martedì 4 dicembre 2012

Mons.Fisichella: che c'e' di nuovo in saluto a pugni chiusi?
Lunedi, 3 Dicembre 2012: "Ieri sera, vicino a Bersani c'erano due ragazzi e una ragazza. Bersani aveva le mani libere, ma chi era con lui salutava a pugno chiuso. Mi domando e vi domando: cosa c'e' di nuovo in questo?". Lo ha detto monsignor Fisichella partecipando alla presentazione del libro di Ferdinando Adornato. (da AffarItaliani)

l’Unità 4.12.12
Bersani: «Al governo con me una nuova generazione»
L’obiettivo: «Bisogna tenere unito il Paese, serve concertazione»
di Simone Collini


Il suo sarà «il governo del cambiamento»: per i programmi, i metodi, le persone. Pier Luigi Bersani vuole capitalizzare il successo delle primarie, che lo hanno incoronato candidato presidente del Consiglio del centrosinistra e che hanno fatto schizzare il Pd nei sondaggi oltre quota 34%.
Sull’onda della spinta dei gazebo il leader democratico sta già non solo delineando la strategia per la campagna elettorale, ma anche definendo il profilo che dovrà avere il prossimo esecutivo in caso di vittoria alle elezioni politiche della coalizione costruita attorno a Pd, Sel e Psi. Che comunque dovrà proporre ai moderati un «patto di legislatura». Quando si tratterà di schierare la squadra di governo, Bersani non userà il «manuale Cencelli» e metterà «in campo una nuova generazione».
Semplice nuovismo? No, perché il leader Pd da un lato dice che ci devono essere «presidi di esperienza», dall’altro insiste sul fatto che il dato anagrafico non è tutto. «Bisogna che ci sia gente con la freschezza della gioventù ma anche capace di fare delle cose come dice nel corso di un’intervista a “Porta a porta” gli italiani si aspettano dei risultati, non dei colpi di immagine». Quanto a Matteo Renzi, Bersani dice ai giornalisti che incontra davanti alla sede del Pd che «è una risorsa come siamo tutti in questo grande squadrone».
Ma ora il leader del Pd è già concentrato sul profilo «di cambiamento» da dare al suo governo in caso di vittoria. Bersani lo ha spiegato aprendo la riunione sulla legge elettorale, e poi ne ha discusso più a lungo durante il pranzo con Enrico Letta, Vasco Errani e Maurizio Migliavacca. Ma il leader del Pd ha accennato al discorso anche nelle telefonate ricevute tra la notte della festa e la prima giornata da candidato premier.
A chiamarlo per complimentarsi del risultato ai gazebo sono stati in molti, da Mario Monti (è stato il primo, appena mezz’ora dopo la chiusura dei seggi) a Carlo Azeglio Ciampi (telefonata assai gradita), da Pier Ferdinando Casini ad Angelino Alfano, dal capo di Stato francese François Hollande al presidente del Parlamento europeo Martin Schulz.
BASTA CON L’ITALIA AI MARGINI
Nei colloqui in cui si è andati oltre le formalità, Bersani ha illustrato ai suoi interlocutori le iniziative e le trasferte all’estero già fissate in agenda per la campagna elettorale, e anche il metodo che intende seguire nella definizione dell’azione di governo, dovesse arrivare a Palazzo Chigi.
Il viaggio di oggi in Libia è il primo di un’operazione che nelle intenzioni del leader del Pd dovrà servire a restituire all’Italia, ora che Monti le ha ridato la credibilità perduta negli anni di governo Berlusconi, un ruolo forte nello scacchiere internazionale. Nei prossimi mesi volerà anche in Brasile, Cina e Golfo Persico, che con i tassi di incremento del Pil che registrano e le risorse che hanno a disposizione per gli investimenti all’estero sono strategici dal punto di vista dei rapporti commerciali. E poi Bersani sarà in tour nelle capitali dell’Ue, per rilanciare il rapporto con le altre forze progressiste nella comune battaglia alle politiche liberiste (ci sono anche in agenda due appuntamenti a Roma, per consolidare questo asse, uno a metà mese e uno a inizio febbraio).
Ma c’è anche un altro tipo di cambiamento che Bersani vuole imprimere con il suo governo, oltre a quello riguardante la politica estera e i rapporti con le famiglie politiche europee. E riguarda il metodo per arrivare alla definizione delle misure da adottare. Il leader del Pd è convinto che una pesante responsabilità, per quel che è avvenuto in Italia nell’ultimo ventennio, ce l’abbia la strategia berlusconiana tesa a dividere le parti sociali, e non solo.
«Se tocca a me cercherò di tenere unito il Paese», è il ragionamento che fa Bersani. Che non a caso parlando del patto sulla produttività, siglato da tutti i sindacati tranne la Cgil, dice che «l’accordo ci vuole, bisogna decentrare una parte della contrattazione mantenendo comunque un presidio nazionale perché questo è già un Paese troppo diviso». E che da Palazzo Chigi vuole rilanciare il metodo della concertazione. «Non vuole la concertazione chi non è sicuro delle proprie idee dice in un’intervista a “Porta a Porta” ma a un governo che è certo delle proprie idee, io consiglio il dialogo, e quel tanto di fatica di ascoltare e capire dove sta la ragione di quello che ti sta parlando, perché è difficile che quello che ti parla non abbia ragione in niente».
Altro caposaldo che Bersani vuole rispettare è il «coinvolgimento». Ha già avuto modo di far sapere non solo a sigle del mondo sindacale e imprenditoriale ma anche a personalità del mondo del volontariato e dell’associazionismo che se «toccasse» a lui (ormai è una formula consolidata) non mancherà di ricercare un confronto preventivo con loro. «Voglio un governo espressione della riscossa civica», dice ai giornalisti. «Stavolta senza popolo non si governa, non si governa dall’alto». È questo ciò che sta a cuore a Bersani, che per quel che riguarda il cambiamento dal punto di vista programmatico pensa innanzitutto a una patrimoniale «non generica» ma limitata ai grandi patrimoni per alleggerire l’Imu sulle fasce più deboli e a «una contribuzione diretta» necessaria per «reggere alcuni sistemi di welfare, come la sanità».

il Fatto 4.12.12
Sondaggio TgLa7: il Pd cresce ancora, in calo anche Grillo
+4,3% in sette giorni

Democratici spinti dall’effetto primarie guadagnano anche per il ballottaggio

FANNO BENE ai Democratici le primarie. Il sondaggio Emg diffuso ieri sera dal TgLa7 di Enrico Mentana gli fornisce un +4,3% rispetto la scorsa settimana e arriva al 34,6%. Le rilevazioni mostrano invece in calo gli altri principali partiti: il Movimento 5 Stelle arriverebbe al 16,3% (-1%), il Pdl al 15,2% (-1,2%), la Lega Nord al 6,3% (-0,5%) e Sel al 6% (-0,1%). Continuano a calare anche l’Udc che otterrebbe il 3,8% (-0,2%) e l’Idv che crolla all’1,5% (-0,6%). Stabile invece l’astensione al 32,8%, mentre gli indecisi sarebbero al 10,1% e le schede bianche al 3,4%. Perde il 2% rispetto la scorsa settimana la fiducia in Mario Monti che si attesta al 43%.

Repubblica 4.12.12
Il plebiscito del Tufello
di Alessandra Longo


Che i voti di Sel siano andati in maniera disciplinata e massiccia a Bersani è stato chiaro sin da subito. La matematica non è un’opinione. Però in alcuni casi l’adesione all’appello vendoliano pro-Pierluigi da parte dei militanti di Sel è stata veramente da record. Performance memorabile al Tufello, quartiere popolare non a caso detto un tempo «la Stalingrado di Roma». Al primo turno, quando ancora Vendola era in gara, Bersani si è fermato al 35 per cento mentre il governatore della Puglia era a quota 55 per cento. Al ballottaggio non s’è perso niente, nessuno ha avuto ripensamenti, raffreddori o impegni di famiglia. Risultato: Bersani ha conquistato al Tufello il 93 per cento dei consensi. Tutta Sel più qualche resto di Tabacci e Puppato. E persino qualche renziano pentito. Da manuale.

il Fatto 4.12.12
Le spine di Bersani “Siamo uno squadrone” e Matteo “è una risorsa”
Ma i big premono e il prof è in agguato
di Wanda Marra


Pier Luigi Bersani ieri sera è partito per la Libia. Comincia ad accreditarsi come futuro leader del Paese, ma intanto sicuramente si prende qualche ora di break per capire, a primarie oggettivamente stra-vinte, come gestire il successo dei gazebo e affrontare la partita vera, quella delle elezioni. Tanto per cominciare, come declinare il concetto di “squadrone”, ripetuto e ribadito più volte. Non c’è primaria senza spine e quella appena conclusa per il segretario democratico se ne porta dietro più d’una. Tanto per cominciare c’è Mario Monti, che dopo aver doverosamente telefonato al vincitore per gli auguri (per primo), proprio ieri ha tenuto a far sapere che “sullo spread l’obiettivo è 287”. Come a ricordare che per lui questo è un obiettivo a portata di mano, per altri chissà.
D’ALTRA PARTE, pure Eugenio Scalfari domenica l’ha scritto su Repubblica che l’ideale sarebbe un governo del Pd guidato da Mario Monti. Non è un caso che ieri la prima riunione da vincitore Bersani l’ha fatta sulla legge elettorale: per ribadire che dal modello D’Alimonte che prevede un premio al primo partito, lui non si smuove. Senza una maggioranza certa dalle urne, il Monti bis è assicurato. Ma le possibili versioni del Professore non finiscono mai: “Monti all’Economia e Vendo-la al Lavoro? ”, gli ha chiesto ieri maliziosamente Bruno Vespa a Porta a Porta. “Spiritoso”, ha risposto lui. Eppure il tema si pone. Tornando allo “squadrone”, lo stesso segretario ha citato Renzi. “Sarà una risorsa”, ha detto. Che significa? Stando alla lettera, esattamente questo: una tra le altre. E dunque? Questo come si traduce? I due hanno in programma un pranzo, in data da definirsi, dopo che il segretario sabato mattina ha rifiutato il caffè della pace. Nervoso, arrabbiato per come l’altro ha gestito l’ultima settimana di campagna per le primarie, non ne aveva nessuna voglia. L’arrabbiatura non l’ha smaltita. Per ora non ha nessuna intenzione di andare a chiedere una mano a Renzi (condizione necessaria per il sindaco per collaborare, almeno a quanto lui ha chiarito). Ci vorrà del tempo per capire se e quanto il segretario ha voglia e può considerare lo sfidante battuto un “compagno” di primo piano nella strada che dovrebbe condurlo a Palazzo Chigi. Certo, si rende conto che la sua - anche in termini di voti - e un’energia da non disperdere. E in generale gli è pure servito fino ad ora a guadagnare libertà rispetto ai “vecchi” del partito. Ma certo dalle prima battute da vincitore l’ha trattato più che altro con distacco e sufficienza. Ieri con un certo paternalismo l’ha invitato a “partecipare di più alla vita del partito”. Le percentuali con cui ha vinto facilitano il gioco di chi nel Pd pensa che il sindaco di Firenze a questo punto non possa fare tanto il gradasso. Deve dire cosa vuole. E poi si valuterà. Ora ci sono le elezioni: se Renzi vuole dei posti in lista per i suoi li chieda, il partito vedrà. Qualcosa gli darà. Idem dopo, per il congresso. Che passa di nuovo per le primarie. Lì l’arrocco sarà ancora più forte: e chi lo vuole Renzi segretario? Senza contare che forse si fanno i conti senza l’oste, che Renzi dice e dà l’impressione di voler qualcosa di più di una “correntina”, di un posto da ministro, di entrare nel gioco del manuale Cencelli (che pure il segretario esclude). Non è ancora chiaro cosa.
A RAPPRESENTARSI plasticamente in un ruolo di primo piano ha cominciato da domenica sera Vendola. Che Casini sia d’accordo o no. E con lui i big del partito, improvvisamente riapparsi l’altra sera. Che potrebbero essere un ottimo slogan per Beppe Grillo, l’altro competitor alle urne, dopo esserlo stati per Renzi. Beppe Fioroni e Massimo D’Alema si sono spesi tantissimo in campagna elettorale, facendo iniziative in giro per l’Italia più di molti altri. I voti al segretario glie-l’hanno portati. E adesso? D’Alema ribadisce praticamente a chiunque gli parli che lui è un esperto internazionale di cui non si può fare a meno. Insomma: la Farnesina se l’aspetta. Fioroni si rifugia in un ecumenico “chi vince senza se e senza ma ha la responsabilità di includere tutti”. La Bindi - forte dello Statuto che la vede presidente del partito e dunque neanche costretta a chiedere la deroga - si sente finalmente di nuovo in partita. Da Salerno il sindaco De Luca preme per il rinnovamento “non anagrafico”. Mentre un altro grande vecchio come l’ex banchiere Cesare Geronzi fa il suo endorsement: “Mi auguro Bersani premier”. “Spazio a energie fresche, ma capaci di risultati”, dice Bersani. Un po’ vago. E dunque, ci si può immaginare un bel governo con dentro tutti i soliti big? “Sono come le ciliegie: uno tira l’altro”, ironizza il giovane turco Matteo Orfini.

il Fatto 4.12.12
La versione di Bersani
Faremo uno squadrone-one-one
Attenti a quel gioioso squadrone
di Antonello Caporale


Chiamiamola euforia del giorno dopo, contentezza per un risultato di assoluto rilievo, gratificazione di aver visto premiato un atto di coraggio, una sfida senza rete. Ma un minuto dopo la vittoria delle primarie a Pier Luigi Bersani, e ai suoi innumerevoli e certo esultanti supporter, è parso di essere già a Palazzo Chigi, di aver già fatto tutto, e anzi qualcosina di più. E ieri, colpa anche dei giornalisti che bruciano il tempo con le domande senza dargli modo nemmeno di una birretta al bar del partito o un tiro di sigaro, Bersani si è ritrovato a comporre in una stradina di Roma la prossima lista di ministri. Era andato, o già tornato, dalla Libia, una missione che certo documenta il senso dello scatto in avanti, non più leader di partito, ma rappresentante di una nazione, uomo dell'Italia, tutore del bene comune. Però è finito accerchiato – per sfortuna o libera scelta – dalle telecamere, sospinto indietro dalle richieste, piegato dall'ansia di dire tutto e possibilmente subito. E IL POVERO Bersani, forse indebolito dalla fatica e dall'euforia, lieve come un fuscello, ha risposto e si è come liberato. Ha chiuso un po' gli occhi, tenuto stretto il sigaro tra le dita, e ha pronunziato la sentenza: i prossimi ministri saranno diversi da tutti gli altri, e nuovi, anche giovani, e connessi col sentimento popolare, “senza il nostro popolo non si fa nulla”. I migliori saranno chiamati, e tra questi naturalmente ci sarà posto per Matteo Renzi: “Farà sicuramente parte dello squadrone”. Lo squadrone, finora sistemato nelle retrovie del lessico bersanese, finisce così per essere il grande compagno di viaggio della prossima campagna elettorale. È già tutto fatto, deciso, pattuito. Bisogna solo andare lì, le porte sono aperte e i commessi attendono. Ci scuserà il segretario ma lo squadrone, per assonanza tematica, rinvia a quella straordinaria, gioiosa macchina da guerra, o anche macchinone-one-one, che doveva fare di Achille Occhetto il primo presidente del Consiglio post comunista. S'è visto poi. Non è solo questione di scaramanzia richiamare il passato, ma anche, se è permesso, di offrire alla realtà il giusto tributo della verità, al senso della misura, alla verità delle cose. Ci sono state le primarie. E basta. Sono state un evento, ma restano primarie. Una sfida all'interno dello stesso schieramento per l'ottenimento della candidatura. Non della nomina a premier. Non era passato un minuto dal verdetto e già i primi tweet sono partiti (a proposito: cosa ne sarebbe del pd senza twitter?), le prime vendette pronunciate, i primi verdetti anche e alcune caselle già sono parte sistemate. Cooptazione per i concorrenti, anzitutto. Altrimenti che ti candidi a fare? Detto di Renzi, risorsa dello squadrone, e naturalmente di Nichi Vendola (ha vinto anche lui e prestissimo presenterà il conto), gli osservatori, giornalisti e non, hanno designato un futuro esaltante sia per Laura Puppato, assolutamente ministro, almeno ministro, diamine. E ci mancherebbe che qualcosina non sia pronta per Bruno Tabacci, il centrista dentro ogni gioco che conta da sempre.
PER D’ALEMA cosa? Il ministero degli Esteri, come minimo. A tutti è parso di avere già staccato il biglietto per il paradiso, e tutti hanno sentito le chiavi già in tasca, il culo già su una poltrona, la segretaria già di lato, l'auto blu già in cortile. Bersani è uomo tranquillo che bada al sodo, ma conosce il potere, ne apprezza le virtù e lo frequenta da anni. Serenamente vicino al potere dall'età dei brufoli, sa quando spingere e quando rallentare. È questo il suo momento, e lui fa di tutto per farlo pensare a tutti. Sa cosa vuol dire per il popolo di centrosinistra avere un leader vincente, che appaia tale, e sia sicuro, determinato, prossimo al luogo dove intende andare. Fosse solo questione di training autogeno, potremmo concordare. Ma qui forse un pochino si è esagerato. Dopo le primarie ci sono le elezioni, e prima del voto milioni di altri italiani da convincere e un signore, come Mario Monti, al quale si deve dare lo sfratto e pure giustificarlo. Se si riesce.
SE IL POTERE ha le sue luci abbaglianti e le parole necessarie per raccontarlo e le promesse, anche quelle false, per conquistarlo, la responsabilità esige di contenere la gioia e imprigionarla nel corpo, tenerla stretta tra i denti senza farle mai vedere luce. Dici gatto e ancora non ce l'hai nel sacco? Bersani, maestro di metafore, potrebbe congegnarne una che, al suo livello, illustrasse la necessità di esporre per bene (“ben beni-no” direbbe Pier Luigi) un programma vero di governo. Non la retorica del programma, ma come e in che modo usciremo dai guai, e con quali cambiamenti, quanto profondi. E con quali sacrifici, quanto duri. Ecco, appunto: la ricetta? E in quale misura sarà diversa da quella del professor Monti? E come saranno selezionati i futuri candidati al Parlamento, la nuova classe dirigente, la risorsa dello squadrone? E del Partito democratico cosa ne sarà: conserverà l'aspetto di una fucina di latifondisti, ciascuno col suo territorio, i suoi interessi e la lista dei nomi da promuovere oppure cambierà? Chi vorrà impegnarsi in politica dovrà fare la fila? Dovrà portare la giustificazione?

Corriere 4.12.12
Il piano del leader per un Pd allargato
Pier Luigi Bersani, segretario pd, intenderebbe dare vita a un soggetto unitario
che raccolga Pd, Sel, Psi, parte dell'Idv e personaggi come Tabacci, Riccardi, Olivero
Un partito che coinvolga anche Acli ed esuli Idv. Primarie per i candidati
di Maria Teresa Meli


ROMA — «Non punto a raccogliere sigle e siglette»: no, Pier Luigi Bersani, che già pensa al futuro, non mira a fare il bis dell'Unione. Il suo sogno lo ha confidato ad alcuni parlamentari amici: «Un grande partito plurale, che riesca a fare la sintesi delle diversità». Un «partito unitario», che vada da Tabacci a Vendola, i quali peraltro «hanno già sottoscritto una piattaforma comune», che raccolga anche altre esperienze, come quelle di Andrea Riccardi e del presidente delle Acli Andrea Olivero, e che coinvolga quel pezzo dell'Italia dei valori che si è sganciato da Di Pietro e i socialisti di Nencini, naturalmente.
Il segretario del Partito democratico vuole dimostrare che il Pd da lui guidato non è, come sostengono i suoi detrattori, una forza socialista d'antan, ma qualcosa di «nuovo», aperto alle «sfide della modernità». «Non voglio settarismi. Voglio un partito che includa. E a questo obiettivo dobbiamo lavorare tutti insieme», è stato il suo monito a quei Democrat che non vedevano l'ora di consumare le loro vendette interne. Il riferimento era a Matteo Renzi, ovviamente. Il leader del Pd, che non vuole «cercare la guerra», punta a utilizzare la «capacità» del sindaco di Firenze per «ampliare il consenso» attorno a questo progetto.
Guarda lontano, Bersani e accarezza un progetto ambizioso. Il nome di questo soggetto politico potrebbe essere lo stesso slogan utilizzato per le primarie: «Italia, bene comune». Raccontano che un obiettivo del genere non dispiaccia al presidente della Repubblica. Ed è gradito a chi ritiene che per il Pd presentarsi in un'alleanza elettorale con la sola Sel sia un errore perché fornirebbe un'immagine del centrosinistra non proprio rassicurante, soprattutto all'estero. Certo, i tempi sono strettissimi ed è difficile concludere l'operazione prima delle elezioni. Ma si potrebbe cominciare con il mettere in piedi una lista unitaria. Sarebbe un modo, anche questo, per innescare «un processo politico».
Bersani sa bene che Renzi incarna quell'ansia di rinnovamento che ormai ha contagiato la maggior parte dell'elettorato di centrosinistra. Ed è un politico troppo abile per non essere conscio del fatto che questa tendenza non si esaurirà con la sconfitta del sindaco di Firenze alle primarie di domenica scorsa. Perciò vuole essere pronto a «nuove sfide»: «Non giocherò di rimessa: ora dobbiamo prenderci noi la responsabilità di governare il Paese, dobbiamo prendercela tutti», è il suo convincimento. Bersani pensa che nella prossima legislatura un «grande partito» di questo genere possa collaborare con un soggetto politico di centro che riunisca l'Udc di Casini, «Italia futura» e tutte le altre esperienze che si sono sviluppate nel campo dei moderati.
Ma il primo ostacolo lungo la strada di Bersani è rappresentato da Sel. I vertici del movimento che fa capo a Vendola si sono riuniti ieri. Hanno dato il loro via libera a una lista unitaria al Senato, ma hanno anche fatto sapere che, nel caso (sempre più probabile) in cui resti il Porcellum, alla Camera ritengono di fare diversamente. Il rischio per Sel, infatti, è quello di spaccarsi tra autonomisti e filo-Pd, ed è un lusso che, con il fiato dei grillini sul collo, Nichi Vendola non può permettersi. I suoi avversari interni lo hanno già criticato per un'eccessiva arrendevolezza nei confronti del Pd, tanto che il governatore della Puglia si è dovuto giustificare: «La mia non è una resa, io non sono certo ostaggio di Bersani, ma non posso neanche criticare tutte le mosse del Partito democratico tanto per farlo». La trattativa tra Pd e Sel, comunque, continua.
Un altro tassello importante nella costruzione di Bersani è rappresentato da Renzi. Con il sindaco di Firenze in «squadra» sarebbe più facile attirare altri mondi e convincerli che il Partito democratico non c'entra niente con il «fu Pci». Ma Renzi non è un tipo facile e spiega agli amici: «So che vogliono inglobarmi, però a me non va per niente. Io per ora non mi occupo di politica nazionale, resto a Firenze a occuparmi di fogne, e non vado certo a Roma per un bel po'». Bersani, però, è un tipo tenace e, nonostante gli ostacoli, con molta pazienza e altrettanta determinazione continuerà a inseguire il suo obiettivo. Quello di un grande Partito democratico. I cui candidati già da queste elezioni verranno scelti con le primarie o altri meccanismi di partecipazione simili.

Repubblica 4.12.12
La road map del segretario “Ormai siamo un partito nuovo non si può più tornare indietro”
E l’Osservatore romano promuove Pierluigi
di Goffredo De Marchis


TRIPOLI — Siamo nella fase di studio, serve a liberarsi dalle scorie della competizione. Ieri infatti nessuna telefonata. Ma gli sfidanti delle primarie, vincitore e vinto, sembrano pronti per il pranzo a due e per il riconoscimento di un ruolo politico a Matteo Renzi.
Il sindaco di Firenze non vuole certo farsi imbrigliare nelle dinamiche del partito: segreteria, correnti. «Si può dare una mano e avere un’esposizione nazionale anche rimanendo le istituzioni. Io voglio fare così. Del resto Vendola sono anni che lo fa da governatore della Puglia». Il candidato premier Pier Luigi Bersani sa che bisogna andare con i piedi di piombo nel dialogo con lo sconfitto. Ma alcune sue parole lasciano intendere che in un patto per il cambiamento Renzi sarà protagonista. «Troveremo le forme per collaborare. Ormai siamo un partito nuovo, siamo il partito più aperto del mondo. E non si torna indietro. Chi ha voglia può partecipare in molte forme e più che in passato».
Adesso il pericolo, per entrambi, è dare l’impressione di un inciucio che getterebbe un’ombra sulle primarie. Bersani sgombra subito il campo: «Con Matteo non apriremo tavolini. Non banalizzeremo una cosa seria. Ma io vedo lo spazio per una convergenza di opinione». Porte aperte. L’intesa è da costruire, ma la volontà c’è. Partendo da un assunto, ripetuto anche in queste ore dal segretario del Pd. «Ha vinto il rinnovamento, è stata sconfitta la rottamazione ». Questo è il punto dirimente.
Arriveranno altri segnali di ricambio generazionale, altre responsabilità
per volti giovani e sconosciuti, altre valorizzazioni per una nuova classe dirigente. Il ringraziamento pubblico rivolto dal palco della festa al Capranica al responsabile dell’organizzazione Nico Stumpo, dileggiato su Twitter per la vicenda delle regole, rappresenta un segnale per tutti.
Il festeggiamento continua nelle ore che precedono il viaggio a Tripoli del segretario. «Abbiamo preso un buon brodino», dice confermando che le primarie fanno bene, sono un ricostituente per il Pd. Ma è andata addirittura meglio del previsto. «Quando è arrivato il piatto c’era anche qualche cappelletto dentro». Una portata completa ed emiliana, cioè abbondante e saporita. E una metafora pronta per le parodie di Maurizio Crozza.
Ma la sfida vera comincia adesso. Per un paradosso della politica italiana, in questo momento Bersani ha un solo avversario: Mario Monti, ossia il presidente del Consiglio che il Pd sostiene. Il premier, racconta Bersani prima del volo per la Libia, è stato il primo in assoluto a chiamarlo per complimentarsi. «Sono atterrato alle otto e dieci e ha squillato il cellulare. È stata una telefonata molto affettuosa». Se i bersaniani sono convinti che alla fine il Professore sarà in campo da protagonista e non come riserva della Repubblica, il segretario è sicuro che anche la destra in qualche modo si organizzerà pur non essendo mai stata così debole. Non solo. Beppe Grillo si è inabissato durante le fasi finali delle primarie, ma Bersani è arciconvinto che riemergerà, che sarà aggressivo fin dai prossimi giorni. Per questo il Pd teme gli sviluppi sulla legge elettorale. Una legge difesa da Grillo, ma invisa agli elettori che attribuiscono le colpe delle liste bloccate alle forze politiche in Parlamento. Con qualche buona ragione. «Eppure — dicono a Largo del Nazareno — il Pdl sta preparando una trappola. Chiedere il voto segreto alla Camera e affossare la riforma. Così la colpa ricadrà su tutti i partiti».
Il rinnovamento e una presenza di Renzi in campagna elettorale accanto al candidato premier con le sue posizioni radicali in grado di intercettare i sentimenti dell’antipolitica, sono perciò indispensabili per arginare il fenomeno 5 stelle. Un’affermazione clamorosa dei grillini, del resto, avrebbe un effetto anche sulla candidatura Bersani. Spaventerebbe i partiti e li riporterebbe forse tra la braccia di un tecnico, anche in caso di una vittoria netta del centrosinistra. L’altro fronte è quello della credibilità internazionale. Bersani ha deciso di affrontare il problema dal punto di vista del mondo prima ancora che da quello degli equilibri della Ue. La partenza, all’indomani delle primarie, da Tripoli, dal luogo di cambiamenti profondissimi dove gli Stati uniti faticano a trovare un bandolo, lo dimostra.
Un’altra tappa è prevista a breve in Sudamerica. Un modo per dire che la crisi non va preso solo dal lato del rigore ma ha bisogno di economie nuove o in grandissima crescita. Ma nel frattempo riceve una sorta di Endorsement dall’Osservatore Romano, il quotidiano della Santa Sede: «Il voto delle primarie sembra consentire al vincitore di guidare con sufficiente autorità il suo schieramento e il Partito democratico (Pd) in una campagna elettorale che cade in un momento particolarmente delicato della vita del Paese. La necessità di una buona dose di realismo nella ricetta che i partiti intendono proporre per fare uscire l’Italia dalla crisi, è un tema che deve accomunare tanto
la sinistra quanto la destra».

Repubblica 4.12.12
La vecchia guardia rialza la testa. Bindi: io mi candido. Fioroni: non mollo
Il segretario frena: decide la Direzione, deroghe individuali
di Giovanna Casadio


ROMA — Nell’euforia della festa per il trionfo di Bersani, Rosy Bindi fuori onda dice a un amico: bischero, mi presento per altre quattro candidature. Finisce su twitter. Bindi non demorde e ha già rassicurato i renziani: «Ho resistito a vent’anni di berlusconismo, figuriamoci se non resisto a un anno di Renzi». Chiederà la deroga, non ci pensa a farsi da parte. Sempre nella stessa serata di vittoria, Beppe Fioroni, supporter di Bersani, manda un sms a Renzi: «Matteo, bravo: il tuo discorso di sconfitto dimostra che non sei un ragazzetto, non mollare». Nemmeno Fioroni intende mollare. «E perché? Ho fatto il politico part-time, con il tempo diviso tra i mio mestiere di medico e quello di amministratore - racconta - Sono stato ministro per 18 mesi. Ho 100 giorni di Parlamento in più di altri, che però erano già al governo o all’europarlamento ». Cento giorni in più o in meno non fanno di Fioroni - è il ragionamento di Fioroni medesimo - un elefante politico. O, per usare la definizione renziana, un “rottamando”, parola brutta ma concetto limpido.
A tal punto chiara è l’idea, che Bersani l’ha fatta sua. Lo staff bersaniano fa notare l’attenzione del segretario a dare, anche plasticamente, l’immagine del cambiamento: la foto del trionfo era con Roberto Speranza, Tommaso Giuntella, Alessandra Moretti, cioè largo ai giovani. Mica sul palco c’è salito D’Alema, per dire. Anche se il lìder Massimo stava in platea nella festa all’ex cine Capranica, raggiante e intervistato a lungo. Dichiara poi, che «darà una mano a Bersani per rafforzare la proposta di governo». Un proposito eccellente, di cui però qualche giovane bersaniano si preoccupa: bene se mette a disposizione la sua esperienza e le relazioni internazionali, ma se pensasse di condizionare ancora? D’Alema per la verità ha fatto un passo indietro (così come Veltroni), con il fiuto politico che anche i fratelli/coltelli (i veltroniani) gli riconoscono. Bersani gli è grato per il modo in cui si è speso in Puglia per portare consensi al ballottaggio per le primarie. E ieri il segretario - raccontando la telefonata ricevuta da Carlo Azeglio Ciampi che si complimentava per la vittoria - è tornato sul suo cavallo di battaglia: novità, novità e ancora novità in Parlamento e nel governo del centrosinistra però accompagnata all’esperienza. Tradotto in concreto: non offrirà copertura alla “vecchia guardia”, agli “elefanti”, che farebbero assai volentieri a meno di chiedere le famose deroghe per ricandidarsi in Parlamento. Preferirebbero ci fosse un “pacchetto” di derogati, decisi prima. Niente da fare.
Il Pd si avvia a pochissime deroghe, non garantite da alcun pre-accordo politico. Bersani ieri ha ancora declinato l’invito: «Le deroghe saranno individuali», ha ribadito. Lui se ne lava le mani, devono passare al vaglio della Direzione del partito (dove ci sono anche Renzi, i “giovani turchi” rinnovatori, Gozi, Civati, Concia, Scalfarotto, un fronte assai poco favorevole ai resistenti), e lì ottenere i 2/3 di “sì”. Forse è questa la ragione per cui Franco Marini, conoscitore profondo del risiko del potere, si limita a commentare: «Io non seguo l’esempio di nessuno e resto a disposizione del partito». Che è poi la linea di Anna Finocchiaro, la capogruppo al Senato. Anche lei: «Nessuna richiesta di deroga, sarà il partito a decidere». Gianclaudio Bressa, ex sindaco di Belluno, il parlamentare che ha seguito la partitalegge elettorale, si sfila: «Torno a fare il mio mestiere, se il partito vuole la mia esperienza, ci sono». La partita delle deroghe agli “elefanti” (quelli con più di 15 anni di legislatura) è già aperta. «Se si cambia il Porcellum, e ci sono le preferenze, la questione è risolta », afferma Stefano Bonaccini, il segretario Pd dell’Emilia Romagna. Altrimenti? Con tutti i segretari provinciali chiede primarie per i parlamentari. Una consultazione tra gli iscritti. I derogati potrebbero finire sotto esame due volte, con i tempi che corrono.

Repubblica 4.12.12
Non basta vincere, cambiare è un obbligo
di Ezio Mauro


SEMBRAVA che l’unica parola fosse ormai quella dell’antipolitica. E invece si è visto che quando la parola torna ai cittadini perché i partiti danno loro la possibilità di esprimersi, di prendere parte e di contare, l’antipolitica tace, o addirittura deve inseguire. Dunque uno spazio per la politica e per i partiti esiste, anche in questo Paese dove appariva corroso e consumato: a patto che i partiti si aprano invece di arroccarsi e che la politica, di conseguenza, torni a parlare la lingua popolare della gente.
Non capita spesso, da noi, che metà dello schieramento politico metta completamente in gioco la sua leadership, il profilo di governo, la sua stessa identità affidando la scelta ai cittadinielettori. Questa volta è accaduto, perché erano in campo due ipotesi divaricate per età, programmi, stili, progetti di alleanza e modelli culturali. Renzi aveva con sé la forza della rottura (che ha premiato nelle primarie tutti coloro che sparavano sul quartier generale), l’evidenza dell’età, l’energia del cambiamento. Tutti elementi in lui quasi antropologici, come se dicesse: sinistra e destra sono dell’altro secolo, la mia biografia è il mio programma e la garanzia del cambiamento.
Bersani aveva il peso dell’apparato ma anche il vantaggio dell’esperienza, dell’arte di governo, la capacità di trasmettere un’idea di sinistra aggiornata all’epoca che viviamo e all’Europa, un sentimento politico di sicurezza sociale che non rinnega il merito ma insegue l’uguaglianza.
Come se promettesse: la sinistra c’è ancora, è diversa dalla destra che abbiamo conosciuto e ha qualcosa da dire per governare la crisi.
Vincendo una sfida vera, senza rete di protezione, il segretario diventa leader. Ma sbaglia se pensa di aver sconfitto la voglia di cambiare, confinandola al 40 per cento. Quella domanda deborda, contagia, attende risposte. Se mai – e su questo è Renzi che deve riflettere – le primarie dicono che il tema del cambiamento è più ampio della pura questione generazionale e che il concetto di sinistra non si riduce al solo cambiamento.
Ma guai se Bersani si farà riagguantare dagli “elefanti” del partito, se si farà rinchiudere nel recinto del suo gruppo di vertice, interessato al dividendo della vittoria. Ormai è chiaro che quel partito è forte solo se è contendibile, scalabile, aperto, nuovo davvero. E qui Renzi, apriscatole del sistema, può essere più utile del “renzismo”: con un’alleanza per rinnovare metodi e politica e per battere la destra, visto che l’avversario – finite le primarie – torna a star fuori e non dentro il partito. Oggi la sinistra può vincere anche per le debolezze altrui, restando ferma. Ma per convincere e governare, deve cambiare davvero, partendo da se stessa. Il cammino è cominciato: soprattutto, è obbligatorio.

il Fatto 4.12.12
Renzi: rifugio nell’ombra ma parte la caccia ai posti
L’ex veltroniano Tonini: “Non sviliamo tutto col Cencelli, si tratta di definire l’assetto di battaglia e valiamo il 40%”
di Giampiero Calapà


Due partiti? L’ennesima scissione? Ipotesi sciagurata. È evidente che c’è una voragine programmatica e di contenuti tra l’idea di Pier Luigi Bersani e quella di Matteo. Il sindaco vorrebbe un partito aperto alla ricerca di nuovi consensi nella società italiana, superando i tradizionali confini della sinistra”.
Fa gli scongiuri Giorgio Tonini e si rassicura: “Il vincitore delle primarie saprà trovare una sintesi”. Ma per lui, che è stato uno dei sostenitori della prima ora del partito liquido di Walter Veltroni, adesso tra i pochi parlamentari (sette deputati e quattro senatori) ad aver abbracciato la causa rottamatrice, “la situazione è preoccupante, perché sul concetto di innovazione le parole di Bersani sono troppo timide”. Mentre il segretario parla di “Renzi nello squadrone come gli altri”, i renziani ora batteranno cassa: “Non buttiamola in vacca, è chiaro che darci una rappresentanza numerica nelle candidature, per tradurre il 40 per cento di Matteo in atto pratico è la cosa più facile, ma l’argomento non deve essere svilito in metodi da manuale Cencelli, si tratta di definire l’assetto di battaglia in vista delle politiche, ecco”.
A Firenze il sindaco Matteo Renzi sceglie il basso profilo, almeno per un po’ si arroccherà nel Palazzo Vecchio, per governare una città che ne ha bisogno. Ieri in ufficio fin dal primo mattino, si contraddice con l’annuncio di non partecipare al Consiglio comunale, per la tredicesima volta consecutiva dal 10 ottobre scorso: “Ho già tanti appuntamenti fissati per questo pomeriggio”. Tanto che se a livello nazionale qualcuno dovrà fare la sintesi, a Firenze il gruppo del Pd è già spaccato, con la consigliera Cecilia Pezza che prende la parola per attaccare il suo sindaco: “Spero che possa apparire presto, visto che sono tre mesi che diserta l’aula. La questione sta diventando di una gravità eccezionale”.
EPPURE i sette possibili dissidenti (su 24 democratici) in Consiglio comunale non preoccupano più di tanto le notti del sindaco e dei suoi. Che, comunque, contano di riprendersi la scena nazionale con prepotenza nei prossimi mesi; Simona Bonafè, portavoce della campagna “Adesso”, ritorna anche lei in municipio, quello di Scandicci, dove fa l’assessore, ma continuerà a tenere le redini dei quasi duecento comitati nati in tutta Italia per sostenere il Rottamatore: “È una rete importantissima. Dobbiamo capire come Bersani intenda dar valore a questo patrimonio che è la base del 40 per cento ottenuto a queste primarie. Non sarà mai una corrente o una correntina, ma bisogna tenere presente che questi comitati ci sono. La segreteria nazionale del Pd non potrà certo negarne l’esistenza”.
Quella è la base, quindi, ma il braccio armato di Renzi, chi tratterà con Bersani – al di là del già promesso pranzo dove i due si confronteranno direttamente – sarebbero appunto gli undici parlamentari democratici entrati in orbita renziana (i senatori Stefano Ceccanti, Enrico Morando, Pietro Ichino e Giorgio Tonini e i deputati Andrea Sarubbi, Salvatore Vassallo, Giuseppina Servodio, Alessandro Maran, Paolo Gentiloni, Mario Adinolfi e Roberto Giachetti). Loro sarebbero “l’avanguardia”, secondo l’auto-definizione di Mario Adinolfi, l’ex vicedirettore di Red tv (la televisione dalemiana, ormai chiusa, che nacque in contrapposizione alla veltroniana Youdem): “Non ci aspettiamo premi, è un’esigenza di Bersani considerare questo 40 per cento. Renzi, il nostro leader, ormai è in prima linea. Ma dopo neppure un’ora dalla vittoria del segretario, in televisione sono ricomparse le facce di Massimo D’Alema e Rosy Bindi. Cominciamo male”. Adinolfi sogna già in grande: “Sono a disposizione, sarei un ottimo ministro delle comunicazioni”.
SI TRADURRÀ in questo l’auspicio del sindaco Renzi: “Chi ha vinto ha l’onore e l’onere di rappresentare anche gli altri, senza alcun inciucio e impiccio. Chi ha perso deve dimostrare di saper vivere la dignità e l’onore proprio quando la maggioranza sta da un’altra parte”. Intanto incassa una lettera di Carlo De Benedetti, il patron del Gruppo Espresso: “Avendolo dichiarato lei sa che ho votato Bersani, ma le riconosco il merito di avere, con questa sua candidatura, aperto in modo importante con queste primarie la stagione delle primarie vere e di aver fatto un ottimo lavoro a favore del futuro successo elettorale del Pd. Non mancherò di farlo notare”. Al fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari? Al direttore Ezio Mauro? O allo stesso Bersani, rivendicando il potere e l’influenza della famosa tessera numero uno del Pd, la sua.

Repubblica 4.12.12
L’Italia, la Francia e la scossa della politica
di Marc Lazar


L’Italia, laboratorio politico? Quest’espressione, un po’ abusata, contiene però una parte di verità. La grande partecipazione alle primarie del centrosinistra ha suscitato molti commenti in Italia, ma anche in Europa, come del resto – benché in misura un po’ minore – il disfacimento del Pdl. Questi due fenomeni attestano il rapporto complesso degli italiani con la politica (peraltro non diversamente dagli altri europei) e, più in generale, l’evoluzione dei partiti.
Di fatto, in Italia come altrove si sente spesso deplorare la crisi della politica, di cui si sottolineano le manifestazioni più palesi e misurabili in occasione delle elezioni e dei sondaggi: crescita dell’astensionismo, sfiducia nei partiti, nelle istituzioni e nelle élite dirigenti, disinteresse per la politica o, addirittura, il suo rifiuto, sotto la spinta di movimenti popu-listi e protestatari di destra o di sinistra, regionalisti o nazionalisti; e, infine, il trionfo di tribuni demagogici. Ma questi sono solo alcuni sintomi, non tanto della crisi della politica quanto delle sue recenti mutazioni, che a loro volta presentano altri aspetti: ad esempio, il crescente peso dei media, il personalismo, la presidenzializzazione nella vita pubblica, si declinano diversamente da un Paese all’altro, a seconda dei sistemi politici e dei meccanismi elettorali. D’altro canto, su un registro opposto, si afferma una sempre maggiore domanda di partecipazione alla politica, sia attraverso le forme d’azione classiche, come la firma di petizioni o le manifestazioni di piazza, sia con modalità nuove, come il ricorso alle reti sociali, l’organizzazione di giurie civiche, la prassi del sorteggio tra cittadini, in quanto considerati tutti uguali e competenti a esercitare il mestiere della politica. Dal canto loro, le istituzioni non restano indifferenti a tutti questi mutamenti, che certamente le scuotono, quando non le mettono direttamente in discussione.
È in questo senso che le primarie italiane si rivelano interessanti. Innanzitutto perché esistono ormai da sette anni; ma anche perché hanno assunto forme diverse a seconda del livello organizzativo, nazionale, regionale o locale; e, infine, perché costituiscono di per se stesse il cuore dell’identità del Pd, che di fatto incontra grandissime difficoltà a trovare accordi su altri contenuti. Quali che siano i loro risultati – vittoria del responsabile designato dallo stato maggiore del partito (come nel caso di Piero Fassino a Torino nel 2001 o in quello di Bersani nel 2012) o dell’outsider (Giuliano Pisapia a Milano nel 2010) – queste primarie sono per lo più caratterizzate da una grande mobilitazione degli elettori. Certo, questi ultimi rappresentano solo una frazione della società civile, costituita per lo più da abitanti delle maggiori città, con livelli di istruzione elevati, appartenenti alle categorie medio-alte di popolazione e fortemente politicizzati. Ciò detto, queste primarie soddisfano comunque un bisogno di politica, canalizzato da un partito – nel caso di specie il Pd – o da una coalizione – quella di centrosinistra – che cerca in questo modo di trasformarlo in una risorsa. Al tempo stesso, queste votazioni modificano il ruolo dei partiti, che in precedenza erano preposti alla selezione dei candidati alle elezioni. D’ora in poi questo compito è affidato invece ai simpatizzanti del partito, il quale però conserva il monopolio della scelta di chi avrà diritto a sollecitare i loro suffragi. Al tempo stesso, queste primarie stanno acquistando il carattere di un duello tra leader, come nello scontro tra Bersani e Renzi; e sono di fatto al crocevia tra l’esigenza di partecipazione politica e la personalizzazione della vita pubblica. È dunque in atto un’importante trasformazione della politica, che peraltro ha fortemente ispirato le primarie del Ps francese nel 2011. E questa trasformazione appare in netto contrasto con quanto sta accadendo nello schieramento opposto.
Un Pdl che annuncia le primarie per poi revocarle scommettendo sul ritorno di Silvio Berlusconi si sta facendo a pezzi. La crisi del centrodestra italiano induce irresistibilmente a pensare a quella che sta scuotendo l’Ump (Union pour un Mouvement Populaire) in Francia. Dopo le sue primarie, limitate però agli iscritti, per designare il presidente del partito, l’Ump è sull’orlo di una scissione tra i due pretendenti, François Fillon e Jean-François Copé, ciascuno dei quali rivendica la vittoria e accusa l’altro di brogli. Come non essere tentati dal parallelo? Tra il Pdl e l’Ump vi sono indubbiamente molte differenze, sia politiche che culturali e organizzative; ma questi partiti hanno anche vari punti in comune. Sia il Pdl che l’Ump, fondata da Jacques Chirac nel 2002 e guidata dal 2004 da Nicolas Sarkozy, si erano proposti di unificare la destra e il centro in un unico schieramento. Entrambi hanno fatto spesso riferimento al modello dell’impresa, del management e del marketing, e si sono impegnati in un processo di radicalizzazione ideologica verso la destra. Infine, si sono fondati entrambi sul carisma dei loro capi, i soli suscettibili di agglomerare le diverse sensibilità del partito e di imbrigliare le ambizioni dei concorrenti. Fintanto che i leader vincevano alle elezioni, il partito li ha seguiti. Ma la loro sconfitta provoca il disfacimento della formazione, che dimostra la sua debolezza sul piano istituzionale. Questo tipo di partito politico, personale in Italia e personalizzato nel caso francese, era entrato in sintonia con una parte dell’elettorato; ma oggi è gravemente penalizzato dai problemi di leadership e dalle esitazioni strategiche.
Sarebbe però un grave errore concludere frettolosamente che dopo il Ps francese, il Pd abbia ormai avviato un irresistibile ritorno alla politica nel senso più nobile del termine, e che sia in atto un ribaltamento dell’elettorato, da destra verso sinistra. Evidentemente, tutto dipenderà dal modo in cui il vincitore delle primarie saprà gestire la sua vittoria, e dall’atteggiamento dello sconfitto. Ma anche, e soprattutto, dalle proposte concrete che si sottoporranno agli elettori, disorientati dalla crisi economica, dal deterioramento della situazione sociale e dalle incertezze politiche.

il Fatto 4.12.12
Chiara Geloni
“È già sindaco di Firenze, va bene così”
di Wa. Ma.


Si sveglia ed è un tweet, s’addormenta ed è un tweet. Chiara Geloni è l’amazzone del Pd, l’infaticabile scudiera di Bersani. La biondissima direttrice di Youdem domenica sera aveva gli occhi lucidi. D’altra parte in questi intensissimi mesi s’è scagliata contro i traditori, ha gioito e sofferto col segretario, con-tendendosi la scena con l’altra bionda, Alessandra Moretti.
Siete felici di esservi tolti dalle scatole Matteo?
Ma non ce lo siamo tolto dalle scatole... Lui sta bene, gode di ottima salute. Sarà nel Pd (pausa). Io sono contenta che ci sia anche lui, insieme ad alcuni dei suoi...
Però, un Renzi ridimensionato.
Questo dipende da loro.
Cioè, che dovrebbe fare?
Non lo so. Io Matteo non l'ho ancora decifrato, non so che ha in testa.
Però non le piace.
Non è che non mi piace. Umanamente mi è anche simpatico. Ma non siamo in sintonia. Ecco.
Va bene. Bersani lo chiamerà?
Bersani non ha nessuna volontà settaria.
Diverso è dire questo, diverso è dire che uno che ha preso il 40% del partito dovrebbe avere un ruolo centrale.
Non ha preso il 40%! Erano primarie di coalizione, e non di partito. Mica è stato un congresso: non cambiano gli equilibri interni.
Dunque, Renzi è uno come gli altri.
È il sindaco di Firenze. È uno di rilievo come gli altri sindaci di una grande città (pausa). E un po' di più, visto che ha fatto le primarie.
Lui ha detto che è Bersani che lo deve chiamare se vuole una mano.
Figuriamoci se Bersani non si farà dare una mano, se lui vuole.
Ma insomma, secondo lei, secondo D'Alema, secondo la Bindi deve assumere un ruolo centrale?
Lui fa il sindaco di Firenze, e in questo senso è un protagonista. Nel Pd ci sono tante opportunità, tanti spazi, per dare una mano. Certo, se dice, come ha detto, voglio dedicarmi solo a Firenze, ne prenderemo atto.
Domenica sera a molti di voi è sembrata la fine di un incubo.
Una sfida è una sfida.
E se Renzi decidesse di correre a segretario del partito?
Se ci vuole provare, che ci provi. Secondo me perde. Ma prego, si accomodi.
Lei stessa sembra essersi tolta un peso di dosso.
Io sono una che non si risparmia, che si espone.
Se Renzi avesse vinto, che cosa avrebbe fatto?
Avrei continuato a fare il direttore di Youdem. Ma certo non avrei fatto parte della squadra di governo.
Ah, dunque farà parte della squadra di governo di Bersani? Ha già in mente un ministero, come D'Alema?
Ma no, volevo dire dello staff, di quelli che gli staranno vicini a Palazzo Chigi.
Il suo nome ricorre tra le sicure future parlamentari.
Di questa cosa io non ho mai parlato con nessuno.
A proposito: ora Antonella Madeo, che ha seguito Renzi sul camper dovrebbe tornare a Youdem. Come la accoglie?
Lavoriamo, mica facciamo il congresso del Pd.

il Fatto 4.12.12
Ballottaggio: per Renzi nessun voto in più
I dati quasi definitivi dicono che il sindaco non ha preso altri consensi
Affluenza in calo, meno 300mila


I dati sono ancora quelli ufficiosi: allo spoglio mancano infatti ancora 300 dei circa 9000 seggi messi su per le primarie del centrosinistra. L’unico dato ufficiale è dunque, a 24 ore dalla chiusura delle urne, solo quello dell’affluenza: sono stati 2.816.615 coloro che si sono recati a votare, quasi 300 mila in meno rispetto al primo turno, quando si misero in fila in oltre 3,1 milioni. Certo non devono aver giovato le polemiche sul regolamento dell’ultima settimana e probabilmente neanche il regolamento medesimo che ha tenuto fuori da queste consultazioni anche illustri iscritti allo stesso Pd. Il dato ufficioso ci informa che Pier Luigi Bersani ha vinto con poco più del 60% (sempre a 300 seggi dalla fine si attesta sul 60,6 contro il 39,4 dell’avversario) e lo ha fatto praticamente ovunque: in Italia ha lasciato a Matteo Renzi solo la Toscana e anche nel più leggero collegio estero, dove al primo turno partiva staccato di un’incollatura, è riuscito a mettere la testa avanti con un risultato anche migliore del dato nazionale: 64,4% contro 35,5%.
IL RECORD DI PREFERENZE l’ha ottenuto sempre a sud: in Calabria, prima di tutto, ma anche in Puglia, Sicilia, Basilicata e Campania. In termini assoluti, sempre 300 collegi in meno, Bersani si attesta attorno al milione e 660 mila voti, Renzi supera il milione di 70mila unità. A spoglio terminato il sindaco avrà preso in numero assoluto più o meno gli stessi voti del primo turno. Il dato più rilevante per lui è però quello rilevato dall’ Istituto Cattaneo di Bologna. Dice che la sua candidatura ha permesso di ampliare la partecipazione alle primarie.
Secondo i ricercatori diretti da Piergiorgio Corbetta, Renzi è andato meglio dove la partecipazione è cresciuta rispetto alle primarie per la segreteria del Pd del 2009 (la Toscana, unica regione vinta dal sindaco di Firenze, è prima in questa classifica). Dove invece la partecipazione si è ridotta il suo risultato è stato peggiore.

il Fatto 4.12.12
Ignazio Marino
“Non si può andare alle elezioni senza Matteo”
di Caterina Perniconi


Domenica sera ha abbracciato e festeggiato Pier Luigi Bersani in diretta televisiva. Ma alle primarie precedenti Ignazio Marino ha corso contro di lui, criticandolo esplicitamente su molti temi, a partire da quelli etici.
Scusi Marino, ma da allora cos’è cambiato?
Sono cambiate alcune cose. Io rivendico la mia battaglia del 2009. Nell’agenda di Bersani non c’erano temi centrali come il “no” netto al nucleare, la libertà dei diritti e quella di ricerca, le unioni civili, la cittadinanza ai figli d’immigrati.
Oggi si sente rappresentato?
Diciamo che saremmo più avanti se alcune figure che hanno lasciato il partito non ci fossero proprio state.
La Binetti.
Ho detto a Bersani che questa volta chi non crede nella laicità dello Stato lo dobbiamo lasciare a casa.
Ma è sicuro che invece non rivedremo le stesse facce? D’Alema agli Esteri, la Bindi alla
Salute...
Bersani deve avere la forza di proporre una squadra di governo con energie nuove. Chi ha avuto incarichi nei governi del secolo scorso può essere gratificato con ruoli progettuali, ma senza governare.
Che fa, rottama dall’interno?
Ho avuto un colloquio con Bersani quando stavo ragionando su chi votare. Gli ho detto: “Renzi ha il tappeto volante: si chiama rinnovamento. Se glielo vuoi togliere tocca anche a te farlo”.
Diciamo la verità, Renzi le piace.
Lo stimo e mi sta simpatico. In più va ringraziato: se non avesse scelto di sfidare Bersani con quella forza, attraendo il consenso di chi percepiva l’antichità del Pd, oggi avremmo meno sostenitori. È un patrimonio che non è né superabile né sprecabile.
Quindi cosa deve fare Bersani con Renzi?
Lo deve coinvolgere nella squadra, non si può andare alle elezioni senza Matteo Renzi.
Il sindaco però si è detto indisponibile a un ticket.
Ha acquisito una responsabilità che sarà determinante. Le sue idee devono entrare nel dna del Pd, se qualcuno le dimentica lui gliele deve continuamente ripetere.
Parla come un renziano.
Questa volta non si doveva scegliere semplicemente chi guida un partito, ma il presidente del Consiglio che deve governare la crisi più grave dal 1930, in uno dei Paesi del G8. Non può che essere Bersani. Preparato, motivato, capace.
Come li sceglierà i parlamentari Bersani?
Spero che li scelgano i cittadini con una nuova legge elettorale che prevede collegi uninominali. Così potranno decidere se vogliono essere rappresentati da me o da uno che vuole sparare ai barconi al largo della Sicilia.
Si voterà con il Porcellum.
Allora servono le primarie. Molto aperte e veramente democratiche. È inaccettabile che quattro o cinque persone scelgano i 945 parlamentari che poi decideranno il capo dello Stato e voteranno il governo. Questa non è democrazia, è oligarchia.
Ci sono i tempi?
È un problema. Non sappiamo ancora quando sono le elezioni e se fossero a marzo, precedute di un mese da quelle di Lazio e Lombardia, sarebbe impossibile farle, a meno di non portare la gente alle urne a Natale.
Credo che nel prossimo mese in pochi vorranno sentir parlare di primarie.
Anche perché la gente ha altri problemi. Ci sono 9 milioni di nuove persone che non possono più permettersi le cure. Si chiama povertà.
Come ci si arriva al governo? La Binetti non è più nel Pd, ma potrebbe reincontrarla nell’alleanza con l’Udc.
Bersani non deve assolutamente cristallizzarsi sull’alleanza con l’Udc o con l’Api. Casini non è necessario.
Quindi per dirla con Renzi farete una cosa di sinistra: perderete.
Ma no, la gente non ha più voglia di accordi sottobanco e nemmeno Bersani. Se sarà necessario allearsi, sui temi che dividono decideremo a maggioranza.

l’Unità 4.12.12
Stefano Fassina: «Ha vinto l’idea che il nuovo non può poggiare sul nulla»
«Tutti i dirigenti devono sentirsi responsabilizzati dalla richiesta di ricambio. Non credo ad automatismi ma bisogna muoversi, anche sulle candidature»
di Maria Zegarelli


Stefano Fassina, un merito lo riconoscerà a Renzi: aver portato nel Pd con forza il tema del rinnovamento. Ne farete tesoro? «Certamente va riconosciuto a Matteo di aver espresso in modo chiaro e forte la domanda di rinnovamento della politica molto sentita nel centrosinistra e non solo. Ma non è stato il primo: Bersani sin dall’inizio della sua segreteria ha intercettato questa richiesta».
Non crede che proprio su questo Pier Luigi Bersani dovrà convincere chi ha votato Renzi?
«Bersani ha fatto del rinnovamento “qualificato”, fondato su un asse politico programmatico, su un legame con il territorio, e sull’esperienza, il tratto distintivo della sua segreteria. Basta guardare agli organismi dirigenti nazionali e territoriali per rendersene conto».
Forse però non basta se Renzi ha costruito il proprio consenso anche su questo. «Non c’è dubbio che la forza e la nettezza con cui Renzi ha posto la questione, con un linguaggio che io non condivido ma oltre un milione di persone sì, pone un’accelerazione verso il rinnovamento soprattutto in vista delle candidature per il Parlamento».
E qui viene il bello. Lei non teme le pressioni dei dirigenti che non ci stanno a essere messi da parte?
«Mi sembra che Bersani non abbia difficoltà a riconoscere l’intensità della richiesta di cambiamento arrivata con queste primarie. Il messaggio è stato chiaro per tutti. Ci sono stati leader molto importanti del nostro partito che hanno già fatto una scelta al riguardo, annunciando di non ricandidarsi. Adesso tutti devono sentirsi responsabilizzati rispetto ad una domanda che non vuol dire azzeramento delle storie personali e politiche. Vuol dire dare una mano a quel ricambio di cui c’è bisogno nel Paese».
In sostanza: sta invitando i big a fare un passo indietro?
«No, sto dicendo che c’è bisogno di sensibilità da parte di tutti e soprattutto di una discussione politica. Non credo ad automatismi assoluti, ma nella responsabilizzazione di ognuno e in una valutazione del messaggio che è arrivato non soltanto da parte di chi ha votato Renzi. Bersani ha insistito molto sulla necessità di far girare la ruota e di dare spazio a una nuova generazione: anche su questo ha avuto consenso».
Gentiloni dice che adesso spetta al segretario valorizzare quel 40% che ha votato Renzi. Ed è chiaro che si riferisce anche alla diversa visione politica e programmatica del programma di Renzi.
«Le differenze programmatiche tra le proposte del Pd di Bersani e quelle di Renzi sono significative su punti fondamentali come l’Unione europea, la politica estera, il lavoro, il welfare, l’intervento pubblico, il Governo Monti. Tuttavia, il piano programmatico è stato decisamente secondario nel messaggio di Renzi. La sua caratterizzazione è stata quasi esclusivamente sul rinnovamento della politica e sul ricambio generazionale. È su tale piano che è maturato il suo risultato. Un risultato importante e da raccogliere nell’accelerazione del giro di ruota promesso sin dall’inizio della sua segreteria da Bersani. Tutti nel Pd devono essere consapevoli dei messaggi delle primarie. Non è soltanto una responsabilità del vincitore, ma di tutto il gruppo dirigente accelerare il giro della ruota».
La base renziana spinge per un nuovo partito, né di destra né di sinistra. Teme che alla fine il Pd si spacchi?
«Renzi ha capacità di leadership e sono sicuro che è il primo a voler valorizzare nel Pd e nel centrosinistra il consenso che ha raccolto. Inoltre, sarebbe uno svilimento della grande avventura delle primarie se il risultato fosse la nascita di un ennesimo partito o di un’altra lista. Credo anche che sarebbe una violazione, sul piano morale e politico, del patto alla base delle primarie che si fonda su un principio: i partecipanti si riconoscono nel vincitore e contribuiscono alla vittoria della coalizione per vincere le elezioni». Fassina, tra lei e Renzi, soprattutto sul lavoro, ci sono grandi distanze. Non pensa, però, che il sindaco stia ponendo anche un’altra questione: come affrontare le nuove sfide sociali lasciandosi alle spalle le vecchie ricette?
«Ripeto: mi sembra che il piano programmatico sia rimasto piuttosto secondario nella proposta di Renzi. La cultura politica che ha interpretato del resto sta dentro il Pd sin dalle fondazioni e ha contribuito in questi anni a definire le posizioni del partito. Credo che il successo di Bersani sia stato proprio quello di aver interpretato la sintesi di queste diverse culture al nostro interno. La dimensione del rinnovamento della politica, anche nel modo di affrontare le nuove sfide, mi sembra che sia stato il tratto di Bersani più che di Renzi, proprio per questo continuo lavoro di sintesi che il segretario ha dovuto compiere».
Su cosa si possono fondare i punti di contatto tra i giovani turchi e i renziani?
«Sul profilo programmatico grazie a questo lavoro di sintesi i punti contatto possono essere molti. È questo che ha consentito a Bersani un’affermazione così ampia».

Repubblica 4.12.12
La sconfitta dei comunicatori
di Curzio Maltese


DOPO un ventennio di berlusconismo il risultato delle primarie del Pd sembra dire che la telepolitica in Italia è morta e i social network non l’hanno ancora sostituita. «Ha vinto il candidato che ha comunicato meno», hanno scritto gli esperti, perfino gentili. In realtà ha stravinto quello che ha comunicato peggio, con ogni strumento a disposizione, dai confronti all’americana ai talk show, da Facebook a Twitter.
In teoria, Renzi e Bersani sono due casi da antologia di come si deve e non si deve comunicare. Matteo Renzi è il candidato mediatico perfetto. Bello, giovane, seduttivo e allenato da nugoli di super esperti all’arte di modellare gesti, tempi, linguaggi e temi della campagna elettorale secondo il celebre motto di McLuhan “il mezzo è il messaggio”. Pierluigi Bersani è al contrario la negazione stessa del comunicatore. Quasi sempre a disagio nei dibattiti, tanto da apparire quasi arcigno, incapace di esalare un sorriso neppure il giorno della vittoria, impacciato nell’uso dei nuovi media. E allora, come si spiega il risultato?
Bisogna anzitutto sfatare la leggenda metropolitana del Renzi bravo comunicatore attorniato da esperti infallibili. La verità è che il sindaco di Firenze non solo ha sbagliato la comunicazione delle primarie, ma l’ha sbagliata in modo clamoroso e quasi dilettantesco, nell’ansia di seguire i pessimi consigli degli esperti. Intendiamoci, Giorgio Gori è un grande professionista della televisione, forse il migliore in Italia. Ma la sua professione è altra. Vendere prodotti accattivanti e patinati alla grande e indistinta platea della tv generalista. I tre milioni di votanti delle primarie non sono un’audience generalista, non le assomigliano neppure alla lontana e detestano essere trattati come tale. Costituiscono una comunità con valori forti condivisi, di sinistra assai più che di centrosinistra, fra i quali si conta un acceso antiberlusconismo. Per questo tipo di clienti il prodotto del “rottamatore” che piace anche alla destra si è rivelato del tutto sbagliato e fuori target. Chi conosce il sindaco di Firenze sa quanto sia ingiusta e limitativa l’immagine di uomo di destra dentro la sinistra. Infatti fra chi lo conosce meglio, fiorentini e toscani, Renzi ha sempre raccolto molti consensi anche nell’elettorato più radicale. L’averlo costretto a non dire mai nulla di sinistra, a non pronunciare neppure la parola “destra” e a concentrare tutto sull’unico tema impolitico della rottamazione è stata una scelta catastrofica. La campagna di Renzi è in realtà finita il giorno in cui Walter Veltroni ha annunciato che non si sarebbe candidato. Anzi, il giorno dopo, quando anche Massimo D’Alema ha annunciato il ritiro. Finché gli esponenti della nomenklatura di partito davano un’intervista al giorno di sostegno a Bersani, i consensi di Renzi crescevano in parallelo. Quando D’Alema ha deciso d’immolarsi alla causa come un bonzo, bruciando nel falò sé stesso e l’unico argomento dell’avversario di Bersani, non c’è stata più partita. In quel-l’istante nel film di Matteo Renzi detto l’Americano è comparsa la scritta “The end” e i titoli di coda, con largo anticipo sulla reale conclusione della storia.
È stato lo stesso Renzi a fornire la prova a posteriori di quanto fosse stata sbagliata la campagna. Sconfitto e finalmente liberato dal circolo degli esperti, il sindaco si è congedato con un discorso alto, sincero, coraggioso, molto “di sinistra”. Se avesse aggiustato il tiro un mese prima e non il giorno dopo la sconfitta, magari avrebbe vinto lui.
Ora basta rovesciare tutti gli argomenti in positivo per capire quanto sia stata intelligente e ben calibrata la campagna per le primarie di Pierluigi Bersani. Il segretario è stato perfetto nell’usare l’unica strategia nella quale la sinistra italiana abbia dimostrato di eccellere, il gioco di rimessa. Ha sfruttato al meglio tutti gli errori dell’avversario e un’esperienza di gran lunga superiore nella conoscenza diretta e profonda del popolo di sinistra. Ma il tratto davvero geniale di Bersani, il primo esponente della gerarchia al comando a vincere le primarie, è stato di aver fatto apparire l’avversario, in teoria l’outsider, come il vero favorito, idolo dei salotti mediatici e dei famosi poteri forti, avvantaggiato nei mezzi a disposizione e vezzeggiato dalla stampa anche di destra. Tanto che viene da domandarsi come farà oggi Bersani senza Renzi. Perché è chiaro che il trentasettenne Renzi non ha certo bisogno di un Bersani per conquistare prima o poi la leadership che ha dimostrato di meritare. Mentre per Bersani l’uscita di scena dell’avversario è una tragedia. La scelta migliore che potrebbe fare il vincitore è di tenerselo stretto nelle prossime battaglie, dentro e fuori il partito. Dentro, perché c’è il rischio, già visibile nei commenti del dopo partita, che la vecchia nomenklatura interpreti la vittoria di Bersani come un proprio successo e una sconfitta del cambiamento. Quando sarebbe tanto utile a Bersani e al centrosinistra se D’Alema e compagni si avviassero sul serio a una serena pensione. Ancora di più c’è bisogno di Renzi per la battaglia che Bersani dovrà combattere fuori dal partito. Quella di governare da sinistra un Paese che era e rimane nella sostanza di destra. Con una solida maggioranza di ceto medio, al netto delle chiacchiere demagogiche, da sempre terrorizzata di fronte al cambiamento e ostile alle riforme. Non per vincere le elezioni, ma per convincere e governare un paese come questo, l’esperto trionfatore di oggi ha molto da imparare dal giovane sconfitto.

Corriere 4.12.12
La strana pretesa dei liberisti
Chiedere alla sinistra di fare la destra
di Massimo Mucchetti


L'intellettualità liberista italiana aveva eletto Matteo Renzi a proprio campione. E ora si dice delusa perché il Pd e, più in generale, il centro-sinistra non ne hanno accolto le suggestioni alle primarie. Ma ha senso una simile delusione? Credo di no. Sui diritti politici e sull'architettura istituzionale la convergenza delle diverse culture politiche è possibile e utile. L'ha dimostrato la Costituzione, elaborata dopo la Seconda guerra mondiale. Lo hanno poi confermato le leggi sui diritti civili, sulle quali si sono formati consensi trasversali, basati su scelte di coscienza. È invece sull'economia e sul finanziamento delle politiche sociali che si articola l'opposizione tra le tesi socialdemocratiche e socialcristiane, tipiche del Pd in Italia e dei partiti socialisti in Europa, e le tesi liberiste, tradizionalmente coltivate dalla destra. Perché mai questo duello, che costituisce il sale delle democrazie occidentali, dovrebbe risolversi all'interno di una sola area politica, il centro-sinistra, o meglio di un solo partito, il Pd?
Negli Stati Uniti, il movimento dei Tea Party non pretende di dettare la linea al Partito democratico. Gli basta condizionare e magari conquistare il Partito repubblicano. In Italia, invece, si vorrebbe che il Pd diventasse liberista perché, come titola un fortunato pamphlet di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, il liberismo sarebbe di sinistra. Ma un conto è un tentativo di egemonia culturale come quello fatto dai due economisti di scuola, appunto, liberista, ben altro conto è intestare una politica di destra all'altra ala dello schieramento politico. Le contaminazioni fanno bene al pensiero. Tutti possono imparare qualcosa da tutti. Dal fallimento dell'Unione Sovietica, le sinistre hanno imparato a diffidare delle nazionalizzazioni generalizzate e della pianificazione centralizzata oltre che dal regime a partito unico. Vista la crudeltà del capitalismo manchesteriano, i liberali di fine Ottocento accettarono l'idea, cara al nascente socialismo, di limitare per legge a otto ore la giornata di lavoro. Dalla crisi del 1929, uscirono negli Usa e in Italia le leggi bancarie che tagliarono le unghie alla speculazione fatta con i soldi degli altri e l'intervento statale nell'economia. Ex comunisti, ex socialisti ed ex democristiani possono pur ritrovarsi sotto lo stesso tetto del Pd, visto che, nella politica economica, erano tutti più o meno socialdemocratici. Ma le contaminazioni non possono essere spinte fino alla democrazia che si compie in un partito solo.
Per funzionare bene, la democrazia ha bisogno di chiarezza e di pluralismo. E allora l'intellettualità liberal-liberista dovrebbe chiedersi come mai, nonostante la simpatia dei media e la diffusa voglia di facce nuove, Matteo Renzi non ce l'abbia fatta. Tirare in ballo l'ostilità di apparati che non esistono più (al Pd ne resta uno pari a un decimo di quello degli anni Settanta) equivale a fuggire davanti alle domande difficili così come fuggivano gli ex comunisti nel 1994 quando attribuivano la propria sconfitta alle televisioni di Berlusconi e non ai propri limiti. Le domande difficili sono due: a) come mai, in Italia, la cultura politica liberale non è riuscita a conquistare l'egemonia, in particolare nell'area politica che gli è storicamente affine, e cioè nel centro-destra? b) che cosa potrebbe fare, adesso, per risalire la china?
Una democrazia funzionante ha bisogno di schieramenti politici presentabili. Il centro-sinistra, pur con tanti limiti, lo è. Il centro-destra, purtroppo, si è illuso di esserlo. Più che discutere di Renzi e Bersani, questa intellettualità dovrebbe aiutare la destra politica a capire come mai Silvio Berlusconi e i partiti da lui guidati (Forza Italia, il Pdl) non siano mai diventati quel partito liberale di massa che promettevano di essere. Confessando, magari, perché per tanti anni questa stessa intellettualità ci aveva creduto. C'è tutta una storia patria da revisionare. A partire dall'Unità d'Italia. Ma c'è anche un ripensamento più radicale sui tempi recenti. Un ripensamento a proposito di due scelte. La prima è di tipo economico e consiste nell'aver cercato di estendere senza più confini l'area dell'economia di mercato all'interno dell'economia e l'influenza del capitalismo finanziario all'interno dell'economia di mercato. La seconda scelta è di tipo antropologico e riguarda la centralità assoluta attribuita alla competizione, con relativa, superficiale mitizzazione della cosiddetta meritocrazia, rispetto all'arte della collaborazione e alla gestione politica delle disuguaglianze. Per favorire questo duplice processo si è ridotta l'azione di governo a mero arbitraggio. Con il risultato che i più forti hanno sì sovrastato senza remore i più deboli, ma alla fine hanno rotto il giocattolo dell'economia.
Preso atto del successo di Obama, i repubblicani americani stanno ripensando le proprie scelte. La cultura della destra italiana, presto o tardi, dovrà fare i conti con l'età berlusconiana. E questa è una responsabilità alla quale non poteva sfuggire andando a covare il proprio uovo nel nido del Pd.

Corriere 4.12.12
Le favole da rottamare
di Antonio Polito


«Dobbiamo vincere ma senza raccontare favole, perché poi non si governa». Questa frase, pronunciata da Pier Luigi Bersani subito dopo la vittoria, è forse il risultato più importante delle primarie del centrosinistra. Se il candidato premier ha sentito il bisogno di dirlo nel momento del successo, vuol dire che è consapevole che di favole ne sono state raccontate in questi mesi, e che è giunta l'ora di smetterla.
Nella favola più in voga si narra che l'arrivo della sinistra al governo libererà ingenti somme di denaro pubblico da investire in grandi opere (le «migliaia di cantieri» di cui parla Vendola), o in ritorni alle pensioni di anzianità (il progetto Damiano, poi bloccato dalla Ragioneria dello Stato perché costava 17 miliardi), o in «stimoli alla crescita» e «politiche industriali» (il keynesismo alla Fassina).
Questa favola si basa su due illusioni. La prima è che una sinistra vincente in Italia possa, in alleanza con i socialisti francesi e i socialdemocratici tedeschi, ribaltare il tavolo europeo e mettere fine al rigore. Ma pure in Francia la sinistra vinse promettendo di riscrivere il Trattato europeo che impone la disciplina di bilancio, e una volta al governo si è precipitata a votarlo così com'era. E in Germania i socialdemocratici hanno approvato il Fiscal Compact, e non sembrano disposti a suicidarsi alle elezioni proponendo di spennare i tacchini tedeschi per i debiti dei passerotti italiani.
La seconda illusione è che Mr. Spread non sia più con noi. È vero, ieri è finalmente tornato, anche se per poco, sotto quota 300, la casa dei conti pubblici non brucia più, e questo si deve proprio a quelle politiche di rigore che nelle favole si sogna di rottamare. Però non è immaginabile alcuna crescita se le banche italiane continueranno a pagare interessi doppi di quelle tedesche e a farli pagare tripli alle imprese e alle famiglie. Lo spread ce lo abbiamo ancora sotto la pelle. E non si può nemmeno escludere che, se facciamo le mosse sbagliate, si debba ricorrere all'ombrello della Bce prima o dopo le elezioni.
Di favole ne sentiremo anche altre in campagna elettorale. Tipo quella che dice che possiamo risolvere i nostri problemi uscendo dall'euro (Grillo), o che potremmo risolverli tornando all'autorevolezza e alla credibilità di quando c'era lui (Berlusconi). Il Bersani che ha vinto le primarie ha dunque ora il dovere, oltre che il diritto datogli dal voto popolare, di agire da premier in pectore. Il suo Pd assomiglia oggi di più a un grande partito europeo, sia per le dimensioni elettorali fotografate dai sondaggi, sia per il pluralismo culturale che vi ha portato la sfida delle primarie. Il successo delle idee liberal, eretiche fino all'altro ieri e ora approvate da quattro elettori su dieci, può allargare il campo della sinistra. A patto che non si creda all'ultima favola che si racconta nel Pd: e cioè che le primarie le ha vinte il «profumo di sinistra» di Vendola, che ha preso quasi il 16%, e le ha perse il «profumo di destra» di Renzi, che ha preso il 40%.

il Fatto 4.12.12
Atti dell’inchiesta
Il viceré Vendola, neutrale tra i Riva e i magistrati
di Giorgio Meletti


Lasciamo da parte i presunti reati. L'inchiesta sull’Ilva di Taranto illumina un caso esemplare di rapporti tra impresa, Stato e politica. Un triangolo che neppure il decreto legge della scorsa settimana vuole scalfire. Al vertice c’è la famiglia Riva: il capostipite Emilio (86 anni, agli arresti domiciliari da luglio) e i figli Fabio e Nicola. Con loro consulenti e manager, da ultimo, cioè dal luglio scorso, anche l'ex prefetto Bruno Ferrante. Vogliono produrre acciaio senza subire intralci dalle leggi e da chi le fa rispettare e perciò se la devono vedere con la base del triangolo: a un’estremità ci sono le persone “a modo, moderate, ponderate”; dall'altra parte i “rompicoglioni”. Le intercettazioni del processo per associazione a delinquere forniscono un esauriente lessico per ogni attitudine dell’animo umano, dalla più ampia disponibilità a farsi corrompere fino alla più rigida osservanza della legge.
Proprio al centro del triangolo c’è il governatore della Puglia, Nichi Vendola, uno e bino. A Roma è l’icona della sinistra libertaria ed ecologista, il popolare animatore delle “fabbriche di Nichi”. A Bari è un Bassolino, un temuto vicerè, “il signor presidente Vendola”, ieratico, distante, sempre impegnato “in giro per il mondo”. La sua ossessiva “narrazione” è quella della mediazione. Oggi ha scelto di criticare il decreto legge del governo Monti, che impone di riprendere la produzione di acciaio, come “uno schiaffo al bisogno di salute di Taranto”. Ma dall’inchiesta emerge che il suo imperativo categorico è lo stesso dei ministri tecnici e della famiglia Riva: l’Ilva non deve fermarsi. I posti di lavoro prima di tutto, spiega il presidente a Girolamo Archinà, il grande tessitore dei rapporti istituzionali Ilva arrestato otto giorni fa: “I vostri alleati principali in questo momento, lo voglio dire, sono quelli della Fiom”.
Vendola non sta dalla parte dell’Ilva, ma nella sua equidistanza deve porsi il problema dei rompicoglioni. Il primo è il procuratore della Repubblica, Franco Sebastio. Ha già ottenuto due condanne contro Emilio Riva per l'inquinamento di Taranto, ma quello continua a spandere veleni, e lui non si gira dall’altra parte. Sebastio è un problema politico su cui Vendola costruisce una delle sue narrazioni a beneficio dell’ossequioso Archinà ("Grazie Presidente, grazie...").
Siamo nell'estate del 2010, Archinà si lamenta per un nuovo avviso di garanzia, e per i nuovi dati sul benzo(a) pirene inopinatamente diffusi dall'Arpa, l'agenzia regionale per l'ambiente guidata da Giorgio Assennato, altro grande rompicoglioni. Archinà tenta l’effetto zizzania: “Tutto poggiato su una scivolata del nostro... stimato amico direttore”. Il Presidente glissa, non dà retta alle malignità, ma neppure difende il suo uomo dall’insinuante attacco: “Vabbè... vabbè... va bene, noi dobbiamo fare... ognuno fa la sua parte... e dobbiamo però sapere che... a prescindere da tutti i procedimenti... le cose... le iniziative..., l’Ilva è una realtà produttiva a cui non possiamo rinunciare, e quindi, diciamo, fermo restando tutto, dobbiamo vederci... dobbiamo ridare garanzie, volevo dirglielo perché poteva chiamare Riva e dirgli che il Presidente non si è defilato”. Non si è defilato, ma ci sono gli ambientalisti in agguato e quindi non può tradire l’equidistanza. “Ho paura che metto la faccia mia e si possono accendere ancora di più i fuochi”, dice prudente, catalogando anche gli ambientalisti nella categoria dei rompicoglioni: “Per me che lo ha fatte veramente le battaglie... la difesa della vita e dalla salute... arriva gente senza arte nè parte... e si improvvisano”.
Assennato è un problema per tutti, prima di essere, secondo gli inquirenti, e per dirla con le parole di Fabio Riva, “responsabilizzato”. Il consulente Perli dice a Riva: “Attenzione, che potremmo trovarcene anche uno molto peggio”. Il padrone non si fida: “Per me è inaffidabile”. Perli insiste: "Potremmo vedere come funziona questo nuovo rapporto che abbiamo instaurato".
Era stato Archinà a chiamare Assennato per protestare contro una lettera dell'Arpa contenente dati sgraditi sul benzo(a) pirene, con tanto di ipotesi di blocco delle cokerie. Archinà è scandalizzato: “Non sono osservazioni, sono prescrizioni! ”. Prescrizioni addirittura! Archinà è scandalizzato, e va a protestare con Vendola per le intemperanze di Assennato, che lo viene a sapere e protesta: “Avete approfittato del fatto che vi siete trovati di fronte a delle persone senza palle!!! ”.
Ma non è questione di attributi virili, Vendola semplicemente ha fatto sua l’idea che l’equidistanza è l’essenza del potere politico: sempre al centro tra i rompicoglioni e i “ragionevoli”. E questi, attorno all’Ilva, sono più numerosi. esempio preclaro il sindaco di Taranto Ippazio Stefàno (indagato), che prima di fare un’ordinanza perché l'Il-va si dia una regolata con le emissioni chiama Archinà per consigliarsi. Il direttore dello stabilimento, Luigi Capogrosso, agli arresti dal luglio scorso, spiega a Fabio Riva che Stefàno è “pressato da notizie... dal Procuratore” e anche dagli ambientalisti (“è scocciato, li definisce ignoranti”). Praticamente sa che l’Ilva farà ricorso al Tar contro l'ordinanza (e ovviamente lo vincerà) ma non conta. L’importante è fare scena, e che la produzione non rallenti. Come non ha mai rallentato nei sette anni del viceré Vendola.

Corriere 4.12.12
Il presidente francese
«La Germania non può nulla senza i partner comunitari»
di S. Mon.


LIONE — Tra la conferenza stampa e la foto di famiglia con gli otto ministri dei due governi, Hollande e Monti hanno il tempo per mezz'ora di intervista congiunta con la rete europea Euronews. Attenti al protocollo, ma non troppo. Sta nascendo un asse franco-italiano in sostituzione di quello tradizionale franco-tedesco? «La Germania è un Paese forte ma non può fare nulla senza gli altri Paesi europei, la cancelliera Merkel lo ha capito perfettamente — dice Hollande —. Noi dobbiamo stare attenti a non isolare un Paese come la Germania, ma la Germania da parte sua non può dominare. La soluzione è lavorare assieme, e la Germania deve fare uno sforzo di sostegno dell'economia». Il presidente francese ribadisce che «è necessario rimettere l'economia europea sui binari della crescita. Per quanto riguarda questo obiettivo l'Italia, che è la terza economia del continente, sta fornendo un contributo di forza e serietà». Monti: «Preferisco l'espressione collaborazione franco-tedesca a asse franco-tedesco. Vitale per l'Europa, ma non sufficiente». Parlando della Grecia, il premier italiano Monti non ha rinunciato poi a una piccola frecciata verso Berlino. Inevitabile un condono di almeno parte del debito greco? «Non credo, ma non ci sono tabù, non sarebbe la prima volta, la stessa Germania è stata beneficiaria di una soluzione simile nei primi anni Cinquanta», ha voluto ricordare Monti. Infine, una domanda più personale: in un mondo tormentato dalle tensioni, nel quale si susseguono le grandi crisi internazionali, che cosa in particolare tiene svegli i due leader la notte, domanda l'intervistatrice Sophie Desjardin? Il presidente Hollande risponde di non potere indicare un solo problema, «l'unica risposta possibile è agire». Il premier italiano Monti premette di essere «solo capo del governo, e non capo di Stato»: «Forse anche per questo posso dire che la notte generalmente dormo tranquillo. Ho la coscienza a posto perché sento di avere fatto, durante il giorno, tutto il possibile».

Repubblica 4.12.12
Grossman critica Israele “Il mondo non accetta la Palestina occupata”
“Il mondo accetterà sempre meno l’occupazione della Palestina”
“Reazione prepotente al voto alle Nazioni Unite”
intervista di Fabio Scuto


GERUSALEMME — «Il modo in cui il governo israeliano ha reagito al voto dell’Onu sulla Palestina come Stato osservatore è sbagliato e poco perspicace. Invece di essere il primo paese a riconoscere il nuovo Stato palestinese, Israele ha scelto di reagire in maniera prepotente, tentando di mortificare i palestinesi con un comportamento che di fatto è mortificante per Israele stesso». Dice sempre con libertà le sue scomode verità lo scrittore israeliano David Grossman, una coscienza critica nella quale si riconosce una larga parte degli israeliani: «Dopo il voto all’Onu siamo nella situazione paradossale in cui uno Stato democratico, Israele, occupa un altro Stato democratico, la Palestina. Questa situazione sarà sempre più inaccettabile al resto del mondo».
Piovono critiche, forse mai così dure, dall’Europa e dagli Stati Uniti sulle decisioni del governo Netanyahu.
«Israele ha scelto di punire i palestinesi, ma sostenere che è una reazione ad una loro azione unilaterale è ridicolo. Si è comportato secondo questo principio vergognoso: poiché è stato mortificato all’Onu, Israele ora mortifica i palestinesi. Blocca le tasse che ha riscosso per conto dell’Anp e annuncia la decisione di costruire migliaia di case in un nuovo insediamento. È un passo prepotente, arrogante, che renderà ancora più difficile la situazione per i palestinesi, interrompendo la continuità territoriale della Cisgiordania e rendendo Israele oggetto dell’ira anche di quei Paesi che capiscono la complessità del contesto e vorrebbero davvero arrivare alla pace».
Che pensa della decisione di Abu Mazen di ricorrere all’Onu?
«Sono a favore del passo intrapreso dai palestinesi, prima di tutto perché hanno diritto ad uno Stato: è giunto il momento in cui questo popolo torturato, che ha visto l’occupazione turca, egiziana, inglese, giordana ed israeliana, possa esprimere la propria sovranità e la propria specifica identità. Proclamare il proprio Stato più o meno nei
territori occupati da Israele nel 1967 significa l’accettazione della soluzione “due Stati per due popoli”. Questo mi fa tanto più piacere perché negli ultimi tempi si sono moltiplicate le voci che sostengono che questa soluzione sia sorpassata dagli avvenimenti, mentre ora Abu Mazen conferma tale principio, che dal mio punto di vista è l’unico possibile».
Perché?
«Le alternative sono solo due: la prima è uno stato bi-nazionale, a cui mi oppongo nettamente. Penso che israeliani e palestinesi abbiano diritto, almeno per un certo periodo, a vivere
in un loro focolare nazionale. Hanno bisogno di guarire da cento anni di conflitto e di violenza, di crearsi una loro propria identità, che non sia quella nata in rapporto al conflitto. L’altra soluzione, che sembra stia prospettandosi adesso ed a cui mi oppongo in eguale misura, è quella dell’occupazione militare e dell’apartheid».
Pensa che la crisi di Gaza prima e adesso il “caso Onu” possano incidere sul risultato delle elezioni di gennaio dove il premier Netanyahu era già dato per vincitore?
«E’ diffusa la sensazione che nell’ultimo periodo il governo abbia varcato confini che non erano stati varcati prima, che abbia fatto uso di una forza sproporzionata nei confronti dei palestinesi, ma ritengo che non avrà alcuna influenza sugli elettori di destra, che in ogni modo sono convinti che tutto il mondo ce l’ha con noi e non capisce i nostri problemi e il pericolo in cui ci troviamo. Credo che gli elettori di centro-sinistra, invece, siano stati scossi da tale reazione e questo potrebbe avere un’influenza sul voto».

Repubblica 4.12.12
Israele, la Ue protesta per le colonie
Convocati gli ambasciatori in 5 paesi. Lo Stato ebraico: altre 1600 case a Gerusalemme est
di Andrea Bonanni


BRUXELLES — Le ritorsioni israeliane per il voto filo-palestinese delle Nazioni Unite hanno avuto l’effetto di ricompattare l’Europa nelle critiche alla politica dello Stato ebraico. Ieri nel giro di poche ore Gran Bretagna, Francia, Spagna, Svezia e Danimarca hanno convocato gli ambasciatori di Israele per protestare contro la decisione di autorizzare nuovi insediamenti di coloni nei Territori occupati. Molto critica anche la reazione del governo tedesco. E la Casa Bianca è tornata a chiedere nuovamente a Israele di «riconsiderare questa decisione unilaterale» e «controproducente ».
Il pressing non ha tuttavia convinto il premier israeliano Netanyahu ad arretrare: ieri non solo ha confermato la costruzione di tremila alloggi per i coloni ebraici nei Territori occupati e il congelamento delle tasse dovute all’Autorità palestinese, ma ha anche minacciato di dare il via ad un nuovo maxi-insediamento di ulteriori 1.700 unità nel sobborgo di Ramat Shlomo che di fatto isolerebbe Gerusalemme dal resto della Palestina.
Già domenica l’Alto rappresentante per la politica estera europea, Catherine Ashton, aveva invitato il governo a recedere sulla decisione annunciata. Ieri si sono mosse le capitali nazionali. Londra e Parigi, dopo essersi consultate, hanno convocato gli ambasciatori israeliani mentre già gli ambasciatori inglese e francese in Israele avevano protestato con il governo ebraico. La mossa anglo-francese è significativa perché, in occasione del voto all’Onu, Parigi e Londra si erano divise: la Francia aveva votato a favore del riconoscimento palestinese, mentre la Gran Bretagna si era astenuta come la Germania. Ora invece il Foreign Office usa toni anche più duri di quelli del Quai d’Orsay.
Secondo la stampa israeliana, Francia e Gran Bretagna sarebbero pronte ad arrivare fino al ritiro degli ambasciatori da Tel Aviv. I due governi hanno smentito, ma con accenti leggermente diversi. Mentre un alto diplomatico britannico ha detto a Sky News che «tutte le opzioni restano sul tavolo», il presidente francese Hollande è stato più conciliante. «Non vogliamo entrare in una logica che sarebbe quella delle sanzioni, ma vogliamo impegnarci in un lavoro di convinzione nei confronti di Israele», ha detto ieri al termine del vertice bilaterale con Monti. Sulla vicenda, il francese e l’italiano hanno espresso identità di vedute. Nel comunicato finale congiunto, Francia e Italia «incitano entrambe le parti a evitare qualsiasi iniziativa unilaterale che potrebbe complicare la ripresa dei negoziati». Il ministro degli Esteri Terzi ha detto che l’Italia ha fatto «ulteriori» passi nei confronti di Israele per invitarla a rivedere le decisioni prese.
Anche Spagna, Svezia e Danimarca ieri hanno convocato gli ambasciatori israeliani per condannare l’operato di Netanyahu che, secondo il ministro degli Esteri spagnolo, «ha fatto proprio le due cose che gli avevamo chiesto di evitare». Quanto allo svedese Bildt ha parlato di «vendetta» contro i palestinesi.
Ancora più significativa è la dura condanna venuta dalla Germania, Paese per ragioni storiche tradizionalmente filo-israeliano che si era astenuto nel voto all’Onu. Israele «sta minando la fiducia internazionale e lo spazio geografico per un futuro Stato palestinese, che è la base per una soluzione a due Stati, sta sparendo», ha accusato il portavoce della Cancelliera. La Merkel ha assicurato che solleverà la questione mercoledì con Netanyahu, che arriva a Berlino per ringraziare il governo tedesco dell’astensione all’Onu. Non sarà un colloquio gradevole.

l’Unità 4.12.12
Via ai piani per le colonie. Ma Israele resta solo
Nuovo monito della Casa Bianca: «Iniziativa controproducente»
Diverse capitali europee convocano gli ambasciatori di Gerusalemme e annunciano passi diplomatici
Netanyahu: «Andiamo avanti»
di Umberto De Giovannangeli


È «guerra diplomatica» tra alcune cancellerie europee e Israele. La Francia e la Gran Bretagna hanno convocato ieri rispettivamente l’ambasciatore israeliano a Parigi e quello a Londra per esprimere la loro protesta di fronte all’annunciato piano del governo Netanyahu di costruire 3000 nuovi alloggi per coloni in Cisgiordania e a Gerusalemme est. L’ambasciatore israeliano in Francia, Yossi Gal, è stato convocato ieri mattina al Quai D’Orsay, hanno riferito fonti della stessa ambasciata dello Stato ebraico. Mentre il ministero non ha al momento voluto confermare ufficialmente la cosa, ma ha fatto sapere di essere determinato a «marcare la disapprovazione della Francia» sulla questione degli insediamenti. Da Londra, un portavoce del Foreign Office, ha sottolineato a sua volta che la Gran Bretagna ha avvertito Israele che se il governo Netanyahu andrà avanti con i progetti appena annunciati, e soprattutto con quello relativo alla nuova area di insediamento denominata E 1 (che taglierebbe in due la Cisgiordania), ci sarà «una reazione forte».
ALTA TENSIONE
Il ministro degli Esteri britannico «ha sottolineato con chiarezza che la costruzione di questi nuovi insediamenti mette a repentaglio la soluzione dei due Stati e rende più difficile il raggiungimento di progressi attraverso negoziati». Passano poche ore, e la crisi si estende. Madrid si unisce a Londra e Parigi per manifestare il «profondo malessere» per le decisioni assunte da Israele e, nel tardo pomeriggio, ha convocato l’ambasciatore di Israele in Spagna. «Il ministro degli Esteri, Josè Manuel Garcia-Margallo recita una nota ufficiale ha dato istruzioni al segretario di Stato perché convochi l’ambasciatore di Israele in segno di protesta per la decisione presa dall’esecutivo israeliano dopo il voto all’Onu sulla Palestina di avviare la costruzione di nuovi alloggi nella cosiddetta zona E-1, l’area occupata in territorio palestinese che taglia la Cisgiordania in due e, pertanto, impedirebbe la creazione di uno Stato palestinese». La stessa linea di condotta viene seguita da Danimarca e Svezia.
Quanto all’Italia, il titolare della Farnesina, Giulio Terzi, si è attestato sulla linea ufficiale della Ue, espressa dall’Alto rappresentante della Politica estera, Catherine Ashton, ovvero l’appello a Israele perché fermi l’avanzamento delle colonie.
La reazione di Gerusalemme non si fa attendere. «Israele continuerà a mettere in sicurezza i suoi interessi vitali anche di fronte alla pressione internazionale. La decisione resta in piedi». Così una fonte dell’ufficio del premier Benyamin Netanyahu ha replicato alle proteste internazionali sulla decisione di costruire nuovi alloggi per i coloni in Cisgiordania e Gerusalemme est. «L’unilaterale mossa palestinese all’Onu è una lampante e fondamentale violazione degli accordi di cui la comunità internazionale era garante», spiega la fonte dell’ufficio del Primo Ministro. «Nessuno dovrebbe essere sorpreso che Israele prosegue non resti seduto a braccia conserte in risposta ai passi unilaterali palestinesi». La stessa fonte riporta il Jerusalem Post ha aggiunto che Israele intraprenderà altri passi se i palestinesi da parte loro andranno avanti con altre mosse unilaterali.
«Incomprensibile»: così l’ex capo di gabinetto di Barack Obama, Rahm Emanuel, ha definito il comportamento di Netanyahu, commentando la decisione del suo governo di costruire migliaia di nuovi insediamenti. Stando a
quanto riferito da alcune fonti citate dall’emittente Channel 2, Emanuel, oggi sindaco di Chicago, avrebbe dichiarato che il presidente Usa non accetterà più alcuna mancanza di rispetto da parte del primo ministro israeliano. «È incomprensibile che un primo ministro si comporti come Netanyahu», ha detto Emanuel durante il forum tenuto la scorsa settimana al Saban Center for Middle East Policy di Washington, a cui erano presenti venerdì i ministri degli Esteri e della Difesa israeliani, Avigdor Lieberman e Ehud Barak, al fianco del segretario di Stato Usa, Hillary Clinton. «Netanyahu ha sostenuto il candidato sbagliato alle elezioni americane e ha perso», avrebbe aggiunto Emanuel.
E in serata interviene direttamente la Casa Bianca: la decisione di Israele di andare avanti con gli insediamenti nei Territori palestinesi «è controproducente rispetto all’obiettivo di vivere fianco a fianco in modo pacifico e in sicurezza», ribadisce il portavoce presidenziale, Jay Carney. Un appello che sembra cadere nel vuoto. «Andremo avanti sulla nostra strada», ripetono a Gerusalemme. La sfida continua.

l’Unità 4.12.12
Insediamenti
La zona E1, un cuneo nel cuore della Palestina


Un cuneo nel cuore della Cisgiordania, tale da separare l’antica Samaria biblica dalla Giudea, e da isolare i territori dell’Anp da Gerusalemme compromettendo così la contiguità territoriale di uno Stato palestinese. Sarebbe l’effetto del progetto israeliano che prevede la costruzione di case nella zona E1 (E come est). Zona concepita per unire i quartieri d’insediamento ebraico di Gerusalemme est alla città-colonia di Maale Adumim (35mila abitanti), in Cisgiordania. La zona E1 assomiglia a un corridoio ondulato della superficie di 12 chilometri quadrati tra Gerusalemme e Gerico: parte della terra appartiene a proprietari palestinesi, altra è «demaniale». I progetti sull’area risalgono agli anni 90, sotto il governo laburista di Rabin, ma furono poi accantonati di fronte al rischio della fine di ogni prospettiva negoziale. Riproposti un decennio più tardi dall’ultimo gabinetto Sharon, vennero di nuovo bloccati nel 2005 su pressione dell’allora presidente George W. Bush. Uno stop mal digerito già a quel tempo da Netanyahu.

l’Unità 4.12.12
Una vittoria di Abu Mazen e del buonsenso
risponde Luigi Cancrini

psichiatra e psicoterapeuta

Il riconoscimento della Palestina come Stato non membro dell’Onu è un giusto incoraggiamento alla parte più dialogante, l’Autorità palestinese guidata da Abu Mazen rispetto agli estremisti di Hamas. Per riavviare i colloqui di pace verso la soluzione dei due Stati, occorre rimuovere l’umiliazione e l’isolamento dei palestinesi: sapendo che questa decisione a favore della Palestina è anche un gesto di profonda vicinanza a Israele.
di Massimo Marnetto

Il riconoscimento della Palestina in quanto «osservatore» presso l’assemblea dell’Onu sancisce il superamento di una contraddizione clamorosa. Più volte infatti le risoluzioni dell’Onu avevano proposto la necessità di considerare lo Stato palestinese accanto a quello israeliano (una terra, due Stati) come la strada maestra di un cammino verso la pace in Medio Oriente senza mai accettare, però, che la voce dei palestinesi potesse essere portate in assemblea da un suo rappresentante. Bene ha fatto Monti, dunque, a portare il voto favorevole dell’Italia, insieme a Spagna e Francia, a una decisione approvata, in effetti, da una maggioranza molto ampia (138 sì, 9 no e 41 astenuti) e alla richiesta portata avanti da chi, in Palestina, crede nella forza del dialogo più che in quella delle armi. È importante ribadire oggi, agli israeliani che protestano contro la decisione presa, che l’amicizia si dimostra a volte anche così, dicendo all’amico che non si è d’accordo con lui, che la posizione che lui sta tenendo è sbagliata. Aiutandolo a pensare, in questo caso, che quella espressa dalla grande maggioranza dei Paesi del mondo, i più vicini e i più lontani da Israele e dalla Palestina, è, alla fine, una espressione di semplice buonsenso.

La Stampa 4.12.12
Ambasciatori convocati
L’Europa contro Israele “Basta colonie”
di Alberto Mattioli


Altolà dell’Europa alle nuove colonie di Israele. Parigi, Madrid e Londra convocano gli ambasciatori di Tel Aviv. Hollande esclude però l’ipotesi di sanzioni e parla piuttosto di un’«opera di convincimento». Il governo di Netanyahu tira dritto e annuncia la costruzione di altre 1700 case a Gerusalemme Est. Benché siano state evocate per smentire che siano necessarie, è la prima volta che qualcuno parla di «sanzioni» contro Israele per le sue colonie nei territori occupati. E a un politico finto naïf ma in realtà navigatissimo come François Hollande è difficile che scappi detto qualcosa, specie in un’occasione ufficiale. Eppure, alla conferenza-stampa di chiusura del bilaterale franco-italiano di Lione, alla domanda sui tremila nuovi alloggi annunciati da Israele in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, il Président risponde così: «Non vogliamo entrare in una logica di sanzioni, ma fare un’opera di convincimento». Anche perché le elezioni in Israele sono vicine e bisogna che avvengano «nel contesto migliore».
Che siano ipotizzate delle sanzioni, però, non c’è traccia né nelle parole di Mario Monti né nella dichiarazione finale del vertice. Qui Francia e Italia esprimono «soddisfazione» per il voto all’Assemblea generale dell’Onu che ha riconosciuto lo status di Stato osservatore (benché non membro) alla Palestina, al quale hanno detto sì sia Parigi sia Roma e «profonda preoccupazione», anzi «condanna», per la decisione israeliana di costruire gli insediamenti.
Queste prese di posizione sono arrivate al termine di una giornata di acuta tensione. Al mattino è stato il quotidiano «Haaretz» a far esplodere la bomba, dando per certo che Francia e Regno Unito avrebbero richiamato i loro ambasciatori in Israele per protesta, l’equivalente diplomatico di uno schiaffo al premier Netanyahu. Il Quai d’Orsay e il Foreign Office hanno subito smentito di voler richiamare il loro ambasciatore a Tel Aviv, ma hanno convocato quelli israeliani a Parigi e a Londra. Idem Spagna, Danimarca e Svezia, mentre la Germania, dove domani arriverà Netanyahu, si «appellava» al governo di Tel Aviv per farlo desistere. Intanto protestavano Cina e Russia e perfino la Casa Bianca definiva «controproducente» l’iniziativa israeliana.
Da Tel Aviv ha replicato una fonte governativa: «Israele continuerà a mettere in sicurezza i suoi interessi vitali anche di fronte alla pressione internazionale». Nessuna marcia indietro. Anzi, Israele in serata ha dato via libera alla costruzione di 1700 alloggi a Gerusalemme Est.
Agli europei non resta che protestare, ma con i soliti problemi di coesione. Mai come nel voto di New York la disunione dell’Unione europea è stata altrettanto palese. Però è un fatto che Hollande stia portando i partner su posizioni più ferme verso Israele. Per il voto all’Onu, la Francia è stato il primo grande Paese a annunciare il suo sì. E il suo Presidente il primo a pronunciare la parola «sanzioni».

Corriere 4.12.12
Su Israele la protesta dell'Europa
Nuove colonie: Londra, Parigi e Madrid convocano gli ambasciatori
di Luigi Offeddu


BRUXELLES — L'Europa, come diceva Stalin del Papa, non avrà forse molte divisioni in campo. Ma quando certi suoi governi alzano la voce, quella voce si sente. Se n'è accorto Israele nelle ultime ore: Gran Bretagna, Francia, Svezia, Danimarca e Spagna hanno convocato i suoi ambasciatori nelle varie capitali, per chieder loro spiegazioni sulla decisione di costruire tremila nuovi appartamenti a Gerusalemme Est e nella Cisgiordania occupata, subito dopo la promozione della Palestina a Stato «non membro» dell'Onu. Londra, Parigi, Stoccolma, Copenaghen, Madrid hanno protestato. E ha protestato anche il governo italiano, ieri impegnato in un vertice bilaterale con la Francia. Mentre Israele fa sapere a tutti che non tornerà sui suoi passi.
L'altro ieri si era fatto sentire anche il ministro degli Esteri della Ue, Catherine Ashton. Non è poco, vista la tradizionale prudenza delle istituzioni europee nell'avvicinarsi a certi alveari. E anche se ancora tacciono, in un senso o nell'altro, 21 Stati su 27. Ma se adesso il coro di alcuni è concorde e simultaneo, non è certo per un caso.
«Preoccupazione», «forte preoccupazione», «malessere», sono queste le parole rimbalzate fra i governi, e condivise in pieno anche da quello tedesco, che «fa appello a Israele perché desista dal progetto delle case». Hanno parlato ministri e primi ministri, con accenti critici forse mai usati in passato. Mentre, fuori dalla Ue, «preoccupate» si sono dette anche la Russia e la Cina, e Washington ha chiesto a Israele di «riconsiderare» i suoi piani. Il portavoce della cancelliera Angela Merkel, leader del Paese europeo considerato come il più stretto alleato di Israele, ha detto che questa nazione «danneggia la fiducia nella sua volontà di negoziare nel processo di pace in Medio Oriente». Per Berlino, con le nuove case, «è sempre più piccolo lo spazio lasciato per la creazione dello Stato palestinese». Francia e Gran Bretagna, ha scritto il quotidiano israeliano Haaretz citando fonti diplomatiche di Bruxelles, potrebbero ora spingersi a «passi senza precedenti, non più solo una condanna, ma una reazione diretta contro Israele», in termini diplomatici o commerciali. E davvero Londra, secondo fonti vicine al Foreign Office, starebbe valutando una «risposta forte» in caso di nuovi insediamenti (monito lanciato però anche in passato, senza molte conseguenze reali).
Come sempre, ognuno ha i suoi interessi — la Germania, per esempio, guarda al prossimo incontro fra Angela Merkel e Benjamin Netanyahu — e nella concitazione diplomatica del momento finisce per prevalere la confusione. Per qualche ora, ieri, si è così parlato di un richiamo dei diversi ambasciatori europei da Israele, ipotesi presto smentita. Com'è stata anche smentita la voce di sanzioni contro lo Stato ebraico: «Israele va convinto, ma non con questi mezzi... l'Europa è amica di Israele e della Palestina», ha detto il presidente francese François Hollande in una conferenza congiunta con Mario Monti. I due hanno auspicato un accordo di pace «equo e globale», invitando «entrambe le parti a evitare qualsiasi iniziativa unilaterale che potrebbe complicare la ripresa dei negoziati».

Corriere 4.12.12
Ma Netanyahu tira dritto e rilancia sugli insediamenti
di Francesco Battistini


GERUSALEMME — Questa casa è la mia casa. Per minacciare sfracelli diplomatici, Europa e Usa non avevano bisogno d'aspettare i tremila alloggi negl'insediamenti annunciati venerdì da Bibi Netanyahu. A Gerusalemme Est, i nuovi coloni sono già arrivati dieci giorni fa: due dopo la pace di Gaza, sei prima del voto all'Onu sulla Palestina. Con la polizia al seguito e i vigilantes privati, per pattugliare la strada. Con le bandiere israeliane che ora sventolano sul tetto. I nuovi coloni si sono presi un palazzo di cinque piani a Jabel Mukaber, abitato solo al quinto da una famiglia palestinese, a due passi dal quartier generale dell'Onu.
Adesso è casa loro. Anzi, dell'organizzazione Elad che si batte per «giudaizzare Gerusalemme» e sostiene d'avere comprato regolarmente (cosa possibilissima: molti arabi vendono in segreto e poi ostentano proteste), intestando il tutto a una caraibica società off-shore di Turks & Caicos. «È un'occupazione con frode», dicono i palestinesi. «È una provocazione pericolosa — denuncia l'ong israeliana Peace Now — non a caso avviene adesso», mentre il mondo protesta. E mentre Netanyahu tira dritto, sicuro dell'alleanza con l'ultradestro Avigdor Lieberman e col suo partito Yisrael Beiteinu, che significa la Casa d'Israele: questa casa è la mia casa, appunto.
Biberman, chiamano quei due. Bibi e Lieberman contro tutti. La Francia e l'Olanda, la Danimarca e la Spagna, la Svezia e la Russia. Contro Londra e Berlino, che pure s'erano astenute all'Onu. Contro la Casa Bianca, che ne aveva condiviso l'isolamento diplomatico. Contro il resto di mondo che solo un mese fa taceva, comprensivo, sui morti nella Striscia. Il premier israeliano prepara altri 1.700 alloggi illegali a Gerusalemme Est, zona di Ramat Shlomo, e anche qui non è un caso: li annunciò due anni fa, con un ceffone diplomatico al vicepresidente americano Joe Biden, venuto a celebrare nuovi pre-negoziati e costretto a ripartire furioso, lui così amico d'Israele. Bibi è uno schiacciatutto, va nell'unica capitale europea che ancora l'appoggi senza se, Praga, e avverte: «Sugl'insediamenti non c'è alcun cambiamento, proteggiamo i nostri interessi vitali». Spiega Ruben Rivlin, portavoce della Knesset: «Costruire in questo settore "E1", fra Gerusalemme e Ma'ale Adumim, non è un'invenzione della destra. Lo decise il laburista Rabin, premio Nobel per la pace, perché temeva di lasciare quell'insediamento troppo isolato». Poco importa che Rabin, poi, si fosse ricreduto? «La questione rimase solo sospesa». Poco importa quest'infelice scelta di tempi? «Anche Rabin, dopo il voto all'Onu del 1975 che paragonò il sionismo al razzismo, decise gl'insediamenti nella Valle del Giordano».
Le spiegazioni non convincono l'opposizione: «In un solo mese — dice l'ex ministro laburista Ben Eliezer — Bibi è riuscito a costituire l'Hamastan a Gaza e uno Stato palestinese all'Onu. Isolandoci con una condotta irresponsabile». «La crociata contro Abu Mazen dopo la guerra di Gaza — osserva Amos Gilboa, editorialista di Maariv — è un errore di stupidità. È come se una squadra di calcio si credesse forte quanto il Real Madrid, il Barcellona e il Manchester United: sarebbe, ovvio, destinata alla sconfitta». Fortissimo nei sondaggi, il premier si prepara a un voto di gennaio senza sfidanti. Qualcosa però potrebbe cambiare, nella volatile politica israeliana. «Dobbiamo rimpiazzare questo governo», pensa l'ex premier Ehud Olmert, che pure s'è chiamato fuori: «Bibi ci ha messo il mondo contro», e forse in questa casa ci vuole un po' d'aria fresca.

il Fatto 4.12.12
Il ricatto delle tasse. Israele strozza la Palestina
Guerra diplomatica tra Gerusalemme e i principali paesi europei sui nuovi insediamenti nei territori occupati
di Roberta Zunini


Israele danneggia la fiducia nella sua volontà di negoziare nel processo di pace in Medio Oriente”. Persino la Germania ha protestato contro l'annunciata ritorsione del governo israeliano nei confronti dei palestinesi per la loro vittoria diplomatica all'Onu. Il più solido alleato di Israele in Europa che si era astenuto durante le votazioni dell'assemblea generale Onu, non ha potuto non condannare la vendetta israeliana.
RICOLLEGANDOSI così al resto dell'Unione. Che, per la prima volta, ha assunto una linea comune contro la ripresa del progetto israeliano di costruire 3 mila nuovi alloggi nella zona dei Territori Occupati che collega Gerusalemme Est alla Cisgiordania, la cosiddetta E1, e di confiscare le tasse riscosse per conto dell'Autorità Nazionale Palestinese. Nonostante Francia, Inghilterra e Spagna non ritireranno i loro ambasciatori in Israele, come aveva ventilato il quotidiano di Tel Aviv, Haaretz, hanno comunque convocato i diplomatici israeliani per protestare formalmente.
Il premier Netanyahu ha però ribadito che le ritorsioni andranno avanti perché è nell'interesse di Israele e anzi fonti governative parlano di un ulteriore insediamento di 1.600 alloggi nel sobborgo di Ramat Shlomo. Ma non è detto che il mezzo milione di coloni sparsi tra Gerusalemme Est e la Cisgiordania saranno più al sicuro. Perché i palestinesi questa volta potrebbero reagire all'annunciata confisca delle loro tasse. Da mesi la gente è inquieta per il carovita e molti dipendenti pubblici dell'Anp negli ultimi mesi hanno subito ritardi nel pagamento degli stipendi.
Secondo il Protocollo di Parigi del 1994 che regola le relazioni economiche tra i due “vicini”, Israele, che ha il totale controllo su tutte le frontiere dei Territori Occupati, riscuote le tasse pagate dai lavoratori palestinesi in Israele e nei Territori Occupati, l'Iva pagata dai commercianti, le tasse doganali, e i contributi pensionistici per poi girare tutto nelle casse dell'Anp, trattenendo il 3% per il servizio.
ACAUSAdella grave crisi finanziaria iniziata nel 2011, nel settembre scorso l'Anp aveva chiesto che venissero rivisti questi accordi che danno a Israele il potere di manovrare l'economia palestinese. Israele però ha rifiutato. Scambi commerciali: i Territori Occupati importano il 90% dei prodotti da Israele.
L’Anp sta facendo il possibile per comprimere la spesa pubblica e incrementare le entrate fiscali ma per migliorare il quadro economico palestinese è essenziale che anche il governo di Israele concorra a tale sforzo trasferendo puntualmente – come previsto dal Protocollo di Parigi del 1994 – le entrate doganali dovute all'Anp. Che costituiscono circa due terzi delle entrate complessive del bilancio del governo di Fayyad e sono pari a circa il 15% del Pil che ammonta a quasi 6 miliardi di dollari. E l’anno scorso, gli aiuti finanziari internazionali sono stati pari a circa 1,5 miliardi di dollari.

il Fatto 4. 12.12
Il regno britannico
Leviatano, il gas eterno di Tel Aviv
Il mega-giacimento nel Mediterraneo affidato agli amici australiani
di Stefano Vergine


Perth (Australia) A quattro giorni dall'ingresso della Palestina all'Onu, Israele ha deciso a chi affidare le chiavi del Leviatano, la più grande scoperta di gas al mondo degli ultimi 10 anni. Un tesoro grazie al quale lo Stato ebraico dovrebbe liberarsi dalle forniture egiziane e trasformarsi in esportatore di gas. In corsa per lo sviluppo del giacimento c'erano alcune delle maggiori compagnie internazionali, attirate dalla possibilità di mettere le mani sui 450 miliardi di metri cubi di oro azzurro nascosti sotto le acque del Mediterraneo orientale. La russa Gazprom, la francese Edison e l'italiana Eni si erano dette interessate a sviluppare il Leviatano e costruire un impianto di liquefazione del gas, strategia scelta da Israele per esportare la materia prima evitando la costruzione di gasdotti. Ad aggiudicarsi la torta è stata però l'australiana Woodside, che con un'offerta complessiva di 1,2 miliardi di dollari si è garantita il 30% del giacimento. “Abbiamo un'esperienza comprovata in Australia: essere scelti per sviluppare il Leviatano dimostra le nostre capacità”, ha dichiarato l'ad di Woodside, Peter Coleman. Seppur poco nota sulla scena internazionale rispetto ai concorrenti, Woodside è il secondo produttore di gas in Australia, con all'attivo già diversi impianti di liquefazione.
Ma in una partita così delicata dal punto di vista geopolitico, un ruolo importante deve averlo giocato il rapporto d'amicizia tra Canberra e Tel Aviv. L'ultimo atto di fedeltà è arrivato giovedì scorso, quando il governo laburista di Julia Gillard ha preferito astenersi sull'entrata della Palestina all'Onu. Vista attraverso le lenti dell'energia, la risposta di Israele è stata chiara. Francia, Italia e Russia (tutte e 3 a favore della Palestina) si sono viste sbattere la porta in faccia, mentre l'Australia si è ritagliata un ruolo primario nel futuro energetico europeo.

il Fatto 4. 12.12
La retorica di Ramallah e il diamante sbiadito
di Fulvio Abbate


Molti anni fa, colui che scrive aveva in cameretta il manifesto di Leila Khaled, una ragazza “fedayin” palestinese. Leila faceva parte del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, un gruppo che tutti noi, ragazzi allora “comunisti”, sentivamo vicino; Leila, dimenticavo di dirlo, era molto bella, custode di una sensuale grazia tutta araba, grandi occhi scuri sotto la kefiah e il kalashnikov, Leila era una sorta di Che Guevara al femminile, una guerrigliera ancora in campo, “armi in pugno”. I palestinesi e la loro lotta andavano molti forti allora, sarà stato, credo, il 1970.
L’altra sera RaiNews24 ha ampiamente restituito le immagini dei festeggiamenti a Ramallah per lo storico voto all’Onu che riconosce la Palestina come Stato, sia pure osservatore, al Palazzo di Vetro. Al centro del focus c’era Abu Mazen, il presidente dell’Anp. Poco importa che l’uomo, in verità, si chiami Mahmud Abbas, per quasi tutti, mediaticamente parlando, resterà sempre immobile nel suo nome di battaglia. Nelle sequenze che appunto RaiNew24 ha lungamente riproposto senza commento sonoro se non rumori ambientali, c’è l’atterraggio a Ramallah, c’è la siepe di folla che sventola le bandiere – la nazionale, la verde coranica e quelle altre dei gruppi che fanno riferimento all’Olp, perfino qualche accenno di rosso – c’è ancora chi lo saluta come un eroe, c’è un grande aquilone di palloncini colorati che restituisce allo sguardo ancora una volta la bandiera palestinese.
POI, FINALMENTE, il presidente dell’Anp raggiunge il podio dove ha alle spalle la scritta in arabo e in inglese ‘Stato di Palestina’, e grida alla sua gente: “Adesso abbiamo uno Stato. La Palestina è diventata uno Stato sotto occupazione e un giorno un giovane palestinese sventolerà la bandiera palestinese su Gerusalemme, capitale eterna del popolo palestinese”. Qui però siamo già nel cuore della retorica, della propaganda, nel momento cerimoniale di un evento che tuttavia mantiene comunque avere portata storica. Domanda: quali possibili riflessioni le immagini filmate di Ramallah suggeriscono? Se è vero che c’è stato un tempo, come accennavo insieme al racconto del manifesto (oggi diremmo poster) di Leila Kalhed, in cui la questione palestinese sembrava, così almeno alle persone “di sinistra”, un diamante politico raro e incorrotto, è altrettanto vero che la storia successiva ha portato via l’incanto. Osservare oggi come oggi le immagini dei festeggiamenti a Ramallah non può non lasciarsi dietro una scia di dubbi amari, sia circa la corruzione della classe dirigente dell’Anp, sia rispetto al nodo della laicità e della democrazia nel mondo arabo. Potrà sembrare fuorviante, ma in dissolvenza incrociata sembrava di rivedere anche il volto di Arafat, l’ultimo Arafat, lo stesso cui sarebbe stato giusto domandare chiarezza e trasparenza sui fondi e dunque la gestione delle riserve finanziarie del Anp. Il diamante palestinese neppure nei giorni di festa più brilla come un tempo. Leila Kalhed è oggi una signora quasi settantenne.

Corriere 4.12.12
Stalin sugli altari della grande madre Russia
risponde Sergio Romano


Ho letto che Sergej Malinkovich, il presidente della sezione interregionale dei comunisti di Pietroburgo e della regione di Leningrado, uno dei membri più influenti del partito, ha chiesto che la Chiesa russa ortodossa canonizzi Stalin. Sappiamo che per gli ortodossi, a differenza dei cattolici, non è necessario avere fatto dei miracoli, ma sulle prime si avrebbe l'impressione di una frase scherzosa. Invece a Stalin, che da ragazzo aveva studiato in seminario, viene da Malinkovich ascritto il merito di aver riunito le terre russe, aver sconfitto i nemici della patria, aver creato una società giusta, essere stato l'eroe e il padre dei popoli: pertanto la richiesta di canonizzazione sarebbe giustificata. È noto che durante la guerra e anche successivamente Stalin tenne buoni rapporti con la Chiesa ortodossa ma si attribuisce il suo comportamento a opportunismo strategico. Potrebbe esprimere un giudizio?
Alberto Cotechini

Caro Cotechini,
D opo la rivoluzione d'ottobre e la vittoria dei Rossi nella guerra civile, il regime sovietico fece del suo meglio per estirpare le radici della Chiesa ortodossa dal corpo della società russa. Perseguitò il suo clero, confiscò i suoi beni, trasformò le sue chiese in magazzini e officine, installò un museo dell'ateismo nella venerabile cattedrale di Kazan, costruita a Pietroburgo nei primi anni dell'Ottocento sul modello di San Pietro in Vaticano. E dopo la morte del Patriarca Tichon, nel 1925, vietò la elezione del suo successore. Ma dovette accorgersi che, a dispetto della politica ufficiale, il sentimento religioso era ancora largamente diffuso e profondamente radicato. Secondo Nicholas V. Riasanvosky, autore di una Storia della Russia edita da Bompiani, il censimento del 1936, mai pubblicato, avrebbe constatato che più della metà dei russi (55%) continuavano a proclamarsi «religiosi».
È certamente questa la ragione per cui Stalin, nel 1941, decise di allentare i lacci che paralizzavano la Chiesa. Per combattere una guerra «patriottica» in difesa del territorio nazionale, lo Stato voleva avere la Chiesa al suo fianco. Furono riaperti alcuni luoghi di culto, fu tollerata l'esistenza di seminari per la formazione del clero, fu permessa nel 1943 l'elezione di un patriarca. E la collaborazione della Chiesa fu ricompensata, dopo la fine del conflitto, con un dono generoso: il trasferimento all'Ortodossia dei beni ecclesiastici posseduti dagli uniati (i cattolici di rito greco) nei territori dell'Ucraina occidentale. Ma si trattò di un calcolato compromesso che non modificava l'ostilità del regime verso l'«oppio dei popoli», come il marxismo aveva definito la religione. La santificazione di Stalin avrebbe quindi il gusto amaro di una provocazione e di una bestemmia. Per la Chiesa ortodossa sono santi e martiri, dal 2000, lo zar Nicola II, la zarina Alessandra e i loro cinque figli, uccisi dai bolscevichi nella casa del mercante Ipatev, nei pressi di Ekaterinburg, il 16 luglio 1918. Come conferire la stessa dignità al loro persecutore?
È comunque interessante osservare che i discendenti di Lenin, per valorizzare se stessi e il loro idolo, abbiano oggi bisogno di una istituzione così lungamente disprezzata e combattuta. La proposta di Malinkovic dimostra che il partito comunista russo è ormai soprattutto nazionalista e che il suo maggiore capitale elettorale è in quelle fasce sociali dove gli anni della grandezza sovietica sulla scena mondiale vengono ricordati con nostalgia e rimpianto. Ma il nazionalismo, in Russia, non può prescindere dall'Ortodossia e dal suo ruolo nella formazione dell'identità nazionale. Vladimir Putin lo ha capito da tempo e non manca di ostentare, in ogni occasione pubblica, i suoi eccellenti rapporti con il patriarcato di Mosca.

l’Unità 4.12.12
La socialdemocrazia passa ancora gli esami
di Nicola Cacace


IL SUCCESSO DI BERSANI ALLE PRIMARIE RIAPRIRÀ SICURAMENTE, IL DIBATTITO SU SOCIALISMO E SOCIALDEMOCRAZIA, PROFUMO DI SINISTRA E INTESA COI CENTRISTI. Tempo fa, rispondendo ad alcune di queste critiche «Non si va avanti con la testa rivolta all’indietro (chiara allusione alla socialdemocrazia)», Bersani scrisse su Repubblica: «Siamo appassionati di culture riformiste antiche e nuove e vogliamo che vivano contaminandosi e non da separate in casa, non si va vanti con la testa
rivolta all’indietro ma neanche con la testa fasciata». Poiché si parla di socialdemocrazia più spesso per demonizzarla, forse è utile conoscere qualche dato, su valori e risultati conseguiti. Sui valori esiste il documento di nascita, divenuto base politica di quasi tutti i partiti socialisti e socialdemocratici europei, il Programma fondamentale della Spd di Bad Godesberg del ’59, esplicito sin dall’incipit «socialismo democratico che in Europa affonda le sue radici nell’etica cristiana e nell’umanesimo», chiarissimo su punti rilevanti come, rifiuto della lotta di classe, «Spd che da partito della classe lavoratrice è diventato un partito del popolo», piena accettazione del libero mercato «la proprietà privata dei mezzi di produzione deve essere difesa ed incoraggiata», esigenza di una politica dei redditi «L’economia di mercato non assicura di per sé una equa ripartizione dei redditi e del patrimonio. A tale scopo è necessaria una consapevole politica dei redditi e del patrimonio».
Venendo alla prassi con cui i valori di mercato e di eguaglianza enunciati sono stati applicati, forse è utile al dibattito sul nuovo modello di sviluppo analizzare i risultati dei Paesi europei più a lungo governati da partiti socialisti e socialdemocratici. Anche alla luce del fatto che il disastro economico prodotto dalle politiche liberiste può essere superato solo con politiche ispirate a valori nuovi dove il mercato sia motore dello sviluppo e non padrone e lo Stato assicuri sviluppo e redistribuzione dei redditi.
Ebbene i Paesi europei più a lungo governati da partiti socialisti e socialdemocratici, sono oggi al vertice delle classifiche mondiali sia per ricchezza che per eguaglianza sociale, sia per occupazione che per qualità della vita.
Questi Paesi sono i quattro paesi scandinavi, più Austria, Germania, Francia e Olanda. Tra i 50 grandi Paesi più ricchi del mondo per pil pro-capite c’è prima la Norvegia, terza l’Olanda, quarta l’Austria, quinta la Svezia, settima la Germania, nona la Danimarca, decima la Finlandia, tredicesima la Francia. Tra i 27 Paesi europei a più alta eguaglianza sociale, cioè con minor divario tra ricchi e poveri che implica indice di Gini inferiore a 0,3, i sei Paesi nord-europei occupano addirittura i primi sei posti, prima la Danimarca, seconda l’Olanda, terza la Svezia, quarta la Norvegia, quinta la Finlandia, sesta la Germania, seguiti da Francia ed Austria al settimo e ottavo posto. Quanto ad occupazione tutti gli 8 Paesi hanno tassi di occupazione superiori alla media europea del 64% e 6 di essi con valori record superiori al 70%. Significativo anche il dato degli orari annui di lavoro (lavoratori full time): questi Paesi hanno orari annui di lavoro più corti della media europea, a dimostrazione che quel che conta nella società della conoscenza non è tanto «lavorare di più» quanto «lavorare meglio».
L’Italia invece è in coda in tutti questi parametri, ricchezza, eguaglianza, orari di lavoro, tasso di occupazione. Il fatto nuovo che salta fuori da tutti i dati ed anche dal modo come questi Paesi stanno fronteggiando la grave crisi in atto, è che l’eguaglianza, cioè il minor divario tra alti e bassi redditi, nella società della conoscenza, è diventato anche fattore di sviluppo oltre che etico.
Una migliore conoscenza e diffusione di questi dati, forse, può rassicurare quanti «non vogliono morire socialisti» e quanti credono in una ricostruzione dell’Italia dove la qualità della vita ed il futuro dei giovani sia più simile a quanto sperimentato nei Paesi europei economicamente e socialmente più avanzati.

il Fatto 4.12.12
Senza società civile la mafia non si batte
di Antonio Ingroia


Al mio secondo mese in Guatemala, credo di aver capito una cosa già imparata in Sicilia. E cioè che nessun’azione di contrasto contro qualsiasi forma di potere mafioso può vincere senza il sostegno della società civile. È una verità incontestabile di cui non vi è sufficiente consapevolezza, né in Italia, né altrove. Quando nel nostro Paese questa consapevolezza è penetrata nelle istituzioni, almeno in alcune, quanto meno in alcuni uomini delle istituzioni che vedevano la realtà meglio degli altri, e che non avevano paura di vedere quello che altri non volevano vedere, ebbene, proprio in quel momento, le cose che sembravano immutabili sono cambiate.
COSÌ È SUCCESSO con la mafia. Quando Falcone rievocava con nostalgia il momento in cui la gente “faceva il tifo” per i giudici, alla base della sua considerazione non vi era ovviamente la ricerca di sostegno popolare alle sue indagini. Non cercava sentenze di condanna a furor di popolo. Ma sapeva essere impossibile prescindere dalla società civile. Sapeva che senza il suo appoggio non ci sarebbe stato neanche il maxi-processo, il primo che aveva davvero intaccato l’atavico mito dell’impunità dei mafiosi. Perché il maxi-processo fu consentito dall'introduzione dell'art. 416 bis del codice pena-le, avvenuta nel 1982 sotto la spinta del movimento antimafia spontaneamente sorto e irrobustitosi sull'onda dell'emozione che si diffuse a seguito della terribile stagione di delitti culminata con l'omicidio del Generale Carlo Alberto dalla Chiesa.
Ovvio che su questo crinale si gioca anche la delicata questione dei rapporti fra magistrato e comunicazione con la società, anche mediante l'uso dei mezzi di comunicazione di massa, giornali e Tv. Crinale sul quale bisogna evitare che la sollecitazione della società civile possa apparire la molla, l'obiettivo occulto dell'attività giudiziaria, invece che il suo necessario supporto. Il che dipende, in pari misura, dal senso di responsabilità e di misura del singolo magistrato nel governare l'esposizione mediatica dell'indagine, ma anche dal senso di responsabilità degli operatori dell’informazione a scongiurare enfatizzazioni gridate e gratuite. In ogni caso rimane la considerazione di partenza. Senza la società civile non si può vincere nessuna battaglia contro i poteri criminali. L'esperienza di Paesi come il Guatemala e il Messico ne è una riprova, laddove si è dimostrato come la mera e brutale repressione, magari affidata all'esercito, non ottiene risultati accettabili. Anzi, risulta controproducente, soprattutto perché certe, conseguenti, violazioni dei diritti umani determinano l'ampliarsi e l’irrobustirsi della rete di complicità di cui godono i narcotrafficanti.
CHE FARE allora per sollecitare l'appoggio della società civile? Bisogna meritarselo. E per meritarselo occorrono innanzitutto comportamenti virtuosi. Proprio l'assenza di comportamenti virtuosi ha creato la dilagante crisi di fiducia nelle istituzioni che in Guatemala ha indotto l’Onu a costituire un organismo ad hoc per sostenere la giustizia locale anche attraverso una costante relazione con la società civile. Così come è l'assenza di questi comportamenti virtuosi in Italia, anzi il susseguirsi per accumulazione di comportamenti sempre più immorali e illeciti del ceto politico del nostro Paese, ad avere determinato quella progressiva disaffezione di così tanti italiani nei confronti della politica, che ammala la nostra democrazia. Il che dimostra che il Paese non ha bisogno di antipolitica, ma di buona politica, che però paradossalmente non può venire dalla politica odierna, di partiti ancora in crisi. Può venire soprattutto dalle energie migliori della società civile che quei comportamenti virtuosi ha prodotto in questi anni sul terreno della legalità, della trasparenza e dei diritti. Occorre un'assunzione di responsabilità da parte di quella società civile. Una società civile che sappia cambiare, rivoluzionare il mondo asfittico della politica italiana.

La Stampa 4.12.12
Putnam: “Realismo sì o no? Sbagliava anche Russell”
Nei giorni scorsi La Stampa ha ospitato su questo tema il confronto tra Vattimo e De Caro
Ecco cosa ne pensa il grande filosofo americano
È importante spiegare come la percezione ci dia l’accesso alla realtà
Per Russell si percepisce un oggetto rimanendo sempre all’interno della propria mente
di Hilary Putnam


Quel che c’è di nuovo nel realismo che difendo oggi rispetto al realismo cui aderii negli Anni Settanta è che esso riguarda un numero molto più ampio di aree filosofiche, mentre l’altro riguardava solo la scienza. Nel mio caso, tuttavia, l’aggettivo «nuovo» nel termine «nuovo realismo» non significa affatto che io non accetti più il realismo scientifico che difendevo negli Anni Settanta (per esempio nel mio libro Verità e etica, del 1978), ma che in quella versione di realismo c’erano insite varie difficoltà che, attorno al 1980 e per una decina d’anni, mi indussero ad abbandonare del tutto il realismo. In seguito sono tornato su posizioni realiste, ma rendendomi conto che mi sarei dovuto occupare di molte altre aree della filosofia oltre a quelle di cui mi ero occupato in Verità e etica: in particolare, avrei dovuto affrontare questioni che concernono la teoria della percezione e la filosofia della mente. Per fare un esempio: se non spieghiamo come la percezione ci dia l’accesso alla realtà, qualunque forma di realismo è necessariamente incompleta. E poi ci sono problemi anche sul versante della filosofia della scienza: non sempre, infatti, la scienza autorizza una forma molto semplice di realismo, secondo cui ogni fenomeno ha una e una sola descrizione, e tutte le altre descrizioni sono ad essa equivalenti. Le cose non sono così semplici.
Ma consideriamo più da vicino la filosofia della percezione e un grande cambiamento che l’ha riguardata. Per molti anni Bertrand Russell, probabilmente il più grande filosofo analitico del secolo scorso, contestò duramente il «realismo diretto», o «realismo ingenuo», ovvero la concezione comune secondo cui noi generalmente percepiamo le cose come esse effettivamente sono (e dunque i tavoli e le sedie che percepiamo sono veramente là fuori). L’opinione di Russell era che questa concezione fosse grossolanamente erronea. A suo giudizio, infatti, quando percepiamo gli oggetti, noi rimaniamo sempre all’interno del nostro «spazio privato», nella nostra mente: e dunque l’esistenza dei veri oggetti può essere da noi soltanto inferita.
Negli ultimi tempi però c’è stata un’ampia reazione contro questa posizione di Russell e molti filosofi della percezione oggi vogliono tornare a una qualche versione del realismo diretto. Ma se questa concezione possa essere veramente ripresa, ed eventualmente come debba essere articolata, è una questione assai complessa e io stesso me ne sto sempre più attivamente (ora sto anche lavorando a un libro di filosofia della percezione).
Un altro punto che mi sembra importante notare rispetto a questi temi riguarda una tesi sostenuta dai positivisti logici, ma anche da molti altri filosofi che non si consideravano affatto positivisti logici. Si tratta della distinzione tra due tipi di giudizi: i giudizi di fatto e i giudizi di valore. I giudizi di fatto sarebbero quelli di cui fanno uso le discipline scientifiche, mentre i giudizi di valore sarebbero quelli che riguardano discipline come l’etica e l’estetica. A mio giudizio, però, questa distinzione è completamente insostenibile, perché la stessa scienza presuppone costantemente giudizi di valore. Con ciò non intendo sostenere che la scienza presupponga costantemente valori etici o politici, ma che essa presuppone sempre valori epistemici come la coerenza o la semplicità. Per esempio, quando la comunità scientifica fa propria una determinata teoria fisica, ciò non accade soltanto perché quella teoria offre predizioni migliori delle teorie concorrenti, ma anche perché essa perviene a quelle predizioni nel modo più semplice e coerente. Non molte persone sono consapevoli di quanto numerose siano le teorie, potenzialmente alternative a quelle che accettiamo, che sin dall’inizio vengono respinte non perché non abbiano buone provesperimentali a proprio sostegno, ma per considerazioni di puro ordine metodologico: ovvero per considerazioni basate su giudizi di valore epistemico. Un mio amico scienziato mi ha raccontato di una conversazione che ebbe una volta con Karl Popper. «Caro Karl - il mio amico disse a Popper tu non penseresti mai che la scienza testi veramente ogni teoria falsificabile, se ogni settimana ti ritrovassi sulla scrivania tutte le bizzarrissime teorie che arrivano sulla mia!».

Corriere 4.12.12
Quei quadretti «osceni» nelle antiche case perbene
Il piacere era gioco, la pornografia sconosciuta
di Eva Cantarella


Quando ci accostiamo alle rappresentazioni erotiche provenienti dall'antichità che chiamiamo classica, lo facciamo, spesso, partendo dal presupposto che i greci e i romani concepissero e vivessero il sesso come noi. Mentre così non è: anche in questo essi erano diversi da noi. E tra le differenze che ci separano, una (in particolare in materia di erotismo, ma ovviamente non solo), è assolutamente fondamentale: quella legata all'avvento del cristianesimo, con i divieti e i tabù che questo portò con sé (diversi da quelli pagani), e il diffondersi dei sensi di colpa legati alla concezione del peccato, del tutto ignota al paganesimo.
Conseguenza: lo scandalo odierno di fronte a rappresentazioni erotiche che allora non scandalizzavano nessuno. Un esempio: quando ebbero inizio gli scavi nei siti di Ercolano e Pompei (rispettivamente nel 1738 e 1748), vennero alla luce una serie di reperti considerati «osceni»: pitture riproducenti accoppiamenti sessuali, statuette di personaggi dal fallo smisurato, oggetti di ogni tipo con decorazioni falliche... Un pezzo, in particolare, suscitò enorme scalpore: la celebre scultura in marmo (ritrovata nel 1752 nella Villa dei Papiri di Ercolano), che rappresentava l'accoppiamento tra il dio Pan e una capra. Il divieto regale di mostrarla fu così drastico che non fu concesso di vederla neppure a Winckelmann, il grande archeologo prussiano in visita a Napoli.
Tutti gli oggetti considerati scandalosi vennero raccolti in collezioni riservate, confluite poi nel Palazzo degli Studi di Napoli adibito a Museo Nazionale, dove venne realizzato un «Gabinetto degli oggetti osceni», che, dopo vari mutamenti di nome e di collocazione, rimase chiuso al pubblico sino al 2000 (eccezion fatta per gli studiosi e le persone munite di speciale permesso). Se lo sapessero, gli abitanti del mondo romano e romanizzato trasecolerebbero: per loro nessuna di quelle rappresentazioni era «pornografica», come del resto emerge chiaramente dalla loro collocazione originale. I vasi, le lampade, gli oggetti a soggetto erotico, le pitture murali «oscene» abbellivano le case d'abitazione di normalissimi cittadini: alcuni quadretti erotici decoravano le stanze da letto di coppie che oggi definiremmo borghesi e le pareti dei loro triclini, le stanze in cui come è noto si ricevevano gli ospiti invitati a cena. Ma c'è, tra tutti, un caso particolarmente interessante, che non solo conferma gli equivoci ai quali può portare la mancanza dello «sguardo da lontano» con cui è necessario guardare al passato, ma anche e soprattutto mostra come l'incapacità di storicizzare l'erotismo sia ancora tra noi. Quando, nel 2001, vennero aperte al pubblico le «Terme Suburbane» di Pompei, appena scavate, fecero enorme scalpore le pitture che decoravano la parete dell'apodytérion, il locale nel quale i frequentatori del locale deponevano gli abiti, prima di entrare nelle stanze e nelle piscine calde e fredde nelle quali si sarebbero successivamente immersi.
Erano otto scene erotiche, alcune delle quali rappresentavano un rapporto sessuale di gruppo e pratiche di sesso orale (in un caso, tra donne). Immediatamente, quasi automaticamente, si pensò che nel locale agissero professionalmente delle prostitute. Chi mai poteva frequentare un locale simile, se non donne di quel tipo e i loro clienti? E questa è ormai l'opinione tralatizia in materia, del tutto inconsapevole del fatto che l'archeologa che ha scavato le terme, Luciana Jacobelli, ne avesse dato un'interpretazione diversa (tra l'altro accolta con notevole favore dalla comunità scientifica): le raffigurazioni erotiche facevano parte di una specie di gioco.
Esse erano collocate, infatti, sopra altrettanti elementi rettangolari simili a delle scatole nelle quali venivano collocati i vestiti, su ciascuna delle quali erano apposti dei numeri. L'accoppiata numero-figura Veneris, dunque, aveva la funzione di aiutare i clienti a ricordare il numero della scatola. E al contempo rallegrava il tempo del riposo consentendo lo scambio di battute e scherzi salaci (molto diffusi nell'antichità romana). Il locale, insomma, era un normale edificio termale, frequentato da persone di ogni genere, anche assolutamente «per bene», che da simili immagini non erano né turbate né scandalizzate: nel mondo pagano il sesso aveva anche una dimensione ludica, che l'etica cristiana ha fatto dimenticare.
E per finire: dai muri delle case pompeiane svettavano oggetti oggi inconsueti nelle strade di una città, vale a dire dei bassorilievi che rappresentavano dei falli, attorno a uno dei quali si legge a chiare lettere: hic habitat felicitas. Qui abita la felicità. Alla funzione ludica del sesso, si aggiungeva anche quella apotropaica.

l’Unità 4.12.12
Chiesa e nuovi media. Aspettando @pontifex
Anche Benedetto XVI sbarca sul social network
Il primo tweet del Pontefice è atteso per il 12 dicembre. Già in migliaia i followers
Papa Ratzinger assicura che leggerà ogni post «Fondamentale il mondo digitale»
di Teresa Numerico


ROMA ANCHE BENEDETTO XVI CEDE AL FASCINO DEI SOCIAL NETWORK. DAL 12 DICEMBRE PROSSIMO, IL GIORNO DELLA FESTA DELLA MADONNA DI GUADALUPE, SARÀ POSSIBILE LEGGERE I TWEET APPROVATI DAL PAPA. Il debutto del profilo in sette lingue è avvenuto ieri. @pontifex ha ottenuto in poche ore migliaia di follower. Solo la versione inglese aveva alle cinque del pomeriggio più di centoventimila seguaci. Tuttavia sappiamo che il Papa non si occuperà di persona di scrivere i suoi cinguettii, perché non è particolarmente abituato alle nuove tecnologie, scrive i suoi testi a mano e non usa direttamente gli strumenti elettronici.
La scelta di usare Twitter si pone comunque come un chiaro segnale di apertura nei confronti delle possibilità offerte dai media sociali per il magistero della Chiesa con lo scopo di ottenere l’attenzione di fedeli e interlocutori. Nel presentare l’iniziativa i rappresentanti vaticani hanno dichiarato che la presenza del Papa su Twitter è una concreta espressione della convinzione che la Chiesa debba essere presente nell’arena digitale. Il profilo papale su Twitter è solo la punta dell’iceberg della riflessione sull’importanza che il vertice della Chiesa cattolica annette alla cultura dei nuovi media.
Sarà possibile anche porre direttamente domande al Pontefice, utilizzando l’hashtag #askpontifex. Il profilo potrà fornire le risposte alle domande che riterrà più opportuno accogliere, sebbene resti chiaro che non saranno prese di posizione ex cathedra.
Greg Burke, il consulente per i media del Pontefice, ha spiegato che non si tratta di mandare Benedetto XVI in giro con l’iPad o il Blackberry, né di mettergli le parole in bocca. Il Papa dirà solo quello che vorrà.
Probabilmente, però, il primo tweet lo scriverà di persona.
La Chiesa del resto si è sempre sforzata di essere all’avanguardia nell’uso dei mezzi di comunicazione nei secoli, e questa è una delle caratteristiche che ne ha garantito la longevità. Dagli amanuensi che copiavano i manoscritti da conservare, alla svolta della controriforma con il suo braccio comunicatore affidato ai gesuiti, passando per il primo messaggio radiofonico di Pio XI nel 1931, e ancora l’esperienza di comunicazione del Concilio Vaticano secondo, la Chiesa non ha mai abbandonato l’impegno a sperimentare i mezzi di comunicazione più adatti al proprio messaggio. Del resto, uno dei maggiori contributi alla teoria sui media si deve a un pensatore canadese convertito al cattolicesimo come Marshall McLuhan.
Per tornare al presente, molte altre personalità pubbliche, religiose e non, utilizzano i social media per comunicare con i propri interlocutori. Ha da poco fatto il giro del mondo la foto postata da Obama mentre abbraccia calorosamente Michelle dopo la rielezione, nel caso ci fosse ancora bisogno di riconoscere la potenza mediatica di Twitter, che si conferma il social network più amato dalle celebrità. Ma come mai?
Forse perché si tratta di uno strumento che consente di comunicare in modo asincrono e di gestire soprattutto la relazione uno a molti in modo piuttosto efficace.
In questo senso non stupisce che il profilo del Pontefice abbia scelto di seguire solo se stesso nelle sue sette varianti linguistiche e di non avere interlocutori, ma solo ascoltatori. È una scelta precisa: adoperare i social network come un medium di massa e non come uno strumento di interazione. La Santa Sede vuole usare Twitter come un megafono per diffondere la fede e divulgare il proprio messaggio, ma non (o almeno non direttamente) come uno strumento di ascolto di quello che altre personalità religiose e politiche, o anche persone comuni hanno da dire. È una precisa posizione su come essere presenti sui media sociali, non proprio all’avanguardia, pur essendo efficace.
Resta però difficile sottrarsi fino in fondo al carattere interattivo e il profilo @pontifex ci consente di valutare a colpo d’occhio quanti sono i follower nelle varie lingue offrendo un sondaggio naturale sulla reale presenza della religione cattolica nelle diverse comunità linguistiche. Inoltre la scelta delle prime sette lingue, la maggior parte delle quali concentrate in Europa e in America, con l’eccezione dell’arabo, e l’assenza del cinese ci permettono di riconoscere qual è la comunità linguistica alla quale il Vaticano ritiene di doversi rivolgere per sostenere e diffondere il proprio messaggio.

il Fatto 4.12.12
Con l’hashtag Pontifex l’omelia diventa un tweet
di Alessandro Oppes


Un nuovo user irrompe su Twitter. Si presenta buon ultimo ma, come gli garantisce la massima evangelica, sa di avere tutte le carte in regola per arrivare primo. Chi più di Joseph Ratzinger, con un bacino potenziale di centinaia di milioni di fedeli-inter-nauti, può infatti scalzare dalla vetta Barack Obama, attuale leader della rete di microblogging con 24 milioni di followers? A 85 anni, il Papa si getta nella mischia del social network di moda e, nel giorno d’esordio, ha incassato più di 200 mila followers.. E poco importa che, in Rete, ci sia già qualcuno pronto ad avvisarlo: “Non sai in che pasticcio ti stai mettendo”. È evidente che, al solo annuncio della notizia, diffusa con solennità dalla Sala Stampa vaticana, non potevano che cominciare a circolare scherzi e battute. Volgarità, in certi casi, ma spesso una banale revisione del linguaggio ecclesiastico. Frasi tipo “ama il follower tuo come te stesso”. Oppure un Giovanni XXIII aggiornato: “Quando tornate a casa, leggete un tweet ai vostri bambini, e ditegli che è il tweet del Papa”. Inevitabili anche le incursioni calcistiche: “Ben detto, pontifex. Dare il Pallone d'Oro a Messi è peccato”. Inconvenienti che, evidentemente, sono stati messi in conto dai collaboratori di Banedetto XVI. Niente di cui preoccuparsi, se si pensa ai potenziali benefici di un'operazione di “marketing” della fede di cui il Papa era da tempo il più convinto sostenitore. “L'essenzialità dei messaggi brevi, spesso non più lunghi di un versetto della Bibbia – aveva detto Ratzinger all'ultima giornata mondiale delle comunicazioni sociali – permette anche di formulare pensieri profondi”. E allora, ecco che parte la scommessa.
EVANGELIZZARE in 140 caratteri. Cinguettare le Sacre Scritture. Un account dal nome @pontifex (tutte le possibili alternative sono state scartate, perché già occupate) e, in una fase iniziale, tradotto in otto lingue: inglese, italiano, francese, spagnolo, tedesco, polacco, arabo e portoghese. Il profilo è già on line, ma il primo tweet arriverà solo il 12 dicembre. Per rivolgere domande al Papa su “questioni relative alla vita di fede”, si dovrà utilizzare l'hashtag #askpontifex. A rispondere, sarà uno staff di suoi collaboratori anche se, assicurano in Vaticano, sempre sotto la supervisione di Benedetto XVI. Ovviamente, chiunque può diventare follower del Papa. Ma non aspettatevi che lui vi chieda di diventare vostro seguace. Sarebbe solo una pia illusione.

il Fatto 4.12.12
Apocalisse rinviata per legge
Il governo russo interviene per evitare il panico da profezia Maya
di Alessandro Oppes


Apocalisse rinviata, per decreto governativo. Più si avvicina il giorno fatidico, il 21 dicembre, data indicata dalla profezia maya per la “fine del mondo”, più si moltiplicano gli attacchi di panico, le scene di isteria collettiva, le reazioni in-controllate. Soprattutto in un paese come la Russia, tradizionalmente succube di ogni forma di esoterismo. E allora il governo di Mosca ha dovuto diffondere un comunicato chiarificatore. “Avendo avuto accesso a informazioni e monitoraggio del comportamento della terra – ha fatto sapere il ministro delle Situazioni di emergenza – possiamo assicurare che il mondo non finirà a dicembre”. Vista la credibilità di cui sono soliti godere i politici, chissà quanti gli daranno retta. Per il momento, prosegue la corsa all'accaparramento di prodotti alimentari, e nelle ultime settimane sono stati denunciati parecchi casi di furto di beni di prima necessità. Nei negozi, si fa incetta di candele, fiammiferi, zucchero.
È STATO ANCHE messo in vendita un “kit apocalisse”, che a Tomsk, in Siberia, sta andando a ruba: per 22 euro, dà diritto a un pacco di grano saraceno, una scatoletta di pesce, un bloc notes, medicine per problemi cardiaci, un pezzo di corda (non è chiaro quale dovrebbe esserne l'uso), la fotocopia di una carta d'identità da compilare se si dovessero smagnetizzate i documenti personali. E infine una bottiglia di vodka, che torna sempre utile.
A gettare acqua sul fuoco delle angosce popolari, scendono in campo i rappresentanti delle tre religioni predominanti. Il portavoce della Chiesa ortodossa, Vsevolod Chaplin, ha detto al giornale Life News che il tentativo di individuare una data per la fine del mondo è solo il desiderio che alcune persone hanno di rinviare i cambiamenti necessari nella loro vita. Il rabbino capo di Russia, Adolf Shaevic, lancia un appello a non credere al calendario Maya, ma a quello ebraico, secondo il quale l'umanità continuerà a esistere per almeno altri 2 secoli. E un leader musulmano russo, Nafigulla Ashirov, taccia semplicemente di “truffatori” coloro che pongono una data all'apocalisse. In realtà, è fin troppo evidente che c'è chi cerca i sfruttare l'occasione per approfittare della credulità popolare. Come quel sito Internet – kupoclub.ru – che, per 13 euro, offre “uno sconto incredibile del 50% sull’indulgenza personale”. Garantisce, assicurano, la “Chiesa cattolica di Assisi”. Ci sono cascate 300 persone.

La Stampa 4.12.12
Il cartone colpevole di  «mostrare Dio»
Turchia, la censura multa i Simpson “Offendono la religione”
Anche Winnie The Pooh in passato era stato bandito poiché ha un maialino per amico
di Marta Ottaviani


Guai a chi tocca la sensibilità religiosa in Turchia. L’ultima vittima, in ordine di tempo, è stato il popolare cartone animato «The Simpsons». L’emittente turca Cnbc si è vista comminare una multa da 23 mila euro per aver trasmesso una puntata troppo irriverente. A deciderlo è stata la Rtuk, l’Alto consiglio per la Radio e la Televisione, che monitora i palinsesti. «Uno dei protagonisti - si legge nel rapporto della Rtuk - sta abusando della fede religiosa di un altro per fargli commettere dei crimini. La Bibbia è data pubblicamente alle fiamme e in una scena Dio e il Diavolo sono ritratti in corpi umani». La puntata in questione, secondo il Consiglio, era anche un pessimo esempio per i giovani perché incitava a consumare alcol a Capodanno.
Non è la prima volta che si punta il dito contro un cartone. Era già successo qualche anno fa e quella volta ne aveva fatto le spese il povero Winnie the Pooh. Il tenero orsacchiotto era stato radiato dalla Tv di Stato per colpa del suo amico Piglet, che aveva l’irreparabile difetto di essere un maialino, quindi animale impuro per la religione islamica. Anche in quel caso si parlò di sensibilità offesa.
Il pianista di fama internazionale, Fazil Say, rischia 18 mesi di carcere per aver fatto commenti sulla fede islamica su Twitter. Il musicista, notoriamente ateo, li ha attribuiti ad altri, dicendo che sono finiti sul suo profilo tramite il meccanismo del retweet. Ma hanno comunque colpito la sensibilità di una parte del popolo della rete, che ho ha denunciato.
Insensibile anche Bahadir Baruter, vignettista del giornale satirico Penguen, accusato di aver «insultato i valori adottati da una parte della popolazione». Baruter ha provocato le ire degli ambienti più conservatori disegnando un imam e alcuni fedeli in una moschea, con uno di loro che parla al telefono, chiedendo ad Allah di non finire la preghiera perché ha mille commissioni da fare. Fra le decorazioni, in modo quasi impercettibile, si leggeva «Dio non esiste». Ma l’offesa alla sensibilità religiosa sì, e Baruter è finito sotto processo: rischia un anno di reclusione.

Repubblica 4.12.12
Il dizionario dei “destrutti”
Da Angelino dimezzato a ’Gnazio isolato così Berlusconi ora distrugge la destra
Il dizionario degli ex alleati diventati nemici. E con l’incubo dei sondaggi
di Pietrangelo Buttafuoco


FECE di un acquitrino una città: Milano 2. Fece di una tivù da scantinato un impero editoriale: Mediaset. Fece di una squadra nobile ma decaduta un’invincibile armata: il Milan. Fece di una maggioranza politicoculturale un ventennio di lotta e di governo, quel berlusconismo che, al netto di avanspettacolo e arci-Italia, si conclude con un incredibile fallimento. Di strategia, tattica e visione. L’unica eredità lasciata da Silvio Berlusconi, alla fine, è quella della destra distrutta.

DAL seno suo è fuggita una frase rivelatrice: “Se solo ci fossero Sandra e Raimondo, metterei loro…”. Fece di tante zucche altrettanti deputati. Con tutti i destrutti
in carrellata, eccoli.
ALFANO, ANGELINO.
Leader del Pdl finché dura. Nei giorni scorsi, in tema di improbabili primarie del partito, Cesare Previti ha espresso un giudizio assai lusinghiero su di lui. Ha detto: “E’ proprio tenero, è uno che se gli mozzi un orecchio ti porge subito l’altro”. Ma adesso Angelino non ha più orecchie da offrire. L’ultima gliel’ha masticata al telefono la Santanchè (vedi Dani), quando la Digos si portava via Alessandro Sallusti.
BIBLIOFILO.
Nell’era berlusconiana è sinonimo di falso. Marcello dell’Utri, dopo il falso Pasolini e il falso Mussolini, ha trovato a Palermo ha trovato una copia di se stesso, un avatar, che aspetta la sentenza mentre lui villeggia a Santo Domingo, con le cinquecentine originali di Filippo Rapisarda (che non è vero che è morto), di Vittorio Mangano (che non è vero che è morto), e di Matteo Messina Denaro (che non è vero che è vivo). Possiede anche un incunabolo di rara fattura e assai prezioso. E’ Massimo Ciancimino (ma lo ha dato in prestito alla biblioteca del tribunale di Palermo)
CAVALIERE.
Con il Cav — titolo abbreviato col punto pop nel segno della facilità d’uso — persino la cavalleria, blasone del vero conservatore, procede verso il definitivo tramonto.
DANI.
E’ Daniela Santanché. Parla al telefono con Alfano e gli mastica le orecchie di cui sopra (vedi Alfano). Ma sono immangiabili. E’ socia di Flavio Briatore, il manager del resort di Malindi. Insieme si adoperano per il secondo tempo del Cav. Ma sarà tutto un lungo intervallo, musicato da Mariano Apicella la cui iscrizione al clan dei neomelodici è stata però respinta da Nicola Cosentino: “E’ stonato come una campana, ‘stutatelo!”.
ESCORT.
Un tipico e fiorente mercato di destra ormai rovinato.
FORMIGONI, ROBERTO.
Per lui è stata creata la formula satireggiante “Associazione a delinquere di stampo cattolico” per cui la sua Cl medita di querelarlo. Malato di mattone, ha fatto a Milano quello che Stalin fece con la metropolitana di Mosca. Sulla facciata del nuovo palazzo della Regione — il cosiddetto Grattacielo Formigoni — avrebbe voluto scrivere: “Si prega di pregare”.
GARBATELLA.
Quartiere romano “de sinistra”. Oltre a essere il set dei Cesaroni, è la patria di Giorgia Meloni. Ex ministro della gioventù, fu pupilla di Gianfranco Fini, poi dei Colonnelli e, infine, sovrana della Festa di Atrjeu dove, nel’ultima edizione, Berlusconi non andò. Per le primarie più brevi della storia, la rude Giorgia, a rischio di flop, fece pure il photoshop.
‘GNAZIO.
Fu, insieme a Maurizio Gasparri, colonnello di Gianfranco Fini. Ha già pronto il simbolo del nuovo partito. “Centrodestra per l’Italia”. Con tanto di nodo Savoia tricolore. Né Pecora (er) né Ciarra (Pico) hanno intenzione di aderire. Intravedono nell’emblema un altro tipo di nodo, quello scorsoio.
HOMO, ECCE.
Albano, ops, Alfano. Cainano, ops, Caimano. Bindi, ops, Bondi. Crosetto, ops, Ravetto. Starace, ops, Storace. Homo homini lapsus.
ITALO, BOCCHINO.
Si capì che era finita per il Cav quando le donne cominciarono
a preferirgli Italo.
I, I, I.
Furono le tre “i”, di internet, inglese e impresa. E adesso Berlusconi chiama con le tre “i” i socialisti Renato Brunetta, Maurizio Sacconi e Fabrizio Cicchitto: “Incapaci, inutili e indigenti”. Pare che il Cav. lo dica ogni volta che li vede in tivù i suoi. Senza di me, aggiunge, non hanno manco i soldi per pagarsi i manifesti. Sono destruttiii.
LOCUZIONI.
La lingua italiana si destruttura. E la destra che era entrata nei libri di storia con ‘Dio, Patria e Famiglia’ sarà un giorno raccontata con le locuzioni d’epoca: l’amor nostro, bandana, bunga-bunga, briffare, cflaccido, culona, cribbio, mi consenta, dinosauro dal cilindro, dottore, farfallina, love of my life, meno male che Silvio c’è, otto milioni di barzel-lette, papi, patonza, predellino, partito dell’amore, quid, olgettina, Sua Emittenza, venite con le signore, Romolo & Remolo, utilizzatore finale.
MUSSOLINI, ALESSANDRA.
“Caro Lei quando c’era Lui…”. Purtroppo c’è rimasta lei. Più destruzione di così. Il suo 25 aprile è oggi.
NEVE, OVVERO GIANNI ALEMANNO, SINDACO DI ROMA.
Luigi Crespi, spin doctor del primo cittadino ha già allertato il municipio dell’Urbe: “Nevicherà forte anche quest’anno”. Alemanno, che è diventato sinonimo di calamità naturale, medita di acquistare una muta di cani San Bernardo equipaggiati di grappa. Ma sa già che ogni neve avrà il suo sale e ogni sale la sua ferita. Sono scherzi della natura ma la neve, questa è sicura, gli affon-
da la sindacatura.
ORIANA, FALLACI.
Rovinata dalla destra, destrutta post-mortem. I suoi libri, che furono cult libertari e radicali, sono finiti accanto a quelli di Magdi Allam, di Renato Brunetta, di Pio Pompa e di alcuni ex terzisti, oggi in cauta ed equidistante terza via destrutturata
tra Matteo Renzi e Beppe Grillo.
POESIA.
Dopo la destra in versi di Gabriele d’Annunzio, Filippo Tomaso Marinetti ed Ezra Pound, i poeti del berlusconismo sono stati due: Sandro Bondi e Mariano Apicella. Con Vittorio Sgarbi come vate prosaico. Ad ogni sventagliata di “capra, capra, capra!”, alzava l’audience. Oggi — con lo stesso ovino — fa crepuscolarismo: l’audience va in buio. “Ci tocca anche Vittorio Sgarbi” fu il titolo della trasmissione profeticamente poetica di RaiUno cui toccò una poeticissima fine pre-prematura.
QUIRINALE.
Lo chiamano il Quirinale di Sicilia. E’ Renato Schifani, già penalista, oggi statista. “E’ lo statista che tutto il mondo ci invidia”, dicono i suoi collaboratori. “Solo che non se lo prende nessuno” commenta Berlusconi che ormai da un pezzo non gli risponde al telefono. E non lo cerca. Questa destruzione non potrà che avvalorare la sua immagine. Comunque sia andata, un beneficio lo ha già avuto: tornerà a Palermo senza più il riporto che da destra si è spostato al centro.
RAI, RADIO TELEVISIONE ITALIANA.
In principio fu Giovanni Masotti, messo al posto di Enzo Biagi. Poi Augusto Minzolini, Antonio Socci, Gianluigi Paragone, Mauro Mazza, Pino Insegno, Angelo Mellone, Gianni Scipione Rossi (è ancora direttore, ma lo toglieranno), Pier Luigi Diaco, Mauro Masi. Tutti destrutti.
SONDAGGI.
Il sondaggio fu la novità ermeneutica del centro destra. Fu, per Berlusconi, quel che per la strega di Biancaneve era lo specchio. Commissionati per avere solo buone notizie, i sondaggi servivano a piegare la realtà alla vincente idea che Berlusconi aveva di se stesso. Finite le buone notizie, i sondaggi hanno fatto la fine dello specchio: tutti in frantumi.
La sondaggista Alessandra Ghisleri, infatti, ne è uscita destrutta. Nei suoi sondaggi, per dire, perfino Angelino Alfano (vedi) supera Berlusconi.
TULLIANI, GRUPPO DI FAMIGLIA TRA INTERNO E ESTERNO.
Gianfranco Fini è nello stato di famiglia dei Tulliani, con il cognato Giancarlo e tutto il carico di parenti della moglie Elisabetta (stilista). Abita con i suoi cari nel quartiere romano di Val Cannuta. Riserva della Repubblica qual è, il presidente della Camera, pur con l’aquila imperiale svettante sul balcone (non però quel Balcone) è l’unico che
non è destrutto ma distruttore.
UMBERTO, IL SENATUR.
E’ Bossi. Fece del proprio braccio il manico dell’ombrello. Bevve dall’ampolla del Po. Fondatore della Lega Nord, si calò in testa le corna dei barbari. Un tempo aveva al fianco Erminio Boso e già quel tipo, così tipo, segnò un’epoca e una classe dirigente non proprio pronta. E’ appena tornato da Medjugorje scortato dalla moglie, Manuela Marrone. Non ringhia più, sorride tra le candele.
VESPA, BRUNO.
E’ l’unico indestruttibile. Pur di non farsi distruggere, infatti, è riuscito a far piangere Bersani. E fu così che la destra ha perso pure Vespa.
ZANICCHI, IVA.
Cantante, conduttrice televisiva, diva dei tempi d’oro di Mediaset. E’ anche parlamentare europea del Pdl. Ha parole definitive: “Sono profondamente delusa, ho creduto in lui, ora sono nelle tenebre. Lo stimavo, quasi come una mamma o una sorella maggiore. Non lo posso perdonare. Ha sprecato un talento personale enorme, l’ha buttato al… Forse per presunzione o perché attorniato da persone sbagliate, da yes-men che gli hanno detto sempre di sì. C’è pure chi ha detto che è alto”. Gli parla da mamma e da sorella ma questo sfogo della Zanicchi è un ritorno alla sua canzone più bella. Quella che Luchino Visconti utilizzò in “Gruppo di famiglia in un interno”: “La mia solitudine sei tu”.

Repubblica 4.12.12
Così il software Ngram Viewer calcola le “presenze” nei libri digitalizzati
Il canone di Google
Conta più Platone o Kant? Ce lo dice un algoritmo
di Maurizio Ferraris


Cosa cerchiamo quando cerchiamo su google? E cosa cerchiamo di più nella biblioteca d’Alessandria 2.0, cioè su Google Books? Insomma qual è il canone di Google? Grazie al Google Ngram Viewer possiamo capirlo. Si tratta di uno strumento disponibile dal dicembre 2010 che permette di realizzare grafici in cui si visualizza la frequenza anno per anno di combinazioni di lettere (ngrams), parole (“spread”) o frasi (“Impero Romano”) presenti negli oltre 5,2 milioni di libri digitalizzati da Google sino al 2008, che corrispondono al 4% di tutti i libri pubblicati. L’estensione cronologica dei libri copre il mezzo millennio della diffusione massiccia della stampa, dal 1500 a oggi, e si riferisce a cinquecento miliardi di parole in inglese (nelle varianti britannica e americana), francese, tedesco, spagnolo, russo e cinese. Le parole italiane sono contate in base alla loro occorrenza in altre lingue. La cosa interessante, suggerisce la voce di wikipedia da cui traggo queste informazioni, è che si possono effettuare comparazioni attraverso dei grafici: di persone (Galileo, Darwin, Freud, Einstein) di composizioni musicali (ad esempio la Quinta e la Nona di Beethoven), o di entità fittizie (Pegaso è più popolare di Sherlock Holmes?).
Il browser permette di cercare in differenti raccolte di libri, i “corpora”, cioè il plurale di “corpus”, un insieme omogeneo di libri. C’è dunque una differenza tra il corpus dei libri britannici e quello dei libri americani, come si capisce facilmente se si traccia un grafico delle occorrenze di “centre” e di “center” (rispettivamente la dizione britannica e americana di “centro”) nei due corpora. E, osservano gli estensori della voce, è anche possibile trovare le prove di attività censorie, per esempio del nome “Marc Chagall” nella Germania nazista.
La base cronologica più attendibile, avvertono i curatori, è il periodo tra il 1800 e il 2000 nel corpus inglese (sommatoria di quello britannico e americano). Prima di quella data la quantità di libri scansionati in Google Books è statisticamente insufficiente, dopo il 2000 i corpora sono ancora in formazione, e dunque la presenza di libri è legata a motivi contingenti. Una volta che si siano prese tutte le precauzioni del caso può nascere una nuova scienza, la “culturonomia”, ossia l’economia dei flussi culturali.
Google Ngram Viewer è basato sul browser “Bookworm” creato dall’osservatorio culturale di Harvard, ed è dettagliatamente descritto sull’edizione online di Science del 16 dicembre 2010, «Quantitative Analysis of Culture Using Millions of Digitized Books». A portare la mia attenzione su Google Ngram Viewer è stato però, qualche settimana fa, un collega inglese, l’ontologo analitico Barry Smith, che mi ha mandato una mail che recitava: Aristotele diventa più importante di Derrida.
Aggiungendo che «solo l’ontologia cresce in termini assoluti». Sotto c’era il link a un diagramma da cui si evince che nel periodo 1984-2008 (dunque in un periodo problematico, data l’inaffidabilità dei dati dopo il 2000) e nel corpus inglese (cioè sul corpus più affidabile) Aristotele è più citato di Marx, Foucault e Derrida, mentre l’ontologia, sia pure in basso nella classifica, traccia la linea di una crescita continua. Ho chiesto a Smith da dove avesse tratto il grafico, lui mi ha detto di Google Ngram Viewer, e ha aggiunto un link riferito al periodo (più affidabile) 1700-2008 commentando che «dimostra come l’ontologia, dopo 300 anni, stia finalmente trionfando sulla metafisica». Ovviamente si potrebbe obiettare che il trionfo dell’ontologia potrebbe anche essere un successo malfamato, in cui in montagne di libri si dissuadono i lettori dall’occuparsi di ontologia. O che magari mentre i libri parlano tanto di ontologia gli articoli non ne parlano affatto. Ma, sinceramente, mi sembrano obiezioni deboli, perché suppongono una inverosimile disarmonia nei processi culturali. Ed è così che, per gioco ma sul serio, ho passato un paio d’ore a fare “ricerche” di cui vorrei comunicarvi i risultati.
Ho prima di tutto cercato di fare confronti in ambiti omogenei. Per esempio fra i tre principali autori post-strutturalisti, Foucault, Derrida e Deleuze nel periodo 1990-2008. Dove si conferma la maggiore presenza di Foucault rispetto a Derrida che si vedeva nel grafico su Aristotele, mentre Deleuze è all’ultimo posto sia in inglese, sia in francese, ma qui Foucault è più in alto e Deleuze molto più vicino a Derrida.
Il che, in effetti, confermerebbe una ipotesi intuitiva, e cioè che Foucault è penetrato più capillarmente, negli studi degli storici, dei sociologi, degli psichiatri, e nel dibattito politico. Questi dati sono confermati dai risultati in francese dal 1960 (epoca della fioritura) al 2000 (termine del periodo di affidabilità). Vale la pena di osservare che la morte di Foucault alla metà degli anni Ottanta e quella di Deleuze a metà degli anni Novanta non intacca l’ascesa relativa. Dunque fu vera gloria.
Se però dalla triade dei post-strutturalisti passiamo, sullo stesso periodo, a quelli che in un certo senso sono i loro eredi (beninteso, in materia di impatto mediatico), e cioè la triade pop Michel Onfray, il La Mettrie redivivo, Peter Sloterdijk, neoapocalittico spengleriano, e Slavoj Zizek, psicoanalista dialettico, emergono dati forse meno prevedibili. In inglese Zizek straccia Sloterdijk e Onfray sia in termini assoluti di crescita, sia in termini relativi. In italiano (per quel che vale) la classifica è la stessa, ma tutti e tre risultano in salita netta dalla fine degli anni Novanta, che in effetti coincidono con il momento della loro esposizione mediatica.
Ma veniamo ai grandi nomi, agli evergreen della filosofia. È forte la tentazione di confrontare Platone, Kant e Wittgenstein (un antico, un moderno, un contemporaneo). In inglese Platone e Kant, l’antico e il moderno, sono molto vicini, Wittgenstein sotto, molto staccato. I classici continuano ad avere la meglio, anche nel periodo 1990-2008, dunque con un confronto ad armi pari (non avrebbe senso cercare Wittgenstein nell’Ottocento, o Kant nel Cinquecento).
Veniamo alla triade degli idealisti, Fichte, Schelling, Hegel. In inglese non c’è gara, stravince Hegel, gli altri due sono vicinissimi in valori molto bassi. In tedesco, Hegel è in vantaggio, ma meno, e comunque è in declino. E per la coppia dei neoidealisti italiani, in inglese, Croce ha un vantaggio, ma cala, Gentile recupera (situazione molto simile in italiano).
E come vanno le cose se confrontiamo gli antichi tra loro? Per esempio Platone, Aristotele, Epicuro. In inglese Aristotele ha la meglio, in italiano, invece, ha la meglio Platone. La tendenza si ribadisce in tedesco, dove Platone ha un vantaggio enorme. E si conferma una dissonanza culturale significativa e profonda: gli analitici sono aristotelici, i continentali platonici.
E, invece, come tengono Nietzsche e Marx, tra il 1990 e il 2008? In tedesco Nietzsche è stabilmente piatto e Marx è in declino.
Situazione pressoché identica in inglese. Invece in francese dal 1997 inizia per entrambi una rimonta (ma comunque anche qui Marx è sopra Nietzsche di parecchio). In italiano con la svolta del secolo Marx ha una lieve rimonta, Nietzsche un lieve declino, e soprattutto, sia pure con Marx in vantaggio, il distacco tra i due non è così grande come in altre tradizioni. Il dato davvero sorprendente lo abbiamo in russo, dove Nietzsche è uniformemente basso, ma Marx è in discesa sino al 1997, ma poi inizia una risalita vertiginosa. A questo punto è forte la tentazione di confrontare Nietzsche e Marx dal 1900 al 2000, esperimento che ha dell’istruttivo, perché ne vien fuori il diagramma ideologico del secolo. In inglese, Marx è sempre in vantaggio, con un picco nel 1975, poi inizia la discesa. Non è così diverso in tedesco, dove si mantiene il vantaggio di Marx su Nietzsche. L’italiano si distingue per una ascesa (relativa) di Nietzsche dagli anni Settanta, e non stupisce pensando a tutti i libri che sono stati scritti nel periodo.
Fin qui i duelli seri. Ma utilizzando questo strumento si può fare il confronto tra Topolino e Paperino o tra Frankenstein e Frodo. Un modo per capire un po’ le tendenze alte e basse del sapere (digitale).

Repubblica 4.12.12
I dati sul mercato a “Più libri più liberi”


ROMA — Il mercato del libro segna una piccola ripresa, anche se conferma il segno meno. Se si registrava un - 11,7% a fine marzo, a inizio settembre il dato delle vendite è pari a -8,6%. Si tratta dei primi dati dell’indagine Nielsen che sarà presentata alla Fiera nazionale della piccola e media editoria Più libri più liberi, giovedì 6 dicembre al Palazzo dei Congressi dell’Eur, a Roma, nell’ambito dell’appuntamento Quanto vale il pluralismo in un mercato che sta cambiando? organizzato dall’Associazione Italiana Editori. Fra gli interventi quello di Michael Healy, direttore esecutivo del Copyright Clearance Centre, sulla ridefinizione del ruolo dell’editore a partire dall’esperienza del mercato Usa. Venerdì 7 il confronto prosegue con l’incontro Da una legge all’altra
a cui partecipa fra gli altri Ricardo Franco Levi della commissione Cultura della Camera. La fiera resterà aperta fino a domenica.