshid, ha dichiarato: «Non siamo pronti ad accettare» l’inclusione del territorio nazionale nella cartina cinese. Un sentimento a cui fa eco il segretario agli Affari esteri filippino, Albert del Rosario, che ha inviato una lettera a Pechino con la «forte protesta» di Manila nei confronti dell’immagine sui passaporti, che «include dei territori che fanno chiaramente parte del territorio filippino».
Taiwan, le cui relazioni con Pechino procedevano piuttosto bene negli ultimi tempi, si è invece risentita che alcuni dei luoghi più celebrati per la loro bellezza panoramica, il Lago del Sole e della Luna e il Picco Cingshui, siano stati inseriti nelle immagini sui passaporti. Pechino sta «facendo danno unilateralmente allo status quo che ha portato alla stabilità nello stretto di Taiwan (…) ignorando la verità», ha protestato il governo.
Nella contesa - non certo per il territorio – sono entrati ora perfino gli Stati Uniti. La portavoce del Dipartimento di Stato, Victoria Nuland, ha dichiarato che gli Usa «non approvano i nuovi passaporti cinesi con le mappe controverse», dal momento che «manteniamo la posizione che la questione debba essere negoziata fra la Cina e i Paesi del Sud Est Asiatico», pur considerando che un’immagine su un passaporto non cambia in modo sostanziale la sovranità effettiva dei luoghi.
Davanti a così tante proteste, Pechino si è limitata a replicare con una dichiarazione di Hua Chunying, del Ministero degli Affari Esteri: «La Cina – ha detto – non sta prendendo di mira nessun Paese specifico», ed «è disposta a comunicare con i Paesi in questione per continuare a promuovere i contatti».
Un messaggio vago, che lascia che le polemiche suscitate dai nuovi passaporti nella regione continuino. Tutto ciò pochi giorni dopo la chiusura del summit dell’Asean a Phnom Penh, nel corso del quale Pechino ha messo sufficiente pressione sulla Cambogia, sua storica alleata, affinché fosse bloccata una risoluzione che chiamava alla negoziazione collettiva sui territori contesi, fra la Cina e il blocco dell’Asean stesso (Pechino insiste per negoziare con i singoli Paesi).
Invece, ormai da mesi, la Cina ha deciso di mostrarsi sempre più intransigente nelle sue pretese territoriali, con, da un lato, una campagna propagandistica all’interno del Paese, e dall’altro inviando navi militari e pescherecci nelle acque territoriali in questione, sorda alle critiche dei suoi vicini.
La nuova aggressività territoriale cinese, che si accompagna con la sua crescita economica, sta avendo per il momento significativi effetti opposti sulla delicata geopolitica della regione: non solo i vicini della Cina si sentono sempre più schiacciati dall’ingombrante gigante asiatico, ma stanno stringendo alleanze fra di loro.
Il Giappone (che ha con Pechino un contenzioso rispetto alle isole Senkaku/Diaoyutai, che non entrano però nell’immagine del passaporto nuovo, forse per ragioni di spazio) sta alzando il suo profilo militare, mentre gli Stati Uniti hanno annunciato di volersi riposizionare in Asia, accolti con un certo sollievo da quegli stessi Paesi del Sud-Est asiatico che fino a poco tempo fa non sembravano troppo inclini ad avere l’America fra i piedi.
Ora, dunque, il colpo dei passaporti, quanto di meno diplomatico si possa immaginare, riapre ogni polemica e litigio.

La Stampa 28.11.12
Obama: ora la riforma dell’immigrazione
La Casa Bianca vuole legalizzare i clandestini che hanno sempre lavorato e pagato le tasse
Il presidente chiede al Congresso di “prendere l’iniziativa”
di Maurizio Molinari


Il presidente eletto messicano Enrique Peña Nieto è molto critico nei confronti delle leggi sui clandestini di alcuni Stati degli Usa
«Possiamo varare la riforma dell’immigrazione, tocca al Congresso agire». Il presidente americano Barack Obama sfrutta l’arrivo alla Casa Bianca del collega messicano Enrique Pena Nieto per dirsi a favore di una legge capace di sanare il problema dovuto ad oltre 11 milioni di immigrati illegali dentro i confini degli Stati Uniti.
Obama aveva promesso la riforma già nel 2009 ma la battaglia sulla Sanità l’aveva obbligato a cambiare direzione e ora, dopo una rielezione dovuta in primo luogo al record del 71% di ispanici che lo hanno votato, si dice determinato a centrare l’obiettivo. «Vi sono le condizioni per siglare una riforma dell’immigrazione di ampie dimensioni – spiega il portavoce Jay Carney – perché c’è un consenso bipartisan in materia, anche in ragione delle positive conseguenze che ne avrebbe la ripresa dell’economia». Il termine «bipartisan» si riferisce alla presenza fra i ranghi repubblicani di nomi di spicco, come i senatori Lindsey Graham, John McCain e Marco Rubio, sostenitori di una riforma «nel rispetto della legalità», secondo una formula spesso adoperata dall’ex governatore della Florida Jeb Bush. Sebbene Obama non si pronunci sui contenuti preferendo chiedere al Congresso di Washington «prendere l’iniziativa» – come avvenne nel 2009 sulla riforma della Sanità – sul suo tavolo c’è la bozza redatta da Graham assieme al senatore democratico Chuck Schumer nella quale si ipotizza un «percorso verso la cittadinanza» per quegli illegali che hanno sempre lavorato e pagato le tasse sui redditi senza commettere reati.
A sostenere l’«urgenza della riforma dell’immigrazione» è stato anche il presidente Nieto, che si insedierà sabato a Città del Messico, in ragione del fatto che fra i 12 milioni di connazionali residenti negli Stati Uniti circa la metà restano clandestini. Nieto è un aspro critico delle rigide leggi contro gli immigrati approvate in diversi Stati, dall’Arizona all’Alabama, ritenendole «discriminatorie» e «contrarie all’interesse comune delle nostre nazioni» che è di «sostenere l’immigrazione come motore dello sviluppo del Nordamerica». Per questo Nieto vedrà a Washington i leader del Congresso al fine di sostenere la necessità di approvare in tempi stretti una riforma che potrebbe giovare al Messico assicurandogli maggiore rimesse da parte degli emigrati.
Per Obama la convergenza con Nieto sull’«urgenza della riforma» significa disporre di un terreno comune sul quale consolidare il consenso delle comunità ispaniche per il partito democratico ed anche costruire una salda intesa bilaterale per affrontare temi più ostici come la lotta al crimine organizzato. La scelta di Felipe Calderon, predecessore di Nieto, di ricorrere dal 2006 all’esercito per combattere le gang dei narcos ha avuto infatti il sostegno di Washington portando però a risultati parziali, senza contare le oltre 57 mila vittime di un vero e proprio conflitto armato. Nieto preme dunque per un cambio di strategia contro i narcos ma Obama su questo fronte esita. Alla Casa Bianca si è parlato anche di incrementare il commercio con l’area del Pacifico e di piani di sviluppo comune dell’energia, tradizionale e rinnovabile, a conferma che per Obama il Messico è un partner strategico sui temi dell’economia.

l’Unità 28.11.12
Il sogno infranto del Sudafrica
Nel «nuovo» Paese l’apartheid razziale è stato sostituito da quello di classe
A diciotto anni dalla fine del regime segregazionista la nazione è ancora divisa. Il Programma di Ricostruzione ha fallito. Le ricette liberiste hanno prodotto un grande aumento del disagio sociale
di Marcello Musto


COLORO CHE, VISITANDO IL SUDAFRICA, DESIDERANO COMPRENDERE GLI EVENTI CHE HANNO CONTRADDISTINTO LA DRAMMATICA STORIA DI QUESTO PAESE NON POSSONO TRALASCIARE IL MUSEO DELL’APARTHEID. Situato a pochi chilometri dal centro di Johannesburg. Esso rappresenta, infatti, uno dei luoghi più significativi dal quale intraprendere l'angosciante viaggio a ritroso nella storia di uno dei peggiori casi del colonialismo europeo e, al contempo, del razzismo del XX secolo.
Al museo non si accede tutti insieme. Uno ad uno, studenti o membri di famiglie in visita, vengono separati in base al numero del biglietto acquistato e per un’ora, prima di ricongiungersi accanto a una fotografia di Nelson Mandela, rivivranno la tragedia della segregazione. Quelli con i numeri pari entrano dal passaggio riservato ai «bianchi», dei quali, nel corso della visita, si rammentano i privilegi goduti e le atrocità commesse; mentre i dispari, dal varco accanto, ripercorrono il tragitto delle brutalità subite dai neri e coloured. Tutti seguono lo stesso percorso, potendosi spesso guardare e, talvolta, camminare anche fianco a fianco, ma restano sempre divisi da una fredda gabbia di metallo; non si toccano mai e attraversano racconti, documenti ed esperienze di vita completamente differenti.
COLONIZZATORI E RAZZISMO
La data in cui prese avvio la colonizzazione europea è il 1486, anno in cui il navigatore portoghese Bartolomeu Dias superò l’estremo meridionale dell’Africa. Nel 1652, alcuni pionieri olandesi di estrazione calvinista, dediti all’agricoltura e per questo chiamati boeri (contadini), costruirono un primo insediamento come scalo per le navi della Compagnia Olandese delle Indie Orientali, la futura Città del Capo.
All’inizio del Settecento, per distinguersi dai colonizzatori inglesi giunti dopo di loro, iniziarono a denominarsi Afrikaner, ma l’evento che sconvolse la storia di questa terra fu la scoperta, nel 1887, delle incredibili ricchezze del suo sottosuolo. In pochi anni tutto mutò: prima della fine dell’Ottocento in Sudafrica veniva prodotto oltre un quarto dell’oro di tutto il globo e la fama dei suoi preziosissimi diamanti non fu da meno. Il razzismo divenne un elemento essenziale della cultura della popolazione di origine europea e finanche il Partito comunista sudafricano, nel 1922, chiamò i minatori alla lotta per un «Sudafrica bianco e socialista».
Nell’aprile del 1994, le televisioni di tutto il mondo mostrarono sterminate code di sudafricani che, per ore, con pazienza e orgoglio, restarono ad attendere un momento a lungo sperato: il primo voto e la fine della segregazione razziale.
A distanza di quasi venti anni si può affermare che le speranze di quei milioni di donne e uomini sono state disattese. La lotta per un Paese veramente democratico è stata fermata dalle politiche neoliberali adottate dall’African National Congress. Il brutale massacro di Marikana dello scorso agosto, così tanto simile alle stragi dei tempi dell’apartheid, nel quale hanno perso la vita 47 minatori in sciopero per l’aumento del loro salario (appena 250 euro al mese dopo 18 anni di democrazia), rappresenta perfettamente il paradosso di questa nazione. A fronte della straordinaria concentrazione di ricchezza ancora esistente un recente studio di Citigroup afferma che il Sudafrica possiede tutt’oggi il sottosuolo più ricco del pianeta, stimando il valore delle sue riserve minerarie in oltre 2.5 bilioni di dollari, nel dopoguerra questo Paese si distingueva, esclusa la popolazione di origine europea, per l’indice di mortalità più alto del mondo. Più della metà degli uomini di origine africana viveva confinata nei Bantustan (che coprivano appena il 13% della sua superficie), territori in cui il potere bianco relegò e talvolta deportò le popolazioni locali in base alle etnie di provenienza. In queste zone la miseria era estrema. Le scarpe giunsero soltanto nel 1979, grazie alla Croce Rossa.
Nonostante la risoluzione di condanna verso le politiche di apartheid, votata dall’Onu nel 1962, il veto opposto da Stati Uniti, Inghilterra e Francia, potenze che beneficiavano delle esportazioni del Sudafrica, impedì l’espulsione, proposta con la mozione del 1974, del paese dalle Nazioni Unite. Così, sulla rotta del Capo di Buona Speranza, trasportando oltre il 20% del petrolio consumato negli Usa e il 70% delle materie prime strategiche (in particolare platino, cromo e manganese) dell’Europa occidentale, continuarono a navigare oltre 2.000 bastimenti l’anno e le blande sanzioni economiche applicate non intaccarono affatto l’economia e il regime del National Party.
Al momento degli accordi di pace, seguiti alla straordinaria lotta di liberazione, il Sudafrica era una Paese profondamente diviso. La popolazione di origine europea aveva il settimo reddito pro-capite più alto al mondo, mentre quella africana il 120°.
Nei primi quindici anni di libertà, accanto alla figura carismatica e internazionalmente riconosciuta di Mandela, si è distinta quella di Thabo Mbeki. Vicepresidente del primo quinquennio e poi alla guida della «nazione arcobaleno» fino al 2008, è stato Mbeki a definire gli indirizzi economici del paese. Nel 1994, l’Alliance, coalizione elettorale composta dall’Anc, dal Cpsa e dal Cosatu, la principale e più combattiva federazione sindacale sudafricana, con 1.8 milioni di iscritti, avviò, al fine di ridurre l’ingiustizia sociale, il Programma di Ricostruzione e Sviluppo (Rdo). Dopo due anni appena, l’Rdp venne sostituito da un nuovo piano strategico, quello per la Crescita, Occupazione e Redistribuzione (Gear), che avrebbe dovuto consentire, secondo le promesse di Mandela e Mbeki, l’arrivo di investimenti stranieri e, pertanto, del benessere generale. Con il Gear, in realtà, a fare il loro ingresso in Sudafrica furono il neoliberismo e i suoi effetti devastanti.
Il Sudafrica avviò così una stagione di massicce privatizzazioni: liberalizzazione degli scambi miranti all’importazione di merci a costi bassissimi; ingenti tagli alla spesa accompagnati da corposi sgravi fiscali per tutte le grandi società. A dispetto delle promesse di maggiore efficienza, di creazione di nuovi posti di lavoro e conseguente riduzione della povertà, queste misure portarono all’aumento dei prezzi di elettricità, acqua e trasporti; all’abbassamento dei salari e alla flessibilità del lavoro; al peggioramento della situazione ambientale con l’enorme emissione di Co2.
A questa «prima economia» fu affiancata una «seconda», marginale e simile alle ricette del nobel Muhammad Yunus. Attraverso la «miracolosa» trasformazione dei poveri in piccoli imprenditori e mediante la seducente illusione secondo la quale il micro-credito era la possibile panacea di tutti i mali, quest’ultima ha contribuito, anche in Sudafrica, a una depoliticizzazione della povertà. Mbeki ha guidato questa trasformazione anche mediante l’utilizzo di una retorica di sinistra, tinta di nazionalismo africano. Non a caso la sua politica è stata definita Talk left, walk right, ovvero dire cose di sinistra, mentre si va a destra. Impostazione dalla quale non si è affatto discostato Jacob Zuma, l’attuale presidente del Sudafrica.
UN MONITO PER LA SINISTRA
La conquista dei diritti politici è stato un risultato importantissimo che non può essere sottovalutato, tantomeno in un paese con la storia drammatica del Sudafrica. Tuttavia, la svolta promessa dall’Alliance si è arrestata sulla soglia della questione sociale. Di fatto, l’Anc ha rimosso il tema della redistribuzione delle ricchezze dalla sua agenda e, rispetto al 1994, le diseguaglianze si sono addirittura accresciute (al tempo il salario di un lavoratore nero corrispondeva al 13,5% di quello di un bianco; oggi tale rapporto è calato al 13%). L’aumento del disagio sociale nelle aree urbane indica che anche la «Guerra alla povertà», dichiarata dal governo nel 2008, è stata perduta. Il numero dei disoccupati è superiore a un quarto della forza lavoro del paese un dato maggiore di quello dei tempi dell’apartheid e la percentuale dei senza impiego sarebbe superiore al 30% se nel conteggio fossero inclusi anche i discouraged workers, cioè quanti hanno smesso di cercare un’occupazione. Inoltre, sono diventati precari e retribuiti con un salario inferiore mezzo milione dei precedenti posti di lavoro, mentre molti di quelli da poco creati vengono retribuiti con meno di 20 euro al mese. Questo drammatico quadro è peggiorato con gli effetti della crisi, ovvero a causa della bolla immobiliare (rispetto alla fine del secolo scorso i prezzi erano aumentati del 389%); del calo dei settori minerario e manifatturiero, dovuto alla forte riduzione della domanda globale; del declino degli investimenti; e della perdita di un milione di posti di lavoro nel corso del solo 2009.
Nel «nuovo Sudafrica» le ingiustizie ereditate dal regime segregazionista si sono ampliate. La nascita di una borghesia «nera» politicamente influente quanto economicamente debole -, di un’altra elite predatoria affiancatasi a quella già esistente, ha arricchito un gruppo di uomini legati all’Anc, ma non ha certo mutato la condizione del popolo sudafricano. L’apartheid razziale si è trasformato in apartheid di classe, parola oggi non più di moda, ma sempre attualissima, e il fallimento sociale dell’Alliance è un monito per tutte le sinistre del mondo. Ci dice che anche i partiti politici di grandi tradizioni, specialmente quando diventano forze di governo, finiscono col tradire gli indirizzi riformistici se smarriscono il proprio radicamento sociale e non sono più sostenuti da una mobilitazione di massa. È da questa, ancora una volta, anche imparando dal Sudafrica, che bisogna saper ripartire.

Corriere 28.11.12
Santi, criminali e imperatori: viaggio ai confini della notizia
Angelo Del Boca, quasi settant'anni di «interviste spericolate»
di Gian Antonio Stella


«Da due giorni correvamo nel deserto e Aleichem non aveva ancora smesso di cantare. Cantava in russo, la sua lingua, cantava in rumeno, la lingua di sua moglie, cantava in tedesco, cantava canzoni italiane, nenie arabe, inni di guerra israeliani, pezzi d'opera francesi, fischiava marce austroungariche».
In quasi settant'anni di (grande) giornalismo, Angelo Del Boca ha incontrato peregrinando per il mondo principesse e imperatori, despoti e statisti, santi e guerriglieri che hanno segnato un secolo. Eppure, il libro che esce in questi giorni riassumendo in qualche modo la sua vita avventurosa e densa, Da Mussolini a Gheddafi. Quaranta incontri, regala qua e là anche piccole ma indimenticabili figure di uomini e donne, come appunto quell'autista che nel 1958 lo scarrozzò di kibbutz in kibbutz in giro per il Negev o Francesca Strada, l'ultima maestra del «villaggio Marconi» in Tripolitania, o madame Baussoley che pettinava le ventidue mogli e concubine di Maometto V del Marocco, esule in un grand hotel di Ile-Rousse in Corsica, o il medico ebreo Rinaldo Laudi che curava i partigiani, fu catturato dai tedeschi senza armi, solo con la valigetta da dottore, e sparì nel nulla accompagnato da una leggenda sinistra: «Sarebbe stato murato vivo, in uno spazio angusto, in modo che morisse in piedi. Particolare terrificante: nel vano, insieme al suo corpo, sarebbero stati murati anche alcuni gatti selvatici».
Erano da spavento, alcuni degli uomini che Del Boca ha incrociato in decenni da inviato. Come il fanatico Akao Bin, che scatenava i suoi adepti armati di pugnale contro i leader della sinistra giapponese e accolse il giornalista, tutto solo perché perfino l'interprete si era rifiutata di partecipare all'incontro, dichiarando la sua fede nazifascista sotto i ritratti di Cristo, Confucio, Maometto e Buddha. O Adolf Eichmann, il pianificatore dell'Olocausto, che aveva l'aria di «un pallido signore, con gli occhiali dalla montatura pesante e una calvizie da intellettuale» e seguiva il processo che l'avrebbe condannato a morte torcendosi nervoso le mani. O ancora il dittatore vietnamita Jean Baptiste Ngo Dinh Diem che aveva sistemato in tutti i posti chiave moglie e fratelli e parenti. O vari satrapi africani dai profili inquietanti.
Per non dire di Muammar Gheddafi, che una quindicina d'anni fa, nonostante Del Boca fosse stato il primo a denunciare in diversi libri documentatissimi i crimini di guerra compiuti dai nostri soldati in Libia per ordine di Rodolfo Graziani, gli concesse un'intervista infliggendogli un'attesa interminabile: quattordici giorni in albergo ad aspettare, da un momento all'altro, una telefonata con la convocazione sotto la tenda a Bab al-Aziziyyah.
Tra le altre, spiccano le interviste ad Hailè Selassiè, il 225° imperatore d'Etiopia discendente in linea diretta da re Salomone, e poi a suo cugino Immirù Haile Sellase. Il primo, «antico, per sangue, come Ninive e Babilonia» e col «petto coperto da dodici file di decorazioni e dalle mostrine rosse con le spighe d'oro», lo accolse con un sorriso che pareva scusarsi del cerimoniale: «L'ospite varcherà la soglia e farà un primo inchino, poi, camminando sulla passatoia rossa, si porterà a metà circa del salone e lì farà un secondo inchino, e infine un terzo nell'atto di ricevere la stretta di mano del Negus Negast».
Il secondo gli raccontò di quando era miracolosamente scampato a un bombardamento chimico italiano, vietato dalle convenzioni internazionali, spiegando che gli aerei sganciavano «strani fusti che si rompevano in aria o appena toccavano il suolo o l'acqua del fiume, e proiettavano intorno un liquido incolore» e che gli uomini investiti dagli spruzzi «urlavano per il dolore, mentre i loro piedi nudi, le loro mani, i loro volti si coprivano di vesciche. Altri, che si erano dissetati nel fiume, si contorcevano a terra in un'agonia che durò ore. Fra i colpiti c'erano anche dei contadini che avevano portato le mandrie al fiume, e gente dei villaggi vicini».
Su tutti, nel libro, si stagliano gli incontri col grande Jawaharlal Nehru, che si lagnava del popolo americano perché «parla solo di denaro» e spronava l'India a cambiare, attaccando invariabilmente «la religione, che rende schiavi» e «l'astrologia, che è uno stupido non senso», e spingendosi a strattonare quelli che faticavano a seguirlo sulla strada della modernizzazione: «Voi vivete fra le vacche, nel loro sterco, e ragionate con una mentalità da sterco di vacca».
E poi ecco il leggendario dottor Albert Schweitzer, che a un certo punto della sua vita di precoci successi aveva mollato tutto per andare a metter su un ospedale a Adolinanongo, nel Gabon, ed era premurosamente assistito da «venerabili e ossute infermiere tedesche» e «continuava a trattare gli africani come eterni fanciulli» e «a raccogliere aneddoti per i suoi libri, che sembravano scritti al tempo di David Livingstone».
Forse nessuno, però, ha il fascino di madre Teresa di Calcutta: «Com'è piccola e magra. E com'è liso il suo sari bianco orlato di azzurro. Se non portasse il piccolo crocifisso sopra il cuore, potrebbe essere scambiata per la più povera delle donne…». Spiegava: «Qualcuno mi ha detto, in una certa occasione, che neppure per un milione di dollari si azzarderebbe a toccare un lebbroso. Ho risposto che neppure io lo farei. Se fosse per denaro, non lo farei nemmeno per due milioni di dollari. Invece lo faccio volentieri, gratuitamente, per amore di Dio». Quel giorno, dopo aver passato ore accanto alla Santa immerso in quella umanità sofferente «scattando fotografie di quello spaventoso esercizio di pietà», Angelo Del Boca scrisse un articolo dall'incipit strepitoso: «Sono le prime luci dell'alba e vedo i “cadaveri” alzarsi dai loro giacigli di pietra, sbarazzarsi dello straccio che portano intorno alle reni e andare alla più vicina fontana, dove si lavano versandosi addosso l'acqua con una ciotola di cotto. Il sole li asciuga all'istante, ed eccoli di nuovo pronti a camminare per questa sterminata città, per creare quel fiume ininterrotto che per l'intero giorno la terrà mostruosamente viva...»

Repubblica 28.11.12
Tutto Lacan in due volumi il nuovo lavoro di Recalcati
Dall’etica al desiderio, i pensieri di un maestro
Tutto su Lacan
Il primo volume, appena pubblicato, è sul soggetto e i sentimenti
di Roberto Esposito


Noi, i soggetti. Ma chi siamo, noi? E cosa vuol dire “soggetto”? Che rapporto passa tra me e l’altro, all’interno della comunità? Ma anche tra me e ciò che, senza appartenermi, come il linguaggio che parlo, mi condiziona, mi modella, mi altera? E ancora: cosa è, per ciascuno di noi, il desiderio? A quale legge risponde? E come si articola con l’etica, l’arte, l’amore? Sono le grandi domande che si pone, e ci pone, Massimo Recalcati in Jacques Lacan. Desiderio, godimento, soggettivazione (Cortina), prima parte di un dittico, straordinario per quantità e qualità, cui seguirà un’altra sulla clinica psicoanalitica. Si tratta del suo ultimo libro, ma anche, più a fondo, del libro della sua vita. Certamente Recalcati ne scriverà ancora molti. Ma il libro della vita è un’altra cosa. È il libro cui dedichiamo la vita, ingaggiando una battaglia che non possiamo mai davvero vincere. E che poi, a un certo momento, sorprendendoci, la vita scrive attraverso di noi.
Si potrebbe dire che questo, a conti fatti, è quanto ci ha insegnato Lacan. La sua è un’opera “difficile” – non perché lontana dalla nostra esperienza, ma perché, al contrario, tanto prossima ad essa che quasi non riusciamo a metterla a fuoco e oggettivarla. La forza e il fascino del libro di Recalcati stanno appunto in questa consapevolezza. Nel sapere, e nel dirci, che le tesi di Lacan non possono essere descritte dall’esterno, come una qualsiasi teoria, ma vanno riconosciute dentro di noi – nei nostri gesti e nelle nostre parole, nei nostri impulsi e nei nostri smarrimenti. In questo senso va intesa quella “sovversione del soggetto” cui, fin dai primi seminari, Lacan dedica la propria opera – e dunque, come si diceva, la propria vita. Contro l’idea di una padronanza del soggetto su se stesso egli ci insegna che diveniamo ciò che siamo soltanto attraverso la mediazione simbolica dell’Altro – di un terzo che s’interpone nella relazione narcisistica tra noi e la nostra immagine, complicandola ma anche vivificandola, dando senso a ciò che sembra non averne.
Recalcati ricostruisce in tutte le sue pieghe lo sviluppo, tutt’altro che lineare, di un pensiero, come quello di Lacan, costituito nel punto di confluenza e di tensione tra esistenzialismo e strutturalismo, capace di assorbire, traducendoli in un impasto originalissimo, gli influssi di Hegel e Heidegger, di Sartre e Kojève, di Saussurre e Jakobson – per non parlare di Freud, restato fino all’ultimo il suo interlocutore privilegiato. In questo quadro complesso e in continua evoluzione, quale è il suo punto di partenza – il nucleo rovente da cui si può dire nasca la necessità del suo pensiero? Si tratta del fatto che, nel rifiuto narcisistico dell’altro, nel tentativo inane di ricucire la propria faglia originaria, il soggetto mostra di odiare innanzitutto se stesso. In questo modo – nel nodo mortifero che lega Narciso a Caino – si può rinvenire la radice dei totalitarismi e della guerra, a ridosso dei quali Lacan comincia a lavorare.
Quello che, nella stretta distruttiva tra Immaginario e Reale, risulta escluso è il piano del Simbolico, della relazione con l’altro, intesa come domanda di riconoscimento reciproco, come legge della parola e del dono. Quando la tendenza all’immunità – alla chiusura identitaria – prevale sulla passione per la comunità, l’Io batte contro il proprio limite rimbalzando sull’altro, secondo una pulsione di morte che finisce per risucchiarli entrambi nel proprio vortice. I grandi temi dell’inconscio come linguaggio, del nome del padre, della dialettica tra desiderio e godimento, sono tutti modi per proporre, da parte di Lacan, la medesima esigenza. Che è quella, per un soggetto esposto alla propria alterità, di non identificarsi con se stesso, ma senza perdersi nell’altro. Di sfuggire alla ricerca compulsiva di un godimento senza limiti, ma anche alla legge di un desiderio senza realizzazione.
L’originalità di Lacan – nell’interpretazione di Recalcati – sta nella capacità di tenersi lontano da entrambi questi estremi. Di non contrapporre il godimento al desiderio, ma di cercare di articolarli in una forma che fa di uno il contenuto dell’altro. Il processo di soggettivazione – vale a dire di elaborazione, da parte dell’io, dell’alterità da cui proviene – è il luogo di questa alleanza, la zona mobile in cui le acque del desiderio confluiscono in quelle del godimento, pur senza mischiarsi. Godere nel desiderio, attraverso il desiderio – vale a dire non di una pienezza irraggiungibile, ma della differenza che ci attraversa e ci costituisce: ecco la sfida, il luogo impervio della nostra responsabilità etica verso l’altro, che né la dissipazione libertina di Sade né la morale sacrificale di Kant potevano mai attingere. È il tema su cui sono tornati con efficacia
anche Bruno Moroncini e Rosanna Petrillo in L’etica del desiderio. Un commentario del seminario sull’etica di Lacan (Cronopio). Quali sono i segni di questa possibile giuntura tra godimento e desiderio, pulsione e legge, uno e altro? Lacan li rintraccia intanto in un’etica del reale – non dei valori trascendenti – che, pur consapevole della necessità che ci governa, la apre alla contingenza dell’incontro inatteso, come quella che, nell’interpretazione sartriana, fa di Flaubert non un idiota, ma un genio.
Ma li ritrova anche nella dinamica dell’amore – come ciò che riscatta l’impossibilità degli amanti di ottenere un godimento reciproco. Mentre il maschio non può godere che di se stesso e in se stesso, la domanda della donna è senza limiti e dunque mai soddisfatta. Vero amore è quello che, anziché rimuoverla, riconosce questa distanza, rinunciando al godimento assoluto. Non l’abolizione della mancanza, ma la sua condivisione nell’abbandono e nel rischio che ne deriva. L’arte, in una diversa esperienza di sublimazione, riproduce tale condizione. Anche in essa la pulsione si afferma circoscrivendo un vuoto – elevando il proprio oggetto alla dignità della Cosa. Come provano i quadri di Cézanne, ma anche la scatola di fiammiferi di Prévert, in una pratica artistica intesa come organizzazione del vuoto, presenza e assenza si sovrappongono in una forma che fa dell’una l’espressione rovesciata dell’altra, così come, in tutta l’arte contemporanea, la figura si rivolge all’infigurabile.
Ancora una volta il soggetto si riconosce assoggettato a qualcosa che lo domina, su cui egli non può avere controllo. E tuttavia, ciò non ne determina né la dissoluzione né la soggezione a una potenza straniera. C’è sempre, in ogni esistenza, una sporgenza rispetto al proprio destino, un punto di resistenza alla ripetizione che coincide con la singolarità della vita. È proprio l’assenza di governo di sé, l’esposizione all’Altro, che riapre il cerchio della necessità alla dimensione del possibile. Forse, si potrebbe aggiungere, l’unico terreno sul quale questa possibilità appare più appannata, nell’opera di Lacan, è quello della politica. Non a caso il libro di Recalcati percorre i territori della filosofia, dell’etica, dell’estetica, ma non quello della politica. Forse perché alla politica non basta la soggettivazione in quanto tale, e neanche l’incrocio dell’uno con l’altro. Occorre anche una linea conflittuale che, all’interno della società, aggreghi gli uni contro, o almeno di fronte, agli altri. Ecco è la questione ultima, lasciata aperta da Lacan, con cui la ricerca di Recalcati è chiamata a confrontarsi.