domenica 2 dicembre 2012

l’Unità 2.12.12
Bersani: da lunedì una grande squadra
Da Milano a Torino, la frenetica chiusura della campagna del leader democratico
Poche citazioni per lo sfidante, il segretario si concentra già su Berlusconi e Grillo
Secondo l’ultimo sondaggio Ipr Marketing il segretario oscillerebbe tra il 57,5% e il 61,5%
di Simone Collini


Le diplomazie si mettono al lavoro la notte tra venerdì e sabato, dopo che il comitato di Matteo Renzi aveva denunciato «brogli» e quello di Pier Luigi Bersani aveva lanciato il monito a non «sabotare» le primarie. Attenzione che qui la vicenda sta scappando di mano, è l’allarme. Ancora un incontro a quattro all’alba (due per parte), in un bar del centro di Roma, per spiegare ognuno le proprie ragioni e poi, a metà mattinata, l’accordo viene siglato direttamente dal sindaco di Firenze e dal segretario del Pd via sms: giù i toni nell’ultimo giorno di campagna.
Prima, poco dopo lo scambio di messaggini, parte il tweet di Renzi con l’offerta di un caffé insieme a Milano e di un appello congiunto alla serenità. Ma soprattutto, arriva la frase che vogliono sentire nel fronte pro-Bersani: «Se perdo non parlerò di brogli». E poi c’è la risposta di Bersani. Non quella sul caffé insieme («per problemi logistici oggi è impossibile ma ci sarà sicuramente tempo per un pranzo, dopo»). Ma questa, che aspettano di sentire nel fronte pro-Renzi: «Sono dispostissimo a fare un appello alla serenità e alla regolarità. E sono sicuro che Matteo, che pure ha opinioni diverse sulle regole, le rispetterà».
Lanciati i segnali distensivi da ambo le parti, i due candidati chiudono la loro campagna elettorale in un clima decisamente più mite, nonostante qualcuno tra i sostenitori di Renzi tenti di riaccendere le polveri dopo che si viene a sapere qual è il numero delle nuove registrazioni.
UNA FESTA DELLA DEMOCRAZIA
Bersani, che secondo un sondaggio diffuso ieri da Ipr Marketing dovrebbe vincere il ballottaggio con un risultato compreso tra il 57,5% e il 61,5% dei consensi, ha tutto l’interesse a un abbassamento dei toni e a uno svolgimento sereno delle operazioni di voto. «Domani dobbiamo chiudere con una grande festa della democrazia, dopodiché ci si mette a lavorare assieme», dice non a caso in ognuna delle iniziative che fa tra Milano, Novara e Torino. «L’Italia ci guarda, anche un pezzo di mondo ci sta guardando, e dobbiamo essere tutti all’altezza del capolavoro che abbiamo fatto, che non deve essere assolutamente turbato». Per questo a Renzi lancia un «in bocca al lupo» e il messaggio che comunque vada «da lunedì lavoreremo assieme in una grande squadra, ciascuno nel suo ruolo».
Il leader del Pd resta convinto che il sindaco di Firenze abbia poche o nulle possibilità di vittoria («non ci scommetterei un cent», aveva detto l’altro giorno) e mentalmente è già proiettato verso la sfida per la conquista di Palazzo Chigi. Non a caso il discorso che fa chiudendo la sua campagna in un affollato Teatro Vittoria, a Torino, è più in chiave anti-Berlusconi e anti-Grillo, mentre a Renzi dedica soltanto un paio di veloci passaggi. Come quando dice che «la destra esiste, per quanto malmessa» e che si aspetterebbe dal suo «contendente fraterno Matteo» che almeno la nominasse, e che non la mettesse sullo stesso piano del centrosinistra come ha fatto l’altra sera in tv: «Se si vuole parlare dei problemi della scuola forse bisogna pensare alla Gelmini, non a Luigi Berlinguer». Renzi al confronto su Raiuno aveva infatti detto che la sua riforma «di sinistra ha solo il nome». Anche se, confessa Bersani, quello non è stato il passaggio che l’ha «scombussolato» di più. Semmai, dice citando per la seconda e ultima volta Renzi in un discorso durato oltre un’ora, è stato quando il sindaco ha detto che il problema in Medio Oriente non è il conflitto tra Israele e Palestina, ma l’Iran. «Neanche la destra dice certe cose. Bisogna aiutare chi cerca la pace e finirla di darla vinta a chi lancia i missili. E sulla Palestina dice facendo riferimento al voto in sede Onu l’Italia ha ripreso la dignità di un profilo di politica estera dopo che per dieci anni è stata compatita e derisa da tutto il mondo».
SUBITO UNA MISSIONE ALL’ESTERO
Neanche il riferimento alla Palestina, nel chiudere la campagna delle primarie, è casuale. Un po’ perché Bersani, che nei giorni precedente il voto delle Nazioni Unite aveva discusso della questione con Napolitano e con Monti, ritiene di aver giocato un ruolo non marginale rispetto al sì epsresso dall’Italia. E poi per un altro motivo. «Lunedì vi farò una sorpresa», dice Bersani ai giornalisti che incrocia nel foyer del Teatro Vittoria, mentre si allontana per andare a incontrare un gruppo di lavoratori precari. Il leader del Pd, se stanotte verrà proclamato vincitore delle primarie, intende infatti imprimere subito un segno preciso alla sua campagna elettorale per le politiche. Monti ha ridato dignità all’Italia all’estero, è il suo ragionamento, e il prossimo presidente del Consiglio dovrà ricollocarla nel suo giusto asse, che per Bersani è quello mediterraneo, in uno stretto rapporto con i Paesi arabi che vi si affacciano. Quindi l’idea, come prima uscita da candidato premier del centrosinistra, è proprio quella di organizzare subito una missione al di là del Mediterraneo.
Ma prima c’è il voto di oggi. A Bersani “basta” anche il 51%, e quello che più auspica per la giornata di oggi e per quella di domani è che la «festa della democrazia» non venga turbata. «Anche da me viene gente che vuole venire a votare e io dico che possono venire ma nel rispetto delle regole», spiega a chi gli chiede un commento sulle poche nuove registrazioni. Quanto a Renzi, non immagina un suo abbandono del Pd in caso di sconfitta. «È un personaggio che ha radicalizzato parecchio il tema delle primarie, però assolutamente non penso che possa andarsene».
Poi risale in auto, destinazione Piacenza, dove oggi andrà a votare. Diversamente dal primo turno, questa volta rientrerà però a Roma ad aspettare i risultati. La scaramanzia obbliga alla prudenza, ma per i festeggiamenti notturni è già stata prenotata la sala del Capranica.

La Stampa 2.12.12
E Bersani fa suo lo slogan “Il momento è adesso”
“Basta il 51 per cento, se poi c’è altro grasso ben venga”
di Giovanni Cerruti


«Adesso...! ». Ma non è lo slogan di Matteo Renzi, non lo è più. Alle 18,40, mentre scende le scale del Teatro Vittoria, e le infila quasi di corsa, l’ultimo comizio è appena finito, la sua campagna elettorale anche, è la risposta di Pierluigi Bersani alla domanda forse banale. Qual è il momento più bello? «Adesso...! ». Adesso che non c’è più niente da dire, solo aspettare il risultato di stasera. E poi, ammesso che le previsioni non siano balorde, sarà subito un altro adesso. «Basta il 51% per vincere. Se poi c’è dell’altro grasso ben venga». Ha una gran voglia di tornare a casa, a Piacenza. C’è da vedere in tv il derby Juve-Toro, adesso.
Avrà dormito meglio dell’altra notte, e non perché sia finita la campagna elettorale: è che sembrano davvero svanite le tensioni di venerdì sera. Nell’ultima giornata di comizi, aperitivo a Milano, panino a Novara, un caffè a Torino, non le ha nascoste. «Ho fatto le tre di notte», dice a Milano. Telefonate, sms, ancora telefonate. Non ha sentito Renzi, ha preferito che lavorasse il Genio Pontieri delle truppe bersaniane. In una versione alla Maurizio Crozza sarebbe un «Ragazzi, ma siam pazzi? ». Dev’esser stato qualcosa di più. All’alba, i mormorii sui brogli erano svaniti...
A mezzogiorno, quando arriva alla “Casa di Alex”, tra le case della periferia (una volta) operaia di Niguarda, un cortile con il pergolato di glicini che ospita la sede del Pd, quella dell’Anpi e quella del circolo Arci, Bersani ha appena ricevuto un altro sms da Renzi. Un caffè assieme, visto che sono anch’io qui a Milano? «Purtroppo non ce la faccio, mi aspettano a Novara. Un caffè? Anche un pranzo! », è il rilancio dal palco. Poi parla delle regole, e di «Matteo che ha idee diverse». Una voce lo interrompe: «Pessime! ». Ma Bersani finge di non aver sentito. «Prepariamoci ad una domenica di grande festa, Matteo ed io».
E’ con un altro “adesso” che chiude con le polemiche su chi può votare al ballottaggio e chi no, sulle mail, sugli sms, sulle voci di ricorsi. «Sulle regole adesso siamo d’accordo. Io, Renzi e tutti gli altri. Si rispettano». E c’è poco altro da aggiungere. «Non abbiamo bisogno di fuoco amico, perché di avversari ne avremo un bel tot, a partire dalla disaffezione e dallo scoramento». La sala della “Casa di Alex” applaude, anche qui c’è chi è rimasto fuori. «Una cosa così non l’avevo mai vista, c’è sempre più gente che posto. Sono stati due mesi meravigliosi. Credetemi, siamo più forti delle nostre debolezze».
Fino a sera, fino a Torino, il portavoce Stefano Di Traglia e l’addetta stampa Chiara Muzzi lavorano di tablet e telefonini. Buone notizie, dagli ultimissimi sondaggi. Basta che torni al seggio chi al primo turno ha votato Bersani. Le turbolenze del venerdì potrebbero aiutare, rimotivare. Ma nei tre comizi di Bersani non s’avvertiranno timori, solo diplomatica cautela. Certo le differenze con Renzi rimangono e rimarranno, ad esempio sul voto dell’Italia all’Onu a favore della Palestina: «Non può dire che quello non è il problema, il problema è dare una mano a chi cerca la pace, perché siamo stanchi di vedere bambini morti».
Negli ultimi comizi, si sa, che sia Bersani sia Renzi vanno a memoria. C’è il «non siam mica qui a pettinare le bambole». E c’è pure un «se mi arriva la metafora, ma non mi è ancora arrivata... ». C’è la chiusa che prende gli applausi della deputata Barbara Pollastrini a Milano, del capogruppo Pd in consiglio regionale Aldo Reschigna a Novara, del sindaco Piero Fassino o del vecchio Giusi La Ganga a Torino: «Quando toccherà a me, a noi del Partito Democratico, la prendo in contropelo. La prima cosa che dirò agli italiani è che non voglio piacervi, voglio solo essere creduto. Assieme, con la verità, verremo fuori da questa crisi».
A Novara il sindaco è Andrea Ballarè, “renziano” convinto, e qui al primo turno Bersani ha perso per appena 34 voti. Il salone dell’hotel Europa alle 14,30 è pieno, hanno sistemato una tv a circuito chiuso in un’altra sala. I novaresi non sono famosi per gli entusiasmi, ma le battute, da quel che si vede e sente, piacciono: «Monti ha i suoi meriti e li ha anche il suo predecessore: il confronto viene facile». Va sul semplice e se la prende con i giocolieri di parole: «Quelli che parlano di creare valore, che entra in tasca solo a loro. Il primo che mi parla ancora di creare valore metto la mano alla pistola...».
Le tre e mezzo del pomeriggio, a Torino lo aspettano per le cinque, via di corsa. Quando entra in città, in corso Giulio Cesare, lo accoglie un’enorme tabellone del «Movimento Vogliamo Vivere», con la faccia di Emilio Fede e lo slogan «La dignità è un diritto». Sulla Lancia gli scappa da ridere, ma al Teatro Vittoria è serissimo quando gli torna in mente quel megaposter. «In questi anni di berlusconismo e populismo ci hanno rubato le nostre parole: libertà, merito, opportunità. Le hanno però staccate dall’uguaglianza, così se non ce la fai è sempre colpa tua». Renzi, «contendente fraterno», anche a Torino lo sfiora appena.
Prima di entrare al Vittoria gli arriva una mail da Dori Ghezzi, che gli dedica un inedito di Fabrizio de Andrè: «E poi, ad un tratto, l’amore scoppio dappertutto». Non vale le lacrime da Bruno Vespa, quando ha rivisto babbo e mamma in un’intervista del 1996, ma la commozione c’è tutta. «Diamoci una mano. Dai, tutti assieme facciamo questo viaggio... », sono le ultime parole di una campagna elettorale finita in pace. O almeno così sembra. E adesso è il momento più bello, «quando sai di aver dato tutto». Questa sera del risultato arriva in fretta. E se andrà bene, come scommettono i suoi, sa già cosa dire. «Si ricomincia, adesso...! ».

Corriere 2.12.12
Bersani, obiettivo Palazzo Chigi «Il programma? Datemi un camion»
Ottimismo del leader, favorito dai sondaggi: il Pd è di gran lunga primo
di Monica Guerzoni


TORINO — «I ricorsi? Ci pensano i garanti…». Nella fredda sera torinese, dopo il comizio più lungo da quando si è candidato a premier, Pier Luigi Bersani scaccia con malcelato fastidio la coda polemica che ha rischiato di inquinare le «sue» primarie. Vuol far passare il messaggio di un leader che ha a cuore il destino del Paese ben più della sua carriera politica. Per 90 minuti - il tempo della sfida tra Juve e Torino che guarderà col fiato sospeso in tv prima di andarsene a letto, da favorito, nella villetta bianca di Piacenza - il segretario del Pd ha declinato le sue idee per Palazzo Chigi con l'aria del premier in pectore: «Dobbiamo cominciare a guardare alle elezioni, ce la possiamo fare». Dicono che il Pd non ha un programma? E lui, in bersanese stretto: «Porta il camion, che te ne carico un quintale».
Reduce dalle ultime tappe di Milano e Novara, apre la cartellina rosa ma poi parte a braccio e non si ferma più. Il pensiero del suo «contendente fraterno» Matteo Renzi non sembra turbarlo. Semmai lo angustiano le cattive condizioni meteo e la previsione che le primarie perderanno mezzo milione di votanti.
I sondaggi del Nazareno lo danno in vantaggio tra il 55 e il 62 per cento e dallo staff filtra la sensazione che le ultime mosse dello sfidante, contro i custodi delle regole, abbiano mobilitato più l'elettorato di Bersani. Se ha declinato l'invito a bere il caffè della pace, dopo un vorticoso giro di telefonate ed sms che anche i duellanti si sono personalmente scambiati, è perché non ha voluto spartire con il primo cittadino di Firenze la «sgradevole impressione» provocata dalla denuncia preventiva di brogli. Per tutto il giorno ha lavorato ad allentare la tensione e, da Torino, chiede a tutti di abbassare i toni leggendo un verso inedito di Fabrizio De André, che la moglie Dory Ghezzi ha dedicato al leader: «E poi ad un tratto l'amore scoppiò dappertutto».
Certo com'è che «Renzi rispetterà le regole», Bersani è già in campagna elettorale contro la destra che verrà. Berlusconi? Ancora lui: «Voglio credere che il buon Dio abbia smarrito lo stampino… Abbiamo fatto male a prenderlo in burletta. È un osso duro». Il senso del ragionamento fiume di Bersani è che non deve accadere più che «arrivi uno» e si prenda tutto: sia esso un Berlusconi nuovo o vecchio oppure un Beppe Grillo.
Battute, risate, metafore in libertà. Ma anche parole chiave come lavoro, moralità, libertà, uguaglianza. Il minuscolo Teatro Vittoria è pieno, tanti anziani, pochissimi giovani. Il sindaco Piero Fassino è in prima fila: «Ci sono tutte le condizioni perché sia Pier Luigi a vincere». Pensa che Renzi potrebbe lasciare il Pd? «No, chi dovesse pensare di separarsi resterebbe solo». I democratici, non fa che ripeterlo Bersani declinando il «noi», non sono mai stati così forti: «Il Pd è di "grandissima lunga" il primo partito del Paese». Sa che proveranno a fermarlo, ma sente che nel suo destino c'è il governo. «Ci sono candidature che non nascono dal nulla» ricorda, come per convincere i leader europei che il centrosinistra non è il problema, ma la soluzione. Per accreditarsi presso premier e capi di Stato Bersani sta preparando un nuovo tour nelle capitali, di concerto con i progressisti francesi e tedeschi.
A Casini, Montezemolo e a tutti quelli che pensano che Bersani non punti alla premiership, quanto a fare il vice di Monti, il segretario risponde orgoglioso: «Siamo troppo grossi per essere caricati su un carrettino a rimorchio. Non saremo quelli che portano le truppe perché i generali ce li han sempre gli altri!».
È finita. C'è appena il tempo di smentire ancora l'ipotesi di un ticket che «svilirebbe la competizione» e di incrociare le dita, quando gli chiedono se l'alzata di toni di Renzi non sia stata un boomerang: «Non saprei dire, so solo che i nostri vogliono che vada tutto bene…».

l’Unità 2.12.12
La libertà difesa dalle regole
di Michele Prospero


QUESTO GRAN RUMORE SULLA NECESSITÀ DI RIAPRIRE LA REGISTRAZIONE PER NON CADERE NELL’ACCUSA di voler bloccare d’imperio la partecipazione ai gazebo, dal punto di vista teorico, poggia sul nulla. La pretesa che il corpo elettorale costituisca non un universo dato ma un magma in perenne divenire scalfisce ogni univoca determinazione giuridica. Per definire l’ampiezza reale dei soggetti con diritto di voto, i partiti altro strumento idoneo non hanno che quello di indicare i tempi ragionevoli per effettuare l’iscrizione in calce agli elenchi pubblici.
Solo l’avvenuta registrazione certifica il godimento della cittadinanza attiva, direbbe Kant, che conferisce a ciascuno il formale diritto di votare. Pretendere che ai gazebo possano presentarsi folle che non hanno effettuato la preliminare procedura di registrazione è contrario a ogni principio di competizione liberale. È come se un americano chiedesse di votare alle presidenziali francesi o un romano pretendesse di votare per il sindaco di Palermo. La registrazione nelle primarie è l’equivalente della cittadinanza, requisito base senza di cui non si può votare.
Il popolo, nelle culture liberali, non è mai una entità naturale, esso si configura sempre, lo suggerisce Kelsen, come una puntuale e artificiale costruzione giuridica. E quindi il popolo o cittadinanza che può votare alle primarie è da intendersi non già qualunque corpo pretenda di infilare la scheda nell’urna, ma solo quella precisa entità giuridica la cui estensione è definita dalle regole sovrane che la coalizione ha deciso di darsi. Il popolo dei gazebo non è insomma una entità naturalistica o moltitudine, con il lessico di Hobbes, da accogliere in maniera indiscriminata, ma è una precisa entità giuridico-formale costruita con regole e forme valide che per tutti sono vincolanti.
È inoltre solo dentro un trasparente perimetro ideale e programmatico che le registrazioni sono consentite. Anche quando le primarie sono “aperte”, non è lecito per l’elettore di un altro raggruppamento scomodarsi per prestare soccorso a un candidato gradito. La libertà costituzionalmente tutelata non è mai quella di tutti di partecipare indiscriminatamente alla vita di tutti i partiti, anche di quello che si avversa.
Chi, in nome di una pretesa democrazia offesa da regole adottate in piena autonomia, pretende che il Pd faccia votare tutti, senza griglie formali stringenti, ed esorta i garanti a ospitare anche i nemici che intendono contaminare l’esito del voto ha deciso di giocare allo sfascio. Una illecita riapertura delle iscrizioni non solo predeterminerebbe le condizioni per l’annullabilità della contesa, ma coltiva una larvata pratica totalitaria. Dietro l’istanza in apparenza ultrademocratica, per cui nessun male c’è a che anche la destra smarrita voti per il candidato che la sinistra deve scegliere per la conquista del governo, cova infatti la logica ambigua del partito unico.
Le primarie hanno un senso solo perché sono di «parte». Se la demarcazione in parti distinte e tra loro in contesa cade esiste solo un unico metapartito che supera ogni differenza. Questa nostalgia per una democrazia in salsa popolare-giacobina, in cui le società parziali sono bandite e il conflitto tra le parti è visto come una malattia degenerativa, è però un incubo che la sinistra lascia volentieri ai media della borghesia italiana. Il pluralismo che esige il rispetto di ogni differenza ideale come un bene intangibile e di «parte» garantito dalla Costituzione.

l’Unità 2.12.12
Josefa Idem
«Ha fatto bene il suo lavoro: da presidente della mia Regione, da ministro, da segretario del Pd
Sono sicura che lo farà anche come premier»
«Bersani rappresenta la mia terra e le mie idee»
di Massimo Franchi


Dopo aver definito Grillo «un patacca» al termine della sua ultima gara a Londra, Josefa Idem ricevette un sms da Pier Luigi Bersani: «Sei l’orgoglio di tutti noi». Una stima ricambiata dalla plurimedagliata campionessa olimpica della canoa, nata in Germania, ma «ravennate ormai nel sangue». Ieri era a Modena insieme ad Enrico Letta per chiudere la sua personale campagna elettorale. «Parlo sempre a braccio, non mi preparo mai niente, ma le parole mi vengono spontanee perché Bersani rappresenta la mia terra e le mie idee».
Josefa Idem, si discute tanto delle norme, di chi potrà votare oggi. Cosa pensa di queste polemiche?
«C’è stato il tempo per discutere le regole, si è discusso e poi si è deciso. Dopo che sono state decise bisogna solo rispettarle, anche se non ti piacciono. È come pagare le tasse: a nessuno piace farlo ma va fatto. Le primarie sono state una bellissima battaglia, hanno portato ad una discussione appassionata sui programmi, su come portare avanti una linea politica. Mi sembrerebbe stupido rovinare tutto in questo modo. Chi si è registrato, vota. Chi non lo ha fatto, no».
Cosa le piace di Bersani? Cosa non le piace di Renzi?
«Potrei dire tante cose che non mi piacciono di Renzi, ma preferisco dire perché mi fido di Bersani. La ragione principale è che dove è andato ha fatto bene il suo lavoro: da presidente della mia Regione, da ministro, da segretario del Pd. E sono sicura che lo farà anche come presidente del Consiglio. Ha l’esperienza, la maturità, si è costruito le competenze sul campo. Nei momenti difficili come questo c’è bisogno di serietà perché sono i più deboli i primi a finire tra le ruote del sistema. Sono sicura che Bersani farà cose di sinistra per dare sollievo e aiutare chi non ce la fa».
Maturità? Per Renzi non è una virtù...
«Ah sì, la palla della rottamazione. Io Bersani non lo trovo così vecchio. Non è molto più vecchio di me che ho appena fatto un’Olimpiade, per esempio».
Quasi tutta la campagna di Renzi è basata su questo concetto.
«Ci sono due aspetti da considerare. Il primo è che la qualità non si giudica in base all’età. Da noi nello sport si dice: il cronometro non chiede l’età. Ed è il cronometro che certifica la nostra competenza. E spesso ha certificato che la mia competenza era superiore a ragazze che avevano la metà dei miei anni. La cosa vale nello sport e nella politica, basta pensare ad uno come Napolitano: non credo che Renzi pensi che non sia un buon presidente. No?».
Ma il ricambio generazionale avviene anche nello sport. Renzi non ha tutti i torti...
«E questo è il secondo aspetto. Sono d’accordo sul fatto che accanto all’esperienza e alla competenza servano briosità e freschezza. Ma nella mia esperienza non solo sportiva posso dire che solo alcuni giovani ce l’hanno, mentre ho conosciuto tanti altri giovani che sono pappe molle. In questo senso il ricambio generazionale anche in politica significa rottamare chi ha rubato, chi non si è dimostrato capace. Ma chi ha lavorato bene, specie se era all’opposizione, va premiato. Anche se non è più così giovane». Parliamo un po’ di lei. Dopo l’esperienza da assessore a Ravenna, ha lasciato l’impegno politico in prima persona. Finito l’impegno sportivo potrebbe pensare ad un incarico a tempo pieno?
«Io sono sempre rimasta agganciata all’esperienza politica. Faccio parte dell’esecutivo del Pd Emilia-Romagna, mi chiedono consigli sullo sport e io li do. Più di una volta mi è stata proposta una candidatura ma ho sempre detto no. Per il futuro non ho ancora progetti in mente. Vedremo».

il Fatto 2.12.12
Paolo Hendel
Pierluigi farà pulizia nel partito
di Davide Turrini


Al telefono per smistare i molestatori risponde il bizzarro – forse neppure troppo – imprenditore Carcarlo Pravettoni, ma appena si comincia a parlare del ballottaggio alle primarie del Pd ecco entrare in scena Paolo Hendel, 58 anni da Firenze, la città governata da Matteo Renzi. “Però io sono andato a votare al primo turno, e torno a votare al secondo turno, Pier Luigi Bersani. È forse paradossale – spiega l’attore di Monicelli, Stai-no e Luchetti – ma se non emergeva in modo così prepotente la candidatura Renzi, avrei votato per Nichi Vendola al primo turno, perché nel centrosinistra ci vuole comunque un rinnovamento antinomenclatura”.
Una cura che almeno secondo lei, non ha come medico il primo cittadino fiorentino, o no?
No. Anzi, quando sento dire voto Renzi perché è simpatico e moderno mi ricorda qualcuno. Poi certo lui è sicuramente una persona affabile. Lo dico come fiorentino, perché ti capita di incontrarlo per strada mentre lui passeggia in bici e chiacchierarci. E lo dico anche come comico perché gli invidio certe battute. Però ha difetti grandi come una casa: scarsa sensibilità verso i problemi dei più deboli e troppo disinvoltura e vicinanza con le grande finanza e chi ha i capitali alle Cayman. No, non mi piace, non rientra nel mio concetto di sinistra.
Invece, Bersani secondo lei di pecche non ne ha nessuna?
Ce le ha anche lui, per carità, ma se il segretario del Pd esce rafforzato dalle primarie, come credo, è l’unico che può fare pulizia dentro al partito ed è l’unico che può rimanere nel solco della tradizione socialdemocratica a cui il Pd e la sinistra in Italia devono ancora riferirsi.
Bello lo spettacolo che sta dando il centrosinistra con le primarie, non trova?
Sì. Competizione che vincerà Bersani. Ma anche se vincesse Renzi non vedo scenari apocalittici dentro al Pd e nel centrosinistra. Abbiamo assistito ad una sfida leale tra cinque persone oneste e pulite, ora due, per governare il Paese. Una bella immagine per la politica italiana.
Ed ecco che al telefono ritorna Carcarlo Pravettoni.
Proprio per questo il Pdl ha cancellato le primarie del centrodestra, lo sapevate? Dove le trovano cinque persone incensurate da presentare agli elettori? Il caos per il ballottaggio l’hanno creato loro. Se al primo turno hanno votato gli elettori del centrosinistra, al secondo turno lasciamo andare a votare gli elettori del centrodestra. Su, un po’ di democrazia!

Repubblica 2.12.12
Francesco Guccini
Nelle Marche per ritirare un premio, torno subito a casa Basta promesse al vento
“Mi faccio 900 chilometri il realista Pierluigi lo merita”
di Marco Morozzi


BOLOGNA — «Sto male, da cani, ho l’influenza. Ma a votare ci vado. Per Bersani. Non promette sogni ma fatti possibili. Di promesse al vento ne abbiamo sentite troppe. Ora bisogna salvare non solo i conti. Anche le teste».
Francesco Guccini corre per le primarie del Pd: ieri sera ha ritirato il Premio Paolo Volponi a Porto Sant’Elpidio, Marche, terra di Raffaella, sua moglie.
Novecento chilometri andata-ritorno in poche ore: il pigro Guccini si mobilita?
«Bisogna farlo. Il risultato più bello è quante gente è andata a votare. Non me l’aspettavo, ma alla fine la sfida è stata straordinaria. Io ho votato per Bersani perché è quello dei progetti realizzabili, dei discorsi realistici. Il più concreto. Adesso l’importante è smetterla di fare tutti… casino».
Lei non la rottama nessuno?
«Non è con la rottamazione che si risolvono tutti i problemi. O meglio: non solo. Io dico “largo ai giovani”. Ma ci sono dei meno giovani che hanno ancora molte cose da dire».

Corriere 2.12.12
Nonnine in fila e scuse impossibili A Firenze record di richieste (respinte)
Il responsabile cittadino dei renziani: le domande esaminate di notte
di Fabrizio Roncone


FIRENZE — Piove da ore, la bandiera del Pd è zuppa, androne affollato dai presidenti dei seggi venuti a prendere schede ed elenchi, luci bianche, ombrelli che si chiudono, profumo di castagne arrostite (c'è una bambina, seduta in un angolo, con un bel cartoccio).
Arriva la notizia che su, al primo piano, i tre saggi del comitato provinciale di queste primarie hanno finito l'esame delle richieste di deroga.
Ora scende un giovanotto stempiato.
Tossisce. Gli viene un ghigno ironico.
Tutti osserviamo in silenzio il giovane dirigente.
«Allora?», chiede una militante dai capelli biondi di Campi Bisenzio che somiglia a Laura Chiatti.
«Allora ne sono state accettate solo dieci. Capitooo? Solo dieci!».
Risate, parte un piccolo applauso, i renziani li riconosci perché scuotono la testa, sbuffano. Il dato — almeno in apparenza — è oggettivamente forte: qui erano infatti pervenute 10.392 nuove domande di registrazione per poter partecipare al ballottaggio (una enormità, se pensate che al primo turno avevano già votato oltre 57 mila persone su una popolazione di 378.239 abitanti, dato Wikipedia). Esaminate — raccontano — è stato però scoperto che almeno 6 mila richieste erano accompagnate dallo stesso testo ed erano state inviate automaticamente dal sito www.domenicavoto.it (allestito dal comitato elettorale di Matteo Renzi); la maggior parte delle restanti richieste erano autentiche ma supportate da giustificazioni labili, surreali, a volte comiche. «Mi ha convinto mia suocera». «M'è apparso Renzi in sogno». «Domenica scorsa non ho potuto votare perché stavo pettinando le bambole».
Passa un'ora e arriva il commento dell'avvocato David Ermini, presidente del consiglio provinciale e responsabile cittadino del comitato Renzi (cui non deve esser sfuggito che uno dei tre saggi del locale comitato delle primarie è il bersaniano Giacomo Scarpelli).
«La verità?».
La sua verità, sì.
«Gran parte delle richieste di nuove registrazioni sono state respinte senza essere discusse».
Davvero lei pensa che...
«È così, mi creda!».
Continui.
«Alle 14 mi sono qualificato e ho chiesto di poter vedere tutte le domande. Mi hanno portato solo le 84 domande consegnate a mano da quelli del circolo di San Bartolo e una decina di e-mail. E nient'altro».
Sta dicendo una cosa grave, avvocato.
«Sto raccontando la verità. E sa cosa mi hanno risposto quando gli ho chiesto di vedere le altre e-mail? Le abbiamo esaminate di notte, m'hanno detto. Come di notte? Ma la circolare di Nico Stumpo, il responsabile organizzativo di queste primarie, non diceva che all'esame delle richieste doveva essere sempre presente un rappresentante di ciascun candidato?».
E adesso?
«Adesso speriamo che a nessuno venga in mente di presentarsi ai seggi senza essere stato autorizzato».
Le parole sono queste, l'atmosfera è questa. Si appoggia al muro Leonardo Sorelli, imprenditore e presidente del seggio "Rifredi2". «Sì, anch'io m'auguro proprio che non arrivi una valanga di gente decisa a votare a tutti i costi...». Si accende una sigaretta un altro militante. «Mi sembra ci sia stata una certa diffusa severità: in Toscana le richieste, complessivamente, erano poco più di 30 mila, ma quelle accolte credo siano appena 251. A Livorno, per dire, le richieste erano 1094 e sono addirittura state respinte in blocco».
Giovedì hanno respinto in blocco anche una decina di vecchine apparse all'improvviso nell'androne di questo comitato provinciale: tutte provenienti dal rione di San Quirico, e tutte decise nel sostenere di essersi influenzate proprio dal 4 al 25 novembre.
«E quindi, per questo, compagno presidente, non s'è potuto procedere con la registrazione in tempo utile. L'è mica colpa nostra se il virus ci ha...».
«Nonnina! Suvvia...».

Corriere 2.12.12
Un referendum sulla sinistra
di Angelo Panebianco

È stato detto, ed è vero, che, chiunque vinca le primarie, il Partito democratico sarà in futuro diverso da ciò che è stato. La sfida di Renzi lo ha già cambiato.
Queste primarie non sono state solo uno strumento per la scelta del candidato premier. Sono state anche un referendum sul significato da dare alla parola «sinistra». Hanno assunto, grazie a Renzi, una forte valenza culturale, hanno investito i temi della tradizione e della identità.
Sinistra, in Italia, è un termine che ha sempre avuto un significato diverso da quello che ha nei Paesi che non hanno conosciuto la presenza — per quasi mezzo secolo di vita democratica — di un grande partito comunista, radicato in tanti gangli vitali della società: un partito che, grazie anche al suo rapporto quasi monopolistico con i ceti intellettuali, era il solo legittimo giudice di cosa fosse o non fosse «sinistra». Al punto che persino Bettino Craxi, uomo del socialismo autonomista, privo di complessi di inferiorità nei confronti dei comunisti, poteva essere tranquillamente dipinto come uomo di destra. «Sinistra» erano il Pci e ciò che si muoveva nella sua orbita, ivi comprese quelle forze (una parte del Psi pre Craxi, la sinistra democristiana) sue sodali o che mostravano sudditanza, culturale e psicologica, nei suoi confronti. «Sinistra» erano le interpretazioni del mondo, del passato e del presente, e di ciò che era giusto o sbagliato, che si producevano entro quei confini politici.
Crollato il Muro di Berlino, il Pci, ufficialmente, morì. Iniziò la fase post comunista. Ma la storia non fa salti. Dentro il «post» c'era tanta continuità. Sotto le nuove spoglie sopravviveva molto della vecchia organizzazione — con le sue regole, i suoi riti, le sue gerarchie, e le sue tesorerie — e anche del vecchio universo simbolico (come mostra il mantenimento delle antiche denominazioni: Unità, Festival dell'Unità, Istituti Gramsci, eccetera). E, naturalmente, venne preservato, sotto quell'ombrello, il grosso dei corposi interessi (sindacali e non solo) che facevano capo al vecchio Pci. Era inevitabile, dato che il cerchio dirigente e i quadri venivano da quella esperienza. Chi non era di quelle parti poteva facilmente accorgersi di queste continuità andando in giro, e annusando l'aria, nelle regioni rosse.
Il Partito democratico nacque mettendo insieme vecchi amici: ciò che restava del post comunismo e dell'antica sinistra democristiana. Bisogna riconoscere a Walter Veltroni, il primo segretario del Pd, il merito di avere tentato di creare, almeno entro certi limiti, qualcosa di nuovo (del resto, era il solo che potesse permetterselo proprio perché veniva dalla tradizione comunista) ma l'operazione, difficile e forse impossibile, fallì.
Data la storia pregressa, sono in buona fede quei sostenitori di Bersani che avversano Renzi perché lo giudicano «di destra». È effettivamente la prima volta che, all'interno di quel mondo, la tradizione post comunista subisce una sfida così dura da parte del rappresentante di una sinistra che non fa riverenze a quella tradizione e intende sbarazzarsene.
Come mostra il fatto (lo ha osservato Pierluigi Battista sul Corriere del 29 novembre), che non c'è alcun tema programmatico — si tratti di welfare, scuola, lavoro, politica estera o altro — su cui Renzi non si sia contrapposto alla linea della continuità incarnata da Bersani.
La vera sorpresa, ciò che nessuno si aspettava, è che proprio all'interno del popolo della sinistra (e nelle regioni rosse), fossero ormai così tanti quelli disposti a votare «sì» al referendum indetto da Renzi: «Vuoi tu abbandonare la tradizione e ridefinire l'identità della sinistra?». Che si tratti di una sfida, nonostante i bisbigli contrari, tutta giocata a sinistra è certo. Le rilevazioni fatte all'uscita dai seggi del primo turno hanno confermato ciò che si intuiva, ossia che, tra i votanti, la percentuale di ex elettori del centrodestra è stata bassa. Come era logico che fosse. Un ex elettore della destra potrebbe anche votare Renzi alle elezioni politiche (dato il marasma in cui versa il centrodestra) ma difficilmente potrebbe iscriversi alle primarie del, da lui detestato, centrosinistra. Senza contare che gli elettori di destra hanno scarsa propensione per forme di partecipazione diverse dal voto in regolari elezioni.
Se, come appare probabile, vincerà Bersani, la tradizione verrà conservata. Ma con qualche rilevante novità. Bersani, premiato per il coraggio che ha avuto mettendosi in gioco (anche se non ne ha avuto abbastanza da varare regole per le primarie un po' più liberali), regolerà molti conti con la vecchia oligarchia e promuoverà uomini e donne giovani che, tuttavia, saranno figli e figlie della tradizione di cui egli è il garante. Però, il consenso che Renzi ha saputo raccogliere a sinistra non potrà restare senza effetti. Bersani, che è un abile politico, si troverà di fronte al difficile compito di dare qualche risposta anche alle domande di chi non si riconosce più in una tradizione che giudica ammuffita.
L'errore che Bersani potrebbe commettere sarebbe quello di credere che basti vincere le prossime elezioni perché tutto, in qualche modo, si aggiusti. A leggere i segnali di queste primarie si arriva alla conclusione che non sarà così.

Corriere 2.12.12
Apparati e culture nel Pd alle primarie
Negli anni d’oro il Pci aveva 5 mila addetti Oggi il Pd ne ha 10 volte meno


Che cos'è oggi, nel ballottaggio delle primarie, l'«azienda Pd»? Negli anni d'oro, quando viaggiava attorno al 34% dei voti, il Partito comunista aveva circa 2.500 dirigenti, funzionari e impiegati, pagati per lo più come il quarto livello dei metalmeccanici. Nel conto non sono compresi i membri pagati di assemblee elettive. In molte zone del Paese, non in tutte, alla bisogna il Pci poteva contare anche sul personale della Cgil e delle cooperative della Lega. In certi momenti, i 2.500 potevano diventare 5 mila. Questo era l'apparato. Poi c'erano i volontari, essenziali in molte manifestazioni. Una struttura analoga, ma assai più leggera, l'aveva la Democrazia cristiana. Oggi il Pd paga non più di 500 stipendi, tra i 1.200 (per i più) e i 3.800 euro (per i meno). La Cgil può simpatizzare, ma non cede manodopera. La Legacoop, ormai maritata con la Confcooperative, ha tagliato i vecchi vincoli organizzativi. L'apparato, insomma, è un decimo di quello dei due principali partiti da cui origina il Pd. E anche il numero dei volontari è inferiore. Oggi la vita politica si organizza in modi diversi. Ma, in talune circostanze come le primarie, il volontariato ritorna. Molti politologi, poco avezzi a documentarsi, continuano a pontificare sul partito d'apparato, e perciò grigio, conformista e burocratico, da giustapporre ieri alla modernità del partito leaderistico berlusconiano e poi alla novità Renzi, che al Pd peraltro è iscritto. In realtà, il fenomeno delle primarie, con i loro quasi 10 mila seggi, è una manifestazione di diffuso volontariato dettato dalla passione politica, se i numeri hanno ancora un senso. E questo vale tanto per i sostenitori di Bersani quanto per quelli di Renzi. Il sociologo americano Robert Putnam vedrebbe in questo impegno non salariato una quota di quel capitale sociale di cui l'Italia è dotata, sia pure a macchia di leopardo. Capitale sociale che non è formato da azioni, ma dalla fiducia nel prossimo e nella possibilità di risolvere problemi grandi e piccoli attraverso la collaborazione con l'altro da sé, fuori dalle cerchie familistiche, nelle associazioni e nelle istituzioni.
Celebrate le primarie del centrosinistra nel deserto delle altre formazioni politiche, finirà anche la contrapposizione — banalotta, vogliamo dirlo? — tra il Bersani apparatchik e il Renzi internettiano e si dovrà vedere quale cultura politica avrà la prevalenza. Questo è il punto vero. L'Europa si divide tra liberisti e socialisti. Negli stessi Usa, i democratici vengono accusati di essere socialisti. E allora un centrosinistra normale potrà vincere e governare se convincerà il Paese che la socialdemocrazia a radice cristiana farà funzionare la società dell'informazione internettiana meglio dei liberisti. Se, invece, si farà dettare la linea da chi negli Usa sosteneva il repubblicano Mitt Romney e nel Regno Unito collaborava con l'ultraconservatore Boris Johnson, torneremo agli equivoci degli anni Novanta quando gli ex comunisti si fecero sdoganare dalla City senza fare tappa a Bad Godesberg (che è la cittadina dove nel 1958 la socialdemocrazia tedesca ripudiò il marxismo senza cessare di essere di sinistra).

Repubblica 2.12.12
Diario dei 15 giorni che sconvolsero il Pd
Lacrime, confronti e risse il reality dei quindici giorni che sconvolsero il centrosinistra
di Michele Serra


DOVESSIMO trarre una morale, da queste primarie ingombranti, vitali, rissose, supermediatiche, è che la sinistra italiana, per anni convinta di essere poco contemporanea, poco telegenica, sfocata, una volta catapultata al centro della scena ci si è ritrovata sorprendentemente a suo agio. Di Renzi si sapeva. Perché è giovane, mastica comunicazione, nasce e cresce in una politica che non è più quel paziente, umile corpo a corpo territoriale dove partiti e sindacati si fecero le ossa: è reality, è web e dunque è (anche) prestazione attoriale, velocità di battuta, idea virale.
MA È tutto il resto del cast, nei quindici giorni che sconvolsero il centrosinistra, ad avere retto il ruolo con inattesa destrezza. Protagonisti e pubblico, candidati ed elettori. A cominciare dai dettagli, come quei “marxisti per Tabacci” che hanno rinverdito su internet la potente vena satirica già protagonista della campagna per Pisapia; come la felice icona bersaniana della pompa di benzina (forse, grazie a Edward Hopper, il più bel poster politico degli ultimi anni) che è riuscita a dare dignità estetica, e chi lo avrebbe mai detto, alla retorica della normalità tanto cara al segretario del Pd; la stoica prestazione della Puppato, unica donna, che pur sapendo di perdere si è battuta con la stessa energia di chi vuole vincere; la stanchezza di Vendola, pesce fuor d’acqua nella schermaglia veloce del talkshow, visibilmente saturo di esibizione e fors’anche di politica, ultimo esemplare di intellettuale prestato alla politica e di leader politico che rimpiange la cultura.
E’ anche nelle sbavature e nelle cadute di stile, però, che le primarie hanno via via assunto credibilità, e insomma sono sembrate “vere” non solo secondo il vecchio e legittimo canone di sinistra (la mobilitazione di strada, i volontari, le code ai seggi), ma anche dentro i nuovi canoni della mediaticità. Quel tanto di rissosità aspra quanto volatile (i sospetti twittati, i botta e risposta tra i rispettivi staff), le lacrime spremute da Vespa a Bersani, la sottomissione ai tempi, ai ritmi e perfino ai modi della televisione, che spesso mette in primo piano le polemiche contingenti, lo scatto emotivo, la battuta brillante, e sorvola sulla profondità dei grandi temi: tutto questo — vale a dire i pregi e i difetti della politica mediatica — è sembrato, nelle ultime settimane, molto più “di sinistra” di quanto la sinistra stessa, elettori compresi, potesse prevedere.
È come se la campagna per le primarie avesse ristretto fino quasi ad annullarlo lo spread tra la sinistra italiana e un campo, quello mediatico, sospettato di essere stato costruito a misura della destra populista e delle sue semplificazioni, a misura (e per mano) di Berlusconi e del suo piazzismo prestato alla politica. Sospetto che ha una sua fondatezza, e tale da sollevare, ancora adesso, perplessità e diffidenza in parte del pubblico: le camicie di Renzi saranno davvero il “suo vestito” o sono un costume televisivo? Le sue frasi sono davvero “teledirette” dai suoi spin doctors? E se sì, quanto toglie, questo genere di confezione, alla loro sincerità? Perché Bersani accetta di commuoversi da Vespa, per calcolo ruffiano o (peggio) per la sprovvedutezza di
chi programma la sua agenda? E i vestiti “sbagliati” di Bersani, sono veramente sbagliati o fanno parte (come le camicie di Renzi) di un sapiente calcolo sull’immagine, che dev’essere ordinaria?
La risposta, giunti al termine dei quindici giorni che hanno sconvolto il centrosinistra, è che quelle domande sono vecchie, sono nodi ormai sciolti dai fatti. Si intende solo che lo scenario mediatico nazionale, per chiunque e con qualunque intenzione fosse stato allestito, ha visto muoversi perfettamente a loro agio gli uomini del centrosinistra, i loro argomenti, le loro polemiche, i loro tic, i loro difetti, le loro vanità. Che la sinistra si è lasciata colonizzare dalla telepolitica e l’ha colonizzata, con le rispettive contaminazioni del caso. Circostanza resa ancora più “storica”, e macroscopica, dalla contemporanea rinuncia del centrodestra alla possibilità di avere una sua scena madre, con le sue primarie. Un suicidio tanto più impressionante quando si pensi che potrebbe essere proprio l’uomo della televisione, Silvio Berlusconi, a spegnere i riflettori sulla sua gente per provare ad accenderli, per l’ennesima volta, solo su di sé. Un calcolo assurdo, un paradosso quasi inspiegabile eppure pienamente in atto, e proprio in questi giorni e in queste ore.
Nella sua misteriosa dimensione (una specie di covo virtuale, una bat-caverna), più savio o forse solo più furbo di Berlusconi sembra Beppe Grillo, che dopo avere dichiarato, come Libero e il Giornale, che le primarie del centrosinistra sono una truffa per gonzi, o peggio una sfilata di morti, indice a sua volta, nel Sacro Web, le primarie delle Cinque Stelle. Con regole molto più rigide e accesso molto più ristretto, perché a differenza del centrosinistra, che ormai non ha più paura neanche di Bruno Vespa, Grillo ha il terrore di tutto quello che non è in grado di controllare personalmente.

l’Unità 2.12.12
Il Quarto polo arancione incorona Ingroia
di Claudia Fusani


Attende in seconda fila il suo turno, n°31 nella lista degli interventi. Così come, prima di lui, Andrea, Maha, ragazza tunisina, Domenico, Gianna, Luigi (De Magistris), Moni (Ovadia). Prende la parola alle 14 e 41 minuti, un’attesa iniziata dopo le dieci. Ed è standing ovation per i mille seduti e le centinaia in piedi del teatro Vittoria, nel cuore del rione Testaccio. «Capolista», gridano platea e galleria, «senti il profumo? Non è di inciucio».
Nominato candidato premier per acclamazione. Lui si chiama Antonio Ingroia. Loro (movimento Cambiare si può) sono un popolo ancora senza nome e simbolo. L’obiettivo è un listone civico decisamente a sinistra che oggi si presenta colorato di arancione (un po’), quarto polo non allineato con Sel e Pd (ma poi vediamo) e intenzionato «a fare da calamita per le tante iniziative nate dal basso in questo paese e che negli anni non hanno mai trovato il modo di federarsi» dice Livio Pepino, storica toga rossa, con il sociologo Marco Revelli, Marcello Cozzi (Libera), Barbara Spinelli (giornalista) tra i primi firmatari del manifesto Cambiare si può.
Il colpo d’occhio, nel teatro stracolmo e fuori in piazza dove gli altri ascoltano grazie ad amplificatori di fortuna, è quello di un’edizione riveduta e corretta dei Girotondi che dieci anni dopo hanno deciso che «le rivoluzioni si fanno governando o comunque andando in Parlamento» mentre «Grillo organizza solo rivolte» perché hanno capito che «restare minoranza non serve a nessuno» e che invece «è necessaria una rappresentanza». Anche se questo significa «dover cedere un po’ della propria sovranità».
Con queste premesse, Antonio Ingroia prende la parola ringraziando commosso «per l’affetto». E dopo aver ribadito alcuni concetti come «l’Italia paese a sovranità limitata perchè la classe dirigente è compromessa con le reti criminali motivo per cui questa classe politica non potrà mai combattere la mafia», indica nella «frattura quasi insanabile tra cittadini e istituzioni lo spazio per iniziative come questa, lodevole e necessaria». Con questo spirito di ricostruzione, «senza aver paura di aprire un libro dei sogni per cui cambiare si deve, condivido la vostra iniziativa e sarò con voi». Dall’Italia o dal Guatemala, dove svolge da qualche mese un incarico per l’Onu. Che significa «per quello che sarà utile». Purchè, sia chiaro, «la salvezza del paese non dipende da un salvatore della patria».
Applausi. Si può dire a scena aperta. Di Paolo Flores d’Arcais, Barbara Spinelli, Paolo Pepino, Luigi De Magistris, una platea di giovani ma anche no. C’è molta Rifondazione comunista (Paolo Ferrero e Giovanni Russo Spena), Andrea Aimar, studente leader delle rete “Io voglio restare”, Chiara Sasso, la scrittrice delle rete dei Comuni Solidali, Gianna De Masi del Movimento No Tav, giornalisti come Alessandro Giglioli il blogger di “Piovono rane”, Rinaldini e Cremaschi e De Luca della Fiom.
Quasi cinquanta interventi. Tempi contingentati, sei minuti a testa, e non sforano. Il format è quello della Leopolda renziana solo in versione pauperista perchè qui non ci sono soldi. Lo spirito è quello dei girotondi. «Solo che dice D’Arcais allora non capimmo che spaccare il capello in 4,8 e mille porta solo ad un’esperienza minoritaria. Ecco perchè serve una leadership incontestata, una rappresentanza elettorale e parlamentare».
Un bel passo avanti. Ma con chi? Prova a rispondere De Magistris che resta sindaco di Napoli ma lancerà gli arancioni il 12 a Roma (www.movimentoarancione.com), una «Lista civica di liberazione nazionale» con Ingroia candidato premier. «La vera sfida è fare la rivoluzione governando. Il nostro programma è chiaro: no a Monti, ritorno del pubblico ma con le mani pulite, lavoro al centro, ricambio del personale politico». La prospettiva ad ora è «autonomia»: «Rispettiamo Grillo ma non ci pare abbia una vera proposta. Pd e Sel sono interlocutori possibili purché dicano chiaramente dove stanno». Con Idv e Di Pietro, il sindaco di Napoli pensa ad un percorso inverso rispetto a qualche anno fa. «Allora fu la politica che si aprì alla società civile, ad esempio con me. Ora è la società civile che deve prendere quello di buono che c’è nei partiti purchè abbandonino personalismi e simboli». Messaggio chiaro.
Pochi giorni per capire. Revelli, nelle conclusioni, chiede di organizzare un «Cambiaresipuòday» nelle città tra il 14 e il 15 dicembre. A ruota un incontro nazionale per decidere lista e nome. Intanto il 12 prenderanno forma gli arancioni di De Magistris. Il cartello Alba è già presente.
Tutti percorsi destinati a confluire.

l’Unità 2.12.12
Un bimbo su 4 ha genitori non sposati
di R. G.


La famiglia sta cambiando. Tanto che anche le normative si stanno adeguando, come dimostra la legge appena varata che parifica i diritti dei figli nati al di fuori del matrimonio con quelli fin qui detti «legittimi». Anche se ci vorrà ancora tempo perché abbia effetti e ricadute su successioni ereditarie e altro. Il ministro Andrea Riccardi ha formato una commissione ad hoc, guidata dal professor Cesare Massimo Bianca, che metterà ordine su tutte le singole questioni, dalle donazioni ai fini dell'eredità. E serviranno poi decreti applicativi su questioni come riconoscimento e disconoscimento dei figli o adottabilità. Ma quanti sono questi bambini nati da coppie non sposate? All’Istat dicono che sono ormai oltre il 20 per cento dei nati ogni anno. In sostanza un bambino su quattro.
Le coppie non sposate in Italia sono intorno al mezzo milione quelle con figli, un milione circa il totale delle coppie non coniugate. Ma quasi raddoppiate negli ultimi anni. La classificazione è complicata dal fatto che in molti casi si tratta di «matrimoni tardivi». Una sorta di lunga attesa pre-matrimoniale, con convivenza annessa, ma che alla fine si traduce per una parte in legame legale.
Il matrimonio risente della congiuntura negativa. E in effetti con la crisi sono proprio i giovani i più colpiti: perdendo il lavoro hanno più difficoltà a metter su famiglia e l’80 percento del calo dell’occupazione riguarda proprio i giovani. I dati più recenti dicono che sono stati celebrati 204.830 matrimoni in Italia nel 2011, cioè 12.870 in meno dell’anno precedente, solo 3,4 ogni mille abitanti. Le nozze non vanno più molto di moda dal 1972 in avanti ma negli ultimi due anni c’è stato un vero crollo di lanci di riso. La variazione negativa è stata meno 4,5 per cento tra il 2007 e il 2011 a fronte di un più moderato meno 1,2 per cento rilevato negli ultimi vent’anni. Non è un calo concentrato in alcune aree del Paese piuttosto che in altre, ma sicuramente più marcato al Sud, in particolare in Sardegna, Campania, Marche e Abruzzo. D’altro canto il Sud è la zona più colpita dalla crisi. Diminuiscono in particolare gli sposalizi tra cittadini italiani, ma calano anche i matrimoni misti e le seconde nozze. Mentre l’età degli sposi si alza: quella degli uomini alla prima prova è di 34 anni in media, di 31 quella delle donne. Cioè si rinvia l’uscita dalla famiglia d’origine. Si riducono anche le cerimonie celebrate in chiesa: sono 124.443, ovvero 39mila in meno rispetto al dato del 2008 e due su tre sono comunque in regime di separazione dei beni. Nella diminuzione della propensione a scambiarsi l’anello, oltre alle difficoltà economiche e di prospettiva lavorativa per i giovani, è da considerare la componente motivazionale. Si legge infatti nel rapporto Istat pubblicato solo tre giorni fa che il calo delle prime unioni «è da mettere in relazione anche alla progressiva diffusione delle unioni di fatto, che da circa mezzo milione del 2007 sono arrivate a quota 972mila nel 2010-2011. In particolare proprio le convivenze more uxorio tra partner celibi e nubili ad aver fatto registrare l’incremento più sostenuto, arrivando al numero di 578mila in questo biennio». Libera unione in questi casi è uno stile di vita e di relazione, una pratica alternativa al matrimonio per i sociologi e per la politica ancora tutta da indagare.

il Fatto 2.12.12
Preti pedofili, confessione di una preda
di Dario Fo


Vasco aveva 14 anni quando è stato violentato da don Ruggero Conti, sacerdote moderno e carismatico. Un potente uomo di Chiesa, che fin dagli inizi della sua carriera e per oltre 20 anni ha violentato ripetutamente degli adolescenti coperto dal silenzio complice del clero. Attraverso la storia di vita di Vasco (nome di fantasia), la rielaborazione narrativa dei documenti giudiziari e le numerose interviste, questo libro di Angela Camuso – autrice anche del best seller sulla banda della Magliana "Mai ci Fu Pietà" – scava dentro l’anima ferita del protagonista e nello stesso tempo racconta una storia universale, perché emblematica di certa cultura dominante all’interno della Chiesa nella sua storia. Il sacerdote è accusato di avere abusato di almeno sette minorenni: viene arrestato e condannato in primo grado, nel 2011, a 15 anni e quattro mesi. Ne "La preda " si racconta, dice l’autrice, "una storia agghiacciante, in cui ogni dettaglio corrisponde fedelmente alla verità storica dei fatti ma anche n libro coinvolgente che si legge come un romanzo crudo”. Di seguito la prefazione del premio Nobel per la letteratura Dario Fo.

La storia che si narra in questo libro rassomiglia in maniera impressionante ad altre storie che ho sentito raccontare durante un mio viaggio di lavoro in Brasile. In quel caso il sacerdote pedofilo è stato denunciato dagli abitanti di una favela, dove l’incriminato si occupava dei ragazzi della comunità, col compito di toglierli dalle grinfie della malavita organizzata che in quegli spazi la faceva da padrona. Ho avuto l’opportunità di ascoltare alcuni episodi della faccenda raccontati direttamente da un gruppo di giovani cattolici che prestavano servizio volontario nella stessa diocesi. Questi ragazzi avevano scoperto dell’infamia dalle madri dei ragazzini che avevano subìto violenza ad opera del prete. Arrivarono a denunciare il fatto direttamente al vescovo che si disse indignato e pronto a intervenire, ma aveva bisogno di indire e condurre una serie d’inchieste. Passò un anno e finalmente, in conseguenza di una vera e propria manifestazione pubblica, quel sacerdote fu tolto dalla fa-vela e inviato in altro luogo, precisamente in una banlieue, dove ricominciò a tampinare tranquillamente altri ragazzi.
Impressionante, in quel caso, fu l’omertà che si creò a copertura del comportamento di quel corruttore, sia per bloccare gli scandali che per cercare di tacitare quei parrocchiani che si erano troppo esposti nel richiedere giustizia. Qualche anno dopo, durante il grande scandalo esploso negli Stati Uniti, dove vennero alla luce centinaia di casi dello stesso genere, si ripeté il gioco delle coperture da parte dei gestori di comunità cristiane con l’intento di smorzare le denunce e rendere vane le richieste di processi contro prelati indegni. Alla fine ognuno di noi ha letto, grazie a servizi coraggiosi della cronaca statunitense, come vescovi e prelati di rango siano finiti sotto processo e condannati a risarcimenti durissimi verso i ragazzi e le loro famiglie ferite e mortificate da quegli indegni raid di violenza che avevano causato traumi indelebili sui colpiti.
Da noi il clero, ce lo testimonia questo libro, ha ancora l’ardire e i mezzi per abbattere e rendere vana la gran parte delle denuncie e inchieste su atti di pedofilia. Basta questo per far capire alla gente qual è l’unico problema che interessa realmente a una certa Chiesa: salvare la rispettabilità delle curie, come a dire salvare la “faccia” e non il povero disgraziato dall’angoscia che lo accompagnerà per tutta la vita.
LA PREDA Angela Camuso, 288 pagine - Castelvecchi, 17,50 €

Corriere 2.12.12
Le 1.759 ore dei professori che agitano Internet
Il calcolo annuo. «Cifra gonfiata». «No, si lavora di più»
di Elvira Serra


MILANO — Se millesettecentocinquantanove ore vi sembran poche. Così la pensano i lettori di Corriere.it che ieri non hanno gradito il meticoloso calcolo dell'impegno dei docenti fatto da Rossana Bruzzone e Maria Antonia Capizzi della scuola secondaria di primo grado «Quintino Di Vona» di Milano. Le professoresse avevano elencato in una tabella quanto tempo dedicano durante l'anno a ogni attività didattica: 612 ore di lezione frontale, 206 di preparazione, 75 per la correzione dei compiti, 48 per impostare le verifiche e via di seguito: un totale di 1.759 ore; 39,98 settimanali, considerando «non lavorativi» luglio e agosto.
«C'era una volta la scuola della mattina. Quella delle insegnanti part-time, che dopo il lavoro hanno tempo per sé... C'era. Oggi non più. Oggi, alle medie, sei a scuola tutto giugno, e dal primo settembre. Tante vacanze? Sì, ma lavori di più. Quando? I sabati e le domeniche, per esempio», hanno scritto in una lettera pubblicata ieri sul Corriere della Sera. «Trattati come liberi professionisti, pagati come operai. Educatori o, all'occorrenza, babysitter. Mamme, papà, zii o anche nonni, se la famiglia manca. Burocrati, vigili, segretari. Psicologi, tuttologi, ignoranti. Secondo i punti di vista. Che vanno sempre bene perché la scuola è uno di quegli argomenti di cui pochi sanno, ma tutti parlano».
Centinaia i commenti arrivati online per criticare, ridicolizzare o ridimensionare lo sfogo delle due insegnanti. Con sarcasmo: «Integrali e derivate vengono calcolati diversamente; i Continenti vanno alla deriva quindi cambiano anche gli atlanti; Platone, Dante, Pascoli, Manzoni, Carducci ogni anno pubblicano nuovi testi; l'anno prossimo Cesare varcherà ancora il Rubicone?». O con puntiglio: «Vogliamo aggiungere che un insegnante non ha mai lavorato il 24 dicembre o tra Natale e Capodanno o nella settimana di Pasqua?». Compreso il fuoco amico dei colleghi: «Lavoro da 35 anni nella scuola e le ore riportate mi sembrano, mediamente, gonfiate. D'altra parte in mancanza di criteri oggettivi di valutazione ciascuno può dire quello che vuole».
Alcuni hanno provato a difendersi. «Credo che molti di noi prof preferirebbero timbrare un cartellino alle 8 e alle 16, avere una stanza riscaldata, una scrivania, un computer, dei buoni pasto o una mensa. Preferirebbero tornare a casa senza pacchi di compiti e libri scolastici dove preparare le lezioni». E ancora: «Ma siete mai stati in una scuola italiana? Io per assemblare i testi da presentare per un modulo sulla poesia amorosa del '900 ho impiegato un pomeriggio di ricerche. Come potrei farlo a scuola senza computer, senza testi adeguati, senza i miei libri, i miei appunti, il mio schedario? Dimenticavo, tutto rigorosamente pagato da me e non detraibile dalle tasse».
All'acredine manifestata dai lettori replica Lucrezia Stellacci, capo dipartimento Istruzione al ministero, da 35 anni nell'amministrazione scolastica. «È vero, c'è chi non impiega 1.759 ore all'anno. Ma conosco tanti che dedicano dodici al giorno agli studenti: sono quelli che vivono il loro lavoro come una missione. C'è poi chi lo prende come una professione, e si impegna scientificamente in modo inappuntabile. E c'è infine chi lo considera un mestiere, con l'alibi che con quello stipendio non vale la pena fare più di tanto».
Per la funzionaria del governo Monti il vero problema è che «non c'è valutazione, non c'è carriera, non c'è controllo. Tutto è affidato alla propria coscienza e alla capacità dei dirigenti di coinvolgere tutti».
Quanto alla lettera delle due professoresse milanesi, Lucrezia Stellacci è comprensiva: «Penso che oggi la buona scuola si senta mortificata. Non le critico, anzi saluto l'iniziativa con plauso».

il Fatto 2.12.12
Taranto. Il pm Amendola contro la legge salva-azienda
“Il decreto per l’Ilva è incostituzionale”
“Legge criminogena: premia il profitto e calpesta la salute”
di Salvatore Cannavò


“È un decreto criminogeno”. Gianfranco Amendola, procuratore della Repubblica a Civitavecchia e storico “pretore d’assalto”, figura eminente dell’ambientalismo italiano è sconcertato. “E’ una brutta pagina della nostra storia legislativa” spiega in un colloquio telefonico, il giorno dopo il varo del decreto sull’Ilva e la presa di posizione radicale da parte della magistratura tarantina.
Perché considera incostituzionale il decreto?
Perché è chiaramente in contrasto con la nostra Costituzione come qualsiasi persona di media intelligenza può desumere. È un provvedimento legislativo che, semplicemente, assoggetta l’ambiente alla produzione e premia il profitto rispetto alla salute. In realtà, è un decreto criminogeno
Un giudizio forte. Perché criminogeno?
Perché avalla una situazione in cui può causare dei morti. E nessun governo può arrogarsi questa prerogativa. Nel provvedimento di sequestro da parte dei giudici, dello scorso luglio, c’è scritto chiaramente che “non un altro bambino, non un altro abitante di questa sfortunata città, non un altro lavoratore dell’Ilva, abbia ancora ad ammalarsi o a morire o ad essere comunque esposto a tali pericoli, a causa delle emissioni tossiche del siderurgico”
Il governo, però, sostiene che con l’adozione dell’Aia (l’autorizzazione integrata ambientale) i problemi saranno risolti.
Che con l’Aia in futuro si possa arrivare a sanare le situazioni attuali io me lo auguro. Ma prima si deve eliminare questa situazione in modo immediato e permanente. E qui viene fuori un altro elemento: nessuno ha mai detto che la magistratura ha sbagliato. Quindi, delle due l’una: o la magistratura ha sbagliato oppure se ha detto il giusto deve veder rispettate le sue determinazioni. Non può essere fatto passare nessun giorno in più senza mettere in sicurezza gli impianti. Nessuno può permettere di consentire che qualcuno muoia. È la sentenza 5172 del 1979 della Corte di Cassazione a Sezioni unite - quindi il massimo grado di giudizio - a stabilire che “l’Amministrazione non ha il potere di rendere l’ambiente insalubre neppure in vista di motivi di interesse pubblico di particolare rilevanza”.
Cosa avrebbe dovuto fare, allora, il governo?
Una sola cosa, ristabilire la verità dei fatti: chi ha inquinato paghi, i veri responsabili dei danni vanno messi in primo piano. E poi procedere alla confisca immediata di tutti i beni di questa azienda, in Italia e all’estero e proseguire con l’espropriazione dello stabilimento ponendolo sotto la proprietà dello Stato.
Ma nel decreto si affida al Garante la possibilità di proporre questa soluzione.
Ma è già tardi. L’Ilva non deve rimanere attiva nemmeno un giorno di più.
Sta parlando di nazionalizzazione?
Certo. Lo Stato deve prendere in carico i provvedimenti bloccando la produzione, risanando e poi, eventualmente, decidendo a chi affidare nuovamente l’azienda. In questo modo, gli operai non rischierebbero nulla, sarebbero pienamente tutelati anche perché è assurdo che siano loro a pagare i guasti di un’impresa come l’Ilva.
E che pensa dell’attività del Garante in questo senso?
Che per controllare l’Ilva servirebbero 300 garanti e che, quindi, anche il più bravo e competente non potrebbe fare nulla. La storia dell’Ilva, del resto, è una storia di imbrogli per eludere le leggi. L’unica garanzia sarebbe l’immediato e diretto intervento dello Stato.
Perché il governo agisce in questo modo?
Onestamente non lo so. Mi sembra così tutto assurdo. Però abbiamo già visto tanti provvedimenti che hanno collocato l’ambiente e la salute dopo la produzione e la crescita. La crescita quantitativa, intendo. Si pensi alle prospezioni petrolifere, al Tav, alle normative si controlli.
Cosa pensa della somma di 200 mila euro annui per retribuire il Garante?
Che sarebbe meglio darli agli operai.

il Fatto 2.12.12
Producono ricchezza e pagano anche le tasse
Gli extracomunitari non rubano il lavoro a nessuno e rappresentano una fetta già insostituibile dell’economia
di Chiara Paolin


Chiediamo scusa ai leghisti, ma la notizia purtroppo è questa: “Oltre 2 milioni di contribuenti nati all’estero nel 2010 hanno pagato 6,2 miliardi di euro di imposta netta. In termini percentuale, gli stranieri rappresentano il 6,8 per cento del totale dei contribuenti italiani e l’ammontare totale delle tasse che pagano costituisce il 4,1 per cento dell’ imposta netta pagata complessivamente in Italia. Se, rispetto al 2009, i contribuenti stranieri sono diminuiti dell’1 per cento, l’ammontare dell’imposta da loro pagata è invece aumentata del 4,3 per cento”.
PAROLE E NUMERI della Fondazione Leone Moressa che analizza i temi dell’economia applicati all’immigrazione. Cifre e percentuali che dicono una cosa sola: il tessuto sociale di chi ha scelto il nostro Paese per vivere e lavorare è più sano di quello indigeno, perchè - in tempi difficili - gli extracomunitari sono riusciti ad aumentare il loro gettito fiscale mentre noi italiani stiamo calando vistosamente nella performance. La maggioranza dei contribuenti stranieri si concentra in Lombardia (21,1 per cento), in Veneto (11,9 per cento) e in Emilia Romagna (11,1 per cento). E assicura un bel po’ di soldini: la Lombardia è quella che presenta il gettito più alto (oltre 1,6 miliardi di euro), seguita dal Lazio (746 milioni) e dal Veneto (644 milioni). Ma chi sono questi pagatori di tasse? I rumeni risultano i primi sia come soggetti che pagano l’imposta netta, sia per l’ammontare totale: il 18 per cento di tutti i contribuenti nati all’estero proviene dalla Romania, e sono loro a garantire il 10,3 per cento di tutta l’Irpef pagata dagli stranieri. I secondi in termini di provenienza sono gli albanesi, seguiti dai marocchini. Sono dati che confermano quanto già autorevolmente dimostrato qualche giorno fa da Francesco D’Amuri, ricercatore di Bankitalia, e Giovanni Peri, dell’University of California. I due studiosi hanno calcolato che tra il 1996 e il 2010 i lavoratori stranieri entrati nei 15 principali Paesi dell’Europa Occidentale sono quasi raddoppiati (passando così dall’8 per cento della forza lavoro nel 1996 al 14 per cento nel 2010). E, per una volta, la vecchia Europa ha superato l’America, visto che negli Stati Uniti i lavoratori nati all’estero erano il 6 per cento nel 1998 e sono diventati il 12,9 per cento nel 2010.
CONSEGUENZE positive del fenomeno: secondo Bankitalia gli italiani sono stati spinti verso occupazioni più qualificate guadagnandoci perfino un qualcosina in più, lo 0,7 di stipnedio aumentato in busta paga. Certo altri paesi Ue hanno ottenuto vantaggi più seri per i propri lavoratori: più il mercato è flessibile e meritocratico, più la competenza sale e viene premiata in solido. Gli immigrati sono quindi una cartina di tornasole per l’efficienza del sistema, oltre che un pezzo già insostituibile del nostro avvizzito monte fiscale.

l’Unità 2.12.12
Torna a Roma l’altra economia
Riapre lo spazio al Mattatoio dopo la lacerazione d’estate
Contro mercato e anti mercato a Testaccio
La sfida della Cae: i consumi alternativi possono dar vita a produzioni non assistite
di Ella Baffoni


IL GRANDE PIAZZALE CON LE STACCIONATE DI GHISA, ATTORNO I CAPANNONI DELL’ANTICO MACELLO DI ROMA. È qui, nel cuore del Mattatoio di Testaccio, che si affacciano la Facoltà di Architettura, i padiglioni del Macro, un centro sociale, l’avamposto curdo di Azad e da ieri la Città dell’altra economia. Un ritorno, non proprio una novità. E una ferita ancora aperta. La lacerazione del coacervo di realtà che l’aveva gestita dal 2007 era sfociata la scorsa estate in un’occupazione, sgomberata dalla polizia. Poi il Campidoglio ha consegnato i locali al consorzio che ha vinto l’appalto comunale, formato da una parte delle associazioni dell’antica Cae. Capofila è l’Aiab, l’associazione italiana per l’agricoltura biologica, ci sono poi c’è la cooperativa Agricoltura nuova, le coop sociali 29 giugno e Integra. Il consorzio gestirà il bar, il negozio bio, il ristorante. Attorno, una galassia di imprese, da quelle dell’equo e solidale al laboratorio creativo di donne «Made in Testaccio», dall’erboristeria «Le rose di maggio» a «Tana liberi tutti» libreria-ludoteca e fucina di corsi, singolare quello per genitori alla trentesima settimana.
Cosa c’è di diverso, dunque? «Per noi fare altra economia è fare impresa dice il direttore della Cae, Enrico Erba non vivere di assistenza. La nostra sfida è questa. Il bando ci assegna questo spazio, ma dal comune non riceviamo un euro. I nostri ricavi sono quelli del bar, del negozio, del ristorante. E un piccolo contributo per la formazione dalle imprese che hanno vinto un secondo bando comunale per i tremila metri quadrati coperti».
Inutile tornare su accuse e controaccuse che i due fronti si sono lanciati negli ultimi mesi: da una parte si urlava contro i «servi di Alemanno», contro un nuovo «centro commerciale della green economy». Dall’altra si ricordava la gestione fallimentare delle iniziative della Cae.2 e l’impegno di allargare alle iniziative di tutta la città la nuova Cae.
Sarebbe bello che ci si lasciasse alle spalle questi conflitti e il loro strascico giudiziario. Il consorzio che ha vinto l’appalto riapre ora le porte del Mattatoio con un weekend di musica e arte, eventi per bambini e degustazioni. Quello che ha perso, Cae.2, organizza oggi un «mercato non mercato» presso la Scup, nuova occupazione in via Nola: produttori a filiera, artigiani di riuso e riciclo, area di libero scambio e gratuità. Una sorta di eco, anzi di controcanto, alla nuova Cae: vogliamo, dicono gli organizzatori, «rimettere in moto una grande e diffusa rete cittadina fatta di persone e organizzazioni che svolgono attività di artigianato, autoproduzione, di commercializzazione di prodotti bio e equo, di scambio, di dono, di baratto». Insomma, uno spazio di sospensione dell’economia capitalista.
A Testaccio la logica è un’altra. Intanto si organizza, ogni domenica, il mercatino biologico. Si progetta poi un mercato di Natale, magari sotto gazebo. Il Consorzio Fattorie sociali sta allestendo il suo spazio, le donne di Neoshop espongono raffinati cesti intrecciati a grossa maglia di neopropilene, il materiale di cui sono fatte le mute da sub, morbido e elastico. La bottega artigiana Ciclò parte dall’esperienza delle ciclofficine ma ne fa un mestiere: il restauro per le bici più innovative, verniciatura inclusa, può costare fino a 200 euro. Ancora qui le aziende di bioedilizia e energie rinnovabili.
Oltre all’impronta mercatista resta però l’antica vocazione terzomondiale. «Vorremmo trasformare questo luogo in un laboratorio permanente di promozione cittadina, nazionale e internazionale dell’altra economia dice il presidente della Cae, Andrea Ferrante una cultura del consumo intelligente che garantisca i diritti di chi lavora, rispetti l’ambiente, migliori la vita di chi sceglie questa strada, aumenti i diritti». Tra i progetti quelli di diventare l’ambasciata del movimenti sulla sovranità alimentare, Via campesina e gli altri, una sorta di contraltare alla Fao per contadini, pescatori, popoli indigeni. Insomma i produttori di cibo sano, non industriale o chimico. In programma una festa dell’agricoltura sociale, rassegne enogatronomiche, la fiera della bioinfanzia. E, naturalmente, la Festa nazionale dell’altra economia.

l’Unità 2.12.12
Gli Usa criticano Israele: colonie ostacolo alla pace
Contestata la costruzione di 3000 nuove case in Cisgiordania, annunciata da Netanyahu dopo il voto all’Onu sulla Palestina
Hillary Clinton chiede la ripresa dei negoziati. Pressioni anche da Francia e Gran Bretagna
di Umberto De Giovannangeli


Hillary contro le ruspe. La decisione israeliana di costruire 3.000 nuovi insediamenti a Gerusalemme est e in Cisgiordania «ostacola la causa di una pace negoziata» con i palestinesi. Questo il commento del segretario di Stato Usa Hillary Clinton, espresso davanti a una platea di alti funzionari israeliani e americani, tra cui i ministri degli Esteri e della Difesa israeliani, Avigdor Lieberman e Ehud Barak, riuniti al Saban Center for Middle East Policy di Washington. «Voglio ribadire ha detto Hillary Clinton che questa amministrazione, come le precedenti amministrazioni, è stata molto chiara con Israele sul fatto che queste attività ostacolano la causa di una pace negoziata». In un lungo discorso sul Medio Oriente, il Segretario di Stato ha quindi lanciato un nuovo appello perché israeliani e palestinesi tornino al tavolo del negoziato. Israele ha annunciato il progetto di costruire i 3.000 nuovi alloggi all’indomani del riconoscimento Onu della Palestina come Stato non membro. «Il voto di questa settimana dovrebbe farci fermare tutti, perché tutte le parti devono valutare con attenzione il cammino che hanno davanti ha sottolineato Clinton abbiamo tutti bisogno di collaborare per trovare una strada che ci porti a negoziati che riescano a raggiungere l’obiettivo di una soluzione con due Stati. Questo rima-
ne l’obiettivo». Clinton ha aggiunto che la sicurezza di Israele è per lei una questione di interesse personale e si è augurata di poter un giorno visitare il Paese da privato cittadino con un nipote. «Dobbiamo convincere i palestinesi che i negoziati con Israele rappresentano non solo la strada migliore, ma l’unica. Quando le parti saranno pronte per entrare in negoziati diretti per risolvere il conflitto, il presidente Obama sarà un alleato assoluto per entrambi».
La scelta d’Israele provoca la reazione delle cancellerie europee. Londra è «estremamente preoccupata» per il progetto israeliano di costruzione di 3.000 nuovi alloggi negli insediamenti dei coloni a Gerusalemme est e in Cisgiordania e si augura che Israele «riconsideri la sua decisione». «Il Regno Unito sottolinea il ministro degli Esteri britannico William Hague in una nota consiglia caldamente il governo israeliano a tornare indietro sulla sua decisione» ricordando che «in base alla legislazione internazionale le colonie israeliane sono illegali». Da Londra a Parigi. Il governo francese ha chiesto a quello israeliano di fermare i nuovi insediamenti decisi a El, tra la Cisgiordania e Gerusalemme, «Chiedo alle autorità israeliane», ha detto il ministro degli Esteri, Laurent Fabius, «di revocare il provvedimento e mostrare una reale volontà di far ripartire i negoziati».
Al coro di critiche suscitate dall’annuncio israeliano dei 3mila nuovi alloggi per i coloni, si sono uniti ieri a Istanbul anche i ministri degli Esteri della Turchia e di 21 Paesi arabi. I 22 ministri hanno «condannato» tale passo, sollecitando «la comunità internazionale a mettere in campo ogni sforzo per fermare le attività di costruzione» nelle colonie e hanno bollato come «un’aggressione» il tentativo d’Israele di «giudaizzare» l’intera Gerusalemme per imporla integralmente come capitale dello Stato ebraico.
IL PROGETTO E-1
Ma a meno di due mesi dal voto anticipato del 22 gennaio 2013, Netanyahu e Lieberman (ormai uniti da un patto elettorale di ferro) non sembrano comunque disposti a dare segni di «debolezza». E, malgrado il fine settimana di riposo, hanno voluto dimostrare che il loro governo non fa passi indietro. Non solo hanno autorizzato la costruzione dei 3mila nuovi alloggi nella zona di Maaleh Adumin (città-colonia a Est di Gerusalemme) ma hanno anche fatto trapelare di aver ripreso in mano il progetto «E-1», un progetto concepito nel 1995 dal governo laburista di Yitzhak Rabin, ma poi archiviato per le pressioni internazionali: prevede di fatto la fusione del tessuto urbano di Gerusalemme, ben oltre il settore orientale a maggioranza araba della Città Santa, con Maaleh Adumim. Ossia la costituzione di un «cuneo» che separerebbe la Cisgiordania del nord (la Samaria biblica) dalla meridionale (l’antica Giudea). Ma c’è chi chiede ancora di più: è Moshe Feiglin, uno dei politici emergenti del Likud (il partito del premier Netanyahu), legato al movimento dei coloni. Dopo il voto del Palazzo di Vetro, tuona Feiglin, Israele deve estendere immediatamente la sua sovranità su tutta la Cisgiordania e assumere il controllo esclusivo sulla Spianata della Moschee.
Di certo, le colonie rappresentano un macigno sulla strada del negoziato. Secondo le ultime stime, sono oltre 300mila gli israeliani che vivono negli insediamenti in Cisgiordania, a cui si aggiungono i 250mila che risiedono nel settore orientale di Gerusalemme (a maggioranza arabo e rivendicato come futura capitale palestinese).

il Fatto 2.12.12
Netanyahu. “Solo Obama può frenare il premier”
di Roberta Zunini

Dopo la rivelazione della “vendicativa” risposta di Israele all'innalzamento dello status palestinese, anche gli Usa, che avevano votato contro, hanno bacchettato Israele. Hillary Clinton, ancora segretario di Stato che per colpa della sproporzionata offensiva di Israele contro Gaza, ha dovuto recarsi più volte al Cairo a pietire l'aiuto del nuovo dittatore egiziano, il presidente Morsi, ha dichiarato che la costruzione di 3mila nuovi alloggi nella zona che collega Gerusalemme Est al resto dello Stato palestinese “farebbe indietreggiare il processo di pace”. Il saggista e giornalista israeliano Gideon Levy, spera che la denuncia di Clinton non sia solo una presa di posizione di facciata. “Il mondo, votando a favore della richiesta palestinese all'Onu, questa volta è stato molto chiaro su cosa pensa della brutale occupazione israeliana della Cisgiordania. Un passo avanti è stato fatto. Ora la palla è nelle mani degli Stati Uniti che sono ancora gli unici a poter fermare il piano incendiario di Netanyahu e del suo governo”, spiega al Fatto . I rapporti tra il primo ministro israeliano e l'amministrazione Obama non sono mai stati idilliaci, nonostante il recente sostegno nell'offensiva contro Gaza.
“SE ANCHE gli Stati Uniti abbandonano Israele, rimarremo completamente isolati. Per abbandono intendo dire proseguire con l'indifferenza con cui Obama aveva trattato Netanyahu fino a poco tempo fa”. L'indifferenza di questi tempi può essere peggiore di un confronto, seppur duro: permette ad altri di infilarsi negli spazi lasciati in-custoditi. E questi altri sono stati i Paesi del Golfo, come il Qatar. “Abu Mazen per la prima volta ieri ha potuto dire che se Israele dovesse bloccare alle frontiere, per ritorsione, gli aiuti internazionali destinati all'Anp, il ricco emiro del Qatar li aiuterà”. Come aveva già fatto, quando un mese fa andò a portare un assegno bilionario ad Hamas per sbloccare l'isolamento di Gaza.

il Fatto 2.12.12
Desaparecidos, la Norimberga argentina
Al via l’atto finale del processo per i crimini della dittatura:
68 imputati per migliaia di morti
di Anna Vullo


Buenos Aires Ci sono volti tristemente noti come el Tigre Jorge Acosta e l’angelo della morte Alfredo Astiz, con la sua maschera d’indifferenza, già condannati all’ergastolo per delitti di lesa umanità nel secondo filone del processo Esma dell’ottobre 2011. Assieme a loro, nella sala stracolma del Tribunale di Comodoro Py, a Buenos Aires dove si è aperto il terzo atto del maxi processo Esma, compaiono per la prima volta i profili inquietanti di otto piloti dei famigerati “voli della morte”, con cui ai tempi della dittatura argentina (1976-1983) venivano eliminati, gettandoli in mare o nel rio de la Plata, gli oppositori al regime.
In tutto 68 imputati chiamati a rispondere di quasi 800 sequestri, violenze, torture e omicidi commessi all’interno dell’ex Scuola di Meccanica della Marina militare, in quello che si annuncia come il più imponente processo agli aguzzini dell’epoca buia argentina. Durata prevista: due anni, durante i quali verranno ascoltati quasi 900 testimoni. Julio Poch guarda nel vuoto. Sulle ginocchia un cartello a uso mediatico in spagnolo e olandese: “Sono innocente”. Al termine della dittatura Poch si era rifugiato in Olanda, dove viveva con la moglie e lavorava per la linea aerea Transavia. Venne arrestato in Spagna dopo aver confessato, a una cena tra colleghi, di aver pilotato lui stesso gli aerei da cui vennero lanciati in mare centinaia di uomini e donne.
MOLTI DI LORO non avevano altra colpa se non quella di dissentire con i brutali metodi della dittatura. “Vos te vas para arriba”, te ne vai in cielo, annunciava sadicamente ai prigionieri dei centri di detenzione clandestina el Tigre Acosta, incaricato di far funzionare il campo di tortura dell’Esma e sterminare gli oppositori: almeno cinquemila persone, secondo le ricostruzioni dei sopravvissuti. Insegnanti, studenti, sindacalisti, militanti politici venivano narcotizzati, caricati su camion e trasferiti sui voli della morte. Sulle acque melmose del rio de La Plata si apriva il portellone per l’ultimo viaggio. “Cadevano come formiche”, avrebbe raccontato Emir Sisul Hess, ex pilota di Aerolineas Argentinas anch’egli sul banco degli imputati, a un suo sottoposto. “Conosco questi volti: molti sono stati indagati in Spagna”, commenta Baltasar Garzòn, il magistrato spagnolo che si è occupato dei crimini di Pinochet, giunto a Buenos Aires per assistere al giudizio e lavorare come consulente nella Commissione Diritti Umani della Camera. “Dopo Norimberga non credo ci sia stato un processo di queste dimensioni per crimini di lesa umanità”, dice.
In platea siede Lila Pastorizia, ex desaparecida dell’Esma e oggi tra le animatrici del Centro per la Memoria all’interno dell’ex Scuola della marina; stringe mani Lita Boitano dell’Associazione Familiari dei desaparecidos, origini italiane e due figli inghiottiti nel nulla dalla dittatura, tra le protagoniste del processo che portò, a Roma, alla condanna di Guillermo Suarez Mason, conosciuto come el carnicero del Olimpo, il macellaio di Garage Olimpo, noto centro di tortura della capitale argentina.
I PUBBLICI ministeri leggono i capi d’imputazione relativi ai 798 “casi”, svelando la tragedia umana che si cela dietro ciascuno di essi. Come quella della famiglia di Sergio Tarnopolsky, “caduto” il 13 luglio del 1976. Dopo di lui vennero sequestrati sua moglie, suo padre, sua madre e sua sorella Betina, 15 anni appena: tutti scomparsi. Una lettura che non cessa di essere sconvolgente nemmeno per chi segue da tempo i processi contro i crimini della dittatura: poche frasi scarne per descrivere delitti atroci, corpi sfigurati o bruciati vivi, torture contro bambini, ma sufficienti a dare l’idea delle dimensioni e della sistematicità del piano di sterminio messo a punto dalla giunta militare. “Un vero genocidio”, secondo Ana Maria Careaga, una sopravvissuta. Trentamila desaparecidos: angeli caduti a cui va restituita la memoria. Perché non siano volati in cielo, o in mare, invano.

Repubblica 2.12.12
Giovanni Reale
Lo studioso racconta la sua storia “I miei avevano fatto le elementari e mi hanno insegnato l’arte della semina”
In paese non ero ben visto dicevano che mi ero montato
Da ragazzo mi sono sentito invisibile agli altri
“Io, perbenista filosofico, figlio di contadini detesto il pensiero fast-food dei nostri tempi”
di Antonio Gnoli


Con quel cognome doveva per forza realizzare qualcosa di solido. E magari importante. Da cui non poter prescindere. A più di ottant’anni, scoccati l’anno scorso, desta curiosità Giovanni Reale. Filosofo che dal mondo antico ha tratto forza e autorevolezza. Sue sono alcune importanti edizioni di Platone e Aristotele. Sua una nuova edizione appena pubblicata da Bompiani, delle Confessioni di Agostino. In una collana dedicata al pensiero occidentale che egli segue personalmente. Reale è un personaggio monolitico e sgusciante al tempo stesso. Dietro certe sue rotondità – l’aspetto è quello di un abate medievale – si intravede un principio di resistenza. Nella mancanza di spigoli si sospetta una forte determinazione. Lo incontro a Roma. Non distante da Montecitorio dove, davanti a una platea di politici e non, discetterà su Tommaso Moro. Avvolto in uno spolverino di pelle nera, con in mano una borsa sovraccarica di fogli, e un cappello inclinato sulla testa, mi attende nella hall di un albergo. Ha un’aria inattuale. Mi ricorda, nelle fattezze fisiche e nell’eloquio scivoloso, un altro Giovanni, Spadolini che alla politica si dedicò provenendo dall’università e dal giornalismo.
Se le proponessero di entrare in politica?
«Per carità lasciamo perdere. Me lo proposero ma non ho mai accettato. Ciascuno faccia, se può, ciò per cui è portato. La mia vocazione fin dall’età di 14 anni è stata la filosofia».
Ragazzo precoce.
«Ma no. Già il bambino che chiede perché è nato si apre alla filosofia. In fondo la sua domanda non è così distante da quella che poneva Martin Heidegger: perché c’è l’essere e non il nulla».
Dove è nato?
«A Candia Lomellina, un paese dove si coltiva soprattutto riso. Quando ero piccolo era un posto molto povero. Ma di una povertà nobile».
E lei sognava di andarsene?
«No, sognavo di resistere. Non ero ben visto in paese. Dicevano che le letture mi avevano montato la testa. Che non avevo voglia di lavorare e non capivano come facevo ad essere il primo della classe visto che non ero il figlio di un notabile».
I suoi di cosa si occupavano?
«Erano contadini. Gente semplice. Legata alla terra. Mio padre mi diceva: Giovanni, la cosa fondamentale è seminare nel momento giusto, nel posto giusto, nel modo giusto. Altrimenti la natura ti sconfessa. I miei avevano fatto le elementari. Ma possedevano una grande saggezza. Mi hanno aiutato, hanno creduto in me. Mentre tutto il paese era contro».
Cos’è che infastidiva i suoi concittadini?
«Le letture filosofiche, così precoci e l’idea che il mondo si potesse guardare anche con gli occhi dello spirito. Ma io mi sentivo crescere. Sicuro, contro tutti».
Una forma di difesa.
«Che mi metteva al riparo perfino dagli insulti. Soprattutto al liceo che feci a Casale Monferrato. E finalmente quando presi la laurea il mio professore mi disse: hai ricevuto dei bei doni dal buon Dio e lui te ne chiederà conto se non li moltiplicherai. Cosa devo fare? Gli chiesi. Devi andare in Germania per qualche anno e portarmi qui, nella piazza di Sant’Ambrogio, quanta più Atene è possibile».
Sembra una favola. E lei partì?
«Sì, andai a Monaco e a Tubinga e vi restai per quasi 4 anni. Era il 1954. Allora in Germania ci odiavano. Consideravano noi italiani dei traditori».
E lei come ci viveva?
«Come uno cui era toccata in sorte una grande opportunità. Ma da pagare a un prezzo altissimo. Ricordo che se arrivavo al collegio con qualche minuto di ritardo dovevo procurarmi un permesso di scuse, senza il quale non avrei mangiato. Seguiva la disapprovazione degli altri studenti, che manifestavano strusciando i piedi in terra. C’era l’idea molto tedesca che se tu non rispetti il tempo offendi l’altro».
Non l’è venuta voglia di abbandonare tutto e tornare in Italia?
«No, in famiglia mi avevano abituato all’idea che occorresse prima dare e poi ricevere. Avevo un obbligo con i miei superiore a qualunque avversità. Ma ne ho ingoiate di amarezze».
Che cos’è l’umiliazione?
«Sentire che per gli altri sei invisibile. Non esisti. Una sensazione terribile. Aggravata più dalla povertà del rapporto umano che dalla povertà economica».
Qual è oggi il suo rapporto con il denaro?
«Dai greci ho imparato che le cose hanno importanza per il modo in cui le si guarda. Il denaro diventa importante se gli dai importanza. Oggi il denaro appartiene ai grandi processi di americanizzazione della vita. Per cui vali solo se raggiungi un certo reddito.
Ma le pare sensato?».
Dica lei.
«Le pare sensato che sia la Borsa – un’accozzaglia imprevedibile di stati d’animo – a guidare o a condizionare lo Stato? Solo se si ritiene che il denaro sia l’onnipotenza si può accettare una tale visione. La vecchia definizione del denaro sterco del demonio
non ha perso di attualità».
Sa un po’ di sacrestia.
«Le teologia è stata più importante di quanto non si creda per definire le relazioni sociali. Comunque, non dico che il denaro non serva. Ma occorre farne un uso dignitoso».
E lei che uso ne fa?
«Un po’ distratto, non me ne occupo. Ho una moglie e dei figli e quanto abbiamo per vivere con decoro ci è sufficiente. La filosofia ellenistica mi ha insegnato che se vuoi essere libero devi cambiare il tuo modo di guardare il mondo».
Ci vorrebbe un po’ più di mondo antico.
«È il nostro scudo culturale».
Dietro il quale lei si protegge.
«Verissimo».
Non ha mai avuto cedimenti, crisi, crolli?
«Momenti brutti nella vita di un uomo ci sono. I miei li ho vissuti come occasione di una crescita. In tutte le cose ci sono alti e bassi. Ma poi resta la verità».
Intende il rapporto con Dio?
«È un momento fondamentale».
Cosa significa per un filosofo essere credente?
«Io credo, per dirla con Agostino, nella Chiesa spirituale, non in quella di Roma».
Cosa pensa di Ratzinger?
«Un grande papa che ha fatto bene a smettere i panni del teologo. O almeno a non indossarli sempre. Parlare filosoficamente di Dio si finisce con il ricondurlo un po’ troppo alla misura umana».
Se non fosse stato un filosofo cosa sarebbe?
«Intanto non sono un filosofo ma uno storico della filosofia. Le dirò una cosa che pochi sanno. Da giovane facevo il pittore. Copiavo in maniera splendida gli impressionisti. Ed è la ragione, tra l’altro, dei numerosi libri di argomento artistico che ho fatto con Elisabetta Sgarbi».
Perché ha smesso di dipingere?
«Non ero creativo. La grande pittura è un’altra cosa dal copiare. Non avevo la potenza dell’artista».
Per secoli l’arte è stata copia.
«Fino a un certo punto. Il grande pittore esprime con le immagini ciò che il grande filosofo dice con i concetti. Alla verità si arriva per tre strade: l’arte con la bellezza, la filosofia con la ragione, la religione con la fede».
Oggi non è più così.
«Oggi si crede soprattutto nella scienza che è veritativa, ma non vera».
Cosa pensa dell’arte contemporanea?
«È l’espressione del nichilismo, dei mali dell’uomo. Non sa tirare fuori il positivo che è in noi. Ma riconosco che ha realizzato opere molto belle».
Che la mettono in tentazione?
«Sarei uno sciocco se condannassi e basta. Ma va cercato il bene».
Non c’è troppo perbenismo filosofico?
«Meglio questo del permalismo. Del resto se credi in Dio non puoi non pensare al bene».
Lei dove si colloca tra evoluzionismo e disegno divino?
«Non condanno affatto l’evoluzionismo. Ma perché non pensare che quando Dio ha infuso lo spirito nell’uomo lo abbia lasciato crescere partendo dall’animale».
Quindi lei crede nel disegno divino?
«Senza dubbio. Sono profondamente convinto che dal nulla derivi il nulla. Ci sono problemi di natura cosmologica che scienza e metafisica affrontano in modi diversi. L’insegnamento ne deve tener conto».
A questo proposito lei dove ha insegnato?
«Per otto anni nei licei. Poi all’università: prima a Parma, poi alla Cattolica di Milano e infine al San Raffaele».
Cosa pensa di Don Verzé?
«Ha cominciato realizzando cose bellissime e importanti, creando una città dei malati superba e una efficiente facoltà di filosofia. Poi, la situazione gli ha preso la mano. Non conosco i suoi errori se non attraverso i giornali. Ma andava ricordato tutto il bene che aveva fatto prima».
In cosa secondo lei ha sbagliato?
«A un certo punto ha pensato di essere onnipotente. Purtroppo è ciò che rischia chi ha il potere».
Lei ha mai avuto tentazioni di potere?
«Lo odio per il modo in cui ci può trasformare in peggio. La filosofia mi ha tenuto al riparo da questa brama».
Quante cose deve alla filosofia. Non c’è altro nella sua vita?
«Ci sono i miei affetti. E la sorprenderò dicendole che sono anche un ottimo cuoco. Faccio dei risotti favolosi, che mi insegnò mia madre».
La metto alla prova.
«Il più buono per me è quello alle cinque carni. Che vanno rosolate lentamente. E poi aggiunto il brodo. Un piatto unico e sostanzioso. La cucina è un’arte. Oggi purtroppo si mangia in modo disastroso ».
E come si pensa?
«In maniera altrettanto disastrosa. Abbiamo un pensiero “fast food”: veloce e incoerente».
Che fare?
«Penso che la filosofia sia non solo dottrina ma anche vita. I greci rispettavano un sistema di pensiero se quel sistema era coerente e messo in pratica. Vivere in modo confacente a quello che si dice. Ecco cosa si dovrebbe fare. È una lezione semplice. Apprenderla ci farebbe solo che bene».
La sua olimpicità mi pare eccessiva.
«Non si inganni. Quello che ho raggiunto l’ho pagato a prezzi altissimi. Ma questo mi ha messo in una posizione sicura. Tutto quello che ho fatto è stato perché ci ho creduto fortemente. E oggi posso dire che ne valeva la pena».

Corriere Salute 2.12.12
Il giallo del vibrione «conteso» fra Pacini e Koch
di Antonio Alfano


Luglio 1883: muore a Firenze Filippo Pacini (1812-1883), illustre anatomico e istologo che per primo, nel chiuso del suo laboratorio, aveva isolato i vibrioni del colera.
Agosto 1883: Robert Koch (1843-1910), batteriologo e microbiologo di fama, giunge in Egitto a capo di un'impegnativa spedizione scientifica allo scopo di individuare le cause del colera, ancora ignote per la scienza ufficiale.
Pacini e Koch non si conoscevano neanche, ma le loro storie erano accomunate dallo stesso obiettivo: sconfiggere il misterioso agente patogeno del colera, causa di morte in tutto il mondo.
In India, nella valle del Gange, fiume sacro degli Indù, la malattia era endemica. I pellegrini che si immergevano nel fiume ne bevevano le acque infette.
Così, i misteriosi agenti microbici, rapidi e invisibili, diffondevano il colera nel mondo. Nel 1817 scoppiò la prima grande pandemia che dal Bengala raggiunse anche il Tibet, l'isola di Ceylon, la Persia, estendendosi attraverso le vie seguite dalle carovane fino alle foci del Volga.
Una seconda ondata epidemica nel 1828 provocò un enorme numero di vittime. Ancora partita dal Bengala investì Caucaso, Polonia, Romania, Austria, Belgio, Inghilterra, Finlandia, Francia e Italia con effetti devastanti: 103 mila morti in Francia, dei quali 20 mila solo a Parigi; a Napoli 13.800 decessi su 336.400 abitanti; a Palermo 24.014 decessi su 173 mila abitanti e a Roma circa 9 mila morti su oltre 140 mila abitanti.
Dal 1841, si susseguirono altre cinque pandemie, fino alla settima, tra il 1902 e il 1926, quando furono messe in atto tutte le nuove misure di profilassi, legate proprio alle scoperte di Pacini e Koch.
Filippo Pacini, nato a Pistoia il 25 maggio del 1812, figlio di un ciabattino aveva abbandonato la carriera religiosa per dedicarsi alla medicina, affermandosi subito come attento e acuto anatomista. Ancora studente aveva scoperto e descritto il funzionamento di strutture nervose della cute, fondamentali per il tatto, tutt'oggi note come "corpuscoli di Pacini", presentate in una pubblicazione sui "Nuovi organi nel corpo umano" (1840).
Professore di anatomia descrittiva e poi di anatomia topografica e istologia dell'Università di Firenze, si era imbattuto nel vibrione del colera nel 1854, quando la terza pandemia (1841- 1856) giunta in Italia nel 1849 aveva colpito le province del Nord Est e anche Firenze.
Circa trenta anni prima di Koch, Pacini, servendosi di un potente microscopio donato all'Università di Firenze dal Granduca di Toscana Leopoldo II, riuscì a identificare il vibrione come la minacciosa causa del colera. Le ricerche furono condotte su quattro pazienti, due uomini e due donne colpite dalla malattia. «Sebbene nei primi tre casi di colera non facessi molta attenzione a questi vibrioni — afferma Pacini nelle sue Osservazioni microscopiche e deduzioni patologiche sul colera asiatico presentate alla Società medico-fisica di Firenze il 10 dicembre 1854 — nel quarto caso rimasi veramente sorpreso, per la immensa quantità che ne trovai. Sotto il microscopio si vedevano sortire miriadi di vibrioni».
Dal punto di vista clinico, Pacini evidenziò anche l'aspetto legato alla massiccia perdita di liquidi ed elettroliti dovuta all'azione del vibrione sulla mucosa intestinale.
Inoltre osservò come «il vibrione avendo in sé la propria sorgente può viaggiare per tutto il mondo…», affermazione che si rivelerà quasi profetica nella lunga e controversa storia della lotta al colera. Tuttavia, l'importante scoperta di Pacini non ricevette la dovuta attenzione del mondo scientifico.
Fu Robert Koch, premio Nobel per la Medicina nel 1905 (per le sue ricerche e scoperte sulla tubercolosi), uno dei padri della moderna batteriologia e microbiologia, che nell'anno della morte di Pacini (1883), isolò i vibrioni, confermando la scoperta dello scienziato italiano.
Nel 1883 il colera, partito dall'India, colpì duramente l'Egitto, dal Mar Rosso, al Mediterraneo alle valli del Nilo. Uno dei tipi più diffusi di vibrioni detto El Tor, prese il nome proprio da una località del Sinai, non lontana da Sharm el-Sheikh. Allora, il governo egiziano chiese aiuto a Francia e Germania, dove operavano i grandi microbiologi del secolo, Louis Pasteur (1822-1895) e Robert Koch, per contrastare la virulenza dell'epidemia. Partirono per primi dalla Francia i collaboratori di Pasteur, tra i quali Louis Thuillier, uno degli allievi preferiti. La spedizione francese fu costretta a rientrare quasi subito, nell'ottobre 1883, anche a causa della morte di Thuillier, colpito da colera.
Il gruppo dei ricercatori tedeschi, composto da due medici e un tecnico guidati da Koch, giunse ad Alessandria d'Egitto il 24 agosto 1883. Gli esami batteriologici su 12 pazienti e le autopsie su dieci persone morte per colera, in un primo momento non dettero i risultati sperati. Era indispensabile isolare il bacillo per poterlo identificare. Mentre in Egitto si affievoliva la virulenza della malattia, in India scoppiava una nuova, violenta epidemia. Koch chiese quindi al governo tedesco di potersi trasferire a Calcutta. In India lo scienziato tedesco utilizzerà anche le osservazioni e il metodo epidemiologico del medico inglese John Snow (messe a punto nel 1854 durante dell'epidemia di colera diffusasi nel quartiere londinese di Soho) che facevano riferimento alla qualità dell'acqua nella diffusione della malattia. Koch mantenne costantemente informata l'opinione pubblica sull'andamento delle ricerche. Tanto che dall'India inviò una lunga serie di dispacci, quasi tutti pubblicati nella gazzetta ufficiale tedesca, regolarmente diffusi dalla stampa.
N el gennaio 1884, e precisamente il giorno 7, Koch annunciò di aver isolato il bacillo in coltura pura e che le autopsie confermavano la presenza esclusiva del bacillo nei pazienti affetti da colera. Il 2 febbraio aggiungeva ulteriori particolari: il bacillo appariva "un pò curvo, come una virgola", da cui poi derivò il nome di vibrione, e aveva la «capacità di proliferare tra la biancheria sporca e umida, nella terra bagnata». Il 4 marzo 1884, con un ultimo dispaccio al Governo tedesco, Koch dichiarava conclusa la missione. Tra Egitto e India i tedeschi avevano eseguito indagini microbiologiche su 40 pazienti e 52 autopsie sui morti di colera.
Koch, tornato in Germania, fu considerato un eroe nazionale, avendo ufficialmente scoperto il vibrione del colera. Filippo Pacini invece, che era giunto alle medesime conclusioni circa un trentennio prima, dovette aspettare altri 82 anni dopo la sua morte per avere il giusto riconoscimento scientifico: nel 1965, il comitato internazionale sulla nomenclatura batteriologica denominò ufficialmente il bacillo come «vibrione del colera Pacini 1854»
Epidemie da cibo avariato
Il colera compare già nell'antichità. I medici dell'Antica Grecia, intorno al V secolo a. C, ma anche quelli del Medioevo, in più occasioni parlano di una forma morbosa dell'apparato digerente indicata come «cholera nostras». Questa affezione, secondo gli storici della medicina, non aveva però alcuna attinenza con la malattia moderna di origine asiatica, descritta nel XIX secolo e dovuta all'attività del vibrione.
Si trattava, invece, di tossinfenzioni alimentari che causavano gravi dissenterie. Pur non essendo contagioso o diffuso come la lebbra o la peste, anche il «cholera nostras», costituiva una grave insidia. La rapida diffusione era legata al consumo di alimenti avariati o tossici e di bevande infette, cosa allora abbastanza comune per la scarsa qualità della conservazione dei cibi.
Ad essere colpiti erano spesso interi paesi dove tutti consumavano lo stesso tipo di cibo o bevande. Ma a temere la malattia erano anche gli eserciti, che spesso colpiti dal morbo erano costretti a ritirarsi.

Corriere La Lettura 2.12.12
Leggendo il filosofo tedesco e Platone si capisce meglio
La società dei minorenni
Ne bamboccioni né “choosy”
I giovani d’oggi ce li spiega Kant
di Umberto Curi


Né bamboccioni né «choosy» I giovani d'oggi ce li spiega Kant di UMBERTO CURI
I l copyright è saldamente nelle mani di Tommaso Padoa-Schioppa. Nell'ottobre del 2007, l'allora titolare del ministero dell'Economia nel secondo governo Prodi aveva infatti definito «bamboccioni» quei giovani che, sulla soglia dei trent'anni, continuavano a vivere in casa con i genitori. Benché duramente contestata, quella espressione era destinata ad aprire la strada a un vero florilegio di definizioni, analoghe nel contenuto, anche se differenti nella forma. Nel giro di pochi anni, malgrado l'avvicendarsi dei governi, i giovani sarebbero stati chiamati «mammoni» (Brunetta, ministro del governo Berlusconi), «sfigati» (Martone, viceministro del governo Monti), «monotoni» (Monti, presidente del Consiglio), «choosy», più o meno: schizzinosi (Fornero, ministro del governo Monti), solo perché non avevano ancora conseguito la laurea, o perché aspiravano a un posto fisso, in un mercato del lavoro in cui la flessibilità è in realtà un eufemismo per indicare la precarietà.
Non si può dire che le polemiche divampate dopo queste esternazioni siano state un modello di eleganza o di rigore concettuale. Eppure, al fondo di un dibattito culturalmente desolante vi sarebbe in realtà una questione tutt'altro che banale o trascurabile. La si potrebbe riassumere nei termini seguenti: come si diventa maggiorenni? Assodata l'insufficienza del criterio puramente anagrafico, in base al quale la maggiore età coinciderebbe con il raggiungimento dei 18 anni, a quali parametri razionalmente definibili ci si può riferire per valutare la fuoriuscita dalla minorità? E poi: davvero basta abitare da soli, o essere disponibili a cambiare lavoro, per allontanare da sé l'infamante epiteto di choosy?
Una risposta appena un po' meno occasionale a questi interrogativi può essere rintracciata in due testi filosofici, la cui importanza — anche per la comprensione di alcuni temi legati alla diatriba di cui parliamo — è abitualmente ignorata, o almeno non adeguatamente valorizzata. Da una secca definizione della minorità prende le mosse anzitutto un saggio di Immanuel Kant, tanto rilevante quanto per lo più negletto, anche perché offuscato dalla risonanza suscitata dalle tre Critiche. Essa non dipende affatto, secondo il filosofo, dall'età, ma consiste piuttosto in una carenza decisiva, quale è «l'incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro».
È opportuno sottolineare che lo scritto kantiano compare originariamente non in una rivista filosofica specializzata, ma in quello che si potrebbe definire un periodico di «varia umanità», quale era la «Berlinische Monatsschrift», in risposta a un interrogativo proposto nel fascicolo precedente da un religioso, il quale chiedeva che qualcuno si prendesse la briga di spiegare «che cos'è l'Aufklärung». Conservare, almeno provvisoriamente, il termine tedesco non è una inutile civetteria, ma corrisponde all'esigenza di evitare i fraintendimenti ai quali ha dato luogo la traduzione italiana corrente, e gravemente negligente. Mentre, infatti, nel testo originale Aufklärung indica insieme quel movimento culturale che è stato chiamato «Illuminismo» e il «rischiaramento», inteso come processo mediante il quale è possibile «fare chiarezza», la traduzione italiana appiattisce l'ambivalenza del termine tedesco, rendendolo univocamente con «Illuminismo». Mentre è del tutto evidente che l'iniziativa assunta da Kant con la sua Risposta, pubblicata nel gennaio del 1784, non è motivata dalla volontà (che sarebbe poco comprensibile) di offrire una definizione tecnica di un movimento filosofico, quanto piuttosto dalla ben più significativa esigenza di spiegare in che modo si possa realizzare il «rischiaramento» intellettuale. Ne è prova il testo del saggio, scritto in maniera limpida e particolarmente incisiva, senza alcuna concessione a «tecnicalità» filosofiche, presumibilmente inadatte al pubblico eterogeneo a cui si rivolgeva la rivista. Aufklärung — scrive Kant — è uscire dallo stato di minorità, è avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza, senza soggiacere alla guida di altri. Più esattamente, essa si identifica con una decisione — quella di diventare Selbstdenker, vale a dire letteralmente «uno che pensa con la propria testa». Né questo monito deve apparire scontato o pleonastico.
Al contrario, secondo il filosofo, «la stragrande maggioranza degli uomini ritiene il passaggio allo stato di maggiorità, oltre che difficile, anche pericoloso», e dunque preferisce sottrarsi a quella «fastidiosa occupazione» che richiede l'uso libero delle proprie capacità intellettuali. «È così comodo — sottolinea ancora l'autore delle Critiche — essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che valuta la dieta per me eccetera, non ho certo bisogno di sforzarmi da me».
Di qui una conclusione linearmente deducibile dalle premesse poste: se si vuole diventare maggiorenni, è necessario sottrarsi alla custodia di quei tutori che costantemente invitano a non ragionare («L'ufficiale dice: non ragionate, fate esercitazioni militari! L'intendente di finanza: non ragionate, pagate! L'ecclesiastico: non ragionate, credete!»), usando invece sistematicamente la propria intelligenza, senza soggiacere alla presunta autorità altrui. Insomma, minorenni — o se si preferisce «bamboccioni» — si può essere a qualunque età. Lo è anzi chiunque fra noi eviti di pensare con la propria testa, delegando di conseguenza ad altri questa «fastidiosa occupazione».
Un ragionamento convergente con quello contenuto nel saggio kantiano si ritrova già in uno dei Dialoghi platonici più noti, anche se spesso misinterpretato. Al centro del Sofista, infatti, vi è la ricerca, condotta da due personaggi presumibilmente «giovani» (tale è se non altro con certezza Teeteto, mentre il suo interlocutore, presentato come lo Straniero, proveniente da Elea, è giovane se non altro nel senso della sua condizione di discepolo rispetto al «grande» Parmenide), impegnati a fornire una definizione della figura del sofista. L'indagine a due voci prosegue a ritmo serrato, e con esiti apparentemente soddisfacenti, fino a che i protagonisti si imbattono in una difficoltà che minaccia di compromettere radicalmente l'impresa nella quale si stanno cimentando. Per poter sostenere la conclusione alla quale sono pervenuti, e cioè che il sofista è colui che esercita l'arte di far apparire ciò che non è, essi dovrebbero implicitamente riconoscere che anche il non essere, da un certo punto di vista è, mentre l'essere, sia pure da un certo punto di vista, non è. Ma questa affermazione contraddice frontalmente un divieto, quello proveniente dal «padre» Parmenide, secondo il quale il non essere è «inesprimibile», «impronunciabile», «illogico».
La situazione nella quale si vengono a trovare Teeteto e lo Straniero appare dunque inchiodata a un'alternativa drammatica: piegarsi all'osservanza della proibizione parmenidea, con ciò tuttavia privandosi del logos, e dunque perdendo la possibilità di dire alcunché, ovvero avere il coraggio di epitíthesthai tó patrikó lógo — «dare l'attacco al discorso paterno». L'impiego di una metafora bellica non è casuale nel contesto di un dialogo in cui ritornano insistentemente termini desunti dal lessico polemologico. Serve a sottolineare quanto delicata sia la scelta che si è chiamati a compiere, quanto sia letteralmente vitale — «questione di vita o di morte», si legge nel testo platonico — la posta in gioco. È noto il compimento di questo percorso. Onde riprendere la possibilità di parlare e di pensare, i due interlocutori saranno indotti a «torturare» il padre e a «usare violenza» su di lui, giungendo al punto da sfiorare il parricidio. Per quanto temerario possa apparire questo esito, esso resta l'unica possibile via da percorrere, l'unico modo per riguadagnare il cammino, uscendo dalla mancanza di strada, dall'a-poria, dunque, in cui ci si era imbattuti. Mentre, infatti, Parmenide vorrebbe «trattarci da bambini», «raccontandoci delle favole» e «dialogando con noi con atteggiamento di sufficienza», è imperativo per noi riprenderci il logos, e assoggettare a un vaglio rigoroso le affermazioni «paterne». Dopo questa autentica svolta, improntata alla rinuncia a ogni filiale subordinazione, la ricerca che si era incagliata può riprendere, giungendo speditamente alla sua conclusione. Teeteto e lo Straniero sono diventati maggiorenni. Non subiranno più i divieti del padre «venerando e terribile». Non accetteranno di farsi trattare da bambini, né si accontenteranno di ascoltare delle favole.
Il compimento dell'intenso drama descritto da Platone ci riporta alla Risposta kantiana. Essere maggiorenni non è un dato di carattere anagrafico, né una condizione statica, nella quale si possa dire di risiedere stabilmente. È una conquista, che impegna energie morali, come il coraggio e la decisione, e risorse intellettuali. Ed è la meta, mai definitivamente raggiunta, di una lotta anzitutto con se stessi, con la viltà di chi preferisca affidarsi alla tutela altrui. E forse allora si può comprendere fino in fondo il senso dell'affermazione kantiana quando rileva, con un realismo spinto fino al disincanto, che minorenne è ancora la stragrande maggioranza degli uomini. Insomma, per quanto possa apparire paradossale, i giovani che al giorno d'oggi stanno lottando per guadagnarsi la loro autonomia sono meno bamboccioni di coloro che ripetono acriticamente le formule imposte da altri.

Corriere 2.12.12
Manca un mediatore tra le generazioni
di Corrado Ocone

Teeteto e lo Straniero sono diventati maggiorenni. Non subiranno più i divieti del padre "venerando e terribile". Non accetteranno di farsi trattare da bambini, né si accontenteranno di ascoltare delle favole.

Non c'è dubbio che il dibattito pubblico italiano degli ultimi tempi sia come attraversato da una retorica giovanilista, spesso fatta propria da quelle persone anziane e ben collocate che a tutto pensano fuorché a farsi da parte. È una retorica che riproduce, col segno cambiato, il modo di ragionare di certe stucchevoli apologie della vecchiaia come età della saggezza, di cui parla Bobbio nel suo De Senectute. Il filosofo torinese, a ben vedere, ci dà anche la chiave per ragionare sulla dicotomia giovani-vecchi, invitandoci a considerare la questione almeno sotto tre aspetti: l'età anagrafica, quella biologica e quella psicologica o soggettiva. Non dimenticando che oggi essere o sembrare giovani è diventato quasi un obbligo, sicuramente una moda, e comunque una tendenza che l'industria dei consumi asseconda promuovendo diete, lifting, modi di vivere che ci facciano sembrare sempre giovani.
Però l'aspetto più rilevante della questione è che, nel giovanilismo diffuso e praticato, si sia come persa l'importante funzione di elaborazione e trasmissione del sapere che un tempo regolava il rapporto fra le generazioni. E che quasi accompagnava per mano i giovani nel crescere. Una funzione che si esplicava in istituzioni appositamente create per adempiere a questo scopo. Le quali oggi, anche se continuano ad esistere formalmente, si sono di fatto, tranne pochissime eccezioni, svuotate dell'aura che la funzione esercitata finiva per conferire loro.
Era inimmaginabile ad esempio che chi facesse politica non si fosse formato nelle scuole di partito, o lavorando a fianco di un politico navigato. Le carriere nella pubblica amministrazione, ma anche nel privato, seguivano percorsi ben definiti, che potevano certamente essere accelerati da coloro che erano dotati di un particolare ingegno, ma che comunque non potevano essere ignorati come accade oggi nelle assunzioni per «chiamata diretta». Per non parlare dell'Università, ove era sempre il docente che cooptava, ma allora lo faceva avendo cura di scegliere i più bravi: sia perché teneva al prestigio derivante dall'autorevolezza morale, sia per continuare la tradizione di pensiero con cui si identificava e a cui spesso aveva dedicato la sua vita di studioso. Il Maestro, come veniva chiamato (nessuno avrebbe osato chiamarlo barone), non aveva certo bisogno, per individuare i continuatori del suo impegno, degli astratti metodi quantitativi oggi in voga, fatti apposta, sembrerebbe, per avvalorare nuovi imbrogli. Persino le parrocchie e le scuole religiose svolgevano una funzione di «educazione alla vita».
Ora, con tutto questo non si vuole certo esaltare il buon tempo antico, che aveva anch'esso i suoi limiti e i suoi difetti. Anche perché di acqua ne è passata tanta sotto i ponti e non si può pensare di fermare il mondo, il che, oltre che stupido, sarebbe anche ingiusto: oggi già un adolescente si trova immerso in una rete di dati ed è sottoposto all'azione di una quantità di «agenzie formative» (diciamo così con un eufemismo). Quel che si vuole constatare è semplicemente un fatto, che tocca a noi capire e regolare, o (se lo riteniamo) contrastare: il problema del rapporto fra giovani e vecchi riguarda anche la generale scomparsa del «terzo», nella fattispecie dei luoghi di mediazione e di formazione in cui giovani e meno giovani, interagendo, potevano reciprocamente arricchirsi e completarsi, perché anche chi non è più giovane ha bisogno di rinfrescare il suo sapere, di sottoporlo alle naturali e irriverenti forze vitali che rompono le incrostazioni o le abitudini consolidate.
Scomparsa del «terzo» è anche il rinchiudersi delle generazioni in loro stesse: i leader non vogliono mollare il potere perché non danno per garantito che i nuovi continuino la loro opera; i giovani vogliono semplicemente quel potere, dimentichi che il vero nuovo deve porsi in rapporto dialettico con il vecchio, «superandolo» e non semplicemente «rottamandolo». «Il Partito democratico invece di rinnovarsi si limita a cambiare di nome, laddove i nomi dei suoi dirigenti restano invariabilmente gli stessi», osserva Antonio Funiciello nel libro A vita (Donzelli). Ma il discorso non riguarda solo la politica. Può una società funzionare a lungo con il «principio del terzo escluso»? Il rapporto fra le generazioni, senza un luogo di mediazione, non rischia di porsi su un terreno aspramente conflittuale? E a chi giova un antagonismo fra vecchi e giovani non sulle idee, come in passato, ma solo sulle posizioni di potere da occupare? Più in generale: è possibile sottrarre il rapporto fra generazioni a una logica dicotomica che trascura il carattere chiaroscurale del mondo? Introdurre qualche elemento di consapevolezza è già un primo tentativo di risposta a queste domande.

Corriere La Lettura 2.12.12
L'Europa non è terra di cristiani
Mentre il Vecchio Continente perde fedeli (e sacerdoti) nel Sud del mondo sono passati in un secolo dal 20% al 60% del totale
Intanto i protestanti conquistano l'Asia
di Luigi Accattoli


Tre migrazioni inquietano i cristiani: dal Nord al Sud del mondo, dall'Europa alle Americhe, dalle Chiese storiche a quelle neopentecostali, evangelicals e carismatiche. Le prime due hanno già determinato un sorpasso, la terza lo sta realizzando. Tutte sono di lunga durata e mostrano di voler continuare almeno per un altro secolo.
Lo spostamento verso il Sud del pianeta è il meglio conosciuto: in un secolo i cristiani di laggiù sono passati da meno del 20 per cento del totale a oltre il 60. L'inedita dominante di colore è ormai visibile nelle facce delle assemblee del Consiglio ecumenico di Ginevra e dei Sinodi dei Vescovi che si fanno a Roma, ma anche nella provenienza dei ministri del culto che da laggiù vengono a riempire i vuoti ogni anno crescenti nelle file dei colleghi europei.
Meno percepita è la nuova dominante delle Americhe rispetto all'Europa: in un secolo i cristiani del Nuovo Mondo sono passati dal 27 al 37 per cento del totale mentre quelli europei sono scesi dal 66 al 30 per cento. Si tratta di uno spostamento fino a oggi meno avvertito perché guardato come un'innocua ridistribuzione all'interno della stessa area culturale: ma si tratta di una percezione pigra che sta ricevendo una scossa dalla sfida delle sette, ovvero degli evangelicals, che sono in rapidissima espansione sia nel Nord sia nel Sud del continente americano.
Neopentecostali, carismatici ed «evangelici» sommati insieme costituiscono oggi il secondo gruppo cristiano dopo i cattolici, nonché quello più vitalmente missionario. Sono a matrice protestante e già hanno superato di gran lunga i «battezzati» delle Chiese venute dalla Riforma, ma stanno anche penetrando nelle aree tradizionalmente cattoliche (dall'America Latina alle Filippine) e ortodosse (Russia e Medio Oriente).
L'era globale mescola le fedi sul pianeta e ne accelera la mutazione culturale. È verosimile che un cristianesimo non più a dominanza europea riesca infine ad attecchire in Asia ed è certo che la sua crescita nel Sud del mondo contribuirà a farlo meno dottrinale e organizzato, più vivo, forse più «carismatico».

Corriere La Lettura 2.12.12
Antisemitismo in Ungheria: l'ultima follia


Pochi giorni fa, in Ungheria, un deputato (e dirigente) del partito di estrema destra Jobbik ha chiesto al suo governo di stendere una lista degli ebrei presenti nel Paese e in Parlamento, perché sono «un pericolo per la sicurezza nazionale». Di fronte alle condanne del suo stesso governo e dell'Europa, questo tal Marton Gyongyosi ha pensato di cavarsela dicendo che si riferiva «soltanto a chi ha la doppia cittadinanza ungherese e israeliana». Drammaticamente, l'antisemitismo non è debellato, né in Ungheria né altrove. Spesso è camuffato da antisionismo: come ha scritto Gianni Scipione Rossi «l'antisionismo interpreta il ruolo di maschera "presentabile" di un'avversione assai più profonda». Oppure da negazionismo. Esplicito o travestito, ma fenomeno esistente e in crescita. È quindi utile la recente ripubblicazione di due libri del 1962 che ricordano gli orrendi crimini nazifascisti contro gli ebrei. Il primo è La belva in gabbia (Lindau), il resoconto puntuale del processo contro Adolf Eichmann scritto da Sergio Minerbi. Il titolo è la frase in codice utilizzata dal Mossad per informare l'allora premier israeliano David Ben Gurion della cattura di Eichmann in Argentina, dove si era nascosto. Il processo fu celebrato in Israele nel 1961. E Minerbi, poi ambasciatore, docente universitario e scrittore, lo seguì per la Rai; riportando un anno più tardi la vicenda in un libro per Longanesi. Le testimonianze dei sopravvissuti, gli interventi di accusa e difesa, tutto così fattuale e crudo da farne cronaca vivida e agghiacciante; e poi la descrizione dell'imputato, feroce direttore del dipartimento affari ebraici della Gestapo. Un insieme autentico e ben distante da quella «banalità del male» delineata da Hannah Arendt. Per quanto riguarda il secondo libro, la casa editrice La Giuntina ripropone La città della fortuna di Elie Wiesel. Il quale, con la confermata maestria e i sempre ricorrenti spunti autobiografici, narra la tragedia da un punto di vista emozionale. Un uomo si è salvato dalla Shoah e decide di affrontare ogni rischio per tornare nella sua città a guardare negli occhi chi ha contribuito allo sterminio della sua famiglia. Per provare a capire l'incomprensibile, quell'abominio che ancora oggi qualcuno che si dichiara uomo vorrebbe ripetere.

Corriere La Lettura 2.12.12
Le due memorie Grecia
Ad Atene il ricordo dei crimini di guerra tedeschi ha quasi eclissato quello dell’aggressione italiana
di Sergio Romano


Non è giusto pretendere che i tedeschi continuino a espiare le colpe del Terzo Reich. Hanno pagato quasi sempre i loro debiti, hanno innalzato monumenti in onore delle loro vittime, hanno organizzato grandi esposizioni storiche sulle malefatte del regime di Hitler, da cui emergono, tra l'altro, anche le responsabilità della Wehrmacht. Ma è probabile, forse inevitabile, che alcune colpe siano state riconosciute con maggiore diligenza ed altre considerate più lievi, se non addirittura giustificate dalle circostanze. Fra queste vi è probabilmente l'occupazione tedesca della Grecia fra il 1941 e il 1944. La Resistenza si è battuta duramente con i metodi e lo stile delle popolazioni balcaniche. I tedeschi hanno reagito distruggendo villaggi e spesso fucilando chiunque, fra gli uomini, avesse più di 14 anni. Ogni forza d'occupazione vive, per quanto possibile, alle spalle degli occupati (gli Alleati, in Italia, lo fecero stampando le lire con cui avrebbero pagato le spese del loro soggiorno nella penisola), ma i tedeschi in Grecia furono particolarmente arroganti, esosi, spietati e indifferenti alle disastrose condizioni economiche della popolazione.
I cittadini della Repubblica federale lo avevano dimenticato, i greci no. Gli insulti lanciati contro la cancelliera Merkel sui muri di Exarchia, il turbolento quartiere degli anarchici vicino al Politecnico di Atene, e le manifestazioni contro l'ambasciata di Germania sono le pretestuose provocazioni di coloro che vanno a caccia d'incidenti. Ma risvegliano ricordi che giacevano appena assopiti sul fondo della memoria. Abbiamo assistito in Grecia, negli scorsi mesi, al funzionamento di un ingranaggio perverso. Quanto più la stampa tedesca impartiva lezioni e bacchettava il popolo greco, tanto più facilmente il passato restituiva intatto alla società nazionale il ricordo dell'occupazione. Il viaggio di Angela Merkel ad Atene il 9 ottobre è stato un gesto di coraggioso buon senso. Ma ci vorrà del tempo perché i fantasmi del passato ritornino nel subconscio da cui sono usciti.
Mi sono chiesto, durante un viaggio in Grecia, perché in questi ricordi non vi sia anche un capitolo italiano. Il solo rimprovero mosso all'Italia, nei giorni che ho passato ad Atene, è stato storico-archeologico. È accaduto mentre stavo pranzando con una studiosa dell'Università di Salonicco all'ultimo piano dello stupendo museo dell'Acropoli inaugurato nel giugno del 2009. Avevo appeno ammirato le grandi metope del tempio, ma alcuni restauri mi erano sembrati eccessivi. È lecito ricostruire interamente un corpo umano quando i pezzi rimasti rappresentano più o meno una decima parte dell'insieme? L'archeologa mi ha risposto che esiste una buona documentazione a cui è possibile fare riferimento e che comunque non è colpa dei greci se i veneziani hanno bombardato l'Acropoli, demolito il tetto, abbattuto alcune colonne, frantumato molte delle figure che decoravano i fregi del tempio. Accadde nel 1687, quando il vecchio Francesco Morosini, detto il Peloponnesiaco, era tornato in campo con una flotta per strappare ai turchi Patrasso, Lepanto, Corinto, Atene. Ho risposto, per amor di patria, che le cannonate del Morosini non avrebbero fatto tanti danni se i turchi non avessero trasformato l'Acropoli in un arsenale pieno di barili di polvere. Ma avrei avuto maggiori difficoltà se la mia archeologa, anziché evocare l'ombra del Peloponnesiaco, avesse ricordato la guerra che Mussolini e Ciano avevano dichiarato alla Grecia nell'ottobre del 1940.
Ho scritto «Mussolini e Ciano» perché ciascuno dei due aveva il suo personale obiettivo. Il primo era infastidito dalle vittorie tedesche, temeva che la Germania, dopo la fine del conflitto, avrebbe dominato l'Europa e lasciato all'alleato un posto di seconda fila. Voleva dimostrare che l'Italia avrebbe fatto la «sua» guerra e che sarebbe stata, al momento della pace, padrona del Mediterraneo orientale. Ciano, invece, era deciso a conquistare un pezzo di Grecia per un Paese, l'Albania, che considerava una sorta di principato personale. Aveva già battezzato Porto Edda (dal nome della moglie, figlia di Mussolini) l'isola che i veneziani chiamavano Santi Quaranta, e voleva regalare ai suoi schipetari una zona dell'Epiro settentrionale, la Ciamuria, abitata in parte da popolazioni albanesi.
La decisione d'invadere la Grecia fu presa a Palazzo Venezia, nel corso di una riunione segreta con i vertici militari del regime, il 15 ottobre 1940. Il governo di Atene sarebbe stato accusato di avere fatto della Grecia una base militare britannica. Vi sarebbe stato un falso incidente di frontiera. Un ultimatum avrebbe intimato ai greci di consentire che le truppe italiane entrassero nel loro Paese per presidiare alcune zone strategicamente importanti. E per impedire qualsiasi manovra dilatoria, ai greci sarebbe stato imposto di rispondere entro un tempo brevissimo: tre ore. Per la stessa ragione fu deciso di mettere il ministro d'Italia ad Atene di fronte a un fatto compiuto. Si chiamava Emanuele Grazzi, aveva 51 anni, rappresentava l'Italia in Grecia dall'aprile del 1939 ed era convinto che il Paese, benché molto legato alla Gran Bretagna, avesse deciso di restare impeccabilmente neutrale. Capì che la guerra era nell'aria durante una conversazione con Curzio Malaparte, arrivato ad Atene dopo una seconda riunione di Palazzo Venezia per scrivere articoli che avrebbero giustificato il conflitto. Malaparte gli disse che il ministro Ciano lo aveva incaricato della seguente commissione: «Di' a Grazzi che lui può scrivere quello che vuole, ma tanto io la guerra alla Grecia gliela farò lo stesso».
La storia, da quel momento, divenne una tragica farsa. Il caso volle che proprio in quei giorni il teatro nazionale avesse deciso di inaugurare la stagione con la rappresentazione della Madama Butterfly di Giacomo Puccini. Il direttore del teatro invitò ad Atene il figlio di Puccini, dette un pranzo in suo onore e il giorno dopo, il 25 ottobre, si alzò il sipario in una sala dove sedevano il re Giorgio II, la famiglia reale e Ioannis Metaxas, primo ministro e dittatore dal 4 agosto 1936. Il programma dei festeggiamenti italo-greci prevedeva che anche il ministro italiano avrebbe organizzato un grande ricevimento la sera del 26 ottobre. La festa ebbe luogo, ma nelle ore in cui gli invitati, nei salotti della Legazione, brindavano all'amicizia fra i due Paesi, i funzionari della cancelleria stavano decifrando un lungo telegramma di Palazzo Chigi (allora sede del ministero degli Esteri) che spiegava minuziosamente tutto ciò che Grazzi avrebbe dovuto fare nella notte tra il 27 e il 28 ottobre. Si sarebbe presentato alle tre del mattino di fronte al cancello della villa di Metaxas, nel sobborgo ateniese di Kifissià, e avrebbe detto alla sentinella che il ministro d'Italia desiderava essere ricevuto «per una comunicazione urgentissima». Grazzi dovette eseguire l'ordine e Metaxas, svegliato dalla sentinella, apparve in veste da camera a una porticina di servizio. Passarono in un salotto dove il premier greco si mise a sedere su una grande poltrona di cuoio accanto a una finestra e fece sedere il visitatore di fronte a sé. L'incontro durò meno di un quarto d'ora. Grazzi consegnò l'ultimatum, Metaxas lo prese con mani leggermente tremanti, lo lesse e disse infine «Alors c'est la guerre», allora è la guerra. Da allora la poltrona su cui sedette Metaxas è religiosamente conservata dalla nipote nella casa di Kifissià, insieme ad altri cimeli e documenti della vita del nonno. Quanto alla poltrona di Grazzi, si racconta che una signora ateniese, durante una visita, stesse per sedervisi e fosse stata trattenuta dalla moglie del dittatore con queste parole: «No, non vi sedete su quella poltrona. È quella dove si sedette Grazzi la notte della dichiarazione di guerra».
Quando cominciarono le ostilità, Malaparte, preavvertito dal direttore del «Corriere» Aldo Borelli, aveva già lasciato Atene. Quasi tutti i suoi articoli, quindi, apparvero nelle prime settimane del conflitto. Fece un quadro fosco del Paese, dal ritorno in patria dei greci di Smirne, dopo la creazione della Repubblica turca sino al colpo di Stato di Metaxas il 4 agosto del 1936. Scrisse che il regime poliziesco di Metaxas «inaugurava per la Grecia quel periodo, protrattosi per oltre quattro anni sino a questi giorni, di miserie, di oppressione, di servitù, di corruzione e di delitti che ha ridotto l'infelice popolo greco a un livello di abiezione nazionale e di schiavitù sociale mai raggiunto nella sua storia di incomparabili grandezze e di incomparabili miserie». Scrisse che Atene era una città dove «bande di spie occupano in permanenza i caffè, i ristoranti, i ritrovi pubblici, i luoghi di spettacolo, i tranvai, gli autobus», dove la folla aveva «dipinte nel viso la diffidenza, la tristezza, la paura». Descrisse un Paese abbrutito, privo di volontà, di orgoglio, di spirito civile. Proclamò che quella dell'Italia era una guerra di liberazione: «una guerra sociale, di liberazione sociale». Disse che l'Italia sarebbe andata in Grecia per difendere «l'ordine morale, sociale, religioso sul quale si fondano le più alte tradizioni di civiltà dei popoli mediterranei». E invitò i suoi lettori a immaginare «quale immensa speranza di libertà susciti, nel cuore della Grecia, la marcia vittoriosa delle truppe italiane verso l'Acropoli di Atene».
Malaparte dimenticò o finse di non sapere che Metaxas era certamente un dittatore, ma aveva preso a prestito, per creare il suo regime, riti, formule e istituzioni del regime fascista: l'abolizione dei partiti, il saluto romano, la politica sociale, l'economia corporativa, un'organizzazione nazionale giovanile, un simbolo (labrys, l'ascia bipenne dell'antichità minoica) che aveva nel folclore del regime il ruolo del fascio e della croce uncinata. L'errore più grave di Malaparte, tuttavia, fu il suo giudizio sulla società greca. Quel popolo abulico, prostrato e privo di valori morali fermò gli italiani per qualche mese sul fronte dell'Epiro e combatté con grande coraggio. Su quella vicenda esiste un bel libro, mai invecchiato, di Mario Cervi (Storia della guerra di Grecia. Ottobre 1940-aprile 1941, Rizzoli). Resta da comprendere perché i greci non rinfaccino più frequentemente all'Italia l'aggressione del 28 ottobre 1940. Forse perché l'occupazione degli italiani fu alquanto diversa da quella dei tedeschi e il confronto tra l'una e l'altra ha provvidenzialmente cancellato il ricordo dell'aggressione.

Corriere La Lettura 2.12.12
Vedo. Prima di aprire gli occhi
Un esperimento su topi neonati ha confermato una evidenza straordinaria: alleniamo la retina già nella pancia della mamma
di Edoardo Boncinelli

Essere vivi significa prepararsi continuamente a fare qualcosa, anche quando non lo si fa e anche prima di averla mai fatta. Altrimenti, quando poi la si deve fare, non la si sa fare o non la si sa fare adeguatamente. Questo vale per un po' tutte le nostre facoltà, «obbligate» a funzionare per progetto. Anche per poter vedere bisogna essere preparati e tenuti in esercizio. L'immagine percepita va dalla retina alla corteccia visiva passando per il nervo ottico e il talamo e tutte queste strutture devono funzionare alla perfezione perché si veda bene quello che si deve vedere. Ogni volta che si osserva qualcosa anche minima le strutture devono funzionare al meglio e sono tenute per così dire in esercizio dalla nostra visione quotidiana. E prima che cominciamo a vedere, quando siamo ancora nella pancia della mamma, con gli occhi rigorosamente chiusi? Anche allora le strutture appena formate devono essere tenute in esercizio e per raggiungere questo scopo le retine del bambino non ancora nato inviano immagini visive alla corteccia, immagini completamente inventate ovviamente, ma variate e opportunamente variopinte. Incredibile ma vero.
In effetti si sapeva da qualche tempo che le cose stanno così. La retina di un cucciolo non ancora nato invia al cervello un flusso continuo d'immagini virtuali, giusto per preparare e mantenere in funzione tutto il sistema. Fasci di segnali nervosi simili a quelli che porteranno poi la visione vera e propria ma, per il momento, privi di contenuti e totalmente disconnessi dalla realtà del mondo circostante. Questo è quanto ci dicono le più recenti evidenze sperimentali, risultato di ricerche condotte con gli strumenti più sofisticati.
Fino adesso ci si era limitati a lavorare in vitro su frammenti di retina espiantati da ratti appena nati e a osservare ondate di segnalazioni elettrochimiche che escono dalla retina attraverso le cellule gangliari, deputate a portare il segnale visivo oltre la retina al cervello vero e proprio. Queste segnalazioni, costituite da un gran numero di impulsi elettrici organizzati in vere e proprie ondate di eccitazione nervosa, sono state battezzate «onde retiniche», ma se queste raggiungessero effettivamente le strutture superiori — i collicoli, il talamo e la corteccia visiva — non era noto, anche se questo sarebbe proprio quello che conta se si vuole dare al fenomeno il significato funzionale di portale e anticamera del futuro processo di visione vera e propria. E non era noto perché non erano stati fatti esperimenti in vivo. Le tecniche esistenti non lo permettevano.
Adesso si è accertato in vivo operando su topi neonati, ma ancora rigorosamente ciechi agli stimoli del mondo perché con le palpebre chiuse, che queste onde, registrate con tecnologie di biologia molecolare invece che di elettronica, vanno in maniera coordinata dalle due retine alle strutture immediatamente superiori e da queste alla corteccia visiva. Il loro andamento complessivo mima in tutto e per tutto quello che succede nella visione adulta e si ottiene così l'apertura, la coordinazione e la «registrazione» delle varie vie che porteranno infine alla visione e alla sua interpretazione.
Si tratta di un vero e proprio processo di rodaggio della macchina visiva, con l'aggiunta di una funzione simile a quella del «salvaschermo» del monitor dei nostri computer, che deve impedire che lo schermo si riempia di righe e di figure fisse che potrebbero influenzarne negativamente il funzionamento. Il cammino di queste ondate di segnali retinici di prova viene messo in luce con tecniche di rilevazione del rilascio del calcio endocellulare e il tutto è inibito da sostanze che si sa che smorzano o aboliscono la trasmissione del segnale elettrochimico attraverso il sistema nervoso. Dettagli sperimentali, nei quali non posso entrare, mostrano anche che l'andamento di queste ondate di prova precorre alcuni aspetti della visione binoculare e la prepara a dovere. Le ondate di stimoli di prova riguardano, infatti, anche la coordinazione fra i due emisferi cerebrali e ne anticipano alcune peculiarità funzionali.
Per ovvi motivi gli esperimenti non sono stati condotti nell'uomo, ma evidenze indirette e alcune risultanze dallo studio dei macachi fanno pensare che tutto ciò valga anche per la nostra specie e che quindi una buona parte della nostra vita intrauterina più avanzata sia occupata da fenomeni simili, volti a renderci capaci di vedere fin dal primo momento e per tutta la nostra esistenza.
Una riflessione. Si è rinfocolata assai di recente la polemica sul realismo e sul suo «ritorno» alla ribalta filosofica. Esiste o non esiste una realtà «là fuori» indipendente dalle nostre percezioni e dalle nostre convinzioni personali e collettive?
Credo che sia difficile negare l'esistenza di una realtà, magari dura e compatta, che tiene in mano il mondo nel suo complesso e controlla la vita, compresi i miei propri eventi biologici. Non posso sapere per esempio che cosa sta succedendo in questo momento dentro di me e che sorprese, positive o negative, mi attendono. Su tutto questo non ho controllo diretto, né posso averlo. Ma quando si va poi a percepire questa realtà, con la vista o con qualsiasi altro organo di senso, il contributo del mio corpo e delle sue strutture e funzioni diviene determinante. Io vedo e sento quello che sono preparato e allenato a vedere e sentire. Gli stimoli esterni avranno anche una vita per conto loro, ma le sensazioni sono funzione e opera del mio sistema nervoso e della sua organizzazione, durante l'uso e prima dell'uso; per essere percepita e conosciuta, per dura e compatta che sia, la realtà si deve articolare in mille sensazioni e percezioni, deve sciogliersi in mille particolari per divenire «il mondo» del quotidiano. E qua il mio corpo e la mia soggettività sono sovrani e in un certo senso trascendentali. Realismo sì, quindi, ma virtuale o potenziale. Per scendere a noi la realtà globale deve incarnarsi nella particolarità della varietà degli oggetti del nostro apparato percettivo: «il tutto» deve abbassarsi a moltitudine di cose e queste devono poi ricevere da noi i loro nomi.

Corriere La Lettura 2.12.12
Demolire le accuse con l'alibi neurologico
di Chiara Lalli

«Costantinopoli» è la parola magica con cui un illusionista senza scrupoli ordina per telefono a C.W. Briggs/Woody Allen di rubare dei gioielli nel film La maledizione dello scorpione di giada. Potremmo forse punire C.W. per un furto commesso senza intenzione né consapevolezza? Da tempo la punibilità si basa su questi cardini e abbiamo familiarità con la valutazione della capacità di intendere e di volere come condizione necessaria per la condanna di un imputato. Gli strumenti a nostra disposizione si evolvono: oggi scansioni cerebrali e neuroimaging sono entrati nei tribunali, all'inizio timidamente, poi più autorevolmente. E sempre più spesso. Nel discorso d'apertura dell'incontro annuale della International Neuroethics Society, svoltosi in ottobre a New Orleans, Nita Farahany ha ricordato che nel 2011 i giudici hanno menzionato le neuroscienze in almeno 1.500 casi. Nel 2007 erano 112 e verosimilmente la stima è inferiore alla realtà. Uno dei casi più noti risale al 2002: siamo in Virginia e un placido insegnante manifesta improvvisamente comportamenti abnormi. Raccoglie materiale pedopornografico e molesta la figliastra. La moglie è spaventata e sorpresa: «Non è più lui». Lo denuncia e l'uomo viene condannato. Ha un mal di testa intollerabile e desideri sessuali irrefrenabili, dice al dottore che lo visita. Gli viene diagnosticato un tumore nella fossa cranica anteriore, che schiacciava la parte destra del lobo frontale, l'area di controllo degli impulsi. Rimosso il tumore, il suo comportamento torna a essere quello di sempre e i sintomi spariscono. Anche in Italia la valutazione della pena in un paio di casi ha tenuto conto delle tecniche neuroscientifiche. A prescindere dai numeri e dalla giovane età delle neuroscienze, il loro impatto sul sistema giuridico è rivoluzionario e va ben oltre i confini dei tribunali. Più conosciamo il funzionamento del cervello, più ci troviamo a rimettere in discussione pilastri concettuali come la responsabilità e il libero arbitrio. L'intero sistema giudiziario è scosso dagli strumenti neurodiagnostici: come interpretare quell'area scura? Come incide sulla valutazione giuridica? Come si passa dalla descrizione neurologica alla spiegazione, senza inciampare in un riduzionismo semplicistico? Il quadro si complica a causa della scarsa competenza scientifica dei giudici, degli avvocati e (nei casi in cui è prevista) della giuria. Per chi non ha familiarità, le scansioni cerebrali potrebbero apparire qualcosa di magico o un mezzo per demolire l'accusa come farebbe un alibi di ferro. La sfida è complessa, ma certo non si può rifiutarla né rimandarla.