venerdì 30 novembre 2012

l’Unità 30.11.12
Regole, lo strappo di Renzi
Una pubblicità riapre lo scontro. Gli altri quattro candidati: violato il codice etico
Big Bang, inserzione da 100mila euro
Nel 2012 Big Bang ha incassato 160mila euro in donazioni, compresa la cena con Serra
La Fondazione è presieduta da Alberto Bianchi che è anche tesoriere del comitato per Renzi per il quale ha stanziato 20 mila euro
Bufera sulle primarie
di Andrea Carugati


Sarà pur vero che la fondazione Big Bang, che a Renzi è assai vicina, con le sue pagine a pagamento ieri e oggi su alcuni grandi giornali (come Corriere, Stampa e Qn) non ha fatto alcun appello elettorale a favore di Renzi. Ma si è limitata, come dai suoi scopi di statuto, a promuovere la partecipazione al voto in particolare «diffondendo modalità partecipative che utilizzino appieno la rete».
E tuttavia questa mossa a tre giorni dal ballottaggio qualche interrogativo lo fa nascere. Anche perché la struttura della fondazione, nata all’inizio del 2012 e con sede a Pistoia («Ben prima della candidatura di Matteo alle primarie», spiegano in coro i protagonisti), coincide in modo quasi millimetrico con quella del Comitato elettorale vero e proprio. A partire dal suo presidente, l’avvocato fiorentino Alberto Bianchi, che è anche il tesoriere del comitato. Per proseguire con Marco Carrai, amico e coetaneo del sindaco, imprenditore di Greve in Chianti, definito il «Gianni Letta di Renzi» per la fittissima rete nazionale e internazionale di rapporti politici ed economici che ha messo in relazione col sindaco, da Farinetti di Eataly a Baricco, dalla Compagnia delle Opere all’Opus Dei, da Blair a Michael Ledeen, animatore del think tank repubblicano American Enterprise Institute. Di recente Carrai è entrato nel board della Fondazione dell’Ente Cassa di risparmio di Firenze, azionista di Intesa San Paolo.
Carrai, che è anche ad di Firenze parcheggi (una partecipata del Comune) è segretario generale della Fondazione e anche presidente del Comitato elettorale del sindaco rottamatore. Inoltre, nel board della fondazione siedono altri due strettisimi consiglieri di Renzi, il responsabile del programma Giuliano Da Empoli e Ernesto Carbone, già esponente di spicco della dalemiana Red e ora tra i più appassionati rottamatori. Non deve stupire, quindi, che la Fondazione contribuisca alla campagna del sindaco, e in alcuni casi abbia svolto un ruolo di fund raiser, come nel caso della cena col mondo della finanza organizzata a Milano dal finanziere Davide Serra, quello finito al centro delle cronache per il fondo Algebris con sede alle isole Cayman. E tuttavia le proporzioni degli investimenti effettuati finora dalla fondazione qualche interrogativo lo suscitano. Spiega il presidente Bianchi a l’Unità che la campagna di stampa per favorire la partecipazione al ballottaggio è costata «circa 100mila euro». «Ma si tratta di un appello al voto in generale e non a favore di un candidato», sottolinea l’avvocato. E dunque tale investimento «non può certo essere inserito nel tetto complessivo di 200mila euro per ogni candidato alle primarie» previsto dal codice di comportamento (che vieta anche le pubblicità a pagamento). Lo stesso Bianchi ammette che quelle pagine a pagamento «vanno incontro all’auspicio di Renzi» e non di Bersani, cioè che al secondo turno votino persone che al primo erano rimaste a casa. «Ma se Renzi è l’unico ad auspicare che aumenti la partecipazione e cioè che la gente vada alle urne», aggiunge, «è un fatto molto grave, che ricorda la Romania di Ceasescu».
Le proporzioni, si diceva. Perchè a fronte di questo investimento di 100mila euro, la Fondazione ad oggi «ha investito meno di 20mila euro dei 51mila che abbiamo finora rendicontato sul sito del comitato come spese della campagna», dice Bianchi. «E alla fine avrà comunque sostenuto una spesa inferiore a quella del comitato, calcolando un totale inferiore ai 200mila euro». Ad oggi, cioè, la Fondazione Big bang guidata dai più stretti collaboratori di Renzi ha investito sulle pagine a pagamento di ieri cinque volte quello che ha speso per Renzi. Pur avendo nel corso dell’anno incassato «circa 160mila euro di donazioni, compresa la cena milanese con Serra». Non è una contraddizione, soprattutto per lei che è anche tesoriere del comitato Renzi? «Non posso mica spendere botte di 100mila euro per la campagna di Matteo, altrimenti supererei subito il tetto dei 200mila», dice Bianchi. «Mentre per favorire la partecipazione possiamo spendere quello che vogliamo, rendendo conto solo al nostro cda». E il giro in camper? «Quello sarà finanziato al 99% dal comitato». E tutte le sale che avete affittato in giro per l’Italia? «Si è trattato di eventi in gran parte auto-finanziati in loco». E non devono rientrare nel tetto? «Se anche gli altri candidati sono disposti a sommare queste spese locali a quelle centrali allora lo faccio anch’io. Ma io degli altri ancora non ho visto una fattura in rete...». Vuol dire che avete sforato? «Mica potevamo impedire a dei cittadini di organizzare una serata per Matteo...»..
Sta di fatto che, parola della renziana Simona Bonafè, solo la kermesse della Leopolda è costata poco meno di 100mila euro. Ed è solo un tassello della lunghissima campagna del sindaco. E tuttavia i renziani rivendicano la legittimità del loro operato: «La Fondazine è cosa ben diversa dal comitato», spiega uno dei membri del cda con la garanzia dell’anonimato. «E per la pagina sui giornali non abbiamo usato neppure la grafica che usiamo sempre per Matteo». «E comunque a gennaio i nostri bilanci saranno depositati in prefettura». «Noi lo supportiamo, anche economicamente, ma siamo cosa diversa dal comitato», gli fa eco Bianchi. Il sindaco, però, sul suo sito, non fa grande differenza tra le due entità. Si legge, infatti: «Renzi non accetta, né direttamente né tramite il Comitato o la Fondazione Big Bang, contributi anonimi alla sua campagna...».

l’Unità 30.11.12
Esposto contro Renzi «Così inquina il voto»
Il comitato del sindaco: «Tutti ai seggi, scateniamo l’inferno». Berlinguer: «Noi vogliamo il paradiso»
Le inserzioni a pagamento dei renziani fanno scattare l’iniziativa degli altri candidati e la dura presa di posizione del presidente dei Garanti
Bersani: fatto spiacevole, le regole si rispettano
di Maria Zegarelli


ROMA Un’intera pagina a pagamento su Corriere, La Stampa e la Nazione fatta pubblicare dal sito www.votodomenica.it, riconducibile alla Fondazione Big Bang di Matteo Renzi, per invitare tutti ad andare a votare al ballottaggio di domenica spiegando che «è sufficiente iscriversi entro venerdì 30 novembre ore 20». Sul sito segue modulo da compilare per la richiesta. Nessun riferimento al fatto che possono votare gli elettori già registrati e tutti quelli che per motivi «indipendenti dalla propria volontà» non hanno potuto farlo nei 21 giorni stabiliti dal regolamento.
Costo dell’operazione pubblicitaria: 100mila euro. Immediata la reazione di tutti gli altri candidati alle primarie, vincenti e perdenti: Bersani, Tabacci, Vendola e Puppato presentano immediatamente un esposto al Comitato dei Garanti (che si riunirà oggi alle 13 per valutarlo) per «una palese violazione del codice di comportamento dei candidati alle primarie del centrosinistra e dei principi regolamentari» che i competitor hanno dovuto sottoscrivere quando si sono presentati. Tutti lamentano che la pubblicità non è stata deliberata dal Comitato, che è ingannevole e che è in corso un tentativo di modificare la platea degli elettori.
Da uno dei comitati del sindaco rottamatore partono anche sms barricaderi: «Scateniamo l’inferno». L’inferno agli uffici elettorali per permettere a tutti di votare, naturalmente. Altro che low profil e fioretto davanti alla telecamere. È guerra aperta. Tanto che il presidente dei Garanti, Luigi Berlinguer, parla di rischio di «disinformazione e inquinamento» del secondo turno del voto. «C’è un’informazione non giusta, che inganna gli elettori e gli fa pensare che basti iscriversi per votare», spiega in una conferenza stampa .Questo turba la regolarità serena della consultazione, non vogliamo elezioni che corrano rischi di inquinamento e disinformazione». Racconta anche di quel messaggio «intercettato casualmente da “Trevi Adesso” che invitava a portare tanta gente a votare e a “scatenare l’inferno”. Ci fa piacere che tanta gente vada a votare come è stato già per il primo turno, ma noi non vogliamo l’inferno, ma il paradiso e uno svolgimento ordinato delle votazioni come è avvenuto domenica scorsa». Arturo Parisi, convinto sostenitore di Renzi, commenta a caldo: «Pur non essendo l’inserzione a favore di alcun candidato e quindi difendibile sul piano formale, se promossa da Renzi, introdurrebbe un’ombra in una campagna condotta finora in modo limpido e trasparente».
Il sindaco dice di non capire: «Sono senza parole, stiamo facendo una battaglia bella e leale e non capisco perché dobbiamo essere attaccati dagli altri candidati. Non meritiamo questo, stiamo chiedendo alle persone di andare a votare. Non si è mai visto un partito che dice di no. Nessuno di noi ha cambiato le regole in corso, il coordinamento delle primarie ha detto che si può mandare la mail entro domani alle 20 e lo stiamo facendo». Accusa gli altri candidati di «avvelenare il clima», «la cosa più allucinante che si possa fare». Uno degli spin doctor di Renzi, Giovanni Da Empoli, va giù duro: «Ci eravamo addormentati ieri sera negli Stati Uniti con il bel dibattito in tv tra i candidati poi ci siamo risvegliati in Bulgaria».
Pier Luigi Bersani dagli studi di Bruno Vespa non nasconde il fastidio: «Certamente è una cosa non gradevole». Parla anche della richiesta pressante che da Renzi a Reggi a Paganelli (con toni più o meno ultimativi) tende ad aprire porte e finestre urbi et orbi: «Anche adesso c’è tanta gente che vorrebbe venire a votarmi. Io dico ok, ma dentro le regole. Le regole le abbiamo mutuate da quelle dei sindaci. Abbiamo applicato questa norma ma l’abbiamo anche condivisa, l’abbiamo decisa insieme, non io e Renzi, ma tutti quelli che hanno partecipato alle primarie».
Paganelli in una conferenza stampa annuncia che l’azione di mail bombing (inviare in massa il modulo per la registrazione) sta andando alla grande: «Alle 12 di oggi (ieri per chi legge, ndr) all’ufficio provinciale di Milano erano arrivate 4300 domande; a Torino 1500; a Genova 500; a Bologna 1000.
E stanno crescendo con una velocità di 12 al minuto». Denuncia di non aver avuto risposta sulla pubblicazione dei verbali, sui certificati elettorali di domenica scorsa. Denuncia l’invenzione «del silenzio non assenso» nella delibera 26 emessa dal Coordinamento: chi chiede di essere iscritto ex novo in caso di mancata risposta non può ritenersi iscritto. Ormai è muro contro muro.
Roberto Reggi accusa il partito «di cacciare via in malo modo» gli elettori e di rifiutarsi di dire «dove sono andati a finire» i certificati elettorali non utilizzati domenica scorsa. Insinuazioni pesantissime. Provoca: «Il regolamento non è mai stato approvato né dall’assemblea né dai delegati dei candidati». Come a dire: mani libere. Non è proprio così: i competitor con la candidatura si sono impegnati ad «accettare le norme contenute nei regolamenti per lo svolgimento delle primarie e nel codice di comportamento dei candidati, approvati dal Collegio dei Garanti» nonché «a rispettare e sostenere tutte le decisioni assunte dal Collegio dei Garanti». E i Garanti hanno stabilito che la «platea elettorale non può essere modificata», secondo quanto previsto anche dai principi regolamentari, la Costituzione di queste primarie. Davvero una brutta pagina quella che si sta scrivendo in queste ore.

l’Unità 30.11.12
«Gravi irregolarità a Firenze»
Sentenza della Corte dei Conti: irregolarità su spesa e personale
Palazzo Vecchio: «Questione superata»
di M.Ci.


ROMA Non è bella la pagella che la Corte dei Conti ha stilato per il Comune di Firenze che ha bocciato, in modo argomentato, l’amministrazione guidata da Matteo Renzi. I magistrati contabili avrebbero rilevato «gravi irregolarità» e il mancato rispetto del patto di stabilità con lo sforamento dei limiti di spesa. In più hanno evidenziato uno stato di «precarietà finanziaria» conseguenza della scorretta destinazione dei proventi derivanti dalle multe agli automobilisti che sono stati usati per coprire capitoli di
spesa non inerenti. La situazione, ha rilevato la Corte dei Conti, «risulta aggravata dalla previsione nell’anno 2012 di nuove assunzioni di personale, rinnovi, proroghe dei contratti a tempo indeterminato. «Ciò costituisce una grave irregolarità contabile in quanto in contrasto con la normativa e con i principi generali ai fini del coordinamento della finanza pubblica».
La sentenza, resa nota dall’agenzia di stampa Dire, risale al 27 novembre. In essa le affermazioni sono sostanziate da tutta una serie di numeri e richiami a leggi e norme. La Corte ha scritto di «reiterata irregolarità contabile che, oltre ad essere contraria ai principi di sana gestione, denota il permanere di una situazione di precarietà finanziaria che richiede l’adozione di particolari misure di adeguamento delle previsioni dell’entrata e della spesa».
Da Palazzo Vecchio si replica: «Il ministero ci ha autorizzato ad anticipare una quota di spesa dal 2013 al 2012 e la Corte dei Conti ci ha già dato l’okay».
Un provvedimento oggi consiglio comunale potrebbe far superare il problema relativo al patto di stabilità, che il sindaco Renzi chiama sempre “patto di stupidità”. Reggi, il coordinatore della campagna di Renzi: «Ci sarà qualche amico di Bersani anche alla Corte dei Conti». Resta il braccio di ferro sui contratti a tempo determinato, il cui importo secondo la Corte sarebbe eccessivo.
Sulla base degli atti che le sono stati trasmessi dalla Corte dei Conti, mentre la Guardia di Finanza ieri ha fatto altri accertamenti nell’Ufficio Personale del Comune, la Procura ha aperto un fascicolo sugli stipendi dei dipendenti del Comune di Firenze, a partire dal 2001, in particolare sul cosiddetto salario accessorio, come le indennità o i premi. L'inchiesta dei magistrati contabili è aperta da tempo ed è nata da una segnalazione degli ispettori del ministero dell'Economia dopo una serie di accertamenti in numerosi Comuni sulla «contrattazione decentrata». A Firenze furono mossi appunti sull'applicazione delle regole.

il Fatto 30.11.12
Palazzo Vecchio
La Corte dei conti contesta altre spese al sindaco di Firenze
“Grave irregolarità contabile in contrasto con la finanza pubblica”
di Giampiero Calapà e Sara Frangini


Se sarò il presidente del Consiglio non avrò nel mio governo più di dieci ministri”. Così ha promesso Matteo Renzi, indicando la strada per l’abbattimento delle spese pazza della cosiddetta Casta. Peccato che nella sua città si abbatte una nuova stangata da parte della Corte dei conti. Al vaglio le casse di Palazzo Vecchio. Bilancio alla mano, i giudici contabili hanno rilevato “un ammontare della previsione di spesa di personale nel 2012 non conforme al limite previsto”. È quanto si legge nella deliberazione dei giudici contabili, datata 27 novembre 2012, in cui viene specificato che l’importo “risulta superiore al 50% del totale della spesa sostenuta per le stesse finalità nell’anno 2009 o triennio 2007-2009 (120,26%) ”. La scelta va a costituire una situazione critica, “aggravata dalla previsione nell’anno 2012 di nuove assunzioni di personale, rinnovi, proroghe dei contratti a tempo determinato”.
ELEMENTI che contribuiscono a formare una “grave irregolarità contabile in contrasto con la normativa e i principi generali ai fini del coordinamento della finanza pubblica”. Come se non bastasse “l’impostazione del bilancio pluriennale 2013-2014 non garantisce il rispetto del patto di stabilità e costituisce una grave irregolarità contabile per cui è necessaria l’assunzione immediata di idonei atti di correzione e l’eventuale rideterminazione delle previsioni di bilancio”. La deliberazione è arrivata ieri sul tavolo del sindaco Renzi e il Consiglio è pronto a riunirsi, oggi stesso, per il bilancio di assestamento che prevede tagli agli investimenti per ben 73 milioni di euro. Sulla delibera della Corte dei conti, l’assessore Alessandro Petretto si è difeso: “Il bilancio è in equilibrio”, peccato che il suo predecessore Claudio Fantoni si è dimesso proprio contestando la gestione disinvolta del bilancio comunale. Mentre, la stessa Corte dei conti, prosegue l’inchiesta sulle spese della Provincia in favore di Florence Multimedia – un super ufficio stampa creato da Renzi nel 2005 – ai tempi in cui era presidente il “rottamatore”. Nello specifico le accuse dei giudici contabili fanno riferimento al un “irregolare affidamento di servizi per un importo superiore a quello previsto dai relativi contratti di servizio”, con una spesa complessiva di oltre nove milioni di euro. Senza la procedura prevista dalla legge e senza mai discuterne in Consiglio provinciale, come scritto in una relazione del Minsitero del Tesoro, Florence Multimedia, tra il 2006 e il 2009, incassò oltre 9 milioni di euro. Attraverso “contratti, convenzioni, disciplinari di servizio, affidamenti al lordo, il cui importo triplica quello dei contratti di servizio di base”. Quindi sei milioni su nove sono contestati dalla Corte. Inoltre, in seguito a una precedente indagine della Corte dei conti l’amministrazione provinciale di Matteo Renzi (2004-2009) è già stata condannata in primo grado per un danno erariale di 50 mila euro.

l’Unità 30.11.12
Attenti a giocare con l’arma della delegittimazione
di Francesco Cundari


LA CONTINUA POLEMICA SULLE REGOLE DA PARTE DI MATTEO RENZI HA UN CARATTERE DI DELEGITTIMAZIONE CHE NON FA BENE AL CENTROSINISTRA e tanto meno al Partito democratico, però funziona. Alimenta sui grandi mezzi di comunicazione la rappresentazione di un vertice ottuso e incattivito, che le escogita tutte pur di ostacolare la partecipazione popolare. Ma soprattutto legittima qualsiasi forzatura da parte dello sfidante e dei suoi sostenitori.
Se infatti le regole sono quelle comunemente stabilite e che tutti, dopo averle liberamente discusse, votate e sottoscritte, si sono impegnati a osservare, c’è poco da fare: chi cerca di aggirarle, se non di violarle apertamente, non fa una bella figura. Ma se invece quelle stesse regole non sono altro che una serie infinita di trucchi, trappole e tranelli escogitati dagli «scagnozzi» del capo, dai guardiani del regime oppressore che in tal modo cerca di sottrarsi al giudizio popolare, allora no: allora qualunque mezzo usato per aggirare gli ostacoli è legittima difesa, disobbedienza civile, coraggioso e giustificatissimo atto di resistenza.
Nel merito, l’intera battaglia ruota attorno all’interpretazione del regolamento, concentrandosi di volta in volta su una regola diversa: prima sulla registrazione in sé, poi sul luogo fisico in cui doveva avvenire, quindi sui tempi (fino al giorno prima del voto o anche il giorno stesso?). Dall’inizio della campagna per le primarie non c’è stata una giornata in cui non si sia protestato per una di queste ragioni (o per una delle tante altre che non citiamo per motivi di spazio).
Questa strategia ha sicuramente pagato, dal punto di vista del candidato Matteo Renzi. Ma forse ha preso la mano ai suoi sostenitori. L’avviso a pagamento promosso ieri dalla «Fondazione Big Bang» su diversi grandi giornali è evidentemente un passo falso. L’avviso recita infatti: «Anche chi non ha votato al primo turno può farlo al
ballottaggio richiedendo la registrazione, è sufficiente iscriversi entro venerdì 30 novembre ore 20.00 scrivendo una email al coordinamento “Primarie Italia bene comune” della propria provincia». Comunque la si pensi nel merito sulle regole e sulla decisione di chiudere le registrazioni il giorno del voto per il primo turno (dopo avere tenuto aperti i seggi apposta mattina e pomeriggio in tutta Italia per ben venti giorni, non per cinque minuti), è evidente che l’avviso non dice la verità. Infatti nello stesso sito internet creato ad hoc dalla fondazione per bombardare di email i coordinamenti provinciali, nell’apposito modulo, si invita a dichiarare testualmente: «Di essere stato/a, per cause indipendenti dalla propria volontà, nell’impossibilità di registrarsi all’albo degli elettori entro la data 25 novembre 2012».
Ma come? L’avviso pubblicato sul giornale, proprio quello che invita ad andare sul sito, dice chiaramente che «anche chi non ha votato al primo turno può farlo al ballottaggio». Non fa alcun cenno a impedimenti e cause di forza maggiore. Si stanno dunque invitando i propri sostenitori a mentire? Nel momento stesso in cui si accusano i vertici del proprio partito di ogni nefandezza, portando avanti questa infinita polemica sulle regole, si chiede pubblicamente ai propri sostenitori di sottoscrivere il falso?
Per applicare una regola, dice il filosofo, bisogna prima sapere la regola secondo cui applicarla; così come, per servirsi di un dizionario, una lingua bisogna conoscerla già. Tutti però abbiamo imparato a parlare, a un certo punto, e lo abbiamo fatto naturalmente, nella pratica, cioè vivendo con gli altri, in accordo con gli altri. La possibilità di seguire delle regole, come quella di parlare una lingua, dipende dall’appartenenza a una comunità. In sé e per sé, nessuna regola sarà mai a prova di contestazione, nessuna spiegazione sarà mai sufficiente, nessun codice a prova di equivoco. E qui sta l’elemento più rischioso della polemica sulle regole tra i contendenti: che finisca per mettere in discussione non il regolamento e nemmeno le primarie, ma la loro appartenenza a una stessa comunità.

l’Unità 30.11.12
Ma il diritto non può essere violato
di Massimo Luciani


LA QUESTIONE DEL DIRITTO DI VOTO AL SECONDO TURNO DELLE PRIMARIE è, indubbiamente, politica. Tuttavia, è anche e forse prima ancora una questione di diritto. Se adottiamo la prospettiva del diritto è addirittura ovvio dire che finché ci sono certe regole è necessario rispettarle. È forse meno ovvio osservare che non sembra possibile cambiarle legittimamente adesso. Anzitutto, il problema non riguarda soltanto i due candidati più votati, chiamati a partecipare al secondo turno. La competizione elettorale ha una sua unitarietà e le regole che la disciplinano sono state condivise da tutti i candidati, compresi quelli che non sono arrivati al ballottaggio: un accordo fra Bersani e Renzi non basterebbe a legittimare un cambiamento. Ci sono, poi, gli elettori che hanno già votato al primo turno e hanno fatto affidamento sulla loro applicazione: sarebbe difficile replicare a chi di loro contestasse un cambiamento all’ultimo minuto.
Visto che le regole esistenti dovranno essere mantenute vale la pena di capire bene che cosa effettivamente dicano. Per capire, appunto, si deve avere la pazienza di leggerle. Tutti i commenti alla disciplina delle primarie si sono concentrati sul Regolamento per le primarie, approvato dal Collegio dei garanti il 19 ottobre 2012. In particolare sul suo art. 14, che al terzo comma stabilisce che al secondo turno sono ammessi gli elettori in possesso del certificato di voto rilasciato per il primo turno, completo del cedolino, e al quarto comma stabilisce che «Possono altresì partecipare al voto coloro che dichiarino di essersi trovati, per cause indipendenti dalla loro volontà, nell’impossibilità di registrarsi entro la data del 25 novembre». Ora, la formulazione di queste disposizioni non è particolarmente felice. Anzitutto, perché a chi ha votato al primo turno si chiede di esibire certificato di voto e cedolino, mentre a chi non ha votato si chiede solo di dichiarare di non essersi potuto registrare (e non di non aver potuto votare). In secondo luogo, perché l’impossibilità di registrarsi all’Albo è un’ipotesi davvero remota, visto che era possibile registrarsi anche online. Infine, perché, a prima vista, sembrerebbe che al secondo turno si possano presentare tutti gli elettori che semplicemente dichiarino l’impossibilità di registrarsi all’Albo degli elettori entro la data del primo turno, il che farebbe saltare la logica della scelta di costituire un Albo “chiuso” alla data del 25 novembre e renderebbe incomprensibile la stessa decisione di far votare solo coloro che hanno compiuto i diciotto anni sempre entro il 25 novembre e non entro la data del secondo turno (art. 3, comma 2, del Regolamento).
In realtà, a me sembra evidente che l’equivoco nasca da un difetto redazionale del Regolamento, ma che questo debba essere interpretato secondo princìpi generali che sono consolidatissimi nel nostro ordinamento. In particolare, è noto che una «fonte» del diritto va interpretata in modo tale da metterla in armonia con la «fonte» dalla quale trae la propria legittimazione. Così, ad esempio, una legge deve essere interpretata in conformità alla Costituzione, perché è essa che legittima il Parlamento a fare le leggi.
Ora, in questo caso, il Regolamento trae la propria legittimazione dai c.d. «Princìpi regolamentari», che, a quanto mi risulta, sono stati concordati dalle forze della coalizione e conformemente ad essi deve essere letto. Sono questi Princìpi che hanno istituito il Collegio nazionale dei garanti, e che hanno stabilito che a quel Collegio è, fra l’altro, «delegato il compito, previa consultazione dei rappresentanti dei candidati, di approvare i Regolamenti per lo svolgimento delle primarie». Ora, al punto 3), lett. b), dei Princìpi si stabilisce chiaramente che «Le iscritte e gli iscritti all’Albo costituiranno la base elettorale delle primarie e avranno automaticamente diritto di voto all’eventuale secondo turno», aggiungendo che «il Collegio dei garanti disciplinerà le modalità di iscrizione all’Albo da parte di coloro che si sono trovati nell’impossibilità di registrarsi nel periodo dal 4 al 25 novembre». Qui l’equivoco generato dalla cattiva redazione del Regolamento non c’è: non basta «dichiarare» di essersi trovati nell’impossibilità di registrarsi, ma occorre essersi «trovati» in quella impossibilità, per poter partecipare al secondo turno. Quindi questa impossibilità deve essere dimostrata.
Questo è quanto ci dicono le disposizioni vigenti. Mi rendo conto che tutto questo può sembrare arido e pedante, ma non è niente di più e niente di meno che diritto. E il diritto è garanzia per tutti, sia quando ci piace sia quando non ci piace. Se c’è un insegnamento che le forze politiche dovrebbero trarre da questa vicenda è che il diritto, se è in genere il prodotto della politica, a sua volta la condiziona, sicché è saggio pensarci sempre bene quando si ha a che fare con la negoziazione e con la scrittura delle norme giuridiche, a qualunque livello dell’ordinamento esse si collochino.

il Fatto 30.11.12
Il garante e il rottamatore
“Mi ha offeso in televisione, ma sarò imparziale”
Concetti semplici, davvero semplici


Ha punzecchiato Renzi: “C’è chi disinforma e inquina”.
Nessun giudizio.
Quelle due pagine a pagamento sui quotidiani...
Non si poteva, c’è scritto: basta leggersi il regolamento. E non confondere gli elettori.
Non sono i troppi vincoli che confondono?
È sbagliato dire che basta iscriversi per votare. Non stiamo mica scherzando qui.
Ha ricevuto il ricorso contro Renzi firmato Bersani, Vendo-la, Puppato e Tabacci?
Sì, nelle prossime ore lo valuteremo e vi faremo sapere il nostro parere.
Cosa rischia Renzi?
Sono sincero: non saprei dirle. Non sappiamo nemmeno se il ricorso è valido.
Il tempo stringe.
Faremo tutte le verifiche, con calma.
Il comitato del sindaco denuncia: ci vogliono espellere, molti divieti - come la giustificazione motivata per il ballottaggio - sono stati aggiunti dopo il primo turno.
Io non posso escludere nulla.
Renzi potrebbe beccarsi il cartellino rosso?
Non escludo nulla significa che non posso dire nulla, né in senso positivo né in senso negativo. Ma non esageriamo: le regole portano la data del 15 ottobre, poi le abbiamo specificate.
Forse non dovevate “specificare”?
Sa dove sto per entrare?
No, mi dica.
Al ministero degli Interni per una riunione.
La sicurezza è importante.
Non è successo niente e non succederà niente domenica prossima. Però, ricordatevi che più di tre milioni di italiani hanno votato e tanti andranno a votare anche al ballottaggio: portiamo rispetto a questi cittadini.
Ce l’ha con Renzi?
Perché dovrei? Io sono imparziale.
Il sindaco l’ha citata durante il faccia a faccia su Rai1.
Citato, sì, mi ha criticato: non gli sono piaciuto come ministro dell’Istruzione e dell'Università.
Pare di no.
Ma non farò il garante offeso, farò il garante e basta.
In bocca al lupo.
Crepi, e grazie, mi serve molto.

l’Unità 30.11.12
Vendola con Bersani: «Un voto di sinistra»
Il segretario Pd «Se insieme a merito e libertà non c’è anche uguaglianza, è la legge del più forte»
Il leader di Sel «Sull’Anp all’Onu forse Renzi avrebbe votato no, non possiamo stare con lui»
di Maria Zegarelli


ROMA «Ieri sera è stato, come sempre, flessibile e garbato, poi il mattino dopo un po’ meno, è così ragazzi». Pesa la parole il segretario Pd Pier Luigi Bersani, negli studi di Bruno Vespa, a Porta a Porta, ma non gli piacciono affatto i toni usati da Matteo Renzi sin dal mattino in una videochat. Il sindaco è andato giù pesante: dice che il suo «incubo» è l’inciucio, coltura di brodo dell’attuale «generazione» di politici, lo definisce «lo zio prudente» che non è in grado di cambiare, uomo di apparato e via così. «Dicono che sono apparatoreplica il segretario Ho vinto in tutte le grandi città di questo Paese, salvo Firenze per ovvie ragioni. Quando sento Renzi che mi dice che sono l’apparato... Io sono nato così, per me la politica non era certo una strada segnata. Ho una radice popolare profondissima, credo che mi sia rimasta quell’antenna lì». Se Renzi lancia colpi bassi perché i sondaggi sono (per lui) spietati e cerca di far breccia sugli indecisi e su chi ha votato Nichi Vendola al primo turno (non a caso attacca frontalmente Vendola sul suo essere di sinistra, sui suoi rapporti con l’Udc in Puglia e le presunte distanze politiche tra il governatore e il segretario ), Bersani non si fa certo mettere nell’angolo. Il cambiamento, dice, «l’ho titolato sotto due parole: moralità e lavoro. Con Nichi ci daremo una gran mano, perchè ci vorrà radicalità, sia se parliamo di moralità, sia se parliamo di partiti e di lotta alla mafia», dice poco più tardi a Napoli, al Teatro Politeama, durante un’iniziativa con Nichi Vendola. A Renzi replica anche: «Sembra che Vendola sia venuto da Marte, pianeta Rosso... Sta governando una regione non certo peggio di altri. Stiamo parlando di una persona allenata a governare». E sull’essere di sinistra: «Penso che un collegamento tra ispirazione di sinistra e una cultura liberale ce l’ho nelle mie corde, è la mia cultura. La posizione di Renzi è discostata dal baricentro necessario tra la cultura di sinistra e quella liberale. Rifiuto in radice dice che quella che io rappresento non sia una sinistra moderna», anzi, se sotto «la parola merito e libertà» non c’è anche «uguaglianza emerge l’idea che vince il più forte». Un ticket con il suo rivale? «Non faremo né tavoli né tavolini con Renzi. Chi perde continuerà a fare il suo mestiere fino a scadenza». Vespa manda in onda un vecchio video con i genitori del segretario e il parroco di cui l’altra sera al faccia a faccia ha parlato Bersani. Quello contro cui fece lo sciopero da bambino per protestare e al quale l’altra sera ha chiesto scusa. È l’unico momento di cedimento, il segretario si commuove davanti alle immagine del sacerdote che non c’è più. È un attimo, poi si torna alla competizione, alle contestazioni delle regole che Renzi e i suoi continuano a fare per tutto il giorno, «3 milioni e 200 mila elettori hanno condiviso le regole e non bisogna prenderli in giro». Ma è di programmi che vuole parlare: ripete che uno degli obiettivi se andrà al governo, resta «la piena tracciabilità, che il fisco possa avere accesso ai movimenti bancari» per combattere i grandi evasori, sul sistema sanitario che soffre di «scompensi», dice che si deve intervenire «col cacciavite o col bisturi», di sicuro non con l’«accetta». «Il sistema universalistico parte dal presupposto che davanti ai problemi seri di salute non deve esserci né il povero, né il ricco».
Sulle alleanze assicura: «Organizzerò il campo dei progressisti e spero di avere la forza di governare dice ma non siamo chiusi ad alleanze», con le forze civiche e il campo moderato semmai riuscirà a organizzarsi. «Vedo che ci sono in giro posizioni sensate moderate risponde a chi gli chiede se teme la scesa in campo di Luca di Montezemolo ma anche populiste, dei vuoti d’aria vagamente riempiti», mentre sarebbe molto meglio «avere un competitore di centrodestra per non essere sempre eccezionali».
A Napoli Vendola pesca un’immagina che rimbalza immediamente sul web e su facebook: «Domenica si vota con la penna e con il cuore». Il governatore pugliese può essere l’ago della bilancia: è a lui che guardano entrambi i candidati. E se qualcuno avesse dubbi basta sentire quello che dice poco prima di entrare in teatro: «Credo che un voto di sinistra non possa che andare a Pier Luigi Bersani tanto più in queste ore, davanti allo spettacolo della crisi di nervi del giovane sindaco di Firenze». È soddisfatto, spiega, per il voto dell'Italia all'Onu in favore della Palestina. Renzi, aggiunge, «forse non avrebbe votato sì. Per questo un elettore di Sel non può stare con Renzi». Avvisa il sindaco: «Sel è tutta con Bersani. Non mi aspetto differenziazioni». Se il giovane rottamatore ha sparato a zero contro il governatore, Vendola risponde al fuoco: «Non sono proprietario di un pacchetto di voti ed i voti dei miei elettori sono liberi», si dice certo di sapere per chi voteranno. Al Politeama Bersani parla di Sud e dell’enorme sofferenza del Paese, «il mio cruccio che non c’era necessità che noi fossimo così esposti in questa crisi», riferendosi al governo Berlusconi. Rivendica il valroe delle radici, rilancia gli Stati Uniti d’Europa. Promette cose «mai viste» sui diritti: da quello di cittadinanza, a quelli delle coppie omosessuali.

l’Unità 30.11.12
Pisapia, Doria e Zedda, tre sindaci per il leader Pd


Tre sindaci per Bersani: i primi cittadini di Genova, Milano e Cagliari, Marco Doria, Giuliano Pisapia e Massimo Zedda hanno annunciato in una nota congiunta che al ballottaggio voteranno per Pier Luigi Bersani. «Dopo i tempi berlusconiani della politica spettacolo e di comportamenti lesivi della dignità delle istituzioni affermano i tre sindaci -, il candidato del centrosinistra, deve essere sobrio e concreto negli atteggiamenti e nel perseguire gli obiettivi comuni». Ricordano di aver votato Vendola al primo turno e ora, di fronte alla scelta, ritengono che «Pier Luigi Bersani abbia le qualità, l’esperienza e la personalità per dare forza, identità e coerenza di governo al centrosinistra».
I tre sindaci di area Sel, scelti con le primarie, invitano all’unità. A chi vincerà «spetta il delicato compito di assumere le differenze e condurle alla migliore sintesi, perché questo è il momento di costruire e unire». E chiedono «una politica industriale che salvaguardi e potenzi i settori produttivi strategici, la ricerca, la scuola, la cultura, il sistema welfare». Bersani si è detto «molto soddisfatto»: hanno interpretato «non solo la politica ma anche una riscossa civica molto larga».

l’Unità 30.11.12
Luciana Castellina
«Voterò il segretario è quello che mi dà più fiducia»


«Domenica voterò Bersani come credo faranno la maggior parte dei vendoliani, non potrei fare diversamente, il percorso indicato dal segretario del Pd è quello più vicino al mio sentire, è quello che mi da più fiducia sulla volontà di vedere il futuro con un occhio di sinistra». Lo ha detto Luciana Castellina, già parlamentare europea, giornalista del Manifesto, scrittrice, esponente storica del Pci e successivamente di Rifondazione Comunista e del Movimento dei Comunisti Unitari, intervenendo ier sera a Torino, alla consegna a Daniele Segre del Premio Maria Adriana Prolo alla carriera 2012 promosso dall' Amnc.

l’Unità 30.11.12
Voto il segretario, perché sta sempre con chi lavora
Apprezzo la sensibilità con cui si è battuto perché l’Italia avesse una politica industriale degna
di Guglielmo Epifani


HO GIÀ AVUTO MODO DI DIRE CHE LA MIA SCELTA IN FAVORE DI BERSANI DERIVA, OLTRE CHE DALLA SUA INDISCUTIBILE SERIETÀ E COMPETENZA, dall’averlo sempre trovato dalla parte del mondo del lavoro, nella buona e cattiva sorte. Tra tanti ricordi, legati al mio ruolo di segretario della Cgil, ce ne è uno in particolare che mi è tornato in mente in questi giorni. Il luogo: Piazza Maggiore a Bolo-
gna.
Il motivo: una manifestazione dello sciopero generale della Cgil proclamato contro le politiche del lavoro del governo Berlusconi. Una piazza gremita di lavoratori, studenti e pensionati in una cornice di freddo e pioggia torrenziale: Bersani fu con noi durante il corteo e durante il comizio, il solo a voler condividere il significato di quella giornata.
La stessa sensibilità l’abbiamo incontrata tante volte: nelle crisi e nelle vertenze aziendali, nell’insistenza con cui si è battuto perché l’Italia avesse una politica industriale degna di questo nome, nella difesa del ruolo della ricerca, della formazione e di una istruzione di qualità, nella riforma di un welfare universale e, come avrebbe detto Trentin, di carattere non risarcitorio, nell’esigenza di riportare il Mezzogiorno in una posizione centrale nelle politiche del Paese, nel rifiuto del primato della finanza rispetto all’impresa.
Il dibattito televisivo ha confermato questo suo atteggiamento e questo suo valore. La preoccupazione per la durezza della crisi per lavoratori e imprese, la difesa di chi è rimasto senza lavoro e senza pensione, la critica alla rigidità della riforma previdenziale di questo governo, la coscienza che bisogna ripartire ora con gli stimoli agli investimenti, ai consumi e all’occupazione, il rispetto che si deve ai migranti e ai diritti dei loro figli alla nostra cittadinanza, il bisogno di proteggere le nostre eccellenze e i nostri giovani talenti nel campo della ricerca: sono tutte conferme di una idea giusta e necessaria di rinnovamento e ricostruzione del Paese. In più Bersani è tornato quasi in punta di piedi a parlare del bisogno di solidarietà, di fronte a una crisi che divide, spaventa e aumenta le diseguaglianze. E non si venga a dire che si tratta di un valore antico e superato, ma di un permanente principio democratico, che va oltre la categoria del buonsenso e investe una intera concezione della società e della politica.
Una concezione che interpreta in un modo più corretto e comprensibile la linea che passa tra conservazione e cambiamento, tra antico e moderno, tra vecchio e giovane: al pari della categoria e del valore della generosità e della coesione contrapposti ai particolarismi, ai corporativismi, all’egoismo sociale: il discrimine in sostanza tra l’io e il noi.
Sta qui, in questi principi, la richiesta che Bersani ha avanzato al governo italiano, e che oggi è stata accolta, di votare sì alla richiesta palestinese di diventare osservatori all’Onu.
Su questo punto la risposta di Renzi è stata diversa e la motivazione non convincente. Dire che il problema più grave del Medioriente è l’Iran, non può né deve portare a considerare meno rilevanti i drammi di Gaza o il diritto di Israele alla sua sicurezza, o a considerare la questione israelo-palestinese come derivata della politica irresponsabile dell’Iran: perché così si cancellano decenni di battaglie democratiche di tanti giovani che, proprio partendo dalla difesa dei diritti dei popoli e delle persone, si ritrovano in ogni luogo dove si comprimono i diritti della libertà e quelli dell’uguaglianza.

Repubblica 30.11.12
L’ira del segretario contro lo sfidante “Adesso vuole sfregiare il voto” E Matteo evita l’offensiva giudiziaria
Così annulla la tappa a Sesto per non parlare di Penati
di Goffredo De Marchis


ROMA — «Stavolta non ci passo sopra. E il fair play di cui si riempiono la bocca? Questi voglio sfregiare le primarie». Appena uscito dagli studi tv di Via Teulada Pier Luigi Bersani dà voce alla sua rabbia per la polemica sulle regole. Considera le dichiarazioni dei renziani Reggi e Da Empoli un «vero insulto, ho sentito parole pesanti sul piano politico e su quello personale ». Nel disappunto di Bersani provano a fare breccia i “falchi” della sua parte che continuano a sussurrargli nell’orecchio: «Hai visto? Matteo si prepara a fare un’altra cosa se perde. Se ne andrà dal Pd». Ma, davanti a queste insinuazioni, il segretario riprende il self control e anche dopo la brutta giornata di ieri scuote la testa: «Non ci credo, non ho nessun segnale del genere. Per me sarebbe la più grande delle sorprese». E a tarda sera gli arriva la conferma che di Renzi ci si può ancora fidare, che la competizione non si trasformerà in un caos.
Il sindaco di Firenze annulla la tappa di domani a Sesto San Giovanni, la città di Filippo Penati e del “sistema Sesto”: «Ho evitato di farlo anche ieri al duello». È il nervo scoperto di Bersani, è la battaglia che periodicamente cavalcano la destra e i giornali vicini. Perché l’ex braccio destro del segretario è stato rinviato a giudizio per tangenti, perché quella corruzione, secondo i pm, coinvolge non una persona ma un’intera struttura. Renzi, a Sesto, voleva affondare il colpo finale al suo avversario. Un colpo basso, evidentemente. L’obiettivo era denunciare i metodi di un vecchio giro di potere. Ma ieri sera il sindaco, con un sms, ha comunicato al suo staff il contrordine.
«Facciamo solo l’iniziativa con Gad Lerner, cancelliamo Sesto alle 10,30». Una decisione che il fedelissimo numero uno di Bersani ha saputo prima del comitato renziano, spiazzato per il cambio di programma. Da settimane, il sindaco ha contatti quotidiani con Vasco Errani, presidente dell’Emilia-Romagna e uno dei principali consiglieri di Bersani. I due ieri hanno parlato della tappa di Sesto e di quella all’Ilva di Taranto che inizialmente il primo cittadino di Firenze aveva previsto per oggi pomeriggio. Anche l’Ilva, come emerge dai finanziamenti della famiglia Riva agli uomini politici Bersani compreso, è una materia delicata per il front runner delle primarie. E in questi colloqui matura la scelta di non alzare il tiro. È il gesto di pace molto atteso dopo una giornata di rissa sulle regole. La “via giudiziaria” alle primarie è stata dunque accantonata. Né Ilva né Sesto. In nome non di una resa, ma della “ditta”. Solo che stavolta a occuparsi del bene del partito, della coalizione, delle primarie è stato Renzi e non Bersani. Le due
campagne, per il rush finale, si occuperanno del futuro, dei programmi. Non riconsegneranno alle cronache, lunedì mattina, un centrosinistra frantumato. Il sindaco, tanto più dopo un faccia a faccia in tv che sente di aver vinto, ha dei sondaggi che gli danno ancora delle chance di successo. Soprattutto se le nuove registrazioni saranno numerose. Nelle sue slide la forchetta per Bersani va dal 48 al 58 e quindi per lui si va dal 42 al 52. In sostanza, l'elettorato di Bersani ha un’oscillazione potenziale di circa 6 punti (da sommare alla crescita rispetto al primo turno) che potrebbe portare il sindaco a raggiungere quasi il 52 per cento in caso di alta partecipazione. Ovviamente, i sondaggi di Bersani pronosticano una vittoria del candidato in vantaggio con un cifra variabile tra il 56 e il 58 per cento. Oggi Renzi cercherà di recuperare voti al Sud, suo punto debole, con un doppio appuntamento a Napoli. Si affiderà di nuovo alla televisione con un collegamento con il Tg La7 ed Enrico Mentana alle 20 da Palazzo Vecchio. L’ultimo giorno sarà dedicato alla Lombardia e a Milano, perchè un altro tallone d’Achille sono state le grandi città. Poi, la sera di sabato “Matteo” ha fissato una festa a Firenze con i volontari della sua campagna (modello Obama) non prima di un’iniziativa a Pontedera, la città del governatore toscano Enrico Rossi. L’inimicizia tra i due è conclamata.
Il programma di Bersani sembra più fitto e, dopo la puntata in Campania con Vendola, conta di recuperare i voti finiti a Renzi nelle regioni rosse. Quella sconfitta brucia ancora. Oggi il segretario andrà in Umbria, dov’è stato punito. Subito dopo
batterà a tappeto le province della Toscana che hanno premiato Renzi: Empoli, Siena (che ha segnato un meno 20 per cento per Bersani), Pisa per chiudere a Livorno che invece ha tenuto. La regione di Rossi vale da sola 400 mila votanti registrati. A prescindere dal risultato finale, in Toscana ci si interrogherà anche dopo sullo sfondamento di Renzi. La corsa continua sabato al Nord. Lì si chiude, com’è avvenuto sabato scorso, alla vigilia del primo turno. Dove Bersani si sente più a casa. Si comincia in Lombardia e si finisce in Piemonte, una regione che il segretario pensava di conquistare a mani basse e invece gli ha dato più di un dispiacere. Le ultime carte da giocare prima di domenica.

Corriere30.11.12
La paura della sconfitta induce Renzi al tutto per tutto
di Massimo Franco


Come era prevedibile, il veleno sta lievitando insieme con il nervosismo. E la prospettiva di un ballottaggio senza colpi proibiti sfuma di ora in ora. Il modo in cui Matteo Renzi insiste sulla possibilità di far votare domenica prossima chiunque lo chieda, prefigura ormai una strategia: quella di delegittimare la probabile vittoria del segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, raffigurandolo come custode dell'apparato. Il tentativo è di insinuare l'idea che al primo turno siano stati sottratti «per errore» voti al sindaco di Firenze; e che al ballottaggio venga impedito ai suoi seguaci di capovolgere le previsioni, non permettendo loro di andare alle urne. La reazione è dura, e non solo da parte di Bersani.
La denuncia di violazione del regolamento, presentata dai quattro candidati alle primarie contro Renzi per la pagina a pagamento apparsa ieri su alcuni quotidiani, accentua la tensione. E sottolinea l'irritazione di gran parte del Pd e del Sel di Nichi Vendola nei confronti di un concorrente guardato come un guastatore deciso a giocare spregiudicatamente fino a domenica. «La paura fa novanta», ironizza lui dopo la denuncia, negandone il fondamento. E continua irridendo le delibere che il comitato organizzatore delle primarie sfornerebbe, dice, «ogni due ore» su chi può votare e chi no. In effetti si tratta di un tema scivoloso, vista la macchinosità delle procedure. E i seguaci di Renzi lo cavalcano con aggressività.
Ma questo rischia di scavare un fossato nel centrosinistra; e di accentuare distanze destinate a pesare a lungo sui rapporti all'interno del Pd. Bersani bolla il comportamento dell'avversario come «una cosa non gradevole». Eppure si intuisce che vorrebbe dire molto di più. D'altronde, rivendica regole «condivise e decise insieme da tutti». E replica che «non si può dire ai tre milioni e centomila che hanno votato al primo turno "vi abbiamo preso in giro". Non si pensi che ci sia la volontà di limitare la partecipazione, ma le regole si rispettano». C'è il sospetto che pattuglie di elettori del centrodestra abbiano già votato per Renzi: sebbene l'ipotesi di una «scalata ostile» del Pd suoni improbabile.
Soprattutto, si fa strada la convinzione che di qui a domenica si registrerà un crescendo polemico centrato sulle regole; e che il giovane sindaco trasformerà questo tema nel suo cavallo di battaglia, accarezzando i malumori presenti anche a sinistra contro il partito-apparato. Invita chi non ha votato a presentarsi ai seggi dicendo che domenica scorsa non l'ha potuto fare per colpa delle lunghe code. E il Pd lo accusa di istigare a dire il falso. Vendola, schierato ora con Bersani assieme ai sindaci del Sel, ha confidato ai vertici del Pd di temere proteste assai poco spontanee. E non esclude che domenica i «renziani» possano organizzare contestazioni, con militanti pronti a imputare ai vertici del partito il boicottaggio del loro voto a favore del «primo cittadino» di Firenze. È uno scenario estremo e forse poco verosimile.
Il solo fatto che sia evocato, però, lascia capire a quali livelli stia arrivando lo scontro. Il vantaggio del Pd è che il centrodestra risulta così in frantumi da invidiare la vitalità della quale le primarie sono state comunque una dimostrazione. Il teatrino sul ritorno incombente di Silvio Berlusconi sta mandando in tilt un Pdl già in preda a istinti cannibaleschi; ed ha affossato il simulacro di partecipazione che il segretario Angelino Alfano aveva azzardato. «Mentre Bersani e Renzi si confrontavano su scuola, lavoro e giovani», ha commentato Maurizio Lupi, vicepresidente della Camera, «noi del Pdl sembravamo marziani, ancora lì a discutere se fare o no le primarie». E il bello, o il brutto, deve ancora venire.

La Stampa 30.11.12
Adesso il partito teme il grande caos ai seggi
E crescono i sospetti su un “patto” tra il segretario e il sindaco per il dopo
di Carlo Bertini


Dopo il secondo match tv, c’è un boom di richieste di votare domenica. E si teme il caos ai seggi. Ora la vera paura è che domenica esploda un gran caos ai seggi, perché con oltre 6 milioni di persone incollate l’altra sera in tv non sarebbe strano se arrivassero entro stasera 200 mila richieste di nuove iscrizioni: che verranno quasi tutte cestinate perché «chi può giustificare di non aver avuto tempo di registrarsi on line nei 21 giorni precedenti al primo turno? ». Molti potrebbero però non demordere ed ecco profilarsi lo spettro di file ai gazebo di aspiranti elettori infuriati per esser rimandati indietro e l’immagine vincente del Pd che va in frantumi.
«Devono stare tutti più tranquilli. Ora bisogna chiudere la partita e andare a vincere, evitando di litigare con Matteo che va tenuto dentro la “ditta” perché è una risorsa. Ma se qualcuno pensa di usare questa storia per sporcare le primarie, indebolirmi e frenare la mia corsa verso Palazzo Chigi, si sbaglia di grosso». Nella stanza dei bottoni, l’input che il leader trasmette ai suoi è di questo tenore e il motivo per cui anche lui ha firmato l’esposto ai garanti non è di escludere Renzi dalla gara, ma un cartellino giallo ad uso preventivo. Della serie, tu hai violato le regole, non accusare poi noi di farlo. E infatti Bersani dice che dal ricorso non verrà «nessuna conseguenza sul voto di domenica». Ma se c’è una preoccupazione, quella non riveste tanto le intenzioni di «Matteo, lui tiene alta questa polemica per motivare i suoi ad andare a votare», quanto quelle di chi può avere un tornaconto a cavalcarla per «sfregiare» un evento che sta facendo lievitare i consensi del centrosinistra. Non passano inosservati i movimenti di chi nel centrodestra vorrebbe tirare Renzi da quella parte o di un pezzo di establishment che può avere interesse a fiaccare la corsa di Bersani verso la premiership. Piuttosto se c’è una preoccupazione reale dei suoi in queste ore è che «bisogna lavorare sodo per convincere gli elettori di Vendola e per riportare a votare tutti quelli che al primo turno hanno votato il segretario, cosa non semplice». Per questo è stato inviato un sms di richiamo ai 5-6 mila comitati sparsi per il territorio, chiedendo di avvisare uno ad uno il milione e trecentomila elettori del segretario. Con la convinzione che anche se la tensione salirà, «sabato magari grideranno che sono arrivate 200 mila mail e solo mille richieste saranno ammesse, ma tutto finirà il giorno dopo la vittoria di Bersani». Perché alle mail tipo già visionate nella stanza dei bottoni, che riportano tutte la motivazione «per motivi indipendenti alla mia volontà non sono potuto venire», la risposta già pronta è: «perché nei 21 giorni a disposizione non ti sei iscritto on line? ».
L’aria si fa torbida e i sospetti si sprecano tra le tifoserie. Che però sono molto più scatenate dei loro leader. Il terrore che sfibra le correnti è quello di un Renzi ormai lanciato verso la segreteria del Pd da un Bersani che pensa solo a Palazzo Chigi: e poco importa se l’interessato non ci pensa proprio e lo va dicendo in pubblico e in privato da settimane. Il fantasma di un tacito patto che stravolga gli equilibri della «ditta» volteggia nei corridoi: anche se Bersani ripete che «con Renzi non apriamo tavoli o tavolini e dopo le primarie chi perde continua a fare il suo mestiere fino a scadenza». Ma il sospetto che ricorre tra i peones del Pd è che Renzi voglia far saltare tutto per poi correre in proprio con una sua lista. E dal Nazareno, la risposta dei bersaniani doc è che «il ragazzo non è stupido e sa che qui dentro conta, fuori invece non conterebbe più nulla... ». Tradotto, chi evoca una fuoriuscita di Matteo forse se la augura, temendo di non trovare posto nelle liste quando Renzi avrà titolo per piazzare molti dei suoi in Parlamento.

l’Unità 30.11.12
Onu, voto sulla Palestina. Anche l’Italia dice sì
La Ue divisa, Usa contrari, favorevoli Russia e Cina
Monti al telefono con Netanyahu e Abu Mazen
L’irritazione d’Israele: «Decisione che ci ferisce»
di U.D.G.


«Mahmud il moderato» ha vinto la battaglia della sua vita. La Palestina ha dalla sua la maggioranza dei Paesi, sarà «Stato non membro» delle Nazioni Unite. Un voto storico, quello che era atteso ieri nel tardo pomeriggio (notte in Italia) al Palazzo di Vetro. Tra i «sì» c’è quello dell’Italia. Una decisione sofferta, maturata in extremis, quella di Roma. A comunicarla, con una telefonata, al presidente palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen) è Mario Monti. «Nel sostenere la Risoluzione per lo status di “Stato non membro” dell’Onu alla Palestina, l’Italia, in coordinamento con altri partner europei, ha in parallelo chiesto al Presidente Abbas di accettare si legge in una nota di Palazzo Chigi il riavvio immediato dei negoziati di pace senza pre-condizioni». E, ancora, «di astenersi dall’utilizzare l’odierno voto dell’Assemblea Generale per ottenere l’accesso ad altre Agenzie Specializzate» Onu, «per adire la Corte Penale Internazionale o per farne un uso retroattivo».
IN EXTREMIS
La decisione «è parte integrante» dell’impegno italiano a «rilanciare il Processo di Pace con l’obiettivo di due Stati, quello israeliano e quello palestinese, che possano vivere fianco a fianco, in pace, sicurezza e mutuo riconoscimento. Al primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, Monti ha ribadito che la decisione italiana «non implica nessun allontanamento dalla forte e tradizionale amicizia nei confronti di Israele». Ed ha «garantito il fermo impegno italiano ad evitare qualsiasi strumentalizzazione che possa portare indebitamente Israele, che ha diritto a garantire la propria sicurezza, di fronte alla Corte Penale Internazionale». Ma le rassicurazioni del Professore non cancellano l’irritazione israeliana. «È qualcosa che non ti aspetti dai tuoi migliori amici e alleati», rimarca Naor Gilon, ambasciatore d’Israele a Roma. «Quando è un amico a fare qualcosa di inatteso, ti ferisce di più», insiste Gilon. Secondo l’ambasciatore, il via libera all’Onu è sbagliato perchè sancisce «un’iniziativa unilaterale e controproducente». Un’iniziativa che «non produrrà alcun cambiamento sul terreno e deluderà le attese degli stessi palestinesi, con il rischio di un’escalation di violenze». Il voto sulla Palestina, avverte Netanyahu, «non modificherà alcunchè sul terreno» e neppure avvicinerà la costituzione di uno Stato palestinese vero: «Anzi la allontanerà». Perchè si arrivi ad uno Stato di Palestina, ribadisce il premier, ci sono da parte israeliana almeno tre condizioni fondamentali: il riconoscimento di Israele come Stato del popolo ebraico; la proclamazione della fine del conflitto; l’ok all’adozione di misure di sicurezza per Israele. «Di tutto ciò taglia corto Netanyahu non si fa menzione nella risoluzione sottoposta all’Onu. Per cui ci opponiamo».
Di segno opposto la reazione palestinese. Abu Mazen ha espresso «il proprio ringraziamento al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e al premier Mario Monti» dopo l’annuncio del voto italiano favorevole allo status di «Stato non membro osservatore» della Palestina all’Onu, dichiara all’Ansa Nemer Hammad, consigliere dello stesso leader dell’Anp. La «storica giornata» della Palestina al Palazzo di Vetro, si apre con l’appello di Abu Mazen all’Assemblea generale dell’Onu perché faccia «un investimento nella pace», votando a favore del riconoscimento della Palestina come Stato osservatore non membro. «Restiamo impegnati per una soluzione a due Stati e le nostre mani restano tese per la pace», afferma Abu Mazen in una dichiarazione letta dal ministro degli Esteri palestinese Riad Malki, al’’incontro che segna il Giorno internazionale di solidarietà con il popolo palestinese. Un investimento sulla pace: è il concetto che Abu Mazen riaffermerà poche ore dopo, quando il presidente palestinese leggerà, visibilmente emozionato, il testo della risoluzione.
Il «fronte del sì» vede la presenza di tre Paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza: Russia, Cina e Francia. Per il «no» si pronunciano gli Stati Uniti. L’Europa si divide: Italia, Francia, Spagna, Grecia, Norvegia, Danimarca, Svezia, Austria, Belgio, Svizzera e Portogallo per il sì; Germania, Gran Bretagna, Olanda, Ungheria, Estonia, Lituania optano per l’astensione; la Repubblica Ceca vota «no». In ordine sparso, come sempre.

l’Unità 30.11.12
Yasser Abed Rabbo
Segretario del Comitato esecutivo dell’Olp,
con l’ex ministro israeliano, Yossi Beilin, è stato promotore dell’«Iniziativa di Ginevra»
«Scelta storica dalla parte della legalità»
di U.D.G.


Palazzo di Vetro, New York, 29 novembre 2012. L’uomo che abbiamo al telefono è uno dei protagonisti di quella «intifada diplomatica» che ha segnato ieri alle Nazioni Unite un passaggio cruciale. «Per il popolo palestinese quel voto ha una portata storica che va al di là della stessa formula della risoluzione: la comunità internazionale, nel suo consesso più rappresentativo, riconosce l’esistenza dello Stato di Palestina a fianco dello Stato d’Israele». Ad affermarono è Yasser Abed Rabbo, segretario generale del Comitato esecutivo dell’Olp. Rabbo fa parte della delegazione ufficiale palestinese al Palazzo di Vetro. Quanto alla decisione assunta dall’Italia di votare a favore della richiesta palestinese, Rabbo dice a l’Unità: «È una scelta importante che fa onore all’Italia e al suo impegno per raggiungere una pace giusta e duratura. Una pace tra pari». E sull’accusa rilanciata da Israele e fatta propria dagli Usa di un «atto unilaterale», il dirigente palestinese ribatte: «In questi anni di unilaterale c’è stata la volontà dei governanti israeliani di vanificare sul campo la possibilità di realizzare una soluzione “due Stati”. Per quanto ci riguarda, siamo pronti a riprendere il negoziato sulle direttrici indicate dalla stessa risoluzione votata alle Nazioni Unite. Per noi, il dialogo non ha alternative».
Quale è il segno politico del voto dell’Onu?
«È il segno dell’affermazione della legalità internazionale; un segno di giustizia e di responsabilità. Si tratta di un voto che rafforza quanti si battono, in Palestina e nel mondo, per una pace fondata sul principio “due Stati per due popoli”».
Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha affermato che «non cambierà nulla»...
«Ma fosse davvero così perché Netanyahu e Lieberman (il ministro degli Esteri dello Stato ebraico, ndr) hanno fatto di tutto per convincere quanti più Stati possibile a votare contro? Per i falchi israeliani si tratta di una sconfitta politica bruciante».
Insisto: per Netanyahu la forzatura palestinese allontana la ripresa dei negoziati. «È vero il contrario. Perché il voto delle Nazioni Unite rafforza la leadership del presidente Abbas (Abu Mazen, ndr) che ha fatto della trattativa una scelta strategica. Ma è forse proprio questo ciò che brucia a Netanyahu e a Lieberman, che hanno sempre puntato alla delegittimazione di ogni controparte».
Molti Paesi, tra cui l’Italia, che hanno sostenuto la richiesta palestinese chiedono al presidente Abbas di tornare al tavolo negoziale senza pregiudiziali.
«È una sollecitazione che accogliamo, ma con una puntualizzazione».
Quale?
«Quando chiediamo al primo ministro d’Israele il blocco degli insediamenti non poniamo una pregiudiziale ma chiediamo il rispetto di accordi sottoscritti».
In Israele anche quei politici favorevoli ad una pace a «due Stati» sostengono che è irrealistico tornare ai confini del ‘67, perché non si può far finta che la realtà non sia cambiata in questi 45 anni.
«Il riferimento ai confini del ‘67 è un punto di partenza e non di arrivo di un negoziato. Al tavolo negoziale è possibile trattare una modifica, circoscritta e su una base di reciprocità, delle linee di confine. L’importante è che sia chiaro che quello a cui ambiamo e che viene indicato dalla risoluzione votata oggi (ieri, ndr) è uno Stato vero, non un suo simulacro. Uno Stato indipendente con una sovranità totale sul tutto il suo territorio nazionale, senza insediamenti israeliani al proprio interno. Uno Stato con Gerusalemme Est sua capitale». La vittoria diplomatica di Abu Mazen è una sconfitta di Hamas?
«No, perché alla fine anche Hamas ha sostenuto l’iniziativa del presidente Abbas. A vincere è l’unità dei palestinesi, realizzata su una linea chiara: quella di una pace tra pari. Una linea che esce rafforzato dal voto all’Onu».

l’Unità 30.11.12
Chi ha coraggio e chi no
di Umberto De Giovannangeli


ALLA FINE, MARIO MONTI HA OFFERTO UNA LEZIONE DI SAGGEZZA. E DI CORAGGIO POLITICO, DI CUI GLI VA DATO ATTO. È stata una decisione sofferta, quella presa dal Professore, ma che va nella direzione giusta: quella di rafforzare la leadership moderata del presidente palestinese, Mahmud Abbas (Abu Mazen). A dar conto di una scelta difficile è anche il fatto che il sì italiano sia arrivato solo poche ore prima del voto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite sul riconoscimento della Palestina come «Stato non membro» dell’Onu. In questo modo, l’Italia ha rafforzato il suo legame con gli altri Paesi euromediterranei, Francia e Spagna, che già avevano espresso nei giorni scorsi il loro sostegno alla richiesta di Abu Mazen. La Francia del socialista Hollande e la Spagna del popolare Rajoy: segno di una condivisione d’intenti che unisce larghe parti delle maggiori «famiglie» politiche europee. Una convergenza che si è registrata anche in Italia, dove l’impegno del Pd e quello del leader dell’Udc, Pierferdinando Casini, hanno contribuito e molto nella decisione assunta dal presidente del Consiglio. In questa convergenza c’è il meglio della tradizione politica della sinistra e di quella cattolica, che hanno sempre puntato a valorizzare la vocazione «mediterranea» del nostro Paese.
Il sostegno alla richiesta palestinese dello status di Stato non membro Onu «è un incoraggiamento sulla strada del dialogo e contro ogni estremismo: la nascita di uno Stato di Palestina membro a pieno titolo Onu potrà arrivare solo ed esclusivamente con il negoziato e l'intesa diretta tra le parti». La nota di Palazzo Chigi è un investimento sul dialogo e su una pace che può nascere solo da un negoziato tra le parti. Senza pregiudiziali. In questo non c’è nulla di «anti-israeliano». Semmai è vero il contrario. Perché il diritto alla sicurezza d’Israele potrà affermarsi in pieno solo se si legherà ad un diritto egualmente fondato: quello dei palestinesi a uno Stato indipendente, a fianco, e non contro, dello Stato ebraico. Essere amici d’Israele, veri amici, significa anche esercitare un diritto di critica su singoli atti compiuti dal governo di Gerusalemme, senza che ciò travalichi mai in un antisemitismo travestito da antisionismo. Una distinzione fondamentale, una linea di confine invalicabile.
Monti ha compreso, agendo di conseguenza, che la questione palestinese è il nodo cruciale da sciogliere per una svolta di pace e stabilità in Medio Oriente. E per aiutare Israele a uscire dalla trincea per conquistare la vittoria più importante: quella di poter essere finalmente un Paese normale. Era questo, a ben vedere, il sogno dei padri fondatori dello Stato d’Israele. Quella praticata da Monti è stata una politica di «equivicinanza» alle ragioni e alle aspirazioni di due popoli. Una scelta che Matteo Renzi ieri, nel confronto tv con Bersani, ha sorprendentemente contestato, usando argomenti della destra americana, come il primato della questione iraniana su quella israelo-palestinese. Speriamo che si corregga perché in gioco è la percezione dell’interesse nazionale, non solo di quello del centrosinistra.

Corriere 30.11.12
La decisione presa da Monti. Bersani: «Ho contribuito»
Per il Pdl è «sconcertante»
di Maurizio Caprara


ROMA — La scelta compiuta ieri da Mario Monti di far votare all'Italia «sì» all'innalzamento di livello della delegazione palestinese all'Onu è stata dettata, dal punto di vista della politica estera, soprattutto dalla voglia di non rimanere isolati dai partner europei mediterranei in buoni rapporti con i Paesi arabi. In particolare, dopo che le cosiddette «primavere» del 2011 hanno fatto fuori in quelle nazioni vecchi e collaudati interlocutori. Dal punto di vista interno, la decisione, adottata tenendone del tutto informato Giorgio Napolitano, conferma la tendenza a un rafforzamento del ruolo del presidente del Consiglio nei confronti del ministro degli Esteri.
In mattinata Giulio Terzi, che era propenso per l'astensione, dichiarava: «La posizione dell'Italia la si vedrà al momento del voto». Prima delle 15, in anticipo sulla pronuncia dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, Palazzo Chigi ha annunciato che il nostro Paese avrebbe appoggiato la proposta di risoluzione volta a far passare la rappresentanza palestinese all'Onu da delegazione di «ente» invitato al rango di «Stato» osservatore: «Monti ha telefonato al presidente Mahmoud Abbas (il palestinese Abu Mazen, ndr) e al primo ministro (israeliano, ndr) Benjamin Netanyahu per spiegare le motivazioni della decisione».
Una mossa malvista dal governo d'Israele. A Roma sono saliti i decibel della polemica politica interna. Tuttavia, pur essendo stati più numerosi gli applausi nel centrosinistra, può essere sommario ridurre i contrasti a uno scontro tra una parte e l'altra dello schieramento politico. «Credo di aver avuto qualche voce in capitolo in questa scelta», ha rivendicato il segretario del Pd Pierluigi Bersani. «Buona notizia», ha definito il «sì» Nichi Vendola di Sinistra ecologia e libertà. «Un errore, perché dall'autorità palestinese non è venuta mai in questo periodo una reale volontà di pace», ha commentato invece il capogruppo del Popolo della libertà alla Camera Fabrizio Cicchitto. «Sconcertante», ha giudicato il «sì» il portavoce del Pdl Daniele Capezzone, mentre Andrea Ronchi definiva la politica estera «appaltata a Bersani». L'ex missina e ex An Roberta Angelilli però ha dato voce a un'altra linea nello stesso partito: «Bene il sì».
Era stato Franco Frattini, di sicuro amico di Israele, il 20 novembre in Parlamento, a segnalare nel Pdl una disponibilità a valutare ipotesi diverse se non si fosse realizzato il proposito condiviso da Terzi e Monti di convincere tutti i 27 Paesi dell'Unione europea all'astensione: «Astenersi vuol dire non decidere».
Palazzo Chigi ha avuto contatti con l'ambasciata degli Stati Uniti a Roma e il consigliere di Netanyahu per la Sicurezza nazionale Jacob Amidror, entrambi per il «no». Poi la nota sul «sì» e Monti: «A Netanyahu il presidente, nel ribadire che questa decisione non implica nessun allontanamento dalla forte e tradizionale amicizia nei confronti di Israele, ha garantito il fermo impegno italiano a evitare qualsiasi strumentalizzazione che possa portare indebitamente Israele, che ha diritto a garantire la propria sicurezza, di fronte alla Corte penale internazionale».
Appoggi ai palestinesi furono garantiti da Aldo Moro, Giulio Andreotti, Bettino Craxi. Nella scelta di Monti paiono aver contato più crescita del consenso sulla risoluzione e desiderio di rafforzare Abu Mazen che la tradizione.

Repubblica 30.11.12
Per anni atteggiamento opportunista di Roma, ieri la svolta
Quel rifiuto dell’astensione il voto senza ambiguità di un Paese rispettabile
di Bernardo Valli


DOVE era all’ordine del giorno la mozione palestinese. L’astensione era stata decisa, sia pure tra mille esitazioni, e comunque data per quasi certa alla Farnesina, fino alla vigilia del voto. Prima di diventare definitiva la decisione è per fortuna rimbalzata da un palazzo romano all’altro: e a conclusione del percorso l’astensione si è trasformata in un dignitoso «sì » alla richiesta di promuovere la Palestina da semplice osservatore a Stato osservatore, presso le Nazioni Unite. Non pochi diplomatici attribuiscono la salutare correzione al Quirinale.
La prima osservazione è che in questa occasione il voto di un Paese rispettabile, che non fa della furbizia la sua arma principale, non poteva che essere chiaro, netto: « Sì » oppure «No». L’astensione era consentita a un Paese come la Germania, che ha tragici problemi storici con lo Stato ebraico, e che quindi doveva tenersi in disparte, per non urtare Gerusalemme, ribadendo al tempo stesso la validità del principio dei due Stati, l’israeliano e il palestinese. Principio da realizzare, come pensano anche gli americani, attraverso dei negoziati, e non con il tentativo unilaterale e disperato di Abu Mazen alle Nazioni Unite.
I responsabili della nostra politica estera, pur non avendo l’Italia un’impronta tedesca, hanno pensato di poter assumere la stessa posizione. L’astensione
era un espediente per non dispiacere del tutto alla superpotenza, arroccata con Israele in un irrinunciabile «No», e al tempo stesso per salvare la faccia (e la coscienza) non opponendo un netto rifiuto alla Palestina e quindi al mondo arabo. Ma come accade nella vita dei comuni mortali l’eccessiva furbizia slitta spesso nell’ambiguità. La quale è stretta parente della viltà. Una politica estera acquista valore, prestigio, quando prende decisioni che possono essere sgradite alle superpotenze, comprese quelle alleate e amiche, ma che rivelano un carattere e sono ancorate a dei principi. L’astensione in questo caso equivaleva a una rinuncia. Meglio un “No”. Sarebbe stato più dignitoso. Non pochi esperti in diplomazia sorrideranno. Ma per nostra fortuna su uno dei colli romani non si è sorriso. È stato corretto il tiro, e salvata la nostra dignità.
Il voto dell’Assemblea generale di New York non rappresenta una minaccia alla sicurezza di Israele. È senz’altro un severo colpo al suo comportamento politico, e uno schiaffo alla diplomazia americana. La simbolica promozione della Palestina a Stato « osservatore » dell’Onu, dunque a uno Stato che resta senza diritti sovrani e che non cambia la situazione, può servire a ricordare due punti essenziali. 1) La condotta politica e militare israeliana non ha per ora contribuito a decongestionare la crisi mediorientale. 2) I propositi degli Stati Uniti per risolverla sono risultati vani. O addirittura non applicati.
Un effetto non trascurabile del voto di New York è quello che favorisce, o che rialza il malandato prestigio di Abu Mazen, presidente dell’Autorità palestinese. Aggiudicandosi, a torto o a ragione, la vittoria nella recente battaglia di Gaza, e pavoneggiandosi per l’appoggio ricevuto dalle capitali arabe e dalla Turchia, Hamas ha relegato nell’ombra il moderato leader dell’Olp installato a Ramallah, capitale di Cisgiordania, porzione di una Palestina occupata militarmente. Di fatto i capi di Hamas hanno invaso la scena. Ed è opportuno ricordare che essi sono alla testa di un partito islamico con la vocazione ultima di distruggere un giorno, sia pure remoto, lo Stato ebraico, e di instaurare uno Stato palestinese (basato sulla Sharia) su tutto il territorio dell’attuale Israele,
della Cisgiordania e di Gaza.
A New York è accaduto che l’altra Palestina, quella laica, che non usa né il terrorismo né le armi, abbia vinto una battaglia politica. Era lecito, decente, privarla di questa occasione ? Era dignitoso sottrarsi, con un’astensione, alla responsabilità di contribuire al successo, forse effimero, di Abu Mazen ? Tanto più che la sua iniziativa ha smosso la rigida posizione di Hamas. Molti suoi dirigenti hanno infatti appoggiato la battaglia politica di Abu Mazen all’Onu, sapendo di interpretare i sentimenti di molti palestinesi confinati a Gaza.
Anche questo è un avvenimento che apre qualche spiraglio. Approvando l’azione del laico presidente dell’Autorità palestinese, i capi di Hamas hanno implicitamente accettato quello che lui sostiene nel documento presentato a New York. E in quel documento si chiede uno vero Stato palestinese entro i confini del 1967. Questo significa riconoscere, come Abu Mazen, l’esistenza di Israele. Non siamo tuttavia ancora a questo. La Palestina è una terra di emozioni e tragedie. Dove quel che è logico non è obbligatoriamente realtà.

La Stampa 30.11.12
Status di osservatore
Adesso l’Anp potrà ricorrere alla Corte dell’Aja


Nella Carta Onu è assente una disciplina sulla partecipazione ai lavori dell’organizzazione di Stati e organizzazioni non statali in qualità di osservatori permanenti. L’Assemblea generale ha di volta in volta ammesso e regolato le prerogative e i poteri di nuovi osservatori permanenti. Accedere al rango di «Stato osservatore» permetterebbe ai palestinesi di essere ammessi ad altre agenzie delle Nazioni Unite, soprattutto alla Corte penale internazionale dell’Aja. Da oggi, nota il giudice italiano della Cpi Mauro Politi, l’Anp potrà ricorrere alla Corte penale internazionale, accettandone «la giurisdizione per crimini commessi sul proprio territorio». Alcuni commentatori, però, notano che la «nuova» Palestina diventerebbe rappresentativa di una comunità territoriale palestinese, quella definita dai confini del 1967, e più difficilmente potrebbe farsi portavoce esclusivo dei diritti del popolo palestinese e della sua diaspora, così come ha fatto fino a oggi l’Olp.

il Fatto 30.11.12
Pacifici: “Allora noi votiamo in blocco Renzi”
di Rob. Zun.


È AMAREGGIATO e sorpreso, Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica di Roma. Le motivazioni di questa scelta, secondo Pacifici, possono essere due ma di una non vorrebbe parlare perché “troppo umiliante”. Parte da quella meno dolorosa: “Chi ha il potere di decidere sulla questione si è subito appiattito sull'agenda del primo ministro in pectore, cioè Bersani. Avendo il segretario del Pd risposto, nel faccia a faccia televisivo con Renzi, che è a favore della richiesta di Abu Mazen, ecco che subito il premier Monti e il presidente Napolitano gli sono andati dietro. Non ce lo saremmo mai aspettato. Ne consegue che la comunità che rappresento farà campagna a favore di Renzi. Parlo di chi è orientato ad andare a al ballottaggio del Pd”. L'altra possibile verità, per Pacifici insopportabile, è che Monti abbia deciso per il sì dopo il suo tour nei Paesi del Golfo, pro palestinesi, alla ricerca di investimenti. “Se così fosse saremmo ritornati all'Italietta che negli anni 70 andava a mendicare nei Paesi arabi con le riserve petrolifere. Non voglio crederci”. Anche l'ambasciatore israeliano in Italia ha dichiarato che il governo Netanyahu è particolarmente deluso per il voltafaccia di uno dei Paesi più amici.

l’Unità 30.11.12
Reati fino a 4 anni: non solo carcere
Contro il sovraffollamento una legge sulle punizioni alternative, da varare prima di Natale
Approvata nell’aula di Montecitorio la prima parte del ddl. Severino al Pdl: «Nessuna amnistia»
di Claudia Fusani


A suo modo è una rivoluzione. Per la prima volta nel sistema complesso e delicato delle pene, che misura il livello di civiltà di un paese, entra per legge una punizione che non prevede come prima opzione il carcere. Come seconda opzione viene prevista anche la richiesta, da parte dell’imputato, con il consenso della vittima e dopo la decisione del giudice, la cosiddetta “messa alla prova”, che si traduce nella trasformazione della detenzione in lavori socialmente utili. Non retribuiti.
In questo scorcio di fine legislatura, teso e ostaggio dei rapporti di forza dei partiti, ieri l’aula di Montecitorio ha approvato la prima parte del disegno di legge «in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova, pene detentive non carcerarie e sospensione del provvedimento nei confronti degli irreperibili». Il voto finale è previsto la prossima settimana. L’obiettivo è che farlo approvare dal Senato anche prima di Natale. Che dopo diventa tutto molto più a rischio. È un argomento che certo non ha l’appeal dello scontro nel centrosinistra tra Renzi e Bersani nè il fascino perverso del destino ancora indefinito del centro destra. Ma è politica, vera, quella che assume decisioni e decide i cambiamenti del patto di cittadinanza.
Il provvedimento è la terza gamba del piano di governo del ministro Guardasigilli Paola Severino e che prevedeva lotta alla corruzione, riforma dei distretti giudiziari e miglioramento delle condizioni dei detenuti nelle carceri. Dopo lo “svuota carceri” (ai domiciliari gli ultimi 18 mesi di detenzione; stop alle detenzioni due poche ore, il fenomeno delle porte girevoli) è il provvedimento che interviene a monte del fenomeno del sovraffollamento dei penitenziari.
«Mi pare che non ci sia nulla di più distante da un’amnistia» ha tuonato ieri mattina in aula il ministro Severino difendendo con le unghie e con i denti il suo disegno di legge dagli attacchi, prevedibili, di Lega, Idv, gli ex An e un pezzo di Pdl. «L’amnistia estingue reati e pene. Qui invece c’è un giudice che, caso per caso, per reati non pericolosi socialmente e in ogni caso puniti con pene non superiori ai quattro anni, può decidere di far scontare la pena non in carcere ma agli arresti domiciliari».
Sempre agguerrita il ministro Severino. Ma poche volte, in questo anno intenso per il dicastero della Giustizia, lo è stata come in questi due giorni (tra mercoledì e giovedì) in cui la Camera ha cominciato la votazione del provvedimento.
«Il catastrofismo che ho ascoltato nel dibattito in aula sulle pene alternative al carcere è francamente un deja vu. Sono gli stessi allarmi ascoltati in questa aula ai tempi dello svuota-carceri. Ma i numeri ci dicono che quel provvedimento è stato utile visto che i detenuti sono diminuiti di quasi duemila unità (68.047 nel dicembre 2011; 66.687 nell’ottobre 2012, ndr), si contano sulle mani le recidive e non c’è stato alcun allarme sociale di quelli annunciati con tanta dovizia di particolari in questa aula». Paure figlie di pregiudizi e di un populismo facile.
Il provvedimento che sarà licenziato la prossima settimana prevede che per i reati non gravi, puniti in via definitiva fino a 4 anni, il giudice può di volta in volta valutare di far scontare la pena agli arresti domiciliari. Una volta valutate le condizioni oggettive del domicilio. E ascoltato il parere della vittima. Il testo prevede anche la sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato. Deve essere l’imputato, cioè, «non oltre l’apertura del procedimento di primo grado» a chiedere la sospensione definitiva del processo e di essere ammesso ai lavori socialmente utili.
Obiettivo del disegno di legge è alleggerire il peso sulle carceri e sulle aule di giustizia. In questo senso va la terza parte del provvedimento, quella che sospende i processi per gli irreperibili. «Una manna per spacciatori, clandestini e stranieri colpevoli di reato» è stata la replica di una parte dell’aula.

l’Unità 30.11.12
Battaglia Imu: Fondazioni, scuole paritarie e non profit
di Bianca Di Giovanni


ROMA Imu anche per le fondazioni bancarie, e regolamento attuativo sull’Imu Chiesa inserito in un testo di legge, quindi non più soggetto di ricorsi al Tar (ma alla Corte costituzionale sì). Infine si attende per oggi la richiesta del ministro Francesco Profumo al consiglio dei ministri di introdurre l’esenzione anche per le scuole paritarie. Queste le ultime novità sull’imposta sugli immobili, che certamente non chiuderanno affatto la partita. Gli esperti si aspettano nuove battaglie a suon di carte bollate, sia con la Consulta, sia con l’Unione europea.
NOVITÀ
La disposizione che prevede l’obbligo di pagare l’imposta anche alle Fondazioni bancarie (che finora pagavano solo per gli immobili in cui si svolgono attività commerciali) è prevista in un emendamento dell’Idv, approvato al Senato con i voti anche del Pd. Così il testo è entrato nel maxiemendamento al decreto sui costi della politica su cui il governo ha posto la fiducia, che si voterà martedì. Ma è assai probabile che gli enti ricorreranno all’alta corte, visto che per legge hanno lo status di enti non profit.
Molto più complicato il caso dell’Imu Chiesa, che contiene anche quello delle scuole paritarie. Il testo preparato dal governo dopo le varie bocciature del Consiglio di Stato, ora fa parte di una legge (non è più un atto amministrativo). Ma la sostanza di quel provvedimento non cambia: non corrisponde alle direttive europee, non ricalca indicazioni del codice civile italiano, e nemmeno le norme fiscali del nostro Paese.
Insomma, la definizione di enti non commerciali (che in origine non avrebbe dovuto essere inserita, visto che il codice civile e il testo unico sulle imposte sui redditi già indicano parametri precisi) è assolutamente fuori da qualsiasi contesto giuridico, e dunque di difficile applicazione per i Comuni. Il testo preparato dal governo esonera dal pagamento le attività sanitarie «accreditate e contrattualizzate o convenzionate con lo Stato, le Regioni e gli Enti locali». Insomma, le cliniche private convenzionate non pagano Imu ai Comuni, pur fatturando volumi giganteschi e quindi versando l’Iva. Altro che non commerciali. E non solo. Quelle non convenzionate non pagano «se le attività sono svolte a titolo gratuito, ovvero dietro versamento simbolico e comunque non superiore alla metà dei corrispettivi medi previsti per analoghe attività». Una formulazione che ha molto di delirante: prima si dice gratuiti, poi ci si contraddice con l’importo simbolico e infine con un meccanismo sostanzialmente impossibile da definire. Per le scuole, tuttavia, la dicitura è molto diversa. Si introduce il criterio del versamento che copre solo una frazione dei costi. Per questo le paritarie sono sul piede di guerra.

il Fatto 30.11.12
Legge 40 e Imu, il lato vaticano di Monti
Tutti i provvedimenti con cui il premier consolida i suoi rapporti con le gerarchie
di Marco Palombi


Familiarità”. “Grande stima”. “Rispetto”. Dalle parti del soglio di Pietro difficilmente si esprimono così su un politico italiano, specialmente se è un laico in odor di massoneria come Mario Monti. Eppure il rapporto tra il premier e Benedetto XVI, in Vaticano, lo raccontano proprio con quegli aggettivi: d’altronde sette incontri (e qualche telefonata) in un solo anno non sono affatto pochi, per non parlare del fatto che le due udienze private, una in piena estate a Castel Gandolfo, sono state assai “più lunghe dell’usuale”.
Per Joseph Ratzinger, infatti, l’arrivo del preside della Bocconi a palazzo Chigi è stata una benedizione: nonostante la Cei dell’epoca fosse una dei suoi sponsor forti, il Pontefice non ha mai amato Silvio Berlusconi e, soprattutto, la pessima pubblicità attirata sul Vaticano da bunga bunga e amenità simili. Prova ne sia quanto successo a monsignor Rino Fisichella, il prelato che più d’ogni altro ha giocato la sua carica a supporto del berlusconismo (mitica l’uscita sulla bestemmia del Cavaliere che andava “contestualizzata”): Fisichella, infatti, pur essendo presidente del Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione, carica in genere appannaggio di un cardinale, non è stato ancora “promosso” nonostante i due concistori e le oltre venti nomine dell’ultimo anno e mezzo. Il sobrio Monti a capo del governo italiano, insomma, è il sogno del Papa che si fa realtà. Anche la sua presunta (e sempre smentita) iscrizione alla massoneria, Oltretevere viene derubricata a fatto non interessante: la leggenda dei palazzi romani, d’altronde, vuole Monti seguace del rito scozzese, cui aderirebbero pure molti cardinali.
Al di là delle dicerie, resta un rapporto consolidato (e diretto) tra il liberale cattolico Monti e questo papato. Anche dentro e intorno al suo governo, peraltro, non mancano figure rassicuranti per le gerarchie vaticane: oltre ai ministri cattolicissimi Lorenzo Ornaghi, Renato Balduzzi e Andrea Riccardi (a cui andrebbe aggiunto almeno Corrado Passera, che “debuttò” in politica al convegno neodemocristiano di Todi nel 2011), vanno citati altri tre nomi. Federico Toniato, giovane braccio destro del premier già funzionario del Senato: discreto, competente, in prima fila per conquistare la direzione generale di palazzo Chigi dopo Manlio Strano, Toniato è accreditato di un solido rapporto col cardinale Tarcisio Bertone. Anche il secondo nome, che è quello di Marco Simeon, risulta legato al segretario di Stato vaticano (che sulla politica italiana ha sostanzialmente commissariato il capo della Cei, Angelo Bagnasco): trentenne come il braccio destro di Monti, attualmente alto funzionario Rai, si è rapidamente convertito ai tecnici dopo una carriera giocata in quel che restava dell’andreottismo nel potere politico ed economico romano (Geronzi, Bisignani, etc.). L’ultimo nome è quello di Elena Ugolini, sottosegretario all’Istruzione, preside di una scuola cattolica di Bologna e pezzo grosso di CL nella regione in cui si organizza il meeting di Rimini: forse non è un caso che in quello di agosto scorso - assente il Papa, nascosto Formigoni - sia stato proprio Mario Monti la vera star.
SOLO CHIACCHIERE, se non fosse che questi molteplici rapporti diretti e indiretti tra il “tecnico capo” e il Vaticano non sono senza esiti nell’azione di governo. Il caso più eclatante e meno discusso è quello che riguardo lo Ior. Risulta al Fatto Quotidiano che a Monti sia stato chiesto persino un informale parere sul successore di Ettore Gotti Tedeschi come presidente. Una considerazione, questa, che il premier s’è guadagnato sul campo visto che, a luglio, il suo governo contribuì non secondariamente a salvare la banca vaticana da una impietosa bocciatura europea in tema di trasparenza e contrasto al riciclaggio: agli ispettori di Bankitalia (che erano già stati assai critici sullo Ior) fu sostanzialmente impedito di parlare al Consiglio d’Europa e palazzo Koch, per reazione, arrivò a ritirare la sua delegazione. Anche sull’8 per mille Monti si è rifiutato sia di attivare la commissione italo-vaticana per rivederne il gettito ben superiore alla vecchia “congrua” (come prevede il Concordato) sia di indicare precisamente la destinazione della quota statale (servirà in larga parte per la ricostruzione dell’Emilia, ma la Cei non ama la pubblicità concorrente).
Il premier non s’è fatto mancare nemmeno il ricorso contro la diagnosi preimpianto nella fecondazione assistita depositato mercoledì, il finanziamento alle scuole private (223 milioni di euro) e il condono sull’Imu: gli immobili commerciali di enti religiosi la pagheranno dal 2013 come avrebbe comunque imposto la Ue (“su scuole e mense però bisogna ancora trattare”, avvertono in Vaticano), ma tutto è perdonato quanto all’evasione pregressa.

il Fatto 30.11.12
Quanta demagogia sull’Imu alle paritarie


Nel regolamento del ministero dell'Economia si legge che le scuole paritarie non pagano l'Imu se "l'attività è svolta a titolo gratuito". Considerando che nessun insegnante della scuola paritaria puo' lavorare a "titolo gratuito", come la bolletta del gas per il riscaldamento delle aule non potrà essere "simbolica", non so' se ridere o piangere. I contributi statali per questo genere di scuola sono davvero "simbolici" e le modeste rette servono a coprire una minima parte delle spese. Molte scuole sono già in crisi e l'eventuale applicazione dell'Imu significherebbe la chiusura totale, con la perdita del posto di lavoro per gli insegnanti e la liberta' di scelta educativa per le famiglie. Le scuole paritarie fanno risparmiare allo Stato 7 milioni di euro all'anno, una realtà significativa in momenti di crisi come questi. C'é chi si appella alle direttive europee sulla concorrenza e si dimentica che in altri paesi Europei i docenti delle scuole pubbliche non statali sono stipendiati dallo Stato.

l’Unità 30.11.12
Supercaccia F-35, per l’Italia non è tempo di sprechi
di Gian Giacomo Migone


IN TUTTO IL MONDO SE NE PARLA. ORA ANCHE IN ITALIA, GRAZIE ALL’OPPORTUNA battuta di Bersani in occasione del confronto televisivo con Renzi che ha subito gridato alla demagogia. Fino a quell momento ne parlavano soltanto pacifisti e alcuni analisti di armamenti. Il grosso della stampa, con qualche lodevole eccezione, e partiti della maggioranza governativa preferiscono non disturbare l’austero manovratore europeista, in questo caso libero di comportarsi da sprecone per di più dimentico degli interessi strategici dell’Europa. Esiste un supercaccia, l’F-35 Joint Strike Fighter, che un editoriale del New York Times, citando la Government Accountability Office, definisce «dalle prestazioni deludenti», con costi superiori del 40% rispetto a quelli calcolati, e che non sarà in piena produzione prima del 2019 (con sei anni di ritardi rispetto al previsto). La Germania ha deciso che non se lo può permettere: mentre la Francia produce in proprio, Berlino punta tutto sull’Eurofighter costruito in Europa, da ingegneri ed operai europei, con caratteristiche diverse ma non tali da precluderne l’uso in missioni multilaterali alla sua portata. Più di un governo si è fermato a riflettere: quello canadese tentenna di fronte all’impietoso rapporto dei suoi revisori contabili. Danimarca e Olanda pensano ad una sospensione del programma per vederci chiaro. Persino il governo di Sua Maestà Britannica, solitamente ligio agli ordini che provengono da Washington, si vede costretto a ridurre i propri acquisti. Insomma, alcuni privilegiano la cooperazione europea. Altri pensano ai conti in rosso, a cominciare dallo stesso Pentagono, impegnato in una dura battaglia sui costi con la Lockheed che produce l’aereo.
L’esecutivo italiano, come noto impegnato in un’altrimenti spietata revisione della spesa, riduce l’ordine di quei velivoli da 130 a 90, ma difende con unghie e denti un acquisto che, prima dell’aumento di costi in corso, ci sarebbe costato circa 10 miliardi di euro negli stessi anni in cui, in virtù del fiscal compact imposto dalla Germania, dovrà ridurre del 50% il debito accumulato.
I ritorni strategici e tecnologici sono inesistenti perché, salvo qualche eccezione a favore dei britannici, Washington è stata esplicita nel porvi un embargo. Quelli industriali dubbi e occupazionali minimi. Il ministro Di Paola, in quanto ex capo di stato maggiore della Difesa, in fatto di F-35 ha un conflitto d’interesse chiamiamolo tecnico-politico. La portaerei da lui ma non soltanto da lui voluta rischia di arrugginire prima che quei velivoli siano pronti per l’uso. Senza costosi riassetti, infatti, la Cavour può operare soltanto aerei a decollo corto e atterraggio verticale: ora gli AV-8B Harrier, in futuro solo gli F-35B (prezzo attuale, ma in continua crescita: 106,7 milioni di euro l’uno) che saranno acquistati solo nel 2015 e resi operativi non prima del 2018, secondo quanto recentemente annunciato dal gen. De Bertolis, segretario generale della Difesa.
Le forze politiche in questione, salvo eccezioni, fino alla battuta liberatoria di Bersani, non hanno aperto bocca, perché precedenti maggioranze trasversali di cui facevano parte hanno investito dei bei soldi nel progetto, tra i 2 e i 2,5 miliardi, con scarsissimi ritorni industriali e di lavoro. Non si sono accorti che la guerra fredda è finita e che l’Italia, come altri suoi alleati, potrebbe anche non preoccuparsi troppo se qualcuno a Washington aggrotta le sopracciglia.
Che fare? Da un punto di vista strettamente economico, non finanziare sprechi con altri sprechi. Meglio perdere i soldi investiti che moltiplicare quelle perdite almeno per cinque, tutelando quanto i cittadini e contribuenti italiani, fustigati dal governo Monti, si sono conquistati in fatto di credibilità internazionale.
Lascio immaginare quali potrebbero essere i commenti a Berlino in caso contrario, anche in riferimento alle vicissitudini di Finmeccanica. Spese di presunto prestigio nazionale non sono perdonabili in questo contesto sociale. Sul piano politico si tratta, invece, di tutelare un impegno strategico europeista. Da un punto di vista strettamente militare l’Eurofighter, con compiti di difesa aerea, è perfettamente in grado di coprire esigenze di attacco al suolo, già testate dagli inglesi in Libia e tuttora in fase di perfezionamento.
E i partiti? La futura di coalizione di centro-sinistra? Mi ha fatto piacere che Bersani abbia messo i piedi nel piatto. Ora occorre una convinta autocritica del passato, con una Maastricht della difesa che diminuisca costi e ed aumenti un efficacia integrata corente con obiettivi europei.

il Fatto 30.11.12
Aerei F-35, anche Obama pensa alla retromarcia
Il Pentagono sempre più perplesso sui caccia
L’Italia ha confermato l’ordine, ma il Parlamento può ancora dire no
di Daniele Martini


Too big to fail and too big to succeed”, troppo grande per fallire, ma anche troppo grande per avere successo, scrive il New York Times a proposito del programma per i cacciabombardieri F-35 riportando l’opinione dell’analista di un centro strategico di ricerca di Washington. Imbrigliato dalle sue mille contraddizioni interne, il piano per la realizzazione del sistema d’arma più costoso di tutta la storia si impantana sempre più. Secondo il grande giornale americano sono ormai assai tesi i rapporti tra il Pentagono, cioè il committente, e la Lockheed Martin, la grande industria americana che dovrebbe produrre i velivoli. Il Pentagono dimostra perplessità crescenti nei confronti dei costi incerti del programma mentre il presidente Barack Obama è impegnato nella ricerca di risorse per ridurre il deficit senza aumentare le tasse. Lockheed Martin risponde che il Pentagono non sa decidere e tarda a dare il suo ok definitivo.
LA FACCENDA ci riguarda da vicino e non solo perché l’Italia partecipa in modo attivo al progetto ed è in pista per l’acquisto di 90 velivoli con una spesa gigantesca, mai quantificata in maniera definitiva perché i costi ballano in continuazione, anche se di sicuro superiore ai 10 miliardi di euro e forse vicina ai 18, come hanno scritto dopo un’attenta analisi gli autori di Armi, un affare di Stato (edizione Chiare-lettere). Ci riguarda anche perché la tentazione americana potrebbe essere quella di contenere i costi interni facendo crescere la partecipazione degli alleati, a cominciare dall’Italia che in prima battuta si era impegnata a comprare la bellezza di 130 esemplari. Anche se ridotta, la spesa per gli F-35 resta proibitiva per le nostre finanze e politicamente poco sostenibile in un momento di crisi.
ALIMENTATO da decine di organizzazioni pacifiste e religiose, il movimento per l’annullamento o almeno per il drastico ridimensionamento del piano per gli F-35 di cui è portavoce Francesco Vignarca, ha superato da tempo il confine di una battaglia minoritaria e di testimonianza. L’affare cacciabombardieri sta diventando uno degli argomenti di punta del dibattito politico. Ieri, per esempio, il presidente dei sindaci, Graziano Del Rio insieme a Gianni Alemanno (Roma), Marco Rossi Doria (Genova), Giorgio Orsoni (Venezia), Piero Fassino (Torino), Alessandro Cosimi (Livorno), Attilio Fontana (Varese), ha chiesto al governo di tagliare altri cinque cacciabombardieri per evitare la diminuzione dei fondi agli enti locali prevista dalla spending review e per modificare il patto di stabilità e l’Imu (l’imposta sulla casa). Il rappresentante dei piccoli comuni, Mauro Guerra, ha spiegato che “cinque F-35 in meno valgono 1 miliardo di euro”. Nel faccia a faccia tra i candidati per le primarie Pd su Raiuno, il segretario Pier Luigi Bersani, inoltre, ha posto proprio la questione degli F-35 tra i temi centrali di un ipotetico colloquio futuro con il presidente Obama al quale chiederebbe un ripensamento sul programma. A livello ufficiale la firma italiana per l’ordine dei 90 F-35 ancora non c’è e nel frattempo si è aperto uno spiraglio per rivedere l’intera faccenda. Il Senato ha approvato qualche giorno fa una riforma della Difesa che ridimensiona i poteri del ministro in tema di acquisto di sistemi d’arma e in parte li trasferisce al Parlamento. La legge ora è all’esame della commissione della Camera e prevede che il voto di deputati e senatori sui piani militari di investimento abbia un valore non solo indicativo, ma vincolante. In pratica il nuovo testo corregge in modo sostanziale la legge della fine anni Ottanta che porta la firma del senatore comunista Aldo Giacchè.

il Fatto 30.11.12
Stefano Rodotà. Finanziamenti ai politici
Ilva, il sistema è inquinato
di Silvia Truzzi


Il diritto ad avere diritti, o il diritto di ogni individuo ad appartenere all’umanità, dovrebbe essere garantito dall’umanità stessa”. La frase è di Hannah Arendt (da Le origini del totalitarismo) e si trova in calce all’ultimo libro di Stefano Rodotà (Il diritto di avere diritti, appunto, appena uscito per Laterza). Di umano – nella storia dell’Ilva e del “bivio assurdo” o lavoro o morte – c’è assai poco.
Professore, si vuol far passare l’idea che salute e lavoro sono due diritti in conflitto?
Rifiuto di pensare che questo cortocircuito fosse inevitabile. La verità è che per molti anni i diritti dei lavoratori dell’Ilva e dei cittadini di Taranto sono stati trascurati. Aver negletto la dimensione dei diritto provoca una situazione per cui salute e lavoro sono in conflitto. E aver ritenuto che la logica del profitto dovesse andare avanti indipendentemente dalla considerazione dei diritti ha generato questo mostro. C’è una vulgata in Italia, non solo ora con il governo Monti, per cui i diritti sono un lusso, che non ci si può permettere in momenti di difficoltà economica. Invece la vicenda Ilva dimostra il contrario, solo il rispetto dei diritti consente lo svolgimento dell’attività economica senza andare incontro a rischi.
Si è a lungo dissertato sull’opportunità che spetti alla magistratura prendere decisioni come chiudere una grande fabbrica, che sfama una città intera.
Eppure il fatto che i giudici si siano trovati di fronte alla questione, salute o lavoro, dimostra o no una miopia non scusabile della politica?
Assolutamente: la magistratura non è certo intervenuta nell’ultimo periodo. E i precedenti provvedimenti avrebbero dovuto essere considerati quanto meno campanelli d’allarme, perché s’intervenisse subito. In tutta questa materia è evidente la disattenzione, per usare un eufemismo, della politica. Responsabilità figlie anche dell’idea che il privato sia sempre e comunque una salvezza. Del resto la politica industriale non interessa a questo governo, come non interessava ai precedenti. L’esempio della Fiat è lampante: si liquida la faccenda come una questione privata, in realtà riguarda profondamente l’assetto industriale, e quindi la politica economica, del Paese.
Si tuona ovunque contro l’anti-politica. Ma i cittadini che leggono intercettazioni a base di “due tumori in più sono una minchiata” e di grande affinità tra i padroni dell’Ilva e i politici come fanno a fidarsi?
Quelle conversazioni sono sconvolgenti. Mi hanno ricordato la telefonata degli imprenditori che ridevano dopo il terremoto a L’Aquila. Questo ci dice che gli imprenditori, ieri costruttori oggi siderurgici, hanno la stessa “moralità” di quella politica corrotta e incapace di stare in sintonia con la società, e non mi riferisco solo alla corruzione materiale. Montezemolo, un ex presidente di Confindustria che oggi dà a tutti lezioni di politica, dice che non vuole nelle sue liste nessuno che sia stato in parlamento nei precedenti dieci anni: mi sembra molto presuntuoso. I politici sono il male, invece chi si è esercitato in questi altri luoghi paradisiaci lo accogliamo a braccia aperte. Non sarà un altro contributo all’antipolitica?
A proposito di antipolitica, parliamo dei finanziamenti elettorali dei signori Riva?
La politica, per creare parità nella competizione, dovrebbe essere finanziata da risorse pubbliche, identiche per tutti i candidati: è una posizione utopica, ma è il mio punto di partenza. Il finanziamento privato condiziona pesantemente la vita politica. Affidare la politica solo al finanziamento privato è rischioso. L’apparente trasversalità dei finanziatori che vogliono avere santi in tutti paradisi possibili diventa un’assoluzione. Naturalmente il sostegno pubblico deve essere lontano dalle dimensioni che abbiamo conosciuto e che hanno consentito ruberie di ogni sorta. Su questo nessuno si può chiamare fuori perché le regole sono state condivise. Capisco la domanda sull’opportunità di accettare fondi dai privati, ma bisogna che si apra una discussione seria, consapevoli che questo problema non si risolve dicendo “no a tutti i finanziamenti pubblici”.
Consiglierebbe a Bersani di restituire i 98 mila euro avuti da Riva? O almeno di chiarire?
Io direi sinceramente: “Questa vicenda pone un problema che deve essere affrontato in termini di sistema”. Penso che ora servano gesti forti e che sia il momento di ammettere: “abbiamo capito quali meccanismi hanno portato alla sfiducia nella politica”. Per esempio la deriva oligarchica, un pericolo anche quando gli oligarchi hanno le mani pulite. Da questo è nata la rottamazione di Renzi: anche il Pd è diventato un partito oligarchico. Vede, la situazione attuale è molto peggio di Mani Pulite, non solo per la quantità di denari e di soggetti implicati. Allora c’era la consapevolezza che certi comportamenti erano illegali. Negli ultimi anni è stato costruito un sistema per cui l’appropriazione privata di fondi pubblici è entrata nell’area della legalità.

il Fatto 30.11.12
Monti si piega all’Ilva Ferrante attacca i giudici
Dal vertice via libera al decreto “salva-azenda” che sarà varato oggi
In strada la rabbia degli operai
di Salvatore Cannavò


Quello che andrà in scena oggi, con la decisione del Consiglio dei ministri di varare il decreto “salva-Il-va”, è una manovra di accerchiamento della magistratura tarantina all’insegna dell’unità nazionale. Nonostante il presidente del Consiglio abbia assicurato di “non volere lo scontro con la magistratura”, a dare il senso di quello che sta per accadere sono stati, ancora una volta, il presidente dell'Ilva, Bruno Ferrante, e il ministro dell'Ambiente, Corrado Clini.
IL PRIMO ha sfoderato, dopo mesi di aplomb istituzionale, il volto determinato dell'azienda sparando a zero contro i giudici. “L'autorità giudiziaria ha alterato le regole” ha detto l'ex prefetto di Milano - che ha anche ricevuto un dura reprimenda da parte del Corriere della Sera - capovolgendo quella che ai più sembra un'altra verità: è l'Ilva che viola le regole mentre la magistratura interviene per far rispettare le leggi. A quanto pare non è così e, secondo il presidente dell'azienda siderurgica, sarebbero i giudici a provocare “gravi ripercussioni sull'occupazione” tanto che ieri è stata annunciata la possibile chiusura dello stabilimento di Genova. Giù in strada, sotto Montecitorio, mentre a Palazzo Chigi il governo, con Monti, Fornero, Clini e Passera, incontrava l'azienda, i sindacati al massimo livello, la Confindustria con il presidente Squinzi, a manifestare c'erano proprio gli operai genovesi, zuppi di pioggia e di rabbia. “Assassini” e “parassiti”, le urla preferite per chi ha ormai chiaro il gioco che si sta giocando: “Non ce l'abbiamo con gli agenti (in tenuta anti-sommossa, ndr) ma siamo qui per farci sentire”. Del decreto pensano che sia inutile perché in due anni è impossibile bonficare l'azienda, oppure che costituisca un regalo all'azienda: “Qui ci vuole un decreto non per salvare l'Ilva ma Taranto” hanno spiegato. A Genova ai loro compagni è andata peggio perché dopo gli scontri con la polizia uno di loro è rimasto ferito.
L’azienda, però, è sembrata cavalcare questa rabbia avanzando la minaccia della chiusura dello stabilimento tarantino e, a cascata di tutti gli altri: Genova, Racconigi, Novi Ligure.
ED È QUI che interviene il ministro Clini, che ha spiegato la sostanza dell'operazione. Il decreto, infatti, non solo assumerà l'Autorizzazione integrata ambientale (Aia), già varata a ottobre, come punto di riferimento obbligato facendone il centro della norma di legge ma istituirà un “comitato di garanzia” con compiti di “monitoraggio e sorveglianza” in modo da avere una “funzione di controllo più strutturata”. In altre parole, il Tribunale di Taranto viene definitivamente escluso da funzioni di controllo che passano esclusivamente al minister con l’istituzione del classico “osservatorio”. Un escamotage tipico della politica italiana quando deve cercare di conciliare interessi contrapposti. “Chi vuole può ricorrere alla Corte costituzionale” ha quindi affermato Clini acuendo, ancora una volta, la distanza con la magistratura tarantina.
COMPLICE anche il tornado dell'altro ieri, il vertice ha assunto quindi i connotati di un tavolo di unità nazionale. Anzi, come ha detto Monti, si è trattato di una “vera prova per il Paese”. Il presidente del Consiglio ha assicurato di aver “sentito il dolore della città”, dopo la tempesta dell'altro giorno e, con queste premesse, l'assenso delle parti sociali al decreto è apparso piuttosto scontato. Entusiasta quello del presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, secondo il quale la chiusura dell'Ilva avrebbe “gravi ripercussioni sul tessuto industriale nazionale”. Convinto anche quello di Cisl e Uil che, con Bonani e Angeletti, parlano di “emergenza nazionale” e della necessità di un “commissario nazionale”. Più cauta invece la Cgil che con Susanna Camusso ha chiesto una maggiore “responsabilità pubblica” e, con Maurizio Landini, la garanzia di un piano di interventi pubblici in grado di assicurare la bonifica degli impianti. “Però io il decreto come sarà fatto non l’ho capito” ha dichiarato il segretario Fiom.

il Fatto 30.11.12
Casta: niente tagli per sciopero
Stop dei bus a Roma, i partiti trovano la scusa per rinviare la conversione del decreto sui costi della politica
C’è tempo fino al 9 dicembre, o decade
di Marco Palombi


Slitta tutto in Senato, pure tempo e buon gusto. Slitta il decreto Sviluppo, che resta in commissione fino a lunedì, slitta quello sui costi della politica negli enti locali, su cui si doveva votare la fiducia alle 18 di ieri e invece rimarrà a bivaccare nell’aula deserta fino a martedì. I senatori sostengono che c’entra la politica, che è la ribellione al governo che non ha rispettato il lavoro delle commissioni di merito. Ma tra le motivazioni portate dalla Lega nella riunione dei capigruppo di palazzo Madama per chiedere il rinvio c’è nientemeno che “lo sciopero dei trasporti”. Spiegazione: se la fiducia si fosse votata nella serata di ieri, il Senato si sarebbe dovuto riunire anche domani per gli ordini del giorno e il voto finale sul provvedimento. Roba di poco, una mezza giornata appena, solo che i senatori già non sono abituati a stare in aula di venerdì, figuriamoci a rimanere a Roma fino a sabato, per di più per colpa di uno sciopero. La soluzione? L’hanno trovata i padani, assai legati al territorio: andiamocene a casa subito, prima del casino con treni e aerei. Applausi e approvazione in coro. Va bene, il week end lungo è sacro, però c’è il problema che il decreto sui costi della politica scade domenica 9 dicembre e deve ancora tornare alla Camera. Quindi si torna a votare lunedì di buon mattino? Macché. Martedì all’una le dichiarazioni di voto, dalle 14 la cosiddetta “chiama”.
IL POVERO maxiemendamento resterà, insomma, in aula da solo per quattro giorni. Dentro ci sono i tagli agli stipendi dei consiglieri regionali, quelli ai fondi dei gruppi parlamentari, i maggiori poteri di controllo della Corte dei Conti sui bilanci e pure una piacevole novità: grazie ad un emendamento di Elio Lanutti (Idv) approvato in commissione, le fondazioni bancarie dovranno pagare l’Imu (Giuseppe Guzzetti, che le guida, sostiene che l’esenzione vale solo 600mila euro, si vedrà). Prima che il Senato cominciasse a slittare, per di più, c’era stato pure uno scontro aperto tra maggioranza e governo in aula. Era successo, infatti, che per la prima volta in un anno, l’esecutivo non abbia posto la fiducia sul testo esatto approvato in commissione: ne ha fatto uscire due emendamenti approvati contro il suo parere che riguardavano il terremoto in Emilia (uno per la rateizzazione delle tasse sospese, uno per facilitare i prestiti alle aziende che hanno avuto un “danno indiretto” dal sisma). Restano al loro posto, invece, alcune decine di milioni indirizzate da palazzo Madama a regioni e comuni in rosso su iniziativa bipartisan dei senatori campani: non potranno però, ha sancito una ulteriore modifica della Lega, usarli per organizzare “manifestazioni sportive”. Così De Magistris i soldi per la Coppa America di vela a Napoli se li dovrà cercare da un’altra parte.

il Fatto 30.11.12
L’intervista La Rue, relatore Onu
“Monti come il Cavaliere sulla libertà di stampa”
di Beatrice Borromeo

Che Berlusconi fosse contro la libertà di stampa era pleonastico, ma che il governo Monti facesse ostruzionismo francamente non me l’aspettavo”. Frank La Rue, il relatore speciale dell’Onu per la protezione della libertà d’espressione e di stampa, è uno che viene “di solito accolto bene in giro per il mondo: tranne che nel mio Paese, il Guatemala”.
La Rue, in Italia non sono proprio impazienti di riceverla.
Durante il governo Berlusconi ho provato molte volte a farmi invitare ufficialmente per investigare sullo stato di salute della stampa italiana: è andata malissimo.
In che senso?
Ricordo quando Berlusconi chiese al Parlamento di vietare la pubblicazione di leak e di foto. Io fui critico e l’allora ministro degli Esteri si infuriò.
Franco Frattini? Cosa le disse?
Qualcosa tipo: che ne sa questo povero rapporteur guatemalteco della nostra libertà di stampa?
Le capitano spesso reazioni scomposte?
No. A memoria una volta sola. Con Hugo Chávez in Venezuela.
Invitarla sarebbe stato un gesto quantomeno autolesionista.
Infatti, era chiarissimo che a Berlusconi non conveniva un’ispezione. Ma l’atteggiamento del nuovo governo – tecnico e con incarico temporaneo – è inspiegabile.
Cos’ha chiesto a Monti?
Solamente di poter assistere alla nomina dei membri Agcom, la scorsa primavera. Il Garante per le comunicazioni ha un ruolo chiave, eppure la nomina prescinde da qualunque consultazione della società civile e i membri stanno in carica un tempo spropositato: 7 anni.
Cos’hanno risposto?
No.
Con che giustificazione?
A essere precisi non hanno rifiutato: non mi hanno proprio risposto. Il problema è che questo governo non ha fatto dei diritti umani una priorità. Libertà di espressione e di stampa, parità tra uomini e donne - di ruolo e di salario - non sono certo in cima alla lista. Solo la crisi economica lo è. Capisco che sia la preoccupazione più immediata, ma non può essere l’unica. Per affrontare la recessione serve rafforzare la democrazia: se negli Usa i giornalisti non fossero stati terrorizzati dall’idea di toccare Wall Street, la crisi non sarebbe arrivata così in profondità prima di esplodere.
Dunque si arrende?
Affatto. Anzi, è arrivato il momento di fare un’ispezione completa: chiedo ufficialmente che mi invitino per una missione.
Qual è secondo lei il problema numero uno da affrontare?
Direi la questione dell’accesso all’informazione vera. Io credo profondamente nel servizio pubblico, ma solo se è indipendente.
E la nostra tv di Stato è lottizzata.
La Rai non può essere controllata dai politici. La Bbc per esempio è davvero indipendente dal governo: ci dovete arrivare anche voi. Invece in Italia c’è una concentrazione di gruppi di potere che manipolano l’opinione pubblica. E questa è una violazione dei diritti umani.
Li vede mai i nostri tg? Spesso ci sono sfilate di politici che fanno dichiarazioni a loro piacere, senza un giornalista che faccia le domande.
Tutti i media devono fare giornalismo investigativo. Altrimenti non hanno alcuna funzione per il pubblico.
Si dà sempre la colpa alla casta, agli editori che proteggono i loro interessi, a Berlusconi.
Ma non pensa che anche i giornalisti stessi abbiano le loro responsabilità?
L’Italia ha bisogno di nuovi standard etici. I giornalisti sono in grado di aiutare la lotta alla mafia, alla corruzione, al malcostume. Sta a loro rispettare la deontologia, ma spesso le tentazioni sono forti: c’è chi pensa prima al profitto economico che alla professione. L’etica però non si può imporre. Ma in certi casi si deve pretendere.
Per esempio?
I giornalisti del servizio pubblico non hanno scuse, non esiste che accettino regali, passaggi in aereo o favori. É inconcepibile. Li pagano i cittadini e devono rispondere solo ai cittadini.

Corriere 30.11.12
Lazio verso il voto il 3 febbraio. Election day a rischio
Formigoni al Viminale: alle urne anche noi
di Alessandro Capponi


ROMA — Il 3 febbraio o, al più tardi, il 10. È questa, con ogni probabilità, la data scelta per il voto nel Lazio. In Lombardia e Molise rimane in piedi l'ipotesi del 10 marzo, ma non si esclude che, nel caso di un accordo di tutte le forze politiche, il governo accetti di anticipare la data del voto anche lì. Vicenda complessa, che racchiude in sé problemi tecnici oltre che politici.
Tramontato almeno in parte, dopo la sentenza del Consiglio di Stato, l'accorpamento di Politiche e Regionali auspicato dal Quirinale per il 10 marzo, le trattative vanno avanti: nel Lazio, il presidente dimissionario Renata Polverini nonostante due sentenze le impongano di scegliere una data «entro cinque giorni» — cioè entro lunedì — comunque, prende tempo. Potrebbe farsi commissariare, ma è più probabile che, visti i continui contatti con il ministro dell'Interno Anna Maria Cancellieri, si arrivi a una soluzione di compromesso. Individuata, appunto, nelle prime domeniche di febbraio: il 3 — che però, così come il 27 gennaio, potrebbe creare problemi con la presentazione delle liste, un mese prima, subito dopo le festività natalizie — oppure il 10. Di certo anche il presidente della Lombardia, Roberto Formigoni, punta al «voto presto!», come scrive su Twitter. Dopo l'incontro al Viminale con il ministro Cancellieri, è chiarissimo nel messaggio affidato alla Rete: «Lombardia al voto presto! Se il Lazio vota a febbraio, anche noi abbiamo lo stesso diritto».
Vicenda complessa, come detto. Il Pdl, che nel Lazio cerca un candidato da opporre a Nicola Zingaretti del Pd, sperava in un decreto del governo per l'election day il 10 marzo. Ma l'election day pare tramontato: troppo vicino febbraio, mese scelto per le Regionali nel Lazio. Il governo potrebbe fissare per il 10 marzo le Politiche, anticipando la fine della legislatura, o perfino portarla a scadenza naturale, il 7 aprile. Per la riforma elettorale i giochi, dice il presidente del Senato Renato Schifani, non sono affatto chiusi: ci sarebbero «spiragli per larghe intese».
Questa mattina nel Consiglio dei ministri arriverà il decreto legislativo di attuazione sull'incandidabilità dei condannati, contenuta nella legge anticorruzione. Dovrà disciplinare la durata e i limiti dell'ineleggibilità per qualsiasi carica politica elettiva, dai consigli circoscrizionali al Parlamento europeo. Prevista per chi si è macchiato di reati gravi (ad esempio, associazione per delinquere di tipo mafioso) subendo condanne fino a due anni, e contro la pubblica amministrazione, come corruzione e concussione. Il governo potrà individuare altri reati per l'incandidabilità. Più che a una lista, si punterà su requisiti oggettivi, come condanne definitive a una pena non inferiore a quattro anni per delitti non colposi.

Corriere 30.11.12
Cina, donne in piazza contro le discriminazioni «Umiliate per un posto»
La ribellione delle universitarie a Wuhan
di Marco Del Corona


Le braccia incrociate come a dire: no. Addosso, sui vestiti, grossi mutandoni di carta con l'ideogramma «esame» barrato. E un messaggio forte e chiaro: che cosa c'entra chiedere informazioni sul ciclo mestruale per diventare funzionari governativi? La protesta di una dozzina di universitarie che a Wuhan volevano entrare nell'amministrazione pubblica ha ottenuto, a giudicare dalla mole di commenti sul web, l'attenzione che cercava. Dibattito online e indignazione per una pratica considerata discriminatoria, richiesta dal sistema normativo e non dall'arbitrio di un burocrate locale. È stato il Quotidiano legale a rivelare la mobilitazione delle candidate, che si sono ribellate agli esami ginecologici prescritti in aggiunta ai normali controlli fisici e la vicenda è immediatamente uscita dai confini regionali dell'Hubei.
Le giovani si sono trovate di fronte a qualcosa di simile alle forche caudine di un sessismo che in Cina appare inestirpabile. Gli esaminatori chiedono infatti un'ispezione ginecologica anche con il prelievo di cellule per il Pap test. Non solo: la donna deve comunicare quando sono comparse le prime mestruazioni, la regolarità del ciclo e la sua entità. «Pure ammettendo che abbiamo malattie a trasmissione sessuale — ha dichiarato al Quotidiano legale una delle manifestanti raccolte davanti al dipartimento delle Risorse umane e della Sicurezza sociale, identificata solo come Xiaochun — non è che posiamo infettare i nostri colleghi…». E comunque il nodo non è questo. La composta sollevazione di Wuhan dà voce all'insofferenza verso pratiche discriminatorie che resistono, nonostante tutto (e infatti, tra commenti e tweet online, più d'uno ha ricordato come anche la nuova leadership comunista sia maschile, con due sole donne tra i 25 del Politburo e nessuna fra i 7 del comitato permanente). Il tema dei diversi parametri per uomini e donne era stato sollevato già in passato, sempre invano. Da Hong Kong il China Labour Bulletin sottolinea la forbice tra l'uguaglianza tra i sessi sancita dalla Costituzione e la prassi, un impasto di inefficienza, cattiva volontà e resistenze culturali. «La discriminazione verso le donne sta ovunque e spesso comincia ancora prima dell'ingresso nel mondo del lavoro. Quote e assunzioni regolate sul genere sono diffusissime, e spesso si manifestano con punteggi più alti richiesti alle donne per accedere a certe posizioni», si legge nel rapporto. Che aggiunge come «la discriminazione sia più grave nelle mansioni meno qualificate» e come «spesso i datori di lavoro chiedano alle donne i loro progetti matrimoniali, esigano da loro condizioni contrattuali illegali, persino con test di gravidanza e altre richieste».
In questo contesto, ecco forme di protesta a loro modo spettacolari, come le donne che si rasarono i capelli contro gli standard più alti per essere ammesse nelle università o come l'occupazione delle toilette maschili a Canton, quest'anno, a fronte di una diffusa penuria di bagni per donne. In Cina l'altra metà del cielo continua a essere, appunto, l'altra: quella sbagliata.

l’Unità 30.11.12
Dove va l’Italia. Il Paese senza madri
Facciamo sempre meno figli. E non si tratta di un problema solo economico
Negli ultimi anni si è accentuata, invece di ridursi, la polarizzazione tra dimensione privata e dimensione pubblica della esistenza
Due sistemi che comunicano poco: lavoro e famiglia, pubblico e privato e anche, inevitabilmente, riproduzione e produzione
di Carla Collicelli

Vicedirettore Censis

È UN DATO DI FATTO CHE SI FACCIANO SEMPRE MENO FIGLI IN ITALIA, COME PERALTRO IN TUTTI I PAESI AVANZATI ED IN GENERALE NEL MONDO. Ed è forse esagerato parlare, come molti fanno, di suicidio demografico, quanto meno in un contesto di territori sovraffollati e di disoccupazione, come il nostro. Spesso si dimentica, però, che ai valori statistici declinanti della fertilità e della natalità si affiancano altri fenomeni, di carattere sociale e antropologico e di valenza qualitativa, di gran lunga più preoccupanti, anche se subdolamente nascosti e sottostimati, che configurano un quadro di società agenerativa e con forti difficoltà ad affrontare il futuro.
Innanzitutto si accentua, invece di ridursi, la polarizzazione tra dimensione privata e dimensione pubblica della esistenza, che significa separatezza, ed in alcuni casi conflitto, tra vissuti ed approcci femminili prevalenti nella sfera del privato -, e vissuti ed approcci maschili dominanti nella sfera del lavoro e della politica -. Quella contrapposizione che già alcuni anni fa Adriano Sofri ha tematizzato in un volume dal titolo Il nodo e il chiodo: i nodi della accoglienza, della inclusione, della cura da parte delle donne, negli ambienti privati di vita; i chiodi della competizione, dell’economicismo, della verticalizzazione maschile del potere, negli ambienti della vita pubblica.
Di fatto i due ambiti si configurano sempre più come due sistemi separati e tendenzialmente non comunicanti tra loro: lavoro e famiglia, pubblico e privato, denaro e affetti, solidarietà e competizione, ed anche procreazione e produzione, riproduzione e produzione, non si integrano, ma anzi si contrappongono, determinando tra le altre cose quella particolare fatica esistenziale che caratterizza la vita delle tante donne che desiderano avere un proprio ruolo in ambedue i contesti. I dati della sofferenza femminile nel mondo del lavoro e nei luoghi del lavoro sono noti. Meno noti, anche se oggi più analizzati che in un recente passato, sono i dati della femminilizzazione dei vissuti familiari, che significa in parte contagio di ruoli tra uomini e donne, con padri più materni di una volta, ma soprattutto crescita esponenziale delle responsabilità di figlie, mogli e madri nei confronti dell’allevamento dei bambini, della educazione, della cura dei malati, della salvaguardia della convivialità e della socialità, e di tutte le altre funzioni tipiche della sfera privata. E troppo poco sono considerati i risvolti sociali ed antropologici negativi dovuti al mancato sviluppo ed incontro armonico tra identità maschile e identità femminile e relativi ruoli e funzioni, rispetto alla possibilità di una fecondazione reciproca e della costruzione di nuova vita, come di nuovo lavoro, o di nuova cultura.
In questo senso si può dire che il valore della generatività, insomma della fiducia nel futuro e del desiderio di costruire nuova vita, viene progressivamente meno non solo e non tanto perché i figli costano, le famiglie con bambini sono le più penalizzate economicamente e socialmente, o la rete degli aiuti per i malati e gli anziani si fa sempre più stretta e lunga con la conseguenza di un assottigliamento sempre più pesante delle potenzialità e delle risorse che fino ad oggi per decenni hanno sostenuto e dato vita al cosiddetto welfare familiare all’italiana -, ma molto più per l’appesantirsi, fino a spegnersi, per sovraccarico e mancato sostegno culturale e sociale, di quella che dovrebbe essere considerata una funzione essenziale nel quadro dello sviluppo integrato della collettività, appunto la creazione di nuova vita, di nuovo lavoro, di nuovo sociale.
Un secondo importante aspetto, di carattere più trasversale, ha molto a che fare con la perdita di valore della generatività: l’escalation dell’individualismo e della solitudine. Si pensi al ruolo crescente di alcune tecnologie moderne nella vita di ciascuno di noi, dalla automobile fino al telefono cellulare e ai social network: strumenti formidabili di liberazione e potenziamento delle possibilità umane, ma al tempo stesso meccanismi di tendenziale isolamento e spesso brodo di coltura della solitudine e della povertà di relazioni significative. Si pensi all’aumento dei cosiddetti single (le famiglie mononucleari), che rappresentano ormai quasi il 30% dei nuclei, e non si tratta più solo di vedo vi ed anziani, ma anche di molti giovani uomini e donne. Si pensi ancora alle coppie senza figli, pari al 22% dei nuclei, che sono tali non più solo per oggettive difficoltà riproduttive (oggi peraltro spesso superabili), né solo per problemi economici, ma in molti casi per la scelta di una «solitudine a due». È in questo contesto che si assiste alla diminuzione di status ed alla svalutazione di ruolo degli insegnanti, come anche alla crisi della normatività all’interno della famiglia con le note conseguenze di disorientamento della adolescenza e di devianza giovanile. Trasmettere cultura e valori per la società del futuro sembra non costituire più una priorità né un obiettivo importante nella vita. La frattura tra scuola e famiglia e tra scuola e società è un ulteriore sintomo in tal senso. Il valore dell’insegnare e dell’apprendere lascia il posto ad un acritico primato del procedere solipsisticamente nel percorso di crescita formativa e di istruzione scolastica e universitaria.
La cosa più importante è forse rimarcare che una deriva di questo tipo mette a serio repentaglio l’insieme dei processi di sviluppo e di rilancio sociale ed economico di un Paese, in quanto, come anche gli operatori finanziari ben sanno, non vi è crescita senza fiducia nel futuro e nelle nuove generazioni, e senza che i processi sociali in corso siano alimentati da un sentimento, individuale e collettivo, di speranza e di impegno prospettico, oltre che relativo al presente.
Il convegno oggi a Roma
Ne discutono Camusso, Maraini, Saraceno

Si tiene oggi a Roma (dalle 9.30 alle 18.00 Sala Di Liegro Palazzo Valentini , via IV Novembre 119) «Figli o Lavoro La maternità negata», un convegno organizzato dal Gruppo Controparola con la collaborazione della Cooperativa Sociale Le Pleiadi Onlus e il sostegno dell’Assessorato alle Politiche Culturali della Provincia di Roma. Intervengano, tra le altre, Dacia Maraini (scrittrice), Chiara Saraceno (sociologa), Susanna Camusso (Segretario Cgil), Magda Bianco (Banca d’Italia), Linda Laura Sabbadini (Istat), Titti Di Salvo (Comitato 188), Carla Collicelli (Censis). Moderano: Maria Serena Palieri, Chiara Valentini, Claudia Galimberti.

il Fatto 30.11.12
Assessore in Sicilia
Zichichi:“Sono un genio, con immensa immodestia”
di Malcom Pagani


Alcuni uomini vorrebbero essere dio. Per altri è difficile ammetterne l’impossibilità. Antonino Zichichi da Trapani, neoassessore alla Cultura della giunta Crocetta, Cavaliere di Gran Croce, Gran-d’Ufficiale, curriculum non sintetizzabile, ha letto Russell e per non sbagliare “con immensa immodestia”, si posiziona comunque nell’alto dei cieli: “Vivo tra le nuvole, ma so cosa fare”. Quando Zichichi aziona il pensiero, diceva Saviane, si ode un ronzio. A 83 anni, il motore gira a pieno regime: “Ma non usi questa parola, le dittature sono state cosa troppo seria per volgarizzarne i vocaboli”.
Professore, inizia l’avventura
È amore ai confini dell’incoscienza. Al richiamo mia terra, a cui con immensa immodestia penso di aver lasciato qualcosa di tangibile, non potevo restar sordo.
Dicono che lei sia troppo vecchio per l’incarico
Hanno la lingua e quindi parlano. Ma che fai? Gliela tagli? Sappia, questa gente, che la politica mi ha cercato per anni. Recentemente. Insistentemente.
Addirittura?
Un incarico di altissimo profilo nel governo tecnico. Ma sono uomo del fare, più che coordinare gli altri, preferisco agire. Vestirmi da ministro non mi interessava. I bravi politici ci sono già. Io sono uno scienziato.
Ha rifiutato la proposta di Mario Monti?
Non di Monti in persona, ho detto no all’ipotesi di entrare nel Governo.
Non vediamo la differenza.
Non ho pregiudizi, non ho nemici e sono per il trionfo della cultura della collaborazione. Con immensa immodestia devo dirle che non ho vincoli che non siano rigorosamente scientifici.Si vede che rinunciare era destino. Crocetta non lo conoscevo. Mi ha chiamato. Sapeva tutto di me. Parlava di me come se fossi io. Non potevo dirgli no.
Si capisce.
E infatti, gli ho detto sì. Un sì pieno di entusiasmo. Spero di poter dare una mano. Fin da ragazzo, quando surclassavo per sapienza i colleghi in carriera, avevo una direzione. Se non fosse stato per me non si sarebbe mai saputo che la propulsione nucleare non vive di vita propria, ma è un effetto secondario che dipende e deriva dalla forza sub-nucleare. Mi deridevano. Ironizzavano.
Ora non più.
Mi sembra che sul valore delle mie scoperte e invenzioni “formidabilmente” giunte fino a noi, non sia più lecito dubitare. Ne ho messe in fila più di chiunque altro. Si ricorda Majorana?
Certo, lo conosciamo.
Pensi che a Erice, nel centro di cultura scientifica a lui dedicato e da me fondato nel ’63, persuasi Sciascia a smettere con quella sciocca deduzione.
Quale deduzione professore?
Sciascia seguiva le lezioni in inglese. Non capiva una parola ed era sicuro che Fermi detestasse Majorana. Non aveva senso. Glielo spiegai. Capì.
Cosa avrebbe detto Sciascia dell’abbraccio tra un comunista e un fisico stregato da Berlusconi.
Sono liberale e moderato, ma questo non ha impedito a Crocetta di rivolgersi a me. Non tremo. Io sono quello, solo per darle un dato, che a Erice fece crollare il Muro di Berlino due anni prima del previsto.
Davvero, professore ?
Scherza? Vennero in avanscoperta tre fisici straordinari, i consulenti delle comunità scientifiche di tre grandi Nazioni, gli ambasciatori di Reagan, Gorbaciov e Deng Xiaoping.
Lei ha fatto la storia.
Può dirlo. La guerra fredda finì a Erice. Eravamo seduti su 10.000 diecimila chili di tritolo, su 60 bombe atomiche già pronte a esplodere. Lo urlammo al mondo.
Episodio rivoluzionario.
L’impegno mio fu denunciare il caso. Nelle guerra moderne nessuno può dire: “Ho vinto”. Quando hai provocato 50 milioni di morti che hai vinto? Non so se ricorda quando gridai chiaro e tondo che se al capo della superpotenza arriva l’ordine: “premi il bottone”, quello esegue senza fiatare. Cose che ho già detto. Già scritto.
Ci perdoni professore, non rammentiamo.
Non fa niente. Un uomo di scienza vive del solo conforto della comunità scientifica. Archimede, una mente più illuminata di Fermi ed Einstein messi insieme, viene ignorato dalla memoria della sua stessa terra.
Alcuni lo collocano a Crotone.
Si-ra-cu-sa. Lei, come altri che lo confondono con Pitagora, è di un’ignoranza spaventosa. Ma non è colpa sua. È colpa del sistema scolastico, dell’oblìo e dei messaggi veicolati ad arte. Ricorda cosa dissero ai tempi del tunnel costruito sotto il Gran Sasso?
No, professore.
Che l’avevo fatto erigere come sede segreta per il Governo Dc.
Villani.
Preferisco ricordare altro, per esempio che Pertini, mio grande estimatore, fu il primo Presidente della Repubblica che venne a trovarmi e mi ascoltò con rispetto e attenzione .
Professore stiamo divagando.
Ha ragione, torniamo alla mia amata Sicilia. O a questa Italia disgraziatissima, un modello che andrà studiato a scuola.
Progetti per rallegrare l’eterno dramma siciliano?
A decine. Bisognerà vedere cosa si potrà fare. Il modello matematico non mente, la democrazia è impossibile e le cariche, abiti virtuali che restituiscono solo un ruolo, non un vero potere decisionale. È un’imperfezione conclamata la democrazia. Ma questa abbiamo e questa ci teniamo.
Ha perdonato Odifreddi? Si occupò di lei in due volumi intitolati “Zichicche” non esattamente apologetici.
Da una persona che raddoppia l’odio nel cognome e ha a che fare con il freddo, non mi aspetto nulla di buono.
Quindi non lo ha perdonato. Ha ironizzato sul mio cognome. Gli rendo la pariglia.
I suoi detrattori sembrano una mandria.
Dice? È mal informato. Mi interessa solo il giudizio della comunità scientifica e lì non c’è n’è uno solo che mi sia nemico.
Ma non le hanno dato il Nobel.
Cosa vuole, l’hanno preso così tante persone immeritevoli, lasciamo perdere.
No professore, dica.
Il guaio sono le pressioni a cui vengono sottoposti i giurati. Sono stato candidato tre volte, poi, stranamente, niente. È altro a contare.
Cosa professore?
Quando io parlo, gli altri stanno zitti.
Che ci importa del Nobel?
Niente. Assolutamente niente.
Poi a Stoccolma fa freddo.
Esattamente.

La Stampa 30.11.12
Oliver Sacks, i miei viaggi con l’Lsd nel paese delle meraviglie
Nel nuovo libro, Hallucinations, il grande neurologo rivela i suoi esperimenti giovanili con gli stupefacenti
di Paolo Mastrolilli

qui

La Stampa 30.11.12
I Grimm: sono le fiabe a tenere insieme le comunità
Usciva 200 anni fa la prima edizione della celebre raccolta Così i due fratelli ricercavano l’essenza della cultura tedesca
di Jack Zipes


Ciò che affascinava o imponeva ai Grimm di concentrarsi sull’antica letteratura tedesca era la convinzione che le forme culturali più pure e spontanee - quelle che tenevano insieme una comunità - fossero quelle linguistiche e che bisognasse rintracciarle nel passato. Essi ritenevano inoltre che la letteratura «moderna», per quanto assai ricca, fosse una creazione artificiale e in quanto tale incapace di esprimere l’essenza genuina della cultura del Volk, che scaturiva in modo spontaneo dalle esperienze degli individui e li teneva insieme. Per questo dedicarono tutte le loro energie alla riscoperta delle storie del passato. E per questo il loro amico, il poeta romantico Clemens Brentano, chiese loro di raccogliere ogni genere di racconto popolare con l’intento di servirsene per un volume di fiabe letterarie. Nel 1810 essi gli inviarono 54 testi che per fortuna ricopiarono. Dico per fortuna, perché Brentano finì col perdere il manoscritto nel monastero di Ölenberg in Alsazia e non utilizzò mai quei testi.
Ma nel frattempo i Grimm continuarono a raccogliere le fiabe da amici, conoscenti e colleghi, e quando capirono che Brentano non avrebbe più utilizzato il loro manoscritto, decisero di seguire il consiglio del comune amico e autore romantico Achin von Arnim e di pubblicare la loro raccolta, che nel frattempo era arrivata a comprendere 86 storie - quelle che per l’appunto pubblicarono nel 1812 e cui si aggiunsero le altre 70, che pubblicarono nel 1815. Queste due raccolte costituirono la prima edizione, corredata di note e prefazioni scientifiche. [... ]
Pur non avendo ancora del tutto formulato la loro teoria del folclore e malgrado le differenze esistenti tra Jacob e Wilhelm - quest’ultimo avrebbe poi infatti optato per una più decisa revisione poetica dei testi raccolti - i fratelli si attennero in sostanza al loro intento originario dal principio alla fine del lavoro sui Kinderund Hausmärchen: recuperare i resti del passato. In senso più generale, i Grimm cercarono di raccogliere e preservare come gemme sacre e preziose ogni genere e tipo di traccia del passato, vale a dire racconti, miti, canti, favole, leggende, epopee, documenti o altre forme di creazione dunque non solo fiabe. L’intento era di rintracciare e cogliere l’essenza dell’evoluzione culturale e dimostrare come la lingua naturale, che sgorgava dai bisogni, dagli usi e dai rituali della gente comune, creasse legami autentici e contribuisse a modellare le comunità civili. È questa una delle ragioni per cui definirono la loro raccolta un manuale educativo ( Erziehungsbuch ), in quanto le fiabe richiamavano ai valori basilari dei popoli germanici e degli altri gruppi europei e l’uso di raccontarle aiutava gli individui a far luce sulle loro stesse esperienze. [... ]
I Grimm cercavano di valorizzare e sostenere la necessità di raccontare storie per creare legami tra gli individui i quali, proprio attraverso il racconto, mettevano in comune le proprie esperienze. Erano convinti che ogni storia e ogni sua variante fossero importanti per mantenere viva la tradizione culturale. Essi rispettavano la differenza e la diversità e allo stesso tempo affermavano che «lo scopo della nostra raccolta non era solo servire la causa della storia della poesia. Il nostro intento era che la poesia insita in essa producesse un effetto, quello di procurare piacere ovunque possibile, diventando perciò un manuale educativo». [... ]
Se c’è un’edizione delle fiabe dei Grimm che meglio rappresenta gli intenti e gli ideali che essi perseguirono fino al 1857 è senz’altro la prima, poiché essi non ne cesellarono né rifinirono le storie come fecero nelle successive edizioni. In esse riusciamo infatti a percepire distintamente le voci dei raccontatori da cui i Grimm le ricevettero e in questo senso le storie, alcune anche in dialetto, sono più autenticamente popolari e genuine, benché talvolta non esteticamente gradevoli come le versioni poi rifinite. In altre parole, i Grimm lasciarono parlare le storie stesse in un modo assai schietto se non proprio grossolano, il che dona a esse quel senso di verità pura e semplice o quel valore educativo voluto dai Grimm.
Soffermandosi sulle fiabe della prima edizione, la prima cosa che il lettore potrà notare è che molte storie furono eliminate dalle successive edizioni per varie ragioni, non narrative, ma in quanto sprovviste dei requisiti voluti dai Grimm, che in prima istanza si sforzavano di pubblicare fiabe di chiara origine tedesca. Per esempio, Il gatto con gli stivali, Barbablu, Principessa Pel di topo eOkerlo furono considerate in seguito troppo francesi per essere ripubblicate. Più tardi i Grimm capirono che questo era un criterio sbagliato, perché era e resta impossibile conoscere le origini certe delle fiabe popolari. Malgrado non sia oggi possibile sapere con certezza perché alcune fiabe furono poi omesse o spostate nelle note, di altre come La Morte e il guardiano d’oche sappiamo invece che venne levata per i suoi tratti letterari barocchi; La matrigna, per la sua natura frammentaria e brutale; Gli animali fedeli, per la sua derivazione dal Siddhi-Kür, una raccolta di fiabe della Mongolia. Col tempo, via via che continuavano a raccogliere varianti provenienti da fonti orali o scritte, ricevute da amici e colleghi, i Grimm rimaneggiarono alcune fiabe della prima edizione combinando le diverse versioni, sostituendo altre con le nuove e spostando altre ancora nelle note di commento.
La seconda cosa che il lettore potrà notare nelle fiabe della prima edizione è che molte di esse sono più brevi e incredibilmente diverse rispetto alle versioni pubblicate nelle successive edizioni. In esse c’è un sapore di oralità e di materia viva. Raperonzolo, per esempio, svela di essere rimasta incinta del principe; la madre di Biancaneve, e non la matrigna, vuole uccidere la sua bellissima figlia per invidia. In terzo luogo, il lettore noterà subito che tutte queste fiabe sono scarne e poco o per niente descrittive. L’enfasi è tutta sull’azione e sulla soluzione dei conflitti. Chi le racconta non mena il can per l’aia. È propenso a comunicare le verità che conosce e anche quando ci sono di mezzo magia, superstizioni, trasformazioni miracolose e brutalità, crede nelle sue storie. La metafora traccia una mappa della realtà di chi ascolta e spinge le persone a imparare dai simboli in che modo affrontare le loro realtà.

Oggi a Roma, un volume di favole da scoprire
Nel bicentenario della prima pubblicazione delle Fiabe dei fratelli Grimm (Kinder und Hausmärchen), Donzelli manda in libreria Principessa Pel di Topo e altre 41 fiabe da scoprire (trad. Camilla Miglio, pp. XXIV-248, € 23,90): il volume, arricchito con le tavole originali di Fabian Negrin, ripropone la versione originaria di alcune delle storie che i due autori avrebbero più volte modificato nelle sei successive edizioni nel corso di mezzo secolo. Il volume sarà presentato oggi a Roma, alle 18,30 presso l’Auditorium del Goethe Institut, in un incontro a cui partecipano Jack Zipes, Fabian Negrin, Camilla Miglio e Bianca Lazzaro. Del discorso che terrà nell’occasione Jack Zipes (germanista americano, studioso di letterature comparate e della tradizione favolistica, curatore del volume dei Grimm) anticipiamo in questa pagina un ampio stralcio.

Repubblica 30.11.12
A Padova
Severino, Giorello, Ferraris: incontro sul Nuovo Realismo

PADOVA — “Una discussione sul nuovo realismo” è il titolo della giornata di studi che si tiene oggi all’Università di Padova, Archivio Antico, Palazzo Bo, dalle 11. Introdotti dal Rettore, Giuseppe Zaccaria, intervengono Maurizio Ferraris, Giulio Giorello, Emanuele Severino. La discussione parte anche dai due libri di Ferraris (Manifesto del nuovo realismo uscito per Laterza, Bentornata realtà, pubblicato da Einaudi Stile Libero).
Sempre sul tema Hilary Putnam farà un intervento che sarà trasmesso prossimamente nello speciale sul nuovo realismo di Zettel. Filosofia in movimento (Rai Educational, canale 146). Di Putnam è da pochi giorni in libreria La filosofia nell’età della scienza
(il Mulino), a cura e con un’ampia introduzione di Mario De Caro e David Macarthur.