lunedì 3 dicembre 2012

l’Unità 3.12.12
La festa di Bersani
Il leader con il 61% trionfa al ballottaggio
Gli obiettivi: ora diamo un forte profilo di governo al centrosinistra
Spazio alle nuove generazioni «Battiamoci con allegria»
«Un grande partito deve avere fiducia nella sua gente»
di Maria Zegarelli


Vittoria netta. Bersani supera il ballottaggio con il 61% contro il 39 di Renzi. È lui il candidato premier. Successo in tutte le Regioni eccetto la Toscana. Il leader del Pd dice che le primarie sono la prova che «dobbiamo aver fiducia nella nostra gente». Ringrazia Renzi e riconosce la sua presenza importante. Ora, conclude, diamo un forte profilo di governo al centrosinistra e più spazio alle nuove generazioni.

Lo accoglie un boato. «Bersani, Bersani». Il teatro Capranica è pieno zeppo. Il segretario è emozionato, si fa largo tra gli abbracci e le strette di mano. Le note di Chiedi chi erano i Beatles, dopo quelle di Vasco Rossi, Voglio trovare un senso questa storia e di Neffa, Cambierà, vedrai che cambierà. Flash dei suoi comizi, lui sul palco se li riguarda. Sotto, in platea, militanti e stato maggiore del Pd. Massimo D’Alema, Beppe Fioroni, Matteo Orfini che stringe la mano a Rosy Bindi e fa subito notizia, Stefano Bonaccini, Vasco Errani. Sorrisi e abbracci e pacche sulle spalle.
Dallo staff di Renzi arriva Domenico Petrolo, segnali distensivi. Bersani ha vinto, sopra il 60%, oltre ogni previsione. Forbice ampia, che non lascia spazio a dubbi. «Sono così felice», dice Nichi Vendola. Bersani alza i pugni al cielo. Cori. Prende la parola. «È una doppia soddisfazione, La prima è stata quella di aver creduto a queste primarie». La seconda è «il successo inaspettato in queste proporzioni anche se sono sempre stato tranquillo». Poi i ringraziamenti: ai volontari, «spero si possano riposare un po’»; a Sel, «con cui abbiamo lavorato benissimo»; a Nichi, «un saluto particolarissimo». Cita scherzando «i marxisti per Tabacci». Poi un grazie anche a Laura Puppato. Per ultimo saluta Matteo Renzi, chiede un applauso per lo sfidante e lo ringrazia «per la telefonata che mi ha fatto e per le parole affettuose che ho ricevuto. Presto andremo a pranzo insieme».
Gli riconosce «una presenza forte e fresca nelle primarie» e quel contributo per «farle vivere in modo vero». Bersani guarda a domani, al Pd unito «per vincere le elezioni», richiama all’orgoglio dell’appartenenza, «un grande partito progressista deve sempre avere fiducia nella sua gente» e chiama tutti a una nuova grande prova, «vi do due giorni per farvi riposare», ma poi pancia a terra, si ricomincia.
La destra è ancora là, «la prossima sfida che vi propongo è quella di alzare noi la nostra asticella per la prossima battaglia. Dobbiamo vincere, ma non si può vincere a qualsiasi prezzo, raccontando favole perché poi non si governa. Siccome la mamma della demagogia e del populismo è sempre incinta, noi dobbiamo prendere un’altra via. Dobbiamo vincere senza raccontare favole, non potremo ignorare che siamo di fronte alla più grave crisi di questo secolo». E per vincere chiama il popolo del centrosinistra tutto, perché «questo viaggio lo facciamo insieme, non esiste un uomo solo al comando. Il Paese si governa con il popolo, con un po’ di serenità».
La forza tranquilla del cambiamento. A quella si richiama Bersani quando promette di «costruire spazi e percorsi per dare occasione alla nuova generazione». Uno scroscio di applausi, Massimo Ghini, Monica Guerritore, Valeria Fedeli, della Cgil, si spellano le mani. A Vendola che nei giorni scorsi aveva detto di voler sentire profumo di sinistra nelle parole di Bersani, il candidato premier replica: «Lui chiede profumo di sinistra io gli rispondo che se non mi sentissi addosso quel profumo non riconoscerei il mio odorato».
A chi gli chiede di Berlusconi, risponde: «Io ho vinto, aspetto, e poi chi arriva arriva... ». Sul palco vuole la sua squadra, da Roberto Speranza ad Alessandra Moretti. Sono stati pazienti e forti, ammette, perché «quando si tratta di fare battaglie personali io non sono certo il massimo... Hanno dovuto lavorare attorno a un bersaniano moderato». Che ha vinto e adesso si prepara alla partita più dura. Conquistare Palazzo Chigi.
TORMENTONE «PALAZZO PIGI»
Ma che sarebbe stata una bella giornata al piano terra di via Montecatini, quartier generale del Comitato pro-Bersani, era chiaro già dal tardo pomeriggio. Ma per scaramanzia nessuno faceva previsioni. L’urlo arriva davanti al primo instant pool del Tg1. Pier Luigi Bersani 61,5%, Matteo Renzi 38,5%. Saltano i tappi, scattano gli applausi, si brinda, addio alla cautela. È Annamaria De Caroli a twittare quello che di sicuro diventerà il tormentone della campagna elettorale, #E adesso a Palazzo Pigi. Partono gli sms «tutti al teatro Capranica alle 21.30». Qualcuno scherza: adesso rottamateci tutti. Applauso a Nico Stumpo quando davanti alle telecamere ringrazia «gli oltre 100mila volontari».
Paola Concia, Aurelio Mancuso, Ettore Rosato, Sergio Gentili, sono stati tutto il pomeriggio in via Montecatini. «C’è un bel clima» dice Rosato. «Speriamo che finisce come la partita della Roma», azzarda Mancuso. Tre a uno. Tore Corona, 48 anni, è il deus ex machina di questo comitato. È buon segno, per chi sa che tipo è. E alla fine avrà ragione del suo ottimismo. Uomo di poche parole, conosce la macchina del partito come le sue tasche. Bersani l’ha voluto nel suo staff, chiamandolo dalla Sardegna. Valentina Santarelli, ex assistente di Piero Fassino, dice che questa campagna per le primarie le ha ricordato parecchio quella del sindaco di Torino. Anche contro Fassino gli sfidanti usarono gli argomenti da rottamazione in perfetto stile Renzi: l’uomo dell’apparato calato da Roma, un curriculum lunghissimo, troppo. Invece Fassino vinse a mani basse, al primo turno.
Alessandra Moretti, camicia di seta color crema, viso disteso. Con il comitato Renzi se ne sono date di santa ragione. Ma questo è già il passato. «Il nostro è un grande partito e da domani lavoreremo tutti insieme per diventare ancora più forti per portare il centrosinistra alla guida del Paese». Stasera però si festeggia.

l’Unità 3.12.12
Gli elettori tornano in massa ai seggi
Leader sopra il 60%
Il segretario vince in tutte le regioni, tranne la Toscana
Distacco superiore ai venti punti
di Andrea Carugati


ROMA La partita finisce molto prima del previsto. Appena uscito l’exit poll di Nicola Piepoli che dà Bersani al 61,5% e Renzi al 38,5%, subito il sindaco di Firenze su twitter riconosce la sconfitta: «Era giusto provarci, è stato bello farlo insieme, grazie di cuore a tutti». Non sono ancora le 20.30, e partita è già chiusa. Chi si aspettava un testa a testa, una lunga notte appesa al risultato, è rimasto deluso: Bersani è il candidato premier del centrosinistra.
Poco dopo l’exit poll di Piepoli, il responsabile del coordinamento delle primarie Nico Stumpo, sulla base di 1700 seggi scrutinati su un totale di 9mila conferma quei numeri, per la gioia del noto sondaggista che, ospite di RaiNews, si lascia andare a una sonora risata: «Chissà come saranno felici i miei collaboratori...». Alle 21 le sezioni scrutinate sono già oltre la metà, 5281 su 9219: e i numeri variano di pochissimo, Bersani al 60.7% e Renzi al 39,2%. E la vera sfida diventa se il sindaco riuscirà o meno a superare la soglia psicologica del 40%. Ma il dato politico non cambio: il segretario Pd vince con 20 punti di distacco, un distacco molto netto, superiore alle aspettative. Che con il passare dei minuti resta sostanzialmente inalterato: 60,8% contro 39,1% quando le sezioni sono oltre 7mila.
Succede anche che i dati sull’affluenza non sono ancora pronti quando ormai l’esito della sfida è definito. Alle 22 l’ultimo dato utile è quello delle 17, con 2,3 milioni, circa 150mila in meno rispetto allo stesso orario di domenica scorsa. «Un calo del 5-7%, meno che fisiologico», spiega Luigi Berlinguer, presidente del Collegio dei garanti. Alla fine le stime parlano di un risultato di partecipazione che sfiora i 3 milioni.
Al comitato organizzatore, nonostante le polemiche che ci sono state anche ieri sullo svolgimento del voto e sulla redazione incompleta dei registro degli elettori, si respira un clima di soddisfazione: «Ringrazio gli oltre 100mila volontari che hanno reso possibile tutto questo», dice Nico Stumpo. «Anche oggi negli oltre 9mila seggi c'è stato un lavoro ordinato, serio. Una grande dimostrazione di capacità da parte di una coalizione che ha dimostrato di saper gestire situazioni complicate e questo è importante per oggi e per il futuro». Attivi anche i seggi “volanti” per le persone disabili.
Dal punto di vista dei numeri, Bersani vince in tutte le regioni, fatta eccezione per la Toscana, dove il sindaco di Firenze vince con il 54,7% contro il 45,3%. Il segretario Pd recupera nelle altre due regioni rosse dove al primo turno era in svantaggio come Umbria e Marche e in Piemonte. Confermato il successo di Bersani al sud: in Puglia, complice certamente la somma con i voti di Vendola, arriva al 71%. Numeri molto forti anche in Sardegna (74%), Basilicata, Calabria e Lazio (67,5%). In Emilia Romagna Renzi si difende: con il 39% contro 61% guadagna un risultato in media con il dato nazionale ed evita un cappotto.
Rispetto ai timori della vigilia, la giornata di ieri non ha registrato particolari problemi ai seggi. Certo, si sono state persone che si sono presentate ai seggi senza registrazione e che non hanno potuto votare, a Piacenza qualcuno ha addirittura chiamato la polizia, ma la consegna impartita ai presidenti dei seggi è stata rispettata: ha potuto votare solo chi aveva ricevuto una mail di autorizzazione dal coordinamento provinciale.
La giornata era partita con una certa tensione da parte dei comitati Renzi, che avevano segnalato la mancanza dei registri dei votanti in alcuni seggi in Toscana, a Roma e in Sardegna. A Firenze alcuni seggi erano stati aperti in ritardo per questo problema poi, complice anche il via libera dei renziani, aveva prevalso l’idea di consentire comunque alle persone in coda di votare.
In Toscana i renziani avevano parlato di «casi gravissimi, che mettono a rischio la validità del voto in numerosissimi seggi». Il presidente dei garanti Berlinguer aveva spiegato: «Le segnalazioni non sono comunque rilevanti per l’esito del voto: il secondo turno è più complesso da gestire perché si deve verificare in base agli elenchi di chi ha votato primo turno». «In parte gli elenchi sono stati digitalizzati, ma non tutti. Per esempio la società a cui ci eravamo affidati a Firenze ci ha truffati e l'abbiamo denunciata», ha concluso.
Nel primo pomeriggio il comitato Renzi di Firenze ha spento qualsiasi ipotesi di contestazione del risultato: «Non pensiamo ad alcun ricorso. Questa sera conosceremo sicuramente il nome del candidato premier del centrosinistra», ha spiegato Nicola Danti, responsabile dei comitati Renzi in Toscana. Insomma, un modo per chiudere definitivamente qualunque ipotesi di contestazione. Difficile prevedere cosa sarebbe successo nel caso di esito incerto del ballottaggio. Ma così non è stato. Alle 22,20 Bersani inizia il suo discorso di investitura, ringrazia il suo avversario e anche gli altri protagonisti delle primarie. Ora comincia la partita vera delle elezioni.

l’Unità 3.12.12
La strana vittoria del segretario nella comunicazione
Alla gente bisogna dire chi sei, ha ripetuto Bersani a ogni tappa del suo tour
E l’impressione è che gli elettori lo hanno capito e si sono fidati
di Massimo Adinolfi


Le primarie le ha volute lui, Bersani, e non è stato facile. L’affollata e sudaticcia Assemblea Nazionale del 14 luglio lo ha seguito su questa strada, ma non senza mugugni. Resta un mistero come si sia potuto, nella stessa data, prendere la Bastiglia e dare inizio alla Rivoluzione francese: con quel caldo. Ma Roma non è Parigi, e poi a Roma bisognava solo vincere lo scetticismo e dare l’annuncio: per le regole, la modifica dello statuto (a favore di Renzi) e le candidature se ne è riparlato ad ottobre. Quanto alla rivoluzione o almeno al cambiamento se ci sarà, sarà al centro delle elezioni del prossimo anno. Ma intanto tre milioni e passa di elettori hanno votato al primo turno, quasi altrettanti al secondo, permettendo al centrosinistra di ritrovare finalmente una «connessione sentimentale» con la propria gente. Bisognava per questo fare sul serio, accettando la sfida del Rottamatore. E la sfida c’è stata, vera e aperta. In prossimità dei momenti decisivi si sono alzate, inevitabili ma sterili, le polemiche: sul regolamento, sulla registrazione, sulla sottoscrizione della Carta degli Intenti, sulla privacy, sul doppio turno, sui tetti di spesa e infine, secondo alcuni, sulla famosa invasione degli orsi in Sicilia, ma il risultato non ne ha affatto risentito. Non domenica scorsa, e neppure questa domenica.
Le primarie le ha volute lui, Bersani, ed ha fatto bene. Non abbiamo un sistema istituzionale fatto apposta per l’overdose delle primarie; non sappiamo ancora quale legge elettorale ci porterà al voto di primavera; non sappiamo neppure se il prossimo governo starà tutto dentro la luccicante inquadratura del confronto Sky fra Bersani, Renzi, Tabacci, Puppato e Vendola (e infatti fino all’ultimo Renzi ha attaccato il segretario sulla sua disponibilità ad allearsi con il centro moderato), ma abbiamo almeno qualcosa che il centrodestra non ha, o non riesce ancora ad avere: una modalità per rendere contendibile la leadership e forse, insieme, anche un modo per orientarne il profilo politico, visto che nel corso delle settimane si è sempre meglio profilata un’alternativa di contenuti, non solo di stili comunicativi.
Le primarie le ha volute lui. Renzi le ha reclamate a gran voce, ma a decidere è stato il segretario del Pd. L’uomo che al momento della sua elezione a segretario disse che alle politiche non avrebbe messo il suo nome sulla scheda ha dovuto accettare di fare una campagna sotto l’insegna «Bersani 2013». E nonostante l’evidente correzione di rotta rispetto alla personalizzazione imposta dal berlusconismo, nonostante l’accento posto sul «noi» piuttosto che sull’«io», Bersani non ha potuto evitare che girassero in rete le foto del bambino Pier Luigi con il fiocco e il grembiule della scuola elementare, così come quelle del giovane Pier Luigi volontario a Firenze nei giorni dell’alluvione, fino alla vecchia intervista ai genitori che un Bruno Vespa a digiuno di confronti televisivi ha mandato proditoriamente in onda, rigando il volto del segretario di qualche furtiva lacrima.
È la politica, bellezza: ma è anche la comunicazione. Bersani in realtà ha condotto uno sforzo salutare per riportare il Paese alla realtà; ha ripetuto fino alla noia che contano i fatti, che la comunicazione viene dopo. Ma poi è dovuto andare a Salerno, e in un salone gremito fino all’inverosimile si è sorbita la lezione che il sindaco della città gli ha impartito sulla sua gualcita immagine: via il sigaro, via la camminata alla John Wayne! «Esteticamente io non sono Brad Pitt e tu non sei George Clooney!», ha aggiunto De Luca, e per la verità Bersani ha riso molto, ma il sigaro non l’ha mollato. Non ancora, almeno.
Alla gente bisogna anzitutto dire chi sei, ha ripetuto invece. Quasi ad ogni tappa del suo tour elettorale. E l’impressione è che gli elettori lo hanno capito, e si sono fidati. Ha cominciato dalla pompa di benzina di famiglia, a Bettola, dove è salito su un palco improvvisato tra vecchi amici, in piazza, e ha chiuso a Stella, città natale di Sandro Pertini, dove ha riproposto la sua idea di cambiamento ben piantata nella storia del nostro Paese: «Non possiamo avere foglie nuove se si tagliano le radici. Altrimenti, sono foglie degli altri e non le tue». Non è una metafora immaginifica, come quella delle bambole da pettinare o quella dei giaguari da smacchiare; non è nemmeno l’improbabile proverbio del tacchino sul tetto, raccontatogli dal segretario dell’Spd, Gabriel, e sciorinato nel corso dell’ultimo confronto con Renzi, in Rai: però ha funzionato lo stesso. Complice anche l’annuncio un po’ remissivo di Veltroni e quello assai più risoluto di D’Alema (se vince Bersani non mi ricandido, ma se vince Renzi sarà battaglia politica), il tema della rottamazione è scivolato via dal centro della campagna elettorale, e si è cercato di guardare anche a quel che dal cambiamento ci si può aspettare.
Non è infatti l’unica cosa scivolata via. All’inizio, il segretario del Pd ha dovuto sottoporsi ogni giorno all’analisi del tasso di montismo circolante nelle sue vene, come ripeteva con cristiana sopportazione (lui, un ex chierichetto con Papa Giovanni XXIII nel Pantheon personale); alla fine, si è cercato di capire invece quanto profumassero di sinistra le sue parole (lui, che dei chierichetti organizzò il primo sciopero). Più che cambiare la posizione di Bersani, è cambiata però l’aria che tira, ed è sorta la convinzione che davvero tocchi a lui guidare il Paese, in caso di vittoria del centrosinistra. Fine delle supplenze, fine delle emergenze: la crisi morde e il Paese cerca risposte che finora non ha trovato nell’agenda Monti.
Bersani ha cercato di darle anzitutto al Sud, e dal Sud. Perché «è da quel lato che bisogna prendere il paese, se lo si vuole cambiare», ha detto a Napoli, al Teatro Politeama, dove ha incontrato Vendola, nelle battute finali della campagna elettorale, per proporgli «un’avventura di governo insieme». Questa cosa del lato da cui guardare le cose è probabilmente la prossima fucina delle metafore bersaniane. Il segretario ha preso a immaginare l’Italia come una specie di cubo di Rubik che bisogna voltare da ogni parte per capire come prenderlo, cosa cominciare a smuovere. Perciò ha invitato a guardarla da Sud, per correggere gli squilibri del Paese, o dalla parte degli immigrati, per ampliare i diritti di cittadinanza, o ancora dalla parte dei più deboli, per evitare che meriti e opportunità siano solo la maschera modernizzatrice della legge del più forte. Ma la parte giusta l’ha indicata nell’appello finale al voto. È quella di Lucrezia, la bambina di quattro anni, figlia di un’infermiera, che per Natale ha chiesto «una bambola e lo stipendio della mamma». L’appello ha funzionato, il pathos era autentico e Bersani commosso il giusto: «Cercherò di guardare il mondo e l’Italia da quel punti di vista lì ha detto perché se lo si guarda da quel lato si fa un Paese migliore». Era sincero, e sapeva pure, come noi sappiamo, che Natale non è poi così lontano.

La Stampa 3.12.12
La sfida di rinnovare il partito
di Federico Geremicca


Le elezioni primarie, maggioritarie per definizione, hanno una regola molto semplice: chi vince vince, chi perde è fuori. Pier Luigi Bersani ha prevalso - e bene - nella sfida lanciatagli due mesi fa da Matteo Renzi: eppure è difficile immaginare che il sindaco-“rottamatore” sia fuori dai giochi. E questo non soltanto per la quantità di consensi ricevuti. Ma anche perché è difficile immaginare che sia proprio il segretario Pier Luigi Bersani a considerarlo fuori... Quel che infatti da oggi dovrebbe essere evidente - o semplicemente: ancora più evidente - è quanto fosse sbagliato pensare (se qualcuno ai vertici del Pd l’ha pensato sul serio) che l’insoddisfazione per come vanno le cose, la rabbia per il pantano in cui è finita la politica e la voglia di cambiamenti radicali, fossero sentimenti che riguardassero altri, ma non il “popolo del centrosinistra”. Se non erano bastate le primarie-choc per la scelta dei candidati-sindaco in città come Milano, Genova, Cagliari e Napoli (finite tutte con la sorprendente sconfitta dei “candidati ufficiali”) i consensi raccolti da Matteo Renzi sono lì a confermarlo.
Il quaranta per cento degli elettori andati alle urne in questa domenica di freddo e pioggia, ha infatti votato per il sindaco-rottamatore. Il dato è politicamente rilevante. Ma lo è anche numericamente, se si considera che Renzi aveva come avversario il segretario del partito, la quasi totalità degli apparati e dei gruppi parlamentari, la larghissima maggioranza dei sindaci e dei governatori del centrosinistra e - al ballottaggio - anche gli altri tre candidati al primo turno (Vendola, Puppato e Tabacci). Aver raggiunto in queste condizioni il 40 per cento dei consensi, è un risultato non scontato e che può soddisfare Renzi. E che - visto che questa partita è ormai chiusa - può servire non poco allo stesso Pier Luigi Bersani.
Al segretario uscito vincitore da una sfida che nascondeva (come poi si è visto) più insidie di quante fossero prevedibili in avvio, Matteo Renzi - meglio: le esigenze di cambiamento da lui raccolte e rappresentate - offre una straordinaria occasione per far “girare la ruota” del rinnovamento, come più volte promesso dal segretario prima e dopo la sfida delle primarie. Lo stesso discorso con il quale Renzi ha commentato la sconfitta e “passato la palla” al vincitore, gliene offre tutta la possibilità. Sta al segretario, adesso, coglierla: sapendo, naturalmente, che il momento non è dei più facili e gli ostacoli che gli verranno frapposti saranno molti.
Non c’è dubbio che i primi arriveranno dal suo stesso partito, il Pd. E’ dentro il Partito democratico prima di tutto - come annotato dallo stesso Bersani - che la ruota deve girare. Vinte le primarie, quell’impegno non lo ha rinnegato, anzi: «Adesso - ha detto nel discorso col quale ha celebrato la vittoria - devo predisporre i percorsi e gli spazi per dare occasioni alle nuove generazioni». Non ha taciuto, inoltre, la circostanza di aver voluto le primarie nonostante lo scetticismo - quando non la esplicita contrarietà - dei maggiorenti del suo partito, e sa perfettamente che è con loro che adesso dovrà a fare i conti.
Potrà farlo, però, da una posizione di grande forza. «Bersani adesso è fortissimo», ha annotato dopo il voto Romano Prodi, che pure ha apprezzato e guardato con simpatia alla campagna di Matteo Renzi. Molti, addirittura, hanno parlato - ed a ragione - di una sorta di vera e propria “reinvestitura” per il segretario del Pd: non ci sono precedenti, infatti, di un leader eletto con primarie segretario e scelto - di nuovo attraverso primarie - come candidato premier del centrosinistra.
Infine Renzi. Chiaro, corretto e molto “moderno” il discorso con il quale ha riconosciuta la vittoria di Bersani. Ha confermato lealtà al segretario e disponibilità all’impegno. Solo un improvviso impazzimento - crediamo potrebbe convincerlo ad accettare le “lusinghe romane”, una candidatura, una poltrona, un posto qualunque ai vertici dell’apparato. La rotta da seguire, in fondo, gliel’ha indicata proprio Romano Prodi, commentando il suo risultato: «Il futuro di Renzi è essere un’alternativa». Ha 37 anni, molto credito e qualche idea brillante. Il voto di ieri, in fondo, più che una bocciatura sembra un rinvio a settembre... Se non farà errori, il suo tempo inesorabilmente arriverà.

La Stampa 3.12.12
La triplice sfida di Bersani per prendere Palazzo Chigi
Unire anche gli sconfitti, rinnovare, e risolvere il risiko istituzionale
di Fabio Martini


La strategia Per arrivare a Palazzo Chigi il team di Bersani immagina di unire il partito tenendo conto delle istanze di Renzi rinnovare i gruppi parlamentari sbrogliare la matassa della successione al Colle Le Primarie le ha volute a tutti i costi, vincendo le resistenze della sua «Curia», ma ora Pier Luigi Bersani ha cento giorni per acquisire la forza e lo standing per diventare Papa. Arrivando a Palazzo Chigi dopo una vittoria elettorale, la prima volta per un uomo politico che è stato iscritto al Partito comunista italiano. Dal podietto messo in piedi a caldo al teatro Capranica, la cravatta rossa slacciata sul colletto, Bersani ha mostrato di aver capito quale sia la sua mission, lanciando subito tre messaggi forti: «Dare al centrosinistra un forte profilo di governo e di cambiamento», «predisporre i percorsi e gli spazi per le nuove generazioni». E soprattutto: «Si deve vincere senza raccontare le favole». Un appello anti-demagogico che è stato accolto con un applauso tiepido dai suoi fans che erano pronti a spellarsi le mani per qualsiasi battuta avesse detto il vincitore delle Primarie.
Certo, per ora si tratta di impegni generici, ma Bersani sa che per conquistare Palazzo Chigi, è atteso da una via crucis scandita in tre stazioni: tenere e non disperdere subito la ritrovata forza elettorale del Pd; rinnovare in profondità gruppi parlamentari e dirigenza del partito; apparecchiare un risiko istituzionale da rompicapo, che prevede per i vincitori delle prossime elezioni politiche le indicazioni per il Quirinale e per le presidenze delle due Camere. La prima «stazione» della via crucis da superare per arrivare a palazzo Chigi è dentro il suo partito. Dice Giorgio Tonini, già presidente della Fuci, uno dei pochissimi parlamentari che ha sostenuto Renzi: «Bersani ha avuto un mandato pieno che non lascia dubbi a recriminazioni ed ora si parrà la sua nobilitate: per evitare l’effetto-depressione degli elettori di Renzi, dovrà fidelizzare quell’elettorato, interpretando il segnale forte di rinnovamento emerso dalle Primarie».
Miguel Gotor, un intellettuale che è anche uno dei primi consiglieri di Bersani, all’«Espresso», ha dato un’indicazione molto interessante: «C’è la consapevolezza in Bersani che dopo il governo Monti non si può tornare indietro, al manuale Cencelli tra le correnti per nominare i ministri. Servono autorevolezza e competenza, bisogna alzare il livello». Una lettura che convince un altro sostenitore di Bersani come Pier Luigi Castagnetti, che però da uomo di partito, già indica le resistenze: «Il segretario del Pd, tornando a Roma dopo una campagna elettorale che ce lo ha proposto più forte e diverso, ora dovrà stare attento ai rischi della sua “Curia”, che è sempre conservatrice. Papa Giovanni, quando annunciò il Concilio, spiazzò e inquietò la Curia romana. Per vincere quelle resistenze, il Papa rifece l’annuncio per altre due volte e i suoi successivi discorsi dal balcone erano diretti proprio a vincere le resistenze della Curia». Un patto BersaniRenzi?: «Se Bersani cercherà e troverà un’intesa di fondo col sindaco di Firenze, sia pure in ruoli diversi - dice l’ex ministro Paolo Gentiloni - il Pd potrà continuare quella ascesa elettorale, testimoniata dai sondaggi, che può portarlo verso percentuali ancora più alte, vicine al 40%».
Tradotto in soldoni? Renzi, come ha fatto capire nel suo discorso a caldo, si prepara a fare il capo della opposizione interna, ma la sua «costituzionalizzazione» può passare attraverso una corposa offerta da parte di Bersani? Sugli oltre trecento parlamentari che il Pd si prepara a portare nel prossimo Parlamento, il segretario quanti ne offrirà al sindaco di Firenze? Ottanta? Cento? Ma offerte così importanti - ecco il punto - potrebbero mettere Bersani in collisione con la sua «Curia», i gruppi organizzati raccolti attorno a D’Alema, Franceschini, Bindi, Letta e Fioroni, che qualche giorno fa, un po’ scherzando e un po’ no, diceva: «Saremo fatti tutti fuori».
Ma per poter vincere senza sbavature le elezioni, la seconda «stazione» che attende Bersani è la riforma elettorale. Con una forza attuale del 30-35%, il Pd per conquistare Palazzo Chigi deve mantenere in vita il tanto detestato (a parole) Porcellum. Bersani non potrà mai dirlo, ma il suo obiettivo è proprio quello e d’altra parte una mano gliel’ha data nientedimeno che Romano Prodi. Intervenendo a Sky, l’ex presidente del Consiglio ad un certo punto ha indicato la strada a Bersani: «Se il Porcellum resterà, si potrebbero fare primarie per i parlamentari». Ma se il Porcellum resta, proprio Romano Prodi diventa il candidato dei progressisti per il Quirinale, non solo perché è il candidato che può mettere d’accordo anche Vendola e Renzi, ma anche perché l’ex premier ha un identikit che su un punto essenziale si sovrappone a quello di Monti: «Prodi - dice Sandro Gozi, responsabile Pd per le Politiche europee - ha il profilo giusto per fornire le necessarie garanzie a livello internazionale».

La Stampa 3.12.12
Stefano Fassina
“Renzi valore aggiunto così siamo più credibili”
Il bersaniano: nessun timore su Matteo
di Francesca Paci


È festa in casa Bersani. Stefano Fassina, responsabile economico del Partito Democratico e fedelissimo del Segretario, si gode i dati che giungono dai seggi ma non rinuncia a puntualizzare con gli avversari sconfitti: «La forbice di 20, 21 punti percentuali corrisponde a mezzo milione di voti, conferma le nostre previsioni e mette, spero, la parola fine alle dannose polemiche degli ultimi giorni sulle regole: i principi di democrazia devono valere sempre».
Si aspettava questo scarto?
«E’ una conferma. La dimensione di questo successo riconosce la forza della leadership di Bersani che trionfa perché ha saputo riunire e sintetizzare le diverse culture che devono convivere nel centrosinistra, da Vendola a Tabacci».
C’è anche Renzi però, tra le diverse culture del centrosinistra. Non è così?
«Quella componente era già dentro al Partito democratico, ma è evidente che con le primarie ha trovato una visibilità e un’energia che prima non aveva. Il Pd è plurale dalla nascita, tra i tanti sostenitori di Bersani ci sono quelli che provengono dal cattolicesimo democratico così come dalle culture liberali. Renzi ha portato un valore aggiunto in termine di accelerazione del rinnovamento della classe dirigente».
Ora che ha subito un’accelerata, che rinnovamento sarà quello di Bersani?
«Bersani ha praticato il rinnovamento sin dall’inizio, per questo si è affermato. Le primarie ci danno una spinta ulteriore che deve necessariamente riflettersi nelle candidature al Parlamento e in prospettiva al governo».
Come si declinerà la discontinuità col governo Monti?
«La proposta di Bersani, definita dalle primarie, punta sull’economia reale, sulla centralità del lavoro, sull’eguaglianza e sullo sviluppo sostenibile per ridurre il debito che, nonostante le manovre pesantissime, continua a aumentare».
Che ne sarà dell’articolo 18?
«Sul lavoro c’è punto fondamentale che riguarda la democrazia: la sospensione della democrazia in alcune aziende del nostro Paese non è accettabile a meno di mancare di rispetto alla Costituzione. Un altro punto riguarda gli esodati a cui va trovata una risposta. Infine, le politiche per lo sviluppo: uno dei limiti del governo Monti è l’eccessiva attenzione alle regole del mercato lavoro che se l’economia continua a contrarsi non funzionano».
A che tipo di politiche pensa?
«Penso alla politica economica di Bruxelles. Un eventuale governo Bersani potrebbe dare forza ai progressisti europei in funzione di lavoro e sviluppo».
Cosa cambia da oggi?
«Bisogna sconfiggere insieme il vero avversario che è la sfiducia nella politica: le primarie volute da Bersani ci danno un surplus di credibilità».
Ha paura che i voti di Renzi finiscano in tasca a Grillo?
«Non ho questo timore, credo che Renzi si impegnerà in prima persona a costruire un’alleanza progressista per confermare la fiducia data al centrosinistra dalle primarie».


Repubblica 3.12.12
Fassina: “Sconfitte le idee filo-liberiste spazio a lenzuolate di democrazia”


ROMA — Fassina, lei vorrebbe archiviare Renzi adesso?
«Non si archivia nessuno, ma dobbiamo ricordarci che le primarie del centrosinistra sono state fatte per selezionare il miglior candidato alla presidenza del Consiglio. Non sono un congresso, nel Pd Renzi sarà uno dei protagonisti, tuttavia il suo programma ha perso ».
Tra di voi sono volate parole grosse.
«Non andiamo ora a ripescare quelle polemiche. Dico che Renzi ha un programma, e sul lavoro in particolare, che peraltro era quella del Lingotto di Veltroni. Con quelle posizioni abbiamo già fatto i conti».
Quindi, vince il gauchismo?
«Vince il buonsenso, rispetto
a un quadro di politica economica che non funziona, e non può essere riproposto come all’inizio degli anni Novanta. Con Bersani al ballottaggio ha vinto un’altra bella lenzuo-lata, questa volta di democrazia ».
Era scontata la vittoria di Bersani?
«Era attesa, anche se non in questa dimensione. La forchetta di 21 punti percentuali era la stessa valutazione che davano i sondaggi. Quando abbiamo tenuto il punto sulle regole è stato per affermare i principi della democrazia, non perché avessimo dubbi sulla vittoria, o perché pensavamo che si sarebbe giocata sul filo».
(g.c.)

Corriere 3.12.12
Il salto necessario
di Pierluigi Battista


Pier Luigi Bersani ha vinto nettamente, con un ampio vantaggio rispetto allo sfidante Renzi. La sua leadership è oramai sorretta da una forte legittimazione popolare. La sua scelta di affrontare il rischio delle primarie, anche piegando le resistenze conservatrici dell'establishment del partito, lo ha reso, confortato adesso anche da numeri robusti e inequivocabili, un candidato premier indipendente e autorevole. Renzi ha preso al ballottaggio meno voti di quanto sperasse. Ma è stato coraggioso, con la sua sfida ha contribuito in modo determinante a ridare smalto al Pd, ha reso visibile una corrente di emozioni, di idee e di opinioni che nell'apparato del partito era frustrata e silente. Ma esisteva.
Ora però Bersani deve dimostrare di saper fare da solo. Ha stravinto il secondo turno. Non può e non deve sperare che Renzi gli dia una mano per riconquistare quel 40 per cento di elettorato di centrosinistra. Ha fatto il pieno dei voti di Vendola, e il rischio è che debba essergli troppo grato, spostando l'asse della coalizione eccessivamente a sinistra. Con ogni probabilità, vista la condizione disastrosa del centrodestra, Bersani potrà puntare agevolmente a Palazzo Chigi. Ma per durare e avere credibilità in Italia e nel mondo non potrà cedere a chi considera l'esperienza del governo Monti, lealmente sostenuto da oltre un anno anche dal Pd, come un cedimento al «liberismo», come ossessivamente viene ripetuto anche all'interno del Pd dalle sue componenti più diffidenti verso le politiche di un riformismo moderno.
Ora a Bersani, vinta con ampio margine la battaglia delle primarie, spetta il governo del Paese, se i numeri reali confermeranno ciò che i sondaggi dicono senza possibilità di equivoco. Non può illudersi che i voti che gli sono stati dati e quelli di Renzi siano facilmente sommabili. Renzi ha portato, come dice, un'idea «alternativa» di centrosinistra. E la sua forza era e resta la capacità di parlare con una fetta dell'elettorato italiano che sta fuori dai recinti tradizionali di quello schieramento. Bersani, per ragioni culturali e biografiche molto complesse, ne è meno capace e per questo, per parlare al mondo dei moderati, sarà costretto a rivolgersi ai «centristi» presidiando il territorio della sinistra.
Mentre si sa cosa sarà del 60 per cento che ha votato Bersani, il futuro dovrà dirci cosa ne sarà del 40 per cento che ha invece scelto Renzi come messaggero di una rottura radicale con la cultura e la tradizione maggioritaria della sinistra. Lo sconfitto dice che non utilizzerà quei voti per farsi una «correntina». Sarà compito di Bersani tentare di convincerli prima di tutto dando seguito a quelle promesse di rinnovamento espresse in campagna elettorale contro l'avversario «rottamatore». La vittoria di ieri è una tappa. Il traguardo finale è ancora lontano, ma con un Pd decisamente più forte di quanto non fosse tre mesi fa. Anche per merito dello sconfitto Renzi.

Corriere 3.12.12
Pier Luigi, tra la via Emilia e il Partito
«Il carisma? Preferisco dare sicurezza» 53,15% i voti nel 2009
È il radicamento nella sua storia, allo stesso tempo, il limite e la forza di Bersani
di Aldo Cazzullo


La maggioranza dei politici, vista da vicino, è peggiore di come appare: superficiale, opportunista, disinteressata al prossimo ma non a quello che può ricavarne.
C'è poi una minoranza che è migliore di come viene presentata. A questa minoranza appartiene Pier Luigi Bersani.
Bersani non ha carisma, ma ha una sua luce negli occhi, che si accende di fronte a una storia, un libro, una questione che lo interessa; ed è raro che qualcosa non lo interessi. È un uomo con i suoi limiti, come tutti. Ma i limiti di Bersani non sono quelli che di solito gli vengono attribuiti. Ad esempio non è affatto una personalità debole, tendente al compromesso, bisognosa dell'appoggio altrui; al contrario, si è preso il partito con pazienza ed energia, si è liberato sia degli avversari sia degli amici ingombranti, si è sottratto ai condizionamenti non solo di Veltroni ma soprattutto di D'Alema, della Bindi, dello stesso Prodi (anche se si è circondato di qualche quarantenne che ha la stessa arroganza di D'Alema senza essere D'Alema). Il limite di Bersani coincide con quella che viene considerata una sua forza, e l'ha condotto alla vittoria di ieri: il radicamento nella storia del Partito e nella sua cultura; che nel frattempo però è molto cambiata. Per questo la prova decisiva non è stata quella delle primarie, ma sarà il voto nazionale di inizio 2013.
Bersani pensa ancora il proprio come il Partito degli oppressi, degli sfruttati, dei proletari. E in effetti la sinistra per vincere avrebbe bisogno anche del voto popolare; che però le sfugge da decenni, e non sarà facile riconquistare a suon di nuove tasse. Da decenni gli operai lombardi e veneti votano Lega, le casalinghe e i disoccupati del Sud stanno con Berlusconi, mentre ora studenti e precari guardano a Grillo. Il Pd — proprio come il Ps di Hollande, non a caso il leader europeo con cui Bersani si trova meglio — è un partito innanzitutto di ceto medio dipendente, insegnanti, funzionari pubblici, pensionati, borghesia intellettuale, oltre che di emiliani e toscani; gente non proprio entusiasta della patrimoniale che apre la lista delle promesse di Bersani.
L'altra eredità del Partito che ancora condiziona il neocandidato premier è la ricerca dell'accordo con i moderati, l'idea che la sinistra da sola può vincere in tutta Europa ma non in Italia, e quindi deve unirsi a chi di sinistra non è. È la linea di Togliatti e di Berlinguer, e ha come premessa fondativa la Costituzione repubblicana, la parola più citata nel libro intervista che Bersani ha scritto per Laterza con Miguel Gotor e Claudio Sardo, che sono oggi non casualmente il suo consigliere politico e il direttore dell'Unità. Ha destato ironie la scelta di indicare come mentore papa Giovanni. Se è per questo, Bersani dedicò la tesi di laurea a papa Gregorio Magno (più precisamente a «grazia e autonomia umana nella prospettiva ecclesiologica» del Pontefice). A chiedergli se crede in Dio, risponde citando Camus: «Non credo, ma considero l'irreligiosità la più grande forma di volgarità».
Cattolici — e anticomunisti — erano i genitori. In particolare la madre: «Aveva la quinta elementare, ma è sempre stata un osso duro». Lo sciopero dei chierichetti è ormai celebre. Meno noto l'episodio del giovane Pier Luigi che affronta don Vincenzo, il parroco di Bettola: «Come mai qui in paese i comunisti fanno tutti i muratori, e gli altri vanno all'Agip? È vero che per andare all'Agip ci vuole la sua garanzia?». Divenuto a 29 anni assessore regionale ai Servizi sociali — era il 1980, il 2 agosto fu tra i primi ad accorrere alla stazione di Bologna —, alla madre che gli raccomandava i vicini di casa rispondeva: «Mi spiace, non si può» (si arrivò poi a un accordo: raccomandazioni sì, ma solo in caso di «indigenza estrema» e «grave menomazione fisica»). La linea del compromesso storico non convinceva né i genitori, né lui; e comunque in casa a lungo furono più turbati che soddisfatti dalla sua carriera, fino all'abbraccio con i Popolari di Prodi (anticipato da Bersani alle Regionali del '95, quando federò il centrosinistra in un cartello chiamato Progetto democratico). Quando poi Prodi lo chiamò nel governo, all'Industria, don Vincenzo fece suonare le campane a martello. D'Alema la prese più prosaicamente: «Ma tu sei capace di fare il ministro?» («è un giudizio che lascio a te» fu la risposta).
Accanto al Partito, l'altra matrice di Bersani è la sua terra, l'Emilia. Un limite, per critici e imitatori che giocano sull'accento, in effetti un po' caricaturale. Una forza, per lui: «Sono un pragmatico emiliano». A ricordargli che l'Emilia-Romagna dava alla sinistra voti e denari ma non leader, risponde citando i sindaci Dozza e Zangheri e anche Dossetti e Zaccagnini, che però stavano dall'altra parte, nella Dc. I compagni di liceo andarono tutti all'università a Milano, tranne lui, che scelse Bologna. Cominciavano gli anni Settanta, e in città Bersani fu tra i fondatori di Avanguardia Operaia, che attaccava il Pci da sinistra. In altri tempi ha amato il ribellismo da provincia modenese di Vasco Rossi. A De André ha detto, dopo un concerto: «C'è qualcosa di anarchico in me, e l'ho trovato nelle tue canzoni». Ama ripetere che «quando mi danno del burocrate lascio fare, e in cuor mio rido». Con Renzi ha adottato la stessa tattica: l'ha lasciato fare, sicuro che alla fine l'apparato e la base avrebbero fatto fronte contro il «giovanotto». Quanto al carisma, è una parola di cui diffida, come narrazione — «mi fa venire in mente le favole» — e fascinazione («da sola, è ingannevole»). «Carisma all'origine indica un dono di Dio a una persona. Chi se lo attribuisce come cosa propria, non è carismatico ma presuntuoso». E ancora: «Se dieci naufraghi stanno in mezzo al mare, il capo non è quello che ha carisma, ma quello che offre maggiore sicurezza». Ieri, più o meno, è andata così.

Corriere 3.12.12
Adesso Palazzo Chigi non è più un obiettivo solo rivendicato
di Massimo Franco


Discutere sull'entità della vittoria di Pier Luigi Bersani ai ballottaggi di ieri rischia di far passare in secondo piano gli effetti che le primarie del centrosinistra stanno già producendo. Il principale potrebbe riguardare proprio il segretario del Pd, la cui candidatura come prossimo presidente del Consiglio appare più forte di otto giorni fa. Sebbene riguardassero solo il suo elettorato, le primarie gli danno una spinta verso Palazzo Chigi che può aiutarlo a vincere resistenze diffuse anche a livello internazionale: la sua vittoria oltre il 60 per cento è netta.
Ma dipenderà anche dalla capacità di amalgamare un partito apparso diviso fra lui e il sindaco di Firenze, Matteo Renzi: al di là del «gioco delle parti» che l'ex premier Romano Prodi cerca di accreditare. Lo scontro sulle regole, sebbene esagerato strumentalmente, prefigura due modelli di partito e due platee elettorali diverse. E quella di Renzi prevede anche i consensi di quanti sono delusi dal centrodestra e attirati dal suo lessico nuovista. È un elemento che incrocia la seconda conseguenza delle primarie: quella di sottolineare il ritardo e la confusione del Pdl. Il colloquio dei giorni scorsi fra il segretario, Angelino Alfano, e Silvio Berlusconi non li ha colmati ma, se possibile, accentuati. Non è stato ancora convocato l'Ufficio di presidenza del Pdl che dovrebbe misurare le intenzioni e la forza del fondatore e i progetti del suo plenipotenziario. E dunque non si capisce se la rottura, il cosiddetto «spacchettamento» del partito voluto da Berlusconi alla fine ci sarà o no. La prospettiva di un unico partito del centrodestra rimane in bilico. E l'immagine di un Cavaliere indeciso, prigioniero di quelle che Pier Ferdinando Casini, leader dell'Udc, definisce «giravolte», si radica nello stesso Pdl. Anche se forse le primarie indurranno a qualche cambiamento perfino l'area centrista. Casini rimane convinto che la politica economica del governo Monti vada proseguita anche dopo le elezioni. A capo di un esecutivo di ministri politici, non più tecnici, e con altri equilibri, ma sempre a Palazzo Chigi. Sa di dover tenere conto, tuttavia, di un eventuale risultato elettorale che dia una maggioranza chiara al centrosinistra. Rimane da capire, dunque, se confermi questa strategia pur temendo che il governo Monti ormai sia meno realizzabile; oppure semplicemente perché ritiene inutile che occorra aspettare il responso delle urne per definire chi governerà e chi diventerà presidente del Consiglio.
Dal modo in cui parlano i vertici del Pd, si profila «uno squadrone» di centrosinistra, secondo il segretario. Da oggi comincia «la galoppata» verso le urne dopo la «prima tappa», annuncia il capogruppo Dario Franceschini. Insomma, il centrosinistra può perdere solo con le proprie mani. Ma fino a quando non si capirà se Berlusconi accetterà una qualche riforma elettorale, rimane tutto immobile. E riaffiora l'offerta della Lega al Pdl, perché sigli un'alleanza in cambio della crisi del governo Monti. La contrarietà di Alfano all'idea che si voti in alcune regioni a febbraio, e alle politiche a marzo, la rende insidiosa. Una sconfitta a tappe terrorizza il centrodestra.

Repubblica 3.12.12
La lunga marcia di Pierluigi su Palazzo Chigi
L’altra faccia dell’“usato sicuro”
di Filippo Ceccarelli


ENON solo perché era e resta molto vero, ma anche e soprattutto perché quelle parole illuminano l’altra faccia del personaggio, e dunque: «Vedete, la politica finisce sempre con un dispiacere. Questo bisogna saperlo fin dall’inizio e darlo per scontato. Arriva sempre il momento in cui si sente dire: “Ma come? Io fatto questo e quello, ho ricoperto questo o quell’incarico, ho dato l’anima e adesso mi trattano così? Ecco, io vi consiglio di pensarci subito, che finisce con un dispiacere, per cui fate un buon allenamento e mettetevi tranquilli».
I ragazzi lo guardarono un po’ strano, era già partita la sarabanda delle primarie. «Quanto a me - riprese - ho elaborato la cosa da tempo e il primo dispiacere che mi arriva non riuscirà a turbarmi». E nell’inusitato giudizio si poteva cogliere un sovrappiù di rassegnazione e insieme un vuoto di umiltà. A riprova che i politici, in quanto uomini e tanto più in un tempo che oscura e banalizza gli ideali, sono sempre un po’ più complicati di come li raffigurano i giornali, e anche più ricchi
di quanto loro stessi si lascino raffigurare nei talk-show o nelle campagne di marketing.
In questo senso, le ultime lacrime di Porta a porta completano uno stereotipo di calorosa umanità, disdegno del look e solido riformismo declinato all’insegna della concretissima bonomia emiliana, a maggior gloria di una forza tranquilla che tiene alle radici anche famigliari e pone la provincia al centro della sua vitalità. Lo stesso Bersani, mesi orsono, ha rivendicato di essere «l’usato sicuro», là dove l’espressione automobilistica forse faceva polemico riferimento alla rottamazione invocata da Renzi, ma forse anche no.
Eppure, aprendo le cartelline di ritagli accumulatisi negli anni, si scopre qui e là un altro Bersani, assai meno brioso del leader canterino, appassionato di musica lirica e di Vasco Rossi. Una cultura più ricercata e raffinata di quanto consentano di norma gli orizzonti del post-comunismo; una prospettiva anche esistenziale che va oltre il fanta-fraseggio auto-caricaturale che a Montecitorio, quando interveniva, ha portato il centrodestra a ritmare «Cro-zza! Cro-zza!»; un temperamento in fondo assai meno solare di quanto appaia da smorfie e sorrisi, occhiate, battute e ghiribizzi; un animo per certi versi incline anche alla meditazione filosofica con ricaduta nell’aforismo, e in questo senso il segretario del Pd reagì a Grillo che in uno dei suoi simpatici accessi l’aveva presentato come un «morto vivente». Per cui: «Noi semplici uomini siamo quasi tutti morti, e viviamo su quel quasi».
E tuttavia viene da chiedersi cosa Bersani abbia provato quando D’Alema, durante il giuramento del suo governo, lo accolse facendogli un buffetto. E’ possibile che l’educazione cattolica, e poi gli studi storico-teologici, abbiano mischiato un po’ le carte, senza che mai le riflessioni sulla grazia o il peccato originale, riuscissero ad attenuare, anzi, un’autentica passione per il potere nella sua multiforme tentazione e rappresentazione anche di svago. Vedi l’ascesa precocissima al Salotto Angiolillo, i coretti confindustriali dalle parti di via Veneto, l’aperitivo al De Russie prima del comizio e la più netta consapevolezza dei rapporti, il più delle volte incestuosi, che s’intrecciano fra gli equilibri politici e gli affari, annessi e connessi. Già nel 2005 si trova traccia che Bersani presentò Penati, suo braccio destro, all’imprenditore Gavio; e anni dopo, mordicchiando il sigaro, se ne uscì: «Non riesco a capacitarmi». Nel frattempi gli sfuggì: «Si sa che gli zingari sono ladri, al mio paese quando arrivavano chiudevano tutto, ma li trattavano bene». Come dire: non è certo un moralista, ma un politico, appunto. E non suoni qui a disdoro, ma Berlusconi - come si è visto in alcuni cable usciti su Wikileaks - l’ha sempre così stimato da dire: «Vorrei uno come lui nella mia squadra». E non solo per ragioni astrologiche, essendo i due nati nello stesso giorno. In compenso Briatore gli ha fatto causa, per un botta e risposta a sfondo fiscale. E quando una volta si è sentito trattato in modo brusco da Bianca Berlinguer, le ha risposto (ma non in onda): «Questo lo vai a dire a tua sorella».
Ha un ego piuttosto forte. A Bertolaso, che l’aveva chiamato a «spalare », ha mostrato le foto di lui giovane che spalava il fango a Firenze nel 1966. E quando la Gelmini disse era uno «studente ripetente» si è presentato nell’aula della Camera con il libretto d’esami. Si definisce: «Un giovane di lungo corso». Geminello Alvi, in vena fisiognomica, ha scritto che «le forme craniche squadrate di Bersani, atavismo palese delle culture megalitiche preindoeuropee, e quella sua certa calvizie operosa da mezzadro nato fattore » lo collocano a livello anche fisico nell’area del «comunismo appenninico ». I creativi Biosi & Scibilia che anni fa curarono la sua campagna d’immagine lo rappresentarono in maniche di camicia, debitamente pelato ed «eroticamente composto». Lui chiosò: «Se è vero che vanno i calvi, bella fregatura per Berlusconi che ha speso tutti quei soldi per i capelli». Pare siano stati affissi dei manifesti con Bersani a torso nudo e assai fusto nel collegio di Fidenza. In un empito di realismo scettico ha bofonchiato una volta: «Il carisma è una cosa misteriosa». E se anche suona come una rima, o se voleva proprio essere una rima, beh, questo è Bersani, che ieri ha vinto bene le primarie.

Repubblica 3.12.12
Un leader forte
di Massimo Giannini


Da queste primarie esce un leader forte, legittimato dal voto di tre milioni di italiani che credono nella democrazia e chiedono buona politica. Un leader che ottiene un quasi plebiscito e prevale nel fuoco di una battaglia finalmente vera, dove al contrario delle vecchie primarie di Prodi l’esito è stato davvero incerto e l’offerta è stata davvero plurale.
Da queste primarie esce un partito nuovo, già cambiato nell’articolazione interna e nella proiezione esterna. Un partito che si è scopre aperto, scalabile e comunque contendibile, dove al contrario della tradizione Ds-Pds-Pci non funzionano più i veti incrociati dalemianveltroniani né i blocchi imposti dai comitati centrali. C’è ancora molta strada da compiere, alla ricerca di una chiara identità politica. Il problema di cosa sia oggi un Pd nato per fondere le culture del cattolicesimo ex democristiano e del socialismo ex comunista, e tuttora costretto a federarsi con Sel e Udc per “unire progressisti e moderati”, resta tuttora irrisolto. E sta lì a dimostrare che il progetto è tuttora incompiuto.
Ma queste primarie rappresentano comunque un cambio di fase. Senza falsi ecumenismi, senza vuota retorica: il merito è di chi ha vinto, ma anche di chi ha perso. Bersani ci ha messo la faccia e la passione, rinunciando a usare lo Statuto come un’arma di autodifesa e a brandire il vecchio “pugno del partito” contro il giovane sfidante. Renzi ci ha messo l’ambizione e l’irruenza dei suoi 37 anni, contribuendo al ricambio del personale e del linguaggio politico. Il pragmatismo riformatore, di ispirazione socialdemocratica, ha avuto la meglio sul nuovismo rottamatore, di matrice post-ideologica. Il saldo finale è positivo, per tutti. E il risultato delle primarie, trasformate impropriamente in un congresso a cielo aperto, dimostra che dentro lo stesso partito di una moderna sinistra europea possono convivere anche idee diverse sul lavoro e sul fisco, sul Medioriente e sui diritti civili. Purché non siano antitetiche, o tanto vaghe da sconfinare in un “oltre” dove non sai più chi sei, quando parli di precari e di Fiat, di esodati e di spread. E purché, dopo la conta, prevalgano la disciplina e la logica della maggioranza.
Ora per Bersani comincia una missione nuova. Non si tratta solo di pacificare un Pd spaccato lungo la faglia renziana del “nuovo” contro il “vecchio”. E non si tratta nemmeno di ricompattare un centrosinistra attraversato dalla frattura tra “moderatismo” e “radicalità”. In gioco, di qui al voto della primavera 2013, c’è molto di più. C’è il governo del Paese. C’è la sfida dell’accreditamento in Europa, dove un pezzo di establishment continua a considerare la sinistra italiana inaffidabile e figlia di un dio minore. C’è la complessa sfida delle alleanze, perché la mitica “autosufficienza” del Pd (giustamente inseguita anche da Renzi) è il sogno di tutti, ma se il Paese o la legge elettorale non ti danno abbastanza voti per farcela da solo, sei obbligato a dialogare con Vendola che reclama “profumo di sinistra” e con Casini che pianta i suoi paletti al centro. C’è il confronto dialettico con il “montismo”, e la definizione di un’Agenda che lo integri e lo superi sui temi della giustizia sociale e della crescita economica.
C’è soprattutto la conquista di una maggioranza più larga possibile. Tanto larga da superare i diversi “tetti” al premio elettorale di cui si discute nella riforma dell’orribile Porcellum, se mai le disperate follie berlusconiane la renderanno possibile. Parliamo di una “forchetta” di consensi che oscilla tra il 38 e il 42,5%. Un risultato non proibitivo, per un Pd che dovrà essere capace di guidare una coalizione omogenea e coesa. Ma comunque molto impegnativo per un partito che al suo meglio, nell’ultimo test del 2008 giocato sulla “vocazione maggioritaria” di Veltroni, non è andato oltre il 33%. I sondaggi di oggi fotografano il partito nuovamente a ridosso di quel record. Ma a gonfiare le vele è il vento di queste primarie, che è naturalmente destinato a calare di qui alla prossima primavera.
Bersani, adesso, ha il compito di alimentare quel vento con la politica. Con l’autorevolezza che gli deriva dalla netta vittoria su Renzi. Ma con la consapevolezza, paradossale e tuttavia oggettiva, di avere qualche handicap in più dell’avversario interno che ha appena sconfitto. Gli elettori di centrosinistra, nonostante il fragore della grancassa rottamatrice che promanava dal camper del sindaco di Firenze, hanno premiato l’usato sicuro. Ma di quella campagna resta un’eco che non deve essere dispersa, anche se chi l’ha condotta rinuncia ai sogni di Palazzo Chigi e rientra nei ranghi di Palazzo Vecchio. Resta una domanda di cambiamento profondo, che il Pd non può rinchiudere con un sospiro di sollievo negli armadi della Storia, insieme al renzismo che in questi mesi quella domanda l’ha urlata in tv, nei teatri e nelle piazze d’Italia. Un ticket Bersani-Renzi sembra auspicabile quanto impraticabile. Ma i duellanti hanno comunque un patto tacito da onorare. Il primo deve continuare l’opera di modernizzazione del Pd, respingendo ogni tentativo di restaurazione. Il secondo deve dare il suo contributo, rifiutando ogni tentazione di rottura o di vendetta.
Secondo l’ultimo sondaggio di Roberto D’Alimonte pubblicato sul Sole 24 Ore alla vigilia del primo turno, una coalizione di centrosinistra guidata dal segretario del Pd vincerebbe le elezioni con il 35% dei voti, mentre se la stessa fosse guidata da Renzi (ipotesi a questo punto irrealizzabile) otterrebbe il 44%. Bersani, dunque, può fare il pieno di voti a sinistra, mentre un candidato premier come il sindaco di Firenze avrebbe sfondato il perimetro tradizionale pescando consensi un po’ ovunque. Nel centro moderato (dove si intruppano troppi Casini e personaggi ancora in cerca d’autore come Montezemolo o Passera sognano di rubare l’ago della bilancia al leader dell’Udc). Nella destra sbandata (dove regna il caos e gli aruspici berlusconiani sono ormai costretti a consultare le interiora di uccello per venire a capo delle ciclotimie quotidiane del Sovrano Cavaliere). Nell’area della protesta o dell’astensione (dove comincia ad affiorare qualche stanchezza per i “vaffa-days” del comico genovese e si affievolisce il livore qualunquista che vuole l’intera politica svilita a un “saloon” popolato da “todos caballeros”).
In una logica di ferrea militanza, o comunque di fedele appartenenza, questi consensi possono non interessare. Ma è chiaro che una proposta di governo non solo credibile, ma soprattutto durevole, passa anche attraverso una “pesca” fruttuosa in questo ampio bacino di voti alla deriva. E non basta certo evocare il parroco o il Papa Buono (dimenticando scientemente e colpevolmente Gramsci e Berlinguer) per riempire le reti. Serve la fatica e la pazienza del riformismo. Cioè di una sinistra compiuta. Consapevole dei suoi valori, che soprattutto oggi, nel tempo troppo liquido della libertà globale, non possono prescindere dall’uguaglianza e dalla solidarietà. Una sinistra che sa includere e sa innovare, ma senza perdere la sua identità. Ora tocca a Bersani dimostrare che questa sinistra «non l’ammazza più nessuno ». Che questa sinistra esiste, può vincere e — con Monti o senza Monti — può persino governare l’Italia.

Repubblica 3.12.12
Chance e rischi di un successo
di Ilvo Diamanti


Con molte possibilità di successo. Ebbene, il verdetto, a questo proposito, è stato netto. Ha vinto Bersani. In modo largo. Tanto da dissolvere ogni possibile polemica. E ogni possibile ricorso – peraltro escluso, in precedenza, anche da Renzi. La distanza di 20 punti percentuali, infatti, è tale da ridimensionare anche le polemiche sulle regole relative al diritto di voto. Al primo e, ancor più, al secondo turno. Più che raddoppiata rispetto al dato di partenza. Se anche fosse stata accolta la domanda dei 100 mila elettori che avevano chiesto di partecipare al ballottaggio, senza aver votato al primo turno, il risultato non sarebbe cambiato. Neppure se avessero scelto tutti quanti Renzi. (E ciò suggerisce che un maggior coraggio nell’apertura delle primarie non avrebbe modificato l’esito e avrebbe, anzi, garantito ulteriore legittimazione al candidato eletto). L’impressione – da verificare con analisi più accurate, sui dati definitivi – è che Bersani abbia intercettato gran parte dei voti dei candidati esclusi dal ballottaggio.
La seconda questione riguarda i rapporti di forza tra i duellanti. E, quindi, il grado di omogeneità oppure distinzione, oppure ancora: divisione, del Pd, intorno ai due candidati al ballottaggio. La risposta, al proposito, è più complessa. Perché se è vero che Bersani ha vinto largamente, è altrettanto vero che quasi 4 elettori su 10 si sono schierati con Renzi. Con le sue posizioni, ben diverse e distanti da quelle del segretario del Pd e, ora, candidato del centrosinistra. Difficile non tener conto, in seguito, del voto di questa ampia componente. E di chi li rappresenta. Tuttavia, nel secondo turno si è, in parte, ridimensionata “l’anomalia territoriale” emersa nel primo turno. Quando Renzi aveva “espugnato” proprio le “zone rosse”, esclusa l’Emilia Romagna. Al ballottaggio, invece, ad eccezione della Toscana (dove Renzi ha ottenuto il 52% dei voti), Bersani ha prevalso dovunque. Il che ne rafforza la legittimità, come candidato del centrosinistra.
La terza questione riguarda il grado di mobilitazione, dopo la grande partecipazione al primo turno. Ebbene, a distanza di una settimana si sono ripresentati ai seggi oltre il 90% degli elettori (almeno, da quel che si desume dai dati, ancora provvisori). Un tasso di affluenza molto alto, visto che al ballottaggio si registra, normalmente, la defezione di molti elettori dei candidati esclusi.
Ma quasi 3 milioni di persone che vanno a votare per due volte in sette giorni sono tante. Una risorsa per il centrosinistra e per la democrazia. Dimostrano che il distacco dalla politica e dai partiti espresso dalla società dipende da quel che viene offerto. Se vengono loro proposte “buone ragioni” per partecipare, i cittadini non si tirano indietro.
Comunque, tentando una valutazione di sintesi, alla fine della lunga maratona delle primarie, ho l’impressione che il centrosinistra e soprattutto il Pd si siano notevolmente rafforzati. Ma che, proprio per questo, possano incontrare alcuni seri problemi al proprio interno.
Infatti il Pd, in questi ultimi mesi, ha beneficiato di grande visibilità e di grande attenzione, presso l’opinione pubblica. Come mostrano le intenzioni di voto, che lo hanno visto crescere fino a sfiorare il 35%. Complice l’implosione del Pdl e del centrodestra, prodotta dal rapido declino di Berlusconi. Ma anche dall’incapacità (e dall’impossibilità) del Cavaliere di tirarsi da parte. L’unica opposizione è, dunque, rimasto il M5S di Beppe Grillo. I cui spazi sono stati, tuttavia, contenuti proprio dalle primarie. Dal dibattito e dalla mobilitazione sociale che hanno sollevato. Non a caso, nelle ultime settimane, la crescita del M5S, nei sondaggi, si è arrestata. Anzi, si è assistito a un lieve ripiegamento.
Da ciò la chance, ma anche il rischio per il Pd. Il quale, oggi, appare solo, troppo solo, in mezzo alla scena politica. Non a caso, l’ultima fase delle primarie, più che il processo di selezione del candidato di schieramento, ha dato l’idea, in alcuni momenti, di un confronto “presidenziale”.
Soprattutto nel “faccia a faccia” televisivo, andato in onda nella Prima Rete Rai. Fra due candidati dello stesso partito.
Con una duplice conseguenza per il Pd. Divenire il centro dell’attenzione, ma anche il bersaglio principale – se non unico della polemica e delle critiche degli elettori. Oltre che degli altri soggetti politici. In secondo luogo, ridurre il “campo” di gioco le primarie- non al Centrosinistra, ma al solo Pd. Il che può produrre reazioni di rigetto, nella sinistra. Ma anche fra gli elettori di centro. Soprattutto se la coalizione che affronterà le prossime elezioni si rispecchiasse nella “foto di Vasto”. E la rappresentanza degli elettori moderati, strategici in ogni competizione elettorale, venisse “affidata” all’Udc e al Terzo Polo. In attesa di prossime, future alleanze.
Per questo, le primarie hanno costituito una grande occasione di allargamento dei consensi e di rafforzamento politico, per il Pd. Un’opportunità per scoprire e mobilitare la grande offerta di “volontariato” e di passione politica disponibile nella società. Ma, da oggi, possono produrre anche problemi. Se non altro, per il rischio del “silenzio” e della sospensione, dopo tante voci e tanta partecipazione. Il Pd è riuscito a usare bene le primarie. Ora deve gestire bene – e maneggiare con cautela – il dopo-primarie.

Repubblica 3.12.12
A urne chiuse prime riflessioni
di Mario Pirani


Ieri si sono chiusi i seggi delle primarie e i risultati sono in gran parte già noti. Non per noi al momento anticipato in cui scriviamo. Quel che possiamo dire fin d’ora è che la sfida del sindaco di Firenze ci ha ridato dopo molto tempo il gusto di una battaglia elettorale democratica. Se ne può cominciare a discutere fin d’ora. Anzitutto si può facilmente presumere che l’affluenza avrebbe raggiunto dimensioni anche maggiori, con un risultato finale probabilmente scostato da quello registrato, se l’accesso alle urne fosse stato facilitato invece che ostacolato da norme inventate per scoraggiare l’afflusso. Ciò detto va aggiunto che non saremmo arrivati ad un conteggio che annovera milioni di firme solo se i bersaniani avessero rinunciato al sistema frenante messo in atto, soprattutto al secondo turno.
Il moltiplicatore è stato un altro, di ben altra forza e suscitatore di una spinta autopropulsiva che nessun pavido tattico era in grado di frenare. In termini economici si potrebbe indicarlo come la potenza dell’offerta in un mercato concorrenziale. Non vogliamo in proposito vantare primogeniture ma dalla fondazione del Pd (14 ottobre 2007) su queste colonne apparve chiarissima (in alcuni editoriali del direttore e in un decalogo del sottoscritto) la rivendicazione davvero dirompente di fare del nuovo partito un organismo esplicitamente contendibile, in cui la vischiosità paralizzante degli apparati di origine venisse sterilizzata dal primo giorno. Una richiesta semplice a formularsi ma tutt’altro che facile a realizzarsi. E a questo punto va detto, senza ipocrisie, che una contesa possibile ha cominciato a delinearsi solo dall’entrata in gioco di Matteo Renzi che ha dato a tutti, votanti e contendenti il senso vero che questa volta il loro voto e il loro personale impegno contavano e la competizione non si sarebbe conclusa con la solita manifestazione plaudente a favore di questo o quel candidato già scelto nei noiosi ludi di apparato. Come avvenne con Prodi senza sua colpa.
Del resto basta immaginare quale sarebbe stata la dinamica, le passioni in piazza, la riscoperta per tanti della politica, lo spettacolo direi, se queste primarie si fossero svolte per incoronare un candidato dato vincente per tutti già in partenza. La noia e il deja vu avrebbero impregnato la regia. Per questo appare assurdo che uomini con il Dna di Berlinguer o di Moro si fossero sentiti all’inizio offesi da una simile contaminazione più generazionale che altro. E per fortuna solo l’intuitivo buon senso emiliano, di cui Bersani raccoglie il merito, poteva riuscire a smorzare l’assurdo incrociar delle lame. Con il risultato di accorgersi, a partire dalle ultime settimane, che miracolosamente la disfida così chiara ed esplicita, stava dando vita, finalmente, a quel partito nuovo che tutti avevano sognato e ormai quasi dimenticato. A questo punto l’idea che, quali che fossero i risultati, quel partito stava finalmente nascendo ha fatto risorgere antichi entusiasmi, in vecchi e giovani e azzarderei di dire che lo slogan sui “rottamatori” si è spogliato del suo sapore offensivo, per far acquisire a Renzi la virtù oggettiva e concreta del “rinnovatore”. Tutto questo è avvenuto senza grandi disegni strategici ma per l’incrociarsi tra l’iniziativa spericolata di un giovane uomo politico e le riposte aspirazioni di milioni di militanti di sinistra. In un discorso al C. C. del Pci del febbraio1962, Palmiro Togliatti disse: «Senz’altro da respingere ritengo sia l’opinione che qualunque cosa venga fatta, non cambierà nulla della situazione, perché non… non cambierà la classe dirigente e saranno sempre gli interessi di questa classe dirigente che prevarranno su tutto. Si tratta del tradizionale nullismo massimalistico che, per quanto si possa nascondere sotto il manto di affermazioni dottrinarie, è pur sempre nullismo, cioè incapacità di comprendere le trasformazioni che si compiono nell’assetto economico e politico della società….».

Repubblica 3.12.12
Livorno, antagonisti assaltano la Prefettura
In 500 hanno lanciato pietre e bombe carta dopo un corteo. Agenti feriti
di Michele Bocci


LIVORNO — Hanno scagliato mattoni, bombe carta, pietre, fumogeni, palloncini pieni di vernice bianca e transenne contro poliziotti e carabinieri rinchiusi nella prefettura. Un gruppo di antagonisti ieri sera alle 18 ha assaltato il palazzo dove ha sede anche la questura di Livorno. La violenza è esplosa alla fine di una manifestazione non autorizzata nelle vie del centro a cui hanno partecipato circa 500 persone. Sette poliziotti sono stati portati al pronto soccorso con contusioni. Dopo i manifestanti si sono allontanati ancora in corteo e sono arrivati nella centrale piazza Cavour, dove due fotografi sono stati aggrediti. «Siamo stati vittime di un attacco vigliacco, squadrista e gratuito. Gente che si definiva pacifica è venuta con bastoni, picconi e taniche di vernice che ci ha tirato addosso», dice il segretario provinciale del sindacato di polizia Sap, Luca Tomasin.
La manifestazione di ieri è stato l’ultimo atto di una tre giorni difficile a Livorno dal punto di vista dell’ordine pubblico. Venerdì c’erano state tensioni perché a un gruppo di antagonisti e No Tav era stato negato l’ingresso alla sala dove teneva un comizio Pierluigi Bersani. Sabato, dopo un’iniziativa di protesta contro il governo Monti organizzata dalla Federazione anarchica livornese e da gruppi antagonisti in piazza Grande ai quali si erano aggiunti una quarantina di attivisti No Tav, era partito un corteo non autorizzato. Verso le 19 in piazza Cavour la polizia ha chiesto lo scioglimento, senza essere ascoltata. Le forze dell’ordine hanno iniziato allora a identificare i manifestanti, che si sono rifiutati. Ci sono stati alcuni scontri in cui è rimasta ferita una donna, la madre di uno dei ragazzi in piazza. Nella serata di sabato si è così deciso di organizzare l’appuntamento di ieri. Nel pomeriggio un corteo si è mosso dietro allo striscione “Livorno non si piega” e intorno alle 18 è arrivato prima davanti alla questura e poi alla prefettura. Qui è esplosa la violenza, mentre la polizia e i carabinieri riparavano rapidamente dentro il palazzo. «È stata la risposta spontanea e incontrollabile dei cittadini livornesi che da sempre ripudiano qualsiasi tentativo di imposizione e di controllo autoritario del territorio», scrivono dal collettivo “Ex caserma occupata”, tra gli organizzatori della manifestazione. Il Collettivo anarchico libertario e la Federazione anarchica livornese, così commentano: «I fatti di sabato sono di una gravità estrema: quella a cui abbiamo assistito è stata una vera e propria aggressione a freddo da parte di polizia e carabinieri, qualcosa a cui Livorno non è abituata». Ieri sera è intervenuto il sindaco Alessandro Cosimi: «Possiamo ammettere ogni manifestazione a patto che sia pacifica e che non voglia interrompere quelle degli altri. Quello che è successo mi sembra che sia un passaggio di livello e non ha niente a che vedere con l’agibilità democratica della città».

l’Unità 3.12.12
Le contraddizioni del governo sull’Ilva
di Paolo Leon

ALLA RECENTE CONFERENZA STAMPA DEL GOVERNO SULL’ILVA, UN CORRISPONDENTE STRANIERO HA CHIESTO SE IL PROVVEDIMENTO, che riapre la produzione nelle mani della proprietà che aveva inquinato, avrebbe creato un moral hazard: sottintendeva che ogni inquinatore, d’ora in poi, potrebbe contare su provvedimenti analoghi, e sarebbe incoraggiato ad inquinare. Monti ha risposto sostenendo che il moral hazard si applica nella finanza internazionale, e forse si riferiva al caso del salvataggio dei Paesi debitori, che potrebbero perseverare nel deficit pubblico, visto che sono salvabili, ma sa benissimo che il moral hazard si applica a qualsiasi rapporto contrattuale, pubblico, privato, finanziario o reale, ma forse non si è posto il problema se il provvedimento per l’Ilva può causare un effetto negativo sul comportamento generale degli inquinatori.
Già consentire all’inquinatore di proseguire l’attività, pur disinquinando, è come consentire al ladro di tenersi la refurtiva. È vero che nel provvedimento si giunge anche a sottrarre la proprietà all’inquinatore, se questi non dovesse rispettare le regole fissate dal governo e controllate dal garante: ma quattro conseguenze sembrano sfuggite al governo.
La prima è che, inevitabilmente, l’inquinamento, pur ridotto, continuerà fino a che il risanamento non sarà completato: e se si devono fermare gli impianti per risanarli, è inevitabile la cassa integrazione che sarebbe intervenuta anche con il fermo impianti del magistrato. La seconda conseguenza deriva dal possibile mancato rispetto delle norme da parte dell’inquinatore: non si potrà immediatamente procedere a requisire l’impianto, perché è inevitabile il ricorso alla magistratura da parte dell’inquinatore, e nel frattempo l’inquinamento continua. La terza conseguenza è ciò che accadrà quando l’inquinatore non avrà, come è del tutto probabile, tutte le risorse finanziarie per pagare il risanamento: se fallisce, interverranno i creditori, un custode fallimentare, ma non lo Stato a meno di nuovi provvedimenti che stravolgerebbero l’ordinamento italiano e europeo. La quarta conseguenza è che si è creato un precedente che travolge la divisione dei poteri, fermando un provvedimento del magistrato con una legge un intervento più nobile, ma nella scia delle leggi ad personam.
Francamente non si capisce perché il governo non abbia requisito immediatamente l’impianto, avviato risanamento e produzione, e bloccato capitale e reddito dell’inquinatore, eliminando ogni conflitto con la magistratura. Lo consente la Costituzione, come è già stato detto per il provvedimento, e non vi può essere obiezione dell’Unione europea, perché siamo di fronte ad un danno derivante da comportamenti illeciti, che hanno creato insalubrità. Forse, lasciando l’impianto all’inquinatore, si voleva fare in modo che questi pagasse il risanamento; ma ciò è possibile anche requisendo l’impianto, semplicemente obbligando l’inquinatore a pagare il danno procurato con le sue risorse. Si volevano forse ottenere le risorse del risanamento utilizzando i ricavi dalla produzione? Ma ciò, se era possibile senza inquinare, l’avrebbe fatto lo Stato, incassando direttamente fatturati e utili.
Se al Consiglio dei ministri non è stata decisa la requisizione immediata, può derivare o da una segreta preferenza per la proprietà privata o da una sfiducia nei manager dell’llva nel realizzare l’operazione condotta in ipotesi dallo Stato: ma sono gli stessi che opereranno agli ordini dell’inquinatore. Forse il governo non voleva toccare i saldi di finanza pubblica, nel caso non fossero sufficienti le risorse prodotte dall’impianto e dal patrimonio dell’inquinatore, ma ciò potrebbe benissimo avvenire, con rischi maggiori, con il provvedimento approvato, quando l’inquinatore non avesse rispettato gli impegni; e se invece si contava su tali impegni, voleva dire che le risorse erano sufficienti.
Infine, si è detto, con qualche languore, che siamo di fronte al conflitto tra due obiettivi «assoluti»: salute contro lavoro. Naturalmente, è una sciocchezza: si può produrre acciaio senza inquinare più del lecito, e ne deriva che il conflitto è tra l’inquinatore e lo Stato, e il lavoro non c’entra niente.

La Stampa 3.12.12
“Invasione della politica Il decreto non difende il diritto alla salute”
Il procuratore Armando Spataro, tarantino “Il rischio di incostituzionalità c’è “
di Gui. Ruo.


I suoi ricordi sono dei flash: «Avrò avuto dodici, tredici anni quando fu posata la prima pietra dello stabilimento. Ricordo l’entusiamo contagioso della città, la sua rinascita economica, il rapido sviluppo del porto mercantile diventato uno dei più importanti del Mediterraneo, l’euforia per le migliaia e migliaia di assunzioni». Armando Spataro uno dei più autorevoli pm italiani, è tarantino. Come lo sono altri due suoi colleghi, Franco Ippolito e Giancarlo De Cataldo (oggi scrittore affermato). «In queste settimane - confessa Spataro - seguiamo tutti e tre con molta apprensione gli sviluppi della situazione». E da magistrato, il pm che è stato in prima linea sul fronte dell’antiterrorismo e che ha mandato a processo gli uomini Cia e del Sismi per il sequestro dell’egiziano Abu Omar, è solidale con i colleghi tarantini: «Il probema dell’inquinamento ambientale a Taranto è noto da decenni, ma la politica non è intervenuta e la magistratura si è ritrovata ad essere parafulmine di mille tensioni».
Procuratore Spataro, siamo alle solite? Una invasione di campo del governo sulle inchieste?
«Quello che è più grave è che ancora una volta i magistrati stanno svolgendo un ruolo di supplenza. A fronte di passività e silenzi, quasi che i rischi per la salute delle persone non esistessero o dovessero cedere di fronte alle logiche del mercato, la magistratura è stata costretta a intervenire perché in Italia vige il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale».
Prima di emigrare al Nord, quale ricordo conserva della sua vita a Taranto e del rapporto della città con l’acciaieria che prima di diventare Ilva, nel 1996, per 36 anni è stata Italsider?
«Flash, ricordi che vanno dall’economia che decolla all’ambiente che si deteriora».
Da subito l’Italsider ha cominciato a inquinare?
«Immagino di sì. Se penso a quegli anni, il ricordo nitido è una fotografia panoramica nella quale si vedono le ciminiere espellere fumi giallastri e poi tanta polvere sull’asfalto, polvere rossa e gialla che trovavi dappertutto, prima nel quartiere Tamburi e poi anche sul lungomare cittadino. Da ragazzi andavamo sulla spiaggia di Chiatona, ma quando passavamo davanti all’Italsider la strada era sommersa di quella polvere. Ricordo la gravina di Statte, nostra meta da scout. Anche quando con la moto andavo all’Università di Bari passavo dall’Italsider. Ed in ogni flash c’è sempre la polvere rossa... È come se quella polvere e quei fumi fossero diventati elementi costitutivi del mio vivere a Taranto».
Lei non era ancora magistrato e in quegli anni Sessanta la cultura sindacale o anche le conoscenze mediche diffuse non sapevano nulla sull’inquinamento, sulle diossine o il benzoapirene dell’Italsider...
«È vero, non avevamo ancora acquisito le conoscenze che il pretore Amendola e il pm Guariniello hanno poi favorito. Io stesso, non ho problemi a riconoscerlo, ero praticamente ignorante in materia di inquinamento ambientale».
Arriviamo ai giorni nostri. Da magistrato tarantino solidarizza con i suoi colleghi che indagano sul disastro ambientale provocato dall’Ilva?
«Li ammiro. I colleghi di Taranto hanno dimostrato la capacità di far fronte agli obblighi imposti dalla Costituzione. Li ammiro anche per la sobrietà dimostrata in queste settimane. Con il decreto legge è stato messo in discussione il primato del diritto alla salute su quello del diritto al lavoro».
Se si esclude il comunicato dell’Anm, le prese di posizione del suo numero due, Maurizio Carbone, attorno alla vicenda Ilva è scesa una cortina di silenzio...
«Il magistrato deve essere indifferente al consenso come alla solitudine. Ma di fronte a un decreto legge che mette in discussione le conclusioni delle perizie epidemiologiche e chimiche che sono state discusse nell’incidente probatorio, autorizzando la produzione anche prima della messa in sicurezza degli impianti, l’Anm ha fatto bene a intervenire».
Siamo di fronte a un decreto legge incostituzionale?
«Di certo, con il decreto siamo all’interferenza del potere legislativo nei confronti del potere giudiziario. Leggeremo con attenzione il decreto legge che sarà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. È ora possibile che da Taranto possa essere sollevato un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato davanti alla Corte costituzionale o anche messa in discussione la incostituzionalità del decreto sotto diversi profili. Una situazione difficile soprattutto se si pensa ai diritti dei lavoratori dell’Ilva: a tutti i loro diritti».

il Fatto 3.12.12
Barca: “Tamburi non è un posto dove vivere”
di Sandra Amurri

Ministro Barca, a Taranto i bambini nascono già malati, si muore per i veleni dell’Ilva e il governo dà un'altra chance al gruppo Riva?
Nessuna fiducia in bianco, non è più il tempo. Il governo con questo decreto apre nei confronti del gruppo Riva una fiducia fortemente condizionata
Ma come è pensabile poter conquistare la credibilità di cittadini ingannati e abbandonati dalle istituzioni?
È ragionevole partire da una non fiducia, quando leggi le carte processuali non può che essere così, ma l'obiettivo è proprio di ricostruire la credibilità perduta. Innanzitutto nominando un garante che verrà selezionato attraverso la pubblicazione dei curricula, un soggetto, oserei dire, quarto che risponderà solo ai cittadini che per l’altissima competenza riceverà un emolumento elevato fino a 200 mila euro. Che oltre al potere ispettivo e propositivo assumerà su di sé ogni responsabilità. Qualora l'impresa non realizzerà il piano di investimenti, garantendo tutela della salute e dell'ambiente, subirà una sanzione pari al 10% del fatturato fino ad arrivare a misure straordinarie come la nazionalizzazione prevista dall'Art 43 della Costituzione
Esproprio dell’Ilva se non rispetterà il piano?
Sì e sarebbe la prima volta che ciò accadrebbe a conferma del fatto che i cittadini debbono fidarsi.
Ma il governo è in scadenza
Intanto il decreto dovrà essere convertito dal Parlamento poi i ministri ci hanno messo la faccia e la loro responsabilità non finisce qui.
Lei parla bene ma se uno di quegli 800 bimbi che vanno a scuola ai Tamburi sotto i camini dell'Ilva fosse suo figlio?
Io e mia moglie saremmo in prima linea ma sono onesto, un borghese come me, voglio dire con il mio reddito, non lo manderebbe ai Tamburi perchè avrebbe gli strumenti per scegliere. Il punto è la mancanza della possibilità della scelta, imposta dall'ingiustizia sociale. Una popolazione non può essere ridotta alla costrizione da una crescita dissennata, da decisioni scellerate, segno di una democrazia indebolita.
Ha mai pensato di andare ad incontrare gli operai dell'Ilva
E' una cosa che sento fortemente, andrò ad incontrare i cittadini, gli operai sono prima di tutto cittadini.
Sarà ministro di un governo di centro-sinistra?
Farò il nonno, sto per diventarlo. Non ne ho la più pallida idea. Se avrò fatto bene e mi chiederanno di dare una mano ci sarò.
Alla domanda per chi vota risponde Pci. Come   dire: sono un impenitente comunista?
Direi legato a quella cosa straordinaria che è stato il partito comunista italiano dove la classe dirigente discuteva per ore e la decisione era inamovibile perchè frutto di un confronto serrato con i bisogni reali delle persone. Aver distrutto quel metodo è stato un grande errore. Bisogna ricostruirlo

La Stampa 3.12.12
De Mauro: “L’Italia è in ritardo e nessuno se ne preoccupa”
intervista di Anna Masera


Il professor Tullio De Mauro (www.tulliodemauro.it), linguista con un’intensa seppur breve esperienza di ministro dell’Istruzione (durata 13 mesi), ha molto da dire sulla cultura e la scuola nell’era digitale.
Lo contattiamo via email all’Università di Roma chiedendogli di intervistarlo e risponde subito. Chiede domande scritte e quando per problemi di connessione, che attribuisce a un server poco affidabile, non riesce ad inviare ed è costretto a rispondere a voce, chiede di poter dettare parola per parola («Un tempo avevate i dimafonisti»), svelando una certa sfiducia verso il mestiere del giornalista.
Dall’alto dei suoi 80 anni e del suo pedigree, ha la nostra totale disponibilità. Ricostruisce a braccio le risposte che sono andate perse. E a noi sembra di tornare sui banchi delle elementari nell’ora del dettato.
Professore, gli italiani possono partecipare alla rivoluzione digitale?
«Purtroppo poco e male. L’uso della Rete presuppone le capacità almeno elementari di lettura, scrittura e calcolo. Due indagini del 2000 e del 2006 dicono che siamo messi molto male. Classi dirigenti pensose delle sorti del nostro Paese dovrebbero sobbalzare a sentire gli esperti internazionali concludere che «la popolazione italiana in età di lavoro (16-65 anni) soltanto per il 20% ha le capacità minime indispensabili per orientarsi in una società moderna. Questo deficit spiega perché l’accesso alla Rete, anche per chi possiede un Pc, arriva a percentuali modeste nel confronto internazionale. Abbiamo difficoltà a usare la Rete perché abbiamo difficoltà a leggere, scrivere e far di conto».
Che cosa dovrebbe fare la politica?
«La politica dovrebbe fare quello che fa negli altri Paesi bene ordinati nel mondo. Nell’età adulta è fisiologico che si perdano competenze acquistate da giovani a scuola. Altri Paesi fronteggiano questo problema, ormai noto e ben individuato, sviluppando corsi di apprendimento per tutta la vita. Noi abbiamo alcuni progetti di legge, uno anche di iniziative popolari, giacenti in Parlamento, con nessuna concreta iniziativa per creare un sistema nazionale, per un’educazione ricorrente. Da molti anni l’Ocse rimprovera all’Italia questo punto debole del suo sistema di istruzione, di mancanza di educazione per gli adulti. Classi dirigenti responsabili dovrebbero metterlo in primo piano».
Ci sono modelli a cui ispirarsi per proteggere e far crescere la scuola, l’università, la ricerca, la cultura in Italia?
«Un tratto comune alle politiche scolastiche in tutto il mondo è che sono gestite in prima persona da capi di Stato o di governo. Obama o Cameron, Sarkozy o Chavez o Merkel. E questo è giusto, sia per l’entità dell’investimento necessario dappertutto a far funzionare scuola e formazione, sia per il ruolo centrale che ha per lo sviluppo del Paese».
Se bisogna fare i conti con un’autorità pubblica deficitaria, che cosa possiamo fare noi cittadini per istruire noi stessi e i nostri figli?
«Ci sono varie cose possibili, non troppo onerose. Uno: avere in casa un po’ di libri. Due: leggerli abitualmente. Tre: leggerli ai bambini quando ancora non vanno a scuola, abituarli alla lettura per quello che dà alle emozioni e alle intelligenze. Quattro: cercare di persuadere le autorità comunali, biblioteche e centri di lettura, creando una rete paragonabile a quelle che troviamo in Trentino Alto Adige e Val d’Aosta. In attesa che il governo capisca che deve dotare la scuola non di tablet, ma dell’accesso alla banda larga per sfruttare le opportunità che la Rete offre».
Lei e’ ottimista o pessimista sul nostro futuro?
«Sarei molto ottimista se sapessimo selezionare gruppi dirigenti capaci di elaborare programmi a medio e lungo termine per la vita del nostro Paese. In Italia non vedo candidati politici che abbiano messo la scuola in testa alla loro agenda politica: a parte qualche vago accenno nel programma di Vendola, per il resto è silenzio totale».

La versione integrale dell’intervista si trova su www.lastampa.it/masera

l’Unità 3.12.12
Abbas torna da eroe, Netanyahu taglia i fondi
Abu Mazen acclamato in Cisgiordania: «Ora abbiamo uno Stato»

Il governo israeliano nega il versamento delle tasse raccolte per conto dell’Anp e annuncia: «Costruiremo ovunque»
di U.D.G.


«Ora abbiamo uno Stato». Scandisce le parole Mahmud Abbas (Abu Mazen) davanti ad una folla di palestinesi erano almeno in diecimila, provenienti da tutta la Cisgiordania riunitisi a Ramallah per festeggiare il riconoscimento all’Onu della Palestina come Stato osservatore non membro. Tripudio di bandiere nazionali, osanna per il presidente dell’Anp. È il giorno dell’orgoglio nazionale nei Territori. Il giorno di Abu Mazen. «Non ci siamo lasciati intimidire dalle pressioni e dalle minacce di Israele e Usa», afferma «Mahmud il vincitore», rivolgendosi alla folla assiepata davanti la Muqata, il palazzo presidenziale. «State scrivendo la storia e ridisegnando la mappa mondiale», dice rivolto alla piazza. «Il mondo lo ha detto alto e forte: “Sì allo Stato di Palestina, sì all’indipendenza della Palestina. “No” all’aggressione, no alle colonie, no all’occupazione», si esalta il presidente dell’Anp, tra un tripudio di bandiere e slogan irredentisti.
Abu Mazen riafferma che «Gerusalemme è, per sempre, la capitale dello Stato della Palestina», una eco alle ripetute dichiarazioni del premier israeliano Benjamin Netanyahu secondo le quali «Gerusalemme è la capitale eterna e indivisibile di Israele». «Tenete alta la testa perché siete palestinesi. Siete più forti di questa occupazione, più forti dell’aggressione, più forti delle colonie perché siete palestinesi», aggiunge ancora Abu Mazen. Il numero uno dell’Anp ha poi dedicato il nuovo status di Paese osservatore all’Onu votato da più dei due terzi degli Stati rappresentati alle Nazioni Unite al defunto leader storico Yasser Arafat, inumato alla Muqata.
UNITÀ NAZIONALE
L’ultima parte del suo discorso è rivolta all’interno, al frammentato campo palestinese: «La riconciliazione nazionale è necessaria per raggiungere la liberazione dell’occupazione israeliana», dice ancora Abu Mazen. Nei prossimi giorni annuncia verranno fatti dei passi «per la riunificazione di tutte le altre fazioni palestinesi», a cominciare da Hamas.
Altro clima a Gerusalemme. Si riunisce il Consiglio dei ministri dello Stato ebraico. L’atmosfera è pesante. Le decisioni assunte ne sono la concreta traduzione. Il governo israeliano annuncia che bloccherà il trasferimento di tasse raccolte da Israele per l’Autorità nazionale palestinese, in seguito al voto dell’Onu sulla Palestina. Secondo i media, si tratta di 460 milioni di «shekels» (circa 92 milioni di euro) che dovevano essere trasferiti questo mese all’Anp. Non è la prima volta che il governo israeliano usa questi trasferimenti come strumento di rappresaglia contro le iniziative diplomatiche o politiche dell’Anp, che spesso, come conseguenza, si è trovata costretta a ritardare gli stipendi dei dipendenti della propria macchina amministrativa. Non basta. Israele «continuerà a costruire a Gerusalemme e in ogni luogo della mappa degli interessi strategici dello Stato di Israele», ribadisce Netanyahu, secondo quanto riporta Ynet, il sito online di Yediot Ahronot, il più diffuso giornale israeliano. Netanyahu sempre secondo Ynet ha anche sottolineato che «la mossa unilaterale dell’Autorità palestinese all’Onu è un’impudente violazione degli accordi firmati. Uno Stato palestinese non sarà stabilito senza un connesso accordo sulla sicurezza dei cittadini israeliani e prima che l’Autorità palestinese riconosca Israele come Stato del popolo ebraico e dichiari la fine del conflitto».
È scontro frontale. L’ultimo messaggio è rivolto alla Comunità internazionale. Ed è un messaggio di «guerra diplomatica». Il governo israeliano all’unanimità ha respinto la risoluzione approvata dall’Onu che accredita la Palestina come Stato non membro dell’organizzazione. In una nota ufficiale, il governo di Gerusalemme sostiene che «il popolo ebraico ha un naturale, storico e legale diritto nei confronti della sua terra natale e di Gerusalemme come sua capitale. La risoluzione non servirà come base per futuri negoziati né fornisce una via per una soluzione pacifica».

l’Unità 3.12.12
Zeev Sternhell. Storico, docente di Scienze politiche a Gerusalemme
«Solo con la fine dell’occupazione si può preservare la nostra democrazia»
«Riconoscere la Palestina è un regalo per Israele»
Il sionismo ha il diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi
di Umberto De Giovannangeli


«Ho sempre ritenuto che la pace con i palestinesi e la nascita di uno Stato di Palestina non siano una concessione fatta al “nemico” né un tributo ad un astratto principio di giustizia. Per quanto mi riguarda, la nascita di uno Stato palestinese è un “regalo” che Israele fa a se stesso, perché solo attraverso la fine dell’occupazione è possibile preservare le fondamenta democratiche dello Stato e la sua identità ebraica». A sostenerlo è il più autorevole storico israeliano: Zeev Sternhell, docente di Scienze politiche all’Università ebraica di Gerusalemme. Tra le sue opere, ricordiamo «Nascita d’Israele. Miti, storia, contraddizioni» edito in Italia da Baldini, Castoldi, Dalai. Assieme ad altre figure di primo piano del mondo della cultura e della scienza israeliani, il professor Sternhell (vincitore nel 2008 del più importante riconoscimento israeliano, l’Israel Prize per le Scienze politiche l’ha vinto nel 2008) è stato promotore di un appello-petizione la cui attualità, ci dice, è accresciuta dal voto di giovedì scorso alle Nazioni Unite. Il nostro colloquio inizia da qui, da quella iniziativa e dai suoi contenuti: «Noi cittadini di Israele facciamo appello al pubblico perché appoggi il riconoscimento di uno Stato democratico di Palestina come condizione per porre fine al conflitto e negoziare i futuri confini fra i due Stati sulla base delle frontiere del 1967. È l’unico modo per risolvere il conflitto attraverso il negoziato, per evitare l’esplodere di un altro ciclo di violenza e porre fine alla pericolosa condizione di isolamento di Israele nel mondo. L’attuazione degli accordi esige che le due leadership israeliana e palestinese riconoscendosi reciprocamente scelgano la via della pace e vi si impegnino pienamente. Questa è l’unica politica che lascia nelle mani di Israele il suo destino e la sua sicurezza. Ogni altra politica contraddice gli ideali del sionismo e il futuro del popolo di Israele... La fine dell’occupazione è condizione fondamentale per la libertà dei due popoli, la piena realizzazione della stessa Dichiarazione di indipendenza di Israele e un futuro di coesistenza pacifica».
Israele s’interroga sul voto all’Onu che ha riconosciuto alla Palestina lo status di Stato non membro. Il governo israeliano ha reagito con durezza.
«Invece di gridare al tradimento, paventando chissà quale congiura internazionale, Netanyahu e Lieberman (il ministro degli Esteri, ndr), farebbero meglio a interrogarsi sulle ragioni che hanno spinto Paesi non certo ostili a Israele, ad esempio l’Italia, a sostenere la richiesta palestinese. Il muro contro muro porta all’isolamento. E questo è un male per Israele».
Netanyahu ha bollato come un provocatorio atto unilaterale quello compiuto dal presidente palestinese Abu Mazen al Palazzo di Vetro.
«Francamente non vedo cosa ci sia di provocatorio nella richiesta di essere riconosciuti dalle nazioni del mondo. Certo, un accordo di pace lo si raggiunge negoziando direttamente, ma Israele dovrebbe avere tutto l’interesse a non delegittimare una controparte moderata, disposta al compromesso. O Netanyahu ritiene che sia meglio per Israele che alla Muqata s’insedi Khaled Meshaal (il leader in esilio di Hamas, ndr)? Davvero si vuol inculcare nella testa dei palestinesi che per costringere Israele a trattare bisogna lanciare missili contro Tel Aviv o Sderot? Mi lasci aggiungere che essere “Stato” consegna ai palestinesi e alla loro leadership non solo diritti ma anche doveri. Il primo dei quali è quello di non costituire una minaccia per i vicini, in questo caso Israele. Essere “Stato” porta con sé anche un esercizio di responsabilità».
Al voto dell’Onu e all’atto «unilaterale» di Abu Mazen, Netanyahu ha risposto dando via libera alla realizzazione di 3mila alloggi in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Un’iniziativa condannata dagli Usa e da molte cancellerie europee, ma salutata come una vittoria dal movimento dei coloni, verso il quale in passato lei ha avuto parole durissime.
«Ho sempre fatto riferimento alle frange più estreme dei coloni. Guai a generalizzare. Le frange estreme non riconoscono nessun potere costituito, nemmeno la loro leadership il Consiglio di Giudea e Samaria visto come un manipolo di traditori che dialoga con “il nemico”, lo Stato ebraico. Queste persone calpestano la legge e fanno uso di violenza
contro i palestinesi come contro i rappresentanti del potere ebraico soldati, poliziotti, funzionari che sono lì solo per proteggerli».
Guardando alle frange estremiste, qual è l’atteggiamento da evitare? «L’indulgenza. L’indulgenza nei loro confronti ha portato ad una situazione degenerativa che non si ferma ai Territori. L’aggressività, la violenza, il concepire chi la pensa diversamente come un “traditore”: al di qua della Linea Verde è stato esportato un metodo di comportamento che quando viene compiuto contro palestinesi nei Territori, viene tollerato, spesso neppure indagato». L’indulgenza. E poi cosa teme?
«La connivenza. Quella che porta ministri dell’attuale governo a flirtare con le ali estreme del movimento dei coloni. Quei ministri o leader di partito che fanno a gara a rassicurare che gli insediamenti non saranno mai smantellati, infischiandosene dei richiami di Obama, dell’Europa, di mezzo mondo». Professor Sternhell, in un saggio che ha fatto molto discutere, lei ha sostenuto che gli insediamenti realizzati dopo la guerra del ’67 oltre la Linea Verde «sono la più grande catastrofe nella storia del sionismo». Perché?
«Perché hanno creato una situazione coloniale. Vede, il sionismo si fonda sui diritti naturali dei popoli all’autodeterminazione e all’autogoverno. Ne consegue che questi diritti sono anche propri dei palestinesi. Perciò il sionismo ha il diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi. Chi vuole precludere ai palestinesi l’esercizio di tali diritti non può rivendicarli per se stesso soltanto».

La Stampa 3.12.12
Palestina
Il leader ritrovato “Pace con Hamas”
“Siamo più forti dell’occupazione”
di Francesca Paci


Non avrà il peso specifico di Morsi, definito da Time Magazine «l’uomo più importante del Medioriente», e neppure del premier di Hamas Haniyeh, emerso dall’operazione israeliana Colonne di Nuvole come l’uomo più importante di Cisgiordania e Gaza, ma ieri il presidente palestinese Abu Mazen si è conquistato un posto d’onore nella rivendicativa storia araba contemporanea tornando vincitore a Ramallah dopo il successo all’Onu.
«Tenete alta la testa perché siete palestinesi e siete più forti dell’occupazione» ha detto Abu Mazen alle migliaia di uomini e donne confluiti alla Muqata sventolando le bandiere nazionali, quelle gialle di Fatah (il partito del presidente) e insegne con la sua immagine avvolta nella tradizionale kefiah, simbolo del rispetto dovuto al leader.
Le parole di Abu Mazen, specialmente quelle relative a Gerusalemme (Est) «capitale eterna» dei palestinesi, echeggiano sinistre in Israele, che continua a chiamare Autorità Palestinese il neo Stato osservatore non membro dell’Onu già definito Palestina sui documenti ufficiali. Secondo il New York Times alcuni dei 138 Paesi sostenitori (ma forse anche dei 41 astenuti) starebbe valutando l’opportunità di elevare al rango di ambasciatori gli inviati palestinesi.
Il bagno di folla di Ramallah, seguito all’incontro col re giordano, tira la volata al presidente palestinese, di solito più amato dalle cancellerie internazionali che dalla propria piazza sedotta con maggiore efficacia dai radicali di Hamas. Abu Mazen sa di dover cogliere l’attimo per parare l’offensiva dei signori di Gaza spalleggiati dall’Egitto e non dimentica di menzionare Arafat, i «martiri», i detenuti nelle carceri israeliane: «Ora abbiamo uno Stato e il messaggio del mondo è chiaro: la Storia è con noi».
Il sostegno globale che gasa i palestinesi fa il paio con l’isolamento avvertito dagli israeliani. Abu Mazen denuncia di aver subito «pesanti pressioni» per non andare all’Onu e Newsweek conferma l’esistenza di un documento (The Palestinian Angle) da cui emergerebbe la guerra psicologica a lui mossa da Israele (comprese accuse di corruzione e leaks circa un suo piano di fuga ad Amman nel caso di sommosse popolari contro Fatah). Forse è stata la consapevolezza di essere in corner a dare coraggio al 77enne presidente, ma ora deve andare avanti. «Il prossimo passo è la pacificazione tra Fatah e Hamas» chiosa, e con la voce si smorza l’ottimismo. Il giorno dopo la festa incalza già.


La Stampa 3.12.12
Dopo l’idea di schedare gli ebrei
Centomila a Budapest contro l’antisemitismo del partito Jobbik
di M. F.


Oltre centomila persone, in rappresentanza sia della maggioranza che dell’opposizione, hanno manifestato ieri a Budapest davanti al parlamento per protestare contro i rigurgiti neonazisti e contro l’istigazione all’odio razzista e antisemita. È la risposta all’ultima provocazione del partito estremista xenofobo Jobbik, che giorni fa aveva chiesto al governo di stilare una lista degli ebrei che pongono «un rischio per la sicurezza nazionale». I manifestanti provenienti avevano bandiere tricolori e scritte «Mai più fascismo», «No all’odio razzista». È la prima volta che oratori della maggioranza conservatrice di governo (Fidesz) e dell’opposizione di sinistra e centrista parlano sullo stesso podio. «È giunto il momento di dire basta», ha detto Antal Rogan, capogruppo parlamentare del Fidesz.

l’Unità 3.12.12
Stranieri in mezzo a noi
Con Luciano Canfora al via «Lezioni di storia»
Ieri all’Auditorium Parco della Musica di Roma inaugurato il ciclo
con Platone respinto da Dionigi Tiranno di Siracusa
di Jolanda Bufalini


ROMA QUAL È L’ORIGINE DELLA PAROLA STRANIERO? LA RADICE EXTRA NON AVEVA IL SIGNIFICATO POSITIVO DI STRAORDINARIO CHE OGGI GLI SI ATTRIBUISCE, vi era un senso piuttosto negativo, come nella parola «rivale» che altri non è che «colui che abita sull’altra riva». Ieri a preso avvio all’Auditorium parco della musica di Roma il settimo ciclo delle Lezioni di storia, dedicato quest’anno a «Lo straniero fra noi». Stesso successo di pubblico delle edizioni passate, i biglietti sono quasi esauriti fino a primavera, anche se si può sperare nel last minute, già ieri si era formata una coda di chi conta sulle defezioni. La proposta delle «Lezioni» si è, intanto, allargata a molte altre città (i programmi nel sito della casa editrice).
Ha inaugurato Luciano Canfora con «Siracusa 388 a.c., Platone respinto da Dionigi Tiranno di Siracusa» e, noi, abbiamo iniziato dalla fine, dalle domande del pubblico. L’etimologia di «rivale» dà la misura, dice Canfora, dei sentimenti di ostilità che suscita chi è considerato straniero. Cita un vecchio filosofo con propensione all’azione che incitò: «Proletari di tutto il mondo unitevi!», purtroppo però, questa è stata sempre una cosa difficile, una utopia. Ma, aggiunge lo storico, non è detto che l’importante sia il risultato, importante è la lotta, nella quale c’è già un risultato. Cita il denigrato imperatore Claudio, c’è una lettera al Senato romano, contrario ad estendere diritti di cittadinanza ai Galli del nord, in cui l’imperatore si esprime a favore dei Galli con l’argomento «il decadimento delle città greche è legato alla loro chiusura», alla incapacità di inclusione. Così a proposito della speranza di costruire una società giusta, «negli ultimi anni – dice lo storico – è di moda deridere chi aspiri alla formazione dell’uomo nuovo. Questo cinismo ha, dalla sua parte, molte lezioni che la storia ci ha dato». È un po’ come nel primo libro della Repubblica dove «si mette in difficoltà Socrate: la giustizia è una illusione, l’utile prevale». Ma, pur con tutto il realismo che la storia insegna, non si può dimenticare che «l’impero romano finì quando qualcuno gli sfilò dolcemente il potere grazie alla forza di parole come “lascia tutto e seguimi”».
Quanto alle disavventure di Platone con il tiranno Dionigi, non so se sia nei programmi del Parco della musica e di Laterza produrre i dvd, noi non ci proviamo nemmeno a riprodurre in mezza cartella il divertimento, il gustoso divagare nella filologia e l’interesse storico-politico suscitato dalla lezione.
Il primo problema da risolvere, spiega Canfora, è perché l’ateniese Platone, rampollo di famiglia nobilissima, discendente di Solone, nipote per parte di madre di Crizia, uno dei trenta tiranni, sceglie di andare in una città nemica: metropoli del mondo greco d’occidente aveva combattuto contro Atene ed era tradizionalmente vicina a Sparta. Il giovane Platone aveva pensato di dedicarsi alla sola attività politica, l’attività più alta nella polis. Ma va incontro a molte delusioni. Con i tiranni, con cui si schiera, ma che lo deludono quando mettono in difficoltà il suo maestro Socrate. Sarà la democrazia a mettere a morte Socrate, altra delusione. C’è il viaggio in Egitto mentre un altro socratico, Senofonte, va in Persia. L’esperienza dell’Egitto lo affascina, è una società ben ordinata e castale, governata dai sacerdoti. Sono tutte queste esperienze che lo portano a concepire l’eunomia, il governo dei sapienti e all’idea di provare a convincere il tiranno di Siracusa. Platone rischia la pelle, verrà persino fatto schiavo, lo salva un conoscente incontrato in Cirenaica, riscattandolo. Il filosofo non demorde e ci proverà ancora con Dionigi II, per scoprire che la frequentazione del potere corrompe. Canfora è troppo elegante per fare riferimenti alla attualità, ma chi ascolta non può non pensare al nostro governo dei tecnici.

La Stampa 3.12.12
Europa-Asia come si inventa il nemico
Per accreditare l’idea di un antagonismo eterno si risale fino a Troia e alle guerre persiane
di Luciano Canfora


I procedimenti mentali intesi a dare alla nozione di Europa un contenuto storico, o addirittura politico, organicamente unitario sono votati al fallimento: questo non impedisce, ovviamente, che abbiano successo come pseudoconcetti della retorica comiziale.
Tentativi del genere si ripetono nel tempo, e prendono le mosse dagli spunti più diversi.
Tra le risorse più utilizzate vi sono, com’è noto, due remotissimi avvenimenti storici, la guerra di Troia (circa 1200 a. C.) e le guerre persiane (490 e 480-478 a. C.). Entrambi proverebbero che Europa e Asia si sono scontrate da sempre, e comunque ab immemorabili tempore, e che dunque oggi - in tempi di crescita esponenziale dell’economia indiana e, ancor più, di quella cinese - è giunto il momento della riscossa europea ancora una volta contro l’Asia: «fare fronte» (come dicevano un tempo gli attivisti dell’ultradestra eversiva) nel nome di Agamennone e di Menelao e, perché no, di Temistocle. Né importa che proprio lui, Temistocle, il vincitore di Serse a Salamina (con buona pace degli «europeisti da comizio») sia poi fuggito in Persia ostracizzato dagli Ateniesi, e ospite di Artaserse fino alla fine dei suoi giorni, in qualità di governatore della satrapia persiana di Magnesia al Meandro per ordine di Artaserse I. La storia, si sa, è complicata, e, se studiata da presso, smentisce la retorica comiziale.
Mette conto osservare, peraltro, che l’operazione di collegare passato e presente per cavarne insegnamenti attuali fu già compiuta in antico, ma non tanto a sostegno della presunta polarità Europa/Asia quanto, semmai, per suffragare il fondamento antico dell’antagonismo Grecia/Asia e portare argomenti alle aspirazioni egemoniche imperiali di chi voleva dominare sui Greci e accampava di chiamarli a raccolta per proseguire la storica, inestinguibile guerra contro l’Asia.
Un tale argomento fu il cemento ideologico dell’impero ateniese nel V secolo e fu ripreso e amplificato - con l’aiuto di devoti propagandisti - da Filippo di Macedonia nel secolo seguente. Ma in un caso come nell’altro si trattava per l’appunto di una copertura propagandistica delle aspirazioni egemoniche sul mondo greco tanto da parte di Atene quanto da parte di Filippo.
Un bell’esempio di come poté svilupparsi questo genere di operazioni ideologiche a base storiografica è dato dalla tardiva nascita della «cornice» dell’opera di Erodoto.
Per quanto la prudenza si imponga quando si cerca di stabilire attraverso indizi la stratigrafia compositiva di un’opera antica (per la quale in genere mancano informazioni esterne che rivelino il cammino compiuto dall’autore), è tuttavia ragionevole pensare che la «cornice» riassuntiva iniziale mirante a proiettare molto indietro nel tempo le radici del conflitto greco-persiano sia nata per l’appunto quando il racconto erodoteo si è concentrato, negli ultimi libri, sulle due invasioni persiane della Grecia. A quel punto si sono verificati, in modo convergente, alcuni fenomeni che hanno contribuito a far nascere quella «cornice» che solo molto tardi Erodoto deve aver collocato al principio della sua opera. E cioè: (a) il dilatarsi oltre misura del racconto di quelle due guerre e soprattutto dell’invasione di Serse, la più pericolosa e la più durevole; (b) il fatto che dunque tale racconto veniva a costituire la metà almeno dell’intera historíae; (c) il fatto che la vittoria sui Persiani venisse da tempo e stabilmente adoperata da Atene per giustificare il proprio impero imposto agli alleati greci; (d) la crescente insofferenza dei Greci verso tale uso imperialistico della vittoria sui Persiani, «nemico storico», nemico «di sempre»; (e) la scelta di Erodoto di far propria quella propaganda nel momento in cui Pericle stava portando Atene verso un micidiale conflitto intergreco; (f) la necessità propagandistica di dare al conflitto da cui la potenza imperiale ateniese era sorta lo sfondo storico mitico di un conflitto eterno, di una minaccia sempre presente da cui Atene aveva salvato i Greci tutti, ivi compresi quelli che ora le si opponevano o le si ribellavano.
Di qui la «cornice» in cui quel conflitto «eterno» viene teorizzato ed esemplificato: una cornice che dà unità a tutta l’opera imponente dello storico di Alicarnasso fattosi ateniese di adozione e pericleo di simpatie politiche.
Grecia e Asia, dunque: non Europa e Asia, stante che l’«Europa» di Erodoto è una Grecia un po’ più vasta, non un continente.
Erodoto è consapevole del carattere ideologico di una tale impostazione. In lui il propagandista generoso della giustificazione periclea dell’impero convive con l’etnografo che sa bene quanto Asia e Grecia e Africa siano realtà compenetrate, non contrapposte, e quanto, semmai, la Grecia debba a quegli altri due mondi, coi quali sin dal principio aveva convissuto mescolandosi.

Repubblica 3.12.12
L’alba genovese degli anni di piombo
Un libro sulla vicenda della banda terroristica XXII Ottobre
di Concetto Vecchio


Genova, 26 marzo 1971. Ilio Galletta, 25 anni, studente- lavoratore appassionato di fotografia, è a casa chino sui libri quando viene interrotto dalle urla della madre: «Lo stanno ammazzando, lo stanno ammazzando». Apre la finestra, guarda giù e vi scorge due giovani a bordo di una Lambretta intenti a dileguarsi: il tizio seduto dietro impugna una pistola con il braccio teso, a terra giace un uomo, esanime. Con la sua Nikon clicca ventitré volte. Il morto è un fattorino dello Iacp, si chiama Alessandro Floris, ha 31 anni, e quello immortalato da Galletta è il primo delitto del terrorismo rosso: una rapina finita
nel sangue. L’alba degli anni di piombo. Una sequenza storica. Vende il rullino al re dei fotografi genovesi Francesco Leoni per 300mila lire. E grazie alle foto la polizia smaschera subito l’uomo della pistola, Mario Rossi, il capo della banda XXII ottobre. I fotogrammi ora sono la copertina del libro-inchiesta di Donatella Alfonso, giornalista di
Repubblica: Animali di periferia, la storia inedita della banda XXII Ottobre.
(Castelvecchi).
Cosa sono stati? Tupamaros di quartiere mischiati a pezzi di malavita, precursori delle Brigate Rosse, oppure semplicemente un gruppo di disgraziati che giocavano a fare i rivoluzionari: anche a distanza di tanto tempo le interpretazioni divergono. Sappiamo quel che fecero però, tra il 1969 e il 1971: il rapimento del rampollo di un industriale, Sergio Gadolla, liberato dopo un riscatto di 200milioni di lire, quattro attentati, qualche rapina, un omicidio. E nonostante ciò intellettuali francesi del calibro di Godard e Sartre solidarizzarono con loro, ed è, né più né meno, quel che accadrà trent’anni dopo con Cesare Battisti.
Genova non è uno sfondo a caso. E’ la città che costrinse alla ritirata i nazisti, medaglia d’oro della Resistenza, quella che si oppose alla celebrazione del congresso del Msi nel 1960. Da ragazzo Mario Rossi cresce con i racconti dei partigiani, se ne lascia suggestionare, è di famiglia povera, il padre, ferroviere, muore che ha 14 anni, trova un lavoro come imbalsamatore di animali, si sposa, fa due figli, ma è scontento, inquieto. Ha quasi trent’anni quando si lascia incantare dalle sinistre sirene
della guerriglia. Lo spinge la delusione verso il Pci che non vuole fare la rivoluzione e lo spettro del colpo di Stato, come in Grecia. Donatella Alfonso lo ha scovato a Novara, ormai incanutito. «Le cose non sono andate come dovevano. Niente è andato come doveva».
Legati ai Gap di Feltrinelli, ma con una loro autonomia, sono ricordati anche per le otto interferenze sui canali Rai, tra l’aprile del 1970 e il febbraio 1971. Fecero ammattire gli inquirenti, quando il tutto avveniva con un’antenna radio e un registratore piazzati dentro una Mini Morris, come ha rivelato all’autrice uno di loro, Beppe Battaglia. La vicenda a un certo punto s’intreccia con quella delle Br, perché nel ‘74 i brigatisti sequestrarono il magistrato Sossi, che era stato il pubblico ministero al processo per l’assassinio Floris, e per la cui liberazione pretesero la scarcerazione di otto membri della XXII ottobre. Il procuratore della Repubblica Coco si oppose e pagò con la vita quel gesto di fermezza.
IL LIBRO
“Animali di periferia” di Donatella Alfonso (Castelvecchi pagg. 192 euro 17,50)

Repubblica 3.12.12
L’educazione di Keynes tra classici e filosofia
“Le mie prime convinzioni”, una sorta di autobiografia dell’economista
di Nadia Fusini


Il buon economista deve possedere “una combinazione di doti rara”: essere insieme “uno storico, un matematico e un filosofo”; capire i simboli e saper usare le parole; nel pensiero toccare l’astratto e il concreto. E soprattutto osservare il particolare alla luce del generale. Questo pensava e di tanto fu capace John Maynard Keynes, un economista assai speciale.
Speciale per qualità ‘naturali’, per virtù inscritte nel suo genio, ben coltivato da un’educazione ai classici e alla matematica. A dieci anni pare conoscesse Euclide e leggesse Ovidio e i prosatori latini. A testimonianza di quanto la solida borghesia vittoriana credesse nell’educazione della propria prole — naturalmente, se maschia — Maynard arrivò giovanissimo a Eton. E subito dopo al King’s College di Cambridge, il più adatto a prendersi cura del versatile allievo.
A Eton si interessò allo studio della propria discendenza e disegnò la silhouette dell’albero geneaologico da cui come un frutto maturo lui pendeva. Risalì a un antenato che verso la fine del Seicento aveva scritto una specie di Ragionato Compendio per convincere tutti, ogni genere di persona a dissentire dalla vera religione. Era un brillante retore, l’avo, e aveva una disposizione alla felicità dell’espressione che Keynes ereditò, diventando oltre che uno storico, un matematico e un filosofo, un elegante scrittore.
Le due brevi memorie che Adelphi ci offre, introdotte da un saggio giustamente ammirato di Giorgio La Malfa, sono due piccole gemme.
Le mie prime convinzioni, che dà il titolo al libro, ritorna agli anni di studio a Cambridge, anni assolutamente formativi per il nostro eroe, fu letto il 9 settembre 1938; il secondo
Melchior: un nemico sconfitto riguarda gli anni del Trattato di Parigi, e fu letto il 2 febbraio 1921. Letti, sì: perché questi due ‘pezzi’ bisogna immaginarseli così — come delle vere e proprie performances oratorie, recitate ad alta voce in mezzo agli amici di Bloomsbury, nel calore di una comunità che celebra una memoria condivisa. Il Club della Memoria, che cominciò a riunirsi nel marzo del 1920 e proseguì, anche se in modo niente affatto regolare fino al 1946, era questo.
Senza avere la pretesa di assurgere a mémoires, questi ricordi, o reminiscenze che, ripeto, decide di condividere coi Bloomsberries (come qualcuno li chiamerà ironicamente, quasi fossero delle fragoline in fiore), sono tanto più speciali perché Keynes non scriverà mai un’autobiografia, anche se praticò il genere biografico con grande gusto. Si vedano i suoi Essays in Biography, dove isolando con straordinaria chiarezza le figure del mondo culturale e scientifico a lui contemporanee, o del recente passato, ricostruì i tratti autentici e profondi della intelligentsia britannica.
La quale tradizione, legata ai nomi di Locke, di Hume, di Bentham, di Darwin e Mill, si distingue per il rigore del pensiero, per l’amore del vero, per la tensione pratica, per una istintiva insofferenza di ogni forma di sentimentalismo, e vacuità metafisica. E per l’idea, sempre presente e spesso citata nel testo, di liberarsi da “ogni forma di edonismo per immergersi nelle esperienze del presente”. Idea, per altro, molto legata allo spirito di abnegazione e all’impegno civile. Tutti tratti, questi, condivisi dai principali esponenti del gruppo di Bloomsbury, che provengono da famiglie di tradizione Non-conformist e Dissenter — come appunto gli Stephen, i Fry. E cioè, la famiglia di Virginia Woolf, di Roger Fry. Di Keynes stesso. Perché i giovani di Bloomsbury, niente affatto esponenti privilegiati di una razza e di una classe borghese cieca e avida, furono intellettuali impegnati non a conservare, ma a cambiare il mondo che avevano trovato. E seppero trasformare l’agnosticismo dei genitori in impegno civile. E fare della vita una prova di conoscenza. Un esercizio di impegno etico e morale volto a chiarire le ragioni stesse del vivere.
Se ispirandosi al medesimo umanesimo e idealismo e soprattutto modernismo degli artisti di Bloomsbury, il giovane economista a Parigi seppe cogliere nel particolare il generale, e cioè leggere negli occhi del banchiere ebreo di Amburgo Carl Melchior la dignità della sconfitta, questo fu per la sua coltivata e moderna flessibilità mentale, che lo rese capace di spostare il punto di vista — come fa Virginia Woolf nei suoi romanzi — e dunque di mettersi nel posto dell’altro, lo sconfitto; e capire la colpa del vincitore, quell’eccesso di hybris, da cui sarebbe deflagrato il nazismo.
Grande lezione di intelligenza che ci viene da chi sa apprendere la verità nella conoscenza dei comportamenti umani e pensa l’economia anche come una scienza morale. Purtroppo oggi facoltà assai desueta.

il Fatto 3.12.12
A Roma la Fiera Piùlibripiùliberi Piccoli, seri e indipendenti

di Salvatore Cannavò

Ci saranno 400 editori, 60mila titoli, 280 appuntamenti in fiera, 140 iniziative in 50 luoghi della città. Autori internazionali, talenti italiani, esplorazioni tra fumetto, musica e arti visive. “Più grande, ricca e indipendente che mai” come recita l’homa page del sito, torna la Fiera Nazionale della piccola e media editoria che si apre il 6 dicembre e si snoderà al Palazzo dei Congressi di Roma fino al 9 dicembre. Il parterre di autori è davvero ricco (tra gli altri Giorgio Agamben, Alfonso Berardinelli, Diego Bianchi "Zoro", Andrea Camilleri, Rossana Campo, Luciano Canfora, Massimo Carlotto, Marcello Fois, Dacia Maraini, Michela Murgia, Sandra Petrignani, Lidia Ravera, Wu Ming 1) con ospiti come Lirio Abbate, Marco Baliani, Marco Bellocchio, Massimo Cacciari, Beppino Englaro, Claudio Fava, Goffredo Fofi, Fabrizio Gifuni, Pietro Grasso, Tano Grasso, Margherita Hack, Maurizio Landini, Valerio Mastandrea, Nanni Moretti, Walter Veltroni, Daniele Vicari.
Tra gli ospiti internazionali, il veterano del giornalismo investigativo Günther Wallraff, il testimone della crisi greca Christos Ikonomou o le nuove voci della narrativa di origine africana Moussa Konaté, José Eduardo Agualusa e Yvan Sagnet.
Tra le novità di quest’anno ci sarà anche, per la prima volta, la presentazione dell’Osservatorio degli editori indipendenti, coordinamento di case editrici piccole e piccolissime che puntano a difendere la propria esistenza in vita nel difficile mercato librario italiano. La Fiera sarà l’occasione di diffusione di un “manifesto di intenti”, un piccolo libro di 32 pagine ma anche per un appuntamento ludico presso il centro sociale Esc, nel quartiere San Lorenzo dove il 7 dicembre si terrà una vera e propria festa.