mercoledì 5 dicembre 2012

l’Unità 5.12.12
Bersani: «Berlusconi mi sfida? Non vedo l’ora»
Il segretario respinge il pressing del Pdl per l’election day
E, se il Cavaliere pensa di ripresentarsi in chiave anticomunista, «gli dico auguri»
Se il Porcellum non si cambia, si faranno le primarie per scegliere i parlamentari
«Non ci sarà nessun ticket con Renzi»
Probabile una coalizione con tre liste, ma non è del tutto esclusa la convergenza nella lista Pd
di Simone Collini


Dopo il viaggio che l’ha portato a Tripoli per incontrare il nuovo Capo di Stato Mohamed Mgarief, Pier Luigi Bersani ha già un altro appuntamento fissato in agenda: con Mario Monti a Palazzo Chigi. Sarà il primo faccia a faccia con il leader del Pd nelle vesti di candidato premier del centrosinistra. Che al capo del governo, col quale dovrà pure discutere le misure in discussione in Parlamento, andrà a esprimere le sue preoccupazioni per le ultime mosse di Silvio Berlusconi e per la tenuta della maggioranza in questo finale di legislatura.
La notizia che l’ex premier sia intervenuto per impedire un’intesa sulla legge elettorale arriva a Bersani durante la trasferta al di là del Mediterraneo. Quando era partito da Roma, la sera precedente, l’accordo veniva dato per fatto. Ma a preoccupare il leader del Pd è anche l’indiscrezione secondo cui il Pdl è pronto a innescare una crisi di governo, nel caso Monti non annunci in tempi rapidi l’opzione dell’election day. Con, di nuovo, Berlusconi a spingere sul pedale insieme alla Lega, anche contro un pezzo del suo partito.
L’attivismo dell’ex premier impensierisce Bersani più per la piega che rischia di prendere il finale di legislatura, che non per la sfida che si dovrà giocare la primavera prossima. Se i giornali parlando dell’ipotesi di un Berlusconi candidato alla testa del centrodestra nella solita chiave «anticomunista», Bersani liquida la questione con un sorriso e una battuta: «A Berlusconi dico “auguri”. Se la sfida sarà quella la faremo, francamente non vedo l’ora».
NO AL VOTO A FEBBRAIO
Il leader del Pd guarda però con sospetto alle richieste di election day provenienti dal Pdl, con la Lega a fare da ariete di sfondamento. Insistere su questa linea, affiancata dalla più o meno esplicita minaccia di crisi, è per Bersani una strategia dannosa per tutti. «Ho sempre pensato che sia sensato tenere separate le elezioni regionali e politiche», dice rispondendo a chi gli chiede un commento sulla questione. «Dopo di che voglio capire se Alfano e Berlusconi vogliono, e come, le elezioni politiche a febbraio. Parlare di election day senza capire cosa significa è difficile».
In realtà Bersani sa bene che è proprio su questa ambiguità che il Pdl sta giocando. Lascia alla Lega il compito di chiedere l’accorpamento di regionali e politiche nella giornata del 10 febbraio, limitandosi invece da parte sua a chiedere genericamente una data unica per far risparmiare allo Stato soldi pubblici. Il leader del Pd aspetta che il Pdl si scopra, e al momento si limita a sottolineare le evidenze. «Ci sono norme e varie sentenze per il fatto che ai primi di febbraio si voterà nel Lazio, e questo non è un optional. Berlusconi e Alfano dicano perché e come intendono l’election day, perché finora io non ho capito». E se l’intendessero come elezioni regionali e politiche da tenersi a febbraio? «Noi non siamo di questa opinione».
NIENTE DUOPOLIO NEL PARTITO
È questo ciò che al momento preoccupa Bersani, più di come gestire nel Pd il dopo primarie. Nel giorno in cui viene ufficializzato il dato definitivo (60,9 al segretario contro il 39,01 allo sfidante) il leader dei democratici ribadisce che non ci sarà alcun ticket con Matteo Renzi. E neanche, fa capire, ci saranno spartizioni col «bilancino» con il sindaco di Firenze quando si tratterà di decidere organigrammi del partito o liste elettorali.
«Io non pretendo il monopolio del partito, ma nemmeno che ci sia un duopolio», spiega ai giornalisti che gli chiedono se sia ipotizzabile un tandem premier-vicepremier con il sindaco fiorentino. «Non ci sono voti di Renzi o di Bersani ma c’è un partito che non è proprietà né di Renzi né di Bersani, ma un grande collettivo aperto e plurale». Il Pd, insiste, «è un grande partito che lavorerà in un rapporto di fraternità e di amicizia, per troppo tempo siamo stati abituati all’idea dell’imperatore e dell’uomo solo al comando».
Bersani intende dimostrare concretamente che nel Pd non c’è un «capo» che decide da solo e per tutti anche attraverso la formazione delle liste elettorali.
Dovesse rimanere in vigore il Porcellum, il Pd organizzerà primarie per scegliere i candidati parlamentari. Per ora chiede al Pdl di smetterla con questo «sbandamento» e di «far sapere come la pensi veramente perché siamo alla ventesima proposta». Se Berlusconi dovesse però impedire l’approvazione di una nuova legge, il Pd rimetterebbe in campo lo strumento delle primarie, anche per evidenziare la differenza di stile (e di metodo) rispetto al Pdl.
In queste ore si sta anche valutando se convenga presentarsi con solo una li-
sta Pd, una Sel e una dei moderati guidata da Bruno Tabacci e Giacomo Portas, o se «allargare il perimetro del centrosinistra», come dice il Verde Angelo Bonelli dopo un colloquio a Montecitorio con Dario Franceschini, con una lista civica-ecologista. Si sta però anche valutando l’ipotesi di andare con un listone in cui far convergere le forze che hanno partecipato alle primarie e aperto al mondo dell’associazionismo. Prima di prendere una decisione, in ogni caso, si aspetta di sapere con quale legge elettorale si andrà a votare.

Corriere 5.12.12
Bersani: non vedo l'ora di sfidare il Cavaliere
Visita a Tripoli: con me al governo relazioni ancora più forti
di Monica Guerzoni


TRIPOLI — La suggestione che le primarie siano state la sua «primavera araba» lo fa sorridere. Ma appena scende dall'aereo che da Tripoli lo riporta a Roma, Pier Luigi Bersani accetta di ragionare sul filo di un paragone azzardato: «Come ho detto alle parlamentari della Libia, loro hanno la storia nelle mani. È un momento drammatico ma bello, come fu il nostro dopoguerra. Ma adesso in Libia c'è da scrivere la Costituzione, mentre da noi il dibattito politico è quello che è».
Rientrato «soddisfatto» da Tripoli, il candidato premier è costretto «con fatica» a immergersi nella politica interna, dove lo aspettano le beghe di partito e la disfida sulla legge elettorale. Il vincitore delle primarie è già in corsa per le politiche: «Berlusconi si candida? Auguri! Non vedo l'ora di sfidarlo». L'appuntamento più importante della sua agenda, fitta di incontri internazionali, è il faccia a faccia con Mario Monti in settimana a Palazzo Chigi. Un vertice a cui Bersani arriva forte di una nuova legittimazione, che potrà tornargli utile, spera, quando ci sarà da «puntare i piedi» sulla legge di stabilità. Sullo sfondo del vertice resterà il tema del futuro del professore, questione delicata in merito alla quale, continua a ripetere Bersani, «quando sarà il momento decideremo assieme».
Sbarca a Tripoli che è notte fonda. Ricevimento in ambasciata e poi, al mattino, incontro con Mohamed Mgarief, presidente del Congresso dopo trent'anni di opposizione a Gheddafi. Al capo provvisorio dello Stato libico Bersani dice essere stato «scelto da milioni di italiani» e porta in dono un «segnale di grande amicizia per la rivoluzione della nuova Libia». Monti e Terzi hanno ripreso «relazioni positive», ma se lui andrà al governo la disponibilità e l'amicizia dell'Italia «saranno ancora più forti», perché l'obiettivo è diventare «l'amico numero uno» della Libia liberata.
Tripoli, capitale ferita di una terra «in grande cambiamento», prova a rialzare la testa dopo aver sepolto 50 mila morti: miliziani armati, quartieri in mano alle brigate locali e cartelloni che inneggiano ai giovani martiri della rivoluzione. Davanti alla sede della Coalizione di Centro, dove ha visto il segretario generale El Naami, Bersani si dice deluso dal dibattito delle primarie sulla politica estera, a riprova che l'Italia ha «perso la percezione della sua forza di grande Paese del Mediterraneo». Se la vittoria alle politiche toccherà a lui Bersani proverà a «svolgere un ruolo» senza farsi condizionare da una coalizione troppo larga: «Discuteremo, ma poi decideremo».
Terminato l'incontro con i moderati del Parlamento libico gli chiedono se al rientro vedrà Casini e il segretario rimanda bruscamente l'evento: «No, il primo incontro sarà con Monti, che mi ha chiamato con tempistica eccezionale per congratularsi e con il quale dobbiamo fare il punto su tutti i tempi in agenda».
Ora che ha battuto Renzi le carte vuol darle lui, sulle alleanze come dentro il Pd. Mentre parla ormai apertamente dell'ipotesi di un listone con Vendola, il tema del 40 e 60 — cioè della «spartizione» tra sostenitori del segretario e seguaci del sindaco — non lo appassiona. «Non esistono i voti di Renzi e i voti di Bersani», perché il Pd non è proprietà di nessuno. Basta con l'uomo solo al comando, quando si gioca in uno «squadrone» si può anche «discutere animatamente», ma si governa in collettivo. «Alla prima occasione» pranzerà con lo sconfitto, purché non si pensi a inciuci o ticket di sorta: «Io e Renzi non abbiamo il duopolio, ma nemmeno pretendo il monopolio».
L'ultima tappa è nel lussuoso palazzo del General National Congress, per l'incontro con una battagliera delegazione di donne parlamentari. «Ne ho opzionate un paio per il mio governo...», scherza Bersani verso l'aeroporto, confermando che il Pd sceglierà deputati e senatori con le primarie e si batterà per la parità di genere: «Per ogni uomo una donna in lista, o non ne veniamo fuori».

Il 14 e 15 dicembre il Pd ha organizzato a Roma una conferenza nella quale Bersani incontrerà il presidente francese Françoise Hollande
A gennaio invece Pier Luigi Bersani andrà a Berlino e Parigi. Organizzati anche alcuni incontri nei Paesi dell'America latina e in Argentina
I referenti per l'estero nel Pd, Lapo Pistelli e Giacomo Filibeck, stanno organizzando a febbraio una visita di Bersani a Londra e negli Usa

La Stampa 5.12.12
Bersani prepara il piano B “Se serve, sì al listone unico”
Il segretario: “Berlusconi vuole sfidarmi? Non vedo l’ora”
di Carlo Bertini


Che queste primarie abbiano sortito l’effetto di far sentire Pierluigi Bersani un premier in pectore non v’è dubbio: a consolidare questa percezione certo contribuiscono gli autografi e le foto ricordo che coppiette e belle ragazze gli chiedono all’aeroporto, mentre sorseggia un calice di bianco aspettando l’aereo che lo porterà a Tripoli, prima uscita dopo le primarie. Neanche 24 ore dopo riprende la via del ritorno, viaggia in economy e attende paziente il suo turno in fila, ben sapendo quanto siano questi i particolari più sensibili che la gente nota e che possono portare punti in suo favore. Ed è proprio prima di varcare il controllo passaporti che per la prima volta pronuncia en passant due parole, «listone unico».
In una giornata che vede brillare sempre di più il Porcellum di luce propria, si capisce che nei marosi della trattativa sulla legge elettorale Bersani ha in tasca anche un piano B: da tirar fuori magari al Senato, dove il Porcellum prevede una soglia del 4% alle liste apparentate; o anche alla Camera, se fosse introdotta una soglia di sbarramento al sistema attuale che consente l’ingresso pure a liste col 2% dei voti. «Nel caso servisse un listone unico, ci rivolgeremo a quei tre milioni di elettori per chiedergli di scegliersi i parlamentari». Dice proprio così, Bersani, «listone unico», confermando per la prima volta l’opzione di una forza unitaria che vada da Vendola ai Verdi, dai socialisti a Tabacci, se vi fosse una legge che lo rendesse conveniente. Insomma, nulla è escluso, pure che il Pd si amalgami con altre sigle.
Quanto alla principale fonte di crucci, cioè Mario Monti, gli dedicherà il primo incontro a tu per tu: ci sarà a breve, «ma dobbiamo ancora metterci d’accordo». Ma chissà se è un segnale di qualcosa la lode che spende per «il tempismo eccezionale» con cui il Professore gli ha fatto i complimenti la sera delle primarie. Detto questo, Bersani non svela l’intenzione pur legittima - di voler chiedere a Monti cosa voglia fare di qui a qualche mese: se cioè voglia spendersi nella campagna elettorale in prima persona, oppure no. «Parleremo d’Italia... vi è piaciuta come risposta? », scherza con i cronisti sul bus appena scende le scalette dell’aereo.
Ma per qualche minuto, prima di riaccendere il blackberry, il pensiero è ancora fermo sui volti e su quel che rappresentano le quindici parlamentari libiche che ha incontrato a Tripoli poco prima: «Donne con due lauree, con 6 figli e uno che è morto in battaglia, donne che hanno la testa e che stanno ricostruendo un Paese, come i ragazzi tunisini che stanno scrivendo la Costituzione». Azzardare un paragone tra «la primavera araba e le primarie» lo fa sorridere, «è un tantino forzato, ma ci sta bene». E anche se la sera prima ammoniva, «uè non è che andiamo in Libia a parlare di cose italiane», nello spazio d’un mattino deve ricredersi.
In tre ore vede le autorità del governo libico e alcune tra le maggiori forze politiche e a tutti ripete che «se l’Italia sarà governata dal centrosinistra ci sarà una disponibilità più forte a collaborare, tenuto conto che il partito che rappresento si sente particolarmente vicino alla Rivoluzione libica». Ma appena fuori i cronisti lo inchiodano su quanto bolle in pentola in Italia: «Il dossier più importante è la legge elettorale e lo sbandamento del centrodestra. Il Pdl ci faccia sapere precisamente cosa pensa, perché non capiamo. Siamo davanti alla ventesima proposta e ci facciano la cortesia di dirci che intenzioni abbiano». Bersani non vede l’ora di scaricare su Berlusconi l’etichetta infamante di difensore del Porcellum e «vede» forse per la prima volta che può riuscirgli il colpaccio. Al punto che si mostra spavaldo: «Mi vuole sfidare? auguri. Non vedo l’ora... ». Come farà ora a gestire tutti i voti presi da Renzi? «Ma il partito non è di nostra proprietà, siamo un collettivo. Un ticket? Non siamo un duopolio e non pretendo il monopolio. Noi discutiamo anche animatamente ma poi siamo uno squadrone». Ultime frecciate sempre al Pdl, su una decisione che può cambiare l’agenda della politica. «Alfano e Berlusconi intendono dire che dobbiamo anticipare le politiche a febbraio? Noi riteniamo sensato tenere separate le regionali dalle politiche».

Repubblica 5.12.12
Dopo le primarie
Il Mediterraneo di Bersani
di Barbara Spinelli


È SIGNIFICATIVO che d’improvviso, festeggiando l’esito delle primarie, Pierluigi Bersani abbia parlato di tutt’altro, cioè dell’essenziale: che fare, per uscire dai recinti così angusti, monotoni, dei nostri intimi patemi nazionali.
Da che parte guardare, per capire dove precisamente stiamo nel mondo, e quel che si può fare di questo nostro dove.
È stato appena un attimo: quando ha accennato al Mediterraneo e al proprio viaggio in Libia Era già Presidente del consiglio; per la postura, i pensieri. Anche se Monti resterà a Palazzo Chigi, qualora il centro sinistra non avesse la maggioranza al Senato. D’un tratto anche l’assillo dello spread, che da anni è prioritario per chi voglia governare, è apparso non superato, ma anch’esso angusto. Non che sia chiaro cosa il candidato Premier abbia in mente, quando dice che l’Italia deve riconquistarsi, nella casa nostra che è il Mediterraneo, «un suo profilo e un suo ruolo: politico, morale, culturale, economico». Vedremo che farà, uscito dal recinto e preso il largo. Ma per la prima volta da anni si è avuta l’impressione di uno sguardo che va un po’ più lontano, nel tempo e nello spazio. Verrà il momento, si spera, in cui il tema cruciale sarà l’Unione, e Bersani si presenterà come leader europeo. Ma un futuro Premier che parte dal Mediterraneo sarà più forte, quando dirà quel che siamo e vogliamo in un’Unione che è regredita formidabilmente. Che con le sue mani s’è resa schiava della recessione, divenendo incapace anch’essa di prendere il largo e occuparsi del mondo. Mediterraneo, Medio Oriente, Europa: per ora non sono che sottotitoli d’un libro ancora da scrivere, sapendo la tragedia di un’Unione divenuta un problema anziché una soluzione, per il pianeta e anche i propri cittadini. L’Europa è un po’ come l’Italia che ha appena celebrato 150 anni di unità senza vedere che davvero assente non è il comune sentire nazionale ma lo Stato, e che il nostro male è un Nord persuaso di viver meglio scostandosi dai miasmi del Sud. L’Europa deve imparare la solidarietà fra le sue nazioni, certo, ma per creare quale statualità sovranazionale? E una volta creata la statualità, per contare con che pensieri e azioni, fuori casa? Non è del tutto convincente l’ambasciatore Puri Purini: la politica estera non va tenuta fuori dalla campagna elettorale, perché il mondo che chiamiamo esterno non lo è più da tempo, a meno di non delegare la sua gestione a un’America in declino. È importante che Bersani sia stato chiaro sul Medio Oriente, discutendo con Renzi il 28 novembre. Sapeva bene che avrebbe irritato molti benpensanti, ma quel che gli europei devono dire lo ha sottolineato con forza: la tensione Israele-Palestina non può continuare ad avvelenare la regione, incoraggiando i soli estremisti dei due campi, proprio perché il Mediterraneo è casa nostra oltre che loro, e in primis del Sud Europa che ha approvato lo status di osservatore all’Onu come Stato non membro, ottenuto dall’Autorità nazionale palestinese. È stato giusto che il nostro governo abbia detto sì, anche se con tali e tanti caveatche il sì è un mezzo no. Li spiega bene Natalino Ronzitti, esperto di diritto internazionale, sul sito dell’Istituto Affari Internazionali: al presidente Abbas si chiede «di astenersi dall’utilizzare il voto dell’Assemblea generale per ottenere l’accesso ad altre Agenzie specializzate delle Nazioni Unite, e per adire la Corte penale internazionale». Chissà come Bersani valuta tali caveat, secondo Ronzitti lesivi addirittura dell’articolo 11 della Costituzione (raccomandato è il ripudio della guerra, e la promozione di organizzazioni internazionali come l’Onu, Agenzie e Corti comprese). Resta che il candidato Premier ha parlato con saggezza, mentre Renzi è apparso vecchio, legato ai fallimenti di Blair e a un’America che con Bush credeva di avere la forza e il diritto dell’egemone che esporta la democrazia con le armi. Se il Mediterraneo è di nuovo Mare Nostro, vuol dire che siamo responsabili del suo principale conflitto. E che un messaggio va inviato a Netanyahu, per come ha reagito al nuovo status della Palestina: congelando le tasse raccolte da Israele per i terri- tori occupati (più di 100 milioni di dollari al mese), e annunciando 3000 nuovi alloggi illegali in Cisgiordania; da collocare fra Gerusalemme Est e la colonia di Maale Adumim, in modo che la West Bank si spezzi fra Nord e Sud e lo Stato palestinese non nasca mai. Dice Bersani: «Siamo davanti a due popoli: uno insicuro, l’altro umiliato ». Difficile confutarlo. Difficile confutarlo anche quando ritiene incompiute le rivoluzioni arabe: in Egitto, prendono ora d’assalto gli islamisti di Morsi. C’è poi l’Europa. Bersani forse approva la Federazione, anche se parole esplicite mancano. Non basta tuttavia cantare la Federazione, declassandola a nenia. Bisogna indicare la via, i modi, i tempi. Con urgenza, perché la crisi continua e sempre più serve un salto di qualità, che cambi l’Unione rendendola meno invisa ai cittadini. Il vantaggio è che la sinistra-Sel alleata a Bersani non è quella di ieri. Vendola è radicale anche sull’Europa: ma radicale nel volerla politica, e forte. Non è solo. Molte sinistre radicali e verdi chiedono un potere europeo vero, ma democratico: a cominciare dal Syriza greco. Lo voleva anche George Papandreou: fu trattato come appestato, da chi oggi comanda in Europa, quando promise ai cittadini un referendum sul rigore.
Forse Bersani potrebbe cominciare proprio da qui: domandandosi perché tanti greci dicono no a un’austerità che non ha «modernizzato» il Paese, come dice Monti, ma l’ha svenato, mortificato. Non dimentichiamo quel che Papandreou disse il 5 dicembre 2011 al congresso dei Verdi tedeschi: «Non basta che gli Stati diventino responsabili fiscalmente, per risolvere la crisi. Abbiamo bisogno di disciplina, certo, ma di politiche di crescita – a livello europeo – egualmente efficaci e responsabili. Il mio problema è aiutare la Grecia a non fare bancarotta. Ma anche aiutare l’Europa, lottando per un’Unione diversa». Si può, si deve parlare con gli appestati. Bersani può. Gli sconfitti sanno infinitamente più cose dei vincitori, sempre. Qualcosa su cui costruire c’è. C’è la disponibilità di Berlino alla Federazione. C’è una sua sotterranea riluttanza a scaricare Atene e a divenire l’affossatore dell’Unione. C’è la proposta, presentata dalla Commissione di Bruxelles il 28 novembre, di integrare politicamente i paesi euro in pochi anni. L’aggettivo federale manca ma non le idee federali: aumento del bilancio comune, potere dell’Europa di tassare e di indebitarsi in comune. C’è anche il riconoscimento che l’austerità può paralizzare le spese pubbliche generatrici di crescita. Nell’agenda Monti primeggia la lotta al debito pubblico, indispensabile. Ma con ricette dalla vista corta, visto che hanno causato soprattutto disoccupazione, miseria. Il 12 ottobre, Stefano Fassina (Pd) ha scritto un decisivo articolo sull’Huffington post, che s’intitolava «Un numerino errato »: evocato è uno studio del Fondo monetario sui «fiscal multipliers» (i numerini, appunto, «applicati per prevedere l’impatto delle manovre di finanza pubblica sul prodotto interno lordo» e sulla recessione). Conclusione dello studio: il prezzo delle discipline è ben più alto del previsto (nel caso greco, per 10 miliardi di euro di manovra di aggiustamento, la contrazione del Pil è stata di 20 miliardi, non di 5 come annunciato). «Il dato più drammatico – scrive Fassina – è politico, democratico e psicologico: l’enorme sofferenza sociale è inutile.
A causa del numerino errato il debito pubblico, in rapporto all’economia reale sempre più rattrappita, impazzisce. I populismi si gonfiano. I neonazisti arrivano in Parlamento».
Tutte queste cose l’Europa dovrà guardarle in faccia, non dopo le discipline ma subito. Così come è suicida rimandare a domani, solo perché l’emergenza euro l’ha cancellata, un’offensiva contro il disastro climatico che si proponga di far pagare chi emette anidride carbonica (
carbon tax).
Altrimenti come riscopriremo il ruolo politico, morale, culturale, economico che Bersani invoca in questi giorni?

Corriere 5.12.12
Il Pd si smarca dall'Udc e cerca un «altro» centro
Allargamento a Acli e pezzi della Cisl
di Maria Teresa Meli


ROMA — Pier Luigi Bersani lo aveva spiegato ai suoi un mesetto fa, giorno più, giorno meno: «Non inseguiamo più Casini, se vuole, deve essere lui a venire da noi». Contrariato per quello che giudica «un eccesso di tatticismo» da parte del leader dell'Udc, il segretario del Partito democratico ha deciso di invertire la rotta. E di costruirsi un centro fatto in casa.
Sì, perché Bersani sa bene di non potersi presentare alle elezioni solo con Sel (i socialisti verranno inglobati nelle liste del Pd). Perciò da qualche tempo ha maturato il convincimento che occorra tenere nella coalizione una pattuglia di moderati. Tanto più se resterà il Porcellum, magari con una soglia del 40 per cento per il premio di maggioranza: con questo sistema è meglio avere più liste alla Camera, mentre al Senato si andrà tutti in un unico listone. E infatti il segretario del Partito democratico tesse la sua tela anche con i sindaci Giuliano Pisapia, Michele Emiliano e Marco Doria: loro dovrebbero organizzare una sorta di raggruppamento civico con dentro i verdi di Angelo Bonelli, altre formazioni tipo Libertà e giustizia, e gli scissionisti del Idv (ieri in un angolo buio della Camera, seduti su un divanetto, Maurizio Migliavacca e Fabio Evangelisti hanno parlato a lungo dell'argomento).
Ma tornando al «centro fai da te» del Pd. L'obiettivo massimo sarebbe quello di coinvolgere le Acli di Andrea Olivero, il presidente della provincia di Trento Lorenzo Dellai, il ministro Andrea Riccardi, un pezzo della Cisl tramite Raffaele Bonanni, una fetta della Coldiretti, e, potendo, anche qualche esponente di «Italia futura», oltre che Bruno Tabacci e Giacomo Portas, che con la sua lista dei «Moderati per il Piemonte» ha un bel gruzzolo di consensi in quella regione, e che già collabora con il Partito democratico, visto che è deputato indipendente nel gruppo del Pd. Sono serbatoi di voti che darebbero consistenza ai moderati filo-Pd. Dopodiché se Casini vuole aggregarsi, ben venga, ma se dice di «no» i Democrat se ne faranno una ragione.
È questo l'obiettivo massimo di Bersani ed è un obiettivo difficile da raggiungere. Anche perché, come ha rivelato sul sito «Lettera 43» Ettore Colombo, un giornalista addentro alle segrete cose della Chiesa e del mondo cattolico, gli ambienti che gravitano attorno al presidente della Cei Angelo Bagnasco sono contrari all'ipotesi di un'alleanza elettorale tra una parte del cosiddetto gruppo di Todi e il centrosinistra. Forse l'operazione sarebbe più agevole se venisse coinvolto Beppe Fioroni, che ha buoni rapporti Oltretevere. Il responsabile Welfare farebbe una sorta di separazione consensuale con il Pd e lavorerebbe per allargare il perimetro dell'area dei moderati disposti a collaborare con il centrosinistra. Ma Fioroni al momento è restìo a intraprendere questa strada.
Se l'obiettivo massimo si rivelasse una missione impossibile, allora Bersani, con il pragmatismo che lo contraddistingue, è pronto a ripiegare su un progetto meno ambizioso. Cioè quello di dare vita a una lista centrista alleata del Pd di più modeste proporzioni con Giacomo Portas, Bruno Tabacci e qualche altro esponente dell'Api di Francesco Rutelli. Tanto il Porcellum prevede che il quorum per una lista collegata si abbassi fino al 2 per cento. Una cifra che può essere agevolmente raggiunta e anche superata da una formazione siffatta. È chiaro che al termine di questa strada, dopo le elezioni, nascerebbe il soggetto politico unitario che il segretario accarezza nei suoi sogni: «il grande Pd».
Ma c'è un possibile intoppo. E al Partito democratico stanno valutando con attenzione anche quello con l'occhio rivolto alle mosse dell'imprevedibile Silvio Berlusconi. Grazie al Porcellum, alleandosi anche con la Lega e «spacchettando» il centrodestra in diverse formazioni, l'ex presidente del Consiglio non punta certo a vincere, perché sa che non è più il tempo dei successi, ma a mettere in piedi una coalizione che si attesti attorno al 27 per cento. In questo modo Berlusconi ritiene che, grazie all'apporto fondamentale della Lega in Lombardia e Veneto, il centrosinistra non riuscirà a ottenere la maggioranza al Senato. E a quel punto si riaprirebbero tutti i giochi: il Cavaliere, a sorpresa, potrebbe spianare la strada al Monti bis, giocando un ruolo da protagonista per la costituzione di questo esecutivo. È un sospetto che non circola solo nel Partito democratico...

Corriere 5.12.12
Foto con pugno chiuso: è da stadio, non da Pci La «difesa» in nove foto
L'esultanza dello staff del leader. Giuntella: io festeggio così quando segno
di Fabrizio Roncone


ROMA — C'è una fotografia che, nei dintorni del Pd, è diventata ormai un caso, piccolo ma sfizioso assai. Nell'album dei ricordi la foto è all'ultima pagina: domenica sera, cinema Capranica, palco, la gran festa per la vittoria di Bersani, con lui che, raggiante per come può essere raggiante Bersani, si tiene abbracciato allo staff del suo comitato. Alessandra Moretti (portavoce). Roberto Speranza (coordinatore). Tommaso Giuntella (coordinatore dei giovani). Sarebbe solo una bella foto ricordo non fosse che i tre sopracitati bersaniani, felici e sorridenti, alzano il braccio con il pugno chiuso. Proprio così: nella bolgia, tra gli evviva e gli applausi, loro se ne stavano con i loro tre pugni sfacciatamente chiusi alla vecchia maniera. Nostalgia? Gesto di circostanza? Gaffe? Il caso è aperto (e poi vedremo come il Pd stia cercando di buttarla un po' sul ridere, aprendo il suo sito online con una sparata d'immagini di personaggi celebri che pure stringono il pugno e il titolo, comprensivo di video, d'una celebre canzone di Adriano Celentano, «Una carezza in un pugno»). Però nella storia personale di Bersani, il pugno chiuso ha un significato ben preciso. «No no, guardi... non c'era niente di comunista in quel mio pugno chiuso... » (voce di Alessandra Moretti piuttosto seccata) Sarà. «Sarà cosa? Quel gesto era solo pieno di felicità, esultanza, vittoria... ». E nient'altro? «Nient'altro».
Non c'era nemmeno un filino di comunismo, magari per puro opportunismo? «No, escluso: niente comunismo. Anche se... ». Coraggio... «No, dico: non è mica che poi la parola comunista mi spaventi, eh? ». La Moretti avrebbe preferito tacere (dice che stava preparando la sua partecipazione alla puntata di Ballarò, «non ho tempo, scusi ma devo studiare», certi documenti da studiare li aveva portati l'economista Stefano Fassina, «alla tivù è sempre dura», perché poi non basta avere lo sguardo — magnifico — di Carole Bouquet).
Roberto Speranza è un po' più rilassato, ma anche lui inizia facendo quello piuttosto sorpreso (lui, tra l'altro, a differenza di Moretti, che nelle elezioni provinciali del 2007, a Vicenza, sostenne Giorgio Carollo, ex coordinatore regionale di Forza Italia, viene da una storia tutta di sinistra, essendo stato prima nel movimento studentesco e poi, nei Ds, presidente nazionale della Sinistra giovanile).
«Sul serio è così importante sapere il significato di quel pungo chiuso?».
Importante, no: interessante, però, sì.
«Ho stretto il pugno per genuina e spontanea esultanza. Tutto qui».
Lei pensa che...
«Io trovo singolare che, all'indomani di una grande vittoria, si sia aperta una simile discussione e...».
No, guardi, non c'è dibattito: però quella foto, in qualche modo, ha colpito l'immaginario di molti.
«Vabbé, comunque non dovete dargli una connotazione politica, assolutamente no... Capito? As-so-lu-ta-men-te!».
Sì sì, va bene: ma davvero è così grave chiederle se c'era qualcosa di comunista in quel pugno chiuso?
«Non è grave, è fuori luogo! Sa cosa ha scritto su Twitter Tommaso Giuntella? Che lui esulta in quel modo, e cioè con il pugno chiuso, ogni volta che segna Totti allo stadio e ogni volta che segna lui, personalmente, in parrocchia, sul campetto dell'oratorio...».
Malcelato nervosismo. Al partito però smussano, capiscono che il caso può diventare inutilmente spinosetto, e così pubblicano una serie d'immagini di personalità famose che, al pari dei tre collaboratori di Bersani, stringono il pugno (Alcide De Gasperi, in bianco e nero, poi Angela Merkel, Jesse Owens, Barack Obama, il cardinale Tarcisio Bertone, Nelson Mandela, Tommie Smith e John Carlos e John Kerry).
Segue grossa didascalia: «A volte, checché se ne dica, un pugno alzato significa semplicemente un saluto, un incitamento o una vittoria».
Che poi, tra l'altro, è quello che pensava pure Ernesto Guevara de la Serna, detto El Che.

Repubblica 5.12.12
Giuntella: Fisichella mi ha ferito, non si tratta così uno scout
“Anche De Gasperi e Obama alzarono il pugno chiuso”
di Francesca Giuliani


ROMA — Al banco del bar tra Palazzo Chigi e la sede del Comitato per Bersani, chi lo riconosce lo ferma: «Fisichella t’ha strillato, eh?»: Tommaso Giuntella, che era nella foto della vittoria con Bersani, Alessandra Moretti e Roberto Speranza, risponde col sorriso, soprattutto sdrammatizzando le critiche del monsignore che, commentando la fotografia della vittoria delle primarie, ha detto, riferendosi ai pugni chiusi, che lì «non c’era niente di nuovo».
Cos’era quel pugno?
«Un pugno di vittoria: come quando la Roma segna allo stadio. Come quello di un partigiano a un funerale. Se avessi avuto le mani libere le avrei alzate entrambe, come del resto aveva fatto Bersani proprio un momento prima. La polemica di Fisichella era fuori posto».
È un modo per rinnegare una certa tradizione comunista?
«Credo che valore fondamentale del Partito democratico sia proprio il mettere da parte certi totem, così come non si adopera più il termine “compagno”: la sera della vittoria delle primarie non lo avrebbe fatto nessuno parlando dal palco. Il nostro pugno chiuso era come quello di una certa immagine di De Gasperi, come l’esultanza di Mandela o di Obama durante un discorso... Dirò anche che tante foto di personalità diverse ieri sono finite nell’homepage del sito del Pd, insieme alla clip della canzone di Adriano Celentano: “Una carezza in un pugno”».
Musica d’altri tempi, però...
«Ma la mia preferita è la versione ska degli Arpioni».
Da cattolico, a monsignor Fisichella cosa vorrebbe dire?
«Che sono rimasto ferito dalle sue parole. Io, frequentando la Chiesa e gli scout da quando ero bambino, sono abituato ad essere chiamato da parte dai miei pastori, di cui accolgo gli insegnamenti e le critiche, piuttosto che essere richiamato così».

il Fatto 5.12.12
Bersani e Letta le annunciano, ma non dicono come e quando
Primarie per i parlamentari Nel Pd c’è aria di battaglia
Ma chi sceglie i parlamentari Pd
Bersani assicura che una consultazione ci sarà ma la tentazione è quella di limitare i votanti
di Caterina Perniconi


Come si può dubitare che uno come me, che ha fatto le primarie, non le farà anche per i parlamentari? ” chiede retoricamente il candidato premier del centrosinistra Pier Luigi Bersani. Sarà, ma a Montecitorio in molti pensano (e forse sperano) il contrario.
“Ha detto ampia consultazione democratica, mica primarie aperte – i commenti in Transatlantico – se votano gli iscritti stiamo tranquilli”. Infatti la preoccupazione di non staccare di nuovo il biglietto per Roma è parecchio diffusa. Il Porcellum è vivo e vegeto e le liste bloccate hanno garantito i più fidati, non i più popolari. Con una consultazione dei cittadini sarebbe tutto da rifare. Però i vertici Pd insistono, anche in diretta tv: “Le primarie per deputati e senatori si fanno di sicuro” ha detto Enrico Letta domenica sera al Tg3.
Ma con quali regole si possono eleggere democraticamente i parlamentari? Dopo le contestazioni a Beppe Grillo, per le sue “Parlamentarie” a misura di partito, il Pd rischia di fare lo stesso. Abbiamo provato a chiederlo a Nico Stumpo, il braccio organizzativo delle primarie per la leadership, l’uomo “Viminale” che ha raccolto i dati in arrivo dai territori. “Sono ancora impegnato nei conteggi” risponde, ma promette di spiegarcelo oggi. Proviamo allora con il consigliere di Bersani, il professor Miguel Gotor: “Non sono la persona giusta per parlare di queste cose – taglia corto – il Pd deve impegnarsi ancora per la modifica del Porcellum”. Ma l’accordo sembra sempre più improbabile. “Se restasse questa legge allora l’ipotesi di indire delle primarie può essere presa in considerazione”. La prende alla larga Gotor, eppure il tempo stringe. Se si votasse il 10 febbraio le liste andrebbero presentate entro gli ultimi giorni di dicembre. Fine gennaio il limite per un voto a marzo.
La notizia di una consultazione che potrebbe restare chiusa ai soli iscritti o, nell’ipotesi di tempi più lunghi, aperta ai 3 milioni di elettori registrati alle ultime primarie è arrivata fino a Firenze. Dove pare non sia stata gradita affatto. “Le primarie hanno senso se sono costruite con la possibilità di partecipare per tutti gli elettori, non solo gli iscritti” dice il costituzionalista Francesco Clementi, dello staff più stretto di Matteo Renzi. La sensazione è quella di ripartire con il balletto visto fino a domenica. Pensate che Bersani voglia stringere il cerchio? “Lo temiamo” dice Clementi.
MENTRE DA MILANO è Pippo Civati è suonare la sveglia al partito: “Non si tratta di una questione minore, tecnica, politicistica. É la cosa più importante da fare. Da fare alla svelta, subito, perché tra qualche settimana si voterà. E da fare bene, perché le regole e la possibilità che tutti si possano informare adeguatamente ne sono le precondizioni ineludibili”. Già, le regole. Si esce dalla battaglia delle ultime primarie e se ne apre un’altra. Civati insieme al senatore Salvatore Vassallo avevano presentato una bozza di regolamento a gennaio in direzione nazionale. Che non è stato mai approvato perché Bersani e Rosy Bindi temevano fosse una dimostrazione della non volontà del Pd di cambiare la legge elettorale. “Poi però il segretario si è impegnato personalmente a indirle” spiega Vassallo “e noi ci aspettiamo che lo faccia e che le renda più aperte possibile”. Ma è già nel-l’aria la famosa frase: e se poi a scegliere i parlamentari fossero gli elettori di destra?
Le regole proposte dal duo Ci-vati-Vassallo prevedono la candidatura previa consegna di firme degli iscritti, le preferenze su territorio provinciale, la doppia preferenza di genere e una ripartizione nelle liste già prevista sulla base del numero degli eletti democratici alle ultime elezioni. Si può fare? “Il segretario dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini, un bersaniano doc, – dice Vassallo – lo ha definito ‘un sistema convincente’ sicuramente si può migliorare ma è un’ottima base”. Cercare una sintesi, però, non sarà facile. C’è chi propone di tutto: per la prodiana Marina Magistrelli dev’essere candidato solo chi ha un lavoro. “La politica non deve essere una professione – dice la senatrice – chi fa politica di professione e riesce ad andare in pensione senza aver mai lavorato è esattamente ciò che il Pd deve debellare”. Sicura? “Alcuni trenta-quarantenni che oggi fanno politica non hanno mai lavorato, e saremo costretti a trovar loro un posto fino alla pensione. Un onere che le comunità locali non hanno certo voglia di accollarsi”. Sicurissima.

Repubblica 5.12.12
Il segretario è favorevole. Civati chiede una direzione per fissare al più presto le regole
La base dei democratici vuole il bis “Primarie per correre al Parlamento”
di Giovanna Casadio


ROMA — Dario Franceschini, in passato tra i meno entusiasti, dice che «sì, una forma di consultazione ci vorrà». Se resta il Porcellum, impensabile non escogitare un sistema di scelta dal basso dei parlamentari. L’onda lunga delle primarie nel Pd non si ferma. E all’indomani della vittoria di Bersani al ballottaggio, mentre nel partito si discute di deroghe (agli “elefanti”, cioè alla vecchia guardia con tanta esperienza e altrettanti anni di legislature alle spalle) e di ricambio obbligato, vengono formalmente chieste le primarie.
Pippo Civati ha inviato una lettera alla presidente del Pd Rosy Bindi sollecitando la riunione della direzione e/o dell’Assemblea per fissare come e quando fare le primarie. I parlamentari democratici — dice — non possono che essere scelti in questo modo. Non c’è tempo da perdere. Con il discredito della politica, ma anche la voglia di partecipare che il popolo di centrosinistra ha mostrato, le
primarie parlamentari, slogan della campagna di Civati, prima partono e meglio è. Ma in Emilia Romagna e in Liguria la scelta dal basso dei parlamentari è già decisa dai Pd locali. I due giovani segretari democratici, Stefano Bonaccini e Lorenzo Basso, bersaniani entrambi, convocheranno le direzioni (venerdì 14 in Emilia; giovedì 13 in Liguria) per avviare la procedura, stabilire la data, decidere il regolamento. D’accordo i renziani. Matteo Richetti, presidente dell’assemblea regionale emiliana, braccio destro di Renzi, ritiene siano le primarie la strada maestra per le candidature alle prossime politiche.
Bersani del resto, apre. C’è però un problema di tempi e anche di calibrare novità e competenze dei candidati. Ci vuole un regolamento adeguato. Quello messo a punto da Civati-Vassallo prevedeva una quota del 20% comunque riservata alla segreteria e un meccanismo di voto su base provinciale. Maurizio Migliavacca, capo della segreteria politica, è cauto, parla di «una qualche forma di coinvolgimento» dei cittadini, senza addentrarsi. «Sia Emilia che Liguria sono state al ballottaggio tra le regioni più bersaniane: noi cominciamo ora per non trovarci poi in ritardo», spiega Basso, che le ha annunciate in un post su facebook. Bonaccini ricorda che già un paio di mesi fa ha avuto mandato dalla direzione regionale all’unanimità di farle, se la legge “porcata” non fosse cambiata. Dal punto di vista pratico, sono un rompicapo.
Il dibattito nel Pd è di lunga data. Se ne parlò in gennaio, quando — ricorda Civati — «presentammo in direzione proposta e regolamento: non furono discussi, sembrava danneggiassero l’immagine di un Pd che si impegnava pancia a terra sulla riforma elettorale». Allora Bindi frenò, così Finocchiaro, Franceschini e lo stesso segretario si mostrò tiepido. La prima opzione era cambiare il Porcellum. Ma ora? Stefano Fassina le dà per scontate, anche se da decidere è il meccanismo: «Se non si modifica il Porcellum, ci sarà un passaggio di consultazione per la scelta dei parlamentari». Si potrebbero evitare le deroghe, nel senso che la nomenklatura si mette a sua volta in gioco nelle primarie? Civati lo esclude: «Le deroghe per candidarsi ci vogliono comunque». Sandro Gozi, che con Civati fece la battaglia per le primarie, avverte: «Bisogna decidere subito». L’obiettivo è tenerle entro il 20 gennaio. A Montecitorio, i deputati ne discutono. Circolano battute feroci, tipo: «Meglio una riforma elettorale con le preferenze, che la scelta con le primarie: almeno, ai seggi ufficiali ci sono i carabinieri».

La Stampa 5.12.12
Il Pd pensa alle primarie anche per il Parlamento
Una quota sarà scelta “dall’alto”. Resta il nodo della legge elettorale
di Paolo Festuccia


Primarie sì, ma quando e come. E soprattutto con quale legge elettorale? L’attuale o la «probabile» (o meglio «improbabile», visto che l’accordo tra le forze politiche non c’è? È questo il dibattito vero nel Partito democratico. Perché poi, per dirla, alla Bersani, «le tecnicalità», o meglio, «le modalità e i tempi si trovano». Ma è chiaro che il nodo sul «come» si andrà al voto resta cruciale, non foss’altro per i confini che ne deriverebbero sui collegi. A cominciare dal porcellum, e ai rischi che creano collegi troppo ampi per far disputare la competizione tra candidati. Da qui ne discende il primo corollario: saranno di collegio o circoscrizionali? E come limare le differenze tra Camera e Senato? Ma al di là dei dubbi, la macchina organizzativa del Pd è già allestita. Con l’ultima incognita (e non di poco conto) sulla data del voto: tempi stretti, anzi strettissimi, nel caso di eventuale election-day come chiede il Pdl.
Ma, inciampi di governo a parte, la road map del Pd è già abbastanza stilata, probabilmente già «cucita» pure per un nuovo impianto di legge elettorale. Ipotesi, certo. Ma di fatto sul fronte della selezione dei candidati appare probabile il ricorso alle primarie riservando una quota, 20-30 per cento alle scelte di direttivo per le cosiddette «competenze». Del resto, spiega Bersani, «ci vuole pure qualcuno che capisca di finanza pubblica». Ma non solo. Ci sono poi quelli indicati dalle correnti di minoranza, e un’ulteriore quota per le cosiddette quote rosa.
Numeri e seggi alla mano, Romano Prodi resta comunque tra coloro che forse proprio attraverso le primarie auspica il ricambio generazionale. L’ex premier è stato tra i primissimi a parlare di «primarie di collegio», magari, «legate a una legge elettorale che restituisca voce ai cittadini», e così si è espresso pure Enrico Letta. Anche se, osserva Gian Claudio Bressa, il metodo delle primarie potrebbe far saltare alcune esperienze significative. «Tra noi - spiega Bressa - ci sono parlamentari indispensabili, gente che fa funzionare le commissioni». Tema quest’ultimo caro anche al segretario del Pd che non ha mancato di ribadire, che sì è necessario mettere in campo «largamente una nuova generazione, ma con qualche presidio di esperienza, perché l’Italia deve essere governata e non si possono fare cose stravaganti». Opinione condivisa anche da chi, dentro il Pd, preferirebbe una selezione verticistica piuttosto che la selezione tra i cittadini. La discussione, dunque, resta aperta. Come resta in piedi l’idea, ad esempio, dell’ex ministro Pd Beppe Fioroni secondo il quale il miglior modo per selezionare la classe dirigente, resta quello di una nuova «legge elettorale con le preferenze». Diversamente la pensa Salvatore Vassallo: «C’è un impegno del segretario nel farle, anche se nella realtà dei fatti in alcune regioni c’è disponibilità in altre no».

La Stampa 5.12.12
Caro Bersani, ecco cosa serve all’Italia
di Bill Emmott


Caro onorevole Bersani, congratulazioni per la netta e formidabile vittoria nelle primarie del suo partito. Congratulazioni anche per il modo molto civile in cui si sono svolte le votazioni. La radicalizzazione e il linguaggio brutale e aggressivo sono diventate una caratteristica preoccupante della politica italiana negli ultimi anni, soprattutto agli occhi di un affezionato osservatore straniero come me, quindi è molto positivo che il Pd sia riuscito a dare un esempio migliore.
Ora lei ha davanti a sé una sfida molto più grande e importante. A questo punto lei è l’uomo che il mondo indica come più probabile successore del presidente Mario Monti a Palazzo Chigi. Ci saranno, al massimo, quattro mesi prima delle elezioni e i sondaggi la danno vincente. Questa posizione non le dà solo una grande opportunità ma anche un’altrettanto grande responsabilità.
Una responsabilità, mi pare, che si compone di due parti, ognuna piena di domande.
La prima è che lei ora deve assumere il ruolo di unificatore della sua nazione e non essere fonte di divisione. Ha vinto le primarie con il forte sostegno delle federazioni sindacali e di Sel di Nichi Vendola, che stanno a sinistra del Pd. La mia domanda è se ha imparato la lezione dell’esperienza americana delle primarie, perfezionata nel corso di molti decenni.
Questa esperienza dimostra chiaramente che per vincere le primarie è necessario fare appello allo zoccolo duro del partito, a frange che sono spesso più estremiste dei normali elettori. Ma dopo aver vinto le primarie, i vincitori devono poi passare al centro, cercando di attirare il sostegno non solo della loro base, ma di un gruppo più ampio di elettori. È pronto a farlo?
Dopotutto, è necessario conservare l’appoggio di tutti coloro che hanno votato per il sindaco Renzi, che altrimenti l’abbandoneranno per i partiti di centro o anche per Beppe Grillo. L’Italia da tempo è troppo divisa, troppo occupata da un conflitto feroce, irriducibile tra destra e sinistra, che ha lasciato il Paese paralizzato. Questa è una parte importante di ciò che ha mandato «la mia ragazza», l’Italia, in coma, il titolo del mio nuovo documentario.
Per aiutare l’Italia a uscire da questo coma i leader politici hanno bisogno di superare le loro divisioni, di parlare a tutta la nazione e non solo a una parte. È pronto a fare da ponte?
La seconda responsabilità riguarda la verità sul coma dell’Italia, sulla malattia che l’ha portata a questo punto. Come candidato alla Presidenza del Consiglio, lei si offre come soluzione ai problemi dell’Italia. Va benissimo. Ma prima di offrire una soluzione è necessario capire e definire quali sono i problemi.
Lei è certo di capire davvero quali sono questi problemi? Vorrei che lei dicesse, al popolo italiano e agli osservatori stranieri come me, quali sono, a suo giudizio, i problemi del suo Paese. Per spiegare quello che voglio dire, le porrò una serie di domande cui occorre, secondo me, dare risposta.
Perché l’Italia negli ultimi vent’anni ha avuto una crescita economica molto più lenta rispetto ai suoi vicini europei, sia con i governi di sinistra come con quelli di destra?
Come pensa si creino posti di lavoro in un’economia moderna, aperta, globalizzata? In altre parole, lei sostiene il capitalismo come il modo grazie al quale si creano impieghi sostenibili e ben retribuiti? Se è così, è pronto a individuare gli ostacoli al capitalismo in Italia, e a rimuoverli?
Perché secondo lei negli ultimi dieci anni tanti giovani italiani altamente qualificati sono emigrati? Potrebbe essere che credono che il merito e la creatività non siano apprezzati e riconosciuti in Italia? Lei ammette il ruolo svolto dalla sinistra nel distruggere il merito e bloccare la creatività attraverso l’assistenzialismo e la vostra complicità con la crescente politicizzazione di un numero sempre maggiore di istituzioni? Comprende la responsabilità della sinistra nell’aver trasformato le università italiane in istituzioni di terzo quart’ordine secondo i parametri internazionali?
È facile dare la colpa a Berlusconi per aver svilito la giustizia e minato lo Stato di diritto nel corso degli ultimi 20 anni. Ma lei riconosce anche la responsabilità della sinistra in questo terribile processo, sia attraverso il blocco delle riforme e di ogni passo in avanti, per via della vostra spaventosa incapacità di far passare una legge sul conflitto d’interessi, sia per le complicità a livello locale della sinistra con la mafia?
Potrei andare avanti. Ci sono tante altre domande da porsi sugli ostacoli frapposti alla rinascita dell’Italia, incluse le tasse, la mancanza di concorrenza, la concentrazione dei media, il disinteresse per la cultura, eccetera. La domanda più importante di tutte per lei è il lavoro: siete disposti a introdurre una sola legge per tutti i lavoratori, che tuteli i giovani ma garantisca anche la flessibilità che è stata introdotta con tanto successo in Danimarca e Svezia. Su questo tema il suo collega senatore Pietro Ichino sta combattendo all’interno del partito una battaglia piuttosto solitaria. Buona fortuna.
Spero che possa identificare il problema e dimostrare che ha realmente capito ciò di cui l’Italia ha bisogno per poter rivivere e prosperare.
Traduzione di Carla Reschia

il Fatto 5.12.12
I moderati in allarme: ora Pd troppo a sinistra


L’ESITO delle primarie del centrosinistra e la possibile operazione “autosufficienza” del Pd costringe il fronte dei montiani a ricalibrare meglio la sua offerta sull'elettorato moderato deluso dall’esperienza berlusconiana.
La proposta di Bersani si è definita in modo netto “con un baricentro molto più spostato a sinistra rispetto al progetto originario del Pd”, avverte Italia Futura, il think tank montezemoliano che aderisce al manifesto Verso la Terza Repubblica. “Bersani è diventato leader grazie ai voti di Vendola e ciò non potrà non avere conseguenze”, spiegano i montezemoliani che rilanciano invece il loro movimento popolare, liberale e riformista per proporre un’alternativa a quel “duello tra un’Unione 2.0 e una Forza Italia 2.0 che ci riporterebbe nel pieno della Seconda Repubblica”. Casini concorda. “Le preoccupazioni dei montezemoliani sono opinioni ampiamente condivise”. D’altra parte è stato proprio lui il primo a ripetere che se la scelta del Pd è quella di procedere con Vendola, la loro resta “un’opzione diversa”.

il Fatto 5.12.12
Beppe Fioroni
“Se rimane il Porcellum siamo costretti alle primarie”
di Wanda Marra


Beppe Fioroni: meglio le preferenze, ma se resta il Porcellum i Democratici non potranno fare altro che riaprire i gazebo. Nel partito c’è chi vorrebbe restringerle alla cerchia degli iscritti. Il renziano Giorgio Gori: “Facciamo votare tutti”. Ma i tempi sembrano stretti: se si va alle urne il 10 febbraio, ad esempio, le liste dovrebbero essere presentate entro fine dicembre
Sì è vero, in tre frazioni di Viterbo Bersani ha perso il ballottaggio. Ma vince a Viterbo città”. Il democratico Beppe Fioroni allarga le braccia, alza gli occhi al cielo. “E poi abbiamo vinto nella provincia, 61 a 39”. Il risultato complessivo però dice che a Viterbo città il segretario va sotto. “Di 85 voti”, precisa. Comunque un bello smacco per uno che - a sottolineare come Viterbo sia un suo feudo - su Twitter si chiama Egidio da Viterbo. E che del segretario democratico è un grande elettore. In Transatlantico passa Ugo Sposetti, l’altro grande elettore di Viterbo, ma ex Pci, non ex Dc, come Fioroni. “Lo so, lo so che stai dicendo che è colpa mia”. E l’altro: “No comment”. L’Italia non ha rottamato i grandi vecchi della politica italiana, ma Viterbo ha rottamato i suoi. “L’analisi non la faccio e non la voglio fare”. Fioroni non ha voglia di polemizzare. Sa bene che ora comincia la partita vera, quella elettorale, e che casomai è meglio mandare messaggi in codice, piuttosto che esternare.
Adesso il Pd si è liberato dell’incubo Renzi...
Per carità, Matteo è un mio amico carissimo. Io gli voglio bene. Gli ho pure mandato un sms, invitandolo a non mollare.
Ah certo, siete stati scout entrambi.
Sì: gli ho ricordato che la sua strada è all’inizio.
Scusi onorevole, ma visto che siete così amici perché non l’ha sostenuto?
La pensiamo troppo diversamente, sulla politica estera perché io ritengo che i paesi arabi sono il giardino della nostra casa e noi il loro giardino; sul lavoro, perché lui è iper liberista; sull’agenda Monti che lui vuole rottamare. Io sono troppo cattolico. Lui è per una sinistra nuova, libera.
Insomma, è troppo di sinistra?
Lui è un liberal, ma è più a destra di me. Nei suoi interventi parole come sussidiarietà, solidarietà, giustizia sociale non le ho molto sentite. Io sono un cattolico democratico, cosa diversa da una sinistra libera e da una sinistra laburista.
Mi sta dicendo che lei, ex democristiano, è più vicino a un ex comunista come Bersani?
Il Pd è un partito plurale. Bersani vuole tenere insieme l’asse dei progressisti e quello dei moderati... Anzi io credo di sapere perché Bersani ha citato Giovanni XXIII nel Pantheon.
Perché?
Andiamo al 1962, quando Moro si rese conto che rimanere attaccati all’idea di un governo centrista avrebbe favorito le forze rivoluzionarie. E allora pensò ad aprire ai socialisti di Nenni. Una cosa incredibile per quei tempi. Fanfani incontrò Papa Giovanni sul treno e gli espresse tutte le sue perplessità. E lui rispose. “Li vede quel povero bracciante e quel ricco possidente che salgono insieme verso la Chiesa? Non è importante sapere da dove vengono ma dove vanno e cosa faranno per il bene comune”.
Ma non sarà che Renzi l’ha tirata troppo in mezzo? Lei si rottama?
Non rispondo a questa domanda. E la rottamazione è un concetto che si risolve in un solo modo: cambiamo la legge elettorale, mettiamo le preferenze, così ognuno se la gioca.
Ma se rimane il Porcellum bisognerà fare le primarie per i parlamentari?
Per forza, a quel punto non c’è alternativa.
Lei chiede la deroga?
Perché lo chiede a me che sto fuori di soli 100 giorni dalla regola? Ma deciderà il partito.
Tornando a Renzi, cosa dovrebbe fare?
Nel 2009 l’area Franceschini prese gli stessi voti di Renzi e ha lavorato per il partito lealmente pur stando all’opposizione.
Ma lui ha detto che non vuole fare una correntina.
Deve lavorare per il partito, in vista delle elezioni, con il suo autorevole peso, come tutti noi.
Ma lei ce lo vede?
Non ho capito perché quando si parla di noi, si dice corrente, per lui si deve dire area. Dovrà trovare le forme per rappresentare politicamente le proprie idee. È evidente che i suoi saranno in Parlamento.
Lei ha fatto una vera campagna per Bersani.
Sì, ho battuto la Penisola dalla Sicilia al Friuli.
Quindi ora si aspetta qualcosa. Sarà ministro in un eventuale governo Bersani?
Io sono stato ministro per 18 mesi nel governo Prodi, quasi per sbaglio, e con l’ostilità di molti. Altri sono stati ininterrottamente ministri per tutti i governi di centrosinistra. Perché evidentemente più “meritevoli”.

il Fatto 5.12.12
Lo spin doctor del sindaco
Gori: “Renzi non farà il ticket Il camper? Solo parcheggiato”
di Davide Vecchi


Milano La sconfitta alle primarie non è la fine ma semplicemente “una nuova partenza”. Il camper di Matteo Renzi “è solo parcheggiato” e il silenzio di questi giorni va letto “come umano riposo”. Che la rottamazione sia soltanto un discorso sospeso si comprende ascoltando Giorgio Gori che ieri ha concluso la giornata incontrando in Regione Lombardia il consigliere del Pd, Alessandro Alfieri, riferimento renziano nel cuore della Padania e altri coordinatori dei comitati lombardi. Due ore filate a parlare di partito (Gori è iscritto al Pd di Bergamo), primarie perse e sfide da giocare e, magari, vincere. “Come ha detto Matteo era giusto provarci, è stato solo il primo game del primo set”.
E adesso è tornato a fare il sindaco?
Dopo una campagna elettorale a ritmi pazzeschi per tre mesi ha comprensibilmente bisogno di rifiatare, pensare con tranquillità. Il capitale raccolto non si dissolve all’istante e la palla ora è nel campo di Bersani, ha vinto con merito le primarie e deve decidere come valorizzare il contributo di innovazione rappresentato da Matteo, come renderlo visibile agli elettori. Ha detto chiaramente che vuole rinnovare. Vediamo.
Rosy Bindi e Massimo D’Alema sono stati i primi a festeggiare la vittoria di Pier Luigi Bersani.
Sì, ho visto. E ho pensato ‘rieccoli’. Ma il consenso che Bersani ha oggi è molto ampio e se vuole ha la forza di cambiare. Se lo farà capiremo che il messaggio è passato. Basta guardare i sondaggi.
Il Pd ha guadagnato dieci punti
Molto è merito di Matteo. Ritengo Bersani una persona intelligente, non penso che tornerà indietro presentando vecchi nomi, sarebbe un autogol.
Sembra ormai certo che rimarrà il Porcellum.
Un motivo in più per fare le primarie per scegliere i candidati, questo è l’unico modo per dare la parola agli elettori.
Ma nel Porcellum non ci sono collegi, non c’è rapporto fra candidati e territorio. Come si organizzano le primarie?
Se si vogliono fare si disegnano i collegi, non è impossibile né complicato. Serve la volontà.
Voi presenterete dei candidati immagino, avete già pensato a qualcuno?
Certo, ci sono un sacco di persone valide ma sinceramente ancora non è stato argomento di confronto, ci sarà tempo per ragionarci. Vorremo delle primarie aperte.
Dove avete sbagliato?
Noi abbiamo fatto un errore: non abbiamo enfatizzato abbastanza la data del primo turno, il 25 novembre. Non abbiamo spiegato che chi voleva sostenere Matteo doveva farlo subito, ma onestamente non ci aspettavamo che poi sarebbe stato complicato votare al secondo turno. Hanno cambiato le regole il 26 rendendole invalicabili. Ma se fossero state primarie aperte avremo raggiunto i 500mila elettori, come è venuto con Hollande in Francia.
Il partito ha aiutato il suo segretario in pratica.
Il 98% dell’apparato era con Bersani. Si è visto al Sud, in aree poco inclini al voto d’opinione.
Se Bersani chiamasse Renzi in un futuro governo?
Non credo alla possibilità del ticket, nessun ticket. Matteo è trasparente, quello che dice fa. Ha detto che non si farà coinvolgere, che non vuole alcun premio di consolazione e questo farà.
Lo ha suggerito lei? Sa che si è detto spesso che lei ne è il burattinaio, che lo teleguida.
Si è detto spesso ma è evidentemente una stupidaggine. Matteo non è pilotabile da nessuno, si confronta ma decide da solo e questa è una sua caratteristica, una sua virtù.
C’è stato un periodo in cui vi siete allontanati poco prima delle primarie. Questo è corretto?
No, anche questo è stato scritto e anche questo non è vero. Non abbiamo mai smesso di lavorare insieme, a volte abbiamo osservato con distacco e approcci diversi alcune trovate. Tutto qui.
Alcune trovate? Come la cena milanese con Andrea Serra? Non era d’accordo?
Non c’era ragione di non confrontarsi con la comunità finanziaria, anzi, ma sicuramente quella serata è stata strumentalizzata e, come ha detto Matteo, col senno di poi, avremmo forse dovuto evitare di porgere il fianco a facili speculazioni. Ma non l’ho mai ritenuta un errore.
Vi state organizzando anche per le regionali?
Si, io sono molto motivato a dare una mano a Umberto Ambrosoli dopo le primarie. Nella sua candidatura si riconoscono molti dei volontari che hanno lavorato con noi.
Ormai parla da politico consumato. Ci manca un attacco al Movimento 5 Stelle...
Io ho la convinzione che il consenso che si è raccolto attorno a Grillo sia proporzionale alla difficoltà dei partiti a promuovere innovazione: nei contenuti, nei volti e nello stesso stile della politica. Con una politica meno sorda Grillo non avrebbe mai avuto questi numeri.
I renziani sono un po’ i grillini del Pd...
Dipende dalla capacità dei partiti di rinnovarsi. Vediamo se e come saranno capaci di rendersi presentabili agli elettori.
La vittoria di Bersani ha spinto Silvio Berlusconi a valutare di ricandidarsi..
Se avesse avuto a cuore il destino del centrodestra avrebbe dovuto favorire una successione molto prima, viceversa tende a ostacolare il passaggio a una nuova leadership. Se si ricandida magari raccoglie un pugno di voti in più, ma fa il danno del centrodestra. Manca totalmente la dialettica.
Non ci sono rottamatori in camper. A proposito: che fine ha fatto quello di Renzi?
Non è in garage e non ci andrà, abbiamo ancora molti chilometri da fare.

La Stampa 5.12.12
Verso il 2013 dopo il ballottaggio
Metà degli elettori di Renzi non voterà il centrosinistra
di Marco Castelnuovo


È la domanda delle domande. Che faranno gli elettori di Renzi? Il sindaco di Firenze ha allargato il campo del centrosinistra, portando al voto per le primarie del centrosinistra migliaia di persone che in precedenza mai avevano votato il Pd o i partiti alleati. In una competizione particolare come le elezioni primarie, ha inoltre agganciato elettori normalmente più tiepidi. Si calcola che il 42% di chi ha scelto al primo turno Renzi, abbia votato per la prima volta a un’iniziativa di partito come quella delle primarie.
Ma ora che Renzi ha perso, quanti di questi elettori renziani continueranno a votare il centrosinistra? Meno di uno su due. Secondo i dati del gruppo di ricerca sulle primarie guidato dai professori Luciano Fasano e Fulvio Venturino per conto della Sisp, Società Italiana di Scienza Politica infatti, solo il 49% di chi ha scelto Renzi al ballottaggio (circa mezzo milione di votanti) sceglierà sicuramente il centrosinistra alle politiche di primavera. Il 51% invece resta sospeso. Più di uno su tre (il 35%) deciderà solo al momento del voto, pronta a farsi convincere da Bersani ma attenta a quel che accade dall’altra parte. Il 12% voterà per un’altra coalizione, il 4% non andrà a votare. «In generale, i sostenitori di Renzi mostrano scarsa fedeltà alla coalizione di centrosinistra - spiega il professor Fasano -. Un dato che fa il paio con quanto rilevato già in occasione delle primarie comunali di Firenze nel 2009, alle quali Renzi era in lizza come candidato alla carica di sindaco». In caso di esito opposto, cioè di una vittoria di Renzi, due bersaniani su tre erano comunque disposti a votare per un centrosinistra con il rottamatore candidato premier. Una cifra sensibilmente più alta. Ed è interessante notare la differenza tra coloro che già oggi annunciano di non votare per il centrosinistra in caso di vittoria dell’avversario interno. Il 16% dei renziani, contro il 7% dei bersaniani. Meno della metà. «L’elettorato di Renzi spiega Fasano -, rappresenta senza dubbio un elettorato più volatile, la cui mobilitazione a favore del centrosinistra in occasione delle prossime elezioni politiche non può darsi a priori per scontata». Secondo Fasano e Venturino, «come sottolineato da Elisabetta Gualmini nel suo editoriale su “La Stampa” di lunedì, a questo punto spetta a Bersani non restringere i confini del centrosinistra dentro un perimetro troppo stretto».
Per il resto è interessante notare che gli elettorati di Bersani e Renzi si assomigliano per genere, titolo di studio e classe di età. Chi ha votato Vendola al primo turno ha scelto massicciamente, come previsto, Bersani. C’è infine una minima percentuale (circa il 2%) - spiega Venturino - «una piccolissima quota di selettori, pari al 2 per cento, che ha votato per uno dei due candidati al primo turno e per il suo competitore al ballottaggio».
"twitter@chedisagio"

l’Unità 5.12.12
Landini: «Basta accordi separati» Oggi lo sciopero della Fiom
Il segretario della Fiom spiega lo sciopero di oggi e domani per il lavoro
e la democrazia: «Respingiamo il modello Fiat per tutto il settore»
di M. Fr.


ROMA Maurizio Landini questa mattina sarà a Milano e domani a Padova. Lo sciopero generale dei metalmeccanici è stato suddiviso territorialmente su due giorni per avere più visibilità.
Landini, perché la Fiom torna in piazza?
«Torniamo in piazza per il lavoro e la democrazia. Per il lavoro siamo di fronte alla cancellazione del contratto nazionale confermata dall’accordo separato sulla produttività come strada per uscire dalla crisi. Per la democrazia perché tutte queste cose avvengono evitando che i lavoratori si esprimano con il voto».
Mentre voi sarete in piazza probabilmente Federmeccanica, Fim, Uilm e Ugl firmeranno il rinnovo del contratto ancora separato...
«Un altro accordo separato gravissimo. Un allargamento del modello Fiat a tutto il settore metalmeccanico con un abbassamento dei minimi contrattuali, del ruolo delle Rsu, con la messa in discussione del diritto alla salute tramite il non pagamento dei primi tre giorni di malattia. La cosa grave è che la piattaforma di questo accordo l’ha presentata Federmeccanica e gli altri sindacati l’hanno avallata. Faremo di tutto, sia sul piano contrattuale che giuridico perché possa essere bloccato». Dopo l’uscita di Fiat da Federmeccanica, gli stessi dirigenti avevano contestato il modello Marchionne e l’inutilità dell’articolo 8 che consentiva al Lingotto di derogare al contratto nazionale. Che cosa è successo poi?
«Le imprese stanno semplicemente utilizzando la crisi per portare a casa il più possibile su salari e diritti. Una visione miope perché uscire dalla crisi in questo modo renderà ancora più difficile la ricostruzione del Paese».
In piazza oggi e domani non sarete soli. Ci saranno gli studenti con voi. Cosa vi unisce?
«In quasi tutte le manifestazioni regionali parteciperanno gli studenti e quasi dovunque interverranno dal palco per i comizi finali. C’è una congiunzione di fondo con loro che sta nella difesa del lavoro, della conoscenza e del sapere. Siamo il Paese europeo con i salari fra i più bassi, il più grande livello di precarietà, il livello più basso di investimenti in ricerca pubblica e del settore privato. Ci unisce l’attacco ai diritti al lavoro e la sostanziale privatizzazione della scuola e dell’università. Ci unisce la richiesta di un’inversione di tendenza, di un fortissimo aumento degli investimenti per alzare la qualità della conoscenza e del lavoro. In più condividiamo la necessità di un nuovo modello di sviluppo che punti a produzioni più sostenibili ed ecologiche».
Voi parlate chiedete democrazia. Sappiamo che si appella alla “privacy” per non dire se e chi ha votato. Ma cosa ne pensa del successo indiscutibile delle primarie del centrosinistra?
«Sono state un fatto molto importante per riavvicinare le persone alla politica e alle decisioni. Faccio però notare che moltissimi metalmeccanici sono andati a votare, ma ora si trovano nella demenziale situazione di non poter votare all’interno delle loro fabbriche sulle decisioni e i contratti che cambiano la loro vita. Per questo noi con lo sciopero chiediamo una legge sulla rappresentanza che faccia tornare la democrazia nelle fabbriche. E ribadiamo la richiesta dell’abolizione dell’articolo 8 che permette di derogare al contratto nazionale in ogni azienda, l’abolizione delle modifiche all’articolo 18, una lotta maggiore all’evasione fiscale». Richieste che avevate già fatto ai partiti a giugno. A quell’incontro era presente Pier Luigi Bersani: il vincitore delle primarie che quel giorno si impegnò a cancella-
re l’articolo 8 e fare una legge sulla rappresentanza, mentre fu meno propenso a rimettere mano all’articolo 18. Come valuta la sua vittoria e la sconfitta di Renzi?
«A me interessano le cose che si faranno. Certo che avere come modello le proposte sbagliate di Ichino, come aveva Renzi, non andava nella direzione giusta. Detto questo non ne faccio una questione personale, ma politica: il problema è intervenire. Da giugno ad oggi vedo un quadro economico peggiorato, il 2013 si preannuncia drammatico con a rischio la tenuta sociale del Paese. Per questo credo che quelle richieste siano ancora più urgenti assieme ad un piano di investimenti pubblici che salvi la nostra industria».
E qua si arriva al tema dell’Ilva. Voi avete difeso l’operato della magistratura. Lo farete anche quando chiederà l’incostituzionalità del decreto? Non c’è illogicità nell’appoggiare magistrati che sostengono che solo chiudendo lo stabilimento si tutela la salute?
«La Fiom continuerà a rispettare la magistratura ma non vedo possibile chiudere un’azienda per risanare il territorio. L’esempio dell’area di Bagnoli a Napoli lo dimostra: azienda chiusa e nessuna bonifica. Il decreto è un passo avanti perché le prescrizioni dell’Aia diventano legge. Il problema che vedo io è che l’Ilva non è in grado di pagare i 4 miliardi necessari. E allora io rilancio il tema dell’intervento pubblico».

il Fatto 5.12.12
Maurizio Landini, Fiom
“Ci massacrano Bersani si muova”
di Giorgio Meletti


Visto che ha vinto le primarie, mi rivolgo in primo luogo a Pier Luigi Bersani, per dirgli una cosa: i programmi politici per il futuro vanno benissimo, ma servono anche atti immediati. Perché le cose, gravi, stanno avvenendo in queste ore”. Il leader della Fiom, Maurizio Landini, è come al solito in battaglia.
Oggi è il primo giorno di sciopero organizzato in solitudine dai metalmeccanici della Cgil (si comincia con Lombardia, Toscana e Marche, domani le altre regioni). Non è il momento adatto per discutere dell'idea rilanciata proprio da un Bersani indispettito con Susanna Camusso: primarie anche nel sindacato per scegliere i leader. Come dire: basta con le bizantine scelte d’apparato, i lavoratori scelgano direttamente, magari un condottiero più popolare, come Landini. L’interessato per adesso rinvia, una battaglia alla volta: “Le primarie non esistono nello statuto della Cgil, e ufficialmente nessuno le ha proposte, anche se ne ha parlato Il Fatto, e poi Bersani ha rilanciato l’idea, inebriato dalle primarie del Pd. Ma io proprio con Bersani adesso vorrei parlare di cose più stringenti”.
Quali cose preoccupanti stanno avvenendo?
In queste ore Fim-Cisl, Uilm e Fismic stanno firmando con la Confindustria il nuovo contratto di lavoro dei metalmeccanici. L'ennesimo accordo separato. I contenuti sono inquietanti, e noi, il sindacato più rappresentativo, siamo fuori dalla trattativa.
Non è una novità. Gli altri sindacati dicono che siete voi ad aver disertato il tavolo.
La Federmeccanica ci ha detto che, se volevamo trattare, dovevamo prima firmare il contratto del 2009 che allora rifiutammo. Gli altri sindacati addirittura ci hanno posto come condizione che sottoscrivessimo il contratto separato Fiat, quello di Marchionne.
Cosa c'è di tanto grave da invocare l'intervento di Bersani?
Un problema gravissimo di democrazia. Quando Bersani parla di primarie per la politica e per il sindacato fa una riflessione utile, ma dovrebbe tenere conto che ormai la democrazia si ferma davanti ai cancelli delle fabbriche.
A che cosa si riferisce in concreto?
Al fatto che un operaio metalmeccanico può scegliere il suo candidato premier, ma non può votare il suo contratto di lavoro. Fim e Uilm stanno firmando un’intesa che vale per un milione e 600 mila metalmeccanici e non hanno la minima intenzione di fare un referendum. La questione della rappresentanza sindacale sta diventando acuta, la legge è sempre più urgente.
È una legge che manca da circa 65 anni, un altro pezzo di Costituzione mai attuato.
Sì, ma proprio per questo dico che adesso è un’emergenza democratica. All'inizio dell'estate scorsa chiamammo tutti i leader politici a confrontarsi con noi della Fiom sui temi del lavoro, e Bersani disse che era a favore dell'abrogazione dell'articolo 8 (facoltà di fare accordi sindacali in deroga alle leggi) e della legge sulla rappresentanza. Adesso vorrei sapere se questi punti, assieme al ripristino dell'articolo 18 chiesto da Nichi Vendola, entrano nel suo programma di governo. E vorrei segnalargli ciò che appunto si sta verificando in questi giorni.
Che cosa accade?
Fim e Uilm, due sindacati minoritari che dichiarano in tutto poco più di 300 mila iscritti contro i 358 mila della Fiom, firmano un accordo che di fatto smonta il contratto nazionale, e che per la prima volta parte da una piattaforma rivendicativa presentata non dai lavoratori ma dalle aziende. Il tutto in violazione del tanto strombazzato accordo del 28 giugno, secondo cui ai tavoli contrattuali ha diritto di stare ogni sindacato che rappresenti almeno il 5 per cento dei lavoratori.
Che cosa c'è dentro questo contratto?
Per esempio che le imprese, a certe condizioni, smetteranno di pagare i primi tre giorni di malattia. Oppure che potranno imporre 120-130 ore di straordinario l’anno a loro piacimento, senza discuterne con il sindacato aziendale, alla faccia dell’esaltazione del secondo livello... Di fatto l’orario di lavoro, oggi fissato a 40 ore, aumenta di oltre due ore alla settimana.
Sono tutti d’accordo?
Noi organizziamo lo sciopero di oggi e domani. Ma molti lavoratori neppure sanno che è in corso questa trattativa, e comunque non saranno neppure chiamati a votare. A tutti i politici di centrosinistra che per i referendum di Pomigliano e Mirafiori dissero che, mettendosi nei panni di un operaio, avrebbero votato per Marchionne dico di mettersi oggi nei panni di un operaio e commentare la notizia che neppure lo fanno nemmeno votare.
Come alla Fiat.
Esatto. Il modello Fiat esteso a tutti i metalmeccanici, per la scomparsa totale di ogni regola democratica. E quando non c’è democrazia decidono le imprese, perché i lavoratori non hanno più voce. C’è ormai un problema di libertà. Il candidato premier, scelto in un così importante momento di democrazia, deve porselo.

l’Unità 5.12.12
Il rinnovo dei metalmeccanici finisce in tribunale
Tute blu. Cgil in tribunale contro l’esclusione dalla trattativa
di Massimo Franchi


ROMA Proprio alla vigilia dello sciopero generale di oggi e domani e della probabile nuova firma separata sul rinnovo che potrebbe arrivare oggi, la Fiom deposita un ricorso contro Federmeccanica, Fim-Cisl e Uilm-Uil per l’esclusione dalla trattativa per il contratto dei metalmeccanici. Ieri mattina gli avvocati della Fiom hanno presentato al Tribunale di Roma (lo stesso che le ha dato ragione sulla discriminazione subita a Pomigliano) un ricorso basato sull’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 e «l’ulteriore patto aggiunto del 21 settembre 2011 con il quale le stesse parti si impegnavano ad attenersi all’accordo a tutti i livelli». Secondo la Fiom per i contraenti (Confindustria, Cgil, Cisl e Uil e quindi le loro federazioni metalmeccaniche) quell’accordo ha valore di legge e il non rispetto deve essere sanzionato dal giudice che deve riportare la Fiom-Cgil a quel tavolo. In più Federmeccanica negando il tavolo della trattativa alla Fiom ha tenuto un comportamento antisindacale violando il codice civile.
Nel ricorso si legge: «Le intese sindacali sopra indicate prevedono che, qualora si intendano aprire negoziazioni finalizzate alla stipula di un contratto collettivo nazionale, il sindacato di categoria (nel caso di specie la Fiom-Cgil, come tutti i sindacati che abbiano una rappresentanza non inferiore al 5% nel settore) debba necessariamente essere coinvolta nel procedimento contrattuale, al fine di realizzare l’obiettivo comune di garantire trattamenti unitari per tutti i lavoratori». L’accordo in più «impone di presentare una piattaforma unitaria». Nelle 40 pagine di ricorso viene ripercorsa la storia dell’ultimo anno. Le ripetute richieste di incontro della Fiom ai coinquilini di Corso Trieste nella palazzina dell’ex Flm (Fim e Uilm) e a Federmeccanica con le risposte (negative) ricevute.
Si tratta di «un ricorso con tempi rapidi di fissazione d’udienza» e la prima udienza potrebbe tenersi il 20 gennaio. Il ricorso già dà per scontato che nel frattempo il nuovo contratto separato sia stato sottoscritto. Per questo ne chiede l’eventuale «nullità/inefficacia» e chiede alle controparti Federmeccanica, Fim e Uilm (definite «resistenti») «il pagamento a favore della Fiom Cgil» del «risarcimento dei danni di immagine» «pari a 2 euro per ognuno degli 358mila iscritti» e «di 1.000 euro per ogni giorno di ritardo» dal momento dell’accoglimento del ricorso.
Federmeccanica ha sempre sostenuto che la Fiom non sia stata invitata alla trattativa perché non ha mai riconosciuto il contratto separato del 2009 e lo scorso anno aveva presentato una piattaforma per rinnovare il contratto del 2008. Ulteriore ironia della sorte, all’inizio la Fiom si è schierata apertamente contro l’accordo del 28 giugno.
Scontato che la notizia produrrà reazioni molto forti. La firma sul nuovo contratto da parte di Federmeccanica, Fim, Uilm e Ugl arriverà oggi, grazie alla convocazione di «una trattativa ad oltranza», come annuncia la Fim Cisl parlando di «intesa che rappresenterebbe un forte segnale di speranza per il Paese».
Nelle settimane scorse la Fiom ha anticipato alla Cgil la decisione. A Corso Italia si sono confrontate le consulte giuridiche. Dopo l’iniziale perplessità, la Cgil ha appoggiato la decisione della Fiom. I giuristi della Fiom hanno spiegato come il ricorso non sia contro gli altri sindacati, ma per il rispetto dell’accordo del 28 giugno.

il Fatto 5.12.12
Trombettieri
Il fumo degli “incandidabili” e l’arrosto dell’impunità
di Bruno Tinti


Una volta misi in fila tutti i reati che erano trattati del gruppo di pm di cui ero capo: reati contro l’economia. Erano 71. Poi calcolai i termini di prescrizione per ognuno di essi. 69 si prescrivevano tra 5 e 8 anni, erano dunque “reati a prescrizione garantita”. Ne rimanevano 2, la bancarotta fraudolenta e l’insider trading, per i quali c’era la possibilità di arrivare a sentenza definitiva. Pensai che era un po’ poco per giustificare il lavoro di 10 pm. Però, “Gruppo per l’accertamento e la repressione dei reati contro l’economia” suonava bene; qualche volta ci credevamo anche noi.
I condannati “eletti predestinati”
Proprio come oggi suona bene annunciare che presto vedrà la luce una legge sulla incandidabilità a senatore e deputato per quelli che hanno riportato condanne penali. C’è un sacco di gente che ci crede. E, in effetti, una legge con questo titolo (o altro ancora più roboante) sarà emanata davvero. Solo che non servirà a niente, proprio come non serviva a niente fare i processi per i reati contro l’economia.
Per essere incandidabili bisogna essere stati condannati con sentenza definitiva. Ma il politico innocente a vita ha questo curriculum tipico: nella fase delle indagini preliminari può essere arrestato (in genere no, i suoi correligionari lo proteggono; ma hai visto mai...), poi è condannato in primo grado e in appello; e poi è prescritto in cassazione. Quindi è sempre candidabilissimo. Anzi, considerati i suoi meriti speciali (in genere informazioni e rapporti privilegiati), è un eletto predestinato.
La certezza della prescrizione, della sospensione condizionale della pena, dell’affidamento in prova al servizio sociale e, malissimo che vada, degli arresti domiciliari, sconsiglia a tutti di ricorrere al patteggiamento. Perché diavolo uno dovrebbe patteggiare se ha la granitica certezza di farla franca? Eh, perché, certe volte (sempre troppo poche) lo mettono in prigione per via della barbara, incivile, giustizialista carcerazione preventiva. In altri termini il nostro è sotterrato dalle prove e non ha speranza di cavarsela perché, se lo tengono dentro, il processo si fa rapidamente. Allora patteggia. A quanto? Ovviamente a 2 anni, non di più, perché così gli danno la sospensione condizionale della pena e se ne torna a casa. Altrimenti gli conviene starsene in prigione 6 mesi; poi scadono i termini di carcerazione preventiva, lui esce e si fa tutta la trafila: tribunale, appello, cassazione; e prescrizione. In ogni modo, anche se patteggia una condanna a 2 anni (ma, secondo gli avvocati, il patteggiamento non è una condanna; speriamo che la legge dica qualcosa...), l’incandidabilità non scatta. I potenziali incandidabili diventano ipso facto candidabilissimi.
Corruzione, voto di scambio e i ferri del mestiere
Gli “onorevoli” (oh dio) mafiosi (quelli scoperti e condannati con sentenza definitiva; gli altri, tutti esempi di specchiata virtù) dovrebbero finire in prigione; quindi il problema di (ri) candidarli non si dovrebbe porre. Poi ci sono gli onorevoli rapinatori, trafficanti di droga, sequestratori di persona etc. C’è indubbiamente una grande soddisfazione nel sapere che questa numerosa categoria non potrà candidarsi.
E chi si dedica a quei reati di poco rilievo, tipici del mestiere: corruzione, peculato, frode fiscale, traffico di influenze, voto di scambio, finanziamento illecito? Per i primi tre reati non c’è problema: tra prescrizione e patteggiamento, la condanna definitiva non arriverà mai. Per gli altri tre è ancora meglio. Siccome sono puniti fino a 3 anni, il che rende impossibili intercettazioni e carcerazione preventiva, i processi non si faranno proprio e i nostri non correranno alcun rischio. E comunque, siccome meglio essere prudenti, l’incandidabilità scatta per i reati puniti con una pena massima superiore a 4 anni (forse a 5) ; e questi sono puniti fino a 3...
Bersani & co, fate qualcosa “per bene”
Fumo negli occhi. Però occasione d’oro per il partito che voglia essere “diverso”: nei fatti, non a parole. Regolamento specifico: noi candidiamo solo persone oneste e che appaiano oneste (proprio come dite che deve essere per i giudici). Quelli che sono condannati definitivi, condannati in primo grado o in appello, sottoposti a indagini, si propongano a qualcun altro. Quando saranno assolti (con formula piena; niente prescrizione e insufficienza di prove) tornino pure e li accoglieremo a braccia aperte.
Segretari della sinistra, Bersani, Vendola, Di Pietro, quanti elettori di Grillo pensate che tornerebbero da voi? Di quanti “onorevoli” imbarazzanti vi liberereste? E, per finire, cosa potrebbe fare l’Italia governata da persone per bene?

il Fatto 5.12.12
Per eletti ed elettori il “Casaleggium” resta un mistero
Sino alla fine delle consultazioni nessuno dei 1400 candidati sa quanti voti ha preso
di Emiliano Liuzzi


Tante candidature e una sola certezza: il casaleggium, il sistema elettorale on line pianificato negli uffici della Casaleggio associati per decidere chi si candiderà al Parlamento sotto il simbolo del Movimento 5 stelle, era e resta un grande mistero. Non ci sono proiezioni, i candidati stessi non sanno, tantomeno possono sapere, il numero degli iscritti.
Nodi che probabilmente verranno sciolti nei prossimi giorni, anche se per ora né Grillo né Casaleggio si sono esposti. Ci sono regole che devono essere rispettate, c’è un numero di candidati (1400) e le indicazioni su come e quando votare. Niente altro. Fino a oggi la questione si è risolta all’interno di quel contenitore che va sotto il nome di beppegrillo.it . E nel gruppo c’è chi è pronto a impugnare eventuali errori tecnici, proprio perché convinto di potersi candidare, ma che si è trovato nella lista degli esclusi. Senza trovare motivo.
COME ALESSANDRO Cuppone, candidato sulla carta che non ha invece trovato posto in lista. Ha scoperto di essere fuori solo qualche giorno prima. “Sono stato contattato da Beppe Grillo, ma non ha saputo darmi delle spiegazioni precise sulla motivazione della mia esclusione. Mi ha detto che ci saremmo risentiti. Io ho segnalato allo staff, ma a oggi non ho ancora avuto una risposta. Bisogna capire se sono stato messo fuori secondo criteri soggettivi o oggettivi. Ne va della validità di queste elezioni”.
C’è chi ha saputo all’ultimo minuto di non poter aspirare a una vita romana. Come Lorenzo Andraghetti, bolognese, tagliato fuori dalla lista dei candidati alla vigilia dell’apertura delle votazioni. Secondo lo staff, la sua esclusione ha un motivo ed è dovuta al fatto che, dopo essere stato eletto in quartiere nel 2011, ha rinunciato all’incarico per completare gli studi in Brasile. “Casaleggio sostiene di aver specificato questa regola in un documento fatto sottoscrivere da tutti candidati al momento dell’adesione”, spiega Andraghetti. “Ma io non l’ho mai firmato. Il problema è che Casaleggio ha inviato, immagino involontariamente, versioni diverse a una parte dei candidati. E se la responsabilità non è mia, non ha senso che io venga penalizzato per errori altrui”. Andraghetti parla e sa che se decide di fare politica può rivolgersi altrove. Se non altro perché il capo, Beppe Grillo, ha avvertito tutti: “Ci possono essere errori, imprecisioni e imprevisti, ma siamo di fronte a un esperimento che viene introdotto per la prima volta nel mondo”.
Davide Bono, delegato di lista in Piemonte, vicinissimo a Casa-leggio, spiega al Fatto Quotidiano: “Abbiamo avuto un po’ di problemi con i profili dei candidati. Alcuni, ad esempio, non hanno caricato il video o il curriculum in tempo. Ma per ora non c’è stata alcune segnalazione da parte di persone escluse senza ragione. In genere, un motivo riconducibile al regolamento c’è”.
CHI SE LA RIDE a distanza è Va-lentino Tavolazzi, l’espulso dal Movimento: “Il Casaleggium - ha stabilito chi sia candidabile, senza alcun confronto preventivo, e ha tradito quanto promesso da Grillo in tutte le piazze: chiunque si può candidare, se incensurato, non iscritto a partiti e se non ha svolto due mandati. Le scarse informazioni disponibili e le modalità di voto hanno impedito una partecipazione più larga e consapevole”. Altro che milioni al voto, “le Parlamentarie stanno assumendo una dimensione parrocchiale” e usano un “metodo inqualificabile in base ai valori fon-danti per il Movimento, quali trasparenza e partecipazione”.

Repubblica 5.12.12
Grillo, rivolta online contro le primarie
I militanti denunciano: non sono corrette. E Pizzarotti difende la Salsi
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA — Le proteste per il voto on line che non funziona, le denunce degli esclusi, le prese in giro dei video degli aspiranti «cittadini» (si chiameranno così, non onorevoli, i parlamentari a 5 stelle). Non comincia bene, la “presa della Bastiglia” immaginata da Beppe Grillo con le sue non primarie.
Per capire come stanno andando, le consultazioni al computer cominciate lunedì e in corso fino a domani, ci si può giusto affidare al blog del comico. Lì si trovano proteste di questo tipo: «Qualcosa non funziona a livello tecnico. Ho votato tra i candidati della circoscrizione Lazio1, ma dopo aver espresso le 3 preferenze, la pagina mi diceva che mi restavano ancora 3 voti», lamenta Rossella, che ha chiuso, riaperto, e votato di nuovo: «Ma credo non sia un funzionamento corretto, vero?». C’è Gianni Pasquini, che ha visto i video ed è un po’ spaventato: «La maggior parte è fatta male e povera di contenuti, uno per tutti Gianna della Toscana. Mi sono venuti i brividi. Forse la selezione via Web non è la più sicura!». O ancora Luigi: «Mi sembra di avere capito che per votare devo ricevere una e mail, ma ciò non è accaduto. Mi sono registrato con le modalità richieste. Come devo fare a contattare il blog?». Non può farlo, Luigi. Può giusto sfogarsi, come tutti gli iscritti al portale, che non hanno modo di instaurare un dialogo con chi manda indicazioni via mail, o form da riempire. Non hanno potuto chiedere spiegazioni neanche gli aspiranti parlamentari che, nei giorni scorsi, hanno ricevuto una lettera in cui gli si imponeva di accettare che i fondi dei gruppi di Camera e Senato saranno destinati a “strutture di comunicazione” scelte da Grillo e Casaleggio. A quei soldi il Movimento non rinuncerà — si è invece impegnato a restituire i rimborsi elettorali e parte degli stipendi degli eletti — ma non ci sarà alcuna democrazia nel decidere come usarli. Potranno farlo, come al solito, solo i due depositari del marchio.
Intanto, i video fatti in casa dei candidati impazzano su Youtube.
Il blogger Zoro avverte su Twitter: «Sono una droga». Altri ringraziano per le risate. Non sono invece affatto allegri gli attivisti che ci credono: a Bologna in tre avevano tutti i requisiti (essere stati candidati, non aver svolto più di un mandato, la fedina penale pulita), e nonostante questo non si sono ritrovati nelle liste. Il loro caso non è l’unico. Tanto che perfino i consiglieri comunali genovesi del MoVimento denunciano: «Ci sarebbe piaciuto che non solo la rete, ma anche la nostra assemblea plenaria avesse potuto scegliere i portavoce in Parlamento». Alle sette di ieri sera Bartolomeo scriveva sul sito: «Come garantire che non vi siano brogli? Gli amministratori in teoria possono monitorare tutto, il voto non è segreto?». Domande che si rincorrono da giorni. Insieme al quesito fondamentale: va bene i parlamentari, ma chi sarà il candidato premier? «Alcuni dicono il più votato tra noi — rivela uno degli attivisti in corsa — ma niente è certo».
Non bastasse questo, il sindaco 5 stelle di Parma, Federico Pizzarotti, è andato in tv disobbedendo al diktat del capo e ha manifestato la sua solidarietà a Federica Salsi: «Se Grillo avesse dato il suo sostegno sarebbe stato importante ». Sul caso delle minacce di morte alla consigliera, la procura
di Bologna ha aperto un’inchiesta. Sempre ieri, il consigliere regionale ha denunciato il giornalista autore del fuorionda in cui parlava della scarsa democrazia nei 5 stelle, e il cronista freelance che definì il servizio concordato. Vuole dimostrare che non era una combine, ma sul web i più continuano ad attaccarlo: «Quelle cose le hai dette. Non cambia nulla». E gli insulti continuano.

Repubblica 5.12.12
Un attivista di Ferrara, Fulvio Biagini, chiede trasparenza. E il suo “questionario” conquista l’attenzione della Rete
“Ditemi dov’è il server e chi custodisce i dati” assedio in 20 domande al guru e a Casaleggio


ROMA — «Chi è o chi sono gli amministratori del portale? Dov’è fisicamente il server? Chi ha accesso alle informazioni sensibili? Come sono suddivisi per regione e provincia gli iscritti e gli attivi? Come si garantisce trasparenza nelle votazioni?». Sono alcune delle venti domande che rimbalzano da giorni su blog, siti e pagine Facebook dei militanti a 5 stelle. Le ha scritte Fulvio Biagini, di Ferrara, un simpatizzante del MoVimento, iscritto da troppo poco tempo per votare, ma amico di lunga data del dissidente storico Valentino Tavolazzi.
Le sue venti domande hanno avuto successo.
«Si sono sparse a macchia d’olio in giro per i blog. Il bello, è che sono certo che nessuno risponderà ».
Grillo e Casaleggio non daranno spiegazioni, neanche a tutti gli attivisti che le rigirano?
«Non credo proprio. Sa, io sono un informatico, e quelle domande mi sono venute di getto, perché c’è qualcosa che non torna. C’erano molti modi per rendere questo voto trasparente. Così non è stato».
Si poteva mettere un contatore automatico per i voti nella pagina dei candidati?
«Il mio vecchio professore di informatica diceva che in questa materia non c’è niente di impossibile. Negli Stati Uniti anche le votazioni tradizionali avvengono attraverso sistemi elettronici, molto più limpidi di questo».
Che reazioni le sono arrivate?
«Alcuni miei amici mi dicono bravo, hai ragione. Molti del Mo-Vimento però mi ricoprono di parolacce. Non sa quello che mi hanno scritto, ma è normale. In rete
succede».
Non è proprio normale, essere insultato per delle domande.
«Ma sì. Poi sanno che sono amico di Valentino, magari vogliono sottolineare la distanza».
Nonostante questo, lei vota il MoVimento 5 stelle?
«Ci ho creduto molto, ma sono molto spaventato e preoccupato da quello che sta diventando. Il mio è stato un piccolo sfogo personale di chi non ha capito qualcosa, e ancora fa fatica a capire».
(a.cuz.)

l’Unità 5.12.12
Crimini contro l’umanità ora una legge ci aiuta
di Sandro Gozi


CON IL VOTO DEL PARLAMENTO, CHE ADEGUA IL NOSTRO ORDINAMENTO ALLO STATUTO DELLA CORTE PENALE INTERNAZIONALE, ABBIAMO SCRITTO UNA BELLA PAGINA NELLA STORIA DELLA GIUSTIZIA INTERNAZIONALE E DI QUELLA ITALIANA. La legge approvata riunisce tre proposte di legge, tra le quali anche la mia. Se non avessimo approvato l’adeguamento allo Statuto della Corte penale internazionale, non avremmo avuto alcuna voce in capitolo nei riguardi dei crimini contro l’umanità. Se per esempio Gheddafi fosse fuggito in Italia, senza questa legge non avremmo avuto alcuno strumento giuridico per sottoporlo a un procedimento giudiziario.
La legge è un contributo alla pace perché la pace presuppone l’edificazione della giustizia e la pace internazionale presuppone l’edificazione della giustizia internazionale. Non può esistere pace durevole senza giustizia e la pace non si può perpetuare se i diritti umani non vengono riconosciuti. Ma possono esserlo solo se vi sono una giustizia e delle norme universali.
L’adeguamento allo statuto della Corte penale internazionale è anche una risposta alla fortissima domanda di democrazia e di giustizia sovranazionali. È un provvedimento che viene da lontano, che viene da Norimberga, dalle vittime di Sarajevo, dal Srebrenica, dal Ruanda, dallo Zaire, dal Darfur, dalla Repubblica Centrafricana, da quanto è successo in Uganda, in Vietnam, in Cile, in Argentina, in Cambogia e da quello che è accaduto in Libia e da quello che sta accadendo in Siria.
Quindi, certamente è un provvedimento che permette all’Italia di non tacere più, perché tacere rende corresponsabili, quanto meno e soprattutto sul piano morale, ma anche, con questo statuto, sul piano giuridico. L’impunità dei responsabili di orrendi crimini, oltre a risultare un’ennesima onta nei confronti delle vittime, spesso porta l’opinione pubblica internazionale a dimenticare le gravi atrocità commesse.
Ecco perché occorre garantire in maniera operativa la giustizia internazionale ed il ruolo della Corte penale internazionale, perché la democrazia non può annientare se stessa né voltare le spalle ai crimini internazionali. Questo è il dato rivoluzionario del suo statuto firmato nel 1998: la Corte penale internazionale è la prima ed unica giurisdizione penale internazionale a carattere permanente, e potenzialmente universale. Potenzialmente perché purtroppo alcune tra le grandi potenze mondiali, come gli Stati Uniti e la Cina non l’hanno ancora firmato.
Con lo Statuto della Corte agli Stati non è più permesso trattare i propri cittadini a loro piacimento, né farsi scudo del principio di non ingerenza negli affari interni.
Il principio della non ingerenza non può essere più opposto di fronte a dei crimini contro l’umanità.
Adesso, anche noi italiani saremo più credibili in questa battaglia di civiltà: è da questo adeguamento deve nascere una nuova politica globale dei diritti umani del nostro Paese.
Il successo della conferenza diplomatica, tenutasi proprio a Roma nel giugno-luglio 1998, e l’adozione dello Statuto istitutivo della Corte penale internazionale è stato uno storico passo in avanti nella tutela dei diritti umani fondamentali. Poi «radio Italia» si è spenta. Abbiamo ratificato lo Statuto nel 1999, ma da allora non abbiamo mai adeguato il nostro ordinamento e il nostro sistema penale agli obblighi che quello Statuto comportava. È quindi attraverso questa nuova pagina che l’immagine internazionale dell’Italia potrà cambiare, rimettendo i diritti umani al centro della nostra politica internazionale.
Chi guiderà il Paese dalle elezioni del 2013 dovrà assumersi la responsabilità di completare la modernizzazione del nostro sistema giuridico, riportare definitivamente il nostro Paese a sedere tra i «grandi», a fare una politica adulta, a riconquistare un peso politico internazionale come promotore della tutela dei diritti internazionali che sono il cuore della democrazia. Forse è questo il «profumo di sinistra» che qualcuno reclama in questi giorni.

l’Unità 5.12.12
Noi docenti vogliamo continuare a imparare
di Mila Spicola


HO APPENA VISTO IN DIFFERITA LA PUNTATA DI «CHE TEMPO CHE FA» CON OSPITI IL MINISTRO PROFUMO E SALVATORE SETTIS. Sentir parlare di scuola da due persone che non sono del mondo della scuola provoca sempre un effetto straniante. Si parla di insegnanti, di valore sociale della scuola, di come cambia la vita di ciascuno di noi attraverso la conoscenza e, ancora una volta, non si attiva un confronto tra personaggi come Profumo e Settis e un insegnante, o meglio ancora, tra loro e uno studente. Vero è che in una realtà frammentata e complessa come quella relativa alla scuola in Italia non esiste «l’insegnante italiano» o lo «studente italiano», fosse solo in relazione ai numeri: parliamo di circa ottocentomila docenti e di quasi nove milioni di studenti.
Quando ascolto riflessioni sulla scuola sorrido un po’, mi metto comoda e con l’animo del tipo «sentiamo cosa dicono stavolta». Stavolta è andata un po’ meglio, dico grazie al ministro e ancor di più a Settis, per le parole di elogio e per le belle intenzioni. Ma non ci siamo, non ci siamo affatto. Dalle parole del ministro non è venuta fuori nessuna visione strategica della scuola in Italia. È un’assenza di visione che riguarda tutto il Paese e penso che sia il vero nodo da risolvere. Ma a un ministro non la si può perdonare, nemmeno se si considera pro tempore. Mi fa sorridere ormai anche l’adagio corrente del «bisogna ridare dignità sociale agli insegnanti». Perché è astratto e tale rimane, se non si chiede il come fare a chi la scuola la vive o a chi sulla scuola studia. Fa un bell’effetto ripetere la frase di Jefferson pronunciata da Settis: «La scuola ha un valore prioritario nei consessi sociali e viene prima di qualunque postulato, persino prima dell’economia. Se non lo si capisce, i costi saranno di ordine sociale, civile e ed anche economici».
Il problema è che questi costi li stiamo già pagando. Più di dodici milioni di italiani, cioè quanti siamo parte del mondo della scuola e della ricerca in Italia, stiamo già pagando i danni indotti da scelte inadeguate. Noi direttamente, il resto del Paese indirettamente. È una miopia strategica che ha riguardato tutti i governi degli ultimi 30 anni, nessuno escluso. Non voglio ripetere le splendide riflessioni di Settis che ha ricordato la necessità costituzionale di assicurare sempre meglio il diritto all’istruzione e non sempre peggio, ma concentrarmi sulle cose da fare. Alcune a costo zero. Dicevamo del ruolo della scuola e della necessità di ricostruire una visione strategica di quel ruolo: lo si fa con gli insegnanti. Lo dimostra il recente studio della Pearson-Ocse: laddove la funzione degli insegnanti è potenziata e supportata da provvedimenti adeguati i sistemi scolastici sono efficaci ed efficienti. Sembra la ricetta della massaia e tutti potremmo essere d’accordo in via teorica.
Nei fatti in Italia si è creato l’equivoco. Dare cioè la responsabilità della crisi del ruolo della scuola esattamente a coloro che la portano avanti nonostante le scelte sbagliate di altri: gli insegnanti. Lo hanno fatto tutti nel corso degli anni fino ad arrivare al tabaccaio sotto casa mia e al premier Monti, che ci ha definiti conservatori e corporativi. Bisogna chiarirlo quest’equivoco e precisare alcune verità. Ci sono delle cose da migliorare nel corpo docente italiano e siamo i primi a dirlo. Ci sono delle cose da cambiare e siamo i primi a pretenderlo. Ma servono delle azioni strutturali e di ordine strategico, non pratico o marginale, come lavorare un’ora in più o in meno o dotare le classi e i ragazzi di tablet o lim.
La prima e più importante azione strutturale e strategica è rivedere la formazione dei docenti. Non va bene, non è aggiornata alla complessità dei problemi educativi attuali e scontiamo questa deficienza formativa nei primi anni di immissione in ruolo. La scuola secondaria italiana è fatta di docenti che sono immessi in ruolo o arrivano a insegnare, con una laurea che certifica il livello di conoscenza della disciplina da insegnare ma non fornisce, ad oggi, nessuna competenza specifica di tipo didattico-pedagogico. La seconda: la formazione in servizio. Con il capro espiatorio dell’amministrazione autonoma di ciascuna scuola e con lo spauracchio perenne della scarsità di risorse, il corpo docente italiano, ancora una volta soprattutto della secondaria, non è oggetto di corsi di aggiornamento in servizio, nazionali, uniformi e continui, da almeno 30 anni. Non si possono affidare temi così importanti alla discrezionalità del singolo docente o del singolo dirigente: servono un glossario e un lessico comune continuamente indagati e aggiornati all’oggi di concerto con istituzioni di ricerca qualificate. E allora, la dignità a noi docenti la date investendo non solo in termini economici ma ridandoci la nostra vera dimensione: lo studio e la riqualificazione professionale continua. La qualità di cui tanto parlate sta tutta là. Ridarci il momento della ricerca, della progettualità e della riflessione comune sul nostro mestiere. È necessario che il mondo della scuola si riconnetta, a costo zero, col mondo della ricerca educativa. Per dare valore a entrambi, e, attraverso la ricerca comune, ridare centralità ai processi educativi non ad altro. È una delle chiavi di volta.
Insegnare è uno stato di ricerca e di miglioramento continuo. È una pratica, non un dato. È una sperimentazione di percorsi comuni che vanno tracciati e riscritti in osmosi con il meglio della ricerca educativa, non in modo isolato nelle classi o nelle scuole. Fino a 30 anni fa era cosi. La pratica si è interrotta e oggi siamo dove siamo. Affidati allo spauracchio dell’autonomia. Posso affermare che le scuole da sole non hanno l’energia per affrontare il tema dell’aggiornamento. E comunque: se non c’è un formazione continua, uniforme, centralizzata e connessa con la ricerca educativa migliore, la buona volontà della scuola autonoma non basta. Sono azioni reali, praticabili, realizzabili, motori del vero cambiamento e della qualità dei sistemi d’istruzione. Tutto quello che cambia nella scuola deve nascere così: in seguito alla riflessione e alla sperimentazione comune tra scuola, società, politica e ricerca guidate da principi e pilastri pedagogico/ didattici, non dagli stereotipi correnti in un verso o nell’altro.
Insegnare è una scienza, è una professione difficilissima: si pratica con conoscenza e metodo, si affina e si acquisisce con lo studio e la sperimentazione qualificata. Che poi sia anche una passione va da sé, ma non va ridotta a quello perché sennò la qualità diventa discrezionale anziché diffusa. Deve essere alla portata di tutti i docenti e non solo di qualcuno, di tutti gli studenti e non solo dei «fortunati ad avere il docente bravo». Portateci dentro le università che si occupano di formazione e conducete i ricercatori nelle scuole. Questo accade in Finlandia e in Corea del Sud che sono primi al mondo, mica si son svegliati un giorno e hanno detto: da oggi rispettiamo gli insegnanti. Metteteci a lavorare e a studiare insieme, ricerca e scuola, riportando il nostro mestiere nel bel mezzo dei problemi educativi con gli strumenti adeguati, aiutandoci dal punto di vista logistico e amministrativo.
Tutto ciò non è nel segno dell’impossibile, bensì del possibilissimo. E allora ben venga la modernità: lo streaming nelle scuole dei convegni e dei congressi, le video conferenze di lezioni, la mailing nazionale su contenuti e pratiche internazionali. L’elefante scuola si aggredisce e rimpicciolisce e l’isolamento si rompe. Basta solo qualcuno che dia il la in viale Trastevere. Solo così si ridà ruolo sociale ai docenti, non solo e non tanto con la promessa di qualche euro in più in tasca sempre agitata e mai messa in atto o la minaccia di qualche ora in più di lezione frontale. La verità è che non vorremmo essere presi in giro da persone all’oscuro delle questioni nodali. Sennò si fa solo tanta aria fritta. Siete voi, tutti gli quelli che siete fuori dalle scuole, a non averlo capito. Dal tabaccaio sotto casa mia al ministro Monti.

Corriere 5.12.12
«Noi cornuti e mazziati. Una sentenza già scritta per ragioni politiche»
Ingroia: giudici influenzati dal clima
di Giovanni Bianconi


ROMA — La voce dell'ex procuratore aggiunto Di Palermo Antonio Ingroia arriva dal Guatemala, ferma e decisa: «La lettura del comunicato della Corte mi fa pensare che devo ricredermi».
Sta dicendo che avete sbagliato nel trattamento di quelle quattro telefonate, dottor Ingroia?
«Niente affatto. Devo ricredermi su quanto pensai quest'estate leggendo le considerazioni di Gustavo Zagrebelsky, il quale riteneva che la sentenza dei suoi ex colleghi della Consulta fosse già scritta. Credevo che esagerasse, invece aveva ragione: per ragioni politiche prima ancora giuridiche, non c'era altra via d'uscita che dare ragione al presidente della Repubblica».
Quindi lei pensa che i giudici costituzionali abbiano scritto una sentenza politica?
«Penso che avessero l'esigenza di dare ragione al capo dello Stato. Aspetterò di leggere le motivazioni della sentenza per capire se volevano anche dare torto alla Procura di Palermo ad ogni costo, ma dalle righe diffuse fin qui si capisce che dovevano sostenere in tutto la posizione del Quirinale. Poi magari le motivazioni mi convinceranno del contrario, ma ora non posso che esprimere queste valutazioni».
Ma scusi, non possono esserci motivazioni semplicemente giuridiche, alla base della decisione? Non potete aver sbagliato voi, anziché loro?
«Certo che possono esserci, ma allora avrebbero dovuto esprimersi in maniera diversa. Dal tenore del comunicato si capisce che secondo loro noi avremmo dovuto dar vita a una giurisprudenza creativa, con un'interpretazione della legge che si sarebbe risolta in una sua violazione. È assurdo, una posizione davvero bizzarra».
Veramente la Corte sostiene che la legge l'avete violata voi, non applicando un articolo del codice che avreste dovuto rispettare e invocando quello sbagliato.
«Ma non è così. Sa di che cosa sono convinto? Che se noi avessimo fatto quello che oggi sostiene la Corte, e cioè trasmettere le telefonate al giudice chiedendo la distruzione delle conversazioni senza contraddittorio con le parti, il giudice avrebbe ordinato il deposito e il contraddittorio con tutte le parti del procedimento, facendole inevitabilmente diventare pubbliche. Anche per questo noi non abbiamo preso quella strada, preoccupandoci di preservare al massimo la riservatezza delle conversazioni del presidente. E questa è la ricompensa».
Quindi oggi sareste vittime di irriconoscenza?
«Siamo cornuti e mazziati, per usare termini meno giuridici e più popolari. Noi abbiamo fatto di tutto perché di quelle conversazioni non uscisse nemmeno una riga, e infatti non è uscita nemmeno una riga. Proprio perché avevamo a cuore la riservatezza delle conversazioni del presidente. A fronte di ciò, non solo non abbiamo avuto alcuna riconoscenza, ma ci siamo visti prima sbattere contro un conflitto davanti alla Corte costituzionale, e adesso una sentenza punitiva. Sinceramente mi pare assurdo».
Crede che le polemiche anche politiche suscitate da questa vicenda abbiano pesato sul giudizio della Consulta?
«Credo proprio di sì. Nonostante la dichiarata irrilevanza delle conversazioni intercettate casualmente sul merito dell'inchiesta, ci sono stati mesi di can-can politico e mediatico che hanno catturato l'attenzione, perfino a livello internazionale. Temo sia inevitabile che abbiano pesato sulla decisione».
Quindi i giudici costituzionali sono stati condizionati?
«Il comunicato emesso dà la sensazione di una sentenza che risente anche del condizionamento del clima politico. Del resto non penso che esistano sentenze che non risentono del clima generale che si respira in un Paese. Anche quelle in materia di mafia, sia ai tempi delle assoluzioni di massa per insufficienza di prove sia quando si è arrivati alle condanne».
Ma non c'è nemmeno una cosa su cui ritiene di dover fare autocritica?
«Forse abbiamo sbagliato a sottovalutare l'impatto mediatico delle strumentalizzazioni, ci siamo preoccupati più di mantenere la segretezza che degli attacchi che sarebbero arrivati al nostro ufficio».
Ma era lei che andava in giro per appuntamenti politici...
«Oggi che non sono più procuratore aggiunto è la prima volta che parlo del merito della questione. Quanto alla partecipazione ai dibattiti pubblici, ho già spiegato più volte quelli che ritengo siano miei diritti».
La sentenza della Corte la conferma nella decisione di allontanarsi dalla Procura di Palermo e dall'Italia?
«Mi conferma che il nostro Paese deve ancora crescere in termini di diritto, eguaglianza e rispetto della Costituzione. Bisogna fare molti passi avanti, mentre temo che la Corte abbia fatto un grosso passo indietro».

Repubblica 5.12.12
Le ragioni del diritto
di Eugenio Scalfari


LA SENTENZA della Corte costituzionale sul ricorso del Capo dello Stato per il conflitto di attribuzione con la Procura di Palermo è chiarissima e definisce l’intangibilità delle prerogative presidenziali. Le intercettazioni telefoniche (o con qualsiasi altro mezzo effettuate), sia pure indirettamente acquisite da una Procura (nel caso specifico da quella di Palermo) debbono essere immediatamente distrutte dal Gip su richiesta della stessa Procura che ne è venuta in possesso. La Procura in questione non ha titolo per dare alcun giudizio sul testo intercettato; deve semplicemente e immediatamente consegnare le intercettazioni al Gip affinché siano distrutte senza alcuna comunicazione alle parti e ai loro avvocati.
La Corte renderà pubbliche le sue motivazioni a gennaio ma il dispositivo si appoggia fin d’ora all’articolo 271 del codice di procedura penale (come a suo tempo avevamo già scritto su questo giornale) che dispone questo trattamento per gli avvocati e per tutti i casi analoghi che prevedano l’assoluta segretezza delle notizie connesse alla loro professione. E quindi, per logica deduzione, ai medici e ai sacerdoti su quanto apprendono in sede di confessione. Le prerogative del Capo dello Stato hanno la stessa natura e quindi lo stesso grado di protezione che non deriva soltanto dall’articolo 271 ma dalla stessa Costituzione.
Il Presidente della Repubblica può essere imputato soltanto per tradimento della Costituzione e attentato nei confronti dello Stato. In quei casi, quando il Parlamento in seduta comune ne chiede il deferimento alla Corte essa sospende le prerogative del Capo dello Stato e si trasforma in Alta Corte di giustizia iniziando il processo che culminerà in una sentenza.
Il punto essenziale del comunicato della Corte sta nel fatto che a suo avviso l’inammissibilità delle intercettazioni anche indirette e quindi la loro immediata distruzione non sono soltanto ricavabili dall’ordinamento costituzionale e giudiziario, ma da specifica normativa.
Il capo della Procura di Palermo, Messineo, e il procuratore aggiunto, Ingroia, avevano fino all’ultimo sostenuto che non esisteva alcuna norma specifica in materia; forse si poteva ricavare con una interpretazione dell’ordinamento, ma — spiegavano i procuratori in questione — non è compito dei magistrati inquirenti cimentarsi con interpretazioni ardue e comunque dubitabili. Per loro valeva dunque soltanto la norma che prevede per la distruzione di intercettazioni non rilevanti ai fini processuali un’udienza davanti al Gip insieme alle parti interessate e ai loro avvocati. Il che ovviamente equivale a renderle pubbliche facendo diventare pleonastica la loro successiva distruzione.
Il comunicato della Corte, stabilendo invece che una specifica norma esiste, spazza via il ragionamento della Procura di Palermo con un effetto ulteriore e definitivo: la sua sentenza si affianca e addirittura si sovrappone all’articolo 271 rendendone esplicita l’applicabilità anche al Capo dello Stato.
Fu dichiarato più volte dallo stesso Giorgio Napolitano che il suo ricorso alla Consulta non intaccava in nessuno modo il lavoro della Procura sull’inchiesta riguardante i rapporti eventuali tra lo Stato e la mafia siciliana. Infatti quel lavoro è già arrivato ad una prima conclusione con la richiesta di rinvio a giudizio di tredici imputati. Gli stessi Messineo e Ingroia hanno più volte e in varie sedi pubblicamente dichiarato che nessuna pressione e nessun impedimento al procedere della loro inchiesta è mai venuto dal Quirinale, il quale anzi ha sempre incoraggiato la magistratura a portare avanti il suo lavoro volto all’accertamento della verità su quel tema storicamente delicato e importante.
La richiesta di rinvio a giudizio è tuttora pendente dinanzi al Gup del tribunale di Palermo il quale, con correttezza professionale, ha deciso di attendere la sentenza della Consulta prima di prendere le sue decisioni. Non sappiamo se vorrà ulteriormente aspettare le motivazioni di quella sentenza, ma probabilmente sarebbe tempo sprecato.
A lui interessava sapere se le intercettazioni in questione potevano avere un qualche interesse ai fini dell’inchiesta o di eventuali altri processi connessi. La risposta è arrivata e il Gup di Palermo potrà ora procedere. Se troverà negli atti della Procura indizi e prove sufficienti il processo andrà avanti; se quegli indizi e prove non fossero decisivi potrà decidere l’archiviazione; se la competenza territoriale non fosse quella di Palermo potrà rinviare gli atti al tribunale di Caltanissetta.
E questo è tutto. Resta l’indebito clamore che alcune forze politiche e alcuni giornali hanno montato attorno a questi fatti lanciando accuse roventi, ripetute e immotivate contro il Capo dello Stato. Se fossero in buona fede sarebbe il momento di chiedere pubblicamente scusa per l’errore commesso, ma siamo certi che non lo faranno. Coglieranno anzi l’occasione per estendere l’accusa di faziosità e di servilismo alla Corte costituzionale imitando in questo modo l’esempio fornito da Silvio Berlusconi tutte le volte che attaccò la “Consulta comunista” per aver cassato alcune leggi “ad personam” proposte da lui o dal suo partito.
Quello compiuto da alcune forze politiche e mediatiche non è dunque un errore commesso in buona fede ma una consapevole quanto irresponsabile posizione faziosa ed eversiva che mira a disgregare lo Stato e le sue istituzioni. Sembra quasi un fascismo di sinistra.

Repubblica 5.12.12
Sulla Collina del giorno del giudizio la colonia con cui Israele sfida il mondo
La Palestina denuncia all’Onu: “Gli insediamenti crimini di guerra”
di Fabio Scuto


COLLINA E 1 (CISGIORDANIA) — La “collina del giorno del giudizio” è uno sperone, arido e desolato, che sulla sinistra domina la strada che da Gerusalemme digrada verso Gerico, la Valle del Giordano e il Mar Morto. Il silenzio che regna qui attorno è l’immagine speculare dello scontro a livello internazionale nato intorno a quest’altura diventata simbolica. Ufficialmente ha solo un nome amministrativo E 1 (East One), il nome ufficiale di questo insediamento è già deciso e sarà Mevasseret Adumin, ma per tutto il movimento dei coloni e la destra israeliana che li sostiene, è adesso “The Doomsday Hill”, il luogo del destino che si deve compiere con la nascita di una nuova piccola città con 3500 nuove case e un bel centro commerciale, ben oltre la “Linea Verde” del 1967 dove già vive oltre mezzo milione di coloni. Una decisione che darà, come ha detto il segretario generale dell’Onu Ban ki-moon, «un colpo mortale alla possibilità di una pace basata su “due Stati”», spingendo il processo di pace verso i pericolosi marosi di una tempesta perfetta che si sta addensando in Medio Oriente. Ma la “rappresaglia” del premier Benjamin Netanyahu per il voto all’Onu sulla Palestina, non si ferma qui: presto si discuterà di altre 1700 nuove case a Ramat Shlomo e altre centinaia a Givat Hamatos e Gilo, tre grandi insediamenti che fanno da cintura alla Città santa. Su terre che per i palestinesi devono far parte di quello Stato del quale hanno appena avuto il riconoscimento “de facto” alle Nazioni Unite. «Le costruzione di nuovi insediamenti sono illegali, e per questo Israele deve essere considerato responsabile di crimini di guerra contro il popolo palestinese», ha denunciato ieri al Consiglio di sicurezza l’ambasciatore palestinese all’Onu Ryad Mansour, «la politica colonialistica deve finire: oppure Israele dovrà essere considerato responsabile per i crimini posti in essere».
La collina E 1 è uno dei pochi luoghi intorno a Gerusalemme che anche Cristo e i suoi apostoli potrebbero ancora riconoscere: una collina arida, sassosa e polverosa, riarsa dal sole e battuta dal
vento caldo, talvolta percorsa dai pastori beduini che con le loro greggi ancora attraversano queste alture. Sono solo 12 chilometri quadrati ma in un punto strategico. Costruire qui significa creare un cuneo nel cuore della Cisgiordania, che isolerà i Territori dell’Anp da Gerusalemme, compromettendo così la contiguità territoriale di uno Stato palestinese: sarà impossibile andare da Ramallah
(nord) a Betlemme (sud). I progetti di espansione nella zona vennero avviati nel Duemila e ma poi sono sempre stati fermati per le pressioni americane. Un blocco mal digerito già a quel tempo da Netanyahu che si esibì qui in un polemico show per denunciare il «cedimento» dell’allora premier Sharon. Ma intanto erano già state spese somme enormi per le strutture, le basi erano state gettate e sono rimaste.
Oggi è una specie di città fantasma, strade — che sembrano non andare da nessuna parte — seguono i pendii rocciosi e l’ombra dei lampioni si stampa su marciapiedi vuoti. Ci sono le piazze, gli incroci, le rotatorie, i terreni edificabili sono stati livellati ma mancano gli edifici e le case private. Sembra il set di un film abbandonato a metà da un regista rimasto senza soldi e
senza idee. C’è solo una costruzione che sta proprio in cima alla collina. È un piccolo fortino e ci si arriva percorrendo una strada nel nulla. Ospita il distretto della Polizia israeliana per la Giudea e la Samaria, ed è senz’altro uno dei commissariati più strani del mondo perché è completamente staccato dalla popolazione che dovrebbe servire.
Incuranti della crisi internazionale che è nata attorno alla E1, i sostenitori del progetto resuscitato da Netanyahu lo difendono come la naturale estensione del vicino insediamento di Maale Adumim — la cittadina con le villette dai tetti rossi che si vede sulla collina di fronte — la reazione d’orgoglio nel diritto che Israele ritiene di avere nel costruire dove «necessario per la sua espansione». Dice Benny Kashriel, il sindaco di Maale Adumim: «Molti governi hanno promesso di costruire qui, ma come vede intorno a noi ci sono solo colline vuote. Adesso vedremo se Netanyahu avrà il coraggio di andare fino in fondo».
L’avvocato Daniel Seidmann, che patrocina alcune cause dei proprietari palestinesi della zona, mostra una serie di mappe che raccontano la storia complessa che c’è dietro la zona E 1: un piano globale per circondare Gerusalemme con gli insediamenti colonici e separarla dalla Cisgiordania. La città santa è al centro di due “cerchi”: quello interno è costituito dai piccoli insediamenti attorno alla Old City e alle sue Mura, il secondo è esterno e attraversa tutte le alture intorno a Gerusalemme, dove già esistono le grandi colonie sponsorizzate dal governo. La “collina del giorno del giudizio” è l’ultima. Il pezzo mancante del puzzle per chiudere il cerchio esterno.
L’insediamento di Maale Adumim, alle porte di Gerusalemme

Repubblica 5.12.12
Netanyahu mette alla prova la pazienza di Usa e Ue
di Gilles Kepel


L’IRRIGIDIMENTO della politica colonizzatrice israeliana dopo il riconoscimento della Palestina come Stato non-membro dell’Onu ricorda quanto accadde, un anno fa, quando questa fu ammessa all’Unesco. Oggi, tuttavia, il progetto dello Stato ebraico appare ancora più sorprendente: la costruzioni dei nuovi insediamenti a Est della città vecchia di Gerusalemme finirebbe per tagliarla dalla Cisgiordania con cui è connessa tramite il passaggio di Kalandia. E’ chiaro che con questa provocazione il premier Benyamin Netanyahu vuole mettere alla prova la pazienza dell’Europa e del presidente americano rieletto, Barack Obama.
Ma qual è la vera ragione della sfida di Netanyahu? Per capirla non ci si deve fermare alla situazione interna israeliana. Infatti, il premier ha sciolto la Knesset e anticipato le elezioni a gennaio. Ora, durante l’offensiva su Gaza diversi missili sparati da Hamas sono caduti vicino a Tel Aviv, città tradizionalmente di sinistra ma che lo spavento di quei giorni potrebbe spingere verso il partito dei “falchi”. In un contesto internazionale in cui la primavera araba è vista sia come l’autunno del caos sia come l’inverno islamista, ogni forma di fermezza nei confronti degli arabi è ovviamente fruttuosa.
Tuttavia, più che come rappresaglia il debole Abu Mazen, la politica israeliana sembra tesa al conseguimento di obiettivi strategici in Medio Oriente, con l’ovvio beneplacito non solo degli
occidentali ma anche di quelle cancellerie arabe sunnite che sono terrorizzate dalla minaccia iraniana. Quando ha attaccato la Striscia, distruggendo i suoi siti missilistici, Netanyahu mirava in realtà il fronte iraniano, dal momento che Hamas è la punta più avanzata dell’influenza di Teheran in Medio Oriente.
Basta ascoltare i predicatori sunniti o salafisti nel Qatar, nel Bahrein e in Libano, i quali si dicono convinti che la presa di potere di Hamas a Gaza nel 2007 sia stata un’operazione voluta dall’Iran, così come la guerra di Hezbollah contro Israele nel 2006 o l’attacco contro i sunniti libanesi nel 2008.
Fino al mese scorso, quando Israele voleva parlare con Hamas non trovava mai un interlocutore, perché i suoi referenti erano sia a Damasco sia a Teheran. Ma le cose sono cambiate: da un lato Hamas ha perduto il sostegno siriano; dal-l’altro, l’attacco israeliano contro Gaza ha fortemente indebolito il ramo proiraniano del partito islamico palestinese, favorendo invece coloro che sono più vicini ai Fratelli musulmani egiziani. Perciò, nonostante le dimostrazioni di vittoria inscenate a Gaza, Israele ha segnato un punto importante. Da ora in poi per trattare con Hamas gli basta comporre il prefisso egiziano. Non solo: all’indomani delle rivoluzioni arabe sembra finalmente delinearsi una politica dello Stato ebraico riguardo alla spaccatura sciita-sunnita, che vede tra i suoi antagonisti l’Iran aiutato dall’Iraq, da ciò che resta della Siria di Bashar Al Assad e da Hezbollah da un lato e i Paesi del Golfo capeggiati dall’Arabia saudita dall’altro.

il Fatto 5.12.12
Attentato contro i fascisti di Alba dorata
di   Roberta Zunini


QUANDO I SONDAGGI RIVELANO che il primo e il terzo partito greco sono rispettivamente una coalizione di sinistra radicale, Syriza, e un partito neonazista, Alba dorata, per la prima volta in Parlamento, vuol dire che la pace sociale è a rischio. Se poi ci si mette anche un ministro “di peso”, Evangelos Venizelos leader del socialista Pasok, a soffiare sul fuoco in modo maldestro, la bomba scoppiata ieri notte ad Atene davanti alla sede di Alba dorata, senza fare né feriti né vittime, sembra il minimo che possa succedere.
Il giorno precedente l'attentato Venizelos si era rivolto ai “partiti democratici”, invitandoli “a combattere penalmente Alba dorata perchè si tratta di un’organizzazione criminale e nazista”. Ma se oggi la Grecia ha pericolosi squadristi in Parlamento, è proprio per colpa di quei partiti democratici corrotti fino al midollo che hanno illuso, derubato e tradito la popolazione. Nel frattempo Venizelos ha anche chiesto il licenziamento del direttore della Guardia di finanza Stelios Stasinopulos per aver detto e poi smentito che nella lista di 2mila possibili evasori greci (avuta dall’Fmi) con conti in Svizzera – che Venizelos aveva tenuta nel cassetto per due anni – c'era anche la madre dell'ex premier socialista George Papandreu.

Corriere 5.12.12
Il governo russo rassicura: «Non ci sarà l'Apocalisse»
Panico in tutto il Paese per la profezia dei Maya
di Fabrizio Dragosei


MOSCA — Diverse persone in tutto il mondo credono veramente che il 21 dicembre il mondo finirà, quando giungerà al termine un ciclo di 5.125 anni previsto dal calendario Maya. In Russia però la cosa è stata presa assai seriamente da un popolo che dopo il crollo dell'ideologia comunista ha cercato nuovi punti di riferimento, anche nelle sette più stravaganti. Così c'è chi fa incetta di beni di prima necessità, dai fiammiferi alle scatolette di salmone. E chi semplicemente non regge alla pressione psicologica, rendendo necessario l'intervento di psicologi e sacerdoti.
Le autorità sono spaventate e per cercare di riportare la calma non hanno pensato a nulla di meglio che a dichiarazioni apodittiche in puro stile sovietico. Qualcosa tipo «noi lo sappiamo, non ci sarà assolutamente nessuna catastrofe».
A parlare è stato il ministro della protezione civile in persona: «Ci sono metodi per monitorare quello che succede nel mondo», ha dichiarato Vladimir Puchkov. Poi si è imbarcato in uno stranissimo ragionamento (tutto da dimostrare): «Catastrofi globali avvengono una volta ogni dieci, quindici milioni di anni e gli ultimi cataclismi seri si sono verificati alcune centinaia di anni fa». Quindi, per ora, nessun rischio. Naturalmente questo non vuol dire che non ci saranno inondazioni, tornado e carestie. Ma il mondo non finirà.
Le rassicurazioni, comunque, non sembrano aver tranquillizzato tutti. Nella prigione femminile del paese di Gornoye, vicino Vladivostok, i discorsi sulla profezia avevano creato un profondo turbamento delle recluse, alcune delle quali erano riuscite a evadere. Così è stato convocato un sacerdote, padre Tikhon.
La chiesa, naturalmente, non nega che un giorno ci sarà la fine del mondo. Ma come ha precisato acutamente il patriarca d'Ucraina, «l'Apocalisse arriverà, ma sarà provocata dal declino morale dell'umanità, non da un allineamento di pianeti alla fine del calendario Maya».
A Chelyabinsk, in Siberia, si sono comunque dati da fare per costruire un arco di ghiaccio in stile Maya. E l'hanno piazzato nella centrale via Karl Marx. A Ulan Ude, la capitale della repubblica di Buryatiya tra il lago Bajkal e la Mongolia, l'attesa per il 21 dicembre è diventata frenetica a causa delle predicazioni di un monaco tibetano chiamato «l'oracolo di Shambhala». La gente si è affrettata ad accumulare provviste di candele e pesce secco per sopravvivere a un lungo periodo di buio e carestie. Lo stesso panico ha colpito anche la cittadina di Omutninsk, ai piedi degli Urali, dopo un articolo scherzoso del giornale locale sulla profezia dei Maya: nei negozi non si trova più una candela.
Alcuni russi prendono molto sul serio le profezie: qualche anno fa 35 persone si chiusero in una galleria scavata sottoterra per dar retta alla parole di un santone che (anche lui) aveva predetto la fine del mondo. La polizia ci mise sei mesi a convincerli a uscire fuori.
Nelle grandi città c'è invece chi ha preso l'intera questione come una buona occasione per farsi quattro risate. Un agente di viaggi ha messo in vendita biglietti per il paradiso e per l'inferno. Una azienda di Tomsk, nella Siberia occidentale, ha lanciato un kit di sopravvivenza da 20 euro con cibo in scatola, l'immancabile bottiglia di vodka e anche corda e sapone per chi pensasse di non riuscire a reggere allo stress.
Ma le autorità, come abbiamo visto, non prendono la cosa sottogamba. Un gruppo di deputati ha chiesto alle televisioni di non parlare più della profezia. E il direttore dell'Istituto di Sanità ha proposto di trascinare in tribunale chi continuerà a diffondere queste voci. Naturalmente il 22 dicembre, se non sarà successo nulla.

Corriere 5.12.12
I miei compagni gettati in mare dall'aereo e lo sguardo dei loro aguzzini trent'anni dopo
Si è aperto in Argentina il maxi processo sui crimini della giunta militare di Videla
di Marco Bechis


Jorge Rafael Videla, capo della giunta militare argentina dal 1976 al 1981 ha compiuto 87 anni. Sconta l'ergastolo in carcere, niente domiciliari. La sua vita si consuma dietro le sbarre, un letto singolo, il crocifisso al muro. Qualche mese fa ha confessato ad un giornalista off the record di essere il responsabile dell'uccisione di almeno 7.000 oppositori, ha riconosciuto il furto di molti neonati strappati alle madri dopo il parto, ed ha accusato la classe imprenditoriale di averlo incitato al massacro. «Abbiamo preso la decisione di farli scomparire per non provocare proteste dentro e fuori dal Paese. Ogni scomparsa può essere intesa come un mascheramento, la dissimulazione di una morte». Ma non dice altro. Nessun ex militare ha dato informazioni concrete: luoghi di sepoltura, liste di vittime e di neonati oramai trentenni che le Nonne di Plaza de Mayo stanno ancora cercando. Dopo 35 anni la violenza di quel silenzio si è fatta assordante. Ma Videla è in carcere mentre Pinochet morì nel letto di casa sua. Il fenomeno argentino dei processi e delle condanne per i crimini della dittatura è unico in Sudamerica.
Il maxi processo dell'Esma è iniziato una settimana fa a Buenos Aires con la lettura dei 789 nomi delle vittime con indicazione dei tormenti subiti. Ogni giorno 67 ex militari arrivano in tribunale ammanettati. Quattro ambulanze stazionano fuori per chi si sente male, c'è molto da fare perché gli imputati simulano malori per ritardare il dibattimento.
All'Esma (Escuela de Mecánica de la Armada) hanno inventato i voli della morte. Oggi è monumento storico e sede di organismi dei diritti umani, luogo di pellegrinaggio internazionale come il Museo dell'Olocausto a Berlino, Treblinka e Birkenau. L'Ammiraglio Massera (detto Comandante Zero, membro della P2) era il capo. Non si dovevano ripetere gli errori cileni con gli stadi pieni ed il ripudio internazionale. Bisognava fare le cose per bene, in silenzio. C'era un Mondiale ‘78 alle porte. Con regolarità settimanale, gli aerei Skyvan partivano dall'aeroporto vicino allo stadio del River Plate. Dopo qualche ora di volo i piloti davano il segnale, il portellone si apriva e gli ufficiali addetti spingevano i corpi addormentati in mare aperto. Tra i 67 imputati c'è Julio Poch, uno di quei piloti. L'altro giorno mostrava alle telecamere un cartello che recitava: «Le accuse che mi rivolgono sono false», era scritto in spagnolo ed in olandese. Poch ha lavorato nella linea aerea Transavia fino a quando lo hanno arrestato tre anni fa.
Nel 2007 la Corte di Giustizia decretò l'incostituzionalità delle leggi di amnistia del governo Menem ed oggi i militari sono tutti sotto processo. Erano stati 18 anni di incubo per i parenti delle vittime che incontravano i torturatori per strada; l'impunità che si respirava era insopportabile. Mi dicevo che non sarei mai più riuscito a vivere in quel Paese.
Nel luglio 2010 il Tribunale mi invitò a testimoniare e decisi di partire. Era la causa ABO (Atlético, Banco, Olimpo) tre altri famigerati luoghi di tortura. Ne funzionarono più di trecento. Sul volo Milano-Baires mi chiedevo che cosa avrei fatto quando mi sarei trovato di fronte i responsabili del mio sequestro e della scomparsa di migliaia di compagni. Parlare in tribunale non è come dibattere in tv.
E arrivò il giorno. Mi accomodai al banco dei testimoni, passando di fronte ai 16 imputati senza guardarli neanche per un istante. Giurai di dire il vero e prima che il pubblico ministero facesse la prima domanda, lo interruppi e rivolgendomi alla Signora presidente del tribunale, chiesi di essere messo alla pari: questi signori potevano forse riconoscermi — anche se il tempo passa per tutti — ma io certamente non avrei potuto farlo perché nel Club Atlético eravamo tutti bendati. Pretesi quindi che quei signori mi fossero indicati per nome. La presidente chiese alle parti se avessero qualcosa in contrario, le parti discussero e acconsentirono a quella mia stravagante richiesta. A quel punto tirai fuori dalla mia tasca un foglio di carta ed una Bic. La signora giudice iniziò a chiamare per nome ognuno dei 16 imputati, io li fissavo severamente e trascrivevo i loro nomi. Leggevo nelle loro facce lo sgomento per quel gioco capovolto: avevano di fronte un ex prigioniero che li stava schedando. Poi, in un silenzio teatrale, piegai il foglio e lo infilai nel taschino. A quel punto mi sentivo sicuro, non temevo più nulla. Fu la prima e l'ultima volta che li guardai in faccia. Il pubblico ministero mi fece la prima domanda e per un'ora e un quarto raccontai la mia vicenda.
Il golpe fu preparato con buon anticipo. Ci voleva un po' d'ordine perché il livello di sindacalizzazione era fuori dal comune per un Paese sudamericano. Il peronismo con uno sciopero era in grado di paralizzare il Paese. La disarticolazione sindacale era fondamentale per l'allargamento degli affari e degli investimenti stranieri, gli italiani erano in prima fila. Già nel 1975, un anno prima del golpe, c'era un tacito accordo tra le gerarchie militari, il mondo dell'impresa e gran parte delle gerarchie ecclesiastiche. Era tale la coesione che la diplomazia si adeguava. In piena dittatura, nell'Ambasciata Italiana di Buenos Aires furono installate delle «bussole» d'accesso comandate a distanza, come quelle che usiamo per entrare in banca, per evitare di dover farsi carico di rifugiati politici. L'ordine da Roma era: «Niente asilo politico».
La dittatura finì nel 1983 con le prime libere elezioni. A oggi sono trent'anni di democrazia, il periodo più lungo senza colpi di Stato della corta storia argentina. La democrazia ha bisogno di tempo. Ritornai dopo l'esilio nel 1984. Ricordo l'impressione di un Paese tramortito, ancora pieno di paura, come quando ci si risveglia in aereo e si crede per un istante di essere nel proprio letto. Riabbracciai i compagni sopravvissuti e mi riappropriai lentamente della città. Andai anche a conoscere Jorge Luis Borges. Il suo salotto spoglio, un tavolo, un paio di divani e un'Enciclopedia Britannica incastrata in un mobiletto su misura, nessun quadro ai muri. Era l'appartamento di un cieco. Avevo chiesto di incontrarlo per parlargli di un mio progetto di film tratto da tre suoi racconti. La sera prima sua moglie Maria Kodama glielo aveva letto. Ma la conversazione con lui finì subito perché mi disse di non essere interessato. Nel mio eventuale film volevo si vedesse la sua Biblioteca di Babele in una rete telematica tipo internet che ancora non esisteva. «Non so come sia fatto un televisore, e lei mi parla di strane macchine!», mi rimbrottò. Cambiammo forzatamente discorso e gli raccontai allora della mia esperienza nel Club Atletico. Gli chiesi cosa pensasse di quella sofisticata invenzione argentina che era stata il desaparecido, volevo sentirlo parlare della storia recente del nostro Paese. E dopo una pausa riflessiva ma velocissima, nascosto sotto le sue sopracciglia bianchissime e folte, con l'abilità istintiva di un bambino che sa cambiare gioco, spostò il discorso in un altro Paese, in un'altra epoca e iniziò a parlare della secessione americana, della guerra civile con il suo milione di morti, sapeva tutto dei nordisti e dei sudisti. Mi stava dicendo: «Quella sì che è stata una vera guerra». Quando finalmente mi congedai, non gli diedi la mano. Pensai, giustificandomi: «A un cieco non si dà la mano».

Corriere 5.12.12
Quei no alla nazionalizzazione elettrica Da Edison a Sade, i timori su Togliatti
di Stefano Agnoli


È stata la seconda grande nazionalizzazione italiana. Nel 1905 la legge numero 138 del 22 aprile dispone il passaggio al pubblico della maggior parte delle linee ferroviarie. Il 6 dicembre 1962, cinquant'anni fa, la legge numero 1643 istituisce l'ente di diritto pubblico Enel. Quando il presidente della Repubblica Antonio Segni (in carica dal maggio precedente) firma la norma, i consumi elettrici pro capite degli italiani sono ancora notevolmente inferiori a quelli dei principali Paesi europei. Un divario avvertito soprattutto al Sud. L'elettricità non arriva a tutti gli italiani: il censimento generale della popolazione del 1961 rileva che più di 700.000 abitazioni, il 5,1%, ne sono prive. Sei famiglie su dieci hanno la televisione, molte meno (tre su dieci) lo scaldabagno elettrico.
Ma se le necessità di fondo che spingevano verso la nazionalizzazione erano sociali e soprattutto industriali — si era in pieno boom economico e le forniture all'industria sarebbero state meglio assicurate da un unico soggetto pubblico piuttosto che da più soggetti privati frazionati — la partita che si era giocata in quegli ultimi anni era stata soprattutto politica. E poi di potere e di denaro, tanto denaro. Una storia raccontata più volte, da ultimo da Valerio Castronovo nel suo recentissimo «Il gioco delle parti» (Rizzoli). Tra tante contorsioni la Dc e il governo di Amintore Fanfani (quello definito delle «convergenze parallele» dal segretario politico Aldo Moro) avevano dovuto interrogarsi sulla fine del centrismo e avevano aperto a sinistra, staccando così i socialisti dai comunisti. Le diverse anime del Psi di Pietro Nenni su una sola cosa erano d'accordo: le «riforme di struttura». E la regina delle riforme non poteva che essere una, come richiedeva a viva voce il leader della sinistra socialista Riccardo Lombardi: la nazionalizzazione dell'energia elettrica che sfociò, appunto, nella nascita dell'Enel.
L'opposizione era stata trasversale: all'interno degli stessi partiti di governo (perché, sostenevano i dorotei, spartire le chiavi della politica economica con socialisti e repubblicani?) anche se l'ostinazione più feroce e partecipata fu ovviamente quella degli industriali. Degli uomini del «trust elettrico» composto da Edison, Sade, Centrale e Bastogi. E su tutti — non solo perché era alto più di un metro e novanta — l'ingegner Giorgio Valerio. Il capo indiscusso (e intrattabile, secondo la testimonianza di molti) della società di Foro Buonaparte. L'argomento di facciata era quello del «cavallo di Troia»: la nazionalizzazione elettrica sarebbe stata un grimaldello che avrebbe aperto la porta della stanza dei bottoni al Pci di Palmiro Togliatti. Una resistenza, quella dei privati, espressa in posizioni articolate e con una loro evoluzione intrinseca. Tanto che, secondo quanto anche Castronovo pare accreditare, l'arroccamento di Valerio e degli «elettrici» può essere letto in retrospettiva come un tentativo di alzare il prezzo degli indennizzi. Un conto assai ricco: nei primi cinque anni furono trasferite alla neonata Enel un migliaio di imprese (furono poi circa 1.300) e l'esborso della mano pubblica arrivò a circa 1.650 miliardi delle vecchie lire. Alla fine del processo i privati incamerarono più o meno 2.200 miliardi. E non fu istituito, come era nei progetti, un fondo di dotazione al nuovo ente pubblico, un po' sul modello di quanto era stato fatto per l'Eni. Una mossa che tutelò in qualche misura i conti dello Stato, venendo incontro ai timori della Banca d'Italia e a quelli dei meridionalisti come Pasquale Saraceno che paventavano pericolosi riflessi dell'operazione sui propositi di rilancio del Mezzogiorno.
È curioso constatare che nel lungo e travagliato processo della nascita dell'ente elettrico neppure il fronte confindustriale risultasse molto compatto. Da esso il «partito Fiat» si distaccò. Vittorio Valletta e l'avvocato Agnelli guardavano avanti, e avevano maturato un atteggiamento assai meno critico nei confronti del centrosinistra in seguito all'incontro che ebbero alla Casa Bianca (15 maggio 1962) con il presidente John Kennedy.
Dopo quell'appuntamento scattò anche la molla di ostilità e antipatie personali: Valerio ventilò addirittura l'ipotesi di creare una società comune con la Volkswagen per produrre auto in Italia.

Corriere 5.12.12
I dossier dall'inferno Buchenwald. L'ultima stazione prima del buio
Il miracolo Vogelmann, l'unico italiano salvato da Schindler
di Corrado Stajano


Il Totenbuch, il registro dei morti del lager di Buchenwald, agghiaccia la pelle anche a vederlo solo in fotografia, con la sua lugubre copertina nera. Contiene, annotati con ossessiva minuzia, i nomi, le date, i luoghi di origine, l'ora e il minuto della morte dei deportati. La loro vita è maniacalmente classificata: i comportamenti durante gli interrogatori e nelle baracche, le malattie, le frustate, persino il numero dei pidocchi trovati nell'ultima ispezione corporale.
Marco Ansaldo, autore di un terribile libro, Il falsario italiano di Schindler, uscito da Rizzoli (pp. 273, 18), ne ha potuto vedere molti di Totenbuch, che raccolgono i nomi delle vittime della persecuzione nazista. Giornalista di «Repubblica», è stato tra i primi al mondo a entrare nell'archivio di Bad Arolsen, in Assia, nella Germania centrale, aperto agli studiosi, dopo infinite tergiversazioni e patteggiamenti, soltanto nel 2007. Ansaldo ha visto e rivisto milioni di documenti contenuti nei 26 chilometri di schedari d'acciaio dell'archivio che raccontano con inimmaginabile precisione quel che accadde agli ebrei, ai politici, ai militari, agli omosessuali, agli zingari catturati dai nazisti. Non solo a Buchenwald, ma in tutti i lager sperduti nelle nazioni sotto il dominio del Terzo Reich, ad Auschwitz, a Bergen-Belsen, a Dachau, a Flossenbürg, a Mauthausen e altrove.
L'autore ha studiato per anni faldoni, fascicoli, mappe, disegni, schede, quaderni. «Un inferno di carta», ha scritto. Ha visto anche fotografie, microfilm e gli oggetti più diversi che appartennero ai prigionieri. Nonostante la bibliografia sull'inferno nazista dopo tanti decenni sia enorme, questo è un libro impressionante. Aggiunge infatti a quel che si sa altre informazioni dolenti e senza possibilità di smentita sui Muselmann, i prigionieri senza speranza della follia ideologica di Hitler, sui loro destini annebbiati e perduti.
Non molti sui giornali hanno scritto di questo libro. Si fa di tutto per dimenticare quel che allora accadde anche perché fa male al cuore?
Il libro di Ansaldo, davvero all'opposto della moda corrente, scopre nuovi tasselli utili per far capire, forse anche ai negazionisti, cosa fu la crudeltà nazista che ha marchiato non soltanto il Novecento. Scrisse anni fa Norberto Bobbio che i campi di annientamento furono «non uno degli eventi, ma l'evento mostruoso, forse irripetibile della storia umana».
Chi fu l'italiano della Schindler's List, la vicenda nota per il film di Steven Spielberg del 1993 che dà il titolo al libro? Fu Schulim Vogelmann, maestro tipografo, ebreo polacco divenuto italiano, deportato da Milano — dal binario 21 — ad Auschwitz. Ansaldo ha trovato il suo nome sotto la scritta «Ju.Ital.» su una carta coi bordi strappati, la lista di Schindler. È l'unico italiano dei 1117 salvati dall'industriale nazista tedesco. Nessuno l'aveva mai scoperto. Il giornalista ha fatto numerosi riscontri, ha parlato con il figlio Daniel, direttore e anima della Giuntina, la casa editrice di Firenze specializzata nel pubblicare opere della cultura ebraica. Per la sua abilità di tipografo, Schulim Vogelmann divenne uno dei «falsari» dell'Operazione Bernhard, inventata dai nazisti per mettere in ginocchio l'economia britannica immettendo sul mercato inglese una grande quantità di sterline false, 133 milioni, sembra. Il piano non andò in porto. Vogelmann riuscì a entrare nella famosa lista e si salvò, forse anche per la sua conoscenza delle lingue. Tornò, divenne editore, morì nel 1974.
Ansaldo ha trovato anche le schede di Primo Levi, alcune decine conservate in uno degli alti scaffali dell'archivio, «scarne, quasi asettiche, riempite molto seccamente dei soli dati anagrafici»: dall'arresto a Champoluc nel dicembre 1943 ad Auschwitz, numero di matricola 174517. («A distanza di quarant'anni, il mio tatuaggio è diventato parte del mio corpo», scrisse nel suo I sommersi e i salvati).
Anche per Primo Levi la conoscenza della lingua fu essenziale per la salvezza, come la salute e l'aiuto di un muratore di Fossano, «un santo che trovava ovvio aiutare chi soffriva», oltre al lavoro nel laboratorio chimico che gli diede qualche privilegio.
Il libro è di grande interesse, persino romanzesco, un romanzo nero. Ansaldo incontra nelle carte e anche nella vita una catena di personaggi non comuni, i pochi sopravvissuti. Boris Pahor, lo scrittore sloveno, si stupisce quando il giornalista gli fa vedere a Trieste la sua scheda. I nazisti annotarono tutto di lui, come reagiva agli interrogatori, ma anche notizie sugli occhiali che portava, sull'udito, sulla dentatura disegnata con precisione: un ponte e una corona .
Imre Kerstész, poi, Premio Nobel per la letteratura nel 2002. I nazisti, nel suo caso, non furono diligenti come al solito. Lo diedero infatti per morto a Buchenwald il 18 febbraio 1945. È arrabbiato, Kertész, deportato ragazzo, per il «kitsch dell'Olocausto» che sente intorno a sé. «Non si ha il coraggio — dice ad Ansaldo — di chiamare quel che è avvenuto col suo vero nome, la distruzione degli ebrei in Europa».
Edith Bruck, la scrittrice deportata tredicenne da un povero villaggio ungherese, ha mantenuto, con amara intelligenza, la promessa di «parlare per loro», i morti.
Ansaldo non si è mai stancato di cercare nello sterminato archivio. Ha trovato, tra i tanti, lo smilzo dossier di Irène Némirovsky morta ad Auschwitz. Jüdin, giudea, la condanna un documento. Nascosta in Francia, l'autrice di Suite francese, al momento dell'arresto riesce a scrivere il suo ultimo biglietto: «Giovedì mattina. Mio amato, mie piccole adorate. Credo che partiremo oggi. Coraggio e speranza. Siete nel mio cuore, miei diletti. Che Dio ci aiuti tutti». Ha quarant'anni, è una donna minuta e gentile. Muore di tifo un mese dopo l'arresto, il 19 agosto 1942, «alle ore 15.20». Il marito muore nelle camere a gas il 6 novembre.
Dietrich Bonhoeffer, il grande teologo che cospirò contro Hitler, fu impiccato; Mafalda di Savoia, la figlia del re Vittorio Emanuele III morì nel bordello di Buchenwald, ferita in un bombardamento, operata dolosamente in ritardo tra atroci sofferenze; Wilhelm Canaris, il potente capo dei servizi segreti di Hitler coinvolto nell'attentato del 20 luglio 1944, fu strangolato con una corda di pianoforte a Flossenbürg.
Anna Frank, infine, tra i molti altri degni di memoria. Il documento è gelido come i carcerieri della ragazzina: «Frank, Annelies Marie Sara. Nata il 12 giugno a Francoforte. Residente ad Amsterdam, in piazza Mervede 37, II piano. Nubile...».
Due segni dalla forma di croce uncinata, incisi a penna in cima e in fondo al foglio, bollano, l'8 agosto 1944, il documento d'internamento di Anna che con il suo diario ha fatto piangere di commozione e di orrore il mondo.

Corriere 5.12.12
Grande e piccolo, la scala del Bello
Perché l'arte (e la vita) si basano sul contrasto fra misure
di Gillo Dorfles


Che la dimensione, la proporzione degli oggetti, dei manufatti, e soprattutto delle opere d'arte, abbia un indubbio valore è sin troppo evidente. «Piccolo è bello» era un motto popolare, coniato pensando probabilmente all'anello, al monile; ma altrettanto «bello» è il grande, dalle Piramidi al Pantheon. Quello, invece, che troppo spesso si tralascia di considerare è il rapporto delle dimensioni, i rapporti scalari d'un singolo oggetto; si tratti d'un oggetto artigianale, di una persona umana o di un'opera d'arte — pittura, scultura architettura — dove un errore di scala, un'assenza di proporzionalità, è destinato a comprometterne l'equilibrio e la «bellezza» che la giusta dimensione presenta in un oggetto d'uso, in un attrezzo, e diventa determinante e irrecusabile in un'opera d'arte, dove la relative proporzioni e la «scala» rispetto all'ambiente o ad altri oggetti appare come inalienabile alla valutazione della sua apparenza e sostanza estetica. E questo vale non solo per dei quozienti numerici, ma per delle misurazioni orizzontali, verticali, per la profondità o superficialità delle immagini presenti nell'opera.
Uno studio approfondito di questo complesso problema viene ora pubblicato da Ruggero Pierantoni (Salto di scala, Bollati Boringhieri), che analizza con grande rigore molti dei casi più rilevanti in cui appare il quesito «scalare»; tanto per quanto riguarda la «fattura» dell'opera quanto la presenza delle immagini che si prestano a questa indagine. Gli esempi sono molteplici e dei più diversi settori ed epoche; da un «Grande pesce» nella Basilica di Aquileia a un disegno di Eizenstejn, dal Poseidon dell'Artemisium di Atene a una statua di Calder dei nostri giorni; un elenco sarebbe ovviamente inesauribile.
Da tutti questi esempi è facile comprendere come non sia solo il problema della grandezza e piccolezza a contare, ma quello della verticalità o della orizzontalità delle immagini e delle opere e, insomma, il loro rapporto scalare. Che poi questo rapporto appaia anche fuori dalle immagini e dai capolavori artistici, lo prova la vita di tutti i giorni; non ho bisogno di rifarmi alle favole di Giona o Gulliver, alle storie dei pigmei o dei giganti, ai geni malefici o ai santi colossali (come il San Carlo del Lago Maggiore). Chi poi analizzi le tante figurazioni dell'arte sacra, dove spesso la grandezza della persona è in rapporto alla sua devozione e dove la demoniacalità spesso è unita a una scala inferiore, non tarderà a comprendere come il fattore scalare giochi in molte creazioni dell'artista. Ma a quali altri esempi potremo accennare per rendere più evidente il nostro assunto? Certo un minuto ritratto di Antonello da Messina sarà «soffocato» da un grande nudo di Rubens, oppure una statuetta votiva da una gigantesca sfinge egiziana, per non parlare dei nostri giorni: si pensi a un fragile disegno di Cy Twombly accanto a un solenne Picasso.
Tuttavia, ancora una volta, non sono certo grandezza e piccolezza che possono essere alla base dei valori anche dimensionali. L'intensità del colore o del segno, la profondità prospettica, la sfumatura e l'ombreggiatura sono altrettante fonti di identità che, poste a confronto, acquistano un valore scalare.
In definitiva il «salto di scala», l'incongruenza dimensionale non riguarda soltanto la dimensione degli oggetti o delle persone e le loro valenze numeriche; ma anche le incongruenze estetiche e ideologiche che spesso si presentano. Ecco, ad esempio, un caso tipico: quello cui mi è accaduto di assistere mentre, con l'architetto Mies Van der Rohe, visitavo un suo grattacielo a Chicago (il «Lake shore drive», per maggior esattezza). L'appartamento in cui il grande architetto mi conduceva valeva proprio a dimostrarmi come si potesse rovinare un ambiente per mancanza di sensibilità e di gusto. Si trattava d'un appartamento acquistato da una vecchia signora ebrea viennese, la quale aveva stipato gli ambienti con tutte le cianfrusaglie, ma soprattutto i massicci mobili Biedermeier importati dall'Austria, con un risultato ovviamente deleterio. In quel caso il «salto di scala» non era solo dimensionale, ma ideologico.
Del resto mi è accaduto di sperimentare in corpore vili, ossia su me stesso, questa incongruenza dimensionale: ricordo quando, attorno ai tredici anni, desiderai di abbandonare i calzoncini corti per mettere quelli «da uomo». Nei primi tempi, ad ogni giovane che incontravo per la strada mi si presentava il quesito morboso se io fossi abbastanza alto per poter degnamente indossare i calzoni lunghi. «Futilità adolescenziali», ovviamente, ma che ci dicono come il «salto di scala» possa essere determinante in molte situazioni.
Il libro: Ruggero Pierantoni, «Salto di scala. Grandezze, misure, biografie delle immagini», Bollati Boringhieri, pp. 320, 39

Repubblica 5.12.12
Il bisogno di eroi
Dall’Eneide al Pop l’epica non muore mai
Nuove traduzioni, riletture, fumetti e applicazioni rilanciano i poemi dell’antichità
Ci sono versioni “alte” o bizzarre ma la passione per il mito rimane la stessa
di Maurizio Bettini


Che cosa facciamo noi Italiani quando “traduciamo” un testo? Lo “conduciamo dall’altra parte”, perché questo significa letteralmente il verbo tra-durre. È come se prendessimo un romanzo portoghese di Saramago, lo conducessimo fino alla frontiera linguistica che lo separa dall’Italia e lo facessimo passare di là, rendendolo in italiano. Ma come la pensavano in proposito i romani antichi? Quando Plauto traduceva in latino una commedia di Menandro, anche lui conduceva dall’altra parte il testo greco? Niente affatto, lo trasformava. La parola che a Roma si usava per tradurre, ossia “vertere”, significa infatti questo: mutare in modo radicale, far diventare altro – proprio come la ninfa Dafne si trasforma in alloro sotto le mani di Apollo, o Giove si muta in Anfitrione per sedurre Alcmena. Alla maniera di un dio, il traduttore romano aveva il potere della metamorfosi.
Inutile dire che questo modo di pensare la traduzione suscita un problema di grande rilevanza. Qualsiasi metamorfosi, infatti, presuppone che, nel nuovo essere, resti traccia dello stato precedente – altrimenti, dove starebbe la metamorfosi? Ma la nuova apparenza dovrà conservare memoria della precedente condizione, l’identità del testo deve essere preservata. Già, ma in che misura? E attraverso quali mezzi? Di certo i testi tradotti debbono mantenere memoria di se stessi. Anche nei modi più inaspettati o bizzarri.
Ma questo non deve sembrare un problema da specialisti o da eruditi. Soprattutto oggi quando siamo di fronte a tante traduzioni così diverse dei classici dell’epica. Alte e pop. Dal cinema ai fumetti, fino alle nuove versioni per i più esperti. C’è, forse, un bisogno di eroi, di simboli (i nostri cari archetipi),
che hanno radici antiche e dunque forti, riconoscibili. C’è, sicuramente, la necessità di ricostruire una tradizione nelle nuove traduzioni.
Prendiamo, ad esempio, le traduzioni dell’Iliade. Di regola in copertina recano la riproduzione di un vaso attico o, se va male, un cavallo di Troia. L’ultima versione inglese del poema – a partire dal duemila se ne contano almeno dieci - sfoggia invece un Cassius Clay che, in piedi sul ring, guarda dall’alto in basso l’avversario abbattuto: Ettore ko. La trovata editoriale non sarà di gran gusto, ma il segno è chiaro: l’epos non è mai morto, anzi, e adesso è Mohamed Alì che incarna la memoria contemporanea di Achille. Il fatto è che la violenza e la guerra, il viaggio e l’avventura, l’amore e l’abbandono continuano a far parte del nostro immaginario, ed è quindi naturale che si torni ciclicamente a visitarne gli incunaboli contenuti nell’epos antico. Così in Italia l’editore Castelvecchi manda in libreria una nuova versione del saggio sull’Iliade di Rachel Bespaloff a cura di Vittorio Bernacchi, Marvel Italia propone una metamorfosi a fumetti di entrambi i poemi omerici e intanto si stanno diffondendo app e audiolibri dell’Odissea e dell’Iliade. In questo contemporaneo ritorno dell’epos, comunque, c’è un evento che si distingue da tutti gli altri: la nuova traduzione dell’Eneide che Alessandro Fo ha appena pubblicato nella Nue di Einaudi.
La corredano un ricchissimo commento, curato da Filomena Giannotti, e un Profilo di Virgilio in cui si rispecchia intera la singolare natura del suo autore: un latinista poeta, uno studioso (professore di Letteratura Latina all’Università di Siena) che sa di modelli omerici e di tecnica virgiliana, ma che insieme ha un enorme rispetto per la poesia. Questa traduzione ha impegnato Fo per anni, continuativamente, caparbiamente, senza un momento di respiro. Diciamolo subito, Fo la metamorfosi l’ha fatta. La sua Eneide è un’altra, eppure è anche la stessa, questa traduzione italiana del poema virgiliano conserva piena memoria della propria precedente natura. Davanti a noi sta un testo scritto in un bellissimo italiano nel quale però, quasi ad ogni passo, echeggia anche la musica del latino che fu, ma senza che ciò produca melodie barbare e bizzarre. Merito certo della cura con cui Fo ha riproposto lo schema dell’esametro, giocando gli accenti di parola fra ritmo dattilico e spondaico; merito della meticolosa pazienza con cui si è preoccupato di rispettare la natura formulare di certi stilemi cari a Virgilio, resi sempre e dovunque nel medesimo modo, con un effetto di riecheggiamento interno quasi fascinatorio; merito dell’ottima conoscenza del latino, e di quello virgiliano in particolare, che Fo si è guadagnato in decenni di studio e di corsi universitari; ma merito soprattutto dell’essere lui stesso poeta, ossia capace di far suonare come musica parole con cui altri, al massimo, riuscirebbero a esprimere quel che hanno in mente.
Virgilio non è un poeta qualunque: è Virgilio. Se già Silio Italico sacrificava sulla sua tomba come a un dio, se il medioevo lo considerò mago e Dante si fece guidare da lui nel suo viaggio, ci sarà pure una ragione. Tramandata e filtrata dalla lettura ininterrotta di centinaia di generazioni, l’Eneide costituisce uno dei fondamenti della nostra cultura, fa parte del nostro modo di vedere il mondo e di pensare noi stessi. Attraverso gli esametri di Virgilio possiamo leggere il nostro passato, certo, ma anche il nostro presente, storico e umano. La speranza degli esuli che per altri, innocenti, si fa lutto e violenza; l’onore che produce orrore; l’amore che porta abbandono, la morte immatura dei giovani. L’Eneide è come un’enciclopedia di noi. Per questo si meritava una traduzione che fosse, oggi, all’altezza della sua importanza culturale. Lo sappiamo, il capolavoro virgiliano costituisce da anni l’oggetto di ricerche teoriche sofisticate, talora perfino vane, nei laboratori della critica universitaria, così come offre una preziosa (ma anche abusata) fonte di informazioni per filologi, storici e antropologi del mondo antico. Prima d’ogni altra cosa, però, l’Eneide resta un poema che chiede di essere letto. Anche oggi, anche grazie a nuove traduzioni.

Repubblica 5.12.12
“Racconto la vita di Ulisse per ritrovare l’avventura”
Parla Valerio Massimo Manfredi, che ha dedicato “Il mio nome è Nessuno” al protagonista omerico
di Maurizio Bono


L’uomo che riscrive Omero ha il senso dell’ironia: «Se uno pensa che ci vuole una gran faccia di bronzo, ha ragione. Pensa un po’, in 27 secoli di letteratura occidentale a raccontare a modo loro Ulisse ci si sono messi Eugamon di Cirene, Eschilo, Sofocle, Euripide, e poi Licofrone di Alessandria, Virgilio, Dante, Tennyson, fino a Joyce. Ora, con Il mio nome è nessuno, arrivo io». Valerio Massimo Manfredi chiarisce subito che con il suo nuovo “romanzo di Ulisse” dalla copertina fantasy (un guerriero simil-pellerossa spara una freccia in un tramonto giallo da un arco fatto di palchi di cervo) la polemica filologica, come è evidente, non attacca. Visto che il suo scopo è un altro: «Mi sono riletto tutti i frammenti che ci sono rimasti del ciclo epico prima, durante e dopo Omero, e del resto la mia parte da studioso l’ho già fatta con una edizione dell’Anabasiancora citatissima. Ma il punto è che con alcuni filologi ti trovi di fronte a una montagna di erudizione, però quello che tutti vorrebbero sapere, cioè “ma alla fine, cos’è successo? ”, non c’è. Perché nessuno come certi accademici riesce a fare dei bei pacchettini di nozioni e metterli in freezer, lontani dalle emozioni».
E i geni moderni che si sono confrontati con Ulisse?
«All’opposto, se ne sono appropriati per darci mirabilmente “il loro” Ulisse. Come farci un buco e trapassarlo. Per restituirne più umilmente la figura, invece, ci voleva un outsider con una certa consistenza filologica, ma anche una sensibilità da narratore. Eccomi qua».
Si può dire che ci si è allenato con romanzi come Lo scudo di Talos, L’armata perduta e la trilogia Aléxandros, che hanno venduto dieci milioni di copie traduzioni comprese. Qual è il trucco?
«Io vorrei chiamarlo talento. L’ho scoperto quando all’inizio degli ’80 l’editore Malipiero di Modena, mi chiese una storia ambientata nell’antichità, visto che ero del mestiere. Mi sono detto, proviamoci. Sarebbe diventata Lo scudo di Thalos, 59 edizioni. Poi sono arrivati Mondadori, le trasmissioni in tv, le sceneggiature per film».
Che talento è, esattamente?
«Facciamo l’esempio di Ulisse. Ridotto all’osso, il cuore storico dell’“ira di Achille”, tema dell’Iliade, è questo: c’è un gruppo di baroni micenei che per mantenere l’equilibrio del sistema è costretto a compiere continue imprese insieme, rinsaldando amicizie e alleanze. La caccia al cinghiale calidonio, la spedizione degli Argonauti, poi l’attacco a Ilio, la rocca sullo stretto. Ma lì esagerano, stanno via troppo, tanti muoiono e quando tornano tutto è in sfacelo. Poi c’è il tema dell’Odissea, l’altro pilastro della testualità occidentale: un principe delle piccole isole torna a casa dalla guerra dopo mille avventure e quando ci arriva fa un macello, perché i nobili più giovani gli insidiavano moglie e regno».
Due belle storie...
«Appunto: due. Ma Ulisse le attraversa da protagonista entrambe, secondo una potente logica narrativa. Da Elena al Cavallo fino alle Sirene, c’è sempre lui».
Insomma, un narratore del suo tipo segue il suo protagonista, più che i testi.
«Non dimentichiamo che, prima di diventare fonti, un tempo queste storie un tipo le raccontava cantando e battendo il tempo col piede davanti a un uditorio di carrettieri, re, mendicanti e mercanti. Io voglio provare a vedere cosa succede a raccontarla tutta di fila, la vita di Ulisse, dall’infanzia all’ultima battaglia, lasciandomi andare alle emozioni. Perché vede, quello che non è cambiato è che la mente è più grande delle nostre esperienze. Se viviamo una vita un po’ stretta, magari stiamo sempre nello stesso posto, o non abbiamo mai incontrato una donna che ci ha fatto perdere la testa, il resto lo cerchiamo nelle vite degli altri. Andando all’opera, ascoltando un cantore
orale, un film in streaming o leggendo un romanzo».
Lei questo dove lo ha imparato?
«Mi piace considerarla un’eredità. Mio nonno Alfonso, che mandava avanti un’azienda agricola, e allora era un privilegio perché portava a casa tutte le settimane il pane per i figli e anche le tagliatelle e il brodo la domenica, aveva la vocazione del narratore orale. Raccontava in dialetto, prendendo da romanzi come Il gobbo di Notre Dame, Guerra e Pace, I lavoratori del mare, storpiando i nomi stranieri. O dalle favole. Ricordo l’incanto. Quando sono diventato ragionevolmente istruito, mi sono detto: accidenti, il nonno! Avrò preso da lui».
Funziona sempre?
«Anche quando non te lo aspetteresti. Mesi fa mi è capitato di andare a tenere un discorso sul 150° dell’Unità d’Italia invitato tramite un’amica da un Lions club nel Veneto leghista. Lei mi aveva detto: mi raccomando, niente svolazzi. Io dopo un po’ mi sono lasciato andare, ho raccontato delle storie e ho detto anche la mia: io amo il mio paese, e allora, che male faccio? Lo amo perché mio papà poteva fare a meno delle mie braccia in campagna, ma non avrebbe mai potuto pagarmi gli studi vendendo un campo o una casa. Poi i miei genitori sono guariti dal cancro e ha pagato lo Stato. Mio fratello ha avuto salva la vita nello stesso modo. Io queste cose le riconosco. Alla fine, silenzio glaciale. Finché è partito l’applauso, prima uno, poi dieci, poi tutti. Come quando nonno Alfonso raccontava».

il Fatto 5.12.12
Tutta la storia a portata di clic
On line il Codice Fiorentino, opera enciclopedica sulla cultura del Messico centrale, pubblicato sulla World Digital Library
di Eugenia Romanelli


Le culture più antiche e remote, quelle a cui di solito hanno accesso solo eruditissimi studiosi specializzati con le tesserine delle università internazionali o dotti curiosi con i passaporti in regola e i portafogli pieni per scorrazzare a piacimento tra le più antiche biblioteche del mondo, adesso sono a portata di mouse. Per tutti, gratuitamente, in assoluta comodità a casa propria. Anzi di più: in tasca o in borsa, su tablet e smartphone. La notizia è di qualche giorno fa: il Codice Fiorentino della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, opera enciclopedica sulla cultura del Messico centrale, è appena stato pubblicato online sulla World Digital Library, “a disposizione – spiega Vera Valitutto, promotrice del progetto e direttore della Biblioteca Medicea Laurenziana – non solo degli studiosi ma di chiunque sia interessato a saperne di più su questa incredibile civiltà e su quell’importante capitolo della storia umana”. Ma a gioire non sono solo gli appassionati di Messico precolombiano (che adesso navigano per le carte che frate Bernardino di Sahagún, missionario francescano approdato in Messico nel 1529, compilò in 30 anni, sia in spagnolo che in nahuatl, la lingua degli aztechi, con tanto di illustrazioni degli indigeni), bensì tutti i curiosi della storia del mondo.
LA WORLD DIGITAL Library (WDL) collabora, infatti, oltre che con l’Unesco e con la Library of Congress, la prestigiosa Biblioteca Nazionale degli Stati Uniti d’America, anche con oltre 160 biblioteche, centri culturali, musei e archivi di circa un centinaio di paesi del mondo (quasi tutti i 194 stati membri delle Nazioni Unite sono rappresentati) e ha un archivio che comprende 87 lingue diverse: vi si possono scartabellare manoscritti cinesi, persiani e arabi, rarissime mappe e atlanti europei, le prime opere a stampa, i primi rilievi fotografici della Russia e della Cina, film storici e registrazioni sonore. Fierissimo il suo direttore, John Van Oudenaren: “Un modo per raggiungere il pubblico on-line che non ha familiarità con la storia antica”. Insomma, il sogno di Aristotele torna a splendere e la più importante biblioteca del mondo, quella di Alessandria (che alla Wdl ha offerto un contributo tecnico), si converte alla contemporaneità e i polverosi tomi del Sapere si trasformano in svelti bit multimediali. L’idea non è solo quella di “creare un luogo di memoria, in un’epoca che non ne ha più”, come tre anni fa, all’inaugurazione delle Wdl, dichiarò James Billington, direttore della Biblioteca del Congresso americano tra le più grandi al mondo (32 milioni di volumi), ma anche di aumentare il livello di apprendimento universale, svecchiare insomma la cultura cosiddetta “alta” e renderla “pop”, ossia alla portata di tutti. In poche parole “wiki”. Navigando nella più grande biblioteca virtuale del globo, si può infatti ficcanasare tra gli originali più sorprendenti: dalle pagine del diario di Napoleone durante la campagna in Egitto o del terzo presidente degli Stati Uniti Thomas Jefferson, alla Marsigliese cantata del 1898, al primo film parlato.
I COMPETITOR esistono eccome, a cominciare dalla cyber-biblioteca Europeana fino allo stesso Google book search, ma, almeno dal punto di vista dei fruitori, non ci sono “gare al sapere” che possano nuocere o creare involuzione. Ed ecco che, con la digitalizzazione del Codice Fiorentino, un ennesimo passo (tutto italiano) verso la condivisione della conoscenza è stato compiuto: “Il codice – spiega Vera Valitutto – pervenne in possesso dei Medici intorno al 1580, probabilmente come dono, copia superstite alla censura voluta dal re di Spagna. La disponibilità on line nella sua versione integrale sarà di grande utilità non solo per i ricercatori, ma anche per studenti, insegnanti e tutti coloro che sono interessati a saperne di più su questa affascinante civiltà”. Provare per credere: digitare “Historia General de las Cosas de Nueva Espana” sul sito www.wdl.org  .

La Stampa 5.12.12
Speciale /Palazzo Marino
Un mito in mostra.Amore e Psiche la favola di Apuleio incanta gli artisti
Il neoclassicismo la reinterpreta con la raffinatezza delle opere di Canova e Gérard esposte a Milano
Le vicissitudini della fanciulla che fa innamorare un dio narrano l’epopea di un’anima
di Marco Vallora


Sul cartiglio delle cinquecentesche incisioni attribuite all’ancora misterioso «Maestro del Dado» (un pozzo, da cui tutti attingono, per l’iconografia pittorica della storia di Amore e Psiche) si legge: «Narra Apuleio, che (mentre egli cangiato in asino serviva a genti ladre) / una sposa rubbaro... ». Inizia così la gloriosa epopea d’una delle favole più note dell’antichità, piena di peripezie e sorprese narrative, inscatolate, a pressione, entro le Metamorfosi di Apuleio, scrittore nomade e «discepolo platonico». Proto-romanzo d’avventura (secondo secolo d. C.) influenzato da Luciano, riscoperto da Boccaccio, tradotto da Boiardo. Racconta la magica trasformazione di Lucio in un asino, venduto a dei ladroni. Gli stessi che hanno rapito una fanciulla e la tengono a languire in una caverna. (Qui si ripara anche l’asino: sant’Agostino ribattezzò l’ Asino d’oro le Metamorfosi ). Una vecchia nutrice con fuso, interrompendo il suo filare, proprio come s’interrompe miracolosamente il romanzo, le racconta la favola di Amore (Eros) e Psiche, che si snoda per molti libri e numerosi «ricami» di luoghi, coinvolgendo cielo, terra, Inferi.
Psiche è una bella fanciulla non nobile, così bella che nelle sue contrade la nominano Afrodite. Ma Venere in persona s’ingelosisce di questo suo doppio terrestre, troppo bella e difficile, per trovare un marito. Ed invia il suo figliolo Eros sulla terra, a colpirla con le sue temibili frecce, per farla innamorare della prima persona che capiti, purché mostruosa. Ma è Eros ad essere colpito della sua venustà: s’innamora di Psiche, ottenendo da lei di amarlo solo di notte. L’iconografia pittorica omaggia spesso questo mistero: coltri e baldacchini manieristi, atmosfere notturne, lanterne e fiaccole, bende e panneggi, ed Eros che depone le sue frecce, accanto alle complici lenzuola, quasi fossero occhiali e cellulari messi in carica. Mentre Psiche si rode di curiosità, soprattutto se hai delle sorelle invidiose, che intrigano, come nella falsariga classica di Cenerentola. Facendole credere che lui è un obbrobrioso mostro serpentinato, e sennò, perché non si mostrerebbe, come un consorte qualsiasi?
Infatti, proprio come capita nelle fiabe migliori (che in fondo si equivalgono) è l’interdetto, che maggiormente le brucia e la scotta. Proprio come nella fiaba di Barbablù o nella storia nordica di Lohengrin, che un’unica cosa chiede, di non chiedergli il suo nome. Ed in più, in questo caso, d’essere amato senza immagine, senz’esser guardato: paradosso figurativo, che ha turbato molta pittura. Una notte, munita d’un coltello (in realtà sarebbe un rasoio) per tema di trovarsi di fronte ad un mostro, e di una lucerna, che finalmente le sveli l’enigma, e che in realtà c’illumina regalmente quelle perfette fattezze nude, di putto serenamente addormentato, Psiche rimane incantata a rimirarselo, come se il tempo non esistesse più. Ma la curiositàdonna va punita, così dalla lucerna esausta scende una goccia malandrina, che ustiona il corpo nudo e tradisce il tradimento. Sulle sue ali di Cupido, Eros fugge via irato, mentre desolata Psiche, che lo ha amato d’un amore invincibile, vaga per il mondo spoglio, impossibilitata a reincontrarlo. Ci si mettono gli Dei (consigli parlamentari nell’Olimpo, così ben rappresentati da Giulio Romano, a Palazzo Tè) a complicare le cose e a divertire il lettore.
Venere stessa, tra il piccato e il pietoso, offre ancora un’ultima chance alla peregrina disperata, infilandola come un fuso, dentro terribili prove iniziatiche, che il Flauto Magico, al confronto, la diresti una passeggiata galante e cicisbea. Discese agli Inferi a dialogare con Proserpina (mito dell’inverno e della resurrezione primaverile). Pecore furiose da tosare dei loro velli d’oro, coppe da riempire a fonti inesistenti, semi da dividere, come in una trasmissione misterica della Carrà. Così ti rendi conto che Apuleio, nato a Madaura e nutrito di cultura orientalnordafricana, sacerdote e avvocato di grido chierico vagante ed iniziato dei Misteri Eleusini, è anche un adepto della cultura neo-platonica, che vuole conciliare la filosofia pagana con il messaggio cristiano. Tra l’altro Apuleio ha sposato Pudentilla, madre molto più vecchia e poco avvenente del suo compagno di studi Ponziano, che muore giovane, lasciandolo tra parenti che lo accusano di plagio e di magia, e lui deve difendersi da solo dalla pena di morte.
Dunque si tratta dell’epopea misticaquotidiana d’un’anima, o Psiche (con ali di farfalla, non a caso: vista l’omonimia in lingua greca di psyké) che deve ricongiungersi con il suo Amore incorruttibile e divino, perché Eros (come l’amore carnale) non è che un viatico graduale verso la Perfezione Ideale. Lo ritroverà in cielo, nel banchetto regale che gli Dei hanno allestito per lei, fanciulla povera e fortunata, assunta nei saloni eleganti d’una reggia chiamata Olimpo. Allora si capisce perché Raffaello, quando deve celebrare, tra l’esubero di tutte le grottesche di Penni, Perin del Vaga, Giovanni da Udine (suggestionate dalla recente scoperta epocale della creduta «grotta» della Domus Aurea) la storia della fanciulla plebea Francesca Ordeaschi, che va sposa con il nobile senese Agostino Chigi, committente della villa, scelga proprio questa storia allegorica ed edificante. E via così, nel Rinascimento: con Giulio Romano a Mantova, Dosso Dossi nei suoi lividi rami, Zucchi con i suoi dettagli medicei, Vouet ed i caravaggeschi, che sfruttano gli effetti notturni e tenebrosi: una goccia bollente per un amore eterno.
Poi viene il neoclassicismo, con Canova e Gerard (protagonisti della mostra di Palazzo Marino), Cavaceppi & C., storie d’ali di farfalla, infragilite nei marmi, un Giove winckelmanniano, che approfitta per lumacare con Eros, ed infine il Romanticismo, che insiste sugli aspetti più terribilisti (per proiettarsi poi sulla nostra contemporaneità, con allusioni in Fabio Mauri, Pistoletto e Paolini). Un’anima, che nel periodo Impero si fa anche specchierina da camera, per riflettere i patemi ed i pallori di troppe signorine innamorate.

La Stampa 5.12.12
Canova. Nel marmo la leggerezza di una farfalla
Amore e Psiche stanti fu scolpito nel 1797 Gioachino Murat l’acquistò per 2000 zecchini
di Fiorella Minervino


Gli orari L’ingresso alla mostra a Palazzo Marino di Milano è gratuito. Si entra tutti i giorni dalle ore 9,30 alle 20 (ultimo ingresso alle ore 19,30) giovedì dalle ore 9,30 alle 22,30 (ultimo ingresso alle ore 22) Chiusure anticipate 7 dicembre, chiusura alle 12. 24 e 31 dicembre, chiusura alle 18 Aperture straordinarie 8 e 25 dicembre e 1 gennaio 2013 Informazioni al pubblico 24h/24 Numero verde gratuito 800.14.96.17
L’allestimento Sopra la mostra nell’allestimento di Elisabetta Greci nella Sala Alessi di Palazzo Marino a Milano

Il giardino comincia già fuori, in piazza della Scala, all’entrata della mostra e procede tra i profumi che si diffondono nella Sala Alessi oltre le tre pareti ricoperte di erba sintetica fino all’ultimo spazio destinato all’incantevole Amore e Psiche stanti del Canova. Nulla meglio di questo prato ripensato alla maniera neoclassica per illustrare la favola di Apuleio nelle Metamorfosi, dove la coppia mitologica raffigura l’unione fra anima umana e amore divino. Un luogo adatto a ospitare il capolavoro, forse non il più celebre ma prediletto dall’autore, il campione italiano del Neoclassicismo.
Antonio Canova voleva calarsi nello spirito e nel clima dei classici, greci e latini, tanto da farsi leggere nel suo studio mentre lavorava fin tre volte al giorno i testi di Omero, Tacito, Polibio. Felice esito dell’amore intenso per la classicità evocata dal Winckelmann, il bello ideale universale e la quieta grandezza, la scultura in arrivo dal Louvre grandeggia nella luce che la avvolge e nella platonica serenità che promana. Due teneri giovinetti sono fissati nel marmo candido (Canova li definiva «un gruppetto pudico») e dominano la scena ravvicinati nel turbamento dei corpi nudi levigati e sinuosi sopra il piedestallo adorno di preziose ghirlande di fiori. Il dio poggia la testa sulla spalla di lei cingendola castamente con il braccio, Psiche di bellezza mirabile e dalla nudità appena celata dal delicatissimo velo ai fianchi, posa delicatamente la farfalla, simbolo dell’anima, nella mano di lui. È un gesto sublime, un attimo sospeso, fuori dal tempo, dove l’umano si lega all’eterno. Il prodigio delle dita, la grazia nelle pose, la finezza dei riccioli nella capigliatura di Psyche e lo squisito panneggio sui fianchi raccontano sino a che punto il marmo potesse piegarsi al soffio nuovo dell’arte di Canova, alla «bella natura», il suo ideale di bellezza perfetta.
Alti 150 centimetri circa, i due adolescenti si incontrano e congiungono a nozze, immemori delle mille prove sostenute e dei dissidi celesti nell’Olimpo che li hanno divisi, uniti nella lucentezza e candore del marmo di Carrara dove Canova agitava lo scalpello con la facilità d’un pennello. Figlio d’uno scalpellino di Possagno, dove era nato nel 1757, aveva presto imparato, anche dai copisti di marmi antichi a Roma, a modellare la materia con maestria e scienza personale. Un procedimento che conduceva dal bozzetto vibrante di creta al gesso affidato agli aiutanti, da volgere poi al marmo con numerose rifiniture, come raccontò Hayez. Canova realizzò il gruppo nel 1797 a Roma, mentre si diceva così preoccupato per la desolata nostra nazione e «l’Europa tutta talmente ruinosa che sarei contento di andare in America». L’opera era destinata al colonnello John Campbell in sostituzione della versione famosa (sempre al Louvre) Amore e Psiche giacenti 1787- 83; finirono entrambe nel 1801 per 2000 zecchini a Gioachino Murat, esposte nella galleria del castello di Villiers, dove Napoleone potè ammirarle.
Fama e gloria coronarono il Canova già in vita, come forse nessuno degli artisti amici o ammirati, quali Mengs, Thorwalsen, e fin Piranesi o Batoni, Gavin Hamilton, Proudhon, neppure David. Non volle o mai riconobbe allievi, collezionò cariche e incarichi, con l’esimio merito di ricondurre nel 1815 in Italia dal Louvre alcune opere sottratte dai francesi, incaricato da Pio VII come delegato dello Stato Pontificio a Parigi. Fu venerato e onorato da Papi e dai sovrani d’ Europa, per cui lavorò, compresi Napoleone e Giuseppina Beauharnais e il figlio Eugenio vicerè d’Italia con sede a Milano e Monza. Fedele alla propria arte e condizionato da una salute cagionevole mori a Venezia nel 1822, per poi riposare a Possagno dove è affidato alla storia nel museo a lui dedicato. Oggi il suo genio torna a risplendere in questa mostra a Milano, città che seppe apprezzarlo e amarlo.
Ed è occasione davvero rara questa offerta dall’Eni, di mettere a confronto il celebre scultore con il pittore francese Gérard, nato a Roma da madre italiana, il maggior allievo di David. Le curatrici dell’evento Valeria Merlini e Daniela Storti, si dichiarano assai soddisfatte della formula annuale e di presentare i due esponenti del Neoclassicismo in una città neoclassica come Milano. La Merlini aggiunge che questa è l’opportunità di raffrontare pittura e scultura nelle differenze e aspetti comuni, come le diverse sensibilità e sensualità degli autori. Poi spiega: «Ci lavoriamo dalla scorsa primavera e aspettiamo oltre 200 mila visitatori. Negli anni passati siamo stati premiati da un pubblico vario per età, cultura e provenienza. Per spiegare a chi viene il valore e i segreti di due capolavori sullo stesso tema, creati a un anno di distanza e per la prima volta esposti insieme, ci affidiamo a un gruppo di giovani storici dell’arte che guidano i visitatori della Sala Alessi».

La Stampa 5.12.12
Gèrard. La moderna sensualità di due innamorati
Piaceva anche ad Ingres Psyché et l’Amour che tiene testa quasi ad armi pari alla scultura con cui si confronta
di Francesco Poli


Ingres, molto spesso acidamente critico nei riguardi dei suoi colleghi, aveva dichiarato una volta che «Gérard ha abbandonato la pittura e la pittura ha abbandonato lui », aggiungendo però che «quando ha realizzato Psiche e Amore è stato un grande pittore; ha realizzato un capolavoro…».
E in effetti per l’ingrato Ingres (Gérard era stato tra i pochi ad aiutarlo agli inizi, quando era entrato nello studio di David) questo dipinto, esposto con grande successo al Salon parigino del 1798, è stato un punto di riferimento fondamentale. Non tanto come esempio (già allora in auge) di una tematica mitologica disimpegnata e «graziosa», con algide e sofisticate valenze erotiche, ma anche soprattutto per la peculiare elaborazione del linguaggio neoclassico. Gérard lo caratterizza con una straordinaria levità e levigatezza pittorica, e con un formalismo purista tale da subordinare persino la correttezza anatomica all’armonia complessiva dell’impianto compositivo (basta osservare la «impossibile» spalla di Psiche o il collo di Cupido).
Nella suggestiva messa in scena allestita dentro il grande salone di Palazzo Marino, il quadro di François Gérard è il co-protagonista insieme al capolavoro di Antonio Canova, Amore e Psiche stanti, del 1797. La pittura che si confronta con la scultura una bellissima sfida (incentrata su un tema mitico e intramontabile) che nonostante la celebrità dell’avversario, e il fascino assoluto della sua opera marmorea, Gérard è in grado di sostenere quasi ad armi pari.
Bisogna guardarlo a lungo il suo dipinto con le figure in grandezza naturale, per rendersi conto, con uno sguardo attuale (al di là della valutazione storico -critica della indubbia importanza dell’artista) della straniante e «moderna» qualità di questa composizione figurativa ma irreale, e non solo perché mitica. Più rispettoso di Canova del racconto che si legge nell’ Asino d’oro di Apuleio, Gérard ci presenta Psiche nel momento in cui l’invisibile (per lei) Amore le sta per dare un bacio abbracciandola. Ed è per questo che, sorpresa e misteriosamente incantata, i suoi occhi non guardano lui ma davanti verso il vuoto, o meglio (e qui l’artificio del pittore è geniale) verso di noi, i curiosi esterni. Questo incrocio di sguardi fra lei e noi crea una sottile e intensa tensione estetica, che fissa visivamente e direi anche strutturalmente tutta la visione pittorica. Dico fissa, perché l’artista ha dipinto i personaggi in modo tale da quasi annullare l’illusione della forza di gravità, senza ombre portate e senza una convincente integrazione con il paesaggio che fa da sfondo. Inoltre, una ulteriore essenziale magia (o astuzia) pittorica è determinata dalla raffinatissima strategia dell’abbraccio che non è tale. Infatti le braccia di Amore sono attorno e vicinissime al corpo di Psiche ma non lo toccano (anche se c’è una intenzionale ambiguità per quello che riguarda la mano sinistra che sembra toccare la spalla in direzione del seno). Tutto ciò crea un effetto di sospensione, una sensazione di aerea immaterialità e di metafisica idealità. Così Gérard riesce a trasmettere attraverso la forma (molto più che nella raffigurazione descrittiva) un aspetto cruciale del significato profondo della favola mitica, che ci parla di cose indefinibili come l’anima e l’amore, e cioè del mistero della vita umana terrena e del sogno di quella ultraterrena. Nell’iconografia antica (per esempio nella copia romana da un originale ellenico) Psiche ha delle ali di farfalla, ma come nel caso di Canova anche Gérard ha pensato che fossero sufficienti quelle di Cupido, e ha inserito una farfalla vera, non nelle mani dei personaggi come ha fatto lo scultore, ma in volo nel cielo sopra la testa di lei ( psiche in greco vuol dire farfalla). Questo lepidottero ha una sua precisa valenza simbolica ed è allo stesso tempo un particolare naturalistico, dalla fragile e delicata leggerezza. Ma si può leggere formalmente anche come una metafora strutturale di tutto l’insieme della composizione, che si libra sulla tela con la stessa eterea grazia sospesa.

La Stampa 5.12.12
Pomaréde
“Le due opere raccontano un tema universale”
di F. Po.


Vincent Pomarède è direttore del Dipartimento di pittura del Louvre. Ed è lui che cura i rapporti tra l’istituzione parigina e l’Eni che hanno permesso la realizzazione della mostra su Amore e Psiche a Palazzo Marino.
Direttore Pomarède quale posto occupano le due opere di Canova e Gérard su Amore e Psiche nelle collezioni del Louvre?
«I due capolavori si trovano entrambi in due delle sale più prestigiose e più visitate del Museo del Louvre: il quadro di Gérard è collocato in una delle due Sale Rosse, che presentano i principali dipinti francesi del XIX secolo, mentre la scultura del Canova si trova nella Galleria Michelangelo dedicata alla scultura italiana dal XVI al XIX secolo, così chiamata per la presenza dei due Prigioni scolpite dal genio fiorentino per la tomba di papa Giulio II della Rovere. Anche se le due opere sono entrambe nell’ala Denon del museo, non sono però esposte allo stesso piano. Il Louvre, come probabilmente tutti sanno, per restare fedele alla sua vocazione enciclopedica, presenta in effetti le sue collezioni in otto diversi dipartimenti, che occupano spazi distinti nel palazzo. Prima di essere presentate assieme a Palazzo Marino, queste variazioni in pittura e scultura sullo stesso tema dell’Amore e Psiche non erano mai state viste assieme, né al Louvre né in nessuna mostra temporanea».
Queste due opere neoclassiche possono interessare il pubblico attuale?
«La storia d’amore di questa celebre coppia mitologica è il simbolo dell’unione tra l’anima umana (Psiche) e l’amore divino (Eros o Amore). Si tratta di un tema universale. La bellezza ideale di questi giovani innamorati, la fragilità e la grazia dell’anima incarnata nella farfalla, la sensualità sottile e differente di questi due capolavori, sono cose che ci toccano ancora, ci emozionano, tanto più che la purezza dei corpi e dei tratti dipinti da Gérard corrisponde meravigliosamente alla delicatezza dell’esecuzione di Canova».
Come è nata la collaborazione del Louvre con l’Eni e quali sono gli obiettivi?
«Eni è oggi uno dei mecenati eccezionali del Louvre. La partnership è iniziata nel settembre 2008 in occasione della mostra su Mantegna, di cui Eni era il principale sponsor. Nel 2009 è stata firmata una prima partnership pluriannuale, che riguardava principalmente i progetti del Louvre per valorizzare la pittura italiana e che ha permesso la realizzazione di tre grandi mostre ( Rivalità a Venezia nel 2009, L’antichità sognata nel 2010, Raffaello nel 2012), tre restauri, tra cui il rilievo dell’ Ascensione di Andrea della Robbia, che è stato di nuovo installato ad ottobre nella galleria Donatello, e tre giorni di studi del dipartimento delle Pitture (Raffaello nel 2010, Jean Cousin nel 2011, Goya nel 2012). Nell’ambito di questa importante partnership culturale e del fondamentale sostegno dato da Eni ai progetti del museo, il Louvre ha accettato di prestare ogni anno delle opere importanti delle sue collezioni che Eni espone gratuitamente per un mese a Palazzo Marino a Milano: il San Giovanni Battista di Leonardo da Vinci nel dicembre 2009; la Donna allo specchio di Tiziano nel 2010; il San Giuseppe falegname e l’ Adorazione dei pastori di Georges de la Tour nel 2011. Dal maggio 2012, Eni e il Louvre hanno rinnovato la collaborazione per altri tre anni, e questa nuova fase di partnership permette, oltre alla sponsorizzazione di mostre e di giornate di studi, il rilancio del sito Internet del museo, in particolare del modulo Opere sotto la lente di ingrandimento ). Da parte sua, il Louvre continuerà a prestare opere importanti fino al 2014, esplorando le altre scuole dell’arte europea».

La Stampa TuttoScienze 5.12.12
Gerald Crabtree
“Perché siamo più stupidi di un uomo delle caverne”
“Genetica e high tech fermeranno il declino della nostra mente”
“Ma le abilità di un greco antico ci umilierebbero”
Si pensa che cacciare sia più facile che usare un pc, ma non è così
di Monica Mazzotto


Gerald Crabtree Biologo RUOLO : È PROFESSORE DI PATOLOGIA E BIOLOGIA DELLO SVILUPPO E DIRETTORE DEL LABORATORIO DI GENETICA «CRABTREE LAB» ALLA SCHOOL OF MEDICINE DELLA STANFORD UNIVERSITY (USA)

Forse siamo meno intelligenti di quel che pensiamo. Forse la nostra specie, un po’ alla volta, si sta incamminando verso un percorso che ci porterà ad essere sempre meno Sapiens. A crearci questi dubbi è un articolo provocatorio e controcorrente, pubblicato su «Trends of Genetics», dal direttore del Laboratorio di Genetica dell’Università di Stanford, California, Gerald Crabtree: lui sostiene che il nostro picco intellettivo è stato raggiunto in epoche passate e che da allora viviamo in un lento declino. Professore, partiamo dall’inizio: che cosa è per lei l’intelligenza? «E’ difficile da stabilire, ma io credo che la miglior definizione possa essere la seguente: l’abilità di risolvere i problemi. Ad esempio, nell’epoca preistorica, l’intelligenza poteva essere determinante per risolvere i problemi legati alla ricerca del cibo, alla caccia o all’allevamento dei figli». Su quali basi sostiene che le nostre abilità emotive ed intellettuali sia­ no sorprendentemente fragili? «Prima di tutto bisogna capire quanto, del nostro Dna, è coinvolto nelle abilità cognitive ed emotive. Da recenti studi sul genoma umano, risulta che dai 2 mila ai 5 mila geni siano implicati nella risoluzione dei nostri problemi quotidiani, come leggere un libro, occuparci delle persone che amiamo, guidare un’auto oppure comporre una sinfonia. Più sono i geni coinvolti in un processo e maggiore sarà la possibilità che qualche evento genetico casuale, come una mutazione, possa colpirlo. Se consideriamo che, negli ultimi 3 mila anni, le mutazioni del nostro Dna sono state circa 5 mila è facile immaginare come la nostra intelligenza possa cambiare velocemente, se non viene “controllata” da un’adeguata pressione selettiva». E lei crede che la pressione selettiva sia progressivamente diminuita nel corso della storia? «Per risponderle le faccio un esempio. Se nella preistoria un uomo non fosse stato in grado di risolvere correttamente un problema per l’approvvigionamento di cibo, probabilmente sarebbe morto e con lui la sua progenie. Trasportando il problema oggi, se un dirigente di Wall Street commettesse un analogo errore, invece di essere punito, riceverebbe un bonus. Scherzi a parte, credo che la pressione selettiva sull’intelligenza sia diminuita migliaia di anni fa, quando l’uomo è passato da cacciatore ad agricoltore. Questo cambiamento ha portato l’uomo, abituato a vivere in piccole tribù, a radunarsi in società ad alta densità. Ciò ha sicuramente portato a tanti vantaggi, quali il supporto reciproco e la collaborazione, ma anche ad un aumento delle malattie. A questo punto la pressione selettiva si è concentrata maggiormente sulla resistenza alle malattie, piuttosto che sull’intelligenza». Diverse teorie, però, sostengono che l’intelligenza dell’uomo sia legata proprio allo sviluppo della socialità e ai fenomeni quali la nascita del lin­ guaggio e della scrittura. Lei non è d’accordo? «L’origine dell’intelligenza è uno dei dibattiti più importanti dell’antropologia. Un fatto certo è che sia il linguaggio sia la scrittura sono apparsi ben dopo l’espansione della corteccia prefrontale e del volume endocranico, che si crede abbia dato all’uomo la capacità di pensare in modo astratto. A quell’epoca, circa 50 mila anni fa, l’uomo viveva di caccia e raccolti, in piccole bande e non in gruppi sociali complessi».
«Da ciò si deduce che la vita in quell ’e p o c a doveva essere più “viva” intellettualmente di quanto pensiamo e che la pressione selettiva che ha permesso la sopravvivenza dell’uomo preistorico abbia portato alle nostre attuali abilità, compreso quelle complesse come il comporre sinfonie». Come pensa sia possibile pa­ ragonare la nostra intelligen­ za, che ha portato ad innova­ zioni incredibili in tutti i cam­ pi, con quella dell’uomo prei­ storico? «Questa domanda si basa sull’assunzione che costruire una casa, cacciare animali grandi e pericolosi, sopravvivere nella natura e allevare dei figli sia più semplice che far funzionare un computer. Ma non è affatto così. Le attività che noi consideriamo molto evolute, come guidare un aereo oppure giocare a scacchi, richiedono solo una piccola frazione del potere computazionale richiesto per assolvere a compiti che, erroneamente, consideriamo banali, come per esempio lavare dei piatti. Basta pensare al fatto che anche i computer meno potenti sono in grado di battere campioni mondiali di scacchi e di guidare un aereo. Al contrario, nessun computer è stato ancora in grado di venire a capo dell’enorme complessità computazionale richiesta da compiti comuni come le faccende domestiche. Ciò vuol dire che, molto probabilmente, l’invenzione dell’arco e della freccia, avvenuta circa 40 mila anni fa, è stata una prova intellettuale difficile quanto formulare la teoria della Relatività». Steve Jobs diceva: «Baratterei tutta la mia tecnologia per una serata con Socrate». Lo farebbe anche lei? «Assolutamente sì. Anche perché sono pronto a scommettere che, senza arrivare a menti eccelse come quella di Socrate, se un cittadino di Atene del 1000 a.C. apparisse nella nostra epoca, sarebbe il più brillante e il più emotivamente stabile di tutti i nostri amici e colleghi e rimarremmo stupiti dalla sua memoria e dalla visione molto ampia delle sue idee». Quale futuro prevede per la nostra specie? Il declino co­ gnitivo sarà costante? «Credo di sì, ma non penso sia un problema di cui preoccuparsi, in quanto questi cambiamenti genetici sono incredibilmente lenti e avvengono in centinaia, o meglio, nel corso di migliaia di anni. In questo arco di tempo, considerando la rapida evoluzione scientifica umana, probabilmente saremo in grado di intervenire sulle mutazioni genetiche, correggendole, e inoltre la nostra società futura sarà così avanzata da produrre una tecnologia robotica talmente sofisticata che risolverà e compenserà i problemi al posto nostro».

La Stampa TuttoScienze 5.12.12
Dimitar Sasselov: “Presto scopriremo la vita sulle altre Terre del cosmo”
Accelerano le ricerche di mondi alieni: “Siamo speciali, ma non siamo unici”
di Gabriele Beccaria


Dimitar Sasselov Astronomo RUOLO : È PROFESSORE DI ASTRONOMIA ALLA HARVARD UNIVERSITY E DIRETTORE DELLA «HARVARD ORIGINS OF LIFE INITIATIVE» IL LIBRO : «UN’ALTRA TERRA» ­ CODICE

La Terra è bellissima e non c’è documentario tv che non ce lo ricordi, tra eccessi spesso insopportabili di retorica. Ma non montiamoci la testa. Entro 10 anni potremmo aver cambiato idea sull’eccezionalità della nostra patria di terre e acque e di ossigeno alterato dai gas serra.
È così che la pensa Dimitar Sasselov, bulgaro di Sofia e astronomo a Harvard, dove guida l’«Harvard Origins of Life Initiative», il progetto per lo studio dei corpi celesti in grado di ospitare la vita. È lui ad aver scoperto il pianeta più remoto della galassia e oggi - spiega nel saggio «Un’altra Terra» di Codice Edizioni - fa parte del gruppo di «esploratori di nuovi mondi» che ha in Eugenio Rivera della University of California at Santa Cruz il proprio Colombo: a questo ricercatore, infatti, si deve l’individuazione, nel 2005, della prima super-Terra, una palla rocciosa sette volte e mezzo la nostra, ma non così paradisiaca come sognano i fans degli alieni, visto che la temperatura si aggira sui 380 gradi.
Da allora le «altre Terre» sono apparse sulla scena a ritmi serrati. Hanno già superato le 500 e ce ne sono sempre di nuove a presentarsi. Sasselov è sicuro che «i sogni di 20 anni fa, oggi, non lo sono più: troveremo forme di vita aliena su altri pianeti entro un decennio». E intanto - aggiunge - «confido in “Curiosity”». Anche se la Nasa non ha diffuso annunci clamorosi l’altro ieri a San Francisco, «il rover ha davanti a sé due anni di lavoro». Professore, come immagi­ na gli extraterrestri? Nono­ stante qualche sfrenata fantasia, ci accontentere­ mo di pallidi rappresentanti delle specie aliene sotto for­ ma di microbi? «Sono certo che il giorno in cui ne scopriremo uno sarà un evento straordinariamente eccitante, per la scienza e per l’umanità. Anche la firma di un unico microbo significherà la presenza di una potenziale folla». Lei è tra i sostenitori che la vi­ ta nell’Universo sia più diffu­ sa di quanto pensasse la scienza ortodossa fino a po­ chi decenni fa. «Ciò che è successo qui sulla Terra può succedere altrove. E, se la vita si trova su tanti pianeti al di là del nostro, devono esisterne molti con organismi come i microbi. D’altra parte questi pullulano anche nella nostra biosfera: sono loro la base indispensabile per lo sviluppo di vita complessa. Il contrario - a quanto si sa - non è possibile». Come cambia, allora, la visio­ ne di ciò che è la Terra? «Eravamo abituati a pensarla come un gioiello unico e sotto certi aspetti, in effetti, lo è. Ma non nel modo tradizionale. La visione antropocentrica è stata ridimensionata: non siamo unici, sebbene siamo speciali in una moltitudine di altri pianeti che possono essere abitati. Come ogni essere umano è diverso da tutti gli altri, così la Terra è diversa da tutte le altre Terre». Gli astronomi parlano di Terre e di super­Terre: qual è la dif­ ferenza? «Darò una risposta tecnica. Cercare un’altra Terra, che assomigli esattamente alla nostra, sarebbe una strategia miope. E infatti gli astronomi sono alla ricerca di una nuova famiglia di pianeti, quelli “super”, appunto». In questa famiglia ce ne sono di diversi tipi, fino a 10 volte la massa della Terra: da quelli solidi a quelli ricoperti di oce­ ani. Ma, a seconda delle ca­ ratteristiche, quanto potreb­ bero cambiare gli organismi? «Ecco un altro grande interrogativo sul quale ci si sta confrontando: la chimica della vita varia all’interno di ogni sistema solare oppure tende a essere sempre la stessa, proprio come accade sulla Terra, dove gli organismi si sviluppano in forme sì differenti, ma a partire da una base comune? ». Quali sono gli strumenti più sofisticati per vedere questi altri possibili «Eden»? «Il satellite della Nasa “Kepler” resta il mezzo migliore, ma da poco è in funzione lo spettrografo “Harps”, installato sul Telescopio Nazionale Galileo nell’osservatorio Roque de Los Muchachos, nell’arcipelago delle Canarie: sa registrare le minime perturbazioni nel moto delle stelle dovute agli effetti gravitazionali prodotti da corpi celesti – in questo caso pianeti – in orbita intorno alle stelle stesse». Finora c’è un «candidato» che ha davvero incuriosito gli scienziati? «Purtroppo il migliore è sempre quello che si deve ancora scoprire! Nei prossimi mesi, comunque, annunceremo l’esistenza di un paio di pianeti interessanti. Intanto si stanno concentrando le ricerche su Gliese 581: è una stella vicina a noi, nella costellazione della Bilancia, e intorno a lei si muove un sistema di almeno sei pianeti».

La Stampa TuttoScienze 5.12.12
Un po’ di ironia: è la prima arma contro il “burn­out” del medico
Boom di casi di esaurimento. E a soffrire è anche il rapporto con i pazienti
di Nicla Panciera


Francesco Carelli Medico: È RAPPRESENTANTE NAZIONALE DELL’EURACT LA EUROPEAN ACADEMY OF TEACHERS IN GENERAL PRACTICE AND FAMILY MEDICINE IL SITO : HTTP://WWW.EURACT.EU/"

«Il miglior medico è la natura: guarisce tre quarti delle malattie e non sparla dei suoi colleghi». Questo è di Galeno, ma gli aforismi sui medici abbondano. Ma, se per una volta, i medici non fossero bersaglio ma maestri di ironia?
Proprio l’umorismo è la strategia contro il “burnout”, consigliata dagli esperti dell’American Academy of Family Physicians, riuniti per il meeting annuale di quella che, con oltre 100 mila membri, è una delle più grandi associazioni mediche americane. Ridere - spiegano - allevia la sensazione di ansia e stress sia nel medico sia nel paziente, permettendo un momentaneo distacco dalla malattia. Che l’umorismo aiuti nelle situazioni difficili non è certo una notizia: che una risata favorisse la guarigione lo pensava già Ippocrate. Stupisce, invece, che in Italia soffre di «esaurimento», a un livello tale da influenzare le prestazioni professionali, un medico di famiglia su tre, una delle percentuali più elevate tra le varie discipline mediche, del tutto simile a quella dei medici d’urgenza. «Come loro, anche il medico di famiglia è sempre in prima linea, deve essere veloce e adattarsi a una grande varietà di situazioni», spiega Francesco Carelli, rappresentante nazionale dell’Euract, la European academy of teachers in general practice and family medicine.
La sindrome da «burn-out» - termine che significa letteralmente «scoppiato» - porta all’esaurimento fisico ed emotivo e ad alti livelli di depersonalizzazione, fino al cinismo, e allo stesso tempo deprime i livelli di realizzazione professionale. Carelli è uno degli autori dello «Studio internazionale sul “burn-out” nei medici di famiglia europei», che fotografa una situazione tragica per i camici bianchi, alle prese con un profondo disagio e allo stesso tempo incapaci di prendersi cura di sé.
Dalle risposte ai questionari distribuiti ai medici di famiglia in 12 Paesi europei emerge che il 43% soffre di esaurimento, il 35% di depersonalizzazione e il 32% di «basso livello di realizzazione personale». Il 12%, inoltre, presenta punteggi elevati in tutti e tre gli aspetti. Emerge un diffuso desiderio di fuga, di pensionamento o di cambiamento di professione. Ma è anche forte l’utilizzo degli antidepressivi, mentre l’alcol è una tentazione forte.
La difficoltà ad ammettere la propria vulnerabilità, insieme con l’abitudine a prendersi cura della salute degli altri, fa sì che i medici trascurino la propria, con gravi conseguenze in termini di nervosismo e probabilità di errori. E’ chiaro, quindi, che quasi sempre il disagio nel medico si traduce in problemi per il paziente.
Ma ci sono anche ragioni strutturali. «Quando i medici di famiglia devono adempiere a una serie di incombenze amministrative, prendersi la responsabilità di decisioni altrui che spesso non condividono, diventando bersaglio dello scontento del paziente, ecco che la pressione aumenta e con questa la frustrazione, anche perché l’attività clinica passa in secondo piano - osserva Carelli -. Sarebbe invece auspicabile un maggiore coinvolgimento nella vita del paziente. E darebbe maggiore soddisfazione al medico, che ha sempre seguito interi gruppi familiari. Purtroppo questo ruolo non esiste più. Eppoi, come possiamo agire in scienza e coscienza, se ci viene chiesto di sacrificare il bene del paziente a ragioni burocratiche o economiche? Bisognerebbe ricordare che salute ed educazione sono beni primari».
Le soluzioni, però, non mancano. Ecco i consigli dell’associazione Usa per aiutare i medici di famiglia: «Ridi con pazienti e colleghi; scherza di più; non reagire con impulsività; crea connessioni con i colleghi; mantieni una vita equilibrata; impara a dire no; concentrati su quanto funziona; non vivere di sola medicina».
«Quella dell’ironia è una proposta intrigante e valida - commenta Carelli -: una buona disposizione d’animo promuove sia il nostro benessere sia quello dei pazienti. E mi pare molto valida l’idea di fare rete con i colleghi, anche al di fuori del mondo del lavoro. L’esperienza inglese insegna che il sistema solidaristico tra colleghi funziona. In Italia, invece, siamo individualisti e ognuno - aggiunge - è lasciato a sé stesso».
Visto il buon livello di occupazione e di prestigio sociale, l’idea che la maggior parte dei medici di famiglia sia insoddisfatto può apparire strana a molti. Eppure il fenomeno del «burn-out» è in crescita, come testimonia anche la situazione negli Usa, dove sono quattro camici bianchi su 10 a soffrire di disagio: lo rivela una ricerca di Tait Shanafelt della Mayo Clinic di Rochester. Il quale conferma la diagnosi: bisogna prima curare se stessi per meglio curare gli altri.