sabato 1 dicembre 2012

l’Unità 1.12.12
L’appello di Bersani a Renzi
Colloquio con l’Unità:  «Non sfregiare le primarie»
«Chi si candida a guidare il Paese deve dare l’idea che non si cambiano
le regole per convenienza»
«Cambiamento e rinnovamento li considero un mio impegno»
di Vladimiro Frulletti

«Domenica ci sarà l’epilogo di una splendida avventura che ha riavviato il rapporto fra politica e cittadini e che ha rimesso al centro del Paese il Pd e i progressisti, rafforzandoli. Tutto questo non merita né di essere turbato né sfregiato, ma rilanciato, messo a valore per la vera battaglia che ci aspetta tutti quanti, che è quella per il dopo». Bersani ha appena lasciato Siena e sta raggiungendo Empoli. E durante il viaggio ragiona sulla tensione che si sta alzando proprio nelle ultime ore di campagna elettorale. È un clima che non gli piace. Anzi lo preoccupa.
Teme che possa sciupare le primarie e mandare un messaggio negativo non solo a quei tanti cittadini che si sono messi in fila per votare la scorsa domenica e che spera lo rifacciano anche domani, ma a tutto il Paese. E in un momento in cui non ce ne sarebbe affatto bisogno. Perché da lunedì tutto il Pd, assieme ai suoi alleati, deve pensare a come rimettere in piedi l’Italia. A come ricucire quello strappo fra cittadini e politica che in questi anni è diventato sempre più profondo.
CHI HA SFIDUCIA NELLA POLITICA
«Io, sinceramente, spero che alla fine di questa storia possa essere stata accorciata un po’ di quella radicale sfiducia che le persone nutrono nei confronti della politica» dice. Ecco perché da Bersani arriva un duplice messaggio a Renzi. Un invito a non farsi reciprocamente del male. Perché al di là di quello che diranno le urne fra poche ore, poi ci sarà da pensare al lunedì. E allo stesso tempo un altolà a non far finire nel veleno una bella storia di partecipazione e democrazia. Che è anche la base su cui, da lunedì appunto, ricominciare assieme. «Sono convinto ragiona Bersani che tutti insieme riusciremo a fare anche di domenica una bella giornata di democrazia, rincuorando così tutti gli elettori del centrosinistra e facendoci guardare con attenzione, e perché no? anche con ammirazione, pure da chi non la pensa come noi. E così daremo un vero aiuto alla ricomposizione fra cittadini e politica senza la quale non c’è prospetiva per il Paese».
Bersani arriva a Siena da Terni, dalle acciaierie. Nella città del Palio partecipa a una assemblea con tanta gente nell’aula magna dell’Università per stranieri. Ma prima, in un incontro ristretto, ha voluto parlare con alcune delegazioni di lavoratori delle aziende della zona. E lì prende appunti, segna nomi e problemi, quando gli spiegano che molte realtà sono in forte sofferenza: dall’agricoltura alla ricerca biomedica, al settore metalmeccanico. Gli dicono che i posti di lavoro si riducono e che la crisi che sta attraversando Mps e la Fondazione (che ne controlla gran parte del capitale) non fanno altro che togliere pezzi di speranza. Occorre invertire la rotta anche in una delle realtà da sempre in cima alle classifiche nazionali del benessere. Saranno poi le parole e le storie che si sente ripetere in serata a Livorno.
Sollecitazioni a cui Bersani risponde spiegando che c’è da ritrovare il valore della parola uguaglianza. Che poi in concreto vuol dire che chi ha di più, deve dare di più e che anche il figlio di un lavoratore o di un cassintegrato deve avere la possibilità di andare all’università. «E invece per la prima volta annota sono calate le iscrizioni perché tante famiglie l’università non se la possono più permettere». Perché senza uguaglianza non si rimette nemmeno in moto la macchina produttiva del Paese. Se non si redistribuisce un po’ di risorse a chi lavora e a chi dà lavoro la spirale recessiva porterà sempre più giù questo Paese. Ecco, se il Pd invece di mettere «l’orecchio a terra» per ascoltare queste voci e per prepararsi a trovare le soluzioni quando gli toccherà di stare la governo, si divide su regole e cavilli, rischia grosso e quindi fa rischiare grosso anche il Paese.
Il ragionamento di Bersani è sostanzialmente questo: «Le regole sono state condivise da tutte le forze politiche della coalizione, abbiamo fatto un patto. Anche i candidati le hanno condivise. Ma soprattutto sono state certificate da più di tre milioni di persone che, anche a prezzo di qualche sacrificio, hanno voluto partecipare». Quindi è una «turbativa» non riconoscerle anche perché questo sistema del doppio turno «ha una sua logica e una sua razionalità». Al ballottaggio per i sindaci non cambia la platea degli aventi diritto. La battuta che sintetizza tutto questo è che fra il primo e il secondo tempo di una partita non cambiano le regole del gioco. «È chiaro che cambiare le regole non è nella mia disponibilità, né in quella di Renzi» aggiunge. Ma anche se lo fosse, sarebbe sbagliato farlo. «Non daremmo un esempio giusto al Paese spiega perché chi si candida a governare, prima di ogni altra cosa, deve dare l’idea che nessuna regola può essere cambiata per questa o quella singola convenienza». Prima vengono le regole, poi il consenso, dice, perché sotto questo punto di vista «in questi anni abbiamo già dato». E così l’invito che fa ai suoi sostenitori è di andare a votare rispettando le regole e l’auspicio è che anche «Renzi dica le stesse cose ai suoi».
Al segretario Pd soprattutto non va giù che proprio a lui che ha voluto le primarie ora arrivi l’accusa di voler limitare la partecipazione. «Ho fatto il massimo per promuoverla» dice mentre l’auto si avvicina a Empoli. E a dimostrazione di questo cita i successi ottenuti nelle grandi città dove «indiscutibilmente» c'è un forte voto d’opinione. Da parte sua del resto non fa mistero che i temi portati da Renzi e dagli altri concorrenti alle primarie siano un valore destinato a diventare patrimonio comune per il Pd e il centrosinistra. «La spinta al rinnovamento e al cambiamento ritengo che sia un mio impegno a farli diventare scelte concrete». Ma del «fuoco amico» il Pd e il centrosinistra non ne hanno bisogno. C’è già un abbondante fuoco nemico che ci ha messi nel mirino spiega Bersani. C’è la sfiducia, anche giustificata, del popolo nei confronti di politica e istituzioni da battere. E c’è la destra («una parola che il mio competitore non usa mai» annota con un po’ di malizia Bersani).
IL SÌ ALLA PALESTINA
Bersani vede un Berlusconi in campo e si aspetta che alle politiche ci sarà la «solita favola» sui comunisti che vogliono aumentare le tasse con l’aggiunta che tutta la crisi è colpa di Monti. Cercheranno cioè di nascondere il fatto che sull’orlo del baratro ci ha portato Berlusconi. Quanto a Monti, Bersani conferma che il Pd si muove sempre con lealtà e che non tutto ciò che è stato fatto l’ha trovato concorde. Ma rivendica anche dei successi significativi. Ultimo il sì all’ingresso della Palestina nell’Onu. «Siamo riusciti a far assumere al governo una posizione avanzata spiega. Una scelta per far vincere la pace e per far perdere le armi».

l’Unità 1.12.12
I renziani: andate ai seggi e chiedete di votare
di Francesco Sangermano

Ore 21.06. L'e-mail compare d'improvviso sul computer di redazione. Il mittente (info@domenicavoto.it), non foss’altro per le polemiche di questi giorni, incute subito curiosità. Il destinatario è l'inidirizzo generico della redazione fiorentina de l'Unità (firenze@unita.it). Non ci sono altre specifiche. Non un nome, un cognome, un indirizzo o un riferimento di alcun tipo che possa far associare la mail a una persona fisica. Ma il testo è inequivocabile. «Carissimo, lei è uno dei 128.733 cittadini che attraverso il sito www.domenicavoto.it ha espresso la volontà di partecipare a questa occasione di rinnovamento dell’Italia con lo strumento delle primarie. La sua domanda di partecipazione al ballottaggio, che si tiene domenica 2 dicembre dalle ore 8 alle ore 20, è perfettamente coerente con le regole che il centrosinistra si è dato. Trova qui il link al regolamento e soprattutto trova qui il video dell’intervista che il professor Luigi Berlinguer, presidente del collegio dei garanti, ha rilasciato domenica 25 novembre a YoudemTv (la televisione ufficiale del Pd). Per paura, e solo per paura, alcuni coordinamenti provinciali vogliono bloccare le iscrizioni, ma è un suo diritto partecipare al ballottaggio. La invitiamo quindi a recarsi al seggio con l’email stampata e chiedere di votare. Qui trova il suo seggio dove potersi recare. Le ricordo che ci vuole: documento d’identità, tessera elettorale e qualche minuto di pazienza per le code. Un caro saluto, Staff www.domenicavoto.it».
Ovviamente, nella mail, ci sono tutti i link richiamati. Dal primo si accede al regolamento delle primarie, (http://www.primarieitaliabenecomune.it/regolamento), dal secondo al video di Berlinguer su Youtube (http://www.youtube.com/watch?v=r0 XkMTNcHuM&feature=youtu. be&t=3m58s) che, giusto un’oretta prima, Matteo Renzi aveva postato sul proprio profilo Facebook con la frase: «Le registrazioni sono valide, parola di Luigi Berlinguer».
Ma il “giallo” è l’invito finale rivolto nella mail. Perché secondo lo staff del sito realizzato dalla Fondazione Big Bang, basterebbe (non essendosi registrati per partecipare al primo turno) stampare la mail appena ricevuta e presentarsi al seggio di propria competenza. Una possibilità che, dai coordinamenti provinciali, hanno invece escluso. «Solo le richieste accolte riceveranno una risposta specifica e individuale fanno sapere ad esempio da Pisa Per gli altri la mancata risposta equivale al non accoglimento della richiesta e dunque invitiamo le persone che non ricevono risposta affermativa a non recarsi ai seggi».

La Stampa 1.12.12
Ancora scontro sulle regole “Andate a votare lo stesso”
I renziani insistono. Bersani: fermatevi, violare le procedure è di destra
di Car. Ber.

C’è quello che Bersani dice in pubblico, «di fuoco amico non ne abbiamo bisogno, il nemico è la destra, il Pdl faccia le primarie, hai visto mai che vogliano venire a farle da noi»; e quello che dice in privato, «spero che Matteo non insista su questa strada, ha ancora tempo per ravvedersi». Un monito rafforzato dal giudizio del collegio dei Garanti: che dopo il ricorso degli altri quattro candidati, decidono di non sanzionare Renzi per gli annunci a pagamento sui giornali per invitare gli elettori a registrarsi in massa al ballottaggio. Denunciando però «distorsioni rilevanti» in questi annunci e invitandolo a fare in modo che nelle prossime 48 ore si rispettino le regole.
La festa è finita, domani si voterà in un clima polare anche sotto il profilo politico: scrutatori occhiuti che si guardano in cagnesco, pronti a denunciare qualsiasi irregolarità. Con un effetto prevedibile sul dopo: a sentire entrambe le campane, interpretando le parole del leader e sondando gli umori prevalenti nel Pd, l’armonia non tornerà a regnare passata la tempesta: Bersani e Renzi, se pur rafforzati, governeranno i nuovi equilibri di potere della «ditta» come due separati in casa.
La chiave sta nei numeri: i sondaggi, come quello Swg, danno una forbice di dieci punti di distacco, «ma 100-200 mila nuovi elettori potrebbero fare la differenza», ammette Roberto Weber. E l’effetto del «mail bombing» innescato dai renziani comporterà cifre del genere: saranno forse 200 mila o giù di lì le nuove richieste via mail, di cui 128 mila e passa transitate dal sito ormai celebre «domenicavoto.it». I coordinamenti provinciali daranno il responso oggi, ma è prevedibile che tutte le richieste seriali siano respinte senza neanche passare al vaglio. Lo fanno ben capire i Garanti quando dicono che «le deroghe hanno carattere di eccezionalità e non basta la richiesta di iscrizione per avere diritto a votare». Le delibere sul regolamento dicono che ci vuole un’argomentazione personale per spiegare l’impedimento a iscriversi dal 4 al 25 novembre. Solo per fare un esempio pratico: a Genova un signore di 97 anni, la cui figlia non ha fatto in tempo a iscriverlo per il voto a domicilio, vedrà accettata la sua richiesta. È uno di quei casi che valgono la deroga.
Bersani da ieri tratta lo sfidante come uno di «destra», non a caso gli chiede «come mai non pronuncia mai questa parola»: ha preso male questa storia delle iscrizioni on line in batteria e imputa a Renzi atteggiamenti berlusconiani: «Non volano gli stracci, non esageriamo. A chi vuole votare per me dico di venire pure, ma dentro il rispetto delle regole e mi auguro che Renzi dica altrettanto. Siamo abituati da anni in cui il consenso veniva prima delle regole». Di più: «Chi si candida a governare deve dare l’esempio... ». Uno senza peli sulla lingua come il «giovane turco» Matteo Orfini, fa notare che «loro hanno invitato gli elettori a dichiarare il falso, invitando tutti a iscriversi dicendo di aver avuto un impedimento al primo turno... ». E se la diffidenza non sarà un buon viatico a un patto per il «dopo» tra i due leader, è pur vero, ammette Orfini, che «Renzi prende voti in mondi con cui noi facciamo fatica a parlare e quindi bisognerà tenerne conto». Dall’altra parte i renziani reagiscono invitando quei 128.733 ritardatari a stamparsi la mail e recarsi lo stesso ai seggi, iniziativa dagli effetti dirompenti. Denunciando pure manifesti pro-Bersani nei muri delle città come violazione delle regole. E ripescano l’intervista in cui il presidente dei Garanti, Berlinguer, diceva che per chi non si è iscritto al primo turno saranno aperti gli uffici e ci si potrà registrare per il ballottaggio. Dunque è difficile che domani tutto fili liscio senza urla e risse con chi sarà rispedito a casa per non avere il cedolino in tasca. La festa si trasforma nella grande guerra. "I garanti censurano questi inviti, ma non sanzionano il sindaco di Firenze 128 mila richieste Sono i cittadini che pur non avendo votato al primo turno delle primarie hanno inviato la richiesta per poter partecipare al ballottaggio. I sostenitori di Matteo Renzi hanno inviato loro una mail chiedendo di presentarsi ai seggi in ogni caso"

il Fatto 1.12.12
Bersani: così si vuole il caos ai seggi
La paura è che vengano delegittimate le consultazioni
di Wanda Marra

Via, non sfregiamo queste giornate, e diamo l’idea che chi si candida a governare la prima cosa che deve fare è il rispetto delle regole”. Pier Luigi Bersani per il penultimo giorno di campagna elettorale ha scelto un giro per la Toscana: Pisa, Empoli, Siena e Livorno. Ci aveva pensato se valesse la pena di andare proprio in una delle Regioni dove Renzi ha vinto al primo turno, ma poi ha deciso di rischiare. Accoglienza calorosa, comizi affollati, temi chiave ancora una volta soprattutto lavoro e scuola. Ma a questo punto della partita, l’attenzione è concentrata ossessivamente sulla partecipazione, sulle regole, sul “mail bombing” e le pubblicità a pagamento dei renziani, sulla sfida finale del sindaco che chiama ad andare al voto tutti il 2 dicembre, registrati ufficialmente o no.
Bersani non ci sta, non ci può stare. E non solo perché allargare il bacino elettorale conviene al Sindaco, ma anche perché il rischio di invalidare prima di tutto l’immagine positiva data fino ad ora e in ultima analisi il risultato delle primarie, a questo punto è grande. E allora, il messaggio lo manda forte e chiaro: “A ‘sto giro le regole vengono prima del consenso”. Poi con le buone: “C'è ancora qualche ora per un ravvedimento... Spero che Matteo non insista su questa strada”. E poi in serata più netto risponde: “Noi brogli non nr facciamo”. Chi lo conosce racconta che Bersani si è arrabbiato moltissimo: quando ha visto le pagine di pubblicità, sui giornali di giovedì.
E in queste ore lui e i suoi ripetono ossessivamente che le regole non si cambiano tra il primo e il secondo tempo. Che Matteo Renzi davvero voglia rovesciare il tavolo e invalidare il risultato il segretario non ci vuole credere, ma che il meccanismo innestato in queste ore sia difficile da fermare e possa arrivare a produrre un effetto simile non si può escludere. Senza contare che in questo clima per lo stesso Bersani, da vincitore, diventa difficile immaginare e costruire un dopo con il sindaco di Firenze in un ruolo di primo piano. Un percorso che sembrava ormai tracciato e sancito dall’abbraccio dei due.
APPELLO FINALE
Via, non sfregiamo queste giornate A ‘sto giro le regole vengono prima del consenso. E non si cambiano tra primo e secondo tempo mercoledì sera. “Siamo tranquilli, lavoriamo con serenità e determinazione, ci stiamo impegnando perché domenica sia una bella giornata per la democrazia italiana”, dice l’intellettuale Miguel Gotor, cercando di trasmettere questo messaggio. Ieri però Bersani ha alzato i toni: “ Di fuoco amico non ne abbiamo bisogno. Gli avversari li avremo da destra e vorrei che il mio contendente ogni tanto pronunciasse questa parola". Poi un’altra stoccata al sindaco: “Sulla scuola attacca Berlinguer, ma non la Gelmini”.
Tutto il resto rimane sullo sfondo. Come il “vedremo” sull’alleanza con l’Udc mentre Casini dice che per farla bisogna essere in due. E sui soldi dei Riva, rispetto ai quali ancora risponde rifugiandosi dietro la legittimità del finanziamento: “Ho ricevuto contributi elettorali del 2007 ai sensi di legge e sono stati spesi ai sensi di legge. Se c’è qualcuno che pensa, o che vuole insinuare che sia venuto meno ai miei doveri, non ha che da dirlo: io lo querelo e vediamo se la cosa è vera", ha avvertito Bersani. Perché "credo che nessuno possa dire che nell'esercizio delle mie funzioni mi sia fatto influenzare da qualcuno”.

l’Unità 1.12.12
Garanti: non si cambia Il sindaco fa ricorso
140mila le richieste di nuove iscrizioni per domani
Il comitato Renzi: rischio di brogli
di Alessandra Rubenni

ROMA «Ci aspettiamo un’ampia partecipazione. Tutto sarà semplice, come domenica passata, e si svolgerà in piena linearità». Gli oltre tre milioni che hanno votato una settimana fa solo loro tornino alle urne, e sarà un’altra «grande festa democratica», dice ostentando pacatezza il presidente dei garanti delle primarie, Luigi Berlinguer, mentre lancia il suo appello al voto per domani. «Garantiremo serenità e certezza del voto». E il corpo elettorale sarà «quello costituito dal 4 al 25 novembre», ribadisce. Ma la sua conferenza stampa, convocata alla sede del comitato delle primarie, arriva in un clima surriscaldato, in mezzo al mail-bombing scatenato dalla campagna dei renziani a favore di nuove registrazioni di massa, per accedere ai seggi per il ballottaggio. E nella guerra dei ricorsi, Renzi presenta ai Garanti una richiesta formale affinché a tutti sia garantito di votare, previa autocertificazione, mentre esprime preoccupazione di brogli.
Garanti che però vanno in direzione contraria. Solo chi non si è registrato per il primo turno per gravi motivi potrà votare per il ballottaggio, ribadiscono già prima della notizia del ricorso renziano. Non basterà dire «non ce l’ho fatta». Ma nel frattempo sono un’ondata le richieste di nuove iscrizioni inviate per mail, per ottenere la tessera di elettore di centrosinistra. Il primo a fare dei numeri è proprio Renzi, che fino alle 20 di ieri sera le raccoglieva sul sito www.domenicavoto.it e nel pomeriggio parlava già di 90mila domande. Tutte richieste da girare ai coordinamenti provinciali delle primarie, dove, nel frattempo, arrivavano altrettante mail, moltissime evidentemente dei doppioni rispetto a quelle raccolte sul sito messo a disposizione da Renzi, che a fine giornata arriva a dichiararne 128.733. Dai coordinamenti regionali i dati arrivano a macchia di leopardo. A Roma nel pomeriggio sono a quota 7mila, a Firenze tremila, a Modena 1.500; in tutta la Lombardia 30mila. A Milano, su ventimila richieste di voto, 17mila hanno lo stesso format. E poi c’è chi ha mandato un fax, altri si sono presentati di persona. A Torino, su 3mila richieste di deroga, sono circa 200 quelle arrivate via fax o fatte di persona. A Bologna, tra mail e fax, ne contano 2.900, oltre a 120 aspiranti elettori arrivati fisicamente in sede. Ma tante mail risultano provenienti da indirizzi fasuli, molte sono duplicazioni, altre arrivano da cittadini già iscritti online.
La stima a fine giornata, in tutta Italia, è di circa 140mila nuove richieste di registrazione. Le commissioni, riunite già in serata, si preparano a una nottata di lavoro: dovranno valutare tutte le istanze entro oggi. Difficilmente però le richieste arrivate attraverso mail standard saranno accettate. In ogni caso le lettere che non riceveranno risposta dovranno intendersi rifiutate mentre le altre saranno «eccezioni», annuncia Berlinguer.
È così che nelle ultime ore prima del voto, tensioni e liti sulle regole sfociano in un ingorgo tecnico. Ma «questo flusso, con modelli tutti uguali e generici, non è una pressione di chi ha passione di votare o di chi si è trovato in una situazione di eccezionalità», «non si può non rilevare che l’uso di paginate ha introdotto una apprezzabile anomalia nella campagna elettorale», sottolinea ancora il presidente di Garanti, chiamato a decidere sui ricorsi avanzati da Bersani, Vendola, Tabacci e Puppato nei confronti del sindaco di Firenze, dopo la pubblicazione delle pagine pubblicitarie sui principali quotidiani per invitare a votare e a registrarsi via mail chi non aveva votato domenica scorsa. Un gesto che, secondo Berlinguer, cozza con «il concetto di sobrietà della campagna elettorale» che era stato invocato «in un momento economico difficile come quello attuale». Tanto che sulla vicenda arriverà una «formale delibera». Con il disappunto dei renziani e di Arturo Parisi, deputato Pd, che protesta sonoramente: come si pensa di tenere tutte queste persone lontane dai seggi? «Ci ripensi Bersani, ci ripensino i Garanti», perché le primarie devono essere aperte, contesta Parisi, che prosegue: «Come si fa a pubblicare una delibera di questo genere all’ultimo minuto sul sito del Comitato, dimenticando che la massa degli elettori non lo vedrà mai, e se lo vedesse troverebbe nella sezione Faq la rassicurazione che entro sabato 1 si riceverà la risposta se la richiesta è stata accettata o meno?».
Sarcastico pure Federico Gelli, dal comitato Renzi: «Una volta il partito faceva l’appello al voto, mentre ora questo si è trasformato in un appello al non voto. Dopo le regole che limitano la partecipazione, adesso si sfiora il ridicolo con questo assurdo appello al non voto».
Ma «le norme non si cambiano da un tempo all’altro», cerca di arginare le polemiche Luigi Berlinguer. «Stiamo garantendo la linearità della democrazia e questo è avvenuto anche grazie alle regole. In queste ultime ore si è registrato un salto di qualità che ha generato delle tensioni. C’è stato un ricorso impegnativo. Ci auguriamo che questa anomalia cessi almeno nelle ultime ore», sottolineano i Garanti, che nelle paginate volute dai renziani sui quotidiani stigmatizzano «una rilevante distorsione rispetto alle regole».

l’Unità 1.12.12
Nel «mail bombing» c’è anche la richiesta di Mago Zurlì
Tra le giustificazioni di chi non si è iscritto al primo turno motivi seri, qualche burla e molta voglia di partecipare
A Milano 200 in fila e 20mila mail
di Federica Fantozzi

Mi ero perso la tessera elettorale e adesso l’ho ritrovata». «Ho avuto un calo di pressione». «Inderogabili e urgenti impegni lavorativi». Ma c’è anche chi fa scrivere l’avvocato: «Il mio cliente era impossibilitato a presentarsi». E se Berlinguer denuncia un Nino Bixio in ospedale ma vai a sapere se è un omonimo ingiustamente accusato di goliardia fuori luogo a Milano spunta un modulo firmato eloquentemente dal Mago Zurlì. Per tacere del caso romano, la signora che con fare complice ha sussurrato «ero con l’amante, non posso mica scriverlo».
Voglia di partecipare, file più o meno lunghe, qualche burla, rabbia nello scoprire che non è così scontato. Per il popolo del Pd ieri è stato il giorno delle giustificazioni. Un po’ come a scuola, anche se la posta in gioco è molto seria: si tratta di compilare un modulo, inviarlo via mail o fax ovvero portarlo di persona al proprio coordinamento provinciale, indicando i motivi per cui non si è votato al primo turno. Nella nottata i vari coordinamenti hanno cominciato a vagliare le richieste per decidere quali accettare e quali respingere.
Alle quatto di venerdì pomeriggio a Pistoia 950 persone hanno mandato una mail e 120 hanno bussato all’ufficio di via Bonellina. «Tutte con indicazioni sbagliate scuote la testa il presidente del coordinamento Giuliano Calvetti Quando scoprono che votare non è affatto automatico brontolano». Motivi del forfait al primo turno? «C’è una versione standard: salute, ragioni personali, impossibilità a votare. Noi abbiamo deciso di rispondere a tutti. Orientativamente però le richieste accoglibili mi sembrano poche. La maggioranza è troppo generica».
Eccezioni? «Un signore ha portato i documenti di dimissione dall’ospedale. Un caso serio». E se capita qualcuno che conoscete, che sapete essere di area e non un pericoloso infiltrato? «Certo che è capitato, qui in provincia ci si conosce un po’ tutti. Ma non cambia niente. Non ci interessa. Anche se hanno detto che erano qui per votare Bersani, le regole valgono per tutti». Scherzi ricevuti? «Uno ha scritto: volevo votare Renzi ma non l’ho fatto, adesso mi sono convertito e voglio votare Bersani».
A Milano un video (sul sito di Repubblica) ha immortalato le file in via Pergolesi. La signora che trionfante mostra un foglietto: «Ero in viaggio. Ho allegato il biglietto aereo. Di solito lo strappo, ma stavolta no». Un’anziana era ammalata ma gode di nuovo ottima salute. Uno studente puntualizza: «Per venire qui ho saltato una lezione, mi sembra una giustificazione sufficiente». Alle sette di sera Gabriele Messina, rappresentante di Renzi nel coordinamento, si prepara a una lunga notte: «Abbiamo fatto assistenza tecnica nel compilare i moduli. Ma in realtà code non ce ne sono state. In tutto 200 persone. Le mail però sono 20mila: mi chiedo in cinque come faremo a rispondere a tutti entro domani (oggi, ndr) come vorrei». Gente arrabbiata? «Non ancora ma lo diventerà». I motivi? «Normali. Inconvenienti che capitano a chiunque». Si decide a maggioranza? «Macché. Una circolare di Nico Stumpo prevede che se uno solo è contrario la richiesta è bocciata. Sarà dura».
Firenze, la città dello sfidante. Tremila mail e un centinaio di persone nelle tre ore mattutine di apertura dell’ufficio. Giacomo Scarpelli è stanco: «C’è chi domenica scorsa aveva la febbre, chi era all’estero. Ma si giustifica male. C’è un misunderstanding di fondo: perché non ti sei registrato nei venti giorni precedenti? Lì casca l’asino». Risponderete a tutti? «Data la mole, comunicheremo solo i sì. Sono molto avvilito. Ci sono anziani che hanno fatto il giro della città grazie a indicazioni false». Si sono arrabbiati? «Alcuni sì. Ma non con noi, con chi gliele ha date». A Napoli, nella centralissima via Toledo, si racconta di molto movimento e migliaia di mail. Ciro Iacovielli è stato impegnato con la visita di Renzi e di notte si riposerà. «I nostri ritmi sono un po’ più lenti. Domani (oggi) vaglieremo le richieste». Motivazioni creative? «No. I cittadini hanno preso la cosa sul serio». E denuncia uno «strano caso»: «Sono finite al macero schede elettorali ed elenchi dei votanti al primo turno». Teme brogli? «No, la platea è certificata dai registri. E io non ho visto irregolarità. Però chi volesse fare ricorso non potrebbe». Mentre a Pisa i rappresentanti di Pd, Sel e Psi lanciano un appello: «Non andate ai seggi se non siete iscritti». Con oltre 2mila mail ricevute, infatti, sarà difficile rispondere a tutti.

La Stampa 1.12.12
Quei nomi strani da Topolino a Bixio

Dal sito renziano «domenicavoto.it» sono arrivate oltre 128 mila richieste di voto al ballottaggio negli uffici elettorali provinciali stabiliti dal centrosinistra per le primarie. E subito nella sede del Pd si accorgono che ci sono molte stranezze, come ha sottolineato Luigi Berlinguer, ex ministro e presidente del collegio dei garanti, in una conferenza stampa. Le domande sono tutte uguali tra di loro, sembrano proprio compilate con un modulo prestampato. Alcune domande hanno nomi di cittadini comuni ma la stragrande maggioranza, invece, ha firme palesemente provocatorie, da Giuliano Ferrara a Silvio Berlusconi o Nino Bixio ma pure Minnie e Topolino.

il Fatto 1.12.12
Sotto il mail bombing nemico
Altre 128mila richieste per votare: bocciate le assenze ingiustificate
di Paola Zanca

Ne ho sentito parlare alla tv e poi ho chiesto in giro: ma che dovemo vota' pure noi? ”. Eccolo il famoso “noi e loro”. Matteo Renzi lo ha usato per segnare la differenza con i “bulgari” di Bersani per tutta la campagna elettorale. Ma oggi, pronunciato qui, fuori dal coordinamento provinciale di Roma dove sono in corso le registrazioni per il ballottaggio, suona tutta un'altra storia. Questo 41enne che usa il “noi”, non aveva nemmeno ben capito che cosa si stesse votando e perché ci fossero tutti quei faccia a faccia alla tv. Poi ha intuito che c'era in ballo una poltrona e che qualcuno stava tentando di “tenersela in modo palese e spudorato”: “Io avrei votato da un’altra parte, ma vedendo lo schifo che c'è nel centrodestra ho pensato che preferisco un Renzi. Ma se Bersani non ci vuole, lo dica chiaro e tondo che il centrosinistra o è lui o niente: se non c’è Renzi, io quelli non li voto”. Il nostro Aristotili, si chiama così, ha appena firmato la richiesta per votare al ballottaggio. Al primo turno non c’era, ha scritto, per “motivi di salute”. “La pratica mia la staranno già a brucia’ col crocifisso in mano”, scherza. Ci ha messo un po’, ma alla fine ha capito che “gli scagnozzi” di Bersani, quelli come lui, li faranno fuori.
Buste e scatoloni
Eccoli qui, i “bulgari” romani. Sono una quarantina, indaffaratissimi da giorni e da quando è partito il mail bombing ancor di più. Le pagine a pagamento pubblicate sui giornali dalla fondazione “renziana” Big Bang hanno prodotto l'effetto sperato: attraverso il sito www.domenicavoto.it , in tutta Italia sono arrivate 128 mila 733 nuove richieste di iscrizione. Una “apprezzabile anomalia”, la chiama il presidente dei garanti delle primarie, Luigi Berlinguer. Solo a Roma, sono almeno 10 mila. Mentre un gruppo di volontari è ancora alle prese con i registri dei votanti di domenica scorsa – vanno inseriti nel computer per creare l'Albo ufficiale degli elettori del centrosinistra che costituirà il corpo elettorale di domani – gli altri si occupano delle integrazioni “eccezionali” che dovranno essere approvate dalla commissione. In due stanno allo sportello dove si mette in coda chi è venuto a chiedere di registrarsi di persona (a Roma, circa 300 in due giorni), altri tre smistano le mail in arrivo. In base alla provenienza, le dividono negli scatoloni. Il pavimento della stanza è coperto di cartoni zeppi delle mail stampate. Meno della metà arrivano dal sito ufficiale Primarie Bene Comune, tutto il resto dalla pagina web sponsorizzata da Renzi.
Database fuori controllo
Il sito pagato dalla fondazione Big Bang, conferma lo stesso Renzi, “consente di inviare l’e-mail direttamente al coordinamento provinciale”. Come sia possibile non è chiaro. Di certo, quello che è successo è che Big Bang ha raccolto i dati anagrafici di quasi 130 mila persone. “Un database fuori controllo”, denuncia la Pd Micaela Campana, responsabile organizzativa di Roma.
I due carabinieri
È lei che ha passato la notte a valutare le richieste di ammissione al voto. Presiede la commissione, dove ci sono anche gli esponenti degli altri partiti della coalizione (Sel e Psi). A vigilare sui tre commissari ci sono 5 rappresentanti, uno per ogni candidato. I renziani sono venuti in due - “come i carabinieri” - scherzano. La delibera dei Garanti li obbligherebbe a cestinare tutte le richieste “seriali”, ovvero spedite con scuse identiche da uno stesso indirizzo. Ma, spiega la Campana, “valuteremo in base alle motivazioni addotte da chi domenica non ha votato e poi domani all'alba consegneremo i nomi, in busta chiusa, ai presidenti di seggio”. Gli ammessi al voto avranno una risposta. Se non arriva, c’è il silenzio-rifiuto. Ma i sostenitori di Renzi raccontano un’altra storia: chi si iscrive su domeni  cavoto.it   riceve una mail che si chiude così: “Per paura, e solo per paura, alcuni coordinamenti provinciali vogliono bloccare le iscrizioni, ma è un suo diritto partecipare al ballottaggio. La invitiamo quindi a recarsi al seggio con l’email stampata e chiedere di votare”.
Stalin e la benzina finita
Tra le mail arrivate al coordinamento c'è di tutto: almeno un quarto delle 10 mila ricevute sono palesemente finte. Le hanno inviate Pierluigi Bersani o Gesù Nazareno, Francesco Totti o Gianni Bombatomica, Stalin o il Sindaco imbroglione. Altre hanno motivazioni strampalate: “Ero indeciso”, “Inquietudine”, “Benzina finita”, “Sono morto e resuscitato”. Altre ancora sono troppo generiche, e verranno bocciate pure queste. Non basta spiegare di avere avuto “impegni di lavoro” o “problemi familiari”. Bisogna argomentare in maniera approfondita perché domenica non si è riusciti a votare e perché nei 21 giorni precedenti non si ha avuto modo di registrarsi alle primarie.
I ladri e il Camogli
C’è anche chi, la questione delle regole, l’ha presa decisamente sul serio. Un elettore ha spedito via fax copia del pagamento dell'autostrada di domenica 25 e pure lo scontrino dell’Autogrill: nel conto, un Camogli e un caprino con rucola. Tra chi è venuto di persona, si sentono le storie più tragicomiche: funerali, furti di portafogli, biglietti di aerei ritardatari. Dice Ivana, che domenica era all'estero: “È giusto così, altrimenti ci ritroviamo a votare persone che vogliono mandare il centrosinistra in direzione diversa”. Danilo (che al primo turno ha votato fuori sede, in Piemonte) ammette che il meccanismo è “farraginoso” e “discrezionale”, ma aggiunge: “Anche informarsi è un dovere civico: chi davvero vuole votare ha la possibilità di farlo”. Luisa, invece, dice solo che domenica scorsa era “fuori per lavoro”. Poi, si spiega meglio: “È una follia, sono qui solo perchè mi hanno fatto talmente incavolare con tutte questi ostacoli che mi è scattata la molla di venire a registrarmi. Proprio a me, che non sono neanche del Pd”.

Repubblica 1.12.12
Primarie, vigilia di fuoco tra Renzi e Bersani
Renzi: “Andate tutti ai gazebo”, “Temo brogli”
La replica: sabotate la democrazia
diGoffredo De Marchis

ROMA — A 24 ore dal voto, Matteo Renzi alza il tiro. Annuncia il numero delle nuove domande di registrazione (128733), presenta un ricorso per permettere a tutti di iscriversi anche domani ai seggi com’è avvenuto al primo turno, ricorda che queste regole gli «hanno sempre fatto schifo», spedisce attraverso il sito domenicavoto. it, centinaia di migliaia di mail per invitare tutti ad andare ai gazebo. Si prepara così a una vigilia molto aggressiva. Ma stavolta la reazione di Pier Luigi Bersani è durissima. Con una nota del suo comitato, letta e “vistata” dal segretario in persona, il sindaco viene attaccato frontalmente.
«Ora basta. Gli ultimi atti di Renzi sono un vero e proprio sabotaggio di una giornata importante di democrazia». Il senso dell’accusa dei bersaniani è chiaro: «Vogliono mandare tutto in vacca». Con esiti prevedibili anche dopo la proclamazione del risultato.
Alla luce di una giornata drammatica, assume un carattere inquietante la visita che giovedì Luigi Berlinguer, presidente dei garanti delle primarie, ha fatto al ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri. L’eurodeputato è andato al Viminale per chiedere la massima allerta. «In un clima difficile, i seggi delle primarie possono essere l’obiettivo di qualche facinoroso per scatenare il caos». Domani ci saranno 18 mila gazebo aperti, 100 mila volontari, tre milioni di persone in coda. È anche un problema di ordine pubblico, ha spiegato Berlinguer alla titolare dell’Interno, chiedendo un di più di attenzione soprattutto nelle grandi città. Nessun dito puntato contro i renziani. Ma certo l’invito ad andare in massa alle urne non aiuta, è stato il ragionamento del garante.
Il colloquio con la Cancellieri doveva rimanere riservato. Per non alzare la temperatura, per non gettare un’ombra sulle primarie, per non trasformarle in un clamoroso autogol. Lo scontro di ieri però non lascia dubbi: la festa può tramutarsi in un pericoloso pasticcio. Bersani, parlando a Pubblico, era già stato chiaro ieri: se continuano «sarà scazzo vero ». Renzi, allora, indietreggia? Proprio no. Prima mostra il volto gentile del candidato perfetto: «Non ci sono problemi, siamo sereni, tranquilli. Stasera, finita la campagna, io e il mio staff andremo a cena con le nostre famiglie».
Ma non si fa spaventare dalla replica del comitato Bersani. Anzi, volutamente si mantiene in un terreno ambiguo. Di sicuro non ferma l’onda. Il suo messaggio sembra dire: andate tutti ai gazebo poi si vede. «Abbiamo spiegato agli elettori che si possono registrare e andare a votare seguendo pedissequamente le procedure », spiega dopo aver visto la reazione del segretario. Tutto qua?
No. «Il diritto di voto è sacrosanto — insiste il sindaco — e se il Pd non lo riconosce a tutti diventa il primo partito della storia che anziché favorire la partecipazione istituisce i respingimenti ai seggi».
Bersani, in giro per la Toscana, si fa raccontare passo passo l’evoluzione della giornata e non nasconde la sua ira nemmeno durante il comizio di Livorno.
«Noi non ne facciamo certo di brogli, noi le regole le rispettiamo e quando dico noi penso di dire tutti gli elettori dei progressisti». Scaldato dai sostenitori, Bersani per la prima volta allude a un parallelismo tra Renzi e Berlusconi. «Cambiare le regole in corso d’opera per le convenienze di qualcuno, ci ha portato un sacco di guai». In ballo ci sono milioni di voti, la battaglia delle regole diventa anche strumento di propaganda. Per questo il segretario si appella agli elettori del primo turno, maltrattati secondo lui dalla campagna aggressiva dei renziani. «Tre milioni e duecentomila persone sono state alle regole e andrebbero rispettate», dice.
Ora i riflettori sono accesi sull’ultima giornata di comizi. Per aggiustare quello che si è rotto ieri, occorrerà un gesto da parte degli sfidanti, un segnale di tregua in vista del voto. Anche per sgombrare il campo dalle brutte voci sul dopo voto, con un Renzi, in caso di sconfitta, descritto da molti in uscita verso altri lidi. Se il fuoco non si spegne, l’allarme di Berlinguer trasmesso al Viminale potrebbe non essere infondato.

Repubblica 1.12.12
Nel comitato Pd della Garbatella: le mail che arrivano dal sito di Renzi non passeranno
“La febbre”, “il cane”, “la partita” In fila con la giustificazione davanti al tribunale dei garanti
di Laura Serloni e Fabio Tonacci

ROMA — L’esistenzialista perplesso: «Non ho potuto votare per inquietudine». Il virile-venatorio: «Ero a caccia di cinghiali, da solo, sul monte Amiata». L’agreste: «Raccoglievo le olive». L’ignaro: «Non mi avete avvertito che c’erano le primarie». Il malato: «Contrattura inguinale. Allego ecografia». La desperate housewife: «Avevo il figlio influenzato e con le coliche, l’ho portato al San Giovanni, ho fatto tre ore di fila poi mi si è rotta l’auto». Il mistico-lazzarone: «Sono morto venerdì e resuscitato a seggi ormai chiusi». Nemmeno a scuola se ne sentivano di così belle ed colorite.
A sera, nel quartier generale del Pd alla Garbatella, Micaela Campana del comitato delle primarie di Roma solleva il faldone con 12 mila email e 350 richieste manoscritte di registrazione al ballottaggio e sorride. Sta seriamente pensando di scriverci un libro. “Giustificazioni elettorali”. Sottotitolo: cosa non si fa per spiegare perché al primo turno non si è avuto il tempo di registrarsi e votare. Per tutta la giornata è stato un via vai di gente.
Marisa Rossi, 68 anni, piomba al comitato verso le 14, trafelata. «Ho fatto tutti i fogli stamani, voglio votare per il ballottaggio. Oh, io so’ communista vera eh». Giustificazione? «Non sapevo che c’erano le primarie, nessuno mi ha avvertito, giuro! ». Scusa deboluccia, ma la volontaria del Pd raccoglie anche la sua domanda. Sarà valutata come le altre da una commissione di tre delegati e, in caso di accettazione, il comitato informerà direttamente l’elettore. Altrimenti vale il singolare principio del silenzio-dissenso. «Telefonatemi eh — avverte Marisa uscendo — Internet non lo uso, io so’ antica».
È un flusso continuo, ma ordinato, di elettori. «Ho avuto la febbre », «ero all’estero», «dovevo lavorare ». Come a scuola. Ci sono i ligi, che portano il certificato medico, la tessera elettorale e il documento di identità, e ci sono i vaghi, che farfugliano storie e sperano nella grazia. Una anziana signora avvicina una volontaria e delicatamente le sussurra: «Ho avuto una fortissima cistite». E chi ha il coraggio di contestarla? Arriva il fax di un pignolissimo giocatore di rugby. «Avevo una partita», e allega la ricevuta del Telepass dell’autostrada e pure uno scontrino dell’Autogrill di Badia al Pino.
Ecco Sandro De Simone, 70 anni portati gagliardamente. Esordisce così: «Negli anni sessanta ho fatto certe battaglie sindacali che lui, quello là che me vo’ rottamare, se le sogna... ». Con sé ha la fotocopia di un biglietto aereo Roma-Sofia. «Ero dalla mia compagna». Accettato. Franco invece litiga da un quarto d’ora col suo smartphone, perché non riesce a trovare la ricevuta del volo Roma-Londra di sua moglie etiope Aklesaya. «È assurdo, tutto ciò è ridicolo », borbotta.
Micaela Campana, che è anche presidente della commissione di valutazione calcola: «Il 70 per cento delle persone si è giustificato con motivi di salute o di lavoro. Se è documentabile, li accetteremo. Il 99 per cento delle email arriva dal sito domenicavoto.it della fondazione di Matteo Renzi. Tutte hanno motivazioni troppo generiche e molte hanno nomi falsi, difficilmente passeranno». A meno di non credere che anche Francesco Totti, Gesù il Nazareno, Nino Bixio, Napoleone, Stalin e Jeeg Robot abbiamo fatto richiesta di registrazione. «E chi gestirà i dati personali raccolti da quel sito? », si domanda il coordinatore Marco Miccoli.
Passano al comitato tre studenti fuorisede calabresi: «viaggio studio a Londra», «mal di pancia », «motivo personale che non voglio dire». E Sandro De Simone interrompe per un attimo il racconto appassionato del funerale di Palmiro Togliatti, per sibilare: «Mal de pancia, de denti, de gola... dove sono le prove? quelli so’ tutti pe’ Renzi ». In realtà solo uno dei tre. Ma se le premesse sono queste, la fantasia (dei democratici) è già al potere da un pezzo.

La Stampa 1.12.12
I fedelissimi di Napolitano si schierano con il “rottamatore”
Da Ranieri a De Giovanni. “Ma il Quirinale non c’entra niente”
di Fe. Ge.


«Giorgio Napolitano? Giustamente è diventato un “rottamatore”... ». Oppure: «Il Presidente? Fa il tifo per Matteo Renzi, si sa... ». Verrebbe da sorridere: ma Napoli - la Napoli del Capo dello Stato - è piena di sussurri e grida fatte così. Ora, intendiamoci, può naturalmente essere che il Capo dello Stato stia arrivando alla scadenza del suo mandato avendo maturato la convinzione - in questi anni - che nel sistemaItalia c’è un mucchio di cose da cambiare: ma immaginare che si sia speso, si spenda o si spenderà in una faccenda interna ai giochi di partito, vuol dire aver capito poco o nulla dell’uomo che siede al Quirinale.
Detto questo, bisogna dire altro (nient’affatto in contraddizione): a Napoli, gli uomini più vicini al capo dello Stato - e più in particolare quelli ai quali ha affidato " Mezzogiorno Europa", la Fondazione che volle anni fa - sono tutti o quasi tutti in campo per Matteo Renzi. Lo è il presidente, Umberto Ranieri, da sempre vicino a Napolitano: per il quale, in ragione di questa scelta, i giovani democratici napoletani hanno democraticamente chiesto le immediate dimissioni da responsabile meridionale del Pd; lo è il vicepresidente, Alfredo Mazzei, diventato addirittura coordinatore regionale dei Comitati per Renzi; lo è Biagio De Giovanni, filosofo e amico personale di Napolitano; lo sono molti altri.
E allora? E allora poichè due più due fa quattro, anche in tempi di divisioni aspre e di primarie, se i vertici della Fondazione del Presidente della Repubblica stanno col sindaco-”rottamatore”, vuol dire che è il Presidente della Repubblica a stare col sindaco-”rottamatore”. La tesi è fantasiosamente suggestiva. Ma è così? «Per l’amor di Dio - minimizza Matteo Renzi -. Mai parlato con il Capo dello Stato di queste cose. E teniamolo fuori dalle nostre faccende».
Non è così, allora? Alfredo Mazzei - vicepresidente della Fondazione dice: «Il Presidente non c’entra nulla con le primarie, e lasciamolo stare. Poi, certo che è stato informato delle scelte che maturavano». E non è intervenuto, non vi ha fermato? «Intervenire per fermarci? E perchè mai? Chi lo chiede, vuol dire che non conosce Giorgio Napolitano».
Però ora si conosce la scelta dei suoi amici e compagni napoletani. E magari al Quirinale qualche imbarazzo c’è. «Il sostegno al sindaco di Firenze è vissuto come liberazione da una oligarchia... Può apparire eccessivo ma così stanno le cose nell’animo di tanti amici, compagni ed elettori», ha scritto Umberto Ranieri a una settimana dal primo voto. E ancora: «Mi aspetto che Renzi sia coerente con l’impegno a lavorare per superare le inerzie e le tendenze conservatrici interne al centrosinistra». Tendenze conservatrici, già. Quello contro le quali Giorgio Napolitano si è battuto per una vita. Ma a meno che non lo si veda mettersi in fila domani..., senza mai partecipare a primarie, però.

La Stampa 1.12.12
E i garanti chiedono al Viminale di vigilare
Circolare a tutti i prefetti: evitare incidenti ai seggi
di Carlo Bertini

Se quello che ha voluto lanciare lo «sfidante» è un messaggio netto, della serie non siamo rassegnati, ci battiamo fino alla fine, il segnale alle alte sfere del partito era arrivato già forte e chiaro giovedì mattina appena letti gli annunci a pagamento che invitavano a inondare di mail i comitati provinciali: quindi non deve sorprendere se il presidente dei Garanti, Luigi Berlinguer, abbia sentito subito il bisogno di andare a far visita al ministro dell’Interno per fare il punto in vista dei ballottaggi.
È vero che anche alla vigilia del primo turno vi furono analoghi contatti, ma alla luce della guerra termonucleare scatenata dai renziani, ora rischia di porsi un problema di ordine pubblico ai gazebo domani. E quindi, stando a quanto trapela, dal Viminale ieri è partita una circolare a tutti i prefetti a vigilare sulla regolarità delle operazioni di voto evitando che si producano incidenti.
L’appello lanciato ieri sera dai renziani ai «ritardatari» di stamparsi la mail inviata ai comitati e di presentarsi lo stesso ai seggi non promette nulla di buono infatti. Alle otto di sera questi «ritardatari» erano oltre 128 mila, come annunciato dallo stesso Renzi e se solo una parte accogliesse l’invito battagliero delle sue truppe, si può ben immaginare cosa succederebbe nei 9 mila e passa seggi sparsi in tutta Italia: code di elettori sul piede di guerra, presidenti di seggio in ambasce nel timore di non poter gestire la situazione, tensioni d’ogni sorta, grida e magari anche risse. È lo scenario peggiore, quello che da settimane tutti cercano di scongiurare quando nei capannelli si parla delle regole sul ballottaggio a numero chiuso.
La scelta di dichiarare guerra è scattata ieri sera alle 20, quando dai comitati provinciali è giunta voce ai renziani che le mail seriali arrivate dal sito «domenicavoto.it» non sarebbero neanche state esaminate ma rigettate tutte in blocco. Parte dunque dal comitato Renzi un primo colpo: con l’invito a tutti ad andare a votare lo stesso; e subito dopo un altro durissimo colpo: una lettera in cui si paventa ai Garanti delle primarie il rischio brogli e conseguenti controversie sul procedimento di voto delle primarie. Con la richiesta «formale che sia consentito a tutti quelli che lo desiderano di registrarsi e votare liberamente, previa sottoscrizione di apposita autocertificazione del fatto di non avere votato il 25 novembre per motivi indipendenti dalla loro volontà». Una nota in cui si denuncia che un «altissimo numero di schede elettorali non usate è rimasto depositato nelle varie sedi degli uffici elettorali; che tale materiale potrebbe essere usato fraudolentemente. E che «i vari casi di distruzione o scomparsa degli elenchi degli elettori (come il caso di Napoli) rendono questo problema ancora più grave». Insomma, 48 ore prima dell’apertura dei gazebo, l’incendio è già divampato.

l’Unità 1.12.12
Pd, non ci sarà ticket ma «accordo politico»
Bersani: non siamo gli Usa col tandem Obama-Hillary. Cosa penserebbero gli elettori delle primarie?
Ma le divisioni tra i due saranno limate. Franceschini: «Chi vince tenga insieme tutti»
I “falchi” renziani: «Un nostro partito»
Per l’Swg il nuovo soggetto del sindaco sarebbe al 4,7 per cento
di S. C.


Ancora ventiquattr’ore di campagna elettorale, poi un’altra giornata dedicata al voto, di file ai seggi, forse anche di maggior fatica per chi dovrà gestire le operazioni se effettivamente si presenteranno chiedendo di votare molte persone non registrate. Poi verrà proclamato un vincitore, o Pier Luigi Bersani o Matteo Renzi. E poi? «E poi da lunedì si entra nel vivo della campagna elettorale», dice Dario Franceschini. «E queste primarie costituiscono una partenza formidabile, se non vengono rovinate».
Il «se» è d’obbligo, a giudicare dalla polemica innescata sulle regole, dallo scontro sulle pubblicità a pagamento e sui ricorsi, dal fatto che si cominciano a evocare brogli. Ma nel gruppo dirigente del Pd prevale la convinzione che da lunedì tutte queste discussioni saranno soltanto un ricordo, che la polvere si poserà e rimarrà sotto i riflettori soltanto il candidato presidente del consiglio del centrosinistra. Che avrà bisogno di poche ore per siglare un accordo con lo sfidante uscito perdente.
NON CI SARÀ TICKET
Il ticket premier-vicepremier no, non ci sarà. Non lo vuole né Bersani né Renzi. «Non è pedagogico», dice il primo. «Non fa parte del mio carattere, non fa parte del mio programma», dice il secondo.
Secondo il segretario del Pd non si può replicare automaticamente quanto visto Oltreoceano con Barack Obama e Hillary Clinton, dopo le accese primarie statunitensi di oltre quattro anni fa: «Noi non siamo l’America». Anche per un rispetto dovuto agli elettori: «Cosa penserebbe la gente che è andata alle primarie? Direbbe “tanto poi sono quei due lì”». E quindi se dovesse perdere, Bersani continuerebbe a fare il segretario del Pd, fino al congresso del prossimo anno.
Simmetricamente, Renzi ha già detto che se non dovesse farcela, continuerebbe a fare il sindaco di Firenze: «Non abbiamo fatto questa battaglia per metterci d’accordo il giorno dopo e fare ammuina», dice il sindaco di Firenze da Napoli. «Abbiamo due idee diverse del futuro dell’Italia».
Sicuramente sono parole dettate anche dalla volontà di non perdere in queste ultime ore di campagna elettorale neanche un potenziale elettore, di mantenere acceso il clima e marcare le differenze. Ma sono anche parole che rispecchiano la volontà di ambedue i contendenti. Questo vuol dire che perdurerà una lacerazione all’interno del Pd anche dopo le primarie? Non è detto.
Dice la portavoce dei comitati Bersani, Alessandra Moretti: «Sulle voci di un tandem tra i due sfidanti, io dico che, al momento, non vi sono le condizioni. Sono però convinta che saremo tutti proiettati per dare un’alternativa di governo al Paese. Sarà inevitabile affinare le divisioni, che sono figlie delle competizioni elettorali».
Che dopo il voto un accordo venga trovato lo danno un po’ tutti per scontato, ai vertici del Pd. Non sarà siglato sul ticket per Palazzo Chigi e non riguarderà la segreteria del partito, visto che Renzi ha già avuto modo di far sapere che non punta affatto a sostituire Bersani alla guida del Pd. Però un’intesa dovrà esserci. Spiega Franceschini (che tra l’altro nel 2009 prese un numero di voti di poco inferiore di quelli incassati da Renzi) che dopo aver perso la partita contro Bersani alle primarie per la segreteria del Pd, ha accettato di ricoprire il ruolo di capogruppo alla Camera: «Chi vince deve cercare di tenere insieme tutti, al di là dei ruoli». In questi giorni sta facendo campagna per Bersani. Ieri era in Emilia Romagna, oggi sarà in Toscana. «Renzi ha detto che se perde continuerà a fare il sindaco e collaborerà con il vincitore. Prendo per buone le sue parole». Quello che invece non piace al capogruppo del Pd a Montecitorio è che Renzi dica «non accetterò premi di consolazione». Una frase a cui di solito fa seguito un attacco esplicito allo stesso Franceschini. Che spiega: «Io quando ho accettato la proposta di Bersani, dopo le primarie del 2009, l’ho fatto per un ragionamento molto semplice. Ho pensato cioè che dovevamo dare un segnale ai nostri elettori, che avevano ancora sulla pelle ferite e lacerazioni, e che quindi fosse utile lavorare insieme come una squadra. Con Bersani lo abbiamo fatto per tre anni ormai, mi piacerebbe che facesse la stessa cosa Renzi». Tra i consiglieri del sindaco c’è però anche chi spinge per una soluzione diversa, in caso di sconfitta: la separazione e la fondazione di un nuovo partito. Renzi ha detto in televisione che i sondaggi lo danno al 25%. Un sondaggio Swg diffuso ieri lo dà al 4,7%.
IPOTESI ALLARGAMENTO A SEL
Ma dopo queste primarie è opinione diffusa che ci si debba non dividere, ma unire. Dice l’ultimo segretario del Pci e fondatore del Pds Achille Occhetto: «Al ballottaggio voto Bersani a patto che rispettino due condizioni. Primo che riconosca a Renzi che la sua battaglia per il mutamento della classe dirigente è stata utile e sacrosanta. Secondo, che lui sia d’accordo con la mia proposta secondo cui, partendo dalle primarie, si ricostruisca il Pd con dentro Vendola, che ho votato al primo turno, ma anche me e Renzi».
Dentro Sel sono però molte le resistenze a un’operazione del genere. E non provengono soltanto da chi, come Alfonso Gianni, è contrario alle posizioni del Pd. Ma la prima cosa è che vincitore e sconfitto alle primarie siglino un accordo politico. Che potrebbe anche passare per le liste elettorali? Bersani dice due cose in proposito. La prima: «Di certo non mi piace fare bilance e bilancini o tavolini. Comunque neppure mi viene in mente che sia discriminato chi ha votato per Renzi. Ci sarà spazio per tutti, per chi ha dei meriti» (e il discorso vale sia per i parlamentari che per eventuali ministri). La seconda: anche per formare le liste, il Pd si affiderà a «meccanismi di partecipazione».

il Fatto 1.12.12
Il sondaggio Swg: Pd al 30%, cala Grillo


IL PD BALZA AL 30% e doppia abbondantemente il Pdl, che cade al 14,3. Per la prima volta da mesi, inoltre, il movimento di Beppe Grillo scende sotto quota 20% perdendo oltre un punto e mezzo. Al centro Casini tiene e aumenta leggermente la sua percentuale, ora al 4,1%, battendo seppur di poco una lista Montezemolo, valutata al 3,8%. Da notare anche l’aumento di Sel, l’altro soggetto politico coinvolto nelle primarie. Complessivamente il Pd e il suo principale alleato potrebbero contare su un complessivo 36%. Sono questi i risultati di un sondaggio realizzato da Swg per Agorà. In attesa dell’esito delle primarie è stato testato anche il risultato che avrebbe un ipotetico partito guidato da Matteo Renzi. Secondo l’Swg una formazione come questa arriverebbe al 4,7 per cento.

l’Unità 1.12.12
Marco Filippeschi:
«Con Bersani, perché è la forza tranquilla del cambiamento»
«Il segretario ha tenuto i nervi saldi ed è stato un riferimento per tutti
Aver portato alle primarie una coalizione, non solo un partito, è merito suo»
di Susanna Turco


Onestamente, mi sembrano polemiche forzate». Marco Filippeschi, 52 anni, sindaco di Pisa (nella sua città, il segretario del Pd ha preso il 47 per cento al primo turno, contro il 30 di Renzi) taglia corto con le polemiche intorno ai criteri di ammissione per chi vuol votare solo al secondo turno delle primarie. «Le regole si sono decise insieme, a suo tempo, e sono state spiegate anche a chi ha votato domenica scorsa: metterle in discussione mi sembra un segno di poca solidità. Ma spero che sia stata solo una fiammata, e che da oggi torni la tranquillità in attesa del voto».
Renzi però dice che sono «90mila le persone che hanno chiesto di partecipare al ballottaggio». Mica poche. «Non so questi numeri da dove vengano, quindi non mi pronuncio; e file non ne vedo da nessuna parte. Ma, ripeto, bisogna applicare le regole, che ammettono deroghe solo in casi eccezionali e davvero giustificati».
Rischiano, queste polemiche, di rovinare la festa delle primarie?
«Non credo, penso che alla fine prevarrà la tranquillità: e questo farà bene anche a Renzi, perché il suo appeal è fondato su altro, non sulle forzature polemiche. Del resto, è chiaro che queste primarie sono un indubbio successo, le ha volute Bersani e si può dire, a questo punto, che ci ha indovinato. Il Pd è stato rimesso sul binario giusto e la coalizione ora ha un vantaggio notevolmente più grande».
E l’exploit di Renzi nelle Regioni rosse, come lo spiega? È l’espressione di un disagio?
«Il fenomeno Renzi nasce in un clima generale di crisi della politica, il sindaco di Firenze ha intercettato in parte questa ansia di rinnovamento che si avverte a ogni livello. Anche per questo Bersani ha fatto bene ad accettare la sfida, pur rischiosa, delle primarie. Per quanto riguarda i dati, che hanno visto una maggiore partecipazione degli elettori rispetto alla media, bisognerà fare un’analisi approfondita dopo i ballottaggi, quando usciremo dal vivo delle competizione».
Come finirà?
«Penso che Bersani possa vincere, e anche bene. Penso che conti la capacità che ha di rappresentare la forza di una esperienza vera, e una visione d’insieme. Proprio perché c’è bisogno di un grande rinnovamento, ci vuole la forza necessaria per imporlo, e lui ce l’ha. Così come possiede la cultura di un innovatore, di un riformista: cambiare vuol dire lasciarci alle spalle una certa idea della politica che Berlusconi in un ventennio ha fatto penetrare anche nel centrosinistra».
Insomma, lo vede già premier.
«Ha la statura e lo spessore di uno statista, lo dice anche la tranquillità con cui ha affrontato un passaggio non scontato come questo: una sfida difficile, l’avevamo avvertito tutti. In questi giorni ha tenuto i nervi saldi, ed è stato un riferimento per tutti, anche per chi l’ha avversato. Lo si è visto bene. Suo merito è stato l’aver portato una coalizione, e non un solo partito, a fare le primarie. Mica poco. Con Vendola, che dal canto suo è stato coraggioso nel collocarsi in una prospettiva di governo, ha saputo fare come seppe fare la Spd, nella sua stagione felice con Fischer e i verdi tedeschi: ha presentato e fatto sottoscrivere una idea più evoluta di coalizione, con la regola che in Parlamento si decide a maggioranza e non per gruppo. La sua credibilità servirà anche come richiamo per il centro sociale e politico del Paese, con cui su queste basi si potrà stringere una alleanza, che è tutt’altra cosa da un inciucio».
E il rinnovamento del Pd?
«Lui ha la forza per imporlo, e dopo le primarie sarà ancora più forte. Insomma, Bersani serve a tutti noi. Anche al sindaco di Firenze, che è una personalità importante del partito e ha le carte in regola per crescere».

l’Unità 1.12.12
Stangata Imu in arrivo. Sulle paritarie sale la protesta
Studio Uil: il saldo azzererà le tredicesime
Bagnasco: scuole cattoliche a rischio chiusura
di B. Dig.


ROMA In arrivo una superstangata Imu per le famiglie con il versamento del saldo di dicembre, che scade il 17. L’esborso medio sarà di 136 euro sulla prima casa 470 euro, mentre per le seconde case sara' di 372 euro, con punte addirittura di 1.209 euro. Così con la nuova imposta municipale si rischia di azzerare le tredicesime dei lavoratori. Le medie dicono molto poco: il diavolo si nasconde nei «picchi», che peseranno come macigni sui bilanci familiari. Secondo uno studio Uil gli importi più alti si registreranno a Roma, con punte di 639 euro per la prima casa e di 1.885 per la seconda. Oggi si conoscerà con precisione l’elenco completo delle aliquote fissate dalle amministrazioni, che avevano tempo fino a ieri per decidere (per la prima rata si è utilizzata l’aliquota base dello 0,4%). A Roma per l’abitazione principale il Campidoglio ha fissato il prelievo al 5 per mille, mentre Milano si è fermata al 4, cioè al livello più basso.
Complessivamente, spiega l’analisi Uil, sulle delibere del totale dei Comuni (8.092), pubblicate sul sito del ministero dell'Economia, l'Imu sulla prima casa costerà, in media, 278 euro a famiglia a Roma; di 427 euro a Milano; 414 euro a Rimini; 409 euro a Bologna; 323 euro a Torino. Per le seconde case invece, l'Imu peserà mediamente 745 euro, con punte di 1.885 euro a Roma; di 1.793 euro a Milano; di 1.747 euro a Bologna; di 1.526 euro a Firenze. Un comune su tre ha aumentato l’aliquota sulla prima casa, mentre le altre hanno confermato quella base al 4 per mille.
Insieme ai bilanci delle famiglie, l’imposta municipale sta agitando anche gli enti ecclesiastici, il non profit e alle scuole paritarie.
Il regolamento varato dal governo e inserito con un colpo di mano nel decreto costi della politica, non solo indica parametri indecifrabili per le amministrazioni e poco convincenti anche per l’Ue, ma anche differenziati da caso a caso. A rimetterci sono proprio le scuole paritarie, unico soggetto che per essere esente deve richiedere una retta simbolica o che non copra tutti i costi del servizio. Un «paletto» che non vale per le cliniche private né per le altre attività ricettive e culturali. Su questa base le scuole paritarie sono sul piede di guerra. Sulla questione è intervenuto anche il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei (Conferenza episcopale italiana). «Sarebbe molto grave se (le paritarie, ndr) dovessero chiudere ha dichiarato sia per i genitori, sia per l'intero sistema scolastico. Le scuole cattoliche si trovano in grandissima difficoltà, soprattutto per la mancanza di contributi». Una netta presa di posizione contro il pagamento dell’Imu per le scuole c’è stata anche da parte dei vescovi del Piemonte. Nel frattempo dalla rete di scuole paritarie parte un maxi-ricorso al Tar (anche se ora ci si dovrebbe rivolgere alla Consulta, visto che non si tratta più di un regolamento amministrativo). Il testo sull'Imu è «illegittimo, fonte di gravissima disparità di trattamento ed erronea applicazione dei principi fondamentali in materia di parità scolastica», e nasconde «un'illegittima forma di aiuto statale». È il motivo per il quale l’associazione Consumatori del Terzo Millennio ha deciso di presentare una class action al Tar del Lazio. «Nel Regolamento si legge in un documento che anticipa la proposizione del ricorso le scuole paritarie sono ignorate. E si tratta di scuole che, per quanto abbiano provenienza privata, si caratterizzano per la natura totalmente “paritaria” con quelle pubbliche e “non commerciale”».
ENTI ECCLESIASTICI
Va detto che tutto il tema dell’Imu Chiesa è ormai da tempo al centro di polemiche e di interventi legislativi contraddittorie. Il comune di Roma, dove si trova il maggior numero di immobili riconducibili a enti ecclesiastici), dal 2007 ha iniziato una forte attività di recupero delle somme evase, con un forte incremento del gettito. L’anno prima il decreto Berlusconi aveva esonerato tutti gli immobili della Chiesa, poi le cose sono cambiate e il gettito è passato da 6 milioni nel 2007 a circa 14 nel 2011 con un salto consistente dal 2009. A Roma si contano circa 1.400 immobili non commerciali, di cui la metà (737) di proprietà della Chiesa. I contenziosi sono circa 4000, e un centinaio i ricorsi. Questi gli ultimi dati forniti dall’assessore al Bilancio Carmine Lamanda.

l’Unità 1.12.12
Lazio al voto il 10 febbraio
Il Colle: «Via il Porcellum»
Polverini ha comunicato la data, il governo valuterà se accorpare Molise e Lombardia
Il Quirinale: «L’Europa non limita le modifiche alla legge elettorale nell’ultimo anno, se condivise»
di Marcella Ciarnelli


ROMA Alla fine, dopo 65 giorni dalle dimissioni, pressata da due sentenze, Tar e Consiglio di Stato, e da sollecitazioni arrivate da ogni parte, la presidente della Regione Lazio è uscita dal suo ostinato atteggiamento e si è decisa a convocare le elezioni per il rinnovo del Consiglio regionale del Lazio dato che a lei, per la legge vigente, toccava l’adempimento. Si voterà il 10 e l’11 febbraio 2013. Renata Polverini ha formalizzato la sua decisione comunicandola al Ministero dell’Interno.
Quella presa finalmente ieri è una decisione che spazza via dal tavolo tutte le ipotesi che erano state fatte durante al tardare della decisione. E cioè che il Governatore avesse intenzione di aspettare lo scadere dei cinque giorni fissati dalla Corte dei Conti per farsi commissariare e, quindi, delegare ad altri la decisione sul numero di consiglieri da eleggere, che nel Lazio dovrebbero essere 50, venti in meno del precedente consiglio. O anche confermare la data del 10 e 11 marzo, come previsto dall’indicazione del governo in accordo con il Quirinale per un possibile svolgimento in quei giorni anche del voto per le elezioni politiche, ovviamente se fossero stati rispettati i due paletti che Napolitano ha da tempo fissato: l’approvazione della legge di stabilità e le modifiche alla legge elettorale.
POSSIBILE ELECTION DAY
La data ora è stata fissata. Ed il governo, cui spetta la decisione per le altre due regioni chiamate alle urne, Lombardia e Molise, potrebbe concordare di stabilire per il 10 e l’11 febbraio anche un election day regionale. Il presidente lombardo, Roberto Formigoni, ha subito condiviso questa ipotesi invitando a un impegno di tutti «per eleggere una maggioranza che garantisca le nostre eccellenze».
Il voto in febbraio esclude qualunque ipotesi di accorpamento regionali e politiche. Per andare al rinnovo del Parlamento negli stessi giorni bisognerebbe avviarsi già allo scioglimento delle Camere, senza quindi aver dato seguito alle sollecitazioni che dal Colle in questi mesi sono arrivate più volte alle forze politiche.
Ed a proposito di legge elettorale dal Quirinale, a firma del segretario generale Donato Marra è arrivata la risposta alle lettere inviate al Presidente dagli onorevoli Francesco Storace e a Maurizio Turco in cui veniva posto il tema dell’immodificabilità della legge elettorale nell’ultimo anno della legislatura facendo riferimento, per sostenere la tesi, al Codice di buona condotta elettorale redatto dalla Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto conosciuta anche come Commissione di Venezia, che è organo del Consiglio d’Europa e non dell’Unione europea. Un organo di consulenza, quindi, che approva raccomandazioni non vincolanti, «indirizzi che devono essere pertanto valutati alla luce delle particolari normative vigenti in ciascun Paese e delle specifiche criticità emerse nell’applicazione concreta di quelle disposizioni» com’è accaduto in Italia, tant’è che anche la Corte Costituzionale ha ritenuto più volte di segnalare la necessità di intervenire specialmente sul modo di attribuire il premio di maggioranza.
Le forze politiche hanno più volte dichiarato di essere d’accordo per apportare modifiche ma finora non si è arrivati neanche ad un testo. Eppure la legislatura sta per finire. E sarebbe bene superare le criticità, anche per riattivare il rapporto diretto elettori ed eletti, contando per le nuove norme «su un’ampia condivisione delle forze politiche presenti in Parlamento» rendendo facili «gli adempimenti necessari per partecipare alla competizione elettorale».
NESSUNA SPESA IN PIÙ AL QUIRINALE
«Faziosa» è stata definita su twitter dal portavoce del Presidente, in replica al tweet di “Il fazioso” che ha rilanciato un articolo di Libero, la notizia che nel 2013 lo stipendio del Capo dello Stato sarà aumentato così come le spese del Quirinale. «L’assegno al presidente Napolitano è congelato a livello del 2010 come si legge nel comunicato del Quirinale del 30 luglio 2011», notizia che dallo stesso giornale fu accolta con un «grazie presidente». L’impegno di Napolitano è confermato fino alla fine del suo settennato. Nessuna decisione può essere presa per il successore.

il Fatto 1.12.12
Il Manifesto: undici firme con la Rossanda


UNDICI FIRME STORICHE del manifesto si sono autosospese dal giornale. Loris Campetti, Mariuccia Ciotta, Astri Dakli, Ida Dominijanni, Roberto Tesi (Galapagos), Maurizio Matteuzzi, Angela Pascucci, Francesco Paternò, Francesco Piccioni, Gabriele Polo e Roberto Silvestri hanno deciso di protestare così contro il titolo scelto martedì scorso dalla direzione per comunicare ai lettori l’addio della storica fondatrice Rossana Rossanda. Non è piaciuto quel “Noi siamo qui” usato già nel 2000 quando il neofascista Andrea Insabato fece esplodere una bomba sul pianerottolo della redazione di via Tomacelli. “Un’allusione resistenziale che infrange ogni misura giornalistica, politica, umana”, si legge nella lettera pubblicata ieri sul quotidiano. Come a dire che la scelta della Rossanda equivale ad un attentato. “Una decisione incomprensibile” per la direttrice Norma Rangeri. Quel ‘Siamo qui, spiega nella risposta in calce alla lettera, nasce per rispondere all’offensiva mediatica che ha stravolto “il modo, drammatico ma pacato con cui avevamo pensato di dare la notizia”. “Il manifesto - conclude - va oltre le nostre persone”.

il Fatto 1.12.12
Quarto polo arancione a caccia di Fiom e Sel
Oggi a Roma “Cambiare si può”
Primo incontro per creare un’aggregazione alternativa al popolo delle primarie
di Caterina Perniconi


No a Monti, no alla riforma Fornero. I punti di partenza sono due, molto semplici. E accomunano una serie di movimenti e partiti che stanno cercando la formula giusta per aggregarsi e proporre un quarto polo alternativo all’attuale maggioranza e anche a Beppe Grillo.
Luigi De Magistris lavora a un movimento arancione da più di 6 mesi, con l’aspirazione di coinvolgere sindaci e amministratori locali in liste civiche. Progetto molto simile a quello del movimento “Cambiare si può”, promosso tra gli altri da Livio Pepino, Marco Revelli e Luciano Gallino (gli ultimi già animatori di “Alba”, Alleanza per Lavoro Beni comuni e Ambiente). Oggi a Roma per la prima volta le due realtà si incontrano al teatro Vittoria e non è un caso: i punti di partenza sono condivisi e la volontà di unirsi per fare una forza anche. Il 12 dicembre sarà poi il turno del sindaco di Napoli, che proverà a guardare avanti presentando la sua lista, contenitore all’interno del quale realizzare l’operazione di fusione. Perché nessuno è disposto ad accettare vecchie sigle o federazioni posticce. Chi aderisce al progetto deve “sciogliersi” all’interno del nuovo movimento o almeno “fare diversi passi indietro”. Il riferimento è all’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. L’Idv è elemento naturale di questo quarto polo dei “non allineati”, ma ad alcune condizioni. “Non accettiamo soggetti politici vetusti né per adesso cerchiamo un leader – spiega il magistrato Livio Pepino – non vogliamo ripetere l’errore di sommatorie com’è più volte successo alla sinistra. Vogliamo attrarre, in maniera unitaria, tutti quelli che sono estranei al popolo delle primarie”. Anche De Magistris aveva chiesto a Di Pietro il famoso “passo indietro”.
Per ora, il leader Idv aspetta. Non sarà oggi all’assemblea, ma vedrà lunedì Pier Luigi Bersani. Il risultato delle primarie sarà il primo vero punto di partenza per il quarto polo. “Con Bersani si può dialogare – spiega Ignazio Messina dell’Idv – se ci fossero le intese programmatiche non sarebbe necessario un polo con un suo candidato premier”. Ma dato che i due punti di partenza dai quali non si prescinde sono ben lontani da quelli democratici, un’alleanza è molto difficile. “Se il Pd scegliesse come alleato l’Udc di Casini – continua Messina – allora potremmo discutere con Nichi Vendo-la e Sel, oltre a tutti quei soggetti che guardano come noi al mondo del lavoro”. Tradotto: alla Fiom di Maurizio Landini. Un’aggregazione, da Sel fino ad Alba, è possibile anche in caso di vittoria di Matteo Renzi.
Per questo Di Pietro ha fissato l’incontro per “la rinascita” dell’Italia dei Valori al 15 dicembre. Per valutare tutte le proposte e, soprattutto, capire se esiste un accordo nella maggioranza sulla legge elettorale. In quel caso, con un ritorno al proporzionale, l’aggregazione degli arancioni dovrebbe trovarsi anche un candidato premier. Oggi in platea ci sarà Antonio Ingroia. Che, per ora, tornerà in Guatemala.

il Fatto 1.12.12
Razzismo e diritti civili: Italia molto lontana dall’Europa
di Marco Politi


Si gioca su due spread la sorte dell’Italia, anzi del benvivere degli italiani. Perché – come è emerso dagli “Stati generali dei diritti civili” promossi dall’Associazione Luca Coscioni e dal Dipartimento di comunicazione e ricerche sociali della Sapienza – i diritti non sono facoltà astratte, ma fattori che influiscono attivamente sull’esistenza degli individui e della collettività.
E QUI GLI SPREAD, che pesano oggi su di noi, sono rilevanti. Anzitutto la vergognosa distanza che, in tema di diritti realizzati, ci separa da molti paesi d’Europa: dal testamento biologico al riconoscimento delle coppie omosessuali. Altrettanto amara è la divaricazione tra l’atteggiamento dei cittadini, credenti o diversamente credenti, e il comportamento di una classe politica prevalentemente timorosa di contrastare i diktat ecclesiastici.
Il panorama italiano è cupo. Stefano Rodotà prende come pietra di paragone la produzione legislativa degli anni Settanta. In piena Prima Repubblica e con una Democrazia cristiana ancora forte. In un solo anno vengono varate le regioni, la legge del divorzio, la legge sui referendum, la legge sulla carcerazione preventiva, lo statuto dei lavoratori. Nel-l’arco di una decade vengono riformati il processo del lavoro e la proceduta penale, garantito il difensore durante gli interrogatori, garantita la concessione della libertà provvisoria, garantita l’obiezione di coscienza al servizio militare, varati i provvedimenti per le lavoratrici madri, gli asili e la dissuasione del lavoro a domicilio. Nasce il nuovo ordinamento penitenziario, il nuovo diritto di famiglia. I diciottenni vengono ammessi al voto. Un elenco da fare girare la testa, dinanzi al quale impallidiscono i balbettii del rottamatore Renzi, le interlocuzioni dialettali di Bersani, i silenzi sparsi degli altri protagonisti della scena politica attuale.
“I diritti – sottolinea Rodotà – sono il trasferimento nella legislazione di dati che determinano la qualità della vita delle persone”. A fronte della capacità di un parlamento – allora – di prendere di petto i problemi, spicca la regressione culturale di una situazione, quella di adesso, in cui si è permesso all’Ilva che il diritto alla salute venisse sistematicamente violato, il governo Monti ricorre contro la sentenza della Corte di Strasburgo che ha bocciato l’assurda legge 40 sulla procreazione assistita, si è sabotata una legge sull’omofobia e sul fine vita e si è incoraggiata in vari modi l’ostilità contro l’immigrato. Un clima che rende possibili le “algide risposte di Monti sul problema dei malati di Sla”.
In Europa l’Italia è fanalino di coda, “condannata ben trentadue volte dalla Corte di Strasburgo nel solo 2011”, spiega Marcello Flores, ammonita da Human Rights Watch per il suo “razzismo pervasivo”, criticata dalla relatrice Onu sulla questione femminile perché il “50 per cento delle donne che appaiono alla Tv italiana non parlano! ”.
Italia sprezzante dei diritti ambientali, dalla cementificazione sfrenata, decisamente superiore – dimostra Sergio Rizzo – alla media dei paesi europei.
ITALIA TENACE nel negare una legge sulla libertà religiosa, contesta il valdese Daniele Garrone, e in cui si è diffusa la pericolosa abitudine di ordinanze comunali e interventi regionali per bloccare diritti di culto della comunità islamica. Un discorso a parte merita la posizione della gerarchia cattolica, che nell’era Ruini si è voluta imporre come “guida politica” dei fedeli e dell’associazionismo cattolico per bloccare la riforma della legge sulla procreazione assistita e qualsiasi idea di Pacs. E questo nonostante che su tutti i temi la popolazione cattolico nei sondaggi si riveli sempre dalla parte delle riforme. L’80 per cento (così una recente inchiesta Acli) esige anzi l’autonomia del parlamento. Per non parlare della ricerca ossessiva di privilegi economici da parte degli enti ecclesiastici – vedi Imu – con il risultato di indebolire ulteriormente l’istruzione e la sanità pubblica.
C’è una via d’uscita? Mario Staderini la intravvede nel lancio di referendum locali, all’americana, che restituiscano al cittadino la libertà di decidere. Sul piano culturale-istituzionale Mario Morcellini si augura il ritorno di una vecchia virtù cattolica: la mediazione. E nel clima generale di recessione culturale ripropone l’intuizione di Marcuse: la rivendicazione di diritti “spinge verso il compimento di ciò che ancora non c’è e ancora non conosciamo”. D’altronde è nei periodi paludosi che maturano i sussulti.

il Fatto 1.12.12
Risposta a Veronesi
Abolizione dell’ergastolo, i punti critici della proposta
di Roberta De Monticelli


L’ergastolo è una pena antiscientifica e anticostituzionale”. A sostenerlo è il direttore scientifico dell'Istituto Europeo di Oncologia, Umberto Veronesi, che qualche giorno fa ha lanciato il Manifesto contro l’ergastolo nel corso della conferenza internazionale Science for peace ideata dalla sua fondazione (sottoscritto già da numerosi intellettuali e scrittori).
Se andate ad esempio a verificare su un blog politicamente ben connotato come quello de Ilgiornale.it   ( ht  tp: //www.ilgiornale.it/ne  ws/cronache/campagna-vero  nesi-lergastolo-va-aboli  to-856542. html ) ne tornerete coi capelli ritti in testa dall’orrore e dallo sconcerto: le risposte più gentili dei lettori sono quelle che concordano cordialmente, proponendo però in cambio la reintroduzione della pena di morte. Gli altri la propongono direttamente per Veronesi stesso, se possibile con corredo di boia e schizzi di sangue. Certo, basta cambiar aria e si torna a respirare.
AD ESEMPIO sul sito del Pd si trova un parere tutto elogiativo del senatore Maurizio Ferrante, secondo il quale “l’ergastolo ostativo (cioè quello senza condizionale e senza sconti, applicato in casi di capi mafia pluriomicidi e serial killer, ndr) è l’espressione più eclatante dell’annichilimento del percorso di recupero, ma occorre avere il coraggio di affrontare questioni impopolari quali l’ergastolo nella sua forma più diffusa” (cioè quello che prevede la possibilità di uscire dopo 26 anni, e uno sconto di un anno ogni quattro, per buona condotta, oltre alla possibilità del lavoro esterno, nonché ai permessi premio dopo 10 anni e alla semilibertà dopo 20).
“Questioni impopolari”, appunto. Questo è il problema. Perché se non fosse impopolare, non sarebbe un tema caldo quello proposto da Veronesi, non sarebbe un tema “politico”. E così passerebbe inosservato o quasi. E questo è un esempio che più chiaro non si può di quanto, da noi, il dibattito pubblico sia degenerato nel mero scontro di opinioni.
Mi spiego prendendo a mia volta posizione in questo dibattito.
IL MANIFESTO di Veronesi ha due aspetti: uno di merito e uno di metodo. Nel merito, la proposta di Veronesi è umanissima, ma non è – si può argomentare – una priorità, considerando l’insieme dei problemi della giustizia in Italia, e proprio dal punto di vista delle ingiustizie spaventose e pervasive che comportano oggi le inefficienze della giustizia, penale e civile: bisognerebbe far studiare nelle scuole l’ultimo lavoro di Piercamillo Davigo (con L. Sisti: Processo all’italiana, Laterza 2012), e poi ricominciare a discutere.
Per citare Beccaria: “giusta” è solo “una pena pronta, equa, proporzionata”.
E per citare Giuliano Pisapia: “Non è una pena terribile ma incerta ad avere una funzione deterrente, quanto la certezza della sua applicazione. La pena, qualunque essa sia, deve essere tassativa ed effettiva”.
Una riforma che andasse in questa direzione sarebbe la vera priorità, oggi. L’abolizione di ogni residuo di pena “a perpetuità” potrebbe diventarne parte, solo in quanto fosse inserita in un vero contesto di riforma penale complessiva come quello presentato nel 2008 in Parlamento da Giuliano Pisapia, appunto.
Nel metodo, trovo un po’ fuorviante basare sulle ipotesi scientifiche di livello neurobiologico progetti normativi (cioè giudizi di valore e proposte di legge) che riguardano un altro livello di esistenza, quello delle persone in quanto agenti razionali e liberi (capaci cioè, come fa Veronesi, di proporre manifesti che contribuiranno a cambiare le norme, eccetera).
Se credessimo alle filosofie (perché tali sono, in realtà) di alcuni scienziati (come il Nobel Francis Crick, ad esempio) secondo cui libero arbitrio e responsabilità sono chimere come flogisto e fate, potremmo anche ritenere fondati i suggerimenti dei “rifondatori” che propongono di abolire il diritto penale (compreso evidentemente il principio per cui la responsabilità penale è personale, Art. 27 della Costituzione) con il suo bagaglio di nozioni che la “scienza” avrebbe dimostrato illusorie (coscienza, capacità di intendere e di volere eccetera).
LA GESTIONE del crimine verrebbe a essere un servizio più simile a quello sanitario, o a quello dei pompieri.
Il suo unico principio sarebbe la pubblica utilità. Ma ai più attenti utilitaristi è ben noto il limite dell’utilitarismo in questa materia: perché anche i capri espiatori, anche la convinzione di Caifa (è meglio che l’innocente muoia perché sia salvo il popolo) sono legittimati dalla pubblica utilità!

La Stampa 1.12.12
Stefano Fassina
Con più flessibilità il rischio è che aumenti la miseria
di Ton. Mastr.


La recessione, in Italia e in Europa, «somiglia sempre più a una depressione». E la ricetta di Draghi è sbagliata, secondo Stefano Fassina, responsabile economico del Pd: «aumentare la precarietà - sostiene - alimenta solo la miseria».
Fassina, la disoccupazione giovanile e il numero dei precari in Italia sono a livelli record. Cos’è che non funziona?
«Sono segnali che questa recessione somiglia sempre di più a una depressione. Tutti i dati stanno peggiorando - la disoccupazione, ma anche il debito pubblico che l’austerità dovrebbe contribuire ad abbattere. Le ricette di risanamento fin qui adottate ci stanno precipitando in una spirale senza fine e non si vede nessuno spiraglio di un miglioramento vero, dicono Commissione Ue e Ocse, almeno fino al 2014. E in Italiasiamo già al quinto anno di recessione».
Cosa suggerisce di fare?
«Serve un cambio di passo in Europa, servono politiche economiche nuove».
Leisuggerirebbedispostarein avanti il pareggio di bilancio?
«Tanto non lo rispetteremo in ogni caso nel 2014, lo ha detto chiaro e tondo anche l’Ocse! » Che infatti sostiene che nel caso di uno sforamento ci vorrà una manovra aggiuntiva.
«Ma se è a furia di manovre aggiuntive che siamo arrivati fin qui! » Dunque lei suggerirebbe di non curarsi per ora del deficit eccessivo.
«Io farei pressioni in Europa per determinare una politica economica che crei nuovamente i presupposti per la crescita. A cominciare dalla golden rule, l’eccezione che consentirebbe di escludere dal computo dei disavanzi nazionali le spese per investimenti. E in particolare bisogna anche introdurre gli Eurobond per finanziare le infrastrutture».
Draghi dice invece che bisogna riformare il mercato del lavoro, renderlo più flessibile».
«Lo abbiamo appena fatto e mi pare che i risultati non siano un granché. Se vogliamo continuare con questa storia assurda di aumentare la precarietà, non faremo che aumentare la miseria. Il problema è a monte. Si affronta la questione dal lato sbagliato: qui va sostenuta la domanda e invece si continua a penalizzarla, a cominciare dalla politiche dei redditi. Invece di fare svalutazione monetaria, che in eurolandia non è più possibile, si procede attraverso la svalutazione interna, schiacciando i salari. E come si può pensare di far riprendere l’economia deprimendo la domanda interna?»

Corriere 1.12.12
Il lavoro di noi prof? Ecco il calcolo: 1.759 ore all'anno


C'era una volta la scuola della mattina.
Quella delle insegnanti part-time, che dopo il lavoro hanno tempo per sé. C'era, una volta, la scuola delle vacanze. Delle prof mamme che partono a giugno coi pupi e a settembre ritornano, si ricomincia. C'era ancora, una volta, la scuola dei ruoli. Dove il maestro è maestro, l'alunno è l'alunno, e il genitore è la mamma, o il papà.
C'era. Oggi non più. Oggi, la scuola è complessa. E non per i compiti da correggere, o le lezioni da preparare: quelli c'erano anche «una volta». Oggi, a scuola, si creano i progetti, tanti progetti. Oggi, alle medie, sei a scuola tutto giugno, e dal primo settembre. Tante vacanze? Sì, ma lavori di più.
Quando? I sabati e le domeniche, per esempio. Tuo marito ti guarda basito, e solo allora capisce. Protesta, ma dài usciamo. No, non si può: sono un'insegnante... se lunedì non riporto i temi, poi chi li sente? Vai a prendere i figli all'asilo? La paghi la sera: è mezzanotte, e lavori ancora. Lui, tuo marito, a chiamarti non ci prova più. Ma possibile? Le persone normali, a quest'ora...
Già. Le persone normali. Il punto è che noi, normali, non siamo. Diversamente anomali. Trattati come liberi professionisti, pagati come operai. Educatori o, all'occorrenza, baby-sitter. Mamme, papà, zii o anche nonni, se la famiglia manca. Burocrati, vigili, segretari. Psicologi, tuttologi, ignoranti. Secondo i punti di vista. Che vanno sempre bene, perché la scuola è uno di quegli argomenti di cui pochi sanno, ma tutti parlano. Come il calcio. E allora, quasi quasi, ne parliamo anche noi. Ci siamo presi la libertà di scrivere qualche numero. Abbiamo calcolato... quanto lavora un prof.
Rossana Bruzzone Maria Antonia Capizzi
in rappresentanza di un gruppo di insegnanti della scuola secondaria di I grado «Quintino Di Vona» di Milano

l’Unità 1.12.12
La risposta di Israele: tremila insediamenti
In Cisgiordania sì a nuove case per i coloni
Le critiche di Obama e dell’Onu
Protesta il leader Anp Abu Mazen
di Umberto De Giovannangeli


La reazione non si è fatta attendere. Israele costruirà 3.000 nuove case per i coloni a Gerusalemme est e in Cisgiordania come risposta all'ammissione della Palestina come Stato osservatore non membro dell’Onu. A riferirlo è riferito una fonte israeliana senza precisare in quali colonie verranno costruiti i nuovi alloggi. La decisione è stata rivelata da un tweet di Barak Ravid, corrispondente diplomatico di Haaretz: «Le nuove case», scrive, «saranno edificate in aree già oggetto di un forte contenzioso con i palestinesi, come El, tra Maaleh Adumim e Gerusalemme, con una edificazione che separerà la Cisgiordania del sud da quella del nord.
Il progetto, che creerà un corridoio che di fatto pregiudicherebbe la continuità territoriale in vista della creazione di uno Stato indipendente, ha visto nel corso degli anni una dura opposizione da parte dell'Autorità nazionale palestinese. I 3.000 nuovi alloggi che il governo israeliano è pronto ad autorizzare dovrebbero essere costruiti in Cisgiordania, nel grande insediamento di Maleh Adumin, e a Gerusalemme est, conferma Ynet, sito online del giornale Yediot Ahronot. Dura la presa di posizione americana. Il nuovo piano che prevede un’espansione degli insediamenti israeliani «è controproducente e rende più difficile rianimare i negoziati di pace»: lo afferma la Casa Bianca. Preoccupazione e contrarietà sono state espresse anche dal segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon: «L’Onu e lo stesso segretario generale, Ban Ki-moon, hanno più volte ripetuto che le nuove colonie non aiutano il processo di pace», dichiara, Farhan Haq, uno dei portavoce del Palazzo di Vetro.
FERITA BRUCIANTE
Si è rivelato un calice molto amaro, per Netanyahu, il voto sulla Palestina. Da tempo la diplomazia dello Stato ebraico non pativa una sconfitta tanto bruciante. Il sostegno elargito al presidente Abu Mazen da Paesi chiave in Europa (fra cui Italia e Francia) ha infine messo drammaticamente in evidenza l’isolamento di Israele, al cui fianco sono rimasti al dunque sulla sparuta trincea del «no» solo Usa, Canada, Repubblica Ceca, Panama e un pugno di isolotti remoti: Marshall, Micronesia, Narau e Palau. La débacle politica emerge dalle prime pagine dei giornali israeliani. «Il mondo ha deciso: Stato Palestina» titolava ieri a tutta pagina Yediot Ahronot, secondo cui giovedì alle Nazioni Unite, Israele ha patito «una débacle politica». «Il premier Netanyahu scrive non ha saputo valutare l’entità della collera verso Israele nel mondo». Anche Haaretz parla di un «domino politico» innescatosi a sfavore di Israele, che ha consentito al presidente Abu Mazen di raccogliere 138 consensi, contro i nove contrari. «Ieri (giovedì, ndr) abbiamo perduto l’Europa», ha ammesso, secondo il giornale, un dirigente del ministero degli Esteri.
Il giorno dopo lo storico voto dell’Onu sulla Palestina, il presidente dell’Anp, Mahmud Abbas (Abu Mazen) lancia un appello per la ripresa dei negoziati di pace, a patto che Israele fermi la sua politica di colonizzazione. «Vogliamo una ripresa dei negoziati e siamo pronti a farlo dice Abu Mazen parlando a New York -. Ma esistono almeno quindici risoluzioni dell’Onu che considerano la colonizzazione illegale e un ostacolo alla pace. Dunque si è chiesto Abu Mazen perchè Israele non ferma la colonizzazione? La Palestina, riconosciuta dalle Nazioni Unite come «Stato osservatore» ha ora il diritto di ricorrere alla Corte penale internazionale (Cpi), ma lo farà «solo in caso di aggressione d'Israele», assicura ancora Abu Mazen, facendo riferimento esclusivamente allo scenario estremo di una azione militare: «Oramai spiega il presidente palestinese, atteso oggi a Ramallah abbiamo il diritto di ricorrere alla Corte penale internazionale, ma non lo faremo ora, nè abbiamo intenzione di farlo, salvo che in caso di aggressione».

il Fatto 1.12.12
Israele risponde con 3000 coloni
Il governo aumenta gli insediamenti nella Palestina occupata
Gli Usa; “Controproducente”
di Roberta Zunini


Lo vedi questo bicchiere pieno d’acqua? È tuo, ma non puoi bere. Gli israeliani si comportano così. Ci dicono, sì, questa terra che vedi è tua, prendila pure ma non puoi utilizzarla”, spiega l’ingegnere civile palestinese Ibrahim Hussein che vive nella zona East1. Meglio conosciuta come E1, è l’area che collega Gerusalemme est alla Cisgiordania del nord, cioè mette in continuità quella che dovrebbe essere la capitale dello Stato palestinese con il resto del territorio statale. Per questo il progetto israeliano di realizzare e quindi ampliare l’insediamento ebraico di Ma’ale Adumim, che è stato costruito proprio in quest’area, è da sempre considerato il più “diabolico”. Significherebbe infatti creare una lunga barriera di edifici, case, stazione di polizia e check point, che recinterebbe di fatto Gerusalemme Est – secondo il diritto internazionale territorio occupato, annesso unilateralmente dallo Stato ebraico nel 1980 – isolandola e spaccando la parte nord e quella sud della Palestina.
NONOSTANTE gli Stati Uniti di Obama abbiano mantenuto la loro promessa, votando, assieme a soli altri otto Paesi, contro la richiesta all’Onu dell’Anp, sembra che il premier Netanyahu e i suoi accoliti, infuriati per la débâcle diplomatica, stiano per fare l’ennesimo affronto proprio al loro più stretto alleato, tirando una corda già sottile. E non a caso l’Amministrazione Obama sbotta: “Controproducenti i nuovi insediamenti”.
Su Haaretz il giornalista israeliano Barak Ravid rivela: “Il governo farà costruire tremila nuove case per i coloni a Gerusalemme est e in Cisgiordania come risposta all’ammissione della Palestina come Stato osservatore. Le nuove case saranno edificate in aree già oggetto di un forte contenzioso con i palestinesi, come la E1. Tutto ciò, nonostante Netanyahu abbia assicurato in passato a Barack Obama che il progetto E1 sarebbe stato congelato in base a quanto stabilito dalla roadmap siglata nel 2003”. Se il via libera alle costruzioni non troverà ostacoli, difficilmente assisteremo a una ripresa dei negoziati di pace diretti. Il presidente dell’Anp, Abu Mazen nel suo discorso all'Onu è stato chiaro e ha ribadito che la capitale della Palestina non può essere che Gerusalemme Est. Ma che capitale potrà essere se separata dal resto dello Stato? Il problema è che anche tutto il resto del territorio è a macchia di leopardo. “Non ci sarà mai un vero Stato palestinese se continueranno a esserci gli insediamenti ebraici che lo spezzano di continuo, anche qualora dovesse finire l’occupazione, cosa che peraltro non avverrà”, ha detto Robert Fisk, giornalista tra i più esperti del Medio Oriente.
DOPO gli accordi di Oslo del 1993, la Cisgiordania, ossia l’attuale Stato palestinese, è stata suddivisa in tre aree. Solo la A – la più piccola, Ramallah e poco altro – è sotto il totale controllo dell’Anp. La zona B è amministrata dall’ Anp, ma le attività di polizia sono dell’esercito di Israele, che controlla totalmente la zona C. Le nuove colonie “sono un tentativo per far saltare la decisione dell’Onu”, ha dichiarato il portavoce della presidenza dell’Anp, Nabil Abu Radieneh, ribadendo che “non ci saranno negoziati con la ripresa degli insediamenti nei territori palestinesi”.

La Stampa 1.12.12
Netanyahu risponde con le colonie
Dopo la vittoria palestinese all’Onu, tremila nuove case nei Territori
Abu Mazen incontrerà Hamas
Il premier israeliano sempre più isolato Gli Usa non congelano gli aiuti all’Anp
di Francesca Paci


«Il riconoscimento all’Onu è un successo, ma mi chiedo in che modo ne beneficeremo» ammette da Ramallah l’ingegnere trentenne Munir Rizq. Terminati i festeggiamenti i palestinesi tornano alla realtà come suggerito anche dal premier Salam Fayyad che, sovrapponendo alla retorica l’urgenza di fare un passo avanti «dopo anni di fallimenti», osa il dolente punto di domanda: e adesso dove andiamo?
A poche ore dal blitz di Abu Mazen, che nel frattempo riapre al negoziato a patto d’uno stop alla «colonizzazione», Israele annuncia la costruzione di 3 mila nuovi alloggi tra Gerusalemme Est e l’insediamento di Maaleh Adumim, ulteriore frammentazione della già divisa Cisgiordania subito criticata dalle Nazioni Unite.
Israele però gioca in difesa: con il 51% della popolazione pessimista sulla pace, la prospettiva della rielezione di quel Netanyahu responsabile di un isolamento internazionale senza precedenti, l’amico americano che ribadisce il no all’attivismo «unilaterale» dei palestinesi ma non potendo alienarsi l’Egitto di Morsi conferma per ora gli aiuti di 200 milioni di dollari a loro destinati (a differenza del Canada), lo scudo antimissile Iron Dome sembra poter proteggere il Paese dai razzi ma non dal futuro. I palestinesi invece, pur essendo tecnicamente all’attacco, sono minacciati dal passato e zavorrati dalla spaccatura tra i «moderati» del presidente Abu Mazen e i radicali di Hamas, usciti vittoriosi dalla guerra di Gaza e tentati dall’accreditarsi come unici interlocutori politici (contro gli irriducibili tipo Jihad Islamica). Abu Mazen investirà nel dialogo o, pur avendolo per ora escluso a meno di «aggressioni», spingerà la sfida frontale a Israele fino a portare il problema delle colonie davanti alla Corte dell’Aja?
«La nostra priorità adesso è riordinare la casa, vale a dire riconciliare Hamas e Fatah perché la Palestina deve camminare su due gambe» osserva l’analista politico Mahdi Abdul Hadi. Si aspetterebbe che dopo l’incontro con il leader politico di Hamas Meshaal, previsto la settimana prossima al Cairo, Abu Mazen tornasse in Cisgiordania passando simbolicamente da Gaza. Ma è presto, fa capire.
Pur avendo celebrato come Ramallah, Hamas continua a ribadire «i temi controversi» del successo dell’Onu a partire dal riconoscimento d’Israele a cui i signori di Gaza non vogliono concedere «alcun diritto in Palestina». Dalla sua il movimento islamista ha il supporto sunnita di Egitto, Turchia e dell’ambizioso Qatar, che ha promesso a Gaza un investimento di 400 milioni di dollari ma finora non ha mai voluto incontrare Fayyad.
Il problema è che per quanto la Palestina sia stata promossa da «entità» a «Stato osservatore» dell’Onu è ben lungi dalla meta. Da un lato c’è Gaza, in mano agli islamisti di Hamas dal 2007, «inabitabile» entro il 2020 secondo un recente rapporto dell’Onu ma soprattutto isolata dal resto del concreto Stato palestinese che in base a Oslo dovrebbe sorgere entro i confini del 1967. Dall’altro c’è la Cisgiordania, il regno di Abu Mazen, beneficiaria dal 2008 di una discreta crescita economica fondata però principalmente sull’aiuto dei Paesi donatori (oltre 3 miliardi di dollari in aiuti diretti), minacciata da un deficit di budget da un miliardo di dollari e limitata nello sviluppo a causa delle colonie e dei check point militari nelle zone sotto il controllo israeliano (secondo il Protocollo di Parigi del 1994) che, per esempio, impediscono agli imprenditori delle prospere Nablus e Jenin di fare rete.
Quando a settembre i palestinesi della Cisgiordania sono scesi in piazza contro il costo «israeliano» della vita pagato con stipendi «palestinesi» (un quinto di quelli israeliani) Abu Mazen ha temuto la terza intifada. La guerra di Gaza ha passato la palla a Hamas ma ora l’iniziativa è tornata a Ramallah. La vera sfida è smettere di giocare a vuoto.

La Stampa 1.12.12
Lapo Pistelli
“L’Europa conterà di più nella regione”
«Non potevamo votare diversamente dagli altri Paesi del Mediterraneo»
di Ant. Ram.


«Con quel sì l’Italia ha dato un contributo significativo. Le dimensioni del voto dicono molto, hanno votato contro gli Stati Uniti, il Canada, la Repubblica Ceca, e alcune isole del Pacifico: tutto il resto del mondo è stato a favore. E in una regione del mondo in cui tutto sta cambiando, e con punte drammatiche di crisi come in Siria, l’unico conflitto che non cambia mai è quello israelo-palestinese». La voce di Lapo Pistelli gracchia sul cellulare dal Brasile dov’è in missione come responsabile per la politica estera del Pd.
Il suo partito si è schierato subito per il sì. Perché?
«Israele si è difesa duramente dagli attacchi che partivano da Gaza e poi ha firmato la tregua proprio con l’organizzazione che condanna, Hamas. Quando invece l’Anp, i moderati Fayyad e Abu Mazen, hanno saputo costruire una coalizione di governo. Consideriamo anche che due anni fa Obama e il Quartetto avevano promesso loro lo status di membro a pieno titolo all’Onu, poi negato e ridotto a quello di Stato osservatore. Come si poteva negarlo? E l’Italia, dopo il risultato importantissimo del no tramutato in astensione della Germania, avrebbe dovuto votare non con l’Europa mediterranea, ma come la Repubblica Ceca? ».
Se ci fosse stata una posizione unitaria dell’Europa?
«Questo non è stato possibile. Dato che gli occhi con i quali si guarda il mondo non sono gli stessi da Tallinn a Roma, da Lisbona a Berlino, non sarà mai possibile finché la politica estera non sarà decisa in modo federalista. E a maggioranza».
Lei tiene i contatti con i democratici americani. Ci saranno ripercussioni nelle relazioni transatlantiche?
«Assolutamente no. Gli Stati Uniti non potevano che essere per il no, per non dare al mondo arabo l’impressione di un isolamento di Israele. Per anni, gli Stati Uniti sono stati un player decisivo nella regione. Ora la tendenza che si affermerà di qui a dieci anni è a una riduzione della loro presenza in Medio Oriente. L’Unione Europea, invece, dovrà fare molto di più».
Perché il sì dell’Italia è arrivato dal governo e non dalla Farnesina, dopo un processo decisionale contorto?
«Nel Pdl ci sono posizioni diverse, come si può vedere dagli atti parlamentari. La posizione del ministro Terzi sta nelle sue caratteristiche politiche e personali, che rispetto. Però il governo Monti ripete sempre di vivere nei rapporti col Parlamento. Noi delle commissioni Esteri di Camera e Senato avevamo dato un indirizzo chiaro, e questo ha pesato sulla decisione di Monti».

Corriere 1.12.12
Il voto favorevole alla Palestina e il nuovo ruolo dell'Italia
di Maurizio Caprara


Apriamo i finestrini, i vetri si sono appannati e rischiamo di andare a sbattere perché le strade sono cambiate e noi cerchiamo vecchi percorsi. Dal dibattito politico interno (a cose fatte) sulla scelta compiuta da Mario Monti di appoggiare l'innalzamento di rango della delegazione palestinese all'Onu si percepisce l'illusoria sensazione che l'Italia possa da sola determinare i destini del Medio Oriente. Senza staccarsi da categorie interpretative adatte a quando la Terra era divisa in due blocchi, uno occidentale e uno di influenza sovietica, c'è chi festeggia perché il nostro Paese avrebbe dato un contributo fondamentale alla pace e chi si dispera perché avrebbe compromesso i rapporti con Israele.
Non si entra qui nel merito se sia stata giusta o no la scelta del «sì». C'è una questione più ampia da tener presente. L'Italia è uno dei 193 Paesi delle Nazioni Unite, uno dei principali tra i 27 dell'Unione europea (inclusa la Bulgaria alla quale da noi si attribuisce l'unanimismo tardo bolscevico malgrado quel regime sia crollato da oltre 20 anni). Abituati ad arrancare tra crescita bassa e recessione, i politici del nostro Paese non si convincono che nuovi soggetti si impongono nella politica internazionale.
Brasile, Russia, India e Cina che raccolgono oggi il 40% degli abitanti del pianeta, per esempio. Noi non siamo più il prezioso, dinamico è un po' rompiscatole alleato che gli Stati Uniti avevano interesse a tenersi stretto con iniezioni di soldi, missili e riconoscimenti mentre ci trovavamo sulla frontiera con l'Est. Il ribollire del Maghreb ci preserva un'importanza, però non la stessa. Il resto va guadagnato, e per riuscirci serve (per lo meno) capire come va il mondo. Magari, una strategia.
La crisi finanziaria ha rafforzato il G20, non il G8. E nel G8 noi restiamo più per inerzia che per vigore. All'Onu l'Italia non doveva decidere la sorte della Terra, ma quale ruolo ricavarsi, o non precludersi, in un voto nel quale il «sì» sarebbe prevalso di molto. Stare nel mucchio per tattica? Fuori per scelta di bandiera? Su quello andava stabilito dove dirigere la macchina. Gli altri sono desideri.

l’Unità 1.12.12
Hanan Ashrawi: «Quel voto ha riaperto la speranza dei palestinesi»
di U.D.G.


Prima donna a ricoprire l’incarico di portavoce della Lega Araba, più volte ministra dell’Anp, membro del Comitato esecutivo dell’Olp

«Ora in molti si cimenteranno a profetizzare scenari, a ingigantire o a sminuire la portata di quel voto. Ma c’è un sentimento che quel voto ha ravvivato in ognuno di noi palestinesi. Un sentimento che vale più di ogni altra cosa: quel sentimento si chiama speranza. Quel voto ha detto a noi palestinesi che il mondo non ci ha dimenticati, che nel mondo esistono tanti Paesi coraggiosi che hanno riconosciuto il diritto di una nazione a farsi Stato senza che ciò mini la sicurezza o l’esistenza di un altro Stato». A sostenerlo è una delle figure più rappresentative della leadership palestinese: Hanan Ashrawi, più volte ministra dell’Anp, paladina dei diritti umani nei Territori, già portavoce delal delegazione palestinese ai negoziati di Oslo-Washington.
Israele è furente per il voto all’Onu. Si sente tradito dall’Europa...
«Quello che i dirigenti israeliani chiamano “tradimento”, noi lo chiamiamo “coraggio”. Ciò che ci sentiamo di dire oggi a quanti hanno sostenuto la nostra rivendicazione è che avete preso posizione a favore della pace, della giustizia, della moralità e della decenza umana. Avete dimostrato coraggio ed integrità, agendo conformemente con quanto dettato dalla vostra coscienza, piuttosto che ai diktat e alla intimidazioni. Avete inviato un messaggio al popolo palestinese e al mondo: che proteggere chi è vulnerabile e contrastare l’aggressione è possibile nel contesto della responsabilità globale. Avete riscattato le possibilità di pace sostenendo le forze della ragione e della responsabilità, piuttosto che l'esercizio israeliano, irrazionale ed irresponsabile, della forza e della violenza. Ci avete dato speranza, e ci impegniamo a lavorare con voi per rendere questo nostro mondo più pacifico ed umano. Mi creda: sono parole che vengono dal cuore prim’ancora che dalla mente».
Israele ha reagito dando il via libera alla realizzazione di 3mila abitazioni negli insediamenti della Cisgiordania.
«È la reazione di chi conosce solo la pratica della forza. «Si tratta di un’aggressione israeliana contro uno Stato e il mondo deve prendere le sue responsabilità»,Netanyahu ha avuto mesi e mesi per dimostrare la volontà di negoziare seriamente un accordo di pace. La comunità internazionale, compresi gli Stati Uniti, avevano chiesto al primo ministro d’Israele un gesto concreto di apertura: la moratoria di tre mesi degli insediamenti. La risposta di Netanyahu è stato un no secco. Ed ora ecco il rilancio della colonizzazione. Quella annunciata oggi (ieri, ndr) è solo una parte di un piano di insediamenti più ampio».
Molti dei Paesi che hanno sostenuto la richiesta palestinese all’Onu, chiedono ora al presidente Abbas di riaprire il negoziato.
«Non siamo noi a porre ostacoli al dialogo: sono i falchi di Tel Aviv, quelli che sembrano conoscere solo il linguaggio della forza. Ciò che chiediamo è che Israele blocchi gli insediamenti. Non vogliamo negoziati imperfetti e controproducenti».
In una nostra recente conversazione, lei aveva osato parole molto dure verso la comunità internazionale che, aveva sostenuto, «si è arresa senza combattere ai falchi israeliani».
«Per fortuna, qualcosa di importante è avvenuto per rivedere questo giudizio. Il voto di ieri ha riacceso una speranza».

l’Unità 1.12.12
Palestina, la bella vittoria del paziente Abu Mazen
di Moni Ovadia


Giovedì 29 novembre 2012 è stata e rimarrà una data memorabile nel bene (lo speriamo con tutte le nostre forze) o nel male (lo deprechiamo con tutto il cuore).
Gli uomini che credono nella pace, nella giustizia e nell'eguaglianza, hanno visto sorgere il primo lucore di un’alba che era attesa da lunghissimo tempo. Il popolo palestinese ha finalmente scorto la luce in fondo al tunnel oscuro in cui era confinato da 45 anni. L'Assemblea dell'Onu, a grandissima maggioranza, ha accolto nel proprio seno come membro osservatore, la Palestina. È solo un inizio ma ha un grandissimo significato. Le piazze della Cisgiordania e di Gaza si sono riempite di folla tripudiante. L'uomo che ha ottenuto questa luminosa vittoria per il suo popolo, il paziente Abu Mazen, ha ricevuto gli abbracci calorosi di una folla di rappresentanti delle Nazioni Unite. La sua tenacia ha avuto ragione, non si è fatto intimidire e ha incassato con determinazione, tutte le false promesse di trattativa, tutte le azioni miranti a delegittimarlo, non ha ceduto alla frustrazione, non ha aperto le porte alla tentazione della violenza e ce l'ha fatta. Anche Hamas, bon gré mal gré, sarà costretta a riconoscerlo. Le piazze palestinesi festanti, hanno rievocato simbolicamente, le piazze ricolme di ebrei «palestinesi» pervase dalla gioia che ascoltarono la proclamazione dello Stato d'Israele votata a maggioranza dall' Assemblea delle Nazioni Unite nel 1948. Per la popolazione ebraica di allora, uscita dalla Shoà, fu il coronamento di un sogno. Per i Palestinesi fu l'inizio della Nakhba, la catastrofe, la perdita di terre e case che, nel '67, dopo la Guerra dei Sei Giorni, avrebbe conosciuto la seconda interminabile fase che perdura ancora oggi. Ora, questa profonda lacerazione ha visto la possibilità di essere sanata. Grandi assenti a questa giornata di festa: i governanti israeliani e il Presidente degli Usa Barack Obama, incastrati in una miope solidarietà risentita senza orizzonte e senza futuro. Netanyahu e Obama fingono di non sapere che la trattativa è possibile solo fra interlocutori di pari dignità. Nel mio piccolo ho parteggiato con tutte le energie per questa prospettiva, senza risparmiare le critiche più aspre ai governi israeliani della colonizzazione e dell'occupazione e senza il minimo sconto. Per questa ragione, proprio oggi mi sento di dire che chi si serve di stereotipi antisemiti con la pretesa di esprimere solidarietà ai palestinesi, mente. L'antisemitismo è stata una delle peggiori pestilenze che abbia attraversato l'umanità nel suo cammino, si nutre dell'humus dell'odio e del razzismo, è un pensiero criminoso che colpisce gli ebrei ma che prepara anche la catastrofe per tutti gli uomini che credono nella fratellanza, nella libertà e nella pari dignità di tutti gli esseri umani. Chi cerca di giustificarlo con l'esistenza di Israele, dimentica capziosamente che l'antisemitismo si è manifestato, nella sua forma più virulenta e genocida, quando gli ebrei non avevano terra e neppure aspiravano ad una terra nella forma di nazione moderna. Lo ripeto, le critiche alle azioni dei governanti israeliani messe in atto contro la popolazione civile palestinese, anche le più dure e provocatorie, sono del tutto lecite e condivisibili quando suffragate da fatti e da prove ma i complottismi modello «Protocolli dei Savi di Sion» in riedizione «antisionista» comprese le identificazioni fra governo, Stato e popolo israeliano non sono altro che la versione antiisraeliana dell'antisemitismo. In Israele non vivono solo truppe militari Droni e gli elicotteri Apache, ma donne, uomini, bambini, vecchi, giovani, madri, figli, fratelli, sorelle come in Palestina pur nella drammatica differenza delle condizioni esistenziali. Ma di tutto hanno bisogno i palestinesi per trovare giustizia, fuorché degli antisemiti dichiarati o camuffati che siano.

il Fatto 1.12.12
Onu, Fmi e Banca mondiale: quello Stato c’è
di Giuseppe Cassini


La peggior offesa che si possa fare al governo Monti è di paragonarlo a quello che l’ha ignominiosamente preceduto. Eppure, almeno una somiglianza c’è ed è sulla questione palestinese. Nel febbraio 2010 Berlusconi sbarcò nel vicino oriente a raccontare i suoi sogni: “Annoverare Israele fra i Paesi dell’Unione europea” (anche se Israele non voleva saperne) ; “varare un Piano Marshall per il Medio Oriente” (anche se l’Italia avrebbe contribuito a parole più che in cash, dopo che il suo governo ci aveva ridotti in bolletta) ; assolvere i guerrieri israeliani dall’operazione “Piombo Fuso” definendo “giusta reazione” l’aver ucciso 1387 “murati vivi” di Gaza per vendicare la morte di tre israeliani. Visitando infine Ramallah, alla domanda di un giornalista sul “muro della vergogna” eretto dagli israeliani, Berlusconi rispose di “non essersi accorto del muro”: strano, perché quel muro alto otto metri, condannato dalla Corte dell’Aja, quel muro che soffoca i Territori occupati, che separa i contadini dai loro campi e i villaggi dalle prese d’acqua, quel muro incombe in modo spettrale su chi viaggia verso Ramallah.
La recentissima missione in Israele del premier Monti, con uno stuolo di ministri al seguito, ha ricalcato umori e posizioni del suo predecessore. Da onesto uomo com’è, non ha ripetuto la sciagurata battuta su muro, ma gliene è scappata un’altra (“Gli italiani ammirano molto Israele per ciò che rappresenta”), che ha fatto esplodere un grido unanime sui forum on line, inclusi quelli più compassati: “Presidente Monti, non in mio nome! ”. Gran parte degli italiani, infatti, stentano a capire perché mai dovrebbero “ammirare” uno Stato che viola da 60 anni tutte le Convenzioni di Ginevra, che ha subito più condanne dall’Onu di qualsiasi altro, che più s’avvicina a un sistema di apartheid, che possiede il maggior numero di testate atomiche per km quadrati (e neppure le dichiara rifiutandosi di aderire al Trattato di non proliferazione). Se i funzionari della Farnesina venissero sguinzagliati in giro per l’Italia a spiegare come mai la Palestina non può esser membro pieno dell’Onu, mentre Nauru, Vanuatu e certi “paradisi fiscali” dei Caraibi sì, fallirebbero nell’arduo compito. Inoltre, ora neppure si trattava di concedere alla Palestina la full membership, ma solo lo status di Paese osservatore come il Vaticano.
IL BELLO è che tutti – l’Onu, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario – hanno messo nero su bianco che i palestinesi sarebbero in grado di gestirsi come uno Stato di pieno diritto, purché fossero liberati dall’occupazione militare; ma il governo occupante sostiene il contrario… senza tuttavia consentire la “prova del pudding”! Anche questa assurdità ha indotto il governo Monti a optare per il sì all’ultimo momento. La destra euro-americana, invece, persistendo a negare la soluzione dei “due Stati” e a garantire l’impunità a Israele, sta in realtà scavandogli la fossa: non per nulla è proprio lì, all’estrema destra, che s’annida da sempre l’antisemitismo.

Corriere 1.12.12
Ultima opportunità per dare vita a due Stati sicuri e indipendenti
di Daniel Barenboim


Il 29 novembre è una data storica. Il 29 novembre 1947 le Nazioni Unite, con il «Piano di partizione della Palestina», stabilirono la suddivisione della regione in un territorio per gli ebrei e uno per i palestinesi. Fino a quel giorno eravamo tutti «palestinesi»: musulmani, cristiani ed ebrei. La ripartizione del 1947 fu accolta con gioia dagli ebrei di tutto il mondo e rifiutata dal mondo arabo, che considerava la Palestina come una terra propria ed esclusiva. Seguì una guerra, cominciata il giorno dopo la dichiarazione d'indipendenza dello Stato d'Israele, il 14 maggio del 1948. Il 29 novembre 2012, esattamente 65 anni dopo, i palestinesi hanno chiesto e ottenuto a grande maggioranza il riconoscimento dello status di «Stato osservatore» presso le Nazioni Unite. Questi sono semplicemente i fatti. Un'interpretazione potrebbe essere: hanno avuto bisogno di 65 anni per rendersi conto che Israele è divenuta una realtà innegabile e sono dunque pronti ad accettare il principio della ripartizione del territorio palestinese rifiutato nel 1947? In questo senso diventa chiaro che la decisione presa ieri dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite deve essere un motivo di soddisfazione anche per lo Stato d'Israele. Non voglio dare lezioni di morale o di strategia politica né agli israeliani né ai palestinesi; però desidero ricordare che se questo conflitto non è stato risolto per molti anni, è forse perché né gli uni né gli altri e nemmeno il resto del mondo, ne hanno colto l'essenza profonda. Il conflitto israelo-palestinese non è un'ostilità politica tra due Stati che si possa risolvere con mezzi diplomatici o militari: un dissidio politico tra due nazioni può riguardare problematiche relative ai confini, al controllo dell'acqua, del petrolio o casi simili. Questo è prima di tutto un conflitto umano tra due popoli che sono profondamente convinti di avere entrambi il diritto di vivere nello stesso piccolo territorio e preferibilmente in maniera esclusiva. È ora, anche se tardi, di riconoscere il fatto che israeliani e palestinesi hanno la possibilità di vivere o insieme, o uno accanto all'altro, ma non negandosi. La decisione presa ieri da 138 Paesi è forse l'ultima opportunità per dare vita al progetto di due Stati indipendenti, sicuri, ognuno con un proprio territorio continuo e non frammentato. Forse è il destino o la giustizia del tempo che dà oggi ai palestinesi la possibilità di iniziare un processo verso l'indipendenza in maniera identica a quelli che furono gli esordi dello Stato israeliano. È il momento giusto anche per le riconciliazioni interne, essenziali per risolvere la situazione, a partire da quella tra Hamas e Fatah, riconciliazioni necessarie per avere un'unica posizione e direzione politica. D'altra parte è un errore pensare, come spesso accade, che sia meglio avere di fronte a sé un nemico diviso; per questo, anche per Israele è meglio che i palestinesi siano politicamente uniti. Sono altresì cosciente che i palestinesi non accetteranno mai una soluzione ideologica al conflitto, perché la loro storia è diversa e dovrebbe essere lo Stato d'Israele a cercare una soluzione pragmatica. Credo infine che gli ebrei abbiano un diritto storico-religioso di vivere nella regione ma non in forma esclusiva. Dopo la crudeltà europea verso il popolo ebraico nel ventesimo secolo ci sarebbe la necessità di aiutarlo ora con i suoi problemi per il futuro e non solo riconoscendo le responsabilità del passato. Sono commosso dalla quantità di nazioni che hanno votato a favore della risoluzione; mentre mi rattrista la posizione assunta dal governo israeliano, che mi sembra poco lungimirante nel non cogliere le opportunità che si offrono per un futuro migliore, e degli Stati Uniti, l'unico Paese in grado di far pesare la propria influenza. Mi riempie di felicità che l'Italia, dove trascorro diversi mesi l'anno in qualità di Direttore Musicale del Teatro alla Scala, abbia votato a favore di una speranza per tutti i popoli della regione.

La Stampa 1.12.12
“Polizia alleata dei picchiatori Ad Atene è tornato il terrore”
Lo scrittore Psarras: agenti fra i violenti di Alba Dorata
di Fabio Sindici


Nei caffè della bohème studentesca nel quartiere di Exarchia, ad Atene, come nei blog della galassia dei gruppi anarchici e insurrezionalisti greci, si avverte un allarme nuovo. E un brivido. È la paura che la polizia possa passare nomi e indirizzi delle persone fermate durante le manifestazioni ai militanti di Chrysi Avgi (Alba Dorata), il partito di estrema destra responsabile di una recente escalation di violenza verso gli immigrati e gli oppositori. E che oggi, nei sondaggi, è il terzo partito greco. Nei giorni passati, diversi manifestanti arrestati hanno raccontato di essere stati minacciati da funzionari della polizia con lo spauracchio di Alba Dorata. «Gli daremo i vostri indirizzi e numeri di telefono», avrebbero detto. La polizia greca ha smentito.
«In realtà non c’è nessuna ragione perché i poliziotti dei reparti antisommossa dovrebbero passare questi dati agli uomini di Chrysi Avgi, visto che si tratta, alla fine, delle stesse persone» spiega Dimitri Psarras, giornalista di lungo corso e autore di un libro, «La Bibbia Nera dell’Alba Dorata» (edizioni Polis), appena pubblicato in Grecia, che racconta le origini e la resistibile ascesa del partito di Nikolaos Michaloliakos. «Gli schedari della polizia sono aperti per Alba Dorata: durante gli scontri di piazza si spalleggiano gli uni con gli altri», dice lo scrittore. «Alle ultime votazioni, il 40% dei poliziotti ha votato per questo partito. Si tratta di dati verificabili, perché i poliziotti, che si concentrano per la maggior parte ad Atene, votano in seggi riservati solo a loro. Non solo: nei reparti speciali della polizia ci sono membri delle squadre paramilitari del partito».
Sono, secondo lo scrittore, gli stessi che, in maglietta nera, controllano i permessi degli stranieri e rovesciano i banchetti illegali ai mercati, che si scontrano in piazza con gli anarchici, che gridano slogan neo-nazisti. Le identità dei poliziotti non vengono controllate? «C’è omertà all’interno delle forze di polizia e non si conoscono i nomi dei membri dell’ala militare di Alba Dorata. Si tratta di persone che a volte non sono neppure iscritte al partito. Del resto, non è chiaro neppure il numero degli iscritti, l’ultima volta che sono stati registrati erano 200, ora devono essere migliaia, i dirigenti da 4 sono diventati 20 e il partito ha 18 rappresentanti che siedono in Parlamento».
Sono molti i lati poco conosciuti di Alba Dorata. A cominciare dal nome. «Anche se ufficialmente viene fatto passare per una creazione poetica, il riferimento all’Ordine Ermetico della Golden Dawn (Alba Dorata, appunto, ndr), una setta esoterica esistita in Inghilterra alla fine dell’800, è evidente e risulta dagli opuscoli interni riservati ai dirigenti», racconta Psarras. La Golden Dawn aveva tra i suoi membri poeti come W. B. Yeats, ma anche uomini politici e aristocratici legati dalla passione per l’occultismo. Una parte di questi più tardi intrecciò rapporti con la tedesca Società di Thule, setta a sfondo esoterico, l’incubatrice del nazionalsocialismo. «Ho visto documenti interni in cui si inneggia a Alfred Rosenberg, l’ideologo della razza, e progetti deliranti, come quello di una riforma del calendario che parta dalla nascita di Adolf Hitler. Il capo indiscusso, Michailoliakos, da giovane è stato arrestato per attività terroristiche in gruppi vicini all’italiano Ordine nuovo».
Ci sono legami con il vecchio regime dei colonnelli? «Il numero due di Alba Dorata, Kristos Papas, è figlio di uno dei maggiori esponenti della dittatura. Sono forti anche i legami con l’esercito: Michaloliakos è stato ufficiale dei commandos, congedato con disonore per aver sottratto esplosivi e armi destinati ad attentati». Di recente, Antonis Samaras, il primo ministro, ha paragonato l’atmosfera in Grecia a quella degli ultimi anni della Repubblica di Weimar. «Ci sono molte similitudini, dalla feroce crisi economica, all’ascesa degli estremismi. Ma il contesto storico è diverso. Michaloliakos e i suoi stanno attuando una sorta di strategia della tensione come quella che avete conosciuto in Italia negli anni 70. Ma alcuni esponenti conservatori sono già tentati dall’idea di formare una coalizione con Chrysi. E il partito riceve finanziamenti dai grandi armatori: in parlamento hanno proposto esenzioni fiscali per il settore».
I militanti pattugliano le strade dei quartieri ad alta densità criminale. È una delle ragioni del suo successo? «La ragione principale è la mancanza di speranza: molti greci pensano di punire una classe politica inetta votando Alba Dorata. E poi diversi attivisti vengono da bande criminali. È il paradosso di Alba Dorata: è il primo partito nei ranghi della polizia e nelle prigioni».

l’Unità 1.12.12
Amore e Psiche
Due capolavori in mostra
Da oggi e per sei settimane le opere di Canova
e Gérard potranno essere ammirate a Palazzo Marino, Milano
di Flavia Matitti


‘LA FAVOLA DI AMORE E PSICHE, NARRATA DA APULEIO NEL SUO CELEBRE ROMANZO INIZIATICO dal titolo Le Metamorfosi o L’asino d’oro (II sec. d.C.), è tra le più ricche e complesse che l’antichità ci abbia trasmesso. La vicenda, che ha per protagonisti l’eroina Psiche e il suo amante Eros (Cupido), in origine era legata ai misteri di Iside, ma in quanto allegoria dell’anima umana, nel suo travagliato destino di caduta e redenzione, ha incontrato poi il favore del mondo cristiano, divenendo fin dal Rinascimento un’importante fonte di ispirazione per gli artisti. Tra tutti spicca naturalmente Raffaello autore di un magistrale ciclo di affreschi dipinto nella Villa Farnesina a Roma.
Ma anche a Milano da oggi e per sei settimane, fino al 13 gennaio 2013, si avrà la straordinaria opportunità di ammirare due capolavori neoclassici dedicati a questo soggetto: il gruppo scultoreo di Amore e Psiche stanti (1797) di Antonio Canova e il dipinto Psyché et l’Amour (1798) di François Gérard, entrambi provenienti dal Museo del Louvre ed esposti ora insieme, per la prima volta, nella Sala Alessi di Palazzo Marino (catalogo Rubbettino, a cura di V. Pomarède, V. Merlini e D. Storti; ingresso gratuito).
Grazie all’ospitalità del Comune di Milano e al sostegno di Eni, che con il Louvre (di cui è mécène exceptionel) ha stretto un accordo di partnership, per la quarta volta consecutiva giungono sotto Natale nella città lombarda i capolavori del museo francese. E dopo le passate edizioni, che avevano visto protagonisti nel 2009 il San Giovanni Battista di Leonardo, nel 2010 la Donna allo specchio di Tiziano e nel 2011 due dipinti di Georges de La Tour, quest’anno viene presentato un inedito confronto tra pittura e scultura e tra due artisti eccezionali, che attraverso la loro sensibilità hanno dato della favola di Amore e Psiche due diverse letture. Le due opere sono state realizzate ad appena un anno di distanza. Nel 1797 la scultura di Canova fissa i canoni estetici delle sue divinità ricche di dolcezza e di bellezza sensuale. Il dipinto di Gérard, pur essendo ispirato all’opera di Canova, è invece intriso di un erotismo conturbante molto apprezzato al Salon del 1798. Sia la Psiche di Canova sia quella di Gérard, esprimono il pudore e l’innocenza della fanciulla, sorpresa dal tenero gesto dell’altro. Ma mentre Gérard mostra i turbamenti dell’amore che sboccia tra due adolescenti, l’Amore di Canova ha sembianze quasi infantili. Le due opere sprigionano perciò una sensualità diversa e riflettono un diverso modo di intendere la bellezza.
La proposta di Eni, basata sulla gratuità e su un ampio corredo di strumenti di approfondimento, ha ottenuto un ampio consenso dimostrato dagli oltre 210mila visitatori della passata edizione. Quest’anno intorno al tema di Amore e Psiche è stato organizzato anche un ciclo di Incontri, moderati da Lella Costa (4, 11 e 18 dicembre ore 18, ingresso gratuito con prenotazione), tenuti presso il centro congressi della sala conferenze di Palazzo Reale.
Info 24h/24 numero verde gratuito 800.14.96.17 www.amoreepsicheamilano.it

Repubblica 1.12.12
Da oggi e per tutto il periodo delle feste sono esposti per la prima volta insieme al Palazzo Marino di Milano, grazie a Eni, la scultura e il dipinto neoclassici provenienti dal Louvre
Il matrimonio di due capolavori
di Cesare De Seta


Sin dall’antichità la pittura è considerata da Plinio la più nobile tra le arti figurative. Leonardo da Vinci eleva la pittura a “discorso mentale”, anche perché l’artista non deve sottoporsi al labor fisico che comporta la scultura, e ne esalta la dignità di conoscenza considerandola superiore alla scultura e la colloca tra le arti liberali. Mettere a confronto due opere dello stesso soggetto quale Amore e Psiche di Antonio Canova e di François Gérard, di uno scultore e di un pittore, è idea felice in sé, ma anche o soprattutto per la specifica e singolare pertinenza del marmo e della tela in oggetto. Succede per la prima volta a Milano, a Palazzo Marino. Nella Sala Alessi è allestita da oggi grazie ad Eni, in partnership con il Louvre, questa mostra, che si inserisce nel solco di quelle fortunate promosse dall’azienda negli anni passati: il San Giovanni Battista di Leonardo (2009), la Donna allo specchio di Tiziano (2010) e L’Adorazione dei pastori e il San Giuseppe falegname di Georges de La Tour. Tornando a Canova, lo scultore di Possagno aveva già realizzato tra il 1789 e il ’92 una Psiche stante con una farfalla in mano, da questa prima idea sboccia il gruppo con le due figure stanti abbracciate tra loro. I due bozzetti, al Museo Correr di Venezia e al Museo e Gipsoteca di Possagno, fissano la prima idea: «rapidissima, striata con la stecca sull’argilla per cogliere un istante della rappresentazione che sarebbe stata sviluppata nel primo modello al naturale ed in argilla», ben scrive Mario Cuderzo. Dal bozzetto fu tratta la forma per la realizzazione del modello in gesso definitivo, che è nella Gipsoteca. Il marmo, alto 145 cm, ha un’intenzionalità che per la modulata finezza è proprio definire pittorica; come in un inconsapevole specchio, Gérard dipinge una tela il cui modellato è proprio definire scultoreo. Ciò detto le due opere, accomunate da questo sottile gioco del ribaltamento dei ruoli formali, non hanno nulla in comune nel rappresentare il mito di Amore e Psiche.
Canova a partire dal 1796 per alcuni anni lavorò a questo gruppo su commessa del colonnello inglese John Campbell che aveva incontrato a Napoli nel soggior- no del 1787, ma l’opera non giunse mai in Inghilterra per la difficoltà del trasporto e fu acquistata dal maresciallo Gioacchino Murat, futuro re di Napoli, che la collocò nel castello di Compiègne: questo è l’esemplare al Louvre, mentre la seconda versione con variazioni sul panneggio di Psiche – dopo un giro per l’Europa – giunse in Russia ed è all’Ermitage di San Pietroburgo. Il soggetto di Amore e Psiche risale ad Apuleio, ma Canova nell’iconografia attinse a un dipinto di Ercolano con Fauno e Baccante, e sappiamo quanto fu importante per lo scultore la visita agli scavi delle città vesuviane dissepolte. Quel che va sottolineato è il pensiero che ispira il gruppo: non è né grazioso né eroico, poetiche congeniali a Canova e al Neoclassicismo, come nota Fernando Mazzocca, è piuttosto una riflessione sul concetto di anima, cioè “psiche” in greco, che assume le sembianze della farfalla che la fanciulla regge per le ali. Il dio sembra quasi farsi proteggere dalla fanciulla, è visto di profilo e reclina il capo sulla spalla di lei, un braccio la cinge ponendole la mano sulla spalla. L’altra mano di Amore sembra voglia custodire la farfalla che l’amata ha in mano: Psiche è raffigurata frontalmente e c’è un arcano senso di mistero in questo gruppo che s’evince dall’amorosa intesa tra i due che è pura, esaltata questa purezza dalla straordinaria venustas con cui sono modellati i corpi dei giovani. Che il referente sia la statuaria antica è fuori discussione. François Gérard, nato a Roma nel 1770 dove visse fino a dieci anni, aveva madre italiana e sposò un’italiana, ritornò a Roma dal 1782 al ’86, e poi ancora tre anni dopo all’Accademia di Francia, per essersi guadagnato il secondo posto al Prix de Rome, dopo Girodet. A Parigi nel 1786 era stato ammesso nell’atelier di Jacques-Louis David che lo protesse evitandogli la coscrizione e lo considerò sempre tra i suoi allievi più dotati, tra i quali figurano Girodet, Serangeli, Chaudet e Prud’hon. Ingres entrò nello studio di David nel ’97. È questo il clima culturale in cui matura Amore e Psicheche viene presentata al Salon del 1798, suscitando reazioni contrastanti. Sylvaine Laveissièr ce ne dà conto in catalogo, ricordando il tema del primitivismo e la consonanza con l’antico che furono evocati. Quantunque avesse uno studio al Louvre, Girodet si guadagnò da vivere facendo per anni l’illustratore per opere di lusso dell’editore Pierre Didot, assieme a altri allievi di David, che era il regista di questa prestigiosa collana. Infatti Gérard aveva illustrato lo stesso tema per Les Amour de Psiché et de Cupidon di La Fontaine: ma l’iconografia è assai diversa dal dipinto. I due giovani sono in piedi e si abbracciano con una certa voluttà. Pierre-Paul Prud’hon aveva presentato al Salon del 1793 L’unione di Amore e Amicizia, che è una variazione del tema, ma in tal caso dio e fanciulla sono seduti e inseriti in un contesto paesistico non esente da reminiscenze roccaille. Dunque il dipinto di Gérard è l’esito di una ricerca innovativa e nell’iconografia prescelta ha una variazione molto sensibile rispetto al gruppo canoviano: Psiche è seduta su un sasso, Amore si accosta a lei in piedi, le bacia la fronte e ha due vistose ali. La tela, che misura 186 per 133 cm, fu esposta al Salon dell’anno VI nel 1798 e incarna un’idea di bellezza raffinata e sublime, che evoca la pittura rinascimentale. Psiche ci guarda con il suo bellissimo volto di raffaellesca eleganza, mentre il giovane è visto di profilo col corpo reclinato per accostarsi all’amata. In questa tela alita un’intenzionalità metafisica e neoplatonica, così diffusa in età rinascimentale e resuscitata in età neoclassica, vale a dire l’unione dell’anima umana e dell’amore divino. In tal caso la farfalla volteggia sul capo della fanciulla e non è tra le sue mani. La tela, che era stata preceduta dal gruppo di Canova di alcuni anni, esprime originalmente la sottile mescolanza tra una contenuta sensualità e una certa freddezza. La fanciulla è nuda, solo un velo ricopre gambe e bacino, ha un sguardo sognante. Il paesaggio, in cui sono immersi gli eroi di questo dolce mito amoroso, è idillico, forse con una inclinazione poussiniana.

Repubblica 1.12.12
Il tabù di Eros, dio bello e invisibile
Perché nel mito alla fanciulla-Anima è vietato vedere il suo amante
di Umberto Galimberti


Narra il mito che una fanciulla di nome Psiche, figlia di un re, a causa della sua straordinaria bellezza, aveva suscitato l’invidia di Afrodite. La dea allora incarica Eros, suo figlio, di accendere in lei un amore insopprimibile per il più brutto degli uomini, ma Eros, quando la vide, si innamorò di Psiche, la rapì e, dopo averla portata in un luogo segreto, ogni notte, senza farsi riconoscere, la incontrava, per poi lasciarla ai primi raggi di sole senza svelare la sua identità. Ma Psiche, su istigazione delle sorelle che le fecero credere che ogni notte abbracciava un mostro orribile, si accostò ad Eros dormiente con una lampada accesa. E fu allora che si accorse che non di un mostro si trattava ma di un giovane e bellissimo dio. Accadde però che una goccia d’olio cadde sul corpo di Eros che, destatosi, abbandonò Psiche, la quale, in preda alla disperazione per la perdita dell’amato, prese a vagabondare disperata finché giunse nel palazzo di Afrodite che la ridusse in schiavitù. Ma Eros, che non poteva a sua volta trovar pace senza Psiche, riprese a incontrarla, e alla fine i due l’ebbero vinta sulla gelosia di Afrodite e restarono uniti per l’eternità. È curioso che uno dei miti più amati e rappresentati nella storia dell’arte occidentale sia basato proprio sull’invisibilità: Eros non vuol farsi riconoscere da Psiche (l’anima), perché l’amore non ha un volto, non ha un’identità, non ha dei lineamenti riconoscibili, per la semplice ragione che amore è una “forza” che, quando invade l’anima, la possiede e la fa peregrinare, tra entusiasmi e sofferenze, in un mondo fantastico che ha poca attinenza col mondo reale. Infatti, conosciamo Amore non perché lo “vediamo”, ma perché lo “sentiamo”, non perché sta di fronte a noi o abbracciato a noi, ma perché ci “possiede”, e in questo stato di possessione ci fa delirare, ossia uscire dal “solco ( lira) ” in cui monotonamente trascorreva la nostra vita, gettandoci in un’altra vita piena di “entusiasmo” perché, posseduta da amore, l’anima è abitata dal dio (en-theos).
Ma chi sono gli dèi se non la rappresentazione trasfigurata della follia che ci abita, e che quotidianamente teniamo a bada con i nostri sforzi di ragionevolezza che amore rende vani, mettendoci in questo modo a contatto diretto con la nostra follia? Sarà per questo che Platone, che pure ha inventato il nostro modo di pensare e ragionare, parla di amore come di una “divina follia”, anzi della «più eccelsa sotto l’influsso di Afrodite e di Eros» (Fedro, 265 b), e perciò dice che «la follia dal dio proveniente è assai più bella della saggezza d’origine umana» ( Fedro, 244 d). La follia generata da amore non ha un volto, perché tutti i volti sono suoi, perciò non è riconoscibile, non la si può “vedere”, la si può solo “sentire”, anzi “subire”, anzi “patire”. Per questo parliamo d’amore come di una “passione”, perché in preda alle cose d’amore il nostro io, la nostra razionalità “patiscono” una dis-locazione che Socrate chiama a-topia. Amore infatti porta fuori dal luogo (topos) dove solitamente si svolge la vita. Crea uno stato di estraneità rispetto agli spazi e ai tempi che scandivano la nostra esistenza. E-straneo al consueto svolgersi della quotidianità, l’amore e a-topos, è fuori luogo.
Si dirà, ma a differenza di Psiche, io vedo in volto chi mi ha catturato l’anima e mi possiede. Certo, ma non è da lui o da lei che sei posseduta o posseduto, ma dalla tua follia che lui o lei ha risvegliato e con la quale ti ha messo in contatto. Non diresti altrimenti nell’acme dell’amore: “mi fai perdere la testa”, “mi fai impazzire”. Non sono modi di dire, ma modi d’essere nella possessione d’amore.
Per effetto di questo contatto con la propria follia, grazie all’altro o all’altra che l’ha risvegliata, dopo una storia d’amore, qualunque sia il suo esito, non siamo più quello che prima eravamo. Perché, prima della violazione dei corpi, è la nostra anima che è stata violata squilibrando la nostra identità e le sue difese. Siamo entrati in contatto con l’altra parte di noi stessi e il nostro volto non è più riconoscibile come eravamo abituati a conoscerlo. Per questo Psiche non può vedere il volto di Eros. Amore non ha volto. Amore è una forza che possiede l’anima e, dopo averla posseduta, con la potenza che può avere solo un dio, la ri-genera.

Informazioni utili
“Amore e Psiche” da oggi al 13 gennaio 2013 al Palazzo Marino di Milano, Sala Alessi, grazie ad Eni in partnership con il Museo del Louvre i capolavori di Antonio Canova e François Gérard per la prima volta insieme. La mostra gratuita è curata da Valeria Merlini e Daniela Storti. Catalogo: Rubbettino Editore. A Palazzo Reale gli incontri moderati da Lella Costa (4, 11 e 18 dicembre alle 18, gratis con prenotazione)

Repubblica 1.12.12
Amore e psiche
Nel Settecento con l’inizio degli scavi di Pompei ed Ercolano si sviluppa l’attenzione per i particolari archeologici: nasce l’estetica del Neoclassicismo
Quando esplose la passione per l’antico
di Anna Ottani Cavina


La passione bruciante per il mondo antico era scoppiata più o meno negli anni Quaranta del Settecento e coincide con la “resurrezione” delle città sepolte di Ercolano e Pompei e la conseguente caduta dei modelli correnti di conoscenza. L’incontro con i primi scavi era stato a dir poco uno choc, se l’eccitazione di quegli anni, segnati dalle scoperte archeologiche (130 campagne di scavo investirono la città di Roma nei soli cinque anni del pontificato di papa Pio VI), può essere còlta nella reazione esaltata di Giovan Battista Piranesi che «aveva escogitato di cuocere ogni domenica una grande caldaia di riso che potesse bastare per tutta la settimana» per potersi precipitare sui luoghi di scavo senza perdere un solo minuto. Nasceva allora il mito di un’antichità esemplare, origine e anche rimpatrio dell’anima classica, paradiso perduto e ancora promesso. Antichità come futuro.
Ma le “colorazioni” dell’età neoclassica, sull’onda di una nuova travolgente passione per l’antico, erano tante e molto diverse. Canova, nell’intero suo percorso di pittore e scultore, legge l’antichità filtrata dal pensiero di Winckelmann, che del Neoclassico era stato il profeta e il teorico. E sceglie il versante di una grazia intellettuale e sublime, tenera e sentimentale, nutrita dal mito di Atene: incontro fra bellezza e natura. Mentre il rapporto bellezza-libertà (dove l’ideale estetico veniva a coincidere con l’ideale politico) aveva alle spalle la fierezza di Sparta e l’etica austera della Roma repubblicana, trovando nelle icone statuarie del pittore Jacques-Louis David la sua definitiva consacrazione nel presente.
L’estetica della grazia come “aurora” della bellezza – chiave di lettura per L’Amore e Psiche di Canova e anche per quello di François Gérard esposti in questi giorni a Milano – fa riferimento a una grazia filtrata dall’intelletto, lontana dall’epidermica sensualità rococò che aveva caratterizzato il primo Settecento, reattiva invece alla purezza, all’innocenza e a quelle inclinazioni affettive, esaltate nell’età dei Lumi e poi di nuovo nell’età romantica. Il manifesto di questa poetica della grazia è naturalmente in una dichiarazione di Winckelmann, che celebra l’eterea eleganza delle Danzatrici dipinte su fondo nero, scoperte in una villa romana a Pompei: «fugaci come un’idea, fluide quanto il pensiero e belle come se fossero fatte per mano delle Grazie». Da allora, le danzatrici-libellule della decorazione parietale romana si sono librate per un lunghissimo volo, conquistando l’Europa a un ideale di grazia immateriale e alessandrina.
Canova ne è folgorato. Risponde con una suite di disegni e di tempere su tela grezza, variazioni bellissime sul tema delle danzatrici. E butta all’aria in un soffio il lungo tempo di posa che aveva caratterizzato l’immagine antica. I giochi d’amore della civiltà ellenistica, conosciuti attraverso le campagne di scavo e riletti con lieve ironia, acquistano allora uno scatto e una tensione improvvisa, che affiora in quegli anni anche nelle odi di Foscolo («quando balli disegni, e l’agile corpo all’aure fidando... »).
Contro la lastra compatta di un nero che simulava l’encausto romano, le ballerine di Antonio Canova (oggi si vedono nel museo di Possagno) danzavano gonfiando le loro vesti moderne di mussola à pois, scintillanti ed estrose come in un girotondo di fate, inafferrabili a due passi da noi.
Reintroducevano una cifra stilistica antica, ma erano anche l’emblema di una bellezza scattante e moderna che scivolava nel quotidiano della vita se è vero che un artista inglese, John Flaxman, disegnando “from Nature” (dal vivo) i giochi di due bimbe nel sole italiano, le ritrae a piedi nudi e vestite di veli, sulla falsariga delle danzatrici dipinte a Ercolano.
Come si vede, l’antico era un filtro inevitabile, un codice linguistico accettato e universale, fondato sulla validità del modello classico. Ma quel modello non era neutrale ed univoco. Il passato poteva essere inteso come mito rassicurante e positivo, come archetipo per potersi orientare e agire sul presente, attraverso il rilancio di quelle virtù civiche e politiche che furono il canone della Rivoluzione.
Ma il passato, nell’età neoclassica, poteva essere percepito anche come fardello, per via della sua perfezione inattingibile e paralizzante.
La disperazione dell’artista davanti ai frammenti dell’antichità, immagine celeberrima disegnata da Füssli, è l’espressione di quella condizione frustrante, che una distanza infinita separa dalla grazia ellenistica di François Gérard e dalla bellezza adolescente, luminosa e spirituale che è il lascito di Antonio Canova.

Repubblica 1.12.12
Amore e Psiche
Dagli affreschi di Raffaello per la Villa Farnesina alle inquietudini di Munch Ecco come la leggenda ha ispirato i maestri attraverso i secoli
Il mito più amato dagli artisti
di Lea Mattarella


Amore e Psiche hanno attraversato tutta la storia dell’arte. Sono molti gli episodi della favola narrata da Apuleio che vengono rappresentati dai pittori e dagli scultori nel corso del tempo.
Nel Rinascimento ai due innamorati che si muovono tra la terra e l’Olimpo vengono dedicati cicli pittorici straordinari come quello che Raffaello e la sua scuola realizzano, tra il 1517 e il 1518, per La Farnesina, la villa di Agostino Chigi a Roma. Qui, in un trionfo di festoni di fiori e di frutta di ispirazione classica, sono raffigurati su finti arazzi gli episodi trionfali di questa storia d’amore piena di simboli e significati: Il concilio degli dei che acconsente alle nozze tra i due e Il banchetto degli dei in cui si festeggia Psiche, resa immortale da Giove, e unita per sempre in matrimonio ad Amore. È significativo come ciò che appare dipinto in questa celebre loggia corrisponda perfettamente alla storia narrata dall’Asino d’oro di Apuleio, come se Raffaello e compagni avessero davvero messo in scena una rappresentazione teatrale del testo. Tra nudi, danze, elmi, drappi, corone di fiori si celebra visivamente un rassicurante lieto fine.
Giulio Romano e Perin del Vaga fanno parte della pattuglia di artisti chiamati a collaborare da Raffaello. Entrambi dedicheranno alle storie di Amore e Psiche due decorazioni che finiranno per essere tra le più importanti della loro carriera. Celeberrimi sono il banchetto rustico e quello degli dei affrescati dal primo tra il 1527 e il 1530 nella Sala di Psiche di Palazzo Te a Mantova. Dove, tra l’altro, compaiono nelle lunette tutte le vicissitudini a cui la fanciulla va incontro dopo aver spiato le fattezze del suo amato: eccola tra Tristezza e Ansietà, oppure addormentata dopo essere stata investita dal sonno infernale di Proserpina, o circondata dalle formiche che la aiuteranno a dividere le diverse specie di semi secondo l’ordine ricevuto da Venere. Qualche anno dopo, nel 1545, Perin del Vaga dipinge un fregio con dieci scene da Apuleio nell’appartamento di Paolo III in Castel Sant’Angelo. Qui fa la sua apparizione gloriosa il momento forse più amato dalla pittura successiva, quello in cui Psiche guarda furtivamente Amore e lo sveglia con una goccia di olio che cade dalla lampada con cui lo illumina. Perché il pontefice avesse scelto tale ciclo è presto detto: Psiche rappresenta in questo caso il percorso che l’anima deve compiere tra le traversie e le difficoltà del mondo per arrivare a Dio, allo spirito, all’immortalità. In chiave religiosa interpreta la vicenda di Psiche anche il pittore a cui si devono le decorazioni di Palazzo Spada-Capodiferro volute dal cardinal Girolamo Capodiferro negli anni del Concilio di Trento.
Nel Settecento invece questa storia appassionante diventa un po’ il manifesto della vittoria dell’amore sulle restrizioni sociali: se il dio si è innamorato di una mortale e l’ha portata con sé nell’Olimpo significa che ci si può scegliere per affinità e non per casta. I pittori colgono anche il lato sensuale della vicenda: Jacques-Louis David raffigura una Psiche addormentata accanto a un giovane Amore dall’aria soddisfatta e un po’ sorniona. Mentre François-Edouard Picot inquadra il dio che sta per andar via dopo una notte d’amore. Guardando l’abbandono della donna si capisce come dai due sia nata una figlia come Voluttà. Tra i quadri a più alta gradazione erotica c’è sicuramente quello di Jacopo Zucchi che mostra in una specie di alcova dominata dal rosso una Psiche nuda ma ingioiellata che sveglia il suo amato: i fiori che coprono i genitali di lui sembrano alludere senza tanti preamboli al suo desiderio. Pieter Paul Rubens ne dà una versione dal forte impatto scenografico ritraendo la donna quasi persa in un paesaggio mentre accoglie l’aquila di Giove che la aiuterà a riempire il vaso con l’acqua del fiume infernale.
C’è anche chi preferisce interpretare la scena in termini malinconici come succede ad Andrea Appiani nella Villa Reale di Monza, o allo scultore Pietro Tenerani che la ritrae triste e sola come Psiche abbandonata oppure svenuta con le piccole ali di farfalla che sembrano aver perso i sensi con lei. Il disagio, la solitudine dell’uomo moderno non risparmia nemmeno Amore e Psiche. Guardate la versione di Edvard Munch: due figure che più che amarsi sembra si fronteggino, fluide, inafferrabili, ben lontane dall’abbraccio neoclassico.

il Fatto 1.12.12
Epurazione all’italiana per gli accademici della razza
di Angelo d’Orsi


Paesi che hanno attraversato i totalitarismi novecenteschi hanno affrontato tutti il trauma della transizione democratica. Che fare di coloro che si erano compromessi con i passati regimi? In Italia le cose sono andate in modo morbido, non per una sorta di originario carattere degli italiani – bontà, allegria, leggerezza, generosità, virtù che potrebbero anche essere lette come sciatteria e pressappochismo; la causa fondamentale fu politica, e legata al desiderio di Togliatti di pacificazione, per ricostruire il paese in una sorta di larghe intese con il mondo cattolico, largamente compromesso con il fascismo. Risultato? A differenza della Germania che avviò un ripensamento dell’esperienza, in Italia una poderosa amnistia lavò con i crimini anche la coscienza.
NONDIMENO ciò che non è stato fatto dalla politica è stato compiuto, sia pure lentamente, dalla storiografia. L’ultimo risultato in ordine di tempo emerge da un libretto di Barbara Raggi (Baroni di razza. Come l’università del dopoguerra ha riabilitato gli esecutori delle leggi razziali, con prefazione di Pasquale Chessa, Editori Internazionali Riuniti), un lavoro che, va detto, non ha tutte le carte in regola sul piano scientifico, ma interessante e vivace, che affronta, in modo un po’ random, le vicende relative ad alcuni personaggi coinvolti, sia pure non direttamente nelle vesti oscene dei carnefici, nella politica razziale dal 1938 in poi. Ma, sottolinea la Raggi, impietosamente, e non sempre con argomenti del tutto persuasivi, essi furono colpevoli allo stesso modo. Soprattutto l’autrice mette il dito non tanto sulle loro colpe, quanto su quelle dell’accademia italiana, che con grande prontezza raccolse quei suoi “figli” sottoposti ai rigori dell’epurazione, almeno nei suoi primi tempi, prima che ci si ponesse una pietra su.
Il libro si sofferma su alcune figure, quali Giacomo Acerbo, Nicola Pende, Gaetano Azzariti, Sabatino Visco, Antonino Pagliaro, Alessandro Ghigi e qualche altra comparsa. Si tratta di esponenti di varie discipline, da quelle giuridiche a quelle biologiche, tutti coinvolti, a partire dal ’38, o nella teorizzazione del razzismo, o nella sua applicazione pratica, o ancora nella gestione dei provvedimenti di discriminazioni volti a “salvare” gli ebrei o per meriti “patriottici” (provvedimenti assai ridotti di numero), o a dichiarare “non ebrei” coloro che certificavano variamente di esser tali, in un umiliante esercizio di autonegazione. La realtà è che larga parte del mondo universitario, fra protagonisti e comprimari, fu coinvolta nella politica razziale del fascismo, e anzi sulle “teorie” della razza si costituirono carriere accademiche, con apposite cattedre, riviste, trattati.
UNA DISCUSSIONE priva di qualsivoglia valore scientifico, che, a dispetto di dispute accanite, tra studiosi obnubilati nel cupo cielo del razzismo, finì nel nulla; ma i suoi effetti pratici nondimeno furono esiziali, per le vite, i beni, la dignità delle persone. Ripercorrere le tappe di questo cammino verso l’abisso è già di per sé un utile esercizio (morale, non soltanto intellettuale), ma più innovativo è il libro quando racconta le astuzie di costoro che, giustamente cacciati dall’insegnamento (talora addirittura condannati a lunghe pene detentive o addirittura a morte), vi rientrarono ricorrendo a un tessuto di complicità nel mondo universitario. Fu la logica del cane non mangia cane. E questa barricata autocorporativa fu persino più forte della volontà politica. Il caso di Giacomo Acerbo valga per tutti: autore della famigerata legge che diede ai fascisti minoranza in Parlamento la maggioranza assoluta dei seggi, relatore del d. l. del 1938 che istituiva in luogo della Camera dei deputati quella dei Fasci e delle Corporazioni, ministro, fu presidente del Consiglio superiore per la demografia e la razza, nel cui ambito elaborò un concetto di razza fatto per piacere insieme al duce e alla Santa Sede, pubblicando nel ’40 un inconfondibile Fondamenti della dottrina fascista della razza. Ma Acerbo ebbe la buona sorte di votare contro Mussolini nella notte fatale del 25 luglio. Ciò gli valse sì la condanna a morte al Processo di Verona ma anche da parte dell’Alta Corte italiana; sfuggito alla prima, amnistiato dalla seconda, ingaggiò un lungo braccio di ferro con la Commissione per l’epurazione e con lo stesso ministero della Pubblica Istruzione per essere reintegrato. E la vinse, grazie precisamente al sostegno unanime della sua facoltà (Economia) e della sua università (la Sapienza). Alla torta fu poi il presidente della Repubblica Antonio Segni ad aggiungere una ciliegina, conferendo nel 1962 al prof. Acerbo la medaglia d’oro per i “benemeriti della scuola”.

La Stampa TuttoLibri 1.12.12
Gabriella Armando
Nuove Edizioni Romane Compie 35 anni il marchio che ha inventato «un sacco di storie» a disegni e colori la responsabile è figlia dell’editore che pubblicò Popper
“Piccole donne crescono, e io con loro”
di Ferdinando Albertazzi

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Repubblica 1.12.12
Un saggio di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini ricostruisce le origini del cambiamento e ne spiega le ragioni
Il nuovo capitale
così hanno divorziato economia e democrazia
di Mario Pirani


Un libro fin troppo ricco di intelligenza e di provocazioni intellettuali, quello appena uscito di Giorgio Ruffolo col contributo di Stefano Sylos Labini, Il film della crisi. La mutazione del capitalismo (Einaudi, pagg. 128, euro 12), una narrazione ragionata dello stravolgimento economico che ha spinto e sta tenendo il mondo sull’orlo dell’abisso. La sceneggiatura, non a caso esplicitamente cinematografica, racconta in gran parte vicende che hanno riempito le cronache di questi ultimi anni, ma come le grandi pellicole ne dà una versione inedita e a volte sorprendente per gli spettatori, alcuni dei quali si sono fatti già una versione diversa dei fatti e faticano ad accettare la stesura escogitata, con spunti di assoluta originalità, almeno in alcuni passaggi, da uno degli ultimi pensatori socialisti del secolo. Per chi, come il sottoscritto, non concorda in tutto e per tutto col riformismo di sinistra del nostro autore farà bene a dar conto delle proprie perplessità, estrapolandole da un assieme, comunque, di assoluto apprezzamento.
La tesi centrale del libro è che la crisi in cui sono immersi i Paesi occidentali nascerebbe dalla rottura di un compromesso storico tra capitalismo e democrazia. La fase successiva a questa rottura – cioè quella attuale – può essere definita come l’Età del Capitalismo Finanziario e costituisce la terza mutazione che il capitalismo ha attraversato dall’inizio del secolo precedente. La prima fase è un’Età dei Torbidi, che si è verificata tra l’inizio del secolo e lo scoppio della seconda guerra mondiale. La seconda fase è costituita dalla cosiddetta Età dell’Oro: un sistema di intese fra capitalismo e democrazia fondato nell’immediato secondo dopoguerra su due accordi fondamentali, il Gatt (oggi Wto-Word Trade Organization) che riguardava la libera circolazione delle merci, cui faceva da contrappeso il controllo del movimento dei capitali, che assicurava un largo spazio all’autonomia della politica economica. Il secondo accordo è appunto quello di Bretton Woods, sul controllo dei cambi e le garanzie da movimenti incontrollati dei capitali, grazie all’aggancio monetario al metallo giallo e automaticamente, di converso, al dollaro.
Secondo i due saggisti la terza fase, con la rottura dell’Età dell’Oro, si produce con la liberazione del movimento dei capitali nel mondo, «una vera e propria controffensiva capitalistica, attuata dai leader di Usa e Gb all’inizio degli anni Ottanta che determina un mutamento fondamentale nei rapporti di forza tra capitalismo e democrazia e tra capitale e lavoro». Inzia l’Età del Capitalismo Finanziario ampiamente descritta nelle sue varie fasi e interventi, dominati dall’indebitamento pubblico e privato alimentato dall’illusione di vivere in «un sistema nel quale i debiti non si rimborsano mai». Per i critici la rappresentazione di questa fase del saggio si presterebbe a più di una osservazione. Mi limiterò ad indicare una mancanza che indebolisce alla base il paradigma ruffoliano. Chi sarebbero i soggetti – Capitalismo e Democrazia – che darebbero vita a questo scontro epocale? Chi concretamente li rappresenta? I grandi gruppi finanziari contrapposti a una fantomatica Democrazia?
La realtà cui ci apponiamo appartiene a un’altra storia, una storia reale, quella che ha visto il Comunismo, il suo sistema economico rigidamente regolato e protetto, la sua dittatura poliziesca, la sua forza militare, il suo appeal ideologico, contrapposti al Capitalismo e al suo sistema, basato sul libero mercato, indebolito a volte da quelle che si chiamarono “the failures of capitalism”, rafforzato, peraltro, in ultima istanza, dalla solidarietà atlantica. Tutto questo resse fino al 1989, la caduta del Muro di Berlino, che comportò, fra l’altro, la fine degli Stati del comunismo reale e il tramonto del compromesso che reggeva la coesistenza disagevole dei “due mercati”, quello del “socialismo reale”, amministrato dalle burocrazie sovietiche e quello del libero scambio. Ora, se è vera e convincente l’analisi della dittatura finanziaria nell’epoca delle traversie che tendono ad allargarsi a tutti i continenti, come non cercarne le radici, anche ideologiche, nel fallimento precedente? In particolare nel crollo dell’illusione fondante del sistema socialista di regolare l’offerta, la domanda e il livello dei prezzi attraverso la pianificazione quinquennale totalitaria. Una idea che pervase la pratica e la teoria dei partiti che al socialismo si rifacevano e il cui dissolversi si contaminò nel magma della globalizzazione, attraverso la libera circolazione degli uomini e dei capitali e nella unificazione in tempo reale dei sistemi internazionali attraverso la mondializzazione e l’informatica.
Ora mi chiedo se sia possibile confrontarsi con la crisi attuale senza calarsi nella diagnosi approfondita del socialismo reale e, in seguito, della globalizzazione? Come se tutto si fosse svolto in uno spazio sospeso, regolato da teoremi di opposta scuola e non immerso, invece, nella concretezza della storia degli uomini e della società, le cui regole, più che da certezze scientifiche, vanno cercate nella eterogenesi dei fini, impensabili fino al giorno precedente. Una prova di come sia più chiaroveggente la storia reale che quella derivante dalle teorie ce la fornisce proprio Ruffolo definendo il periodo hitleriano, in particolare quello tra il 1933 e il 1936 «uno dei più grandi fenomeni economici della storia moderna, persino più del tanto celebrato New Deal di F. D. Roosevelt», attraverso l’emissione promossa dal ministro delle Finanze Hjalmar Schact delle obbligazioni Mefo, una compagnia statale inesistente, i cui titoli non gravavano sul debito pubblico e non incidevano sull’inflazione, circolando solo in Germania. Un meccanismo, peraltro, in cui lo Stato e la Reichsbank ebbero un ruolo determinante, perché autorizzavano le emissioni e davano la garanzia. E ancora. Il giudizio favorevole ai Mefo e alle monete sostitutive sul piano interno, si rivelerebbe puramente velleitario se ignorasse, come in effetti indulgono Ruffolo e Sylos Labini, che il tutto si regge sul potere dittatoriale nazista. Senza le SS, i Mefo sarebbero carta straccia. Inoltre andrebbe ricordato che buona parte d’Europa si difese bene o male dalla Grande Crisi degli anni Trenta sulla premessa della caduta delle democrazie e l’instaurarsi di poteri dittatoriali, accompagnati da strumenti quali l’Iri in Italia, il Gosplan in Urss e, appunto, il Gifo in Germania, tutti resi funzionanti da due circolazioni monetarie, l’una per l’estero e l’altra per l’interno. Non se ne può copiare un pezzo senza assumersene il tutto.