giovedì 29 novembre 2012

Israele teme che Abu Mazen usi la condizione di Paese osservatore per denunciare lo Stato ebraico alla Corte Penale Internazionale
l’Unità 29.11.12
L’Onu decide oggi sulla Palestina
Oggi Abu Mazen parlerà all’assemblea generale e chiederà il riconoscimento dello status di Paese non membro
Oltre a Francia e Cina a favore anche Spagna e Svizzera. Mentre l’Italia tace
di Umberto De Giovannangeli


Per la Palestina scocca oggi il momento della verità. Scocca a New York, al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite. Oggi, infatti, l’Assemblea generale dell’Onu voterà la risoluzione con cui l’Autorità nazionale palestinese (Anp) chiede l’attribuzione dello status di «Stato non-membro» alla Palestina in seno all più rappresentativo consesso internazionale. L’Unione europea si presenta all’appuntamento con una posizione non unitaria, mentre gli Stati Uniti si sono dichiarati contrari.
Gran Bretagna e Germania non esprimeranno parere positivo. «Ci asterremo», ha detto il capo della diplomazia britannica, William Hague, poiché finora «non abbiamo avuto rassicurazioni «sull’immediato impegno» palestinese nel riprendere i negoziati di pace. Se la posizione britannica è suscettibile di mutamenti, quella del governo tedesco è definitiva, anche se non è chiaro se si tradurrà in una astensione o in un voto contrario: «Vogliamo scegliere, per quanto è possibile, insieme con i nostri partner europei», afferma il portavoce Steffen Seibert. «Comunque aggiunge posso dire con certezza che la Germania non accoglierà la risoluzione».
ALL’ULTIMO VOTO
In favore della richiesta palestinese si sono espressi, invece, Francia, Austria, Spagna, Norvegia, Danimarca e Svizzera. Secondo Innercity Press, sito di giornalismo insider specializzato nelle faccende delle Nazioni Unite, i Paesi europei favorevoli saranno almeno 15 e i «no» saranno meno di dieci inclusi Israele, Canada, Usa e «i suoi Paesi satelliti» tra tutti i 193 Stati dell'Assemblea. A favore della risoluzione si sono espressi da Parigi, il ministro degli Esteri, Laurent Fabius, e da Vienna, il capo della diplomazia austriaca Michael Spindelegger.
Silente resta l’Italia: fonti diplomatiche al Palazzo di Vetro confidano a l’Unità che «l’opzione più probabile è quella dell’astensione». La bozza pubblicata da Innercity Press «riafferma il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione e all’indipendenza nel proprio Stato di Palestina sui Territori occupati dal 1967; decide di accordare lo status di Stato non-membro osservatore, senza alcun pregiudizio per i diritti acquisiti, i privilegi e il ruolo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina nelle Nazioni Unite quale rappresentante del popolo palestinese; esprime la speranza che il Consiglio di Sicurezza consideri favorevolmente la richiesta presentata nel settembre del 2011 dallo Stato della Palestina per membership piena». Infine, la bozza «esprime il bisogno urgente di una ripresa e di una accelerazione del processo di pace i Medio Oriente» che «ponga fine all’occupazione cominciata nel 1967 e realizzi la prospettiva di due Stati: un indipendente, sovrano, democratico Stato di Palestina che viva a fianco di Israele in pace e in sicurezza sulla base dei confini precedenti il 1967».
L’Anp ha più volte fatto sapere di aver ottenuto il consenso alla risoluzione della maggioranza degli Stati in Assemblea generale: tra i sostenitori, tre dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza: Russia, Cina e Francia. La sua approvazione consentirebbe al nuovo Paese osservatore di essere presente negli organismi dell’Onu, dal Consiglio dei diritti umani all'Unesco, così come oggi accade per il Vaticano.
«È un messaggio di speranza, un messaggio non violento» il voto di oggi Onu. Ad affermarlo, in una conferenza stampa nella sede dell’Olp a Ramallah, è la dirigente palestinese Hanan Ashrawi, la prima donna ad aver ricoperto il ruolo di portavoce della Lega araba. Da parte sua il ministro degli esteri palestinesi Riad al-Maliki ha precisato, in una intervista radio, che il dibattito sulla Palestina inizierà oggi alle ore 15 di New York, ossia le 22 nei Territori. La mozione palestinese sarà letta dal presidente Abu Mazen e il voto dovrebbe avere luogo due ore dopo, «quando in Palestina ha notato sarà mezzanotte». Una mezzanotte di attesa e di speranza nei Territori.

La Stampa 29.11.12
Oggi decisione storica
Palestina, le incognite del voto Onu
di Maurizio Molinari


La risoluzione che oggi trasformerà la Palestina in Stato non-membro delle Nazioni Unite è un evento spartiacque in Medio Oriente.
I motivi sono tre: l’Autorità nazionale palestinese (Anp) ha un nuovo status giuridico, il suo presidente Mahmud Abbas assume il ruolo di protagonista regionale e gli accordi di pace di Oslo del 1993 vengono indeboliti se non delegittimati.
Forte del sostegno di 132 Stati su 193, l’Anp si avvia a raccogliere nell’Assemblea Generale dell’Onu ben oltre i 97 voti necessari grazie ai quali la Palestina viene dichiarata Stato osservatore - come la Santa Sede - assumendo la legittimità internazionale perseguita dall’Olp di Yasser Arafat sin dalla dichiarazione di Algeri del 15 novembre 1988, con la conseguenza di poter aderire a Trattati, Corti e Convenzioni a cominciare dal Tribunale penale internazionale. Poiché il testo della risoluzione fa riferimento a «Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est» ciò significa che l’Onu riconosce l’esistenza di uno Stato di Palestina entro i confini anteriori al giugno 1967 proprio come recita la Dichiarazione d’indipendenza palestinese - a prescindere dal raggiungimento di un accordo di pace con Israele.
La conseguenza è che Mahmud Abbas riguadagna spazio e prestigio fra i palestinesi: eletto nel 2005 all’ombra onnipresente di Arafat, umiliato nel 2007 dal colpo di mano di Hamas a Gaza, con il mandato scaduto da oltre tre anni ed emarginato dalla recente crisi di Gaza, ora diventa il leader del nuovo Stato, incassa da Hamas il sostegno nella votazione al Palazzo di Vetro, è sostenuto da dozzine di capitali e si sente politicamente forte al punto da definire «patetica» l’opposizione dell’amministrazione Obama all’odierna risoluzione. La scelta di Abbas di far coincidere questo momento con la riesumazione della salma di Arafat - al fine di appurare se nel 2004 sia morto avvelenato - sottolinea la volontà di trasformare il voto dell’Onu nel volano di una coesione palestinese, tesa a farsi largo sulla scena internazionale a prescindere dalla pace con Israele. Da qui la scelta della data: la coincidenza con il 65° anniversario del voto dell’Onu sulla spartizione della Palestina mandataria britannica in uno Stato ebraico ed uno arabo vuole sottolineare che viene sanata quella che i palestinesi, dentro e fuori i Territori, considerano ancora oggi come una storica ferita.
Il successo di Abbas ha però come prezzo l’indebolimento degli accordi di Oslo, fondamento della pace con Israele, perché prevedevano che lo Stato di Palestina sarebbe nato attraverso negoziati bilaterali. E’ questo il motivo per cui gli Stati Uniti, garanti di quelle intese raggiunte da Bill Clinton con Arafat e Yitzhak Rabin, si sono opposti all’iniziativa di Abbas fino all’ultimo. Ieri sera William Burns, vice del Segretario di Stato Hillary Clinton, si è recato nell’hotel di Manhattan dove si trova Abbas per chiedergli, a nome di Obama, di fermarsi. Il motivo lo spiega Robert Danin, arabista del «Council on Foreign Relations» di New York, secondo cui «Abbas ottiene una vittoria di Pirro» perché il risultato sarà «un’America meno impegnata nel processo di pace» e dunque meno possibilità di intese durature con Israele.
Abbas scommette invece sullo scenario opposto, nella convinzione che la nuova legittimità gli darà più carte da giocare nel negoziato con Israele. Saranno i prossimi mesi a dire se ha ragione o meno. Al momento l’unica conclusione che si può trarre riguarda la desolante spaccatura dell’Unione Europea incapace, per l’ennesima volta, di unirsi sulla crisi israelo-palestinese con in evidenza un’Italia ancora incerta su come schierarsi.

l’Unità 29.11.12
L’Italia dica sì alla Palestina
di Umberto De Giovannangeli


Comunque lo si guardi quello di oggi all’Onu è un voto storico. Un voto «per» e non un voto «contro». Un voto per affermare il diritto di un popolo, quello palestinesi, a «sentirsi» Stato. Un diritto che può compiersi solo se s’intreccia con quello del popolo d’Israele e del suo diritto alla sicurezza.
È un voto per il dialogo, quello che viene proposto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Non è un risarcimento per il passato. È un investimento sul futuro. La Terrasanta si nutre di simboli, la cui valenza va anche oltre la politica. E il probabile via libera della più importante istituzione internazionale al riconoscimento della Palestina come «Stato non membro», ha un significato che supera i confini stessi della sua concreta ricaduta. Perché dice a un popolo oppresso che la via diplomatica paga, e che la sua liberazione è affidata ad una leadership quella del presidente Abu Mazen che ha fatto del negoziato con Israele una scelta strategica, che non prevede alternative o devastanti scorciatoie terroristiche. Un «sì» per affermare che il dialogo è l’unica alternativa alla guerra.
Quel sì è anche per Israele. Perché possa finalmente realizzare l’ambizione che fu dei padri fondatori dello Stato ebraico: quello di essere un «Paese normale», pienamente integrato in un Medio Oriente che ai «muri» sostituisca «ponti» di cooperazione. Un Paese non più in trincea. Due Stati per due popoli. È la pace dei coraggiosi: un processo avviato da Yitzhak Rabin e Yasser Arafat e che è tempo che veda una sua conclusione. Riconoscere uno Stato palestinese entro i confini del 1967 significa anche, per quanti all’Onu sosterranno la richiesta di Abu Mazen, riconoscere l’esistenza dello Stato d’Israele senza più riserve. La «pace dei coraggiosi» è un incontro a metà strada, è riconoscere non solo l’esistenza ma le ragioni dell’altro da sé. È una pace che non concede spazio ai disegni del «Grande Israele» o della «Grande Palestina».
È la pace rispettosa della legalità internazionale. In questo senso rileva a ragione Giorgio Gomel, animatore della sezione italiana di Jcall-Europa il riconoscimento dello Stato palestinese sarebbe il compimento concreto della risoluzione 181 dell’Onu del 29 novembre 1947 una coincidenza di date che colpisce che prevedeva la creazione di uno Stato ebraico e di uno Stato arabo entro i confini della Palestina-Eretz Israel. Per Israele, ciò sarebbe il riconoscimento da parte della comunità delle nazioni, inclusi finalmente i Paesi arabi e islamici, delle frontiere scaturite dalla guerra del 1948 e della sua legittimità. «Chiedere e ottenere l’indipendenza del proprio Stato è uno dei diritti naturali dei popoli, conforme alle necessità morali e a quelle dell’esistenza. In questo contesto esso rappresenta anche la base della convivenza tra i popoli israeliano e palestinese»: è quanto sostenuto in una lettera aperta da due grandi scrittori israeliani Amos Oz e Sami Michael, dall’ex ministra Shulamit Aloni e dallo storico Zeev Sternhell. L’Israele del dialogo non si è arresa alla logica, nefasta, del più forte.
L’Europa giunge a questo appuntamento nel modo peggiore. Divisa, e per questo più debole, ininfluente. Una divisione che investe pesantemente i Paesi euromediterranei. Parigi e Madrid hanno annunciato il loro sostegno alla richiesta palestinese. Roma è, al momento, «non pervenuta». Una debolezza nella debolezza. L’Europa ha pesato in Medio Oriente quando ha saputo praticare, e non solo predicare, un intervento coraggioso, condiviso, come fu quello che portò alla missione Unifil nel Sud Libano, di cui l’Italia fu promotrice decisiva.
Il voto di oggi all’Onu può rappresentare un nuovo inizio d’impegno non solo per la diplomazia degli Stati ma anche per quella, non meno importante dei popoli. Lavorare per il dialogo tra israeliani e palestinesi può essere un punto unificante per le forze progressiste italiane, una feconda pratica di «equivicinanza». L’appello perché il nostro Paese a sostenga la richiesta dell’Anp, che vede tra i suoi firmatari Pier Luigi Bersani e Nichi Vendola, va in questa direzione. E sarebbe davvero un bel segnale un investimento sul futuro, un punto qualificante per un governo di svolta se anche gli altri protagonisti delle primarie lo facessero proprio.

il Fatto 29.11.12
La Palestina all’Onu. I soliti due contro tutti
Quasi tutta la Ue favorevole all’ingresso come “osservatore”
Ma Usa e Israele restano contro
di Roberta Zunini


Questa sera sapremo se la Palestina si è guadagnata il sostegno internazionale per passare dallo status di entità a Stato non membro osservatore delle Nazioni Unite. Fosse anche solo una “promozione simbolica” - come ha spiegato ieri il governo israeliano - sarebbe una conquista importante non solo per il morale della gente ma anche per gli equilibri politici all'interno dell'Anp stessa. Specialmente dopo il successo mediatico ottenuto da Hamas la scorsa settimana a Gaza. Da quando, poco più di 12 mesi fa, il presidente dell'Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, decise di rivolgersi all'Onu per ottenere ciò che gli sarebbe spettato secondo gli accordi di Oslo del 1993, molte personalità, anche del suo entourage, criticarono aspramente la scelta.
MA IL PRESIDENTE da politico moderato ma determinato qual è, non ha voluto sentir ragione e ha continuato ad ascoltare se stesso e la gente comune. Bollata come unilaterale, forzata, ostacolo insormontabile per la ripresa dei negoziati – a logica, visto che lo scopo dei negoziati è la creazione di due Stati, uno palestinese e uno ebraico, non si capisce perché il passaggio da entità a Stato non membro osservatore debba compromettere i negoziati – nessuno però ha potuto sostenere che si tratti di una mossa violenta e arrogante. Una qualità che ha permesso a molti Stati di prendere in considerazione la richiesta senza essere tacciati di tradire Israele. Se la Russia e quasi tutti i Paesi sudamericani, daranno l’ok, non era scontato l'appoggio di Francia, Svizzera e Spagna, solo per citarne alcuni. La Gran Bretagna invece si è tirata indietro (come probabilmente farà l'Italia, la cui decisione arriverà solo oggi) dichiarando che si asterrà perché i palestinesi non hanno accettato la sua richiesta di precondizioni. Che sarebbero: non mettere precondizioni per la riapertura dei negoziati, soprattutto non chiedergli di bloccare la costruzione delle colonie e non portarlo davanti al tribunale penale internazionale per crimini di guerra. Nonostante l'approvazione sembri a portata di mano - basta la maggioranza semplice e finora 130 Paesi su 193 hanno annunciato il loro sostegno - il capo negoziatore Saeb Erekat non si sbilancia: “Stanno aumentando le pressioni e al momento non sappiamo chi sia dalla nostra parte e chi no”. I più strenui oppositori sono, ancora una volta, gli Usa che hanno ribadito come “gli Stati si formino attraverso negoziati e non ricorrendo all'Onu”.

Corriere 29.11.12
Europa di nuovo in ordine sparso. Il miraggio di una vera leadership
di Franco Venturini


Questa sera, quando l'Europa si sarà frantumata al Palazzo di Vetro esprimendo due se non tre diverse posizioni sulla richiesta palestinese di diventare «Stato osservatore» delle Nazioni Unite, i leader dell'Unione diranno che non si tratta di un dramma e che non è la prima volta.
Su quest'ultimo assunto non ci sono dubbi: l'Europa non è quasi mai riuscita a elaborare una politica comune sui grandi temi della scena internazionale, che si trattasse della guerra in Iraq, del disimpegno dall'Afghanistan o del recentissimo riconoscimento della coalizione anti Assad in Siria («rappresentante legittimo» per gli uni, «unico rappresentante» per altri).
La novità, dunque, non esiste. Ma il dramma politico, quello sì. Come altrimenti potremmo definire una Europa che ha gravi problemi interni e per questo spesso si ritrova sul banco degli imputati, che proclama di marciare (a velocità variabile) verso la sorveglianza centralizzata dei bilanci nazionali e persino verso l'Unione politica, ma che poi si rivela regolarmente incapace di compensare il suo deficit di credibilità presentandosi compatta sul palcoscenico mondiale?
Non si tratta di mettere in croce la pur inefficace baronessa Ashton che da Bruxelles dovrebbe esprimere la «politica estera comune» dell'Europa. Sono i governi, i singoli governi nazionali a muoversi ormai ognuno per proprio conto, ognuno secondo le proprie convenienze, ognuno in base al proprio calendario elettorale. Se questo avviene sul bilancio comunitario, come è accaduto nei giorni scorsi, diventa forse più agevole capire una politica fatta con il pallottoliere. Se le urne bussano alla porta, potrà essere invocato lo stato di necessità. Ma quando non è in gioco la sopravvivenza, quando il mondo si aspetta dalla Ue un segnale di vita e per di più tutti gli europei sono d'accordo sul fondo del problema (i due Stati israeliano e palestinese uno accanto all'altro, in pace e sicurezza), allora non essere in grado di lanciare quel segnale diventa un puro esercizio di autolesionismo.
All'Assemblea generale dell'Onu l'Autorità palestinese di Abu Mazen chiede di essere riconosciuta come Stato osservatore, una formula simile a quella della Santa Sede. Se la otterrà, come appare scontato, l'Autorità palestinese non potrà né votare né proporre risoluzioni. Ma avrà le carte in regola — ed è questo che inquieta Israele — per tentare di aderire alla Corte penale internazionale e in caso di successo denunciare in quella sede «crimini di guerra e crimini contro l'umanità» attribuiti al governo di Gerusalemme. L'ammissione alla Cpi non è scontata comunque vada il voto di oggi, ma Abu Mazen sostiene che i palestinesi non hanno ormai altre opzioni, che i negoziati di pace non hanno portato a nulla e sono bloccati da due anni, che nel frattempo Netanyahu ha moltiplicato gli insediamenti rendendo quasi inattuabile la soluzione dei «due Stati», che insomma dall'Onu deve venire una scossa se si vuole davvero cercare una via d'uscita pacifica. Ad Abu Mazen, aggiungiamo noi, non deve dispiacere tornare alla ribalta dopo gli otto giorni di guerra a Gaza che hanno fatto crescere la popolarità dei fratelli-nemici (questa volta solidali) di Hamas. Gli Usa appoggiano la contrarietà di Israele ma questa volta non dispongono del veto, e a Gerusalemme i propositi più bellicosi sembrano essere stati per fortuna abbandonati «se e fino a quando Israele non verrà messo sotto accusa in una corte internazionale». Ma resta il fatto che Netanyahu si appresta a incassare una sconfitta diplomatica, e non potrà dimenticare le elezioni in calendario a gennaio.
Trovatasi a dover affrontare questa cornice, complessa ma certamente probante e ampiamente prevista, la convergenza tra europei si è sciolta come neve al sole. E non può non colpire che i due Paesi che per primi si sono espressi siano stati la Francia (voto sì a favore dei palestinesi) e la Germania (tendenzialmente voto no, con possibile ripiegamento sull'astensione). Come sul bilancio comunitario, come sui tempi dell'unione bancaria e di tanti altri provvedimenti anti crisi, Francia e Germania si trovano ormai sempre più spesso l'una contro l'altra, ed è questa una ennesima bomba a orologeria piazzata sotto la costruzione europea. Nel complesso si disegnano per il voto odierno due blocchi con la possibilità che diventino tre. Una metà circa dei membri dell'Unione dovrebbe votare sì, un'altra decidere di astenersi, e poi dovrà essere verificata la posizione della Germania a metà strada (con la Repubblica Ceca) tra il no e l'astensione. Nel complesso, un voto europeo più spostato a favore dei palestinesi rispetto a quello dell'ammissione all'Unesco lo scorso anno.
L'Italia è tra quanti si sono battuti inutilmente per arrivare a una posizione europea comune, che avrebbe potuto essere soltanto l'astensione. Poi si è affiancata alla linea britannica (voto sì a condizione che i palestinesi rinuncino alla Cpi e accettino di riprendere i negoziati senza la precondizione del blocco degli insediamenti israeliani). Essendo assai dubbio che Abu Mazen accetti, diventa verosimile che l'Italia si astenga come alla fine potrebbero fare la Gran Bretagna e altri. Ma il tira e molla durerà fino alla venticinquesima ora, e potrebbe riservare sorprese.
Se il voto sarà comunque imbarazzante per l'Europa, il dopo-voto riguarderà il mondo intero. Una ripresa sollecita del negoziato tra Gerusalemme e Ramallah viene esclusa. Ma le cose potrebbero andare anche peggio, se Abu Mazen sfrutterà tutti i vantaggi del voto di oggi e Israele reagirà duramente contro l'«iniziativa unilaterale» dei palestinesi. Da domani tutti, Obama in testa, devono impegnarsi a trasformare il confronto dell'Onu in una spinta verso la trattativa. Il dramma israelo-palestinese resta beninteso assai più grande di quello europeo. Ma le pessime figure si possono fare anche non stando in prima fila, e l'Europa, ancora una volta, non si è lasciata sfuggire l'occasione.

Repubblica 29.11.12
Oggi la decisione alle Nazioni Unite
Il riconoscimento all’Onu la battaglia senza armi di Abu Mazen per la Palestina
Il voto simbolico per la Palestina che divide l’Europa
di Bernardo Valli


C’È MOLTO di surreale e di tragico nel rito che l’Assemblea generale dell’Onu si appresta a compiere nelle prossime ore. È scontato che una cospicua maggioranza del vasto campionario mondiale raccolto nel Palazzo di Vetro si pronunci in favore della promozione della Palestina da semplice organismo osservatore a Stato osservatore; ed è altrettanto scontato che la Palestina continui poi a essere l’entità territoriale militarmente occupata, qual è dal 1967; e che lo Stato tanto auspicato, promesso e temuto resti un miraggio.
In concreto, con i due tempi che scandiranno il rito dell’Onu, la Palestina passerà dallo strapuntino di semplice osservatore a un sedile riservato agli Stati che non lo sono sul serio. Il Vaticano, animato da altre ambizioni, se ne accontenta. Per la Palestina è una promozione piuttosto simbolica, anche se il voto dell’Assemblea generale ha in realtà un peso tutt’altro che insignificante, sul piano politico e morale. A dargli valore sono anche le promesse mancate. Quante volte è stato auspicato, annunciato uno Stato palestinese?
IN QUESTO senso il voto è una prima, timida riparazione. Denuncia l’incapacità di ieri e di oggi di chi conta nel mondo. Basta osservare come ci si è dati da fare nelle ultime ore per impedirlo. Ed è evidente l’angoscia dei paesi europei, il cui voto farà la differenza nella qualità del risultato. La loro scelta riguarda la giustizia, non solo la politica.
Surreale è senz’ altro la procedura e tragico il risultato se li si mette a confronto con le aspirazioni degli abitanti di quella Terra troppo santa e troppo contesa. Nell’autunno di un anno fa, Abu Mazen, presidente dell’Autorità palestinese, aveva chiesto che il suo paese, fino allora presente all’Onu con l’OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina) nella veste di semplice osservatore, diventasse uno Stato membro a pieno titolo. Ma quel tentativo è fallito perché, dopo il voto dell’Assemblea generale spettava al Consiglio di Sicurezza decretare l’ammissione di uno Stato membro a pieno diritto, e gli Stati Uniti avrebbero posto il veto. Washington riteneva e ritiene infatti che si debba arrivare al riconoscimento di uno Stato palestinese attraverso negoziati con Israele e non con «un colpo di mano» alle Nazioni Unite. L’esigenza della Casa Bianca coincide con quella israeliana, e blocca la situazione, perché la società politica di Gerusalemme vive una stagione di grande intransigenza. La quale assomiglia a un rifiuto a vere trattative. Alla vigilia delle elezioni politiche, previste per gennaio, nel Likud, principale partito al governo, ha prevalso alle primarie la corrente meno incline a un autentico dialogo con i palestinesi.
Un anno dopo, Abu Mazen comunque ci riprova, ma con una richiesta meno impegnativa. All’Assemblea generale, dove il veto americano non conta, chiede appunto, oggi, che la Palestina sia promossa da entità osservatrice a Stato osservatore (e non a Stato membro, come richiesto nel 2011). Votare l’ammissione di un paese a quel titolo non significa riconoscere diplomaticamente lo Stato, e quindi dichiarare ambasciata la rappresentanza che i palestinesi hanno già in tante capitali.
All’interno delle Nazioni unite il nuovo status aprirebbe tuttavia a loro alcune porte. Ad esempio quella dell’Organizzazione mondiale della sanità o del Programma alimentare. Quella della Corte penale internazionale comporta più problemi, perché in quella sede i palestinesi potrebbero denunciare gli israeliani e quindi promuovere processi scomodi per lo Stato ebraico. C’è stato un fitto andirivieni tra Washington, Gerusalemme e Ramallah, dove risiede Abu Mazen, per convincere quest’ultimo a impegnarsi su alcuni punti: in particolare a non ricorrere alla Corte Penale internazionale, quando ne avrà acquisito il diritto. In proposito americani e israeliani avrebbero ottenuto una vaga promessa: i palestinesi hanno detto che non usufruiranno di quella possibilità durante i primi sei mesi. Poi si vedrà. Saeb Erekat, principale negoziatore palestinese, ha respinto un invito a Washington per evitare le pressioni americane. Quando nell’ottobre 2011 la Palestina fu ammessa all’Unesco come Stato membro, gli Stati Uniti sospesero i finanziamenti all’agenzia incaricata della cultura e dell’educazione. Finanziamenti pari a più del venti per cento del suo bilancio. Quali rappresaglie saranno adottate in questa occasione?
Gli israeliani ne hanno agitate parecchie: abrogazione degli accordi di Oslo del 1993, che regolano i rapporti tra Israele e l’Autorità palestinese; aumento degli insediamenti in Cisgiordania che contano già più di seicentomila coloni; confisca dei diritti di dogana; proibizione ai dirigenti palestinesi di uscire dalla Cisgiordania: ma di fronte alla tenacia di Abu Mazen il governo di Gerusalemme ha abbassato i toni. E non si parla più di sanzioni. Dice Yigal Palmor, portavoce del ministero degli esteri, che nulla accadrà se i palestinesi si accontenteranno di fare festa a Ramallah per celebrare la loro vittoria simbolica, e poi ritorneranno sul serio al tavolo dei negoziati. Ma Abu Mazen sa che non può andare a trattative alle condizioni poste dagli israeliani.
Il suo non è soltanto un confronto con Gerusalemme. La battaglia di Gaza, dove gli avversari palestinesi di Hamas celebrano la vittoria che si sono aggiudicati, ha ridotto il suo già scarso prestigio. Gli esaltati combattenti di Hamas considerano la moderazione Abu Mazen come una forma di collaborazionismo. L’iniziativa all’Onu è la sua battaglia incruenta. È l’offensiva politica dei palestinesi che rifiutano l’uso delle armi. Questo è un motivo per assecondarla. È vano condannare il terrorismo se poi non si tende la mano a chi lo rifiuta.
Anche tra quelli di Hamas sono emerse in queste ore alcune voci in suo favore. Il voto di New York interessa Gaza, dove si è imparato che le armi servono a sfogare la collera, a combattere i soprusi, ma non a risolvere i problemi. Alla vigilia dell’appuntamento di New York, Khaled Meshaal, uno dei leader (Mohammed Morsi, il presidente egiziano, l’ha voluto al suo fianco durante la crisi di Gaza) ha dato un pubblico appoggio a Abu Mazen. Lo ha fatto in aperta polemica con Ismail Haniye, il primo ministro. Entrata in società dopo un lungo isolamento, grazie agli alleati e ispiratori egiziani, i Fratelli musulmani al potere al Cairo, e lusingata dai gesti d’amicizia della Turchia di Erdogan, la gente di Gaza seguirà il voto all’Assemblea generale come se fosse una battaglia. L’esito potrebbe contribuire col tempo a demolire le mura del loro ghetto.
Sugli europei incombe nelle prossime ore una grossa responsabilità. Come al solito non sono riusciti a prendere una decisione comune. E quindi vanno dispersi al voto. Ma devono sapere che il loro parere contrario o anche una astensione, con l’inevitabile sapore di viltà, significherebbe una sconfitta per Abu Mazen, e in generale per i palestinesi che come lui rifiutano la violenza e ricorrono alla politica. Decine di ministri arabi visitano Gaza, dove si festeggia un’azione militare che ha appena fatto decine di morti, e migliaia nel passato. È difficile per un europeo rifiutare, a un vecchio leader armato della sola parola, un voto simbolico che, non solo per i palestinesi, ma anche obiettivamente per gli israeliani, è un segnale di giustizia.

La Stampa 29.11.12
Sempre meno sposi I giovani scelgono la famiglia di fatto
Al Nord le nozze civili superano quelle in chiesa. E l’età media delle unioni sale oltre i trent’anni
A Livorno e a Trieste sei coppie su dieci scelgono il Municipio
Il calo più forte si registra in Sardegna Campania, Marche e nell’Abruzzo
di Flavia Amabile


Ci si sposa di meno, e non è solo una questione di crisi. I matrimoni costano cari, si sa, l’abito bianco, il banchetto la location e tutto il resto possono arrivare facilmente a sfiorare i 10 mila euro. Ma con i tempi che corrono, se proprio si ha voglia di un legame ufficiale, nessuno si scandalizzerebbe per un pic-nic su un prato e una merenda. La verità è che manca la solidità, manca la visione di un futuro necessaria per andare davanti a un prete o a un pubblico ufficiale e pronunciare un «Sì» per sempre.
Chi si sposa, infatti, lo fa sempre più spesso dopo i 30 anni, dicono i nuovi dati Istat diffusi ieri sul matrimonio in Italia. In media si arriva alle prime nozze a 30 anni suonati: a 34 anni per gli uomini e 31 per le donne; circa sette anni in più rispetto a quanto accadeva nel 1975, e tutti i confronti con i nostri genitori confermano un divario che è un abisso.
Nel 2011 sono stati celebrati 204.830 matrimoni, 12.870 in meno rispetto al 2010. Non è una novità, è dal 1972 che i matrimoni sono sempre meno interessanti per le nuove coppie, ma negli ultimi quattro anni la diminuzione è stata ancora più vistosa. Lo scorso anno le prime nozze tra sposi di cittadinanza italiana sono state 155.395, circa 37 mila in meno rispetto agli ultimi quattro anni. In lieve ripresa i matrimoni con almeno uno sposo straniero.
Ci si sposa di meno ovunque, anche se tra il 2008-2011 il calo più marcato si è avuto in Sardegna (-7,7%), in Campania, nelle Marche (-6,9%) e in Abruzzo (-6,6%). E chi si sposa spesso preferisce il rito civile a quello religioso: nel 2011 in comune sono stati celebrati 80.387 matrimoni, l’11,3% in meno rispetto al 2008. Al Nord per la prima volta le nozze civili superano quelle in chiesa, raggiungendo il 52% mentre al Centro sono al 47% e al Sud al 23%. Solo 15 anni fa i matrimoni civili non erano nemmeno il 20% del totale delle celebrazioni. Fra i dati diffusi dall’Istat spicca quello di Livorno e Trieste dove a scegliere il rito civile sono più di sei coppie su 10 (il 62,5%). Al matrimonio si preferisce un modello meno impegnativo, più precario. Le unioni di fatto sono passate da circa mezzo milione nel 2007 a 972 mila nel biennio 2010-2011. Questo spiega il continuo aumento di bambini nati fuori del matrimonio: nel 2011 un neonato su 4 ha genitori non sposati e il bisogno di arrivare ad una legge che equipari i diritti di figli legittimi e naturali, provvedimento approvato in via definitiva due giorni fa dalla Camera.
Oltre alle unioni di fatto, aumentano le convivenze prematrimoniali, che ritardano il momento del vero e proprio matrimonio. E poi ci sono quelli che negli anni si sono visti affibbiare ogni tipo di etichetta, dai bamboccioni ai mammoni, quelli che restano a vivere con mamma e papà. Nei due anni tra 2010-2011 hanno preso questa decisione oltre il 50% dei maschi e il 34% delle femmine tra i 25 e i 34 anni. Questo fenomeno dipende da vari fattori: l’aumento diffuso della scolarizzazione e l’allungamento dei tempi formativi, ma soprattutto «le difficoltà che incontrano i giovani con il mondo del lavoro: la disoccupazione altissima o la condizione di precariato del lavoro stesso rendono difficile programmare il futuro, andare ad abitare in proprio», sottolinea l’Istat in una nota.

La Stampa 29.11.12
Giulia Faccini, Avvocato: «Essere conviventi è molto più semplice»
di Maurizio Ternavasio


L’avvocato torinese Giulia Faccini si occupa dei diritti della persona, della famiglia e dei minori. A che cosa ritiene sia addebitabile il calo dei matrimoni religiosi e di quelli civili?
«Ci si è resi conto che è meno impegnativo essere conviventi, anche perché se si cambia idea e ciò accade sempre più spesso si fanno meno danni. Però sono di molto aumentati i procedimenti riguardanti i fallimenti delle coppie di fatto con figli, sino ad ieri di com petenz a del Tribunale dei minori».
Intanto, chi si sposa, lo fa sempre più tardi...
«Sicuramente ha il suo peso una crisi che tocca molto da vicino i più giovani, ma anche il fatto che, potendo fare in casa ciò che vogliono anche dal punto di vista sentimentale, non avvertono più il bisogno di cercare l’amore mettendo in piedi una nuova famiglia».
A suo avviso tutto ciò è dovuto più alla crisi economica, oppure a quella sociale?
«Credo che i cambiamenti siano partiti dal 1975, anno del nuovo diritto di famiglia, quando si è passati da una società gerarchica, in cui prevaleva il padre di famiglia, ad una società di pari dalle troppe aspettative sentimentali e nella quale quando la coppia scoppia, la si cambia. In pratica la società è “liquida” anche nei rapporti interpersonali».
Quali saranno, a suo avviso, i trend futuri?
«Chi può dirlo? Ma non escluderei che la crisi di valori e quella economica possano riportare le coppie ad una maggior stabilità affettiva, a cercare insomma al loro interno una sorta di rifugio».

l’Unità 29.11.12
Bersani: politica non solo per ricchi
Essere se stessi fino in fondo «Il confronto? Con gli operai»
La «ditta» rimane in testa ai pensieri del leader Pd che vede nelle primarie uno strumento per «rompere il muro che si è creato tra cittadini e politica»
di Simone Collini


Facciamo ‘sto confronto. A che ora è domani con i lavoratori di Piombino?». Ecco, è tutto in quest’uscita di poco precedente l’inizio della trasmissione su Rai 1 Pier Luigi Bersani. Il sigaro Toscano tra le labbra, l’aria di chi già pensa ad altro prima ancora che si accendano le luci degli studi Dear. All’incontro di stamattina con i lavoratori delle acciaierie di Piombino, dove ci sono seimila posti in bilico, per esempio. O all’iniziativa di stasera al Teatro Politeama di Napoli per discutere insieme a Nichi Vendola di lavoro, diritti, Mezzogiorno, che dovrebbe garantire al leader del Pd una bella fetta di quel 15% incassato dal leader di Sel al primo turno. O alle tappe di domani in Toscana, per strappare consensi a Matteo Renzi laddove domenica scorsa è andato meglio. O, ancora, alla chiusura della sua campagna delle primarie, sabato, a Torino, la città che quattro giorni fa gli ha consentito di aggiudicarsi il Piemonte.
Perché questa è in sintesi la strategia del leader Pd per questo rush finale: riprendersi i voti del primo turno (300 mila in più di quelli ottenuti da Renzi), convincere gli elettori che hanno votato Vendola a dargli fiducia (e se non è stata programmata una tappa in Puglia è proprio perché, come dice il sindaco di Bari Michele Emiliano, «qui è sufficiente la presenza di Vendola per Bersani»), strappare consensi tra quelli che domenica scorsa hanno scelto Renzi per la promessa di cambiamento. Il leader del Pd ha deciso di scendere sul terreno scelto dall’inizio dal sindaco di Firenze, ma a modo suo, senza fare annunci che valgono per il futuro ma ricordando quanto fatto in passato quando ha governato, perché «il cambiamento non è fatto di slogan e ho fatto più riforme io di quante ne chiacchierino tanti altri». E il confronto con Renzi su Rai 1, in tutto questo? Per Bersani incide fino a un certo punto.
La riunione con il suo staff che doveva servire a discutere dell’appuntamento televisivo finisce in dieci minuti. Nessuna simulazione di domande e risposte, nessuno sparring partner a vestire i panni del rottamatore e menare fendenti. Anzi, poco dopo l’incontro nel suo studio al Nazareno Bersani posta su twitter una foto in cui si vede Miguel Gotor che lo fa sganasciare dalle risate, col titolo: «Mi preparo al confronto di stasera con il mio staff».
IL CAMBIAMENTO NON SI ANNUNCIA
Un modo per spiazzare Renzi? Fino a un certo punto. Spiega lo stesso storico dell’età moderna, che in questi mesi ha girato l’Italia per iniziative a sostegno della candidatura di Bersani: «La sua forza è essere se stesso, non c’è bisogno di chissà quali strategie comunicative». E se Renzi ha continuato e continuerà a battere sul tasto del cambiamento, durante la riunione al Nazareno ci vuole poco a trovarsi tutti d’accordo che a Bersani conviene insistere sull’esperienza come valore, sul fatto che quando ha governato ha sempre portato cambiamenti. E anche che gli conviene mantenere un profilo autorevole e rassicurante, senza inseguire l’avversario sul terreno degli annunci. «L’Italia è stanca della propaganda è il ragionamento di Gotor e i cambiamenti si fanno, non si annunciano, perché disturbano e bisogna evitare che le sacche corporative si allertino».
Per Bersani evitare la rissa, a prescindere da quello che dice e che ancora potrà dire Renzi in questa chiusura di campagna per le primarie, è d’obbligo. Non solo perché farebbe soltanto il gioco dell’inseguitore, ma perché a risentirne sarebbe il partito di cui è segretario, che è ciò che proprio non può permettersi. L’ultimo sondaggio effettuato da Nando Pagnoncelli dà infatti il Pd al 34%. E non a caso lunedì scorso dietro le quinte di un altro studio televisivo, quello di “Che tempo che fa”, Bersani incrociando Renzi gli ha detto con un sorriso: «Dai che stiamo andando alla grande, siamo al 33%, non roviniamo il clima».
La «ditta» rimane in testa ai pensieri di Bersani, che vive queste primarie come uno strumento per «rompere il muro che si è creato tra cittadini e politica» e come una tappa verso il vero obiettivo, le elezioni politiche della prossima primavera. Né un clima di tensioni attorno al partito né una rissa interna servirebbe allo scopo. Bersani lo sa, e si muove di conseguenza.

l’Unità 29.11.12
Martin Schulz: «Pier Luigi vincerà ballottaggio e elezioni»


Un endorsment oltre frontiera per il segretario del Partito democratico. «Sono molto contento del successo di Bersani domenica scorsa. Siamo intimi amici: credo che vincerà anche il ballottaggio e poi le elezioni di primavera». A dirlo è stato Martin Schulz, presidente del Parlamento Europeo, parlando ieri con l’agenzia di stampa Ansa. «Proprio ieri ho parlato con Pierluigi racconta . La mia interpretazione del voto alle primarie è molto semplice: se uniamo i consensi suoi a quelli di Nichi Vendola emerge una chiara maggioranza di sinistra all’interno della coalizione».Alla domanda su cosa ne pensa dell’exploit di Beppe Grillo, Schulz risponde: «È l'effetto della protesta, un fenomeno presente in tutta Europa».

La Stampa 29.11.12
Pier Luigi: “Basta usare gli slogan degli avversari”
“Una generazione nuova per il Paese”
Finanziamento ai partiti Al contrario di Renzi non vuole abolirlo perché altrimenti «solo i ricchi faranno politica»
di Carlo Bertini


Il messaggio che vuol veicolare Pierluigi Bersani dopo aver ricevuto l’endorsement di Vendola, è quello di chi è sicuro di vincere il ballottaggio. E quindi, sotto i riflettori, il leader Pd non tira fuori colpi a sorpresa, ma batte sui suoi tasti: lavoro, equità, moralità e cambiamento. Le maggiori scintille, sui costi della politica e sulle alleanze: «Se non vogliamo l’Udc, Vendola, nessuno... l’ultima volta così ha vinto Berlusconi. Se si allude a Sel, è una forza europeista. Rispetto a Monti tutti sentiamo che dobbiamo andare un po’ oltre, mettendoci più equità e più lavoro. Ma attenzione a non usare gli argomenti dell’avversario. Nell’Unione eravamo 12 partiti e non c’era il Pd, che ora è il primo partito: sai bene Matteo che garantiamo all’Europa e al mondo che siamo in condizione di governare, ciò non va messo in discussione! ». Quindi, alleanza che va da Sel ai socialisti e un accordo di programma con forze moderate e di centro. Governo? «Di venti persone, metà uomini, metà donne e con una generazione nuova». Le prime tre cose che farei? «Cittadinanza ai figli di immigrati, norma secca anticorruzione e una sul lavoro e la piccola impresa». E sui diritti? «Unioni civili sul modello tedesco, che Casini sia d’accordo o meno. E legge antiomofobia».
Sui costi della politica, «abbiamo abolito i vitalizi, dimezzato il finanziamento ai partiti. Non c’è ragione poi di far guadagnare un deputato più di un sindaco. Ma sul finanziamento pubblico non mi rassegno che solo i ricchi facciano politica».
La prima domanda è sulla crisi. «Da qui a Natale non si risolve, non prometto l’anno prossimo 20 miliardi di euro ma si deve far qualcosa per mettere soldi in tasca a chi ha più bisogno». Seconda, troppe tasse, possono calare? «Per umanità agli evasori mandiamo l’ambulanza ma non ne avrebbero diritto. O si combatte l’evasione e si fa finta. Bisogna abituarsi a non usare il contante. E attaccare i paradisi fiscali». Politica industriale, cosa fare? «Bisogna occuparsene, se uno non lo fa... » dice Bersani con una frecciata implicita al governo. Richiama Renzi che attacca la riforma delle pensioni dell’ultimo governo di centrosinistra, «bisogna che approfondisci, abbiam messo noi in sicurezza il sistema», attacca il governo sulla scuola, «agli insegnanti non riusciamo a dare i soldi, ma almeno trattiamoli bene». Ad Obama direbbe «siamo un Paese europeista e amico degli Usa, poi un paio di cosucce le direi su Afghanistan e F35, coi tempi che corrono parliamone», ed è l’unica concessione che fa al suo alleato Vendola. L’appello finale lo dedica a una bambina di 4 anni che «ieri mi ha detto “per Natale voglio una bambola rossa o lo stipendio della mamma”. Prometto questo: cercherò di guardare il mondo da quel punto di vista lì e solo così si fa un Paese migliore».

l’Unità 29.11.12
Iscrizioni anche on line «Le regole non mutano»
I garanti respingono il ricorso dei renziani sulla «delibera 25» riguardante il ballottaggio
Attraverso email e fax possibile fare la richiesta di partecipazione: ma deciderà l’Ufficio provinciale
A Roma i comitati del sindaco hanno preteso il riconteggio delle schede di domenica perché insospettiti dal flop del loro leader
Risultato: alla fine della conta i voti attribuiti al sindaco erano 70 in più. Glieli hanno tolti.
di Maria Zegarelli


ROMA Sarà un tormentone con tanto di strascichi polemici che andranno ben oltre il ballottaggio di domenica. Meglio che gli elettori delle primarie se ne facciano una ragione. Matteo Renzi, Lino Paganelli e lo staff al completo vogliono riaprire le iscrizioni anche per chi non lo ha fatto entro il 25 novembre. Obiettivo: 200mila nuove iscrizioni, pari all’8% di coloro che hanno votato al primo turno. Vale a dire: cambiare la platea elettorale e puntare così al sorpasso che sondaggi alla mano ora sembra impossibile.
Ieri il Coordinamento delle primarie ha deciso che le richieste di iscrizioni al ballottaggio potranno avvenire anche via fax e on line e non soltanto presso l’Ufficio centrale provinciale del Comune di residenza (in tutto saranno circa 120). «Una decisione tecnica», spiega Roberto Cuillo, responsabile Informazione, «per facilitare chi si trova distante, magari 40 o 50 chilometri, dall’ufficio Centrale provinciale a cui si deve presentare la richiesta» tra oggi e domani. Basta questa notizia per far gridare alla vittoria i renziani, su Facebook parte la battaglia «mail-bombing», vale a dire «uno strumento di pressione mediatica molto forte per riaprire a tutti la possibilità di registrarsi», spiega un rappresentante renziano. Insomma, poco importante se c’è stata l’impossibilità, «per cause non dipendenti dalla propria volontà», come prevede il Regolamento, basta «l’autocertificazione», dicono i pro-sindaco. Dal programma radiofonico «la Zanzara», Alessandra Moretti, portavoce di Bersani tira il freno a mano: «Ventuno giorni per registrarsi mi sembra un tempo lungo. Se ti sei rotto braccia e gambe in quei giorni sei giustificato. Casi eccezionali, dice il regolamento. Alla fine saranno poche migliaia in più». Moretti ricorda a Renzi «che il ballottaggio l’ha voluto Bersani, altrimenti avremmo vinto al primo turno».
Ma ormai sul web è partita la mobilitazione, si moltiplicano gli inviti a far partire mail e fax, i botta e risposta non si contano. Tanto che alla fine il presidente dei Garanti, Luigi Berlinguer, spiega: «Vorrei tranquillizzare tutti: le regole delle primarie non sono cambiate. Restiamo infatti fedeli al principio che tra il primo e il secondo tempo non si modificano le regole del gioco. La platea elettorale non può essere modificata se non per casi eccezionali come del resto hanno convenuto pubblicamente illustri costituzionalisti».
Aggiunge anche che si è voluto soltanto andare incontro, dando uno strumento in più, la mail o il fax, a coloro che non si sono potuti iscrivere entro il 25 dicembre perché impossibilitati. Arrivano anche ulteriori precisazioni: su ogni richiesta di nuova iscrizione si pronunceranno gli uffici elettorali provinciali che saranno composti da un rappresentante del Pd, uno del Psi e uno di Sel. In caso di mancato accordo, l’ammissione sarà messa ai voti. Entro sabato 1 dicembre arriverà la risposta e se la richiesta è stata accettata ci sarà anche l’indicazione sul seggio in cui andare a votare. Chiede serietà Sergio Boccadutri, rappresentante di Sel nel coordinamento, secondo il quale «sarebbe scorretto riaprire i termini per tutti» e invita a spedire insieme alla richiesta saranno «ben accetti gli allegati e qualsiasi elemento possano portare a prova di una causa ostativa».
Il sindaco rottamatore nella sua newsletter scrive: «la differenza di votanti al primo turno è meno di 300mila voti. Bene, ci sono 600mila voti in libertà tra chi ha votato altri candidati, ce ne sono altri di quelli che potranno registrarsi anche se solo entro venerdì, io sono certo che saranno almeno altri 200mila come minimo». Dice che «un leader non può aver paura. Se uno ha paura delle giustificazioni on line come farà domani a rinnovare la burocrazia pubblica puntando sulla digitalizzazione dopo che per votare ci hanno fatto firmare cinque moduli cartacei?». Davide Zoggia non fa attendere la replica: «Renzi torna a dare i numeri. Dopo i 4 milioni, i 5 punti, oggi sono i 200 mila di una possibile riapertura delle iscrizioni all`albo dei votanti. L`unica verità è che non si riparte da zero perché ora siamo al ballottaggio, cioè siamo alla seconda parte dello stesso procedimento elettorale».
Nel mezzo di questa polemica tanto per non distendere i toni Lino Paganelli in un’intervista attacca a testa bassa il Pd: «Neppure i comunisti della Ddr», avrebbero fatto tanto, dice. Cuillo non riesce a crederci: «Non mi sarei mai aspettato una dichiarazione del genere da una persona che sta nel mio stesso partito e conosco da così tanti anni». Per Paolo Fontanelli, rappresentante di Bersani nel Coordinamento, è un’intervista «esagerata nei toni, senza neppure una parola di ringraziamento alle migliaia di volontari che stanno lavorando per le primarie, inesatta e fuorviante nel merito. Inoltre lontana mille miglia dal confronto che abbiamo avuto nel Coordinamento».
«Mi sono preso anche il tapiro d'oro per le regole delle primarie del Pd. Proprio a me! Fantastico», twitta ad un certo punto il sindaco dopo aver ricevuto l'ironico riconoscimento di «Striscia la Notizia». Ma c’è poco da stare allegri. Al Comitato dei garanti un renziano doc ha inviato un ricorso (che i garanti hanno respinto) contro la delibera 25 che attribuisce il potere ai Comitati provinciali di stabilire chi potrà iscriversi e chi no chiedendo di fatto un’apertura indiscriminata. Ultimo flash: a Roma i comitati del sindaco hanno preteso il riconteggio delle schede di domenica perché insospettiti dal flop del loro leader. Risultato: alla fine della conta i voti attribuiti al sindaco erano 70 in più. Glieli hanno tolti.

l’Unità 29.11.12
Nichi Vendola
«Scelgo Bersani, fa cose di sinistra Renzi è in sintonia con Merkel»
di Andrea Carugati


BOLOGNA In questa «giornata terribile per la Puglia», in cui sull’Ilva si è accanita persino una tromba d’aria, Nichi Vendola fatica a distogliere l’attenzione dalle vicende di Taranto, a partire dall’operaio ancora dispero: «I danni dell’inquinamento, quelli del surriscaldamento del clima: tutto intorno a noi ci dice di come la crisi ambientale abbia ormai assunto un carattere strutturale che impone una riconversione dell’agire politico, squarciando l’agenda delle pigrizie culturali».
Lei però resta molto freddo sul decreto che domani (oggi, ndr) il governo varerà sull’Ilva...
«Non sono d’accordo con qualcosa che possa confliggere con l’attività giudiziaria. Aspetto di vedere il testo. Noi pensiamo che il cuore di una iniziativa positiva stia nella accelerazione della valutazione di danno sanitario. Noi abbiamo introdotto questo parametro rivoluzionario per legge, che prevede che l’industria pesante non debba solo rispettare i limiti delle emissioni, ma dimostrare di non pregiudicare la salute e, in caso di danno, adottare interventi correttivi. Nell’Autorizzazione integrata ambientale questa indicazione è stata accolta, ora si tratta di renderla operativa. È possibile in tempi rapidi avere una fotografia del danno sanitario e una indicazione chiara sugli interventi da fare per interrompere la catena di reati. Se questo percorso venisse completato in modo efficace, credo che ci potrebbe essere anche una rivalutazione dei provvedimenti giudiziari».
È possibile ipotizzare una nazionalizzazione dell’Ilva?
«Bisogna discutere laicamente di questa ipotesi, del resto anche Hollande ha ipotizzato la nazionalizzazione di una grande acciaieria francese. Dal governo mi aspetto una proposta chiara, che non appaia né come un de profundis per una fabbrica che invece va salvata, e neppure come uno scaricabarile: per anni come Regione siamo stati lasciati soli a scoperchiare una realtà come l’Ilva che per decenni era stata coperta da omertà anche istituzionali. E oggi ricevere l’accusa di inerzia per me è davvero paradossale». Veniamo alle primarie. Per chi voterà al ballottaggio?
«Voterò Bersani, e lo farò perché è una persona perbene, uno dei rari leader politici non affetti da cinismo, un amministratore di talento e soprattutto un uomo di sinistra. Un socialista europeo figlio della migliore tradizione del riformismo italiano».
In cosa consiste quel «profumo di sinistra» che lei dice di aver annusato ascoltando Bersani?
«Non c’è dubbio che il lessico e la sensibilità di Bersani sono lontani anni luce dal post-modernismo di ispirazione liberista di Renzi. A Pier Luigi voglio dire che il mio voto l’ha conquistato, ma deve fare lo stesso con quello dei miei elettori. E per farlo non basta il mio sostegno». Cosa dovrebbe fare?
«Deve andare oltre il profumo, fare scelte forti e in controtendenza rispetto al pensiero dominante. Faccio un esempio: davanti al premier Monti che evoca la fine del servizio sanitario nazionale servono parole molto più chiare. Così sulla difesa della scuola pubblica e sulle spese militari. Ci sono orecchie attente, soprattutto tra i più giovani. Ora Bersani può e deve accendere una speranza nel Paese».
Renzi sostiene che una quota dei suoi voti siano anti-apparato, contro l’establishment del Pd. E quindi recuperabili proprio dal sindaco rottamatore...
«Non c’è dubbio che dopo la fine del berlusconismo non si è messa a fuoco la crisi di quel modello sociale liberal-populista, ma tutta la politica è stata messa sul banco degli imputati senza distinzioni. Questo ha consentito di occultare le ragioni della crisi, a partire proprio dalla subalternità della politica ai poteri finanziari e dalla sua distanza dal mondo del lavoro». E questa la critica più dura che lei fa a Renzi: non aver rotto questo modello liberista?
«Da rottamare è questo modello sociale che ci ha privato di una dimensione comunitaria e solidale e rende sempre più anoressico lo Stato sociale. In Renzi non c’è alcun cenno critico verso l’austerity e la cultura liberista, nessuna eco rispetto all’America che chiede il recupero di un approccio keynesiano».
Se dovesse vincere il sindaco lei resterebbe nella coalizione?
«Io lavorerò perché vinca Bersani, questa per me è la priorità e non discuto neppure della subordinata».
Torniamo ai suoi elettori: sono o no rottamatori?
«I miei elettori sono in primo luogo sensibili a quel profumo di sinistra...». Eppure Renzi come lei dice no ad una alleanza con Casini...
«È solo un giochino. Sul mercato del lavoro il sindaco è più a destra dell’Udc, sulla riforma delle pensioni la pensano allo stesso modo. Devo però ammettere che sul piano della tattica è molto bravo a depistare. Ma a me pare che, sui contenuti, il sindaco sia più in sintonia con la Merkel che con Hollande. Un’altra buona ragione per scegliere Bersani».
Che ruolo immagina per se in un eventuale governo di centrosinistra?
«Non sono capace di ragionare di politica a partire dalla mia carriera. Ho sempre scelto insieme ai miei compagni, farò lo stesso questa volta».
Lei sarà candidato alle elezioni alla guida delle liste di Sel?
«Una domanda prematura, per me l’obiettivo è costruire il partito del futuro, il soggetto capace di raccogliere le energie dei popoli di sinistra, di ricostruire la coalizione del lavoro e dei diritti».
Vuol dire che pensa a una lista comune con il Pd?
«Non intendo ridurre il tema della sinistra del futuro a una questione organizzativa».

Corriere 29.11.12
Si delineano le alleanze. Ma il centrosinistra sente aria di vittoria
di Massimo Franco


L' impressione è che la prossima settimana definirà il grosso delle alleanze per le elezioni politiche; e forse anche alcuni dei candidati a palazzo Chigi. Non soltanto dunque quello del centrosinistra, deciso nel ballottaggio di domenica fra Pier Luigi Bersani, segretario del Pd, e il sindaco di Firenze, Matteo Renzi. Diventeranno più chiari anche i contorni ed i termini della frattura e del vuoto che si stanno creando nel fronte berlusconiano: a cominciare dalla «lista personale» di Silvio Berlusconi, ai rapporti col «suo» Pdl e alla possibilità che Angelino Alfano celebri davvero le primarie. Il contestato ritorno del Cavaliere sta avendo come primo effetto quello di affossarle.
Ma soprattutto, presto si capirà se il margine sottile per approvare una riforma elettorale esiste davvero o è l'ennesima schermaglia. Le tre scadenze sono destinate a intrecciarsi al di là dell'esito di ciascuna. La sfida fra Bersani e Renzi è osservata da alcuni spezzoni del centrodestra con l'interesse di chi punta sul «primo cittadino» di Firenze per destabilizzare la candidatura del segretario alla presidenza del Consiglio. Un Pdl tormentato dai conflitti interni guarda, magari in modo strumentale, alla conta in atto nel Pd. Approva l'aggressività di un Renzi che ritiene vantaggioso attaccare per strappare voti a Bersani; e che per questo lo accusa di essere «candidato ma anche arbitro»: un'allusione velenosa alle regole del ballottaggio come un vantaggio per il segretario. Non è chiaro se sia un'arma per giustificare in modo preventivo una sconfitta; oppure solo una polemica passeggera.
Il tentativo di calamitare quanti domenica scorsa hanno votato per Nichi Vendola è esplicito da parte di entrambi. Il segretario di Sel si prepara ad appoggiare Bersani in una manifestazione comune in programma oggi a Napoli. «Pier Luigi sta dicendo parole che profumano di sinistra», afferma Vendola. Ma Renzi tenta di convincere almeno una parte di quei 500 mila che non hanno più un candidato a scegliere lui in nome del rinnovamento.
Il centrosinistra, tuttavia, si muove come chi pensa di avere già la vittoria in tasca. È il campo opposto a presentarsi come una voragine disseminata di macerie e segnata dall'incertezza. L'idea di Berlusconi sarebbe quella di creare una sorta di federazione di movimenti che marciano divisi e colpiscono uniti; e questo comporterebbe di fatto la liquidazione del Pdl. L'istinto di sopravvivenza porta invece Alfano e la sua nomenklatura a contrapporsi alla strategia berlusconiana. Ma è una resistenza disperata, che conferma quanto sia difficile guidare e cambiare il Pdl contro la volontà del suo fondatore.

Corriere 29.11.12
Due idee di Italia (e di partito). Una storia che ha cambiato il Pd
di Pierluigi Battista


Un conflitto politico aperto, esplicito. Non solo di stile, come dicono gli esperti di marketing politico, ma di contenuti, di modelli, di visioni del mondo. Persino sul Medio Oriente Pierluigi Bersani e Matteo Renzi sono su posizioni antitetiche. Nell'assenza di un antagonista di centrodestra, chi vincerà queste primarie darà un profilo marcatamente diverso anche alla Farnesina.
Un conflitto vitale. Ieri sera è sembrato che Bersani accettasse questa discussione con la pazienza del saggio molestato da un ragazzo scalpitante. Lui che le primarie le ha accettate, anche a costo di entrare in attrito con una parte influente della nomenclatura di partito, non dovrebbe sbagliare pensando che un conflitto così aspro sia un limite o un ostacolo all'unità, o un'esuberanza giovanile da domare con la saggezza dell'esperienza. Invece tutti gli spettatori che hanno assistito al duello tra Bersani e Renzi hanno perfettamente capito che il governo del dopo-elezioni sarà diversissimo a seconda del nome del vincitore. È la prima volta nella storia del Pd, la prima nella storia del centrosinistra, la prima nella storia italiana.
Diversità sul mercato del lavoro, diversità sul finanziamento pubblico dei partiti, diversità sulla scuola, sulla ricerca, sul merito, diversità sulla politica internazionale, diversità sulle alleanze, diversità sulle liberalizzazioni, sulla politica industriale. Bersani è il custode dell'insediamento tradizionale della sinistra, è il modello della continuità, è il disagio nell'aver sostenuto le misure dell'agenda Monti (persino sulla riforma delle pensioni). È l'erede della tradizione «lavorista» della sinistra, diffidente con il liberalismo, sospettoso del mercato, tendenzialmente dirigista. È il filo che lega il presente al passato e parla alla sinistra che ha paura del salto nel buio. Renzi è post-ideologico. Attacca la riforma Berlinguer sulla scuola, contestandone la natura di sinistra, e proponendo un'altra identità della sinistra che il mondo di Bersani non apprezzerà mai. Attacca la continuità (e anche le colpe di chi, come il segretario del Pd, è stato al governo «per 2.547 giorni»), sottolinea le lacune dell'azione della sinistra ripetutamente, anche un po' spietatamente. Ricorda le esperienze più negative del passato della sinistra nel corso dell'intera Seconda Repubblica, dal ribaltone che estromise Prodi da Palazzo Chigi fino al caos dell'Unione nella legislatura tra il 2006 e il 2008. Su questo punto ha fatto perdere la pazienza a Bersani che lo ha rimproverato di usare «gli argomenti» berlusconiani.
È uno spettacolo politico anomalo nel panorama delle democrazie occidentali. Di solito una tale intensità conflittuale si accende nel contrasto tra la destra e la sinistra, tra conservatori e progressisti, tra moderati ed estremisti. Ma in Italia il centrodestra ha scelto la strada del suicidio e andrà alle elezioni di primavera nella rovina e nella sconfitta. E quindi l'intero spettro delle posizioni politiche diverse si esprime tra due esponenti dello stesso partito, e per giunta il partito che quasi certamente vincerà le elezioni, che più divergenti non potrebbero apparire.
In un Paese come l'Italia la politica estera è considerata monopolio di pochi, incapace di scaldare i cuori. Ma è abbastanza impressionante notare che mentre Bersani auspica che l'Onu, malgrado le perplessità dell'America di Obama e della Gran Bretagna, riconosca la Palestina anche in assenza di uno Stato palestinese, Renzi invece abbia ricordato la repressione che sta schiacciando i giovani dell'Iran e sta massacrando la rivolta nella Siria di Assad. Ed è impressionante che la radice del conflitto non sia generazionale, come pure è affiorato con la polemica sulla rottamazione scatenata da Renzi, ma culturale. Due sinistre, una che è sempre stata in maggioranza negli ultimi decenni, un'altra che finora è apparsa minoritaria ed esile (Fassina che ha quantificato al «2 per cento» la linea di Ichino, che invece al primo turno ha avuto il 35 per cento dei consensi) e che in Renzi ha trovato lo sdoganatore. Chi vincerà, incarnerà un modello completamente opposto a quello del competitore. Come dovrebbe accadere tra schieramenti diversi, ma che in Italia accade all'interno dello stesso schieramento. E chi perderà? Dovrà accettare lealmente la sconfitta, ma con un senso di grande distanza dal vincitore. Una storia che non finisce domenica, perché ha cambiato radicalmente il Pd.

Corriere 29.11.12
Quel gioco a parti inverse
di Maria Teresa Meli


Lui nella parte di lei, lei nella parte di lui. Se fosse un film su una coppia questo sarebbe il trailer che l'annuncia. E ci sarebbe da divertirsi. Ma è di politica e non di cinema che si tratta, e la coppia in questione è composta da Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi. Eppure i due in vista della campagna per le primarie sono costretti a scambiarsi i ruoli. Il sindaco di Firenze capisce di non piacere agli anziani, che hanno paura di essere rottamati. Il segretario del Partito democratico, che è in affanno sul tema del rinnovamento, ci tiene a spiegare che lui non si può racchiudere nel recinto dell'usato sicuro. Il suo obiettivo dichiarato è quello di «conquistare i voti di Renzi». E quindi di dimostrare che le innovazioni non sono proprietà esclusiva del sindaco di Firenze. «Le novità non si fanno a chiacchiere, io le ho fatte, da ministro, e su questo sono una garanzia», dice il segretario del Partito democratico. Allora, ecco la confessione del leader: «Mi piacerebbe se gli elettori di Renzi si rendessero conto che le novità di cui hanno bisogno, io sono in grado di dargliele. Ho fatto le liberalizzazioni e non ho ancora finito». E non è solo per propaganda che il segretario del Partito democratico insiste su questo punto. È veramente e fermamente convinto di essere in grado di produrre novità, «quelle vere, quelle che servono». Semplicemente, per il leader del Pd il «rinnovamento va fatto non per strappi o attraverso le invocazioni alla rottamazione, ma con un lavoro serio e continuo, senza demagogie o populismi». Perciò negli ultimi giorni di questa campagna per le primarie il segretario del Partito democratico a caccia dei voti dei renziani rinnoverà il suo lessico e le sue proposte. Dall'altra parte, il sindaco di Firenze ha la paura opposta. Compulsando ogni giorno i sondaggi, il primo cittadino del capoluogo toscano si è reso conto che sul terreno della terza età la sfida è persa: gli anziani gli preferiscono il segretario del Partito democratico. Non c'è niente da fare, sono stati migliaia e migliaia a mobilitarsi nelle primarie, tanti non iscritti, anzi la maggior parte, tutti dai 65 anni in su, che sono andati a votare Bersani per paura della rottamazione. Renzi ne è conscio e cerca di parare i colpi. «Il cambiamento di per sé spaventa», ammette il sindaco di Firenze. «Se proposto in maniera aggressiva spaventa di più in particolare gli anziani». E ancora: «Il concetto di rottamazione è stato inteso erroneamente come voler fare a meno degli anziani. Ed è questo che fa che Pier Luigi abbia, nell'elettorato anziano, molto più consenso». Poi c'è il bottino di Nichi Vendola. Chi lo prende? Bersani è convinto di prendere centomila voti di Sel, Renzi più modestamente punta a cinquantamila voti del governatore della Regione Puglia. Il resto probabilmente non lo otterrà nessuno. Il segretario del Partito democratico punta ai consensi dei militanti e per questa ragione è pronto a fare i comizi elettorali con Nichi Vendola come sponsor, il sindaco di Firenze cerca i consensi di quelli che hanno votato per il leader di Sel ma non sono militanti né iscritti. Il resto nessuno nel Pd lo può decidere, perché dall'altra parte c'è Beppe Grillo. Ed è quella la sfida vera: chi riuscirà a sottrarre consensi ai grillini?

Corriere 29.11.12
Il socialismo appenninico messo in crisi dal sindaco
Il boom nelle Regioni rosse. Il 30% dei voti da grillini e centrodestra
di Daria Di Vico


Con tutto il rispetto per il successo di Pier Luigi Bersani sondaggisti ed osservatori continuano a interrogarsi sulla novità politica delle primarie, l'ampio consenso fatto registrare da Matteo Renzi. Roberto Weber (Swg) pensa di essere riuscito nelle ultime ore a quantificare un dato interessante: il 15% dei voti per il sindaco viene da elettori di centrodestra e un altro 15% da seguaci di Beppe Grillo. La fascia è individuata tra 25 e 55 anni e molti di loro sono artigiani, commercianti e partite Iva. «In questi casi il voto per Renzi è l'espressione di un disagio delle categorie produttive nei confronti della sintesi politica che si è prodotta fin qui ed è una richiesta di discontinuità» sostiene Weber. Lo stesso tema ritorna nell'analisi dello sfondamento di Renzi nelle Regioni rosse. Dalla Toscana che gli ha tributato un'ovazione all'Umbria (44%) e le Marche (42%). Anche il dato emiliano (38%) è di assoluto valore e contribuisce ad aprire una riflessione sull'evoluzione sociopolitica di territori da sempre lodati per l'alto capitale sociale che sono capaci di produrre.
La domanda che il successo di Renzi rende attuale può essere formulata così: come mai l'alto capitale sociale non si è coniugato con un elevato tasso di ricambio? E ancora: nelle zone dove ha operato per anni la regia politica della sinistra si è prodotta una maggiore o minore apertura della società? È chiaro che non si può rispondere con i numeri come quando si parla di flussi di voto, però l'impressione di molti osservatori è che nelle Regioni rosse si sia consumato un divorzio tra capitale sociale e innovazione. Il «socialismo appenninico» ha dimostrato una grande capacità di stabilizzare la struttura sociale, di assicurare beni come qualità della vita e coesione sociale ma sembra aver fallito nell'opera di assecondare il cambiamento.
La fenomenologia quotidiana ci parla di sistemi di micro cooptazione dall'alto, contesti nei quali l'azione delle amministrazioni accompagnata da soggetti di fatto collaterali (non con il partito ma con i sindaci e i governatori) quali cooperative, associazioni di categoria e sindacati, ha finito per ingessare la mobilità sociale. La Lega Nord quando si era posta l'obiettivo di sfondare nell'Italia di mezzo aveva intuito che i vecchi schemi di consociazione non reggevano più. Aveva avuto sentore che — ad esempio — il mondo delle professioni, organizzato attorno a grandi famiglie che si tramandavano il mestiere e coltivavano ottimi rapporti con le giunte, non era più inclusivo nei confronti dei giovani avvocati, architetti o commercialisti. Il Carroccio poi ha privilegiato il tema immigrazione, non è parso credibile come driver di mobilità e alla fine non ha trovato la combinazione per scardinare l'egemonia rossa.
Qualche risultato in più lo ha ottenuto Beppe Grillo che si presta meglio a dare rappresentanza agli outsider rimasti fuori dal sistema di cooptazione. Tutti gli esponenti grillini sono dei signor Nessuno che l'alleanza tra amministrazioni rosse e borghesie locali ha tenuto lontani dalla distribuzione di risorse e chance. Con Renzi queste dinamiche diventano più robuste e anche più intellegibili. Il sindaco non parte certo da outsider, è figlio delle élite fiorentine, viene dal cuore delle società chiuse dell'Italia di mezzo ma il suo programma tende, almeno a parole, a destrutturarle, a rompere la consociazione. Chi lo ha seguito quando sente «rottamazione» traduce «ricambio», estende la promessa di azzerare i mandati dalla politica alla vita associata. E in questi anni a Bologna, Siena e Perugia e nelle altre piccole capitali del socialismo appenninico è cresciuta l'insofferenza degli esclusi ma non ha ancora trovato il veicolo giusto per imporsi. E un centrodestra incapace di leggere la società è rimasto sempre in fuorigioco.
Nella storia dei rapporti tra società e politica nelle Regioni rosse le analisi, come detto, si sono concentrate tutte sull'accumulazione di capitale sociale, quasi mai sul resto. Come mai la cultura della sinistra non è riuscita a mitigare i campanilismi dell'Italia di mezzo? E non stiamo parlando solo di quelli in stile Vernacoliere ma anche di altri capaci poi di condizionare le scelte strategiche delle giunte. In Emilia-Romagna il ruolo di Bologna capitale è contestato dalle altre Province e allora quando si è deciso di creare gli incubatori di innovazione (le Tecnopoli) si è finito per spalmarli con una logica da manuale Cencelli territoriale. Il caso limite di società chiusa è considerato Siena. Come mai l'egemonia della sinistra non ha intaccato il sistema a matrioska che lega da sempre amministrazione pubblica, partito e Monte dei Paschi? Una visione da società aperta avrebbe scisso il link, avrebbe evitato di confondere la competizione politica con il controllo di una delle principali banche italiane. In questa direzione sarebbe interessante, per capir meglio la scarsa circolazione delle élite, analizzare i percorsi di carriera della dirigenza rossa e il suo distribuirsi nei tre canali principali (amministrazione, partito, associazionismo).
In conclusione, però, è giusto dare a Cesare quel che gli spetta e ricordare come le comunità dell'Italia di mezzo restino grandi contenitori di valori. Senza andar troppo lontano nel tempo basta pensare alla vicenda del terremoto che ha colpito il cuore dell'Emilia produttiva. In quella circostanza la forza del capitale sociale si è dispiegata davanti agli occhi del mondo, l'antropologia positiva del territorio ha sprigionato le sue potenzialità e tutti ne siamo rimasti ammirati. Quando si tratta di resistere e ricostruire il socialismo appenninico si dimostra una straordinaria infrastruttura valoriale, è quando deve facilitare il ricambio che diventa afasico. E tutto ciò prescinderà dalla carriera politica di Renzi.

l’Unità 29.11.12
Firenze si è scordata di Moustapha Dieng
di Luigi Manconi e altri


Quasi un anno fa, il 13 dicembre 2011, cinque uomini provenienti dal Senegal vennero raggiunti da colpi di pistola esplosi da Gianluca Casseri, 50enne pistoiese frequentatore dell’associazione di estrema destra Casa Pound. Casseri, che aveva come bersaglio i venditori ambulanti senegalese, iniziò a sparare nel mercato di piazza Dalmazia, poi prese la macchina e si spostò nella zona di San Lorenzo, dove fece altre vittime. Due di questi uomini, Samb Modou e Diop Mor rimasero uccisi in quello che fu un vero e proprio agguato razzista. Le sorti dei sopravvissuti sono state diverse e ce le racconta Corriere Immigrazione, attraverso un’intervista a Mercedes Frias, da anni attiva per i diritti dei migranti. Due dei senegalesi colpiti sono in via di guarigione, mentre il terzo, Moustapha Dieng è ancora ricoverato in gravi condizioni al Cto di Careggi. La pallottola che lo ha colpito è entrata nella gola ed è andata giù, fino al midollo spinale. Dieng non potrà più camminare, ha esofago e trachea gravemente lesionate e da quasi un anno viene alimentato e idratato solo attraverso le flebo. Ha ricominciato, da poco, a emettere qualche flebile suono. Il comune di Firenze ha organizzato per il 13 dicembre una giornata di iniziative per commemorare quella strage, ma sul piano pratico, per aiutare Dieng rimasto quasi completamente solo, l’amministrazione non ha fatto granché. Della cittadinanza che gli era stata promessa, neanche l’ombra, così come il sussidio a cui avrebbe diritto (per via del decreto legislativo del 2007 che recepisce la direttiva sull’indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti). Dieng in Italia ha solo un fratello, che vive in provincia di Pisa, fa l’ambulante e riesce ad andare a trovarlo una volta alla settimana. E poi c’è un suo connazionale, il ventiquattrenne Madiagne Ba, che da quando è cominciata questa storia lo ha preso a cuore e va da lui quasi ogni giorno. Ma questa, è la sola rete di solidarietà rimasta intorno all’uomo.
È stato chiesto all’amministrazione di trovare i fondi per pagare il viaggio ai familiari di Dieng, cosicché l’uomo possa avere vicino a sé i parenti in quello che sarà un lunghissimo percorso di cure e convalescenza. Anche su questo fronte, però, nessuna risposta. Mercedes Frias nota come non si sappia praticamente nulla della sorte dei sopravvissuti e che, a parte pochi privati cittadini che hanno fornito un sostegno economico, associazioni e gruppi fiorentini si sono concentrati nel ricordare le vittime, a volte in maniera strumentale, dimenticando gli altri. E di come si stia facendo troppo poco, a tutti i livelli, per intervenire sulla deriva culturale e politica che ha portato a confrontarci con l’immigrazione nel nostro paese in modo ottuso e sbagliato. Ottusità ed errori che a volte sfociano in tragedie come quella di Firenze. È lodevole che il comune di Firenze abbia voluto dedicare una giornata intera al ricordo di quelle vittime, ma c’è bisogno di molto altro. E organizzare un concerto di Youssou N’Dour non sembra proprio sufficiente.

La Stampa 29.11.12
Il nodo dei tribunali sui diritti dei figli
di Carlo Rimini

Professore ordinario di diritto privato nell’Università di Milano

È stata finalmente approvata la legge che equipara i figli di genitori non sposati ai figli nati nell’ambito del matrimonio. Si tratta di una legge attesa da molto tempo, indispensabile per adeguare il nostro diritto civile all’evoluzione della società: le regole sulla filiazione contenute nel codice civile, approvato nel 1942, erano ormai un relitto storico, un ramo secco che doveva essere tagliato già da molte stagioni.

La riforma è però purtroppo un bicchiere mezzo pieno: risolve vecchi problemi ma ne crea alcuni nuovi. Viene infatti eliminata una delle più evidenti discriminazioni fra i figli nati nel contesto del matrimonio e quelli nati da genitori non sposati: fino ad oggi le cause sull’affidamento dei figli di genitori non sposati vengono trattate dal tribunale per i minorenni, mentre le stesse controversie fra genitori coniugati sono trattate nell’ambito del giudizio di separazione dal tribunale ordinario. La nuova legge invece attribuisce in ogni caso la competenza al tribunale ordinario che dunque si occuperà anche delle controversie sull’affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio. La scelta avrà immediatamente un effetto dirompente sui carichi di lavoro dei tribunali ordinari e, fatalmente, porterà ad un aumento dei tempi di trattazione, tempi che già oggi vedono l’Italia agli ultimi posti nelle classifiche europee di efficienza. Viene inoltre spontaneo chiedersi come mai, in un mondo che si muove verso la specializzazione, il nostro legislatore si sia mosso nella direzione opposta. Si è persa l’occasione per istituire finalmente il tribunale della famiglia, un giudice specializzato a cui attribuire la competenza a risolvere qualsiasi conflitto sorga nelle relazioni familiari, sia per le famiglie unite in matrimonio, sia per le famiglie basate sulla semplice convivenza. Un altro aspetto suscita poi perplessità. La nuova legge ribadisce che il figlio minorenne ha diritto di essere ascoltato in tutte le controversie che lo riguardano. È un principio giusto affermato dalle Convenzioni internazionali sull’infanzia. Oggi questa attività viene nella maggior parte dei casi delegata ad uno psicologo incaricato dal giudice. La nuova legge impone invece che il minore sia ascoltato personalmente dal presidente del tribunale o da un giudice da lui delegato. È facile prevedere che i tribunali ordinari non avranno le risorse umane, e spesso neppure le competenze, per svolgere adeguatamente questa delicatissima funzione.

l’Unità 29.11.12
La politica miope di chi «risparmia» sulla scuola
di Benedetto Vertecchi


SONO TRASCORSI POCO PIÙ DI QUARANT’ANNI DALLA PUBBLICAZIONE, NEL 1971, DI DESCOLARIZZARE LA SOCIETÀ, IL SAGGIO in cui Ivan Illich tratteggiava uno scenario caratterizzato dalla progressiva riduzione della presenza della scuola nel mondo contemporaneo. All’educazione scolastica si sarebbero sostituite altre forme di comunicazione, tramite le quali sarebbe stato assicurato il passaggio dei repertori di conoscenze dalle generazioni più anziane verso quelle più giovani. Il libro di Illich suscitò un dibattito molto vivace, che periodicamente si riaccende quando le politiche scolastiche dei diversi Paesi lasciano intravedere scelte che vanno nella direzione della descolarizzazione o in quella della ripresa e dell’adeguamento dell’idea di scuola e delle pratiche dell’educazione al presentarsi di nuove esigenze. La prima posizione, quella favorevole alla descolarizzazione, trovò maggiore consenso dove prevalevano politiche di conservazione, o esplicitamente reazionarie.
Le proposte di Illich furono considerate l’inizio di una nuova stagione educativa in Paesi (per esempio, nell’America latina) in cui il sistema scolastico era del tutto insufficiente, ma nei quali non c’era alcuna propensione ad un maggiore impegno di risorse per l’istruzione. L’atteggiamento nei Paesi che avevano compiuto scelte impegnative per lo sviluppo dei sistemi scolastici furono, invece, sostanzialmente negative.
In Italia, due attenti interpreti delle trasformazioni in atto nell’educazione, come Lucio Lombardo Radice e Aldo Visalberghi, non esitarono a porre in evidenza il carattere intrinsecamente regressivo delle proposte di Illich, che privavano la scuola di una funzione essenziale, quella di collegare l’istruzione (ossia le pratiche volte ad assicurare il passaggio sistematico di repertori conoscitivi) alla socializzazione (consistente nel porre in comune elementi culturali non limitati a insiemi ordinati di conoscenze, ma capaci di consentire la condivisione di simboli che consente di esprimere il proprio pensiero e di comprendere quello espresso da altri).
Va notato che i ritorni di fiamma delle proposte esplicitamente o implicitamente orientate alla descolarizzazione sono intervenute per sostenere politiche volte a ridurre la spesa per il funzionamento del sistema scolastico, per lo più amplificando, senza che fosse possibile riferirsi a esperienze obiettivamente verificate, la valenza a fini educativi dei nuovi mezzi per la comunicazione offerti dallo sviluppo della tecnologia. In altre parole, la descolarizzazione ha assunto implicazioni ideologiche, mediate da soluzioni rivolte in apparenza a modernizzare l’educazione. Si è trattato, e si tratta, di implicazioni centrate sulla contrapposizione manichea delle soluzioni che possono assicurare una riduzione dei costi a quelle che richiedono necessariamente investimenti di maggiore consistenza. Quello che ne deriva è un manicheismo miope, perché i risparmi che si ritiene di poter realizzare nell’immediato sono la premessa per perdite ben maggiori a medio e a lungo termine.
L’asprezza che stanno assumendo i toni del dibattito educativo in Italia vede da un lato il governo schierato a favore di una descolarizzazione avvolta da fastosità modernizzatrici e dall’altro i sostenitori di un modello di educazione scolastica che ha le sue origini nell’affermazione del diritto all’educazione enunciato oltre due secoli fa, in piena rivoluzione, dall’Assemblea nazionale francese. La descolarizzazione corrisponde a un’ipotesi di disgregazione sociale, mentre il diritto all’istruzione corrisponde a un’assunzione di consapevolezza e di progettualità collettiva che investe il profilo culturale della popolazione. Gettare discredito sulla scuola, ridurne il tempo di funzionamento, svalutare il lavoro degli insegnanti, subordinare la didattica a operazioni di contabilità minuta sono passaggi preliminari che hanno come sbocco processi di descolarizzazione.
Quel che i sostenitori di una modernizzazione funzionale solo a obiettivi di contenimento della spesa non considerano è che le politiche scolastiche hanno successo solo quando raccolgano consenso, almeno di parte della popolazione, sugli intenti da perseguire. Non starò qui a ricordare che la politica scolastica in Italia sta andando in controtendenza rispetto a quanto avviene in altri Paesi industrializzati.
Voglio invece ricordare che l’obiettivo del contenimento del sistema scolastico costituiva un punto centrale nella riforma del 1923, che reca il nome del ministro Gentile. La parola d’ordine che si voleva affermare era «poche scuole ma buone». Il risultato fu che pochi anni dopo la sua emanazione la domanda sociale costrinse il governo fascista a rivedere proprio il criterio del contenimento.

Corriere 29.11.12
Ascoltiamo gli insegnanti
Si dà troppo spazio a voci lontane dalla realtà delle scuole
di Claudio Giunta


Un'aula scolastica o universitaria di oggi assomiglia ben poco a un'aula scolastica o universitaria di mezzo secolo fa: sono diversi i numeri, gli abiti, i volti, la proporzione tra i sessi, la composizione sociale, le relazioni tra studenti e professori. Ora, a fronte di questa rivoluzione culturale, l'insegnamento scolastico e universitario non è cambiato molto, sia che si guardi alle sue forme (i modi attraverso i quali il sapere viene comunicato) sia che si guardi alla sua sostanza (le cose che si insegnano).
Questo conservatorismo di fondo è, a mio avviso, del tutto legittimo, posto che il primo compito della scuola e dell'università è comunicare ai giovani il sapere accumulato. Tuttavia, dire che i giovani devono essere messi di fronte a quanto di meglio la loro civiltà, o la civiltà umana tout court ha prodotto nei secoli passati è una formula ambigua, dal momento che ogni corpus di conoscenze presuppone una selezione, e che questa selezione non può compiersi una volta per tutte ma richiede ogni volta di essere rinnovata e giustificata. Di qui, insomma, la necessità di una verifica, di qui l'opportunità della domanda intorno a «che cosa studiare a scuola».
Questa verifica, già ardua di per sé, non mi pare venga facilitata dal profilo dei verificatori. Mi pare infatti che il dibattito sulla scuola sia polarizzato tra, da un lato, enunciati teorici di sublime astrattezza formulati da docenti universitari che vivono per lo più nel mondo della luna e, dall'altro lato, disposizioni pratiche formulate da tecnici della pedagogia altrettanto alieni dalla compromissione con la realtà delle classi scolastiche, quella realtà della quale gli unici veramente esperti, gli unici dei quali sarebbe interessante ascoltare il parere, sono gli insegnanti.
Nell'ambito umanistico, che è quello che mi è più famigliare, il problema dell'acculturazione si converte soprattutto in un problema di cronologia, e insomma di distanza delle discipline e degli argomenti insegnati rispetto all'oggi. Da un lato, vogliamo che gli studenti imparino che cosa è successo nella tradizione italiana ed europea, e che entrino in contatto con opere che appartengono a epoche e mondi lontani dalla loro esperienza. Dall'altro, non vogliamo che vivano il presente da stranieri, vogliamo che tengano gli occhi aperti su ciò che li circonda e che imparino a conoscere e ad amare opere che hanno un rapporto meno mediato con la loro vita — non solo libri, dunque, ma anche film, canzoni, fumetti.
In altre parole, è ben chiaro che la formazione umanistica passa e deve continuare a passare attraverso le opere d'arte del passato, anche del passato remoto, tanto più quando ogni altra agenzia educativa cospira in una sorta di presentificazione della vita intellettuale: dove dovrebbe sopravvivere, la cura per il passato, se non nella scuola? E tuttavia, la scuola oggi non opera nel vuoto e nel silenzio ma in un ambiente che è saturo di informazioni e di stimoli latamente culturali. Oltre a svolgere la sua tradizionale funzione formativa, oltre a condividere con gli studenti il sapere accumulato, alla scuola spetta perciò anche il compito di dar loro i mezzi per reagire all'infinita quantità di cose che essi assorbono durante la loro vita extrascolastica.
Che fare, dunque? Dare ragione al mondo? Almeno in parte sì. E nel caso concreto: rinunciare alla storia? Insegnare letteratura seguendo la traccia dei generi, dei tipi testuali, mettendo in secondo piano, magari obliterando, la cronologia? La sola volta che ho esposto in pubblico queste mie perplessità, uno dei presenti mi ha risposto che «è grazie a idee come queste se gli studenti escono da scuola senza sapere la differenza tra Rinascimento e Risorgimento». È un'obiezione che prendo molto sul serio: non vorrei che succedesse questo. Però vorrei anche osservare due cose. La prima è che io conosco molte persone che, nonostante abbiano «fatto» la storia della letteratura a scuola, si trovano ad avere in testa, anziché conoscenze reali, delle etichette posticce. La macchina scolastica produce ancora troppa retorica, e la retorica produce stupidità: non è detto che ne produrrebbe di meno se cambiassimo i programmi scolastici, ma qualche rettifica potrebbe essere salutare. La seconda è che una conoscenza reale, critica, di un numero limitato di temi vale più della conoscenza superficiale del «tutto» che un corso di letteratura dalle origini ai giorni nostri (o l'equivalente in altri ambiti) promette di dare.
Vogliamo formare delle persone che vivano bene il loro tempo, non dei disadattati. Ma insegnare tutto non si può. E non solo perché manca il tempo, ma perché una sola testa non potrebbe contenere tante nozioni, e tanto disparate: verrebbe fuori soltanto confusione. D'altra parte, però, non possiamo neppure accontentarci di ripetere le cose che ci hanno insegnato nel modo in cui ce le hanno insegnate. Occorre una nuova formula, o un ventaglio di nuove formule. Nuove meno negli ingredienti (non s'inventa niente) che nel dosaggio. Tra le tante possibili, ecco due ovvietà.
La prima. Posto che attitudini come la concentrazione e la capacità di approfondimento ci stanno più a cuore della quantità delle nozioni apprese, i ragazzi dovrebbero essere incoraggiati a leggere più libri per intero, non tanto i Grandi Libri del passato remoto quanto i romanzi e, soprattutto, i saggi del Novecento. Tuttavia il momento della formazione non coincide con quello dell'informazione: perciò dovremmo resistere alla tentazione di comunicare agli studenti tutti i nostri interessi del momento, o i nostri entusiasmi. Qualcuno, sì; tutti, no.
La seconda. Non credo sia ancora abbastanza chiaro a tutti quanto l'esistenza di Internet abbia reso necessaria la conoscenza dell'inglese. Prima era un atout in più per trovarsi un lavoro o per viaggiare. Oggi leggere o non leggere l'inglese, capirlo o non capirlo, significa potere o non potere accedere ai migliori prodotti culturali che circolano in Rete: musica, film, riviste, informazione. Più del digitale (tutti sanno usare Facebook) è questa, oggi, la vera linea di separazione tra i colti e gli incolti, cioè tra i futuri ricchi e i futuri poveri...

il Fatto 29.11.12
Il ricorso. Legge 40, Monti contro l’Europa
Obiettivo: salvare il divieto di diagnosi preimpianto


Arriva proprio dal governo più europeista della recente storia repubblicana la decisione di ricorrere contro la Corte europea dei diritti dell’uomo. E arriva nel tentativo di preservare lo status quo della legge 40, nonostante 19 decisioni avverse di tribunali italiani – secondo cui la legge va riscritta perché è “antiscientifica”, “insensibile” e “incoerente” – e la sentenza di Strasburgo, approvata all’unanimità lo scorso 28 agosto. La ragione ufficiale, spiega palazzo Chigi, è “la necessità di salvaguardare l’integrità e la validità del sistema giudiziario nazionale”, dato che “la Corte ha deciso di non rispettare la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni, ritenendo che il sistema giudiziario italiano non offrisse sufficienti garanzie”. L’effetto politico è di compiacere quelle gerarchie vaticane che tanto tifano per il Monti-bis. Ma il risultato concreto è di vietare la diagnosi preimpianto che consente a coppie portatrici di malattie genetiche di verificare se l’embrione (in fase molto precoce di sviluppo) è affetto da anomalie genetiche o alterazioni cromosomiche prima dell’impianto nel-l’utero. Un controllo che, di fatto, permette di avere un figlio sano. Com’è giusto che sia, aveva detto l’Europa accogliendo il ricorso di due genitori, Rosetta Costa e Walter Pavan. In seguito alla nascita del loro primo figlio, malato di fibrosi cistica, scoprirono di essere portatori sani della malattia. Nel 2010 Rosetta restò di nuovo incinta: il feto risultò positivo alla fibrosi cistica e la coppia decise di abortire. Avevano il 25 per cento di probabilità di avere altri figli malati (la fibrosi cistica è mortale) e il 50 per cento che fossero anche loro portatori sani. Volevano avere altri figli e scelsero la procreazione assistita proprio per poter ricorrere alla diagnosi preimpianto. Nulla da fare: era ed è vietata dalla legge 40. Portarono la loro battaglia davanti alla Corte europea, che bocciò la legge del 2004: violava i diritti umani.
“La notizia è gravissima”, ha detto il senatore Pd Ignazio Marino, “i cittadini più poveri si vedranno discriminati nel loro desiderio di maternità e paternità mentre i più ricchi potranno rivolgersi alle cliniche per l’infertilità degli altri Paesi europei e avere l’assistenza che la legge 40, e adesso anche l’iniziativa del governo, nega loro in Italia”. Un ricorso che “rappresenta un tentativo disperato di salvare l’in-salvabile: ovvero una legge che decisioni italiane ed europee stanno smantellando, perchè incostituzionale ed ideologica”, dice l’avvocato Filomea Gallo, segretario dell’Associazione Luca Coscioni.

Repubblica 29.11.12
Fecondazione, il governo ricorre contro le donne
di Caterina Pasolini

IL GOVERNO contro l’Europa. Ha aspettato l’ultimo giorno utile. In silenzio, senza annunci, ha presentato ricorso direttamente in Francia contro la sentenza della Corte europea di Strasburgo. Quella sentenza che il 28 agosto ha condannato l'Italia «per violazione del rispetto della vita familiare», bocciando all’unanimità la legge 40 perché incoerente dal punto di vista legislativo.
INCOERENTE poiché consente l’aborto a chi ha malattie genetiche come la fibrosi cistica, ma non l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita e la diagnosi preimpianto che avrebbero evitato questo trauma. Una sentenza europea che dopo le tante italiane, Corte costituzionale compresa, confermava la legittimità della diagnosi preimpianto e che condannava lo Stato a pagare 15 mila euro di danni morali alla coppia malata.
Quando la notizia del ricorso nel pomeriggio è arrivata in Italia, è scoppiata subito una polemica dura, netta: tra le accuse di Livia Turco al governo di aver fatto tutto «clandestinamente, senza le richieste spiegazioni in parlamento», e di Giulia Bongiorno del Fli, che lo ha definito senza mezzi termini un «gravissimo errore e un ennesimo
schiaffo a tutte le donne». L’unico commento a favore è arrivato da Rocco Buttiglione, Udc, per il quale «è compito del governo difendere in sede europea le leggi italiane».
Secondo Ignazio Marino, senatore del Pd, il ricorso «è un atto gravissimo. Sarebbe sorprendente che un governo tecnico ed europeista in economia non fosse altrettanto tecnico ed europeista quanto ci sono da tutelare i diritti e la salute delle persone e, anzi, agisse in danno dei cittadini più poveri. Questi, in caso di ricorso, si vedranno discriminati nel loro desiderio di maternità e paternità, mentre i più ricchi potranno rivolgersi alle cliniche per l'infertilità degli altri Paesi europei e avere l'assistenza che la legge 40, e adesso anche l'iniziativa del governo, nega loro in Italia». La decisione italiana di presentare l’appello alla Grand Chambre della Corte Europea per i Diritti dell'Uomo si fonderebbe sulla necessità di salvaguardare l'integrità e la validità del sistema giudiziario nazionale.
«Un assurdo, visto che questo ricorso arriva dopo 19 pronunciamenti in Italia di tribunali regionali e della Corte costituzionale che hanno bocciato i vari punti di una legge 40 ideologica, tutta da rifare», commenta Filomena Gallo, presidente dell’associazione Coscioni e avvocato che ha seguito diverse coppie malate nei ricorsi contro la legge 40. «È un tentativo», aggiunge, «di salvare l’insalvabile, una legge ingiusta che non consente a coppie fertili ma con malattie genetiche di fare la fecondazione assistita ».
In effetti se si considerano i ricorsi contro altre parti della legge, come quelli per ottenere il congelamento degli embrioni, la diagnosi preimpianto e il limite di utilizzo di tre embrioni per ciclo di fecondazione, sono complessivamente diciassette le volte che la legge è stata bocciata dai giudici. I quali hanno ordinato l'esecuzione delle tecniche di fecondazione secondo i principi costituzionali, non rispettati dalla legge 40 smantellandola paletto dopo paletto. Se si comprende anche l'ambito europeo, con la bocciatura di Strasburgo nell’agosto scorso salgono a diciotto gli stop. Di pochi giorni fa, poi, la sentenza del tribunale di Cagliari che, considerando quello alla diagnosi preimpianto un diritto, ha sancito che sia garantito gratuitamente dalle Asl in ospedale o in un centro convenzionato.
Per tutelare il diritto alla salute di tutti senza discriminazioni, l’associazione Coscioni ha anche chiesto al ministro della salute Balduzzi di emanare un atto che consenta alle coppie portatrici di malattie genetiche gravi di avere un figlio e evitare un aborto. Un decreto ministeriale, che estenda anche a questi aspiranti genitori il concetto d'infecondità, come già previsto nelle attuali linee guida sulla 40 che permettono all'uomo fertile ma portatore di Hiv di accedere alla fecondazione assistita.

il Fatto 29.11.12
Sei malato? Ti tirano le pietre
di Furio Colombo


Ecco l’ultimo messaggio del governo. Costa troppo la salute, ovvero il Sistema sanitario nazionale. Costa troppo il sistema previdenziale, cioè le pensioni. Costa troppo un Paese che invecchia. Costano troppo le malattie di tutte le disabilità. Ci sono due strade per parlarne. Una è di constatare lo strano modo di operare del governo, che calcola insieme cose e persone, senza badare al disordine logico e allo squilibrio morale. E produce decisioni che sconvolgono l’equilibrio sociale senza smuovere di un millimetro la distanza dalla famosa fine del tunnel. Invia annunci che generano non solo panico, ma anche un pericoloso senso di alienazione e di solitudine, dalla “non sostenibilità dei costi della salute” all’abbandono dei malati di Sla, fino alla tragica iniziativa dell’“esperto di tagli” Bondi di rendere impossibile il funzionamento dell’Ospedale di Santa Lucia, in Roma, centro di alta specializzazione per le disabilità infantili. La ragione è: manca il sostegno finanziario.
Allora è importante far notare che questo nuovo governo di “tecnici” sta usando antichi moduli di bilancio che servivano per vita e successo di un Paese completamente diverso, dove la potenza contava più del benessere, le cose più dei cittadini, le armi più del lavoro. Era il modulo di bilancio di tempi in cui, per la salvaguardia dei confini e delle coste, non si poteva badare a spese. A questo modello, che in parte era imposto dalla necessità, in parte dall’errore culturale (immaginare il futuro come il presente) si è aggiunta l’influenza potente della riforma Reagan-Bush: privatizzare ogni aspetto della vita delle persone, dalla scuola di ogni livello alle malattie di ogni gravità e costo, e socializzare i benefici accordati alla ricchezza: tutti rinunceranno a qualcosa per tagliare le tasse alle imprese e ai milionari, uniche fonti di arricchimento per tutti. L’arricchimento per tutti, come è noto, non c’è stato. E il presidente Obama è stato rieletto per tentare di rimediare al disastro sociale Reagan-Bush nel suo Paese. Adesso, a quel disastro sociale, sembra avviata l’Italia, con tre cattivi risultati: spaventare i cittadini, smontare la fiducia sulla capacità dei “tecnici”; spingere, data la solitudine, alla ribellione. La somma di tali risultati è un costo ben più grande dei tagli gravissimi (e irrilevanti per la salvezza del Paese) che ci vengono continuamente annunciati.


l’Unità 29.11.12
Il compito della sinistra
di Ignazio Marino


È il 1977. Il figlio di un operaio che ha bisogno di assistenza per una grave malattia può rivolgersi all'unico ospedale della sua piccola città. Non può chiedere più pareri medici, deve accontentarsi perché i soldi sono pochi e la mutua limita il suo diritto alle cure.
Non è lo stesso per il figlio di un dirigente d’azienda che vive nella stessa città, ma può rivolgersi a molti ospedali e cliniche private. In poche parole, una sanità a due corsie, una per i ricchi e l’altra per i poveri. Una realtà che appena un anno dopo, con la legge 833 del 1978, è stata rivoluzionata in maniera epocale dall'introduzione di un sistema sanitario universale caratterizzato dal diritto alla cura, dall’accessibilità alle strutture e dall' equità per tutti, indipendentemente dalle condizioni sociali ed economiche.
Non possiamo permetterci di tornare indietro ed è bene sottolinearlo dopo le dichiarazioni del presidente del Consiglio Mario Monti. Per garantire la sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale servono soluzioni urgenti che puntino a razionalizzare le risorse, riducendo gli sprechi, e non all'istituzione di nuove tasse. Ad esempio, nel 2011, in Italia sono stati eseguiti 400 mila interventi programmati. Per razionalizzare la spesa pubblica, in quasi tutti gli Stati del mondo, il paziente viene ricoverato la mattina stessa. Nel nostro Paese la regione più virtuosa è il Friuli, dove il paziente viene ricoverato 0,6 giorni prima, nel Lazio 2,3 e poi si arriva alla Calabria con oltre cinque giorni di anticipo. Ogni notte passata in più negli ospedali senza una reale esigenza ci costa circa mille euro. Intervenendo, potremmo risparmiare un miliardo di euro all’anno.
Ci sono dirigenti sanitari che hanno operato male, sperperando i soldi pubblici e accettando di pagare, ad esempio, una protesi per l'anca anche 2.575 euro anziché 284 euro, spendendo l’806% in più. Sprechi come questi non dovrebbero essere sanzionati? Che dire poi dei reparti inutili? In Molise per esempio ci sono due neurochirurgie per 250mila persone quando le indicazioni scientifiche internazionali affermano che ne occorre una ogni milione e mezzo di abitanti. Per non parlare dei cinque centri per il trapianto del fegato che a Roma l’anno scorso hanno eseguito in totale solo 98 trapianti contro i 137 dell’unico centro che opera nella città di Torino.
Se si vuole cambiare quindi lo si faccia sul serio, anche puntando ad avere una classe medica motivata e gratificata, che voglia crescere nel pubblico e che sia orgogliosa di contribuire con idee, tempo e impegno a rafforzare e rendere sempre migliore un'istituzione fondamentale per la vita di tutti noi. Mettiamo fine a quell’anomalia tutta italiana che garantisce a un medico il posto fisso a vita permettendogli allo stesso tempo di svolgere la libera professione. Si scelga invece di separare i percorsi, da una parte il privato puro, dall'altra il pubblico introducendo incentivi salariali e di carriera significativi, con premi economici per chi lavora meglio e con valutazioni periodiche dei risultati.
La Corte dei Conti stima 31 miliardi di tagli al Fondo Sanitario Nazionale fino al 2015 a cui si uniscono nuovi ticket, previsti dalla manovra del 2011 e che entreranno in vigore da gennaio 2014, per rastrellare 2 miliardi di euro. Il totale è una somma pari ad un taglio del 30% del finanziamento per la sanità pubblica. Una situazione insostenibile e ancora più paradossale dato che il nostro sistema sanitario era davvero uno dei più invidiati al mondo. Penso agli Stati Uniti, dove Barack Obama ha voluto tutelare anche i più poveri. Non vorrei davvero che mentre gli americani hanno scelto un sistema sanitario un po' più vicino a quello previsto dalla nostra Costituzione, noi imboccassimo la direzione opposta spingendo gli italiani verso la sanità privata.
Ignazio Marino è chirurgo e presidente della commissione d'inchiesta sul servizio sanitario nazionale

Repubblica 29.11.12
Niente election day
Lazio, pressing sulla Polverini “Fissi le elezioni a gennaio”


ROMA — Addio election day a marzo. Semmai, se gli incastri di un complicato puzzle andassero tutti nel posto giusto, si potrebbe accorpare il voto per Lazio, Lombardia e Molise tra fine gennaio e i primi di febbraio. Per ora sono solo ipotesi, dopo la sentenza del Consiglio di Stato che intima a Renata Polverini di convocare le elezioni entro domenica prossima e per la data «tecnicamente più vicina possibile». E mentre anche il governatore della Lombardia Roberto Formigoni chiede di andare al più presto alle urne («Se il Lazio anticipa, anche qui si dovrà votare lo stesso giorno»), sembra tramontata la possibilità che il governo vari un decreto per aggirare la sentenza del Consiglio di Stato. «Sarebbe incostituzionale», afferma l’avvocato Gianluigi Pellegrino che aveva presentato il ricorso contro la Polverini. Intanto il centrosinistra va in pressing sulla governatrice che da due giorni si è chiusa nel silenzio più totale. La presidente valuta un nuovo ricorso (con il senatore Pd Luigi Zanda che allerta la Corte dei Conti) o la possibilità di far scadere i 5 giorni previsti dai giudici e passare la palla al Viminale che, a quel punto, deciderebbe anche se votare per 70 o 50 consiglieri. C’è ancora tempo fino al 2 dicembre. Con il Pdl (nel Lazio ancora senza candidato) che spinge per ottenere qualche giorno in più e accorpare le regionali a inizio febbraio.
(m.fv.)

Corriere 29.11.12
Accordi con la Cina per 1,27 miliardi di dollari Il premier: l'Italia attrae
di Marco Galluzzo


ROMA — Legare la sigla degli accordi di ieri alla promozione della nuova Italia da parte di Monti sarebbe probabilmente esagerato. Il colosso Huawei ha firmato a Palazzo Chigi un'intesa con Fastweb che ricalca quella di un anno fa siglata con Vodafone, alla presenza di Berlusconi e Wen Jiabao, che a sua volta seguì un analogo accordo fra l'azienda cinese e Telecom Italia.
L'enfasi che ieri Palazzo Chigi metteva nella nota era comunque giustificata: non sono pochi 1,27 miliardi di dollari (circa un miliardo di euro) di accordi economici fra l'economia più dinamica del pianeta e quella che probabilmente lo è meno, almeno fra le grandi. «Questi accordi dimostrano come in molti settori dell'economia italiana si possano attrarre investitori stranieri, potenziando la crescita del Paese e espandendo gli scambi internazionali», ha dichiarato il capo del governo al termine degli incontri.
La cornice della giornata era costruita intorno all'incontro fra Mario Monti e il presidente del Comitato nazionale della Conferenza consultiva politica del popolo cinese, Jia Qinglin, una sorta di presidente del Senato della Repubblica popolare, quarta carica dello Stato, una presenza pesante in grado di parlare a nome del cuore del potere cinese.
Al centro del colloquio, riferiva ieri la nota dell'esecutivo, il rafforzamento delle relazioni economiche e commerciali (sono in corso i negoziati per il rinnovo del piano triennale di collaborazione fra i due Stati, che prevede il raddoppio degli interscambi) e il ruolo della Cina nella nuova governance mondiale all'indomani dello svolgimento del XVIII Congresso nazionale del Partito comunista cinese. La visita in Cina del ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, si sottolineava, conferma l'impegno reciproco a rafforzare la cooperazione nei settori produttivi strategici come le energie e la green economy.
C'è da rimarcare che gli accordi di ieri non coinvolgono i fondi sovrani cinesi, corteggiati dal capo del governo nella visita di marzo in Asia. Anche se negoziati sono in corso fra il più potente dei fondi di Pechino, la China investment corporation, e la Cassa depositi e prestiti, che appena una settimana fa ha siglato a Doha una joint venture da 2 miliardi di euro con il primo fondo qatarino, mirata ad investimenti diretti in Italia. Un altro accordo dovrebbe essere firmato a breve, tra l'Italia e il Qatar, per il valore di 1 miliardo, per investimenti in imprese medie e piccole.
La cooperazione tra Huawei Italy e Fastweb ha un valore di 557 milioni di dollari. L'intesa di cooperazione strategica tra China everbright Ltd e Ferretti group vale 480 milioni di dollari; l'accordo tra China general technology (Group) holding limited e Fata Spa 153 milioni di dollari. Altri accordi commerciali riguardano la Spark machine tool e Aquire colgar. Un contratto per equity joint ventures fra Shandong zhong kuang group e Htm. E infine un accordo di aumento di capitale azionario tra Beste spa e Anhui huama textile.
Ieri sera Monti ha tenuto una relazione all'Euro-China forum, a Bologna, nella prima serata di una due giorni di incontri sulla Cina. Il premier è stato accolto da Romano Prodi, fra gli organizzatori del meeting.

Corriere 29.11.12
La Cina nuova potenza marittima, torna grande come nel Quattrocento
di Giulio Sapelli


Xi Ping è il nuovo capo della Cina e rappresenta la mediazione tra i quadri della gioventù comunista guidati da Hu Jintao e i quadri tecnocratico-familistici guidati da Jiang Zemin. Xi Ping è uno di questi «principini», ossia figli della nomenclatura maoista formatisi all'estero e poi ritornati in patria per occupare prestigiosi posti di potere. I militari sono l'ago della bilancia e possono esserlo tanto più oggi e nel decennio che verrà, perché Xi Ping non ha una leadership personale forte e indiscussa, ma è condizionato dalle due fazioni in lotta.
Tutto questo riflette e insieme rafforza la trasformazione della Cina da potenza di terra in potenza marittima: appare la via più sicura per superare le grandi contraddizioni che iniziano a caratterizzare l'economia cinese, surriscaldata da un'eccezionale crescita nei beni strumentali ma da un debole rafforzamento, di contro, del mercato interno. Per questo si riprende la tradizione, interrottasi nel 1436, quando gli imperatori Ming proibirono la costruzione di navi e distrussero tutta l'immensa flotta cinese.
I dati che possediamo per il periodo dal 1404 al 1407 dicono che in soli quattro anni si costruirono ben 1.681 navi, con cui si raggiunsero l'Indonesia e le coste orientali dell'Africa. Perché la Cina si sia richiusa poi in se stessa è rimasto un mistero. Da allora è una potenza terrestre, a lentissima crescita e spesso invasa da eserciti stranieri, sino alla rivoluzione maoista. La Cina si è ora impegnata a divenire una potenza marittima. Ciò apre nuovi scenari mondiali. La riunione dell'Asean svoltasi a Phnom Penh solo due giorni dopo l'incoronazione di Xi Ping, ha sancito l'impossibilità di questa organizzazione — che unisce tutti i Paesi asiatici — di continuare a lavorare insieme per il commercio e per favorire la cooperazione militare. Si è assistito all'emergere anche in quella sede diplomatica del duro confronto dei cinesi con i vietnamiti e i malesi, per non parlare dei giapponesi. La posta in gioco è il dominio marittimo asiatico. Ma il confronto è destinato ad allargarsi. Non è mai esistita una potenza marittima di così grande potenza demografica. Questo è il vero nuovo problema dell'ordine mondiale. Dinanzi a tutto ciò l'Europa dovrebbe finirla con i suoi stucchevoli e disastrosi litigi e guardare a ciò che emerge in Asia, se non vuole essere sommersa.

Corriere 29.11.12
Il filosofo che volle educare il tiranno
Platone cercò interlocutori a Siracusa per realizzare il suo ideale autoritario
di Luciano Canfora


Discendente dalla più antica e illustre nobiltà ateniese, Platone ha sentito sin dal principio l'attrazione della politica. Ha avuto la ventura di vivere una serie di esperienze straordinarie e traumatiche: i Trenta Tiranni — il cui capo era un suo congiunto —, la restaurazione democratica, la dispersione dei socratici, la grandezza e la miseria della tirannide siciliana, l'irretimento nelle beghe della corte siracusana, la delusione, il ritiro nella scuola. Ha idoleggiato una società comunistica e profondamente «interventista» nella vita di ogni singolo come unica via per la realizzazione non individualistica, ma collettiva del «sommo bene»; ma una tale società non ha saputo concepirla che come rigidamente castale e autoritaria; attratto, come già Crizia, da un modello che, per quanto gli appaia col tempo sempre più insoddisfacente, deludente e caduco, è pur sempre presente alla sua coscienza: quello della Sparta egualitaria, povera, virtuosa, delle leggi di Licurgo.
Assumendo i «tiranni» di Siracusa come interlocutori del suo esperimento di «monarchi-filosofi», Platone adotta un punto di vista che potremmo definire «hobbesiano»: quello della indistinguibilità tra monarca e tiranno (se non in ragione delle azioni compiute), e il rifiuto, per converso, della usuale loro distinzione basata sul giudizio soggettivo di sostenitori e avversari. (Non è inutile ricordare che proprio dalla considerazione della tirannide greca — e ateniese in particolare — Hobbes era per la prima volta approdato, nell'introduzione a Tucidide, 1629, a quella formulazione dell'inconsistenza del concetto di per sé negativo di «tirannide» che affiderà più tardi al De Cive).
Questo atteggiamento dovette essere comune anche ad altri socratici, e discende, forse, dall'atteggiamento radicalmente critico dello stesso Socrate — il quale non a caso restò in Atene durante il governo dei Trenta — nei confronti di tutte le forme politiche tradizionali.
Un socratico non trascurabile, quale Senofonte, svilupperà nello Ierone il tema della «infelicità» del tiranno. Ma Platone andrà oltre. Col suo esperimento siracusano, egli si è aperto, nella prassi, ad una empirica intesa con i tiranni. È stata una scelta di realismo politico che di solito resta in ombra, quando si parla di Platone, collocato, di norma, agli antipodi del realismo o addirittura della Realpolitik.
Non sarà forse mai del tutto esaustivo lo sforzo volto a scandagliare le molte facce di questo genere di scelte: il misto di fascinazione del potere (e della persona che eventualmente lo incarni); di illusione o ragionevole convinzione di riuscire ad incidere in dinamiche e meccanismi che, lasciati a se stessi, sarebbero, forse, di gran lunga peggiori; di certezza che una testimonianza resa fino alle estreme conseguenze può rendere frutti a distanza di tempo (a futura memoria); di fatalismo per non saper più «uscirne»; di effettiva commistione di comportamenti tra il politico e il filosofo, che si produce comunque, anche nel loro confliggere. E siamo certi che questa casistica è del tutto incompleta: non rende appieno la ricchezza di possibilità che il difficile intreccio comporta o suscita.
Il moderno fautore del Principe, che teorizzò la necessità di affidare l'educazione ad un ideal-tipico Chirone perché mezzo uomo e mezzo bestia, fu, al tempo stesso, uomo di azione che dalla diretta esperienza della politica uscì schiacciato. E tuttavia egli è riuscito a ripensare quell'esperienza con un distacco tale da finire coll'apparire ai lettori — specie a quelli non benevoli, ma non per questo impertinenti — addirittura come il «cantore» dei metodi di governo del Duca Valentino. Né risolse l'evidente aporia la gramsciana intuizione di spostare su di un soggetto collettivo, la forza, il ruolo e le prerogative del «moderno principe».
È probabilmente illusorio il proposito di conciliazione o di ricomposizione tra morale individuale e morale politica. Ed è difficile sostenere che le esperienze risolutive non siano state ancora fatte, che il ritrovato risolutivo non sia stato ancora escogitato. Al contrario, la vastità e la ripetitività delle esperienze che abbiamo alle spalle, e che la superstite Historia rerum gestarum ci documenta, è tale da indurre piuttosto a ritenere che quel ritrovato non esista. Al punto che la medesima persona, ove per avventura trapassi da intellettuale a politico — raro ma non impossibile scambio di ruoli — cambia anche morale.
Libero resta, invece, il tipo di fuoruscita individuale, quando si sia approdati ad una situazione che appare ormai insostenibile. Seneca ha lasciato alle età successive, oltre che l'esempio della grandezza e miseria di un esperimento fallito, anche la ricetta, tipica dell'aristocrazia stoicheggiante romana, per chiudere sul piano individuale la partita: «Chiedi quale sia la strada per la libertà? Una qualsiasi vena del tuo corpo» (De Ira, III, 15, 4).
La politica è arte troppo grande e troppo rischiosa, già per il fatto che grazie ad essa alcuni divengono arbitri del destino di tutti gli altri, per non comportare, per chi vi si cimenta da protagonista, prezzi altissimi. Come ben sapeva il Socrate platonico, è l'unica arte che non dispone di canoni «insegnabili», e che tuttavia qualcuno, necessariamente, deve praticare. Anche il tiranno è dunque vittima, e talora vittima sacrificale. A ben vedere, è talmente «ovvio» che la morale da lui praticata sia diversa da quella individuale (e non per sua libera scelta malefica), che, a distanza di tempo, sorge talora, tra i molti, pungente nostalgia di lui: consapevoli tutti, è da pensare, che egli fosse, per così dire, costretto ad una morale diversa. Donde il sorgere, ad esempio, dopo la morte di Nerone, di «falsi Neroni» ritornanti nel tempo nella fantasia collettiva, pur dopo la fine fisica di quel determinato principe che portò quel nome e che morì esecrato. Fenomeno destinato a coesistere con l'altro, complementare e indissolubile dal primo, dell'alta stima, anche da parte dei critici più acerbi, nei confronti della «via alla libertà» che Seneca, quando lo ritenne doveroso, seppe praticare.

Corriere 29.11.12
Rifiuto e accoglienza di fronte allo straniero

Si inaugura domenica 2 dicembre a Roma la VII edizione delle Lezioni di storia all'Auditorium Parco della Musica, organizzato da Laterza e dalla Fondazione Musica per Roma (con Acea, Unicredit e Poste Italiane).
Il tema di questa edizione è «Stranieri tra noi» e si svilupperà in nove lezioni, introdotte da Paolo Di Paolo, sempre la domenica mattina alle ore 11 dal 2 dicembre 2012 fino al 5 maggio 2013.
Inizierà Luciano Canfora domenica con la lezione «Siracusa 388 a.C.: Platone respinto dal tiranno greco Dionigi» (che qui anticipiamo). Seguiranno: 16 dicembre Andrea Carandini con «Roma, 64 d.C. Il martirio di Pietro e la basilica di Costantino in Vaticano»; 13 gennaio 2013 Massimo Montanari con «Pavia 774 d.C.: Adelchi alla tavola di Carlo Magno». A seguire gli altri incontri. (a.pa.)

Corriere 29.11.12
Severino, Giorello e Ferraris: confronto sul nuovo realismo
di Armando Torno


Domani alle 11, all'Archivio antico (Palazzo Bo) dell'Università di Padova, Maurizio Ferraris, Giulio Giorello ed Emanuele Severino si confronteranno sul nuovo realismo. Tema che, come si suol dire, è nel vento: oltre i numerosi dibattiti in corso, lo stesso Ferraris e Mario De Caro hanno curato un volume — appena pubblicato nella serie «Stile libero» di Einaudi — dal significativo titolo Bentornata realtà (pp. 246, 17). A Padova l'invito parte dal rettore dell'università, Giuseppe Zaccaria (nella foto), professore di Teoria generale del diritto. Lo ha organizzato nell'ambito di una giornata di ermeneutica giuridica promossa dalla rivista «Ars Interpretandi», la stessa che da molti anni indaga il tema dell'interpretazione giuridica in dialogo interdisciplinare con i vari campi del diritto e con la filosofia. A proposito dell'incontro dei tre filosofi, Zaccaria ci ha detto: «Di realismo e di antirealismo si è sempre parlato, e sempre si continuerà a parlare, dal momento che mai nessuna filosofia è stata e può essere o completamente realista o del tutto antirealista». Inoltre il rettore ha aggiunto, chiamando in causa l'ampio dibattito in corso sulle tesi del nuovo realismo: «C'è parso opportuno approfondire questi temi dal versante del diritto, nel quale è pacifico che esistano fatti indipendentemente dalle interpretazioni; ma, nel contempo, tali fatti divengono realmente significativi solo tramite l'intervento qualificativo dell'interpretazione». Ferraris, Giorello e Severino, con un'apertura dello stesso Zaccaria, parleranno a un uditorio di filosofi e teorici del diritto, ridiscutendo e approfondendo le proprie tesi; o meglio, mettendosi in sintonia con il punto di vista del diritto. Ricordiamo che nella premessa al volume Bentornata realtà De Caro e Ferraris notano: «In fondo il nuovo realismo dice anzitutto "ciò che non siamo, ciò che non vogliamo"; il che, tuttavia, in filosofia è già molto».

Repubblica 29.11.12
Razzismo
Dalle piazze ai parlamenti la crisi accende l’odio per i diversi
Il fenomeno sempre più spesso prescinde dal vincolo etnico, anche se usa biecamente l’armamentario ideologico del ’900
“Alba Dorata” pur esibendo simboli di evidente matrice hitleriana, giunge a noi dalla Grecia anziché dalla culla del nazismo
di Gad Lerner


Viene la tentazione di minimizzare: in fondo saranno degli antisemiti per finta quei tifosi che si scagliano contro altri tifosi ebrei per finta? Non sarà, il loro razzismo, solo un pretesto per scandalizzarci, ovvero la più trasgressiva delle ragazzate possibili?
Com’è ovvio ci sono ebrei tifosi della squadra di calcio Lazio. Magari anche perché, come ricordava uno di loro, Danco Singer, in una lettera a questo giornale, la Lazio indossa in campo gli stessi colori della bandiera israeliana. Quanto agli ultràs laziali (e romanisti), non risulta che prendano abitualmente di mira persone o sedi della Comunità ebraica della capitale. Invece, guarda un po’, si sono coalizzati per aggredire i tifosi del Tottenham in trasferta; cioè dei cittadini inglesi per lo più non ebrei ma che a loro volta trovano suggestivo identificarsi nello stereotipo yids – giudei – allo scopo di rovesciarne la carica dispregiativa.
Per colmo di confusione nazionalistica, allo stadio Olimpico, dove si fronteggiavano una squadra italiana e una squadra inglese, altri sciagurati hanno pensato di insultare il Tottenham inneggiando al tedesco Hitler e esibendo lo striscione antisraeliano “Free Palestine”. Al che, quattro giorni dopo, in uno stadio di Londra, per tifare West Ham, una ventina di imitatori imbecilli ha pensato bene di mimare contro il Tottenham il sibilo delle camere a gas e di gridare “Viva Lazio”.
C’entra qualcosa tutto questo con il razzismo o stiamo facendo i conti con la follia centrifuga delle identità posticce, artificiali, ormai disgiunte dall’appartenenza etnica e religiosa? Prima di derubricare il tutto a mero teppismo giovanile, sarà bene ricordare che perfino l’ultimo conflitto che ha insanguinato il suolo europeo – la guerra dei Balcani – ha visto contrapporsi milizie reclutate all’interno di popolazioni non solo da secoli dedite ai matrimoni misti, ma per giunta appartenenti alla medesima etnia slava (e divise “solo” da fedi religiose sempre più tenui).
Il razzismo contemporaneo sempre più spesso prescinde dal vincolo etnico, anche se utilizza biecamente l’armamentario ideologico del razzismo novecentesco. Mi ha molto colpito la giovane età, 24 anni, di Daniele Scarpino, definito ideologo del sito antisemita “Stormfront” e arrestato per istigazione all’odio razziale. Ma colpisce anche che Scarpino e gli altri suoi compari (quasi tutti coetanei) facciano riferimento a una casa madre statunitense, non ai neonazisti tedeschi. Del resto anche il più recente fenomeno d’importazione xenofobo, “Alba Dorata”, pur esibendo simboli di evidente matrice hitleriana, giunge a noi dalla Grecia anziché dalla culla del nazismo.
Quest’ultimo fenomeno, specialmente pericoloso per la violenza praticata e per la capacità di contagio che rivela dentro a società avvelenate dalla pauperizzazione e dal rancore sociale, evidenzia con più chiarezza di altri la natura ambivalente del nuovo razzismo contemporaneo. L’ostilità allo straniero vi si manifesta additando i nemici del popolo come stranieri sia verso l’alto che verso il basso: in alto la plutocrazia affamatrice della finanza internazionale che viene tuttora comodo identificare nell’ebraismo cosm opolita; in basso gli immigrati chesottraggono risorse ai danni del popolo e lo “inquinano” pretendendo di mescolarsi ad esso.
Il ventennio di egemonia politica e culturale del forzaleghismo ha reso l’Italia – un paese che aveva già sperimentato la declinazione fascista dell’etno-nazionalismo – particolarmente esposta a questa retorica del popolo inteso come nazione proletaria contrapposta all’élite e allo straniero. Come dimenticare, in proposito, le dotte elucubrazioni di un Tremonti o di un Baget Bozzo, condite di richiami clericali? Più grossolano, come sempre, era il Berlusconi che in campagna elettorale si scatenava contro il pericolo che le nostre città divenissero “africane” o, addirittura, “zingaropoli”. Ma è ancora oggi la Lega Nord, titolare di un’“etnogenesi realizzata in laboratorio” (devo la definizione all’antropologo Pietro Scarduelli, dal volume L’immaginario leghista, a cura di Mario Barenghi e Matteo Bonazzi, Quodlibet Studio editore) la propagatrice più accanita del razzismo contemporaneo.
Solo una settimana fa Radio Padania Libera, che trasmette dalla sede leghista di via Bellerio, ha rivendicato la validità dei Protocolli dei savi di Sion.
Non importa se ne è stata comprovata la falsità, ha sostenuto tale Pierluigi Pellegrin dai suoi microfoni. Resta il fatto che i “semiti” detengono tuttora le leve di comando della finanza, dei mass media e del cinema, lasciando ai “non semiti” solo lo spazio della politica. Dunque i Protocolli vanno presi sul serio. C’è da stupirsi se poi tanti ragazzi da stadio insultano gli avversari al grido “ebrei”?
È giusto allarmarsi quando un esponente del terzo partito ungherese, Jobbik, chiede al suo governo di istituire un registro degli ebrei con doppia cittadinanza residenti sul territorio magiaro, come forma di “difesa nazionale”. Ma senza dimenticare che un’ideologia razzista analoga alligna in forze politiche che governano ancora tre grandi regioni italiane. Del resto un deputato europeo della Lega, Mario Borghezio, ha definito “patriota” il criminale di guerra serbo-bosniaco Mladic e ha manifestato pubblica condivisione per il manifesto dell’autore della strage di Utoya, il norvegese Breivik.
Ecco perché non possiamo minimizzare come “razzismo per finta” la caccia al diverso che sta trovando negli stadi la sua cassa di risonanza: perché la diffusione di un tale senso comune, ancorché non collimi con le tradizionali linee di demarcazione etnica o religiosa, è violenza verbale che sta già traducendosi in violenza fisica.
Non è ancora passato un anno da quando un “pacifico” intellettuale di destra, Gianluca Casseri, frequentatore di Casa Pound, ha sparato all’impazzata in un mercato di Firenze assassinando Samb Modou e Diop Mor colpevoli solo di avere la pelle scura, e riducendo all’invalidità il loro connazionale senegalese Moustapha Dieng, rimasto privo di ogni sostegno pubblico. Sul sito Facebook di Casseri si contarono 6205 “mi piace”. La caccia al diverso è già in pieno corso anche nel nostro paese. Verso l’alto e verso il basso, nel nome della purezza etnica inesistente di un popolo i cui connotati si allargano e restringono a piacimento, magari seguendo solo i colori di una squadra di calcio piena zeppa di giocatori con un altro passaporto.

Repubblica 29.11.12
Lo scrittore Konrád racconta i neonazisti di Budapest
Il contagio ungherese
“La questione cruciale è se il premier Orbán e il suo partito continueranno un rapporto di fatto tiepido con Jobbik o no. Il nazionalismo radicale è fascismo Qui tra conservatori ed estrema destra non c’è un muro”
di Andrea Tarquini


«Uno dopo l’altro, molti confini e argini sono stati varcati. La situazione ungherese non è pericolosissima, ma è nato un pericolo di contagio in Europa. Orbán decida chiaro: o l’Europa o i neonazisti». Così parla György Konrád, uno dei maggiori scrittori ungheresi e mitteleuropei, sopravvissuto da piccolo all’Olocausto.
Quanto è pericolosa la situazione?
«È stata varcata una frontiera. Si è sentito molto sdegno, ma il giorno dopo. Certo gli ebrei si mobilitano, sono più attivi. Molti deputati di più partiti chiedono di processare Gyoengyosi, e tolleranza zero. Ma a caldo i politici hanno reagito molto lentamente, hanno avuto bisogno d’un giorno intero per pensarci e reagire! Non è normale nell’Europa democratica. E il governo ha emesso solo un comunicato dal frasario standard, non specifico su questo caso scandaloso. È terribile come ci si sta abituando a parole e proposte di quel genere. Sono sviluppi lenti».
Chi sono gli antisemiti aperti come questo Gyoengyosi?
«Lui è figlio di un diplomatico comunista. Gioventù privilegiata, studi in Irlanda e poi in Medio Oriente. Figura centrale dei contatti politici tra Jobbik e l’Iran. E una volta ha dato un’intervista tv antisemita nel palazzo della presidenza del Consiglio. Se le sue parole sono tollerate in Parlamento, tutto diventa legittimato in piazza. Jobbik sfila gridando “sporchi ebrei”. Gyoengyosi dubita della lealtà di chi ha doppia cittadinanza, ungherese e israeliana. Mentre il governo Orbán dà la doppia cittadinanza ungherese a molti cittadini slovacchi o romeni di lingua magiara. Questo nuovo antisemitismo si diffonde molto in Europa. Spesso con contenuti anti-israeliani. In Europa occidentale è più di sinistra, qui da noi viene più dall’ultradestra. Qui i fascisti hanno gioito quando Guenter Grass ha definito Israele il maggiore pericolo per la pace mondiale, lo ha detto
Gyoengyoesi in persona».
Il nazionalismo di Orbán crea terreno favorevole a queste spinte?
«La questione cruciale è se Orbán e il suo partito continueranno un rapporto di fatto tiepido verso Jobbik, o no. Il nazionalismo radicale è fascismo. La differenza è che nelle mature democrazie dell’Europa occidentale esiste la tradizione postbellica di un muro tra conservatori e destra radicale. In Ungheria la tradizione è continuità, porte aperte tra conservatori ed estrema destra. Sotto Horthy le leggi contro gli ebrei furono votate anche dai conservatori. Le porte restano aperte, si può passare disinvolti da un blocco all’altro. Antisemitismo come denominatore comune. Il nazismo qui è punta di lancia o d’iceberg del nazionalismo».
Insisto, e il ruolo di Orbán?
«Orbán cambia idea ogni settimana, pensa a restare al potere. Mitizza l’Ungheria storica, parla di via nazionale ungherese nell’economia, e mentre la recessione ci colpisce usa sempre nuove metafore nazionali. Rischia un ruolo faustiano da apprendista stregone. Si può immaginare che l’ultradestra diventi appoggio o alleato di un Orbán sempre meno popolare, che forse avrà bisogno di Jobbik per continuare a governare. Ma lui pensa a ogni soluzione per restare al potere: lo scandalo di Gyoengyoesi gli ha permesso di far passare quasi inosservata una pericolosa legge elettorale. Vede, un confine varcato dopo l’altro. Quo usque tandem? Purtroppo Angela Merkel e tutti i popolari europei pur non amando affatto Orbán lo tollerano nella loro famiglia. È un problema».

Repubblica 29.11.12
Non solo Gran Bretagna, quel che resta del colonialismo
Quei fantasmi dell’Impero
La storia di un immenso dominio ha lasciato un’eredità ancora viva, che porta a ritenere inferiori le altre etnie, quelle “assoggettate”. Nel Novecento il matrimonio interrazziale era considerato immorale dalla società
di John Lloyd


Il razzismo può presentare molte differenze. Eppure, tra noi europei, alcune caratteristiche sono comuni. Sono il retaggio degli imperi, in special modo nel caso del Regno Unito, dei Paesi Bassi e della Francia, e in misura minore dell’Italia e della Germania. Derivano dall’assunto che considera superiore l’alta cultura europea e dal fatto che gli europei abbiano goduto, rispetto a quasi tutto il resto del mondo, di una maggiore ricchezza per interi secoli. Nessuna delle nostre culture ne è immune, anche se, negli ultimi anni, tutte lo hanno identificato in vario grado come spregevole o illegale.
Il razzismo, tuttavia, che proprio per la sua possibile illegalità dev’essere definito dalla legge in maniera precisa, è complesso e talvolta sfida la precisione. Ciò è sicuramente quanto sta accadendo nella moderna Gran Bretagna. La storia di un immenso impero ha lasciato un’eredità ancora viva, che porta a ritenere inferiori le altre etnie, quelle “assoggettate”. Gli imperialisti britannici consideravano il matrimonio interrazziale come immorale e persino le amicizie interrazziali erano rare. Nonostante tutto ciò, dalla fine del secolo XX, gli indiani della classe alta cominciarono a frequentare le scuole e le università; qualcuno entrò a far parte delle professioni e restò nel Regno Unito; e infine tre furono eletti in Parlamento negli anni Venti – tra questi il primo parlamentare comunista, Shapurji Saklatvala.
L’antisemitismo è stato molto diffuso lungo tutto il secolo XX, ma anche così a migliaia di ebrei poveri provenienti dall’Est europeo fu permesso di insediarsi. La comunità ebraica più antica, che contava banchieri e mercanti quali i Rothschild e i Montefiore, diventò parte dell’establishment britannico e un suo membro, Benjamin Disraeli, fu uno dei primi ministri conservatori di maggior successo. Nel periodo postbellico, l’antisemitismo diventò meno evidente. L’immigrazione prima dall’Asia e dai Caraibi e poi dall’Africa, ininterrotta dagli anni Cinquanta, innescò un diffuso risentimento, rendendo difficile per le famiglie immigrate trovare abitazioni e posti di lavoro dignitosi e costringendole a subire un’aperta discriminazione e persino dell’odio. Nel corso dei decenni, tuttavia, i partiti con in testa i laburisti, i sindacati, le chiese, i media, le società sportive e altre istituzioni hanno intrapreso uno sforzo per affrontare il problema del razzismo. Ciò nonostante, eccolo ancora tra noi. Lo scorso sabato, i tifosi della squadra londinese di West Ham, che giocava contro un’altra squadra londinese, il Tottenham, hanno sfoggiato una repentina simpatia per l’Italia e per la Lazio, dopo che a Roma dei teppisti laziali avevano assalito, urlando espressioni antisemite, i tifosi del Tottenham dopo una partita di questa squadra con la Lazio. «Hitler viene a prendervi» hanno urlato i tifosi del West Ham tra rumori sibilanti che dovevano richiamare quello delle docce delle camere a gas dei campi di concentramento. Il Tottenham ha molti tifosi ebrei e anche il suo presidente lo è, ma è ebreo pure il co-presidente del West Ham.
Oggi, nella politica, assumere posizioni razziste, un tempo un comportamento comune, equivale a segnare la fine della carriera. Persino una barzelletta che tocchi temi razziali può essere fatale per chi la racconta e anche il Partito nazionale britannico, che dai più sarebbe definito razzista, nega di esserlo e fa il pieno di membri ebrei. Sia gli ebrei sia i musulmani ritengono però che le minacce contro le loro comunità tenderanno ad aumentare: la diffusa disoccupazione e il protrarsi della recessione potrebbero nuovamente mettere etnia contro etnia.
(Traduzione di Guiomar Parada)

Repubblica 29.11.12
Sfida per la guida degli psicoanalisti
Ferro e Semi in corsa per la presidenza. Domani la scelta
È molto diverso il rapporto di Ferro e Semi con i principi classici di Freud
di Luciana Sica


Antonino Ferro e Antonio Alberto Semi. Due analisti di primo piano, ma anche due personaggi diversissimi tra loro, quasi contrapposti. Il voto si è già chiuso la settimana scorsa, ma solo domani se ne farà il conteggio e si saprà chi dei due è il nuovo presidente della Società psicoanalitica italiana, il successore di Stefano Bolognini, primo italiano alla guida dell’International Psychoanalytical Association fondata da Freud nel 1910.
Senza la solita elezione “bulgara” su un unico candidato, la partecipazione è stata alta (circa il 76 per cento degli 850 soci). Ed è apparsa chiarissima la divisione nella Spi, un’istituzione tutt’altro che monolitica, caratterizzata da più orientamenti teorici e clinici, a tratti lacerata dai contrasti. Del resto, quando si dice psicoanalisi, inevitabilmente si pensa a Freud, ma negli ultimi quarant’anni sono comparse teorie che rompono con i principi classici del caposcuola. Non esiste più “la” psicoanalisi, ma piuttosto “le” psicoanalisi, e non sempre così conciliabili.
Come un innovatore che non idolatra il passato, “perché l’epoca d’oro della psicoanalisi deve ancora venire”: è così che si presenta Nino Ferro, 65 anni, palermitano trapiantato a Pavia. “Bioniano” di stampo anglosassone e di respiro internazionale, è stato editor per l’Europa del Journal of Psychoanalysis e l’anno scorso era l’unico europeo tra gli organizzatori del congresso internazionale a Città del Messico. Ha scritto tanti libri, alcuni tradotti in più di dieci lingue.
Come un analista freudiano, convinto di poter seguire le linee classiche del maestro “perché senza Freud non c’è psicoanalisi”, come “un provocatore con il gusto della polemica”: è così che invece si descrive Alberto Semi, 68 anni compiuti ieri, un veneziano provvisto di grinta oltre che di amabilissima ironia. Anche lui è autore di molti saggi notevoli e conosciuti in vari Paesi, ed è nella redazione di una rivista francese di prestigio come penser/rêver.
«La candidatura di Ferro - dice - è in piena continuità con l’establishment della Società che in questi anni ha ostentato una finta unità, un “volemose bene” per dissimulare la tendenza ad accentrare ogni decisione. Bisognerebbe invece favorire la creatività, senza temere i conflitti, ma anche senza cedere a eclettismi insensati. “Non voglio creare convinzioni, ma scuotere pregiudizi e aprire prospettive”, diceva il vecchio Freud: è ancora il mio programma».
Ma è proprio il grigiore burocratico che Nino Ferro esclude di voler assecondare: «A me interessa il futuro della psicoanalisi, la nostra apertura al movimento psicoanalitico internazionale. Sono allergico al dogmatismo, diffuso dappertutto, convinto della caducità di ogni modello predefinito, perché noi ne sappiamo e ne sapremo sempre di più. E nessuno può ancora arrogarsi il diritto di dire “questa non è psicoanalisi”».

Repubblica 29.11.12
Dialogo morale
Lo scambio di scritti tra i due pensatori e il continuo confronto sul nostro Paese
Bobbio-Garin, passioni parallele Storia d’Italia in un’amicizia
di Gustavo Zagrebelsky


Il dialogo a distanza tra Bobbio e Garin ci mostra le fasi diverse che Bobbio ha attraversato e che corrispondono alla storia del paese. Dalla filosofia civile a quella militante fino a quella moralizzatrice. Ed è a questa ultima fase che, utilizzando il carteggio con Garin ( Della stessa leva. Lettere 1942-1999, uscito per Aragno), vogliamo dedicarci.
La fase di denuncia morale durò fino alla fine della sua vita e coprì il crollo della cosiddetta prima Repubblica e la nascita della seconda. Se non più della politica come progetto, di fronte al potere per il potere che non sa che fare della filosofia, di che cosa può occuparsi l’uomo di cultura se non delle degenerazioni, delle spregiudicatezze, della corruzione? Bobbio, prestigioso editorialista del giornale di Torino, divenne il punto di riferimento d’una 'Italia che si sdegnava' e ciò gli costò gli attacchi più violenti e volgari che avesse mai ricevuto, per il suo 'moralismo', 'azionismo', 'piemontesismo', 'torinesismo' ecc.: attacchi che non avevano nulla di culturale, ma molto di strumentale all’impunità d’un sistema di potere intollerante nei confronti di chi non si adeguava. Furono attacchi che non meritano nemmeno d’essere ricordati, se non per denunciare l’evidente incommensurabilità tra l’onesta denuncia della degenerazione, da un lato, e la disonesta violenza della reazione sopraffattrice, dall’altro. Perfino l’ex presidente della Repubblica Cossiga, nel 2004, diede prova di sé in questa miserabile campagna in cui rientra anche l’episodio della lettera di Bobbio a Mussolini del 1935, risuscitata dagli archivi nel 1992, episodio troppo noto per dover essere qui ricostruito.
Merita invece ricordarne le conseguenze dolorose a cui seguirono tante manifestazione d’affetto e solidarietà, innanzitutto quelle di Alessandro Galante Garrone e di Vittorio Foa. Questi sminuì l’episodio chiamando in causa lo stato di necessità in cui si trovano gli uomini retti, sotto regimi illiberali, che giustifica il 'nicodemismo' di quegli anni. Bobbio rispose quasi ricusandole: «Ciò che mi ha turbato e ha creato in me uno stato di sofferenza, da cui non riesco a liberarmi, e da cui non riusciranno a liberarmi le parole di giustificazioni dette da altri, è la lettera stessa, il fatto di averla scritta. La sento, quella lettera, oggi, naturalmente come una colpa. Ma era una colpa anche allora, e non è possibile che non l’abbia avvertita come una colpa nel momento stesso in cui la scrivevo».
Anche Garin interviene nella polemica (La Repubblica, 16 giugno 1992), con argomenti simili a quelli di Foa, cogliendo l’aspetto spregevole dell’operazione di cui Bobbio era vittima: «iniziative di questo tipo mi fanno un’impressione penosa […] nel negare che in Italia ci sia stata, a quel tempo, una dittatura, con tutte le sue dure e strane leggi. Sono episodi che mirano a fare una grande confusione, permettendo, nella migliore delle ipotesi, di assolvere tutto e tutti. Con, in più, un cipiglio di severi moralisti». Insomma: Bobbio era stato messo sotto tiro per mostrare che il moralizzatore era lui a dover essere moralizzato. Queste e altre difese non valsero, però, come lenimento. Credo che ci fosse dell’altro. Si aveva un bel dire ch’erano cose d’altri tempi e d’altre fasi della vita; che la vita è lunga e che un cedimento d’una volta – e chi non ne ha avuti; chi può vantare un’esistenza di coerenza totale? – non getta l’ombra sull’esistenza intera e che i bilanci si fanno alla fine. La questione in cui Bobbio si sentiva moralmente intrappolato – credo di poter dire - non era principalmente di natura personale, una questione di incoerenza o di opportunismo. Era soprattutto una questione, per così dire, d’integrità professionale. Per chi esercita una professione intellettuale, il diritto di pretendere d’essere presi sul serio, d’essere ascoltati in quel che si dice dipende dall’integrità della propria esistenza; dal poter esibire come credenziale la coerenza tra le parole dette e gli atti compiuti, cioè dalla sincerità.
Delle ultime battaglie di Norberto Bobbio, Eugenio Garin fu spettatore solidale: «Da qualche tempo sono diventato tuo fedele lettore sulla Stampa, e più d’una volta mi hai aiutato a superare momenti particolarmente difficili a digerirsi» (2 gennaio 1991). Non risulta invece, dai documenti, ch’egli gli sia stato compagno 'sul campo'. Del resto, Bobbio fu un combattente quasi solitario, pur se accompagnato da largo consenso. Forse, un ruolo lo giocava il carattere. Bobbio era un 'iracondo', un 'collerico', come ammetteva egli stesso (A me stesso,  in De senectute, 1996), aggiungendo però un riconoscimento ai suoi sforzi per tenere a bada questa parte del carattere: un carattere che portava ai grandi sdegni, pur se non a invettive, indegne del filosofo qual è stato sempre, fino in fondo. Ma, certo, era portato all’intransigenza, pur se espressa con misura.
Il carattere di Garin doveva, forse, essere diverso, meno incline alla disputa. L’ideale rinascimentale dell’uomo di lettere, forse, lo rendeva distante dalle battaglie cruente. Ciò potrebbe spiegare la condivisione delle posizioni di Bobbio che, secondo ciò che i documenti mostrano, restò sul piano del conforto morale. Chi ha avuto consuetudine con lui potrebbe forse confermare o smentire questa ipotesi.
Condivisione e amicizia sì, ma non al costo della sincerità. Così, quando alla fine della sua vita Bobbio prese posizione a favore dell’intervento militare nei Balcani, giustificando la 'guerra giusta' purché efficace con argomenti hegeliani – il diritto assoluto dello Stato volta a volta dominante nella storia universale – provocando la reazione stupita e addolorata di molti di coloro che si dichiaravano (e si dichiarano) suoi allievi come Danilo Zolo e Luigi Ferrajoli, Garin intervenne dichiarando lapidariamente: «Io sono kantiano» e, dopo aver sviluppato i suoi argomenti in totale disaccordo con quelli del suo amico, concludeva con una dichiarazione dal tono che posso immaginare conforme al carattere dell’uomo: «Non credo di poterlo seguire su questa strada».
Questa è l’ultima vicenda pubblica che vede Bobbio e Garin in dialogo (per questa volta, discorde) tra loro. Noi ci dobbiamo fermare qui. Ma non possiamo evitare di chiederci che cosa avrebbero potuto ancora dirci con riguardo ai tempi presenti, questi due umanisti della nostra epoca, l’uno impregnato di spirito del Rinascimento, l’altro difensore dei diritti, se non dei Lumi, almeno dei lumicini della ragione. Durante i suoi
ultimi anni, Bobbio ha confessato più volte di sentirsi ormai fuori dal mondo, vecchio e quindi ai margini. Il tempo attuale è quello della velocità e del cambiamento crescenti. I vecchi non sanno stare al passo e diventano sempre più pesi morti. Le pagine del De senectute (1996) sono una testimonianza sincera, e drammatica, del senso d’inadeguatezza ch’egli avvertiva. Il mondo cambia troppo rapidamente perché lo si possa, non dicasi assimilare, ma nemmeno conoscere, anche solo superficialmente. L’umanista ha come compito la comprensione d’insieme di ciò che è umano. Ma oggi il progresso delle conoscenze e delle loro applicazioni si fa a danno delle visioni d’insieme. Viviamo in un mondo parcellizzato. La divisione del sapere e delle applicazioni del sapere è, del resto, condizione per il progresso dell’uno e delle altre. Conosciamo il sempre più piccolo, ma non riusciamo ad avere un’idea del tutto. Rispetto al tutto, siamo letteralmente 'spaesati'.
D’altra parte, la filosofia è in condizione di difficoltà, se non d’inferiorità nel suo stesso campo tradizionale di studio. Le grandi domande sulla vita, sulla sua origine, sul
cammino nel tempo, e, forse, sul suo senso, vengono poste oggi sempre più dalla biologia, dalla chimica, dalla fisica e dall’astrofisica, dalla psichiatria, dalle neuroscienze; e da queste scienze si chiedono risposte che, un tempo, ci si aspettava dalla filosofia. Rispetto allo sviluppo delle altre scienze, la filosofia sembra diventare inadeguata, antiquata.
Infine, l’orizzonte pratico della riflessione filosofica di Bobbio e di Garin è stato essenzialmente nazionale. Ma, quella cosa che chiamiamo globalizzazione, riguardando le società nel loro complesso, ha abbattuto i confini, rendendo obsoleta l’idea della specificità o del 'primato' italiano, quale che ne sia l’idea. (...) Chi si raccapezza nella Babele? Chi saprebbe abbracciare ciò che accade in un concetto sintetico che consenta di capire? Come potremmo definire comprensivamente la nostra epoca? Non lo sappiamo. I tanti 'post' che tengono il campo del pensiero politico: post-modernità, post-capitalismo, post-secolarità, post-democrazia, per esempio, ci dicono solo che cosa non siamo più. Quando ci si azzarda in definizioni positive come 'complessità', 'società del rischio', 'società liquida' si cade in brillanti banalità che certo avrebbero disgustato chi ha dedicato la propria esistenza a ricostruire i percorsi della formazione dei concetti portanti e importanti della nostra società e a definirne i contenuti.
Forse da questo disgusto sarebbe nata l’energia per cercare, cercare ancora nuove categorie d’ordine adeguate al tempo che viviamo, ancora una volta con l’intento di sottoporre le forze selvatiche, di cui vediamo le opere, al controllo della ragione. Ma, questo è solo un rimpianto insensato col quale riempiamo il nostro senso di vuoto.

l’Unità 29.11.12
Quant’è marziana e misteriosa la vita
Molecole organiche sul pianeta rosso
Ma non è una scoperta rivoluzionaria
di Pietro Greco


I rilievi di Curiosity annunciati da un esponente della Nasa durante un convegno a Roma
I dati ufficiali però saranno presentati il prossimo tre dicembre

CURIOSITY HA TROVATO MOLECOLE ORGANICHE SEMPLICI SUL PIANETA MARTE. LA NOTIZIA CORRE VELOCE, MA – A DIFFERENZA DELLA SONDA ROBOT – PER ORA HA ANCORA LE GAMBE CORTE. Si annuncia una scoperta storica. Ma, se ci si limita alle indiscrezioni, la notizia è pressoché scontata: di molecole organiche semplici – ovvero di piccole molecole a base di carbonio – è infatti disseminato tutto l’universo. Sarebbe strano non trovarne tracce anche su Marte.
Ma andiamo con calma. Ai margini di un convegno tenuto presso l’Università La Sapienza di Roma, Charles Elachi, direttore del Jet Propulsion Laboratory della Nasa, ha annunciato che Curiosity, il rover dotato di una certa autonomia e di laboratori chimici abbastanza sofisticati, che lo scorso mese di agosto ha iniziato a scorrazzare sulla superficie del «pianeta rosso» avrebbe rilevato la presenza di molecole organiche semplici. La notizia è tutta da confermare, ha detto Elachi. Ne sapremo di più lunedì prossimo, 3 dicembre, quando l’annuncio ufficiale, con una conferma o una smentita, verrà dato nel corso di una riunione dell’American Geophysical Union degli Stati Uniti.
UNA TESI DIFFICILE
Malgrado le precauzioni di Elachi, la notizia è stata rilanciata da tutti i media italiani. Anche perché nei giorni scorsi negli Stati Uniti un collaboratore tra i più in vista del Jet Propulsion Laboratory, John Grotzinger, aveva a sua volta annunciato in una trasmissione radiofonica che, probabilmente, Curiosity ha effettuato una «scoperta storica».
Molti hanno fatto «due + due + due»: quando Grotzinger parlava di «scoperta storica» doveva riferirsi al rilevamento di molecole organiche semplici sulla superficie marziana. E poiché le molecole organiche semplici sono «precursori della vita», ecco che la scoperta potrebbe costituire la prima conferma dell’esistenza, presente o più verosimilmente passata, di organismi viventi su Marte.
Premesso che, come ha sottolineato Elachi, è tutto da confermare, davvero la scoperta di molecole organiche semplici, composte da un numero piccolo di atomi di carbonio legati tra loro ed eventualmente ad atomi diversi (idrogeno, ossigeno, zolfo, fosforo) su Marte avrebbe un carattere storico?
La tesi è difficile da sostenere. In primo luogo perché di molecole organiche semplici – e alcune neppure tanto semplici – ne sono state rilevate finora svariate – di decine e decine di tipi diversi – in giro per l’universo. Sia nello spazio fuori dal sistema solare e sia nel nostro sistema solare, su meteoriti e comete. Sappiamo dunque da tempo che il carbonio ha una sua chimica sviluppata anche fuori dalla Terra. Il fatto che siano state rilevate su Marte, anche se venisse confermato, non sarebbe davvero sorprendente. Semmai dovrebbe sorprendere il contrario. Perché su Marte no?
Naturalmente le cose cambiano se si riesce a risalire alla fonte di queste molecole organiche. Sono di origine esogena, ovvero state portate su Marte da comete e meteoriti, oppure sono di origine endogena, ovvero sono state generate sul pianeta rosso? Nel primo caso la notizia sarebbe di scarsa rilevanza scientifica. Comete e meteoriti irrorano l’intero sistema solare di molecole organiche. Nel secondo caso si dovrebbe spiegare come si sono formate: attraverso processi biologici o attraverso processi non biologici?
Nello spazio cosmico sono state rilevate molecole organiche relativamente complesse e di diversa natura chimica (alcol, aldeidi e chetoni, acidi). Sono state trovate tracce di «precursori biotici» piuttosto sofisticati, come, per esempio, la glicina: uno dei venti amminoacidi che costituiscono le basi delle proteine. E le proteine sono, con gli acidi nucleici, le «macromolecole della vita»: le autentiche molecole biologiche.
Fino a prova contraria queste molecole si possono formare anche in ambienti abiotici: ovvero in assenza di vita. Come dimostrò in un famoso esperimento Stanley Miller, studente del premio Nobel per la Chimica Harold Urey, nel 1953: ovvero sessant’anni fa. Esperimenti più recenti hanno dimostrato che in ambienti abiotici e in condizioni particolari si possono formare diversi tipi di amminoacidi.
ASPETTIAMO CONFERME
Anche nel caso, dunque, che si possa dimostrare che le molecole organiche marziane si sono formate in loco, la notizia non sarebbe così sconvolgente. Ovvero storica. Se per storica si intende la scoperta almeno di indizi di una «vita marziana».
Naturalmente il discorso cambierebbe se le molecole organiche semplici rilevate da Curiosity avessero un’inequivocabile origine biologica. In questo caso il clamore sarebbe giustificato. Anche se sarebbe difficile, probabilmente, stabilire se la fonte biologica è terrestre (dunque le molecole sarebbero state portate su Marte proprio da Curiosity), è di origine extra-terrestre ma anche extra-marziana o è di origine marziana. Ma ci stiamo avventurando nel campo delle mere ipotesi. E di ipotesi di vita sul pianeta rosso sono piene le cronache ma vuote le solide dimostrazioni. D’altra parte per tornare con i piedi per Terra (o, se volete, su Marte), non resta che aspettare lunedì.

La Stampa TuttoScienze 28.11.12
“Se credete solo al Dna avete sbagliato tutto”
I geni non galleggiano nel vuoto ma sono continuamente influenzati dall’ambiente
di Gabriele Beccaria


Nuova visione L’epigenetica sta trasformando il modo «classico» con cui si concepiva il nostro Genoma Dal clima agli stili di vita fino alle emozioni: sono moltissimi gli elementi che possono condizionare l’espressione dei geni
Quando vuole spiegare di che cosa si occupa, David Baulcombe usa una formula secca: «It’s not all in my Dna!». Non è tutto nel mio Dna!

Spesso la doppia elica e le quattro lettere che la compongono - A, C, G e T - vengono usate a sproposito. E c’è chi pensa di essere ciò che è per colpa o per merito del Genoma. Come se ci fosse un meccanico, e rozzo, rapporto causa-effetto. Baulcombe, capo del dipartimento di scienze botaniche alla University of Cambridge, sta esplorando l’ancora misterioso universo delle piante per smontare gli stereotipi di chi si è fatto imprigionare nella camicia di forza del determinismo genetico. Le cose - ha scoperto - sono decisamente più complicate. E a rivelarlo è la scienza di cui lui è diventato maestro: l’epigenetica.
I geni non galleggiano nel vuoto. Sono influenzati dall’ambiente e quindi dall’insieme degli elementi in cui è immerso un organismo. Le loro «espressioni» possono modularsi come uno spartito musicale continuamente variabile e non c’è essere vivente che sfugga a questo destino. Ciò che vale per le piante vale anche per noi umani e il fascino dell’epigenetica - spiega Baulcombe - sta proprio nel fatto che fa a pezzi molte idee e ne propone altre, rivoluzionarie: dall’origine delle nostre malattie ai modi di coltivare il grano o i pomodori, fino a influenzare la concezione stessa dell’evoluzione, rendendone le logiche più sofisticate di quanto pensasse il suo ideatore di due secoli fa.
Ospite a Roma, dove ha ricevuto il Premio Balzan della Fondazione omonima, Baulcombe salta volentieri da un tema all’altro, esattamente come suggeriscono i molteplici scenari disegnati dall’epigenetica. «Quando penso a Darwin, mi viene in mente il celebre schizzo dell’albero della vita che tracciò sui suoi taccuini. Una vera icona. In effetti oggi sappiamo che noi e le piante abbiamo un antenato comune, che non è altro che un’ameba. L’epigenetica conferma, se ce ne fosse bisogno, la teoria dell’evoluzione, sebbene Darwin non conoscesse i meccanismi genetici delle variazioni nel corso del tempo». E anche se c’è chi deduce che la nuova disciplina tenda a mettere un po’ da parte Darwin e a ridare spazio al grande avversario - Lamarck - il professore inglese non ne è così convinto. «Nessuna ricerca ci dice che sia vera la famosa deduzione sul collo delle giraffe che si allungherebbe per raggiungere, un po’ alla volta, le foglie più alte». Se l’ereditarietà di alcuni caratteri acquisiti è una delle scoperte dell’epigenetica, contrariamente al pensiero del biologo e botanico francese non ci sono prove di quegli automatismi che hanno fatto sognare tanti studiosi. «Le mutazioni non hanno necessariamente una direzione e un obiettivo - dice -. Tutto succede in modi “random”». Casuali, insomma.
E questo è un punto fondamentale sul quale il professore - studioso di fiori, alghe e ibridi - ama insistere. I cambiamenti nei geni e quindi delle proteine che esprimono possono seguire esiti diversi. Persistere intatti da un padre a un figlio oppure - sottolinea - «resettarsi» rapidamente o, ancora, perdersi per ripartire in modi nuovi. Non c’è - che si sappia - un modello prestabilito. Si osserva piuttosto una molteplicità di quelle che vengono definite «manifestazioni molecolari», indotte da aspetti specifici dell’ambiente (e che possono essere quasi infiniti): dall’intensità delle piogge che infradiciano una pianta all’alimentazione di un essere umano.
C’ è un esperimento, ormai diventato un classico, che chiarisce la questione. Baulcombe e il suo team hanno manipolato il genoma di alcune piante, inserendo la proteina di una medusa, e hanno studiato le reazioni all’attacco di un virus. Da una generazione all’altra.
Mentre la clorofilla è fluorescente al rosso, quando viene esposta ai raggi ultravioletti, nelle nuove creature reagisce al verde. «La fluorescenza, così, funziona esattamente come un semaforo. Se le piante rispondono al verde, il gene è attivo. Se invece rispondono al rosso, il gene è spento». Ed è questo semaforo ad aver comunicato informazioni preziose.
Appena il virus viene scatenato in laboratorio, ecco che la proprietà di reagire al verde si perde: non solo i biotecnologi hanno avuto la prova che le loro tecniche funzionano, ma a eccitarli è stato un fenomeno sorprendente. Una volta analizzati i semi delle piante infettate, hanno scoperto che il gene continuava a rimanere spento. Dai padri ai figli, ai nipoti. E la «colpa» non era del virus. Erano le piante stesse ad aver imparato il nuovo comportamento, adottando quella che Baulcombe definisce «una memoria biologica, di tipo soft».
Adesso le ricerche stanno proseguendo «in due direzioni principali - sottolinea -: gli ibridi, nei quali studiamo come combinazioni di geni diversi si trasformino in variazioni ereditabili, e, poi, le trasformazioni di una piccola alga, chiamata chlamydomonas, che è particolarmente interessante per le mutazioni in rapporto agli habitat in cui viene inserita». Nell’uno e nell’altro caso lo spettacolo di queste metamorfosi è una porta spalancata sulla complessità dei patrimoni genetici degli organismi e di conseguenza il viaggio nell’universo della flora rappresenta solo l’inizio di un’avventura globale. Baulcombe sottolinea che imparare a maneggiare i geni darà nuove armi per combattere tante malattie - dai tumori fino all’Hiv - e per molto altro.
Ma a preoccuparlo - riflette alla fine della conversazione - è un altro aspetto legato alle amate piante. Vale a dire tutto il cibo necessario per nutrire un’umanità che ha già oltrepassato la soglia critica dei sette miliardi di individui. «Entro 20-30 anni rischiamo una carestia generalizzata: i problemi della scarsità e della sicurezza degli alimenti sono e saranno sempre più legati. E’ una sfida immensa, eppure non la si valuta in tutte le sue sfaccettature».
E spiega: «Per gli economisti è una questione di aggiustamento dei mercati. Per i produttori di cibi organici è una di “pratiche pulite”. Per i biotecnologi è una di manipolazioni genetiche e quindi di Ogm. Ma la realtà è che nessuno di loro è nel giusto. L’antagonismo che li contraddistingue non ci porterà da nessuna parte. Soltanto se accetteranno di seppellire l’ascia di guerra e cominceranno a confrontarsi seriamente, sarà possibile trovare soluzioni efficaci».
Parola di scienziato - abituato alle lezioni dei fatti - che non rinuncia al suo sorriso contagioso.

David Charles Baulcombe, Botanico RUOLO : È PROFESSORE DI BOTANICA E CAPO DEL DIPARTIMENTO DI SCIENZE BOTANICHE ALLA UNIVERSITY OF CAMBRIDGE
IL SITO : WWW.PLANTSCI.CAM.AC.UK/ RESEARCH/DAVIDBAULCOMBE.HTML"
LA SVOLTA DELL’EPIGENETICA
IL «GURU» BAULCOMBE A lui il Premio Balzan per le ricerche d’avanguardia sulle piante


La Stampa TuttoScienze 28.11.12
Il computer che simula un cervello


Cinquecento miliardi di neuroni e 100 mila miliardi di sinapsi: l’Ibm ha messo a punto la più grande simulazione di un cervello. Il progetto, battezzato «Compass», ha l’obiettivo di riprodurre la mente di un macaco, una scimmia comunemente usata nei laboratori dai neuroscienziati. «Si tratta di una vera e propria pietra miliare cognitiva», hanno commentato molti ricercatori, mentre tra gli addetti ai lavori c’è chi saluta «Compass» come il precursore di una non troppo lontana riproduzione del cervello umano. L’esperimento rientra in un nuovo filone di studi - l’ingegneria neuromorfica - che punta a realizzare computer in parallelo che assomiglino alla nostra «macchina biologica», seguendo la logica elaborata negli Anni 80 dall’ingegnere del Caltech Carver Mead.