giovedì 6 dicembre 2012

l’Unità 6.12.12
Il contratto separato mentre Fiom sciopera
Fim e Uilm firmano il rinnovo: 130 euro di aumento, più flessibilità sull’orario
Le tute blu della Cgil, escluse dal negoziato, in piazza: siamo qui per difendere il lavoro
di Massimo Franchi


ROMA Un ennesimo contratto separato. Questa volta però sub judice. Tutto come previsto. Mentre la Fiom era in piazza per il primo dei due giorni di sciopero diviso sul territorio, a Roma Federmeccanica, Fim Cisl, Uilm, Ugl e Fismic firmavano il rinnovo del contratto nazionale che riguarda 1 milione e 600 mila lavoratori. Un contratto su cui però, come anticipato da l’Unità, pende il ricorso che la stessa Fiom ha presentato martedì mattina al Tribunale di Roma. Un ricorso che chiede la nullità del nuovo contratto e che, se accolto, farebbe ripartire da zero la trattativa. Questa volta con la Fiom al tavolo.
Partiamo dunque dal merito del contratto. Lo spiega il direttore generale di Federmeccanica Roberto Santarelli: «L’aumento salariale è di 130 euro (nell' arco dei prossimi due anni, 35 euro il primo gennaio 2013, 45 il primo gennaio 2014 e 50 il primo gennaio 2015, ndr), più vicino alla richiesta dei sindacati di 150 rispetto ad altri contratti sottoscritti in questi mesi, come gli alimentaristi. C’è più flessibilità sugli orari, una stretta sull’assenteismo». Dunque, un contratto in stile Fiat? «Un contratto vicino alle esigenze dei nostri 12mila associati, ma rispetto al contratto Fiat ci sono differenze abissali, a partire proprio dal fatto che nelle nostre fabbriche le Rsu Fiom sono presenti». Sul tema dell’esclusione e del possibile annullamento del contratto, Santarelli precisa: «Abbiamo saputo della notizia dall’articolo de l’Unità, pensiamo di aver rispettato gli accordi del 28 giugno perché la Fiom ha rigettato l’oggetto della trattativa, il rinnovo del contratto 2009 e in più dal punto di vista formale l’accordo del 28 giugno non è ancora stato attuato. Se il ricorso venisse accolto, valuteremo cosa fare». Santarelli poi ci tiene a sottolineare un aspetto: «Con questa firma abbiamo difeso lo strumento del contratto nazionale, un contratto coerente con il cambiamento nel mondo». Santarelli infine non nega le pressioni ricevute da alcuni territori (Emilia in testa) per riportare la Fiom al tavolo: «L’esigenza di certi territori è stata manifestata ma ieri poi le nostre strutture territoriali hanno approvato l’accordo all’unanimità».
I commenti dei sindacati firmatari sono tutti positivi: «L'intesa raggiunta commenta Giuseppe Farina, segretario generale Fim Cisl rappresenta un segnale positivo per il Paese. Da oggi i lavoratori metalmeccanici, malgrado la grave crisi economica, avranno maggiori certezze salariali e di stabilità del lavoro, mentre le imprese potranno contare su relazioni sindacali più certe e significative che possono favorire e accompagnare la ripresa economica e il rilancio del Paese». Per il suo segretario confederale Raffaele Bonanni, il contratto è «soddisfacente sul piano normativo ed economico» è «un antidoto alla crisi» ed è stato siglato «nonostante la congiuntura economica non favorevole».
Per Rocco Palombella, segretario generale della Uilm, «si tratta di un risultato importante per il settore metalmeccanico, dato che il comparto industriale è stato gravemente colpito dalla recessione. Arriva salario fresco nelle tasche di quasi due milioni di addetti metalmeccanici ed importanti innovazioni normative per quanto concerne l'inquadramento, il salario, flessibilità e orario di lavoro, la tutela delle malattie e la previdenza integrativa sanitaria». «Fim e Uilm hanno fatto l'unica cosa giusta che può fare un sindacato per far crescere i salari: firmare i contratti», commenta il segretario generale Luigi Angeletti. Anche per l’Ugl, Luigi D’Anolfo spiega: «Abbiamo sottoscritto un testo che recepisce le nostre richieste dal punto di vista salariale, e introduce significative novità normative, a partire dall’aumento del contributo al fondo sanitario integrativo a carico delle imprese».
«CANCELLATI 40 ANNI»
Di parere completamente opposto invece la Fiom che ieri è scesa in piazza in tre regioni (Lombardia, Marche e Toscana) e oggi nelle restanti 17. Da Milano è stato Maurizio Landini a commentare la firma del contratto. «È stata approvata la piattaforma di Federmeccanica. È un contratto che cancella 40 anni di contrattazione perché cancella il ruolo delle Rsu sull’orario che aumenta fra plurisettimanale e straordinario, guarda caso, di 120 ore, come in Fiat. Il contratto è il primo frutto dell’accordo separato sulla produttività perché gran parte dell’aumento salariale sarà a livello aziendale. Noi ci opporremo in ogni modo a questo contratto, a partire dal ricorso presentato a Roma».
Ricorso a parte, ora si apre anche un’altra partita. La richiesta principale della Fiom è quella di «portare la democrazia dentro le fabbriche». I sindacati firmatari dell’accordo sottoporranno il contratto a referendum? «Partiamo subito con le nostre strutture spiega Palombella (Uilm) -. Sui meccanismi della consultazione non escludiamo di aprirla a tutti i lavoratori: il problema è di evitare falsificazioni».

l’Unità 6.12.12
Tute blu, da avanguardia a retroguardia
Un conflitto dopo l’altro e si dimentica che il Paese rischia la definitiva de-industrializzazione
di Luigi Mariucci


È STATO STIPULATO IERI IL RINNOVO DEL CONTRATTO NAZIONALE DEI METALMECCANICI da parte di Federmeccanica, Fim-Cisl e Uilm-Uil. La Fiom-Cgil non l’ha siglato anche perché non era stata neppure convocata alle trattative.
Nel merito il nuovo contratto non dice granché e non propone nulla di sconvolgente. Si prevede un incremento dei minimi salariali dagli 81 ai 170 euro, parametrati sui livelli di inquadramento, da corrispondere nel triennio. In sintonia con il recente accordo sulla produttività si prevede che la seconda e terza tranche dell’incremento salariale possano essere utilizzati in sede di
contrattazione aziendale, per fruire della tassazione agevolata al 10% assicurata dal governo per gli incrementi di salario legati alla produttività in sede aziendale. Sul piano normativo si introducono varie innovazioni ma nulla di particolarmente sconvolgente.
Nel merito si tratta quindi del modesto rinnovo di un contratto nazionale di categoria, come è già accaduto in innumerevoli settori, dal settore chimico altessile al commercio.
Perché dunque nel settore meccanico si determina questa particolare conflittualità e divisione tra i sindacati? Pesa di certo la vicenda Fiat, l’accettazione da parte di Fim-Cisl e Uilm-Uil di contratti che hanno addirittura espulso la Fiom-Cgil dalle rappresentanze in azienda. Il fatto che Federmeccanica non ha neppure convocato la Fiom-Cgil alle trattative per il rinnovo del contratto nazionale, non avendo la Fiom-Cgil sottoscritto il precedente contratto.
Ma, a ben guardare, tutti questi conflitti sembrano muoversi in retrovia, guardando al passato, a un’epoca che non c’è più. Il problema vero che ci sta di fronte è infatti quello del rischio di una definitiva de-industrializzazione del Paese, come indicano le vicende dell’Ilva di Taranto e più in generale della siderurgia. E soprattutto il problema della crescita della disoccupazione e del precariato giovanile. Abbiamo di fronte problemi molto seri, persino epocali. Di fronte ai quali le vicende del rinnovo dei contratti dei metalmeccanici appaiono essenzialmente il risultato di conflitti tra burocrazie sindacali più che vicende feconde di positive evoluzioni. È un peccato: perché una volta in Italia i metalmeccanici erano l’avanguardia di una coscienza sociale diffusa, mentre oggi appaiono essere solo un problema da risolvere.
Quando i conflitti sociali assumono un carattere endemico e improduttivo, come nel caso in esame, non resta che un rimedio: l’intervento della politica, in termini di nuove e chiare regole della rappresentanza sindacale. Questo potrà avvenire, naturalmente, se e quando ci sarà un nuovo governo politico.

il Fatto 6.12.12
Referendum sul lavoro ultima spiaggia
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, vedo di tanto in tanto banchetti della Cgil o della Fiom dove si raccolgono firme per “i referendum sul lavoro". Se ne parla poco o niente sui giornali e per nulla in Tv. Cosa sono?
Marina

È VERO, non se ne parla affatto. Ricapitoliamo. È in corso la più grande campagna contro il lavoro e la sua forza organizzata (il sindacato) dai tempi della Thatcher e di Reagan. L'intera crisi che nasce dalla finanza e dalla deregolamentazione e che sta recando tanto danno all'economia, viene scaricata da un lato sulla classe media e sui poveri in quanto studenti, commercianti, consumatori, ammalati, pensionati, senza lavoro. E sul lavoro, che viene indicato sempre come il colpevole, accusato di essere rigido, pretenzioso e troppo costoso. I cittadini, abbandonati come sono dalla politica, rispondono come possono con proteste e dimostrazioni. I lavoratori (che sono gran parte dei cittadini nella loro veste di persone incolpevolmente accusate e continuamente in pericolo) rispondono con le sole forme di resistenza organizzata che hanno a disposizione, i sindacati. I sindacati, a loro volta, si dividono in due gruppi: quelli che corrono a firmare ogni tipo di resa nel tentativo (avrebbero dovuto capire che è vano di imbonire la prepotenza di chi esige dai lavoratori la restituzione di ogni diritto). E quelli che tengono duro in nome dei contratti firmati, dei diritti acquisiti, dello Statuto dei lavoratori e – soprattutto – della Costituzione. Cortei e piazze gremite servono per far sentire a ciascuno che non è solo nel tentativo di salvare i suoi diritti. I referendum sono l'impegno di rendere legale e formale la difesa che Cgil e Fiom stanno facendo in fabbrica, in strada e in piazza (nel modo rigorosamente corretto che tutti sanno) per difendere la loro dignità di legittima e rispettata controparte. I referendum per cui tanti volontari cercano firme sono tre: in difesa dell'art. 8 dello Statuto dei lavoratori. Garantisce il valore del contratto nazionale, ma un certo Sacconi di casa Berlusconi lo ha fatto sparire per sostituirlo con i contratti aziendali, dove il padrone vince sempre. Un altro referendum chiede di respingere ogni attacco, limitazione e mutilazione dell'art. 18 che è il cardine di tutte le garanzie al mondo del lavoro. Il terzo è sulla infinita questione dell'età pensionabile e della sua clamorosa contraddizione: costringere tutti ad andare allegramente verso la pensione a 70 anni, mentre nessuna fessura si apre per i nuovi lavoratori giovani. Ecco che cosa chiedono i referendum: tre correzioni per volontà popolare a tre gravi errori. È questa la proposta del più grande e meno arrendevole dei sindacati italiani. Personalmente io dico che firmo.
Furio Colombo - Il Fatto Quotidiano

l’Unità 6.12.12
Scuola, la protesta degli studenti si lega a quella operaia
di Luciana Cimino


La cosiddetta «legge Aprea» (uno dei punti cardine delle proteste di insegnanti e studenti di questi mesi) si è impantanata, difficile che veda la luce prima della fine della legislatura. Eppure la mobilitazione del comparto della conoscenza non si ferma, anzi rilancia e tenta di collegarsi ad altri elementi di disagio creati dalla crisi.
Prima fra tutte una disoccupazione giovanile ormai al 35% e una precarizzazione pressoché totale di una intera generazione. Così con lo slogan «Le nostre lotte faranno scuola» sono tornati ieri in piazza (a Milano, nelle Marche, in Toscana e oggi nel resto d’Italia) gli studenti in occasione dello sciopero di otto ore indetto dalla Fiom. «Non possiamo certo ritenerci soddisfatti del blocco della Aprea: la lotta non potrà finire fino a quando non avremo ripubblicizzato completamente le nostre scuole e le nostre università, fino a che non riusciremo a liberare i saperi dallo sfruttamento del mercato e permesso alla conoscenza di tornare ad essere uno strumento di miglioramento delle condizioni sociali dell’individuo e non uno strumento di divisione». Scrivono nei tanti documenti prodotti dalle assemblee tenute nelle centinaia di scuole e università autogestite o occupate nelle scorse settimane.
Legano tutto: il fatto che l’università per molti di loro non sia più sostenibile (e il calo delle iscrizioni negli atenei lo conferma), i tagli alla ricerca, le scuole che cadono a pezzi, la precarietà del lavoro che li aspetta e quella dei loro insegnanti. «Abbiamo vinto sulla Aprea – spiega Luca Spadon, portavoce nazionale del coordinamento universitario Link (che fa parte, con gli studenti medi, della Rete della Conoscenza) ma adesso ci mobilitiamo per legare più concetti: siamo contro la privatizzazione continua che l’università continua a subire, pretendiamo un adeguato finanziamento per scuole e atenei, e chiediamo al ministro di invertire l’attenzione con cui si rivolge alle scuole private e di dedicarsi a quella pubblica». Ma perché legare la protesta a quella della Fiom? «Saremo a fianco dei metalmeccanici perché sono gli unici si sono mobilitati negli ultimi anni – dice ancora Spadon – Noi siamo una generazione che scende in piazza per reclamare un futuro diverso, soprattutto ora che sono finite le primarie e comincia la battaglia politica noi chiediamo di mettere al centro del dibattito un nuovo modello per uscire dalla crisi. Gli operai manifestano per contratti, garanzie, stabilità, per l’articolo 18 e per la democrazia nei luoghi di lavoro, sono tematiche simili alle nostre, gli studenti chiedono l’eliminazione delle 46 forme contrattuali precarie, i fondi per la conoscenza, il reddito minimo garantito, e manifestano perché i loro genitori stanno perdendo diritti».
Oggi altre manifestazioni. Le principali a Napoli, Torino, Bari e Roma dove sono attesi due cortei non autorizzati di studenti medi e universitari con partenza da Piramide e da Piazzale Aldo Moro alle 9.30. Appello per la partecipazione rivolto a tutti: «Non può esistere un elemento di contrapposizione tra le generazioni, aspettiamo anche chi ha 42 anni e fa da 15 il precario a scuola o in una cooperativa o si è laureato e fa da due anni il dottorato e non ha la garanzia di poter restare in questo paese. Non portiamo indietro l’orologio della storia».

il Fatto 6.12.12
Statali. Il ministro Patroni Griffi: “Non possiamo stabilizzarli”
Roma come Atene: a spasso 260 mila precari dello Stato
di Salvatore Cannavò


Il titolare della Funzione pubblica illustra alla Camera la situazione: i posti a rischio sono più numerosi rispetto alle stime degli stessi sindacati. In forse 115 mila lavoratori solo nella Sanità. Annunciati anche 7.300 esuberi nelle amministrazioni

È uno scenario alla greca quello che fa balenare il ministro della Funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi, con la sua audizione di ieri alla commissione Lavoro della Camera. Dire, infatti, come ha fatto il ministro, che lo Stato si trova con 260 mila contratti precari da un lato, per i quali non ci sono risorse necessarie alla stabilizzazione e, dall'altro, con 7300 esuberi già accertati, oltre a rappresentare un’evidente contraddizione sembra l'annuncio di un licenziamento di massa. Centinaia di migliaia di posti di lavoro nel pubblico impiego destinati a essere bruciati. Come in Grecia, appunto.
IL MINISTRO ha illustrato numeri che nemmeno i sindacati avevano finora evidenziato in queste dimensioni.
Partiamo dai precari. Il loro numero complessivo, riferito all'intera Pubblica amministrazione e legato a contratti “flessibili e a termine” di ogni tipo, è di 250-260 mila per i quali “non è possibile pensare a una stabilizzazione di massa”. Precari sono e precari resteranno. Secondo il ministro, 130 mila sono riferibili alla Scuola, 115 mi-la alla Sanità e agli Enti locali mentre altri 15 mila nelle Amministrazioni centrali. La Cgil segnala che, rispetto ai dati forniti dal ministro, tra il 2010 e il 2012 sono già 80 mila i contratti flessibili o a tempo determinato destinati a non essere rinnovati. “Dando per buona l'ultima stima – spiega Rossana Dettori, segretario Fp-Cgil – in due anni, stando ai ben più credibili dati della Ragioneria generale dello Stato riferiti al 2010, che censivano in Sanità, Enti locali e Amministrazioni centrali 160 mila precari, ne avremmo già persi per strada 30mila, scuola esclusa”. Il problema è determinato dal decreto 78 del 2011, a firma Giulio Tremonti e mai modificato, che obbliga gli Enti a ridurre del 50% la spesa per il personale precario di anno in anno. “Di questo passo, aggiunge Dettori, in due anni perderemo 80 mila posti”.
La situazione si ingarbuglia se si considera che questi lavoratori dovrebbero essere assunti da amministrazioni che, come ha ancora ribadito il ministro ieri alla Camera, cumulano già degli esuberi. Il ministro li ha calcolati in 7300 posti di lavoro, 3300 negli Enti previdenziali e negli Enti parco e 4028 già previste “per le prime 50 amministrazioni dello Stato”.
Le soluzioni individuate da Patroni Griffi, però, puntano più a tamponare il problema che a risolverlo. Per gli esuberi, infatti, si lavora all'aggiramento della legge Fornero sulla previdenza, utilizzando le vecchie norme per coloro che entro il 2014 avranno maturato i requisiti per andare in pensione. Per gli altri, si pensa a una deroga, al massimo per 36 mesi, dei contratti a termine. È vero, quindi, che quella annunciata assomiglia alla “più grave crisi aziendale” esistente oggi in Italia, come denuncia ancora la Cgil e rischia di abbattersi sui servizi forniti ai cittadini. Il dato della Scuola e della Sanità è eclatante perché sempre più, in questi settori, sono i lavoratori precari a garantire lo svolgimento delle attività di base. Si pensi ai Pronto soccorso o agli insegnanti di sostegno.
È QUANTO emerge, del resto, dalle iniziative degli stessi precari. Come quella dei dipendenti della Croce Rossa che ieri hanno occupato il Comitato provinciale di Roma. Dopo il rinnovo della convenzione da 19 milioni di euro sottoscritta con l'Ares, l'Azienda regionale che gestisce il 118, la Cri ha annunciato di voler fare a meno di questi lavoratori, “utilizzati, denuncia Massimo Gesmini dell'Usb, come pedina di scambio”. Ma ci sono anche i dipendenti dell'Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv) che sciopererà lunedì 10 dicembre contro la sospensione della proroga del contratto per i 192 precari dell'ente decisa dal nuovo direttore generale, Massimo Ghilardi – già caro al ministro Gelmini che lo promosse al ministero dell'Istruzione nonostante la sua laurea in Scienze motorie – ha deciso di sospendere il loro contratto, siglato lo scorso 18 luglio, dopo il parere del ministero della Funzione pubblica che invitata a inserire l’accordo nel più ampio contesto dei precari della Pubblica amministrazione. Da qui la decisione dello sciopero.

l’Unità 6.12.12
Il Tar del Lazio guasta la festa del Cavaliere
Il Tribunale amministrativo stoppa la Polverini: «Si voti il 3 febbraio»
Più complicata la strada verso l’election day invocato da Berlusconi
Stallo sulla legge elettorale
di Andrea Carugati


ROMA Tra legge elettorale ed election day, questo fine legislatura si presenta decisamente bizantino e dominato da un tatticismo esasperato e talvolta incomprensibile, in cui la parte del leone la fanno Berlusconi (con le sue minacce al governo e le continue giravolte sul Porcellum) e la governatrice dimissionaria del Lazio Renata Polverini.
Fatto sta che a ieri sera l’accordo su una nuova legge elettorale era in alto mare, il Tar del Lazio ha deciso che il Lazio deve votare il 3-4 febbraio, e non una settimana dopo (Polverini aveva indicato il 10-11) e che oggi il Consiglio dei ministri si troverà sul tavolo questa ingarbugliata matassa. Con il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri convinta che il 3-4 febbraio non sia la data giusta, per via del rischio che la raccolta delle firme per le liste debba svolgersi nel pieno delle feste natalizie e che per eventuali ricorsi sia necessario aprire gli uffici nel giorno dell’Epifania. Il ministro, spiegano fonti a lei vicine, sembra orientato a proporre oggi al Cdm di «aggirare» la sentenza del Tar del Lazio, e di trovare una soluzione che consenta di votare nel Lazio il 10 febbraio (con la possibilità di accorpare anche Lombardia e Molise). Mentre i legali della Regione Lazio suggeriscono addirittura un ricorso alla Consulta contro la sentenza di ieri del Tar.
Sulla data del voto per le politiche pesano altre incognite. Un election day il 3-4 febbraio è ritenuto impossibile. Per votare in quelle date, infatti, le Camere andrebbero sciolte questa settimana, senza approvare dunque né la legge di Stabilità e neppure la nuova legge elettorale. Uno scenario ritenuto impercorribile al Quirinale.
Sul tavolo del Consiglio dei ministri peseranno anche le minacce di Berlusconi, che non vuole che si voti nelle regioni in una data diversa dalle politiche e medita una sfiducia contro Monti. Tra i ministri nessuno vuole correre il rischio di essere sfiduciato. E questo elemento è destinato a pesare mnella discussione. Anche se la minaccia del Cavaliere viene ritenuta “a salve.”
Quanto al Lazio, a fissare le elezioni non sarà più la governatrice ma il Viminale, nella figura del suo commissario Giuseppe Pecoraro, prefetto di Roma, entro tre giorni dalla notifica. Nel caso in cui la sentenza non fosse aggirabile, è probabile che il governo si orienti a lasciare il Lazio al suo destino (le urne il 3-4 febbraio), e ad accorpare le regionali in Lombardia e Molise e le politiche al 10 marzo. Un’ipotesi che, a quanto pare, potrebbe placare le ire di Berlusconi, che ha già dato per scontata la vittoria di Nicola Zingaretti nel Lazio, e punta tutte le sue fiches sul Pirellone, dove intende sostenere Maroni in cambio del sostegno della lega alle politiche.
L’altro fronte bollente è quello della legge elettorale. E qui, se possibile, la situazione è ancora più caotica. Dopo che il Pd aveva aperto sul cosiddetto lodo Calderoli (che prevedeva un premio progressivo per il primo partito o coalizione che restasse sotto il 40%), martedì Berlusconi ha imposto ai suoi rappresentanti in Senato di presentare una nuova proposta, che prevede solo 50 seggi di “premietto” per il primo partito e un premio di maggioranza solo per la coalizione che superi il 40%, ma di tutti i voti validi (conteggiando anche le liste che non superano lo sbarramento del 4%). Un modo per spostare più in alto la soglia vera per accedere al premio di maggioranza, e per far saltare la trattativa col Pd. Non è un mistero che il Cavaliere abbia deciso di tenersi il Porcellum, per nominare lui i parlamentari e per tentare di boicottare in Senato la vittoria del centrosinistra (a palazzo Madama infatti il premio è regionale e Berlusconi è convinto di conquistarlo in alleanza con la Lega in Lombardia e Veneto).
Ieri la legge elettorale avrebbe dovuto iniziare il suo iter in aula al Senato. Ma, vista l’assenza di un accordo, tutto si è fermato. Il Pd ha fatto una sua controproposta (premietto di 58 seggi invece di 50), che sarebbe stata respinta dal Pdl. Oggi comunque la Commissione Affari costituzionali di palazzo Madama riprenderà l’esame del testo, e l’approdo in Aula dovrebbe essere la settimana prossima. Tra ieri sera e oggi nuova serie di contatti tra i due “sherpa” Denis Verdini (Pdl) e Maurizio Migliavacca (Pd), ma le possibilità di un’intesa in extremis non sembrano molte.
La novità è che il Pd sembra disposto a ragionare anche sulla base dell’ultima proposta del Pdl, forte dei sondaggi. Gasparri fa capire che Il Pdl è intenzionato ad andare avanti in Aula con la sua proposta, anche senza accordo. Calderoli si dice convinto che «il maiale può dormire sonni tranquilli». «È interesse sia del Pd che del Pdl andare a votare con l'attuale legge elettorale», assicura il padre del Porcellum. Resta il fatto che l’ultima proposta del Pdl (firmata Quagliariello) ancora non è stata depositata in commissione. Una proposta fantasma, in attesa dell’ultima giravolta di Berlusconi. Enrico Letta assicura: «Se resta il Porcellum faremo le primarie per i parlamentari».

Corriere 6.12.12
Il senso (originale) delle primarie
di Paolo Franchi


Si dice che nelle primarie si sono confrontate due concezioni diverse, e forse opposte, della sinistra. Verissimo. Ma la novità principale non è questa. Né in Italia, dove due idee diverse, e forse opposte, di sinistra — la prima, a grandi linee, socialdemocratica, la seconda, sempre a grandi linee, «democratica» — si confrontano con alterne sfortune (basta sfogliare gli annali dell'interminabile duello tra Massimo D'Alema e Walter Veltroni) da vent'anni e passa. Né in Europa, dove le forze socialiste, socialdemocratiche e laburiste non sono affatto, e da un pezzo, quel Moloch operaista, statalista e spendaccione di cui si chiacchiera a sproposito da noi, ma sul nodo identitario si confrontano, e talvolta duramente si scontrano, senza per questo andare in pezzi: di questo già nei tardi anni Novanta ci aveva parlato, per fare l'esempio più classico, l'affermazione di Tony Blair, di questo, esaurito il blairismo, ha continuato a parlarci la vittoria per un pugno di voti di Ed Miliband sul fratello David, poco più di due anni fa, nella contesa per la guida del Labour Party.
A rendere originale il caso italiano, come si sarebbe detto una volta, sono soprattutto altri due fattori. Il primo, e il più evidente, è che la battaglia non si è consumata in un congresso di partito (per la semplice ragione che da noi partiti propriamente detti non ce ne sono più, e il Pd non sfugge alla regola), ma ha avuto per platea elettorale tre milioni di persone. Il secondo, su cui, a torto, si riflette meno, è che lo scontro non si è aperto, come vuole gran parte della tradizione della sinistra (non solo italiana) all'indomani di una sconfitta, o di una serie di sconfitte, ma alla vigilia di una vittoria elettorale unanimemente considerata assai probabile. Anche perché le elezioni politiche ormai incombono e un competitor, sull'altro, disastratissimo fronte, ancora non c'è: con tutti i rischi di vertigine da successo (Silvio Berlusconi 1994 docet) che un simile vuoto inesorabilmente comporta, visto che l'implosione della destra politica sembra sì inevitabile, ma i suoi elettori, per quanto intristiti e arrabbiati, sono vivi e vegeti.
Si è letto che le primarie sono state un concorso pubblico per l'incarico a candidato premier, svoltosi nella forma di una grande, e salutare, festa democratica. Anche in questo caso, verissimo. Ma forse, per i motivi sopra ricordati, sono state pure qualcosa di diverso e di meno facile da decifrare. Una specie di simulazione di massa delle elezioni vere, resa più realistica dal fatto che, a torto o a ragione, agli occhi della grande maggioranza dell'opinione pubblica, non solo di sinistra, il clou della contesa per la futura premiership è, Mario Monti permettendo, tutto interno alla sinistra. Questo aiuta a capire, tra l'altro, anche la quantità imbarazzante di endorsement piovuti dalla destra su Matteo Renzi, il più delle volte a modo loro sentiti e sinceri, specie quando a manifestarli non sono stati politici di professione: è il caso, di cui ha detto benissimo Massimo Mucchetti, del fior fiore dell'intellettualità liberista italiana, e della sua curiosa, ricorrente pretesa di chiedere alla sinistra di fare la destra.
Resi alle primarie, a chi le ha coraggiosamente volute e a chi le ha con fortissimo impegno combattute tutti i meriti democratici di questo mondo, resta per Pier Luigi Bersani, e seppure in diversa misura per Renzi, il problema delle secondarie, il problema di vincere cioè, quale che sia la legge elettorale, le elezioni politiche. Mettendo in conto che a quel punto l'avversario oggi latitante probabilmente ci sarà, forse con le fattezze di Berlusconi, forse no. Idee, programma, squadra (anzi, squadrone): tutto quello che il vincitore delle primarie promette di mettere in campo da oggi alle prossime settimane, sempre che si tratti di idee, di un programma e di una squadra convincenti, va benissimo. Ma non basta. Nelle settimane scorse, battendo l'Italia con il suo camper, Renzi ha rilanciato, si intende a modo suo, la «vocazione maggioritaria» cara a Veltroni: l'idea cioè di una sinistra che, finalmente emancipata dai propri anziani e dal proprio passato, può farcela da sola. Bersani questa visione non l'ha mai condivisa, e non solo perché con quel grumo di storia, valori e interessi che definiamo passato coltiva (come, si è visto, la maggioranza dell'elettorato attivo del Pd, di Sel e dei socialisti) un rapporto diciamo così più rispettoso. È convinto che la sinistra, qualsiasi sinistra, non è mai stata e ben difficilmente sarà maggioranza in questo Paese. Non si traveste da moderato, ma sa che, per governare, non solo con le ragioni, gli interessi e, naturalmente, i voti dei moderati vanno fatti i conti, ma con una parte almeno del loro mondo bisognerà probabilmente allearsi. Farlo dopo il voto sarebbe, forse, una soluzione realistica. Ma sarebbe anche una soluzione contraddittoria con la logica stessa delle primarie, e con la conclamata volontà di mettere anche stavolta gli italiani in condizione di sapere chi li governerà la sera stessa delle elezioni. Fossimo in Bersani, un incontro formale al suo amico Pier Ferdinando Casini, per chiedergli amichevolmente che cosa vuol fare e con chi vuole stare da grande, cominceremmo a chiederlo già adesso.

Corriere 6.12.12
Primarie. Anche per la Cgil, la «Gaffe» dei Democratici
di Dario Di Vico


È stata solo una battuta ma nel sindacato qualche mal di pancia l'ha provocato. In una delle interviste rilasciate il giorno dopo l'affermazione nel ballottaggio il vincitore Pier Luigi Bersani ha sostenuto la bontà del metodo delle primarie anche per quanto riguarda la selezione dei gruppi dirigenti del sindacato. Bersani sicuramente lo aveva dimenticato ma questa parola d'ordine era già risuonata in casa Cgil nel 2009 creando qualche turbamento. Un corsivo di un ex dirigente, Michele Magno, pubblicato sul Foglio aveva sostenuto le primarie «come antidoto contro lo strapotere delle burocrazie e delle nomenklature». E poco dopo la minoranza della Cgil, che in quella circostanza si opponeva al segretario Guglielmo Epifani per sbarrare la strada alla staffetta con Susanna Camusso, aveva fatto sua la proposta di far votare almeno tutti gli iscritti con esplicite dichiarazioni di due dirigenti di peso come Gianni Rinaldini e Guglielmo Podda.
Anche oggi la parola «primarie» provoca qualche reazione nell'alta dirigenza Cgil e il motivo è semplice: si teme che un giorno o l'altro possa diventare il grido di battaglia della minoranza e in particolare di Maurizio Landini, leader della Fiom. Oggi però Landini ha davanti a sé ben altre priorità (il contratto separato dei metalmeccanici, la legge sulla rappresentanza) e quindi il confronto sulle regole interne di governance è rimandato nel tempo. Comunque Bersani ha capito di aver fatto una gaffe propagandando le virtù onni-salvifiche delle primarie e nelle successive sortite si è ben guardato dal riproporre l'idea.
Se infatti il segretario ha una preoccupazione è quella di dosare i rapporti con la Cgil che lo ha sostenuto con trasporto e dedizione nel derby con Matteo Renzi e che di conseguenza va in qualche maniera ricompensata. Bersani in cuor suo avrebbe preferito che Camusso avesse firmato l'accordo sulla produttività, come si può tranquillamente evincere dalle dichiarazioni rilasciate a caldo da Stefano Fassina, ma non ha nessuna voglia di tornare anche su questo spinoso argomento. Il messaggio che invece ha voluto mandare riguarda la concertazione. Camusso è sempre feroce nelle dichiarazioni anti-Monti per valutazioni di merito sui suoi provvedimenti ma anche perché non ha mai digerito la derubricazione del tradizionale schema di rapporti imprese-sindacato-governo. Bersani l'ha rassicurata che «se dovesse toccare» a lui si tornerebbe all'antico e per la Cgil è musica visto che incasserebbe non solo il replay della concertazione ma anche il vantaggio di avere a Palazzo Chigi un «premier amico». Prima però che tutto torni al suo posto ci sarà modo per entrare nel merito delle diverse concezioni del metodo concertativo. In Cgil tutto sommato il tavolo a tre viene considerato come il presupposto di un intervento finanziario pubblico keynesianamente necessario per risolvere i problemi. Non è detto, invece, che Bersani e Fassina la pensino proprio allo stesso modo.

il Fatto 6.12.12
L'intervista. Il governatore della Toscana
Rossi: “Primarie per i candidati, da noi sono legge”
di Caterina Perniconi


Per chi dice che le primarie dei parlamentari sono complesse da realizzare è pronto l'esempio toscano: le fanno da 18 anni per scegliere i candidati in Consiglio regionale, con qualsiasi tipo di legge elettorale, e nel 2005 sono diventate addirittura istituzionali. Il più votato è stato lui, Enrico Rossi. Oggi è governatore.
Presidente Rossi, funzionano le primarie per i candidati?
Eccome.
Voi avete una legge elettorale a liste bloccate. Ma le facevamo anche prima, quando c'erano le preferenze.
E perché?
Per stabilire chi erano i 20 che dovevano poi prendere le preferenze ufficiali. Ora invece le primarie sono previste nella legge, organizzate dalla Regione stessa.
Cioè votate nelle scuole come alle elezioni ufficiali?
Esatto, e sulle schede ci sono le liste di tutti i partiti che richiedono di farle.
Già, questo è il limite, non sono obbligatorie.
No, infatti. La legge funzionerebbe se le facessero tutti, ma non possiamo imporle. L'ultima volta hanno partecipato solo Pd e Sel. Storicamente, i Ds. Ragione per cui, per non avere un Consiglio di nominati, la stiamo cambiando.
Un po' come succede con il Porcellum. Che per ora è vivo e vegeto.
Se la legge Calderoli non viene cambiata dobbiamo riprendere gli albi e richiamare i cittadini alle urne. Con l'organizzazione volontaria, solida e organizzata del Pd, naturalmente.
Quindi restringerebbe le primarie a chi ha votato l'ultima volta.
È un'ipotesi.
In Toscana chi avete fatto votare?
Tutti.
E non c'era l'ormai noto rischio infiltrazioni di elettori di destra?
Nel 2010 questo non era ancora un tema.
Si può candidare chiunque?
Quelli che raccolgono un certo numero di firme tra gli iscritti.
Poi però vengono scelti con le preferenze. Non temete che vinca chi ha più soldi per fare campagna elettorale?
Naturalmente c'è un tetto di spesa rigido da rispettare.
Avete eletto abbastanza donne?
Un po' meno dell'ultima volta, ma avevamo ridotto i consiglieri da 65 a 55 e ora arriveremo a 40. Io comunque sono a favore delle quote di riequilibrio, non solo per le donne.
Per chi altro?
Per alcune personalità rappresentative che ai partiti possono servire in Parlamento, ma ai quali non si può chiedere di buttarsi nella mischia delle primarie.
Per esempio?
Un penalista, un fiscalista, uno scienziato. Dipende dal caso specifico. Di certo non per i professionisti della politica.
Insomma, anche chi avrà le deroghe deve fare comunque le primarie.
Le quote di riequilibrio devono andare solo ai non politici. Non abbiamo bisogno di personalismi esasperati ma di ricambio.
A proposito: lei il rottamatore ce l'ha in casa. Che deve fare Bersani con Renzi?
Direi piuttosto cosa deve fare Renzi.
Prego.
Io l'ho combattuto a viso aperto, ma sono sicuro che non può dire soltanto "c'ho provato". Si è fatto interprete di un bisogno di rinnovamento e deve assumersi le responsabilità del suo gesto. Va coinvolto.
Un toscano in ticket con Bersani?
Ora non esageriamo.

il Fatto 6.12.12
il papà della legge: Roberto Calderoli
“Il Porcellum? La mia maialata fa comodo a tutti”
di Da. Ve.


Il Porcellum è l’unico maiale che si salva a tutte le feste”, Roberto Calderoli è quasi dispiaciuto: la sua legge elettorale, che definì porcata e venne battezzata da Giovanni Sartori “Porcellum”, sembra destinata a rimanere in vita. “Sono sette anni che tento di cambiarla, con tutti i Governi, di centrodestra e centrosinistra, ho presentato proposte in continuazione ma non c’è mai stata la volontà di metterla da parte. E pensare che doveva essere temporanea”.
Eppure da quando c’è il governo tecnico di Mario Monti tutti si dicono pronti a cambiarla..
A parole certo, sempre tutti pronti ma nei fatti poi ognuno pensa al proprio interesse. Guardi le preferenze? Tutti dicono che le vogliono ma poi.... Sa quale è l’unica verità?
No, mi dica..
Che tra Pd e Pdl ciascuno studia la propria proposta per farsela bocciare dall’altro così possono dire ‘lui non ha voluto’.
Il cerino a chi resta in mano?
A chiunque rimanga, la certezza è che ancora una legge elettorale non si vede. Ma c’è uno spiraglio, non mollo...
Oggi la commissione affari costituzionali del Senato torna a riunirsi.
Sì, sono ripresi i contatti ma vedo una certa rigidità. Siamo nel campo della teoria e non della pratica perché dipende dai tempi: se si vota a Marzo abbiamo tempo fino al 20 gennaio, se invece alle urne si andrà a febbraio il limite è il 20 dicembre. In pratica i tempi sarebbero già scaduti.
Eppure anche ieri tutti si sono detti d’accordo a cambiarla. Anche il Pdl..
Vediamo... Ma chi?
Dopo il vertice a Palazzo Grazioli il Pdl ha comunicato, testuale: “È stata scelta una linea costruttiva per la riforma della legge elettorale che va fatta adottando meccanismi equilibrati”.
Si rivedono anche oggi e purtroppo la confusione nel partito, lo scontro interno al Pdl non aiuta di certo il dialogo. Cosa è sto Pdl oggi? E con chi si deve parlare? È un disastro.
Il Pd invece è chiaro. Ieri Bersani ha ribadito a Monti: “Finiamo il lavoro” anche cambiando la “legge elettorale” e “votiamo ad aprile”. Mentre Anna Finocchiaro si è detta pronta ad “uccidere il Porcellum”..
Ma se sono loro i primi a volerlo mantenere in vita, a Bersani potrebbe regalare successi insperati. Lui ha tutto l’interesse di andare a Palazzo Chigi con questa legge che però non gli consentirebbe di avere una maggioranza al Senato e lo costringerebbe così a dover parlare con il Pdl che avrebbe quindi ancora un potere di condizionamento.
E questo ingolosisce Silvio Berlusconi.
Esattamente. Figurarsi se pensano di tornare alle preferenze. Quindi né Pd né Pdl vogliono cambiarla, dia retta: il maiale vive felice e contento, anche quest’anno sopravvive al Natale, all’Epifania e pure alla Pasqua.
Lei sembra l’unico a voler cambiare questa legge. Eppure è sua..
No che non è mia, me l’hanno stravolta i vari Fini, Casini, Berlusconi, i nanetti che circondavano Berlusconi. Andava bene perché c’erano due grandi coalizioni che potevano entrambe superare il 50% e di fatto ha garantito l’alternanza. Ma la mia vera proposta era e rimane mutuata dal sistema spagnolo. Magari nessuno l’avesse toccata.
E invece?
E invece l’hanno stravolta. Le liste che erano di 4 o 5 nomi sono diventate di 50 e Fini volle le liste bloccate. Berlusconi ha voluto introdurre il premio togliendo la soglia di maggioranza che avevo fissato al 40%, i partitini hanno preteso che si ritoccasse la soglia di sbarramento, persino Ciampi intervenne per togliere il premio di maggioranza al Senato su base nazionale.
Nessun altro?
Infatti dissi che era una porcata. Oggi la chiamerei una maialata.

il Fatto 6.12.12
Parlamentarie. Un’occasione persa
Selezioni chiuse. Facce improponibili e poche idee
di Enrico Fierro


“Parlamentarie” Cinque stelle, che delusione! Dovevano essere l'arma fine di mondo del MoVimento, l'affermazione della democrazia vera (altro che file di umani ai gazebo), quella di Internet, e invece si stanno rivelando un boomerang. Troppa confusione, enormi lentezze e grandissima burocratizzazione delle procedure. E poi i video promozionali dei potenziali candidati. C'è materiale in abbondanza per i coloristi politici e soprattutto per quanti (tanti davvero) vogliono demolire Grillo. Facce improponibili, discorsi che fanno concorrenza al bar dello sport, un vuoto di proposte abissale, il bla bla bla sulla casta e i costi della politica troppo in fretta mandato giù e malamente digerito. Certo non è solo questo, sul web si vedono anche figure interessanti di uomini e donne che hanno un retroterra di battaglie civili sul territorio, ma è l'insieme che manda un messaggio deprimente. Grillo ha commesso, volontariamente o no, non tocca a noi stabilirlo, un errore che alla lunga verrà fuori. Voleva essere l'antipartito per eccellenza, l'uomo che demolisce una volta e per tutte le vecchie liturgie delle burocrazie del potere, l'inventore di un movimento che finalmente dimostra che un’altra politica è possibile. Non è andata così, perché Grillo con le sue modalità di selezione degli almeno cento parlamentari che eleggerà ha esaltato al massimo proprio quelle stantie liturgie. Per le parlamentarie votano solo gli iscritti (ma tanti lamentano arbitrarie cancellazioni dagli elenchi) e i candidati sono scelti tra coloro i quali sono già presenti in precedenti elezioni col M5s. I "trombati", per dirla col suo linguaggio. Poteva andare diversamente, Grillo poteva aprire le sue liste al meglio della società civile, a quelle individualità che sul territorio fanno battaglie, culturali e di legalità importanti pur non partecipando ai banchetti del MoVimento. Certo, c'erano rischi di infiltrazione, di assalto al band wagon del vincitore, ma valeva la pena tentare e dimostrarsi un leader vero. Seguire il modello Sicilia, dove i Cinque stelle hanno stravinto. "Sono stato eletto alle primarie in pubblica assemblea e per alzata di mano", ci ha raccontato Giancarlo Cancelleri oggi deputato regionale. Lui e i suoi erano persone conosciute sul territorio, competenti, capaci, molti venivano dall'esperienza delle Agende Rosse. Insomma non erano dei Piluso qualunque.

l’Unità 6.12.12
L’attualità (relativa) di Marx e Freud
di Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta

Carlo Marx è nato 1.705.224 ore fa. Carlo Marx è morto 1.131.824 ore fa. In queste ore, pochissime se confrontate alla storia della terra si sono disputate due guerre mondiali. Si è andati sulla luna. Siamo andati ad un passo da una terza catastrofica guerra mondiale nucleare. Ci sono state almeno altre tre rivoluzioni industriali dopo la prima che Marx studiò. A me parrebbe l’ora di non prenderlo più proprio alla lettera.
GIOVANSERGIO BENEDETTI

Marx, come Freud, era un uomo del suo tempo e tutti e due hanno ragionato sulla base di quello che, al loro tempo, era possibile capire e sapere. Utilizzare alla lettera le loro osservazioni nel tentativo di orientarsi sui problemi come li vediamo oggi è irrealistico. L’eredità di questi due grandi pensatori così come l’ha riassunta Erich Fromm in un suo bel saggio (Oltre le catene dell'illusione: il mio incontro con Marx e Freud, trad. it. il Saggiatore, 1997) è importante, invece, dal punto di vista metodologico nella misura in cui ci aiuta a valutare criticamente le cose che crediamo di pensare e le certezze che pensiamo di avere mettendoci di fronte alla complessità delle motivazioni, in gran parte non consapevoli, alla base dei nostri comportamenti, delle nostre convinzioni e delle nostre teorie. L’inconscio di Freud esiste così come esiste la diversità o la contrapposizione di quelle che Marx chiamava classi ed esiste la fatica che ognuno di noi fa per rendersi conto del modo in cui ne viene influenzato. Saperlo è utile perché ci aiuta ad entrare in contatto con la complessità del nostro funzionamento psichico. Non saperlo o negarlo serve ad allontanarci da noi stessi e dagli altri.

l’Unità 6.12.12
L’autonomia politica del Pd ha bisogno del «socialismo»
di Lanfranco Turci


L’ESITO DELLE PRIMARIE È DESTINATO A RIAPRIRE UNA DISCUSSIONE AGGIORNATA SULLE PROSPETTIVE DELLA SINISTRA,NONSOLOPERLAPREPARAZIONEdi un programma all’altezza della crisi e capace di far vincere la coalizione, ma anche circa la futura configurazione della sinistra stessa. Sono portavoce di una associazioneNetwork per il socialismo europeoi cui militanti hanno votato Vendola al primo turno e Bersani al secondo o direttamente Bersani in entrambi i turni. Dunque ci ritroviamo nella diffusa soddisfazione per il risultato raggiunto dalla candidatura di Bersani.
Ma come è noto questi non sono tempi per sonni tranquilli o per dormire sugli allori. Il voto di Renzi segnala in positivo una voglia di rinnovamento e una critica all’autoreferenzialità della politica che va colta, soprattutto dove ha soffiato più forte come nelle regioni «rosse». E tuttavia non si deve sottovalutare in quel voto anche il segno della persistente influenza del pensiero liberista, che orienta in una direzione moderata, ex democristiana e «montiana» una parte dello stesso elettorato del Pd. Il primo problema di Bersani e della coalizione è dunque quello di far capire come la radicalità del programma che si dovrebbe presentare per far fronte alla crisi non può essere condizionato da sudditanza verso le idee tuttora dominanti nelle classi dirigenti europee.
A chi continua a pontificare sulla discontinuità con il ‘900, occorre ricordare che siamo di fronte a una crisi che propone scenari drammatici già vissuti in altre crisi epocali come quella degli anni trenta del secolo scorso. Crisi che è figlia, in termini aggiornati, delle stesse politiche e delle stesse culture che ci hanno portato al disastro in quegli anni, con il loro seguito di miseria, disoccupazione, crescita della ingiustizia sociale e conflitti. L’accusa mossa a Bersani di guardare alla socialdemocrazia andrebbe rovesciata nella rivendicazione che è proprio alla combinazione del socialismo con il keynesismo che si devono i risultati storici del dopoguerra, la civiltà del lavoro e del welfare costruita in quel contesto. Risultati che la «moderna» offensiva liberista ha contrastato negli ultimi trent’anni fino a portarci all’esplosione della crisi attuale. Si tratta dunque di chiarire la portata delle alternative che la crisi ripropone e che oggi più di ieri si giocano sullo scacchiere europeo. Si deve spiegare a chi esalta i meriti della «modernità» contro il presunto passatismo che si oppone all’austerità e al neoliberismo, che per quella strada l’Europa e l’Italia possono solo andare al disastro.
I ghirigori su Monti non cambiano di un’acca questo quadro e non servono a parlare in profondità al Paese. Questa non è una strada settaria o massimalista, ma l’unica che può unire oltre il tradizionale mondo del lavoro, ceti sociali molto vasti soffocati oggi da una austerità senza sbocco. Questo dato reale può anche aprire la via ad alleanze post elettorali più larghe, senza la necessità di offrire la palma del salvatore o del legittimatore di turno a Monti o ad altri esponenti di una borghesia elitista, che ha, questa sì, un sapore antico di ottimati. Torno così al tema da cui ho preso le mosse. Il Network per il socialismo europeo, come dice il suo stesso nome, è nato per cercare di contribuire a una riorganizzazione unitaria della sinistra italiana sotto il segno della lotta al neoliberismo e della convergenza nel socialismo europeo, consapevole della revisione in atto nelle stesse fila dei partiti socialisti dopo gli anni delle terze vie.
Pensiamo che la coalizione costituitasi per le prossime elezioni politiche e il risultato delle primarie incoraggino questo percorso cui accennava recentemente anche un editoriale del direttore Claudio Sardo. In questa nuova fase la sinistra deve riscoprire il valore della politica democratica tramite partiti rinnovati e partecipati, ma deve riscoprire anche il valore della propria autonomia culturale. Solo una parola antica come socialismo, la cui memoria è densa di lotte sociali, di critica e di aspirazioni ad una diversa società, può alimentare un’autonomia che abbia l’ambizione di diventare anche egemonia. Se si vuole non solo vincere le elezioni, ma anche cambiare l’Italia. Per discutere di tutto questo la nostra associazione terrà il 15 e 16 dicembre la sua assemblea nazionale a Passignano con la partecipazione di esponenti del Pd, di Sel e del PsI. Partiti dei cui destini ci sentiamo compartecipi.

La Stampa 6.12.12
Gli impazienti e i prudenti: due Italie nel Pd
di Enzo Bettiza


Quando sabato 1° dicembre, vigilia del ballottaggio decisivo, domandarono a Pier Luigi Bersani se dopo la sua probabile vittoria egli avrebbe comunque accettato per il futuro una sorta di «ticket modello ObamaClinton» con lo sfidante fiorentino, il segretario del Pd ha risposto con asciutto piglio didattico: «Non siamo l’America».
Concisa e polemica da un lato, la risposta restava però alquanto elusiva su tanti altri lati: di colore, modi, stile, malizie, insomma di simboliche novità telematiche e scenografiche rispetto al tradizionale costume elettoralistico italiano. Si sarebbe detto che Bersani non riuscisse o non volesse rendersi pienamente conto della metamorfosi che lui stesso aveva subito e degnamente interpretato per quindici giorni. Uomo serio, misurato, un po’ all’antica, proveniente dal comunismo amministratore dei Dozza e Zangheri, ha dato l’impressione di non essere del tutto consapevole di aver partecipato, contro Renzi e soprattutto con Renzi, da protagonista o deuteragonista della più americanizzata competizione elettorale che l’Italia abbia conosciuto dai tempi del comizio a quelli più recenti e salottieri di Porta a porta. A cominciare dal titolo altisonante, «primarie», la messinscena all’americana con cui la competizione si è svolta nei duelli televisivi e risolta nei democratici e imponenti concorsi di massa ai gazebi, ha avuto una sua incidenza politica non indifferente. Le nuove tecniche hanno sostenuto una nuova politica in un Paese disastrato dove l’infausta «antipolitica» è diventata quasi un clone sussidiario dell’inquinamento ambientale.
Fermiamoci un attimo sul dato tecnico. Come in America, anche in Italia, al di là della crescita dei siti web, la classica tv si è confermata quale strumento di comunicazione tutt’altro che obsoleto. Le reti televisive hanno inaugurato una particolare fase di attenzione per la politica da parte dei cittadini-spettatori-elettori che si protrarrà sicuramente fino alle prossime elezioni politiche. Senza i confronti in diretta, copiati dalle tv americane nelle posture sobrie dei protagonisti, nel tempo cronometrato delle battute, negli interventi veloci del moderatore, quasi nessuno tranne gli addetti ai lavori sarebbe stato in grado di afferrare la straordinaria eccezionalità dell’asimmetria che l’Italia oggi presenta in forma teatrale e al limite drammatica: un partito di sinistra fluida costretto a sdoppiarsi per ridisegnare quasi artificialmente, al suo interno, le contraddizioni di una società in crisi e in declino. Non s’era ancora visto un partito intento a riprodurre dentro di sé tanti disagi incrociati, politici, economici, sociali, morali; intento in altre parole a sostituirsi alla dialettica pluralistica che, con il crollo delle destre moderate, non s’avverte più nell’insieme del panorama pubblico. In questo senso il duello, chiamiamolo un po’ forzatamente così, è stato nello stesso momento rappresentativo di una realtà partitica in difficoltà e di una grave metafora nazionale.
Lo scontro tra Renzi e Bersani sulla realtà schizofrenica del loro partito, che riproduce in maniera confusa un neocompromesso storico tra postcomunisti e postdemocristiani, ha assunto forme e tendenze di una specie di guerriglia civile: all’ex comunista emiliano è toccata l’ingrata parte del conservatore, volto alla difesa dell’unità oligarchica della formazione, mentre all’ex cattolico lapiriano e un po’ collodiano è toccata invece la parte più visibile e dirompente del rivoluzionario. Quasi un’inversione dei ruoli rispetto al tradizionale compromesso consociativo tra due partiti ben distinti tra governo indulgente e opposizione tollerante. Matteo Renzi, con le sue primarie accettate da Bersani, è partito con una forte valenza culturale all’attacco della nomenclatura e dell’identità stessa dell’apparato democratico. Si è mosso all’insegna del cambiamento generazionale, della rottamazione dei «vecchi» postcomunisti e cattolici di sinistra che circondano Bersani, auspicando l’avanzata dei quarantenni che vogliono, come lui, una nuova veste politica, nuovi metodi organizzativi e comunicativi, un nuovo lessico realistico verso se stessi e verso gli avversari esterni. Insomma, un «profumo» ardito di rinnovamento revisionistico che se quasi più di destra moderna che di sinistra stagnante e antica.
Quanto alla metafora nazionale, dato il vuoto politico a destra e al centro che, durante e dopo le elezioni, una federazione moderata ispirata da Monti e guidata magari da Casini potrà forse colmare, spetterà per ora al sessanta per cento di Bersani e al quaranta per cento di Renzi surrogare due Italie nella cornice dentro cui si divide e si dibatte il loro partito. Partito che le primarie pur surrogatorie, pur volatili nonostante il formidabile consenso ottenuto, hanno elevato tuttavia al massimo rango fra i pretendenti al governo di domani. È nel Pd infatti, se nel frattempo i moderati non avranno ritrovato una piattaforma stabile e decente, che si deciderà o si dovrebbero decidere almeno i tre quarti del volto futuro del Paese. Contribuiranno a modificarlo i due quarti prudenti di Bersani o a scalpellarlo il quarto impaziente di Renzi? Anticipare una risposta oggi non è facile, anche perché Renzi, perdente sì ma sconfitto no, si è lealmente messo da parte e aspetta il suo turno che potrebbe riproporlo nelle vesti di un Blair all’italiana. Altra cosa da non dimenticare è che proprio lo stesso Renzi, perdendo, ha rafforzato la collocazione di Bersani dentro l'apparato democratico aiutandolo a emanciparsi con la vittoria dai D'Alema, a slegarsi dai Franceschini, a scostarsi dalle Bindi. Sbiadita o incrinata la curia, al rafforzato segretario Bersani resterà comunque fra le mani un dilemma spinoso. Zoppicare con al piede la palla di piombo del «favorevole» 15 per cento di Vendola? Oppure volare con le ali del «contrario» 40 per cento di Renzi equivalente a un milione e 79 mila voti?
Prenderei quindi sul serio, non come frasi di propaganda bensì di verità, le parole rivolte da Bersani a Renzi invitato a far parte dello «squadrone comune». Altro che «non siamo l’America». Altro che «noi e loro». Altro che favole o continuismo retorico. È stata proprio l’americanizzazione dello scontro, il nobile e fruttuoso corpo a corpo con Renzi, a illimpidire le acque del partito-apparato attorno a Bersani: il suo futuro prossimo, se lo vorrà davvero, non potrà essere che nel ticket all’americana con l’avversario di ieri e alleato di domani.

l’Unità 6.12.12
Un partito di credenti e non credenti
di Luca Basile


IL DIBATTITO APERTOSI SU L’UNITÀ IN MERITO AL RUOLO DEI CATTOLICI SUSCITA NUMEROSI STIMOLI. Esso si cala in una fase in cui il sistema politico appare in grande movimento. Al suo interno si segnalano novità significative proprio in merito al «posto» dell’opinione cattolica nella società italiana. Penso, anzitutto, ai segnali nuovi che i sondaggi registrano rispetto all’orientamento di voto e a iniziative che sembrano cercare di dar vita ad una formazione di centro autonoma e inedita.
A tale ipotesi il Pd non dovrà guadare con ostilità nella prospettiva di un riassetto degli equilibri politici. Dovrà, invece, competere con essa sul terreno del cambiamento nei termini riassunti con la consueta lucidità da Alfredo Reichlin. Insieme a ciò è, tuttavia, utile interrogarsi: è il Pd all’altezza e «attrezzato» per costruire un rapporto attrattivo con il mondo e il consenso cattolico? Si tratta di una domanda che tocca il nerbo della cultura di quello che si sta manifestando come il progetto politico più credibile in Italia.
Il Pd non può essere una sorta di «partito a geometria variabile», di cui ognuno può fabbricarsi la propria versione. È un rischio che talvolta si avverte e che ha indotto Bersani a precisare giustamente l’oggetto delle primarie. Se questo è vero, allora si tratta di cominciare ad affermare che l’ispirazione fondativa del Pd non si risolve nel «Lingotto» e neppure nelle indispensabili primarie ma nella sfida «storica» dell’unificazione delle due principali tradizioni del riformismo italiano per la costruzione di un soggetto politico di tipo nuovo. Un partito «di credenti e non credenti», cementato dai due fondamentali patrimoni politico-culturali del Paese che convergono oggi sul piano della critica al ciclo neoliberista. In un simile scenario, per molti versi, le parole della Dottrina sociale della Chiesa sono apparse più efficaci di quelle di tanto progressismo.
Val la pena, però, di chiedersi: questo incontro si è posto l’ambizione di parlare oggi al mondo cattolico «per quello che è»? Credo che sia necessario ammettere forti limiti in proposito. Essi dipendono, a mio parere, dall’eredità di una brutale deriva radicale post-’89 che molto spesso ha spinto la sinistra a favorire posizioni «contrattualiste» di alcuni settori della Chiesa italiana, ad irrigidire il «bipolarismo etico» e ad equivocare la contestazione del relativismo come una sorta di nuovo clericalismo.
Oggi bisogna portarsi oltre tale stagione, consapevoli dello sforzo che la Chiesa sta facendo sotto l’egida di un grande Papa per rielaborare il proprio nesso con la nazione italiana. Si tratta di cimentarsi con le sollecitazioni che provengono dalla «posta in gioco» di una solida proposta antropologica e di una critica non antimoderna alla secolarizzazione. È solo riflettendo su questi aspetti che sarà possibile recuperare quella capacità di mediazione laica che la stessa Chiesa richiede alla politica. Per adempiervi il Pd ha bisogno di fare una cosa che alcuni oggi, forse, giudicheranno desueta: ripartire non dal vago appello ai «diritti» ma dal primato della lettura in profondità dei processi storici e da un’azione ad essi coerente. Anche di questo si dovrà parlare affacciandoci, dopo le primarie, verso il congresso del Pd.

Corriere 6.12.12
Società civile senza rappresentanza
di Massimo Franco


Le primarie del Partito democratico hanno indubbiamente rilanciato la politica dei partiti di cui c'è un gran bisogno. E infatti l'antipolitica grillesca appare in difficoltà. Ma ora si tratta di capire se quelle elezioni sono state una benevola concessione, l'ennesima richiesta di delega e se quel partito, i partiti in genere, seguiteranno oppure no nelle loro usanze oligarchiche, con i pochi che decidono per i molti.
L'intervista di Massimo Mucchetti a Cesare Geronzi, pubblicata da Feltrinelli nel libro «Confiteor», potrebbe anche avere come titolo «La vendetta» di un banchiere potente e disarcionato contro i suoi nemici. Sarebbe necessaria una giuria neutrale per giudicare verità e omissioni di quanto Geronzi ha detto, ma il libro è ugualmente importante perché rivela nel profondo i metodi della politica delle stanze chiuse, dei bisbigli, delle promozioni sul campo a persone fedeli, servili, anche se prive di ogni merito. La competenza, lo si può verificare ogni giorno, non è una regola. La scelta cortigiana prevale.
Si fa sempre un gran parlare in modo confuso di società civile in questa nostra eterna transizione e forse è fruttifero consultare i nobili maestri rimasti il più delle volte privi di eredi. Norberto Bobbio in due suoi saggi, sul «Dizionario di politica» della Utet (con Nicola Matteucci e Gianfranco Pasquino) e sull'Enciclopedia Einaudi, spiega storia e interpretazioni degli storici e dei filosofi sul concetto di Società civile che non ha le sue radici nel presente, come si crede, ma risale alla fine del Settecento, da August Ludwig von Schlözer in poi. Ne discussero infatti Marx, Hegel, Rousseau e altri. Scrive Bobbio: «La Società civile viene rappresentata come il terreno dei conflitti economici, ideologici, sociali, religiosi che lo Stato ha il compito di risolvere o mediandoli o sopprimendoli: come la base da cui partono le domande cui il sistema politico è chiamato a dare una risposta».
La politica moribonda degli ultimi decenni non ha dato risposte. La protesta della Società civile, più avanzata, più rapida nel captare quel che si sta muovendo nel Paese, e anche nel fare, è oggi più accesa e virulenta. L'imputazione fatta alla società politica è di non essere stata in grado di cogliere i fermenti che esistono anche in un momento di grave crisi. Se la polis è la città, la struttura della comunità — la politica — i cittadini sono o dovrebbero esserne i puntelli, con i loro diritti di cui, se privati, vogliono riappropriarsi. (Tenendo sempre conto che la Società civile non è per lo più migliore della società politica. La politica è un mestiere. Coloro che non l'hanno intrapresa fin da giovani e magari nel mezzo della vita entrano in Parlamento — prigionieri dei partiti — o nelle Regioni e nei Comuni — prigionieri della burocrazia — si sentono subito inermi, in difficoltà, perché l'agire in politica esige tra l'altro la conoscenza e la pratica di leggi, regolamenti, ordini, discipline e loro non sanno neppure che cos'è un emendamento e qual è l'iter di un disegno di legge).
Il presidente Napolitano, con l'operazione Monti, ha portato a compimento un'opera meritoria ridando al Paese, nel giudizio dell'Europa e del mondo, la dignità perduta nel quasi ventennio berlusconiano. Solo che i tecnici che hanno passato decenni nelle università o nelle banche con le finestre serrate non hanno, salvo qualche eccezione, il sospetto di quel che sta bollendo nella pentola della società. Non posseggono spesso alcuna sensibilità per i problemi sociali né la cultura necessaria per capire com'è la vita di chi poco o nulla possiede.
Esiste anche una società minuta, senza rappresentanza politica, ricca di idee, di forza, di fantasia, di coraggio, priva però dei ponti capaci di collegare tra loro, le associazioni, i gruppi, nati spontaneamente, le cooperative sociali, i centri educativi, quelli ecologici, le scuole interetniche, le botteghe solidali, i cantieri sociali che si danno da fare generosamente in ogni regione. Non rappresenteranno grandi numeri, ma sono proprio loro la società nascente di cui la politica deve tener conto.
Non è Matteo Renzi, il nuovo, il Gianburrasca che rivoluziona la politica italiana come è stato detto. È la coda del vecchio. Un politico di lunga esperienza, Emanuele Macaluso, comunista non certo oltranzista, fuori dal Pd, l'altra notte al Tg3 e nel suo libro appena uscito, «Politicamente s/corretto» (Dino Audino editore) ne ha parlato come di un democristiano di sempre, appoggiato da frazioni del Pd in contrasto con la linea del gruppo dirigente. A Firenze non ha preso nulla dell'eredità utopica e fantasiosa di Giorgio La Pira e nulla dell'impegno sociale dei democristiani di sinistra.
La camicia bianca non porta fortuna.

il Fatto 6.12.12
Vendola assolto, interrogazione al ministro Severino


L’INTERROGAZIONE è firmata da due deputati del Pdl, di professione avvocati, Manlio Contento e Enrico Costa. Chiedono al ministro della Giustizia Paola Severino se non sia il caso, scrivono, di “disporre un'ispezione presso gli uffici giudiziari coinvolti, anche allo scopo di verificare la fondatezza o meno dei rilievi sollevati da alcuni sostituti procuratori nei confronti del giudice”.
Vogliono che gli ispettori vadano al tribunale di Bari. Quello che ha assolto Nichi Vendola nel processo sulla sanità.
Il presidente della Puglia ha chiuso la vicenda giudiziaria pochi giorni fa: si trattava della riapertura di un bando per la designazione di un primario.
Tra le ragioni che hanno spinto i due Pdl a presentare l’interrogazione, c’è l’amicizia tra la sorella del governatore e la giudice che ha assolto Vendola, denunciata anche dal sostituto procuratore. “È inaccettabile - scrivono Contento e Costa, i due deputati - che nessun accertamento venga disposto al fine di chiarire i contorni della vicenda”.

il Fatto 6.12.12
Corruzione, l’Italia dietro il Ghana
La classifica internazionale ci penalizza
di Valerio Cattano


Italia, Paese devastato dalla corruzione. Transparency International, associazione non governativa, condanna senza appello la Penisola nel suo rapporto (CPI 2012), riguardante la percezione della corruzione da parte dei cittadini in 174 nazioni: l’Italia si trova al 72esimo posto su 174; bassa classifica, rispetto all’anno precedente si perdono tre posizioni, subendo il sorpasso di Ghana, Brasile e Romania. In Europa la brutta figura è assicurata, se si guarda alla Germania che si trova al tredicesimo posto e la Francia al ventiduesimo. Non vale la “giustificazione” della crisi economica, dato che la Spagna vanta una trentesima posizione.
Per certi versi il dato di Transparency non sorprende; appena un mese fa il governo aveva reso pubblico il Rapporto sulla corruzione 2012, nel quale si è cercato di individuare le deficienze del “sistema Italia”. Più di tutto vale il giudizio espresso nella relazione del Greco (Gruppo di Stati contro la corruzione) a cui l’Italia aderisce dal 2007: “L’Italia non ha un programma anti-corruzione coordinato. Nessuna metodologia è al momento in vigore per stimare l’efficienza delle misure anticorruzione specificamente indirizzate alla pubblica amministrazione”.
NON SI DEVE credere che una simile condizione resti dentro i confini. La Banca mondiale attraverso il Rating of control of corruption (Rcc), ha collocato l’Italia agli ultimi posti in Europa. Una ricaduta pesante anche nel settore dell’economia, se è vero che proprio in base alla classifica della percezione della corruzione redatta da Transparency International, si può notare la perdita del sedici per cento degli investimenti dall’estero. La conferma arriva pure dalla Corte dei Conti: ogni punto perso in meno nel Cpi ha una ricaduta negativa sugli investimenti esteri, che valutano poco rassicurante il far west delle regole italiche.
L’aver aderito al Gruppo di Stati contro la corruzione (Greco) è servito solo a girare il coltello nella piaga: dalla prima valutazione emerge un giudizio poco rassicurante: “Malgrado la determinata volontà della magistratura inquirente e giudicante di combatterla, la corruzione è percepita in Italia come fenomeno consueto e diffuso, che interessa numerosi settori di attività: l’urbanistica, lo smaltimento rifiuti, gli appalti pubblici, la sanità e la pubblica amministrazione”. Secondo la presidente di Transparency International Italia Maria Teresa Brassiolo “il Governo presente e quelli futuri dovranno mantenere l’anticorruzione in cima alla loro agenda politica”.
La nuova legge anti corruzione però non autorizza salti di gioia: un esempio su tutti, la vecchia “concussione per induzione” che secondo la Cassazione trova continuità normativa nella “indebita induzione a dare o promettere utilità”; prima la pena era sino a 12 anni, ora non supera 8; la prescrizione è scesa da 15 a 10 anni; la conseguenza è quella che Csm ed Anm hanno definito con amarezza una “amnistia mascherata”. Una segnalazione rimasta inascoltata dal governo.
Il primo caso di prescrizione ha riguardato un carabiniere che era stato condannato in primo e secondo grado per concussione per induzione. Tante altre ne potrebbero seguire, di prescrizioni, e per processi ben più importanti. E poi si possono citare altri due passaggi: non è stato ripristinato il falso in bilancio, già eliminato dal governo Berlusconi nel 2002; non c’è neppure l’incandidabilità dei condannati con sentenza definitiva. Insomma, il Ghana sorpassa, l’Italia arranca. Come nel peggior incubo di un Mondiale fallimentare.

il Fatto 6.12.12
Le ragioni della politica sono più forti della legge
di Bruno Tinti


Avete visto, Napolitano aveva ragione. Finalmente Ilva può riprendere la produzione. Bisogna risolvere il problema dei giornalisti che vanno in carcere e quello di Sallusti in particolare. E sono in molti a chiedersi: ma è vero? Napolitano aveva ragione? Ed è giusto che Ilva...? E la gente che muore perché respira schifezze? E Sallusti...? E i cittadini diffamati? Insomma, cosa è giusto, cosa sbagliato? E non sanno perché tanti dicono una cosa e tanti un'altra. E, quando lo sanno istintivamente, perché il senso di cosa è giusto l'hanno imparato nella loro famiglia e a scuola, restano perplessi. Ma come, quel giornalista tanto esperto, quell'onorevole, quel giudice, tutta gente che sa, dovrebbe sapere; e invece ci dicono che no, che abbiamo torto. Come facciamo a informarci, a capire, a decidere? Credo che la risposta sia: è arrivato il momento di cambiare domande. Anzi, porre una domanda sola. Come mai sta succedendo tutto questo?
NEL 2002 la tutela dei risparmiatori e della trasparenza dei mercati improvvisamente non fu più molto importante. Se un socio o un creditore ritenevano di aver subìto un danno si querelassero contro chi aveva redatto un bilancio falso che li aveva ingannati. I cittadini stessero attenti, lo Stato non era mica il loro commercialista. E il falso in bilancio fu storia antica. B. si trovò imputato in decine di processi. Ma era il presidente del Consiglio e la condanna penale avrebbe destabilizzato il Paese (così dicevano lui e i suoi amici). Arrivarono i lodi Schifani e Alfano e il legittimo impedimento; per legge B. non fu processato per anni. C'era un problema di rifiuti a Napoli. Arrivò la legge che sottraeva la discarica di Acerra alla competenza della giustizia ordinaria, dichiarato sito strategico. Ilva inquina e ammazza e la magistratura sequestra gli impianti e blocca la produzione. Però Ilva produce acciaio e dà lavoro a 20.000 persone. Così il governo fa una legge per consentirle di riprendere l'attività. Il presidente della Repubblica conversa con Mancino, imputato (prima, dopo le conversazioni? Non si sa) di falsa testimonianza. Le telefonate potrebbero essere distrutte (sono irrilevanti, dice la Procura). Ma Napolitano non vuole che gli avvocati le conoscano. Fa ricorso e la Corte costituzionale gli dice che ha ragione, menzionando un articolo del codice di procedura (271) che sembra dire tutto il contrario (ma la motivazione deve ancora arrivare). Le telefonate saranno distrutte senza contraddittorio.
Sallusti ha diffamato, ha contestato il processo e ha continuato a offendere i giudici. Però è un giornalista importante e, per lui, si è mobilitato il Parlamento: ci vuole una legge per risolvere il problema. C'è un minimo comune denominatore tra questi avvenimenti: il contrasto tra la legge e le ragioni della politica. B governa legittimamente, i cittadini lo hanno eletto, non può andare in prigione; ma ha commesso tanti reati. Pazienza, le ragioni della politica. Bisogna ripulire le strade di Napoli; ma non così, la discarica di Acerra inquina. Pazienza, le ragioni della politica. Non si possono lasciare 20.000 famiglie senza reddito; ma se Ilva produce, disperde polveri tossiche e ammazza, sono reati gravi. Pazienza, le ragioni della politica. La persona del presidente della Repubblica è sacra e inviolabile, le sue conversazioni non devono essere conosciute dai cittadini. Ma la legge dice che per distruggerle si deve fare un’udienza in contraddittorio con gli avvocati. Pazienza… ma qui si deve vedere la motivazione della Corte costituzionale. Sallusti non può andare in prigione. Ma il suo giornale ha dato dell’assassino a un giudice e non era vero. Pazienza, se la legge non passerà gli daremo la grazia.
DUNQUE TUTTO questo sta succedendo perché la politica opera illegalmente? Anche, ma non solo. Fosse solo così, si potrebbe sperare in un cambiamento. I cittadini si stancano di delinquenti al potere e, presto o tardi, li sostituiscono con galantuomini. Ma c’è altro, c’è di peggio. C’è che la legge è caduta dal suo trono. La legge come regolatrice della vita degli uomini, uguale per tutti e dunque uguale a se stessa, frutto di analisi approfondite e destinata a durare nel tempo, fonte di certezza e fiducia, la legge è finita. La politica oggi pensa che ogni caso è unico, che – di volta in volta – vanno valutati vantaggi e svantaggi e che la regolamentazione di una situazione concreta non deve essere necessariamente uguale a quella di altre situazioni identiche, dipendendo in realtà dalle conseguenze pratiche che ne derivano e non dall’astratto comando giuridico. Se una piccola discarica inquina la si sequestra e il piccolo paese che la utilizzava ne dovrà aprire un’altra. Ma se la discarica è quella di Acerra e la città è Napoli… E se è Ilva a inquinare…
Nella Sparta di Licurgo chi proponeva una legge lo faceva con un cappio al collo; se la legge non veniva approvata, lo tiravano. Da noi si approva la qualunque, pare che questo rischio non ci sia. Però, cosa succederà quando l’opportunità diventerà opportunismo, le responsabilità privilegio e il bene di tutti quello di alcuni?

il Fatto 6.12.12
Mani di Forbice
Perché Monti vuol far morire la sanità pubblica
di Ivan Cavicchi
*

Le maldestre dichiarazioni del presidente Monti sulla sanità ci dicono che il governo sta lavorando a un cambio di sistema. Con l’inganno dell’assistenza integrativa, potrebbero arrivarci addosso mutue e fondi assicurativi a sostituire, non a integrare, lo Stato in parti rilevanti della tutela pubblica. E siccome sono cose costose, che “l’anatra zoppa” si arrangi e addio all’universalismo e alla solidarietà. Sono convinto che un’operazione del genere è più ideologica che dettata dai problemi oggettivi della sanità, per cui c’è da chiedersi che diritto abbia un governo tecnico di mettere in croce milioni di persone con un anacronistico neoliberismo. La situazione oggi per i cittadini è molto più pesante di quando, 50 anni fa, avevamo il sistema mutualistico: 9 milioni di persone sono fuori dall’area del diritto, 2 milioni e mezzo di nuclei familiari abbandonano le cure perché non hanno i soldi per pagarsele e solo 8 regioni riescono a fatica a garantire le cure dovute per legge. La spesa che il cittadino sborsa per avere ciò di cui avrebbe gratuitamente diritto è altissima: siamo a 2 punti di pil. Ma questo è ancora niente. Con la spending review, i tagli lineari e la legge di Stabilità (sono le regioni a dirlo), la situazione diventerà una “tragedia greca”. Il doppio senso non è casuale. Non mi stupisce quindi che si voglia mettere mano a un cambio di sistema con l’intenzione di frammentare e delimitare il più possibile il bacino del dissenso sociale. Credo che la spending review sia stata sottovalutata per le sue dirompenti implicazioni non tecniche, ma politiche. È stata vista dalla maggior parte dei commentatori, regioni in testa, come una prova di rigore esagerato.
MA IN REALTÀ crea di fatto le condizioni per una devastante privatizzazione del sistema. I tagli non sono solo esagerati, ma pensati per ridefinire di fatto i confini del servizio pubblico e per definanziare il sistema. I tagli lineari stanno al definanziamento come le mutue stanno alla privatizzazione. Quindi perché meravigliarsi se oggi Monti ci viene a parlare di mutue e di assicurazioni private? Sappiamo che sulle mutue sta lavorando il ministro Balduzzi (area Pd), a conferma del fatto che la “sinistra”, pur con qualche incertezza, ci sta pensando da tempo. Del resto, chi non sa come andare avanti ritiene saggio tornare in dietro. È inutile dire quali enormi interessi si celino dietro la ricostruzione delle mutue. Fu Rosy Bindi, oggi presidente del Pd e nel ‘99 ministro della Salute, a sdoganare con la sua riforma le mutue integrative (dopo che le mutue erano state proibite dalla riforma del 1978).
OGGI il governo Monti ci pone di fronte a una premessa fallace e a una falsa alternativa: siccome abbiamo problemi di bilancio, o aumentiamo le tasse o diminuiamo i servizi cioè cambiamo il sistema. Tocca al riformismo vero, al pensiero forte rispondere: mi riferisco a quel riformismo che non alberga, purtroppo, né negli assessorati né nei ministeri, ma nel mondo della sanità e dei servizi, nelle esperienze dei cittadini organizzati, nei progetti e nelle strategie di medici e infermieri, nella cocciutaggine di chi in questi anni ha cercato le strade per conciliare i diritti con i limiti economici. Occorre una “riforma pubblica” che organizzi questo immenso patrimonio. Al ricatto “più tasse o meno servizi” dobbiamo rispondere con il cambiamento intelligente che alleggerisca il sistema, che lo ripensi profondamente, che lo moralizzi dalle tante forme di corruzione e di speculazione, che riduca il numero delle malattie e dei malati, insomma che lo faccia costare strutturalmente di meno e funzionare meglio.
Far morire la sanità pubblica è un crimine contro gli italiani, perché non conviene a nessuno, neanche ai più ricchi. Niente ci obbliga a farlo: tutti, ma proprio tutti i problemi oggettivi della sanità sono risolvibili. Si tratta solo di svecchiare, rinnovare, reinventare, riformare… riformare… e ancora riformare.
*Docente all'Università Tor Vergata di Roma, esperto di politiche sanitarie

Repubblica 6.12.12
La normalità costituzionale
di Gianluigi Pellegrino


Le dichiarazioni dell’associazione nazionale magi-strati, del vicepresidente del Csm e dello stesso procuratore capo di Palermo, svelano il carattere fuorviante di alcune reazioni alla decisione della Consulta. Che non solo era attesa, ma rimarcando il solco della distinzione tra i poteri voluto dalla Costituzione, definisce, rafforza e insieme responsabilizza sia la funzione dei magistrati, che il ruolo di assoluta garanzia neutrale che ha il capo dello Stato nel nostro ordinamento. A tutela ultima delle nostre libertà, che è la ragione prima per cui abbiamo sin dall’inizio ritenuto fondato il ricorso e sicuramente esistenti norme processuali idonee a garantire la corretta applicazione di quei principi costituzionali essenziali.
Ed infatti i tre poteri, legislativo, esecutivo e giudiziario, non sono solo distinti tra loro ma devono reciprocamente controllarsi. In particolare il controllo della magistratura sul rispetto della legge da parte dell’esecutivo deve essere il più esteso e penetrante, come connotato essenziale di uno Stato di diritto. Il Presidente della Repubblica non è sovraordinato, ma si colloca all’esterno dei tre poteri ed è chiamato dalla Costituzione a sorvegliare che il reciproco controllo e quindi il reciproco equilibrio tra loro, sia il più pieno e completo. Per questo suo ruolo unico di garanzia, le funzioni del Capo dello Stato non sono mai sindacabili da alcuno dei poteri, e rimesse alla sola Corte costituzionale in due eccezionali ipotesi. Per questa medesima ragione sono inviolabili dalla magistratura le sue comunicazioni. Del resto se la legge espressamente esclude le intercettazioni sino a quando è in carica persino se è sospettato di attentato alla Costituzione e quindi a maggior ragione se indagato per reati minori e comuni, allora a fortiori non può essere intercettato se sono terzi ad essere oggetto di indagine.
Tutto questo non crea un privilegio ma un elemento essenziale dell’indipendenza del capo dello Stato. Il che a ben vedere non difende ma rafforza la responsabilità e la delicatezza del ruolo, da esercitarsi sempre nel senso di garantire il massimo reciproco controllo tra i poteri, salvaguardandone la dinamica da qualsivoglia indebita interferenza. E lui stesso puntualmente rispettandone l’autonomia.
Vivremmo in una società meno libera se tutto ciò non fosse scolpito nella Costituzione. Per questo non stupisce affatto che Napolitano da un lato abbia spronato i giudici palermitani alla più intensa ricerca della verità e dall’altro abbia rimesso al giudice naturale dei conflitti la definizione delle prerogative della sua funzione.
Analogo discorso vale per il cosiddetto “diritto di sapere” sul quale pure molto si specula in queste ore.
Ed infatti mentre con riguardo ai soggetti politici dell’ordinamento (parlamentari, premier, segretari di partito, ecc.) i cittadini hanno il pieno diritto di poter verificare la coerenza tra pensiero privato e programmi pubblici, con riguardo al capo dello Stato la conclusione è di segno in qualche modo opposto. Abbiamo il diritto che il suo alto magistero di garanzia non influenzi mai le nostre libere valutazioni e i nostri liberi orientamenti politici. Abbiamo, per dirlo in modo più brutale, il diritto di non conoscere i suoi privati apprezzamenti, dovendo a noi giungere solo la sua funzione di garanzia istituzionale. Sono stati anni bui e per fortuna lontani quelli delle improprie “esternazioni”.
Per tutto questo, la sentenza della Consulta è una pronuncia a tutela ultima delle nostre libertà, quando ribadendo le prerogative del capo dello Stato, necessariamente ne rafforza la responsabilità nell’architettura costituzionale, in ciò inverandosi in modo plastico il dichiarato proposito di Napolitano di porre la questione non per sé, ormai a fine mandato, ma per il futuro costituzionale del paese.
Inutile aggiungere che appariva sostanzialmente improponibile affermare che un architrave così solido sul versante costituzionale dovesse risultare tradito per assenza di una qualche norma procedimentale che ne consentisse l’attuazione. In realtà, come segnalammo già in agosto su queste pagine, appartiene a principi di base che la lettura delle norme sia la più idonea ad attuare il dettato costituzionale soprattutto se posto a tutela dello stesso carattere democratico di uno Stato.


Repubblica 6.12.12
La normalità costituzionale
di Gianluigi Pellegrino


Le dichiarazioni dell’associazione nazionale magi-strati, del vicepresidente del Csm e dello stesso procuratore capo di Palermo, svelano il carattere fuorviante di alcune reazioni alla decisione della Consulta. Che non solo era attesa, ma rimarcando il solco della distinzione tra i poteri voluto dalla Costituzione, definisce, rafforza e insieme responsabilizza sia la funzione dei magistrati, che il ruolo di assoluta garanzia neutrale che ha il capo dello Stato nel nostro ordinamento. A tutela ultima delle nostre libertà, che è la ragione prima per cui abbiamo sin dall’inizio ritenuto fondato il ricorso e sicuramente esistenti norme processuali idonee a garantire la corretta applicazione di quei principi costituzionali essenziali.
Ed infatti i tre poteri, legislativo, esecutivo e giudiziario, non sono solo distinti tra loro ma devono reciprocamente controllarsi. In particolare il controllo della magistratura sul rispetto della legge da parte dell’esecutivo deve essere il più esteso e penetrante, come connotato essenziale di uno Stato di diritto. Il Presidente della Repubblica non è sovraordinato, ma si colloca all’esterno dei tre poteri ed è chiamato dalla Costituzione a sorvegliare che il reciproco controllo e quindi il reciproco equilibrio tra loro, sia il più pieno e completo. Per questo suo ruolo unico di garanzia, le funzioni del Capo dello Stato non sono mai sindacabili da alcuno dei poteri, e rimesse alla sola Corte costituzionale in due eccezionali ipotesi. Per questa medesima ragione sono inviolabili dalla magistratura le sue comunicazioni. Del resto se la legge espressamente esclude le intercettazioni sino a quando è in carica persino se è sospettato di attentato alla Costituzione e quindi a maggior ragione se indagato per reati minori e comuni, allora a fortiori non può essere intercettato se sono terzi ad essere oggetto di indagine.
Tutto questo non crea un privilegio ma un elemento essenziale dell’indipendenza del capo dello Stato. Il che a ben vedere non difende ma rafforza la responsabilità e la delicatezza del ruolo, da esercitarsi sempre nel senso di garantire il massimo reciproco controllo tra i poteri, salvaguardandone la dinamica da qualsivoglia indebita interferenza. E lui stesso puntualmente rispettandone l’autonomia.
Vivremmo in una società meno libera se tutto ciò non fosse scolpito nella Costituzione. Per questo non stupisce affatto che Napolitano da un lato abbia spronato i giudici palermitani alla più intensa ricerca della verità e dall’altro abbia rimesso al giudice naturale dei conflitti la definizione delle prerogative della sua funzione.
Analogo discorso vale per il cosiddetto “diritto di sapere” sul quale pure molto si specula in queste ore.
Ed infatti mentre con riguardo ai soggetti politici dell’ordinamento (parlamentari, premier, segretari di partito, ecc.) i cittadini hanno il pieno diritto di poter verificare la coerenza tra pensiero privato e programmi pubblici, con riguardo al capo dello Stato la conclusione è di segno in qualche modo opposto. Abbiamo il diritto che il suo alto magistero di garanzia non influenzi mai le nostre libere valutazioni e i nostri liberi orientamenti politici. Abbiamo, per dirlo in modo più brutale, il diritto di non conoscere i suoi privati apprezzamenti, dovendo a noi giungere solo la sua funzione di garanzia istituzionale. Sono stati anni bui e per fortuna lontani quelli delle improprie “esternazioni”.
Per tutto questo, la sentenza della Consulta è una pronuncia a tutela ultima delle nostre libertà, quando ribadendo le prerogative del capo dello Stato, necessariamente ne rafforza la responsabilità nell’architettura costituzionale, in ciò inverandosi in modo plastico il dichiarato proposito di Napolitano di porre la questione non per sé, ormai a fine mandato, ma per il futuro costituzionale del paese.
Inutile aggiungere che appariva sostanzialmente improponibile affermare che un architrave così solido sul versante costituzionale dovesse risultare tradito per assenza di una qualche norma procedimentale che ne consentisse l’attuazione. In realtà, come segnalammo già in agosto su queste pagine, appartiene a principi di base che la lettura delle norme sia la più idonea ad attuare il dettato costituzionale soprattutto se posto a tutela dello stesso carattere democratico di uno Stato.

Corriere 6.12.12
Ultimatum alla Chiesa di Parigi «Date ai poveri le case sfitte»
La ministra minaccia l'esproprio. L'ira della diocesi
di Stefano Montefiori


PARIGI — Al numero 39 di rue Gay-Lussac, tra i giardini del Lussemburgo e il Pantheon, le quattro suore dell'Adorazione vivono in un palazzo tutto per loro; nel VI arrondissement, il più ricco e caro della capitale (in media 12.520 euro al metro quadro), il grande seminario accanto alla chiesa di Saint-Sulpice ospita ormai solo una ventina di studenti e la maggior parte dei locali resta vuota. In totale, nella capitale sono una decina gli immobili come questi, appartenenti alla Chiesa cattolica, che la ministra Cécile Duflot vuole requisire entro la fine dell'anno per dare un riparo ad almeno qualcuno delle migliaia di senza tetto di Parigi.
La responsabile (verde) della Giustizia territoriale e dell'Alloggiamento ha annunciato di avere scritto una lettera all'arcivescovo di Parigi, monsignor André Vingt-Trois: «Voglio ben sperare che non sarà necessario dare prova di autorità — ha detto Duflot in un'intervista al Parisien —, non riuscirei a comprendere se la Chiesa mostrasse di non condividere i nostri obiettivi di solidarietà». I toni scelti, tra l'ultimatum e l'ammonimento, forse non sono stati appropriati perché il centrodestra ha reagito con sdegno e la diocesi di Parigi con una secca nota per dire che «la Chiesa non ha atteso le minacce di requisizioni agitate dal ministro Duflot per prendere iniziative». L'entourage del cardinale Vingt-Trois ha sottolineato che da cinque anni la Chiesa apre ogni inverno le sue parrocchie per aiutare i senza tetto, l'anno scorso ne ha accolti circa 120. «Ma ci sono congregazioni religiose che non sono in grado di ospitare i clochard — dicono alla Conferenza dei vescovi di Francia —, e non è facile chiedere a 10 suore ultrasettantenni di aprire le porte della loro casa».
La Chiesa cattolica ha una lunga tradizione di impegno quotidiano e molto concreto verso i poveri francesi. Lo ha ricordato ieri anche Avvenire, il giornale dei vescovi italiani, evocando «l'insurrezione della bontà» lanciata dall'abbé Pierre a favore dei clochard già nel 1954 e l'attività di una importante ong come Emmaus. Ma l'atmosfera politica e sociale non è propizia a una collaborazione serena tra governo e istituzioni religiose.
La crisi economica ha aggravato un problema degli alloggi che si trascina da anni, in particolare nella capitale. A Parigi il mercato immobiliare è bloccato; a parte i miliardari sauditi o russi, pochi hanno i soldi per comprare o prendere in affitto case che i proprietari comunque si rifiutano di svendere o di dare in locazione senza avere mille garanzie di essere pagati ogni mese.
Il risultato è che gli appartamenti vuoti sono ormai ben più dei 105 mila censiti dall'Insee (l'istituto di statistica) nel 2009, pari a circa l'8% di tutte le case di Parigi. Le persone costrette a vivere per strada sono 150 mila in tutta la Francia, e il governo quindi usa la minaccia delle requisizioni un po' per fare tornare sul mercato almeno una parte degli appartamenti, e un po' nella speranza di dare una risposta all'emergenza dei senza tetto (non solo clochard solitari ma talvolta intere famiglie).
È stato il solito impertinente Canard enchaîné a pubblicare, il 14 novembre scorso, una prima lista degli immobili vuoti appartenenti alla Chiesa a Parigi. Ma, come fa notare la diocesi, «prima di prendersela con la Chiesa, la signora Duflot ha forse fatto ricerche sulle superfici disponibili negli uffici pubblici, le banche, le compagnie di assicurazione, i ministeri?».
Il sospetto è che c'entrino qualcosa anche le tensioni tra cattolici e governo su matrimonio e adozione per gli omosessuali. La ministra assicura di non avere alcuna questione aperta con la Chiesa. «Ma ogni giorno 1.500 richieste di aiuto restano senza risposta. Se è necessario, come sembra probabile, procederemo con le requisizioni».

l’Unità 6.12.12
Il ruolo mediterraneo che compete all’Italia
di Umberto De Giovannangeli


LE SPERANZE DI UNA «PRIMAVERA» RISCHIANO DI SFIORIRE IN UN «INVERNO» INSANGUINATO. Le notizie che giungono dall’Egitto raccontano di un Paese il più popoloso del mondo arabo, cruciale per la stabilità del Medio Oriente, lacerato, ad un passo dalla guerra civile. I Fratelli Musulmani hanno vinto, a giugno, le elezioni presidenziali, e il loro leader, Mohamed Morsi, ha inaugurato l’era del dopo-Mubarak. Ma il «nuovo Egitto» aveva, ed ha, bisogno di un presidente, non di un «faraone». Ma la forzatura costituzionale decisa da Morsi rappresenta un salto nel vuoto per il Paese delle Piramidi. E segnala una pericolosa involuzione totalitaria dell’Islam politico. Un segnale che va al di là dell’Egitto e interroga sulla contraddittoria transizione che investe altri Paesi protagonisti della «Primavera araba», a cominciare dalla Tunisia. L’Egitto spaccato, la Siria in guerra, il conflitto israelo-palestinese che s’inasprisce dopo la decisione del governo di Gerusalemme di rilanciare la politica degli insediamenti in reazione al voto con cui l’Onu ha elevato la Palestina a Stato non membro.
L’Europa non può assistere da spettatrice all’esplosione del Vicino Oriente. Soprattutto, non possono farlo i Paesi euromediterranei. Perché ciò che avviene alle nostre «porte» avrà una immediata conseguenza sulle nostra vite, sulle scelte che Roma, come Parigi, come Madrid, saranno chiamate a prendere in un futuro che si fa presente. Sicurezza, e non solo. La forza di un «Patto euromediterraneo» si misura oggi, nella capacità di incidere sugli eventi che si consumano al Cairo come a Tunisi, a Tripoli come a Gerusalemme e Ramallah. Un discorso che vale in particolare per l’Italia. Bene ha fatto il leader del Pd Pier Luigi Bersani, a svolgere la sua prima missione all’estero da candidato premier a Tripoli, incontrando la leadership del post-Gheddafi. E bene ha fatto il presidente del Consiglio Mario Monti a ribadire, ricevendo a Palazzo Chigi il primo ministro libanese, Najib Mikati, che l’Italia «non sta considerando ulteriori riduzioni del nostro contingente in Libano, perché riteniamo che oggi la missione Unifil sia più necessaria che mai». Nel mondo si conta se si pratica, e non si predica, se alle parole seguono i fatti: è stato così in Libano, quando il governo di centrosinistra, guidato da Romano Prodi e con Massimo D’Alema alla Farnesina, trainò l’Europa, e gli Stati Uniti, nella missione Onu che ha garantito, in questi sei anni, stabilità alle frontiere tra il Paese dei Cedri e Israele.
Una missione, quella di Bersani in Libia, e un’affermazione, quella di Monti sul Libano, che riaffermano, sostanziandola, la «vocazione mediterranea» del nostro Paese. Una vocazione che si riflette anche nel voto favorevole all’Onu sulla Palestina. Un voto sofferto, ponderato, coraggioso, anche se giunto in extremis (e i tempi, anche in politica estera contano e molto). Un voto che rafforza la leadership moderata di Abu Mazen e, per questo, offre una chance al dialogo con Israele; un dialogo che punti decisamente alla realizzazione dell’unica pace possibile: quella fondata sul principio «due popoli, due Stati».
Le «Primavere arabe», come gli accadimenti in Terrasanta, hanno liquidato l’illusione di quanti ritenevano possibile mantenere lo status quo nel Maghreb e nel Vicino Oriente, affidandosi a gerontocrazie che avevano fatto bancarotta morale, sociale, politica, dilapidando ricchezze, impoverendo i popoli, facendo scempio di diritti. La storia non si ferma. O si prova a orientarne gli eventi oppure se ne resterà travolti. Non si tratta certo di demonizzare l’Islam politico, la cui inclusione in processi democratici è una conquista e non un ostacolo: vale per l’Egitto come per la Palestina. Morsi non è Mubarak, così come i nuovi leader della Libia sono ben altra cosa del colonnello Gheddafi.
La scelta dell’Italia è quella del dialogo con tutte le parti in campo: una scelta giusta, da sviluppare. Ma questa linea non esime dal prendere posizione, dal dire, qui ed ora, da che parte stare. E, guardando all’Egitto in fiamme, la parte è quella dei ragazzi di Piazza Tahrir, è nel sostenere le ragioni di chi, come il premio Nobel per la pace, Mohamed El Baradei, chiede al presidente Morsi di concordare con le opposizioni una Carta costituzione condivisa, in cui tutti gli egiziani possano riconoscersi. Solo così potrà essere evitata una frattura insanabile, che avrebbe un pericoloso effetto domino nell’intera Regione. La vocazione mediterranea dell’Italia passa oggi per la «prova egiziana». Una prova durissima.

l’Unità 6.12.12
Israele-Ue: guerra diplomatica sugli insediamenti
di U.D.G.


È «guerra diplomatica» tra Europa e Israele. Una «guerra» che da ieri non riguarda solo le singole cancellerie, ma l’Ue nel suo insieme. Il salto di qualità avviene nel pomeriggio, quando tutte le agenzie stampa internazionali battono la notizia che l’Ue ha convocato l’ambasciatore d’Israele per discutere dei nuovi insediamenti previsti con il segretario generale del servizio esterno (Eeas) dell’Unione ed esprimergli la sua preoccupazione al riguardo. A destare la preoccupazione dell’Alto rappresentante Ue per la politica estera e la sicurezza, Catherine Ashton, sarebbe in particolare la portata dei progetti annunciati dal governo israeliano. Secondo una sua portavoce proprio la «dimensione» dei nuovi insediamenti rischierebbe di compromettere la possibilità di creare in futuro un Stato palestinese contiguo a Israele e di fare di Gerusalemme la capitale di entrambi i Paesi.
ESCALATION
La crisi diplomatica in atto tra Europa e Israele non ha precedenti. Nelle stesse ore in cui a Bruxelles maturava la decisione di convocare l’ambasciatore israeliano accreditato alla Ue, analoga iniziativa veniva annunciata dall’Italia.
«L’ambasciatore israeliano è stato convocato oggi pomeriggio (ieri, ndr) al ministero degli Esteri per esprimergli la forte preoccupazione e la contrarietà dell’Italia per le conseguenze negative sul processo di pace delle decisioni del governo israeliano in materia di insediamenti e di interruzione del pagamento degli introiti doganali all’Autorità Palestinese». Ne dà notizia lo stesso ministero, in un comunicato diffuso subito dopo l’incontro con l’ambasciatore Naor Gilon. Lo stesso ministro Terzi
ne ha dato notizia da Buxelles. Il titolare della Farnesina ha pure chiarito che le comunicazione al rappresentante del governo israeliano sono state «in linea con la posizione espressa da Catherine Ashton». «La decisione di compiere passi verso gli ambasciatori israeliani nelle capitali europee è stata presa», riferisce Terzi, dai ministri dei «Paesi che hanno votato no o si sono astenuti dall’Assemblea delle Nazioni Unite, ed è stata assunta su impulso della Ashton» che ieri proprio su questo punto ha avuto un confronto con il segretario di Stato statunitense, Hillary Clinton.
«C’è la preoccupazione spiega il capo della diplomazia italiana che costruire 3.000 nuove abitazioni nella zona E-1 di Gerusalemme est costituisca una barriera insuperabile per la contiguità dello Stato palestinese».
Israele resta delusa dal sostegno dato all’iniziativa palestinese alle Nazioni Unite dalla comunità internazionale, Italia compresa, ma «i rapporti tra Israele e Italia erano e restano eccellenti» ha assicurato l’ambasciatore israeliano a Roma, Naor Gilon, uscendo dalla Farnesina. «Abbiamo avuto un aperto scambio di opinioni come si fa tra amici», aggiunge. Il diplomatico ha riferito di «aver di nuovo ribadito la delusione israeliana per il modo in cui i palestinesi hanno scelto unilateralmente di perseguire i propri interessi, invece di tornare al tavolo delle trattative con Israele». Ai suoi interlocutori italiani Naor Gilon ha ribadito che «Israele è stata delusa dal sostegno dato a questa iniziativa dalla comunità internazionale, compresi alcuni Paesi europei».
I rapporti di Gerusalemme con Roma resteranno «eccellenti», ma la ferita resta aperta e brucia.
Intanto a New York i rappresentanti palestinesi all’Onu avrebbero sondato il segretario generale, Ban Ki-moon sulla possibilità di una risoluzione del Consiglio di sicurezza contro gli insediamenti annunciati da Israele. Lo si è appreso da fonti dell’Anp. Abu Mazen secondo i media è intenzionato a ricorrere ad ogni mezzo legale e diplomatico per bloccare gli insediamenti vicino a Gerusalemme. «Il piano annunciato da Israele, specialmente l’E-1, è una linea rossa», rimarca il presidente dell’Anp, e questo, avverte, «non deve accadere».
La risposta israeliana non si è fatta attendere. «Israele resta pronta a negoziare con i palestinesi sulle colonie. Ma deve trattarsi di un negoziato con i palestinesi e non con la Palestina, intesa come Stato riconosciuto con lo status di non membro dalle Nazioni Unite» ha dichiarato il premier israeliano, Benjamin Netanyahu che ha duramente criticato il voto all’Onu di molti paesi europei. Per ora nessun passo indietro. Il comitato di pianificazione e costruzione dell’Amministrazione civile israeliana ha approvato l’avanzamento del piano per la costruzione dei tremila nuovi alloggi situati tra Gerusalemme est e l’insediamento di Maale Adumin, in Cisgiordania. Lo riferisce il sito Ynet. Questa decisione significa la «fine del processo di pace, perché Israele rende impraticabile la soluzione a due Stati», ribadisce a l’Unità Saeb Erekat, capo negoziatore dell’Anp.

La Stampa 6.12.12
Netanyahu-Merkel, gelo a Berlino
La cancelliera critica le nuove colonie, il premier “deluso” dal sostegno all’Anp
di Alessandro Alvini


Oggi il vertice bilaterale. Il premier del Likud: così la pace non avanza
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu critica la cancelliera

Si svolgono in un’atmosfera turbolenta le consultazioni bilaterali tra i governi tedesco e israeliano in programma oggi a Berlino. La tradizionale armonia che impronta i colloqui tra i due Paesi sembra destinata stavolta a lasciar spazio, negli incontri a porte chiuse, a toni tesi e critiche dirette. Ieri sera Angela Merkel ha ricevuto in cancelleria il premier Benjamin Netanyahu per una cena che il suo portavoce ha definito alla vigilia «un colloquio aperto tra amici». Tradotto: Merkel non ha intenzione di tacere i malumori tedeschi per l’annuncio di Israele di voler costruire 3.000 nuovi alloggi per i coloni nei territori occupati, una mossa che Berlino vede come un ostacolo al processo di pace e che ieri ha portato l’Unione europea a convocare l’ambasciatore israeliano.
Dal canto suo Netanyahu si è fatto anticipare da un’intervista alla «Welt» in cui si è detto «deluso» da Merkel a causa dell’astensione della Germania al voto all’Onu sul conferimento dello status di Paese osservatore alla Palestina. «Apprezzo il sostegno della cancelliera Angela Merkel e del governo tedesco durante le operazioni a Gaza», ma «non sarei sincero se non dicessi che sono deluso, come molti in Israele, dal voto tedesco all’Onu», ha tuonato. «Credo che Merkel pensasse che questo voto avrebbe fatto avanzare in qualche modo la pace, ma è successo il contrario».
La vigilia delle consultazioni bilaterali sarebbe stata segnata inoltre da un diverbio telefonico tra il consigliere di politica estera di Merkel e il consigliere di Netanyahu per la sicurezza nazionale.
La cancelliera e il premier israeliano incontreranno oggi la stampa intorno alle 12. In una Berlino blindata non ci sarà a sorpresa il ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman, che ha disdetto per motivi di salute e per via di alcuni colloqui nel suo partito. Ieri il suo collega tedesco Guido Westerwelle è tornato a ricordare che «il governo tedesco è molto preoccupato per i progetti di estendere la politica degli insediamenti, che potrebbe diventare un serio ostacolo alla soluzione dei due Stati». Ancora più diretto il presidente della Commissione Esteri del Bundestag, Ruprecht Polenz, per il quale i nuovi piani israeliani renderebbero «impossibile la soluzione dei due Stati, per cui sono opportune forti critiche».
Intanto ieri, mentre Netanyahu si diceva pronto a negoziare coi palestinesi sulle colonie, il comitato di pianificazione dell’amministrazione civile israeliana ha deciso di portare avanti i piani per costruire 3.000 alloggi nell’area E1, tra Gerusalemme e l’insediamento di Maale Adumim. Da ora è possibile presentare obiezioni contro il progetto; dopo che saranno esaminate potrà iniziare la costruzione degli alloggi.

Corriere 6.12.12
Tensione Ue-Israele, Terzi convoca l'ambasciatore


ROMA — «Forte preoccupazione» e «contrarietà» per la decisione del governo Netanyahu di autorizzare nuovi insediamenti (circa 3 mila) e di interrompere il pagamento degli introiti doganali all'Autorità palestinese. Questo il messaggio che il segretario generale della Farnesina Valensise ha «passato» all'ambasciatore israeliano a Roma, Naor Gilon. Gilon era stato convocato dal ministro degli Esteri Giulio Terzi, in linea con le raccomandazioni del Comitato politico e di sicurezza della Ue, che ha anch'essa convocato l'ambasciatore israeliano a Bruxelles, raccomandando a tutti gli Stati membri di fare passi analoghi a quelli già compiuti da Gran Bretagna, Francia, Spagna, Svezia e Danimarca. Ma Netanyahu, che ieri sulla strada per Berlino si è fermato a Praga per ringraziare il governo ceco, unico europeo ad aver votato no alla richiesta palestinese di diventare Stato osservatore non membro all'Onu, è sembrato irremovibile. La condanna internazionale, ha spiegato, non impedirà a Israele di difendere «i suoi interessi vitali». La costruzione di nuove unità abitative nell'area E1 dividerebbe il Nord dal Sud della Cisgiordania e impedirebbe l'accesso a Gerusalemme. «Una linea rossa invalicabile», per il presidente palestinese Abu Mazen.

La Stampa 6.12.12
Terzi: “Israele si moderi per evitare l’Intifada diplomatica”
La Farnesina convoca l’ambasciatore: preoccupati per gli insediamenti
di Antonella Rampino


Ministro Terzi, ieri pomeriggio l’Italia, come già nei giorni scorsi Inghilterra, Francia, Spagna e altri Paesi, ha convocato l’ambasciatore israeliano. Tuttavia, ai giornalisti Naor Gilon ha detto che si trattava «solo di un invito, valuteremo quandosapremodicosasitratta». Leiha seguito il tutto dalla ministeriale Nato di Bruxelles, ci racconta come è andata?
«Ho chiesto al segretario generale della Farnesina Michele Valensise di convocare l’ambasciatore Gilon per comunicargli la forte preoccupazione dell’Italia per la decisione del governo di Gerusalemme di autorizzare 3.000 nuovi alloggi a Gerusalemme Est, un passo che può compromettere la ripresa del negoziato tra Israele e Palestina. La convocazione dell’ambasciatore è un’azione condivisa e concordata con tutti e 27 i Paesi europei e non solo dunque delle nazioni che hanno votato sì alla risoluzione Onu che riconosce lo Stato palestinese. Siamo preoccupati anche per l’interruzione dei flussi finanziari e di elettricità ai palestinesi. Occorre moderazione in entrambe le parti. Abbiamo chiesto questo oggi a Israele, così come il presidente Monti ha a suo tempo chiesto ad Abu Mazen di evitare quella che si definisce in gergo una “intifada diplomatica”, di non adire insomma alla Corte penale internazionale».
Quali garanzie avete ottenuto dall’ambasciatore Gilon?
«L’ambasciatore ha ovviamente preso atto di questa nostra preoccupazione, che riferirà al suo governo, e non ha fornito elementi conclusivi. Le diplomazie stanno lavorando per portare avanti il processo di pace, un elemento questo che mi pare ben compreso da entrambe le parti».
Le difficoltà nelle trattative sono dovute anche al fatto che Israele è sotto elezioni? Un cambiamento di leadership potrebbe aiutare il processo di pace, visto che la politica di Netanyahu ha un punto fisso nei nuovi insediamenti - osteggiati dall’amministrazione americana - mentre Tzipi Livni e Ehud Olmert hanno posizioni più duttili?
«L’attuale alleanza di governo ha come priorità la sicurezza, il rischio nucleare iraniano, gli insediamenti come “natural growth” di Israele. La coalizione attorno al Likud, che comprende anche partiti religiosi, guarda a queste questioni con occhi diversi dal mondo laico israeliano, ma si tratta di differenze radicate sin dai tempi del processo di Oslo. Certo che occorrono mutamenti, nella politica interna israeliana come in quella palestinese. Il sì dell’Italia all’Onu è stato un sì all’Anp che assumeva iniziative legali, in sede multilaterali, invece di ricorrere alle armi come fa Hamas».
Dopo il sì all’Onu, qual è lo stato dei rapporti tra Italia e Israele?
«I rapporti sono eccellenti, quel nostro sì è stato perfettamente compreso».
Lei ha appena partecipato alla ministeriale Nato, qual è la strategia in Siria, visto che sono appena stati schierati i Patriot? È possibile che si arrivi all’applicazione dell’articolo 5 del Trattato, per il quale se un Paese dell’Alleanza viene attaccato gli altri reagiscono in sua difesa?
«La Nato ha dispiegato i missili Patriot a difesa dei confini della Turchia, indubbiamente alla base della decisione c’è l’articolo 5, anche se non viene esplicitamente invocato. Ci sono state ampie discussioni, sia in Consiglio Nato-Russia, sia a 28, sia col ministro russo Lavrov, con il quale abbiamo condiviso la preoccupazione per il possibile uso da parte della Siria di armi chimiche. Lavrov ci ha assicurato che Mosca ha mandato ripetuti e circostanziati messaggi a Damasco perché ciò non accada».
Si dice che la Siria disponga di circa mille tonnellate di armi chimiche...
«Si tratta certamente di un quantitativo ingente, ma il regime sa che non deve valicare la linea rossa. Su questo c’è la piena convergenza della Russia, che ha una forte influenza su Damasco».
Ci sono rischi di un intervento in Siria?
«Lo escludo. Lo schieramento dei patriot non è per disporre una no-fly zone, ma in funzione di deterrenza e difesa del territorio turco dai lanci di razzi Scud dalla Siria. In più, le operazioni delle forze libere siriane vanno avanti più rapidamente del previsto. La nostra preoccupazione è la grande emergenza umanitaria. Oltre ai 6 milioni di euro già stanziati, ne abbiamo disposto ancora 1,5 per un campo profughi in Giordania. Le principali vittime del conflitto sono i bambini, ora anche per il freddo. Una situazione intollerabile, alla quale destineremo poi anche ulteriori fondi».
Dopo l’esperienza con la Libia, si è individuata un’opposizione siriana affidabile?
«È composta da personalità note, moderati che conosciamo bene, e che continuiamo ad incontrare. Ci sarà il 12 una riunione a Marrakesch. Si sta costruendo un embrione di governance, che l’Italia deve accompagnare con convinzione».

Repubblica 6.12.12
Netanyahu a Berlino: “Delusi dal voto tedesco all’Onu”
Terzi convoca l’ambasciatore “No a nuovi insediamenti”


BERLINO — È un esame pesante, accompagnato da critiche dure dell’Italia e di molti paesi della Ue, la visita in Europa che il primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu, sta compiendo. L’Italia ha convocato l’ambasciatore d’Israele esprimendo la sua forte preoccupazione per le ultime misure del suo governo, l’Ue ha convocato a sua volta a Bruxelles il rappresentante di Israele per esternargli la sua seria apprensione. In serata, parlando in toni severi per tutti, la leader della prima potenza europea, la cancelliera Angela Merkel (ricordando che la Germania considera l’esistenza d’Israele ragion di Stato e la garantisce con la fornitura di armi) ha parlato di situazione grave.
Le dure parole dei governi europei hanno tutte un comune denominatore. Quello espresso per esempio dal ministero degli Esteri italiano. Le decisioni del governo israeliano in materia di costruzione di nuovi insediamenti e di interruzione dei pagamenti degli introiti doganali alla Anp, l’autorità palestinese nella Cisgiordania, suscitano forte preoccupazione per le conseguenze negative sul processo di pace. Quanto l’ambasciatore d’Israele in Italia, Naor Gilon, si è sentito dire alla Farnesina, è in sintonia con la linea espressa a Netanyahu o alle sua ambasciate dalla stragrande maggioranza dei paesi dell’Unione.
Solo nella Repubblica cèca (che all’Onu aveva detto no a uno status di osservatori dei palestinesi) il premier israeliano ha pronunciato parole di ringraziamento. Ma in generale, ha detto, l’Europa non ci capisce, siamo abituati all’incomprensione del Vecchio continente dove pure subimmo il genocidio, e all’incapacità europea di realizzare che siamo l’unico Stato e popolo che rischi un genocidio. Deluso dal voto della Germania (che si è astenuta) Netanyahu ha aggiunto: siamo pronti a trattare con i palestinesi sulle colonie, ma non con uno Stato palestinese.

Repubblica 6.12.12
Palestina
La chimera della convivenza in una terra divisa dalla storia
di Lucio Caracciolo


La decisione del Palazzo di Vetro ha rianimato il teatro retorico e diplomatico che le parti in causa sentono l’obbligo di allestire a intervalli irregolari
A mantenere uno status quo geopolitico che dovrebbe essere inaccettabile concorrono spinte internazionali e interne in apparenza inconciliabili

Che differenza c’è fra Santa Sede e Palestina? Secondo l’Onu nessuna, da quando il 29 novembre scorso l’Assemblea Generale ha elevato a schiacciante maggioranza (138 sì, 9 no e 41 astenuti) l’Autorità nazionale palestinese (Anp) al rango di “Stato osservatore non membro”, lo stesso di cui gode l’entità vaticana. Ma mentre la monarchia papale, con i suoi 572 cittadini in 0,44 chilometri quadrati, è uno Stato a tutti gli effetti, l’Anp del “sindaco di Ramallah”, Abu Mazen, resta una categoria dello spirito. Non controlla nessun territorio sovrano: quel che avanza della Cisgiordania occupata da Israele, amputata dal Muro e colonizzata dagli insediamenti ebraici – tra cui vere e proprie città fortificate – è strettamente sorvegliato dalle Forze armate di Gerusalemme. Sicché oggi nella “Palestina storica”, accanto allo Stato d’Israele troviamo due monconi isolati – Gaza e pezzi di Cisgiordania – che sfuggono a qualsiasi definizione geopolitica. Nel primo, esteso quanto la fu provincia di Prato, sono compresse oltre un milione e mezzo di anime, sotto il regime islamista di Hamas. Nel secondo, più piccolo della provincia di Perugia, si accalcano due milioni e mezzo di palestinesi, più quasi mezzo milione di coloni ebraici.
Su questo sfondo, il ritornello “due popoli due Stati” che la “comunità internazionale” – altra entità indefinibile – continua imperterrita a salmodiare, suona piuttosto beffardo. Non sarà certo il voto del Palazzo di Vetro a renderlo meno astratto. Eppure intorno ad esso si è animato l’ennesimo teatro retorico-diplomatico che i protagonisti della disputa israelopalestinese sentono il bisogno di allestire a intervalli irregolari per certificare l’esistenza in vita del contenzioso. Dunque del loro diritto a occuparsene, da professionisti del negoziato virtuale.
La drammatizzazione scenica non deve farci perdere di vista la sostanza: il sogno (o l’incubo) dei due Stati resta chimera. Per molte ragioni, di cui due decisive: il popolo palestinese è lungi dal formare una nazione; allo stesso tempo, la crescente eterogeneità della sua popolazione spinge Gerusalemme a cementare il fronte interno nella logica dell’emergenza permanente, a garanzia dello status quo geopolitico, dunque del titolo di massima potenza regionale.
Consideriamo i palestinesi. Oggi se ne contano circa 12 milioni e mezzo. Di questi, quattro midente)
lioni nei Territori occupati (Gaza e Cisgiordania), che per Israele sono “terre contese”. Solo un terzo del totale, quindi. Il resto (4,5 milioni) è dato da profughi nei paesi arabi, spesso stipati in campi invivibili, trattati come paria dai regimi che pure si proclamano difensori della loro causa; altri (1,2 milioni) sono cittadini della Giordania, separati nella fatiscente casa del re hashemita; altrettanti dispersi nel mondo, specie in Europa e nel Nordamerica. Infine, quasi un milione e mezzo sono israeliani. Cittadini non sionisti che alcuni di loro continuano a considerare “entità sionista”, trattati come soggetti di serie B dal governo di Gerusalemme e come traditori dai più fanatici fra i loro connazionali (non concittadini). Tuttavia refrattari a scambiare il benessere e le relative garanzie della democrazia israeliana con la gabbia di Gaza o la Cisgiordania occupata e depressa.
Fra i palestinesi vigono inoltre ataviche gerarchie claniche. Alcune riflesse nella frammentazione politica, polarizzata fra i “moderati” (perché accettati dall’Occidente)  di Fatah e gli “estremisti” (classificati come “terroristi” da Israele) di Hamas, oltre a un rosario di formazioni minori, dalle più laiche e liberali a quelle di matrice islamista, vicine all’Iran. Ciascuna di tali organizzazioni ha la sua milizia e la sua intelligence – quasi sempre più di una. Più che dedicarsi a combattere il nemico sionista, anzi collaborando spesso con il Mossad, tali bande si contendono i traffici d’ogni genere che proliferano all’ombra dell’occupazione israeliana. Insomma, il popolo palestinese soffre, sopravvive grazie agli aiuti internazionali (che contribuiscono a denazionalizzarlo), ma è lungi dal formare una nazione compatta e decisa nel reclamare un proprio Stato.
Peraltro Israele fa di tutto per impedire che le diverse anime palestinesi si raccolgano in un fronte unico. Con il paradossale risultato di intendersi meglio con Hamas – ad oggi il “male minore” nella Striscia, infiltrata dai qaidisti e dalle milizie filo-iraniane – grazie anche alla mediazione del nuovo Egitto di Morsi, che con il clan di Ramallah, comunque ricattabile perché ipercorrotto. Non ingannino le “guerre di manutenzione” Hamas-Israele, che servono a oliare i meccanismi di uno stallo cui nessuna delle due parti intende rinunciare, per carenza di alternative migliori.
Quanto al popolo israeliano. I cittadini dello Stato d’Israele sono circa 8 milioni, di cui quasi 6 classificati come ebrei, 1,7 arabi e 0,3 di altro ceppo. In base alle statistiche ufficiali, un quarto degli abitanti dello Stato ebraico non sono dunque ebrei. E di tanto in tanto riecheggia l’allarme del sorpasso arabo nello spazio dell’ex Mandato britannico, fra Mediterraneo e Giordano, recentemente riannunciato da Ha’aretz in base a discutibili statistiche fondate sul fisco. Ma il problema maggiore, per l’ebraicità dello Stato ebraico, non deriva tanto dalla crescita araba ai suoi vaghi confini (ovvero nei limiti del “Grande Israele”, esteso a Giudea e Samaria/Cisgiordania), quanto dalle divisioni interne alla maggioranza ebraica. Non solo la classica partizione originaria fra sefarditi e ashkenaziti, ma quelle recentemente accentuate dall’immigrazione di neoisraeliani di ascendenza africana e soprattutto slava. Immigrati recenti che costituiscono, fra l’altro, il grosso dell’esercito nazionale. A cominciare dagli ebrei di origine russa, alcuni dei quali meglio definibili come russi di origine ebraica (talvolta millantata), che occupano posizioni di rilievo nell’élite politica e nelle gerarchie sociali d’Israele, magari dotati di doppio o triplo passaporto. Per tacere dell’incomunicabilità fra estremisti ultrareligiosi, concentrati tra Gerusalemme e colonie, ed ebrei assai più laici, prevalenti a Tel Aviv e dintorni.
Un tempo, quando di venerdì ai preti veniva voglia di carne, la battezzavano pesce. L’“ego te baptizo Palestinam” pronunciato dall’Assemblea generale dell’Onu può divertire i cinici ma non cambia i termini del dramma. La Palestina è altrove.

Repubblica 6.12.12
Palestina
di Amos Oz


I palestinesi vogliono la terra che chiamano Palestina. La vogliono per delle ragioni stringenti.
Gli ebrei israeliani vogliono esattamente la stessa terra esattamente per le stesse ragioni, il che garantisce una perfetta comprensione fra le parti, e dà la misura di una terribile tragedia. Fiumi di caffè insieme non potranno mai cancellare la tragedia di due popoli che rivendicano, e ritengo con ragione, lo stesso piccolo paese quale unica loro patria, nazione al mondo. Pertanto, un caffè conviviale è cosa meravigliosa, ci sto soprattutto se si tratta di caffè arabo, che è infinitamente migliore di quello israeliano. Ma un caffè insieme non può risolvere il problema. Ciò di cui abbiamo bisogno non è soltanto un caffè che serva a capirsi meglio. Ciò di cui abbiamo bisogno è un doloroso compromesso.

Repubblica 6.12.12
Il paradosso di un rapporto impossibile ma obbligato
Quanto si somigliano quei due popoli nemici
di Adriano Sofri


Proprio perché lo spazio è così limitato e la convivenza è necessaria oggi occorre la separazione. Come in una famiglia che disponga di una sola casa, a ognuno la sua stanza per cercare di riprendere il filo della vita

Succede che si confonda volentieri Israele con “gli ebrei”, e che si confonda lo Stato di Israele coi suoi governi: confusione che non avviene per altri paesi, e che sottintende, più o meno avvertitamente, l’idea che lo Stato di Israele sia un infortunio provvisorio della storia. Reciprocamente, governanti di Israele si fanno scudo della stessa confusione per far passare le loro libere e deliberate scelte politiche come imposte da una condizione di necessità: la difesa della sopravvivenza di Israele. Quest’ultima non è oggi meno minacciata di quanto fosse in passato, come nell’avanzata nucleare dell’Iran. Chi ama Israele e ricorda il debito irrisarcibile che l’Europa tutta contrasse con i cittadini europei superstiti che vi ripararono, fa spesso fatica a tener ferma la distinzione. Il governo di Netanyahu e Liberman è mosso da un oltranzismo miope, e ne ha appena dato saggio con la ritorsione delle nuove colonie. Sotto la formula, ripetuta troppo stancamente e a memoria, “due popoli e due Stati”, c’è un punto così scandalosamente semplice che si esita quasi a enunciarlo: che non si può voler bene a Israele senza voler bene alla Palestina, che non si può voler bene alla Palestina senza voler bene a Israele. Suona come una stucchevole banalità, vero? Il mondo va altrimenti. Per voler bene a Israele bisogna odiare la Palestina, per voler bene alla Palestina bisogna odiare Israele. Succede anche con le squadre di calcio. Là ha l’odore eccitante della guerra e del sangue, o la rassegnazione a una condanna.
L’odore del sangue e la sensazione di una fatalità si nutrono della prossimità, della strettezza. La terra che si contendono, poco più grande della Toscana, è la stessa, colline dolci e ulivi secolari, troppo piccola per separarli davvero, per allargare le maglie, come occorre in una mischia. E poi israeliani e palestinesi si conoscono, e perciò si assomigliano. Lo disse una volta, quasi vent’anni fa, David Grossman. Disse che i due popoli sono sempre stati affascinati l’uno dell’altro: guardano la stessa tv, ascoltano le stesse canzoni; hanno la stessa scettica insofferenza nei confronti dei poteri costituiti. Da allora sono passate due intifade, due guerre di Gaza e un processo di pace che tutti proclamano fallito. Ma i due popoli continuano a specchiarsi l’uno nell’altro. Il parossismo della tensione fra vittima e carnefice cambia di campo, secondo le circostanze, in un vortice di violenze, recriminazioni, disconoscimenti, e fondamentalismi. A sua volta Amos Oz sostiene che ad accomunare i fondamentalisti delle due parti è la mancanza del senso dell’umorismo. È un allarme: attenti perché le somiglianze tra i due popoli stanno prendendo una china senza ritorno.
Chi ama Israele deve avere il coraggio di dire che è pericolosa e dissennata l’idea di costruire altre case, un altro insediamento (3.400 abitazioni) alle porte di Gerusalemme come una ritorsione per la decisione dell’Assemblea generale dell’Onu di conferire alla Palestina lo status dello Stato osservatore. È un paradosso, ma proprio perché lo spazio della Palestina-Israele è così esiguo e limitato, e perché i due popoli sono condannati a convivere, a meno di una catastrofe, oggi occorre la separazione. Come in una famiglia che disponga di una sola casa: ognuno nella propria stanza, per cercare di riprendere il filo della propria vita. Ci si incontra quando è necessario – o quando si è pronti.
C’è un argomento ancora più forte per convincersi della reciprocità. Se fossi un israeliano (lo siamo un po’, no? Se non altro per la nostra porzione di passato, ad dishonorem) farei di tutto per favorire la nascita della Palestina, perché finalmente sarà lo Stato palestinese a sancire agli occhi del mondo arabo la legittimità di quello degli ebrei. Gli accordi di pace con Egitto e Giordania non tolgono che Israele sia inviso al mondo arabo. Intellettuali, attivisti, artisti rifuggono i contatti con i loro colleghi israeliani. Israele è tuttora sentito come una potenza (una potenza, nonostante le dimensioni fisiche) estranea alla regione, che esiste perché ha spogliato il suo vicino di ogni diritto. Lo Stato della Palestina accanto a quello d’Israele contraddirebbe questo sentimento di fuori, e indurrebbe dentro Israele il ripensamento della storia propria e di quella dei palestinesi. Lo Stato di Palestina aiuterebbe una convalescenza della società israeliana da molte delle sue nevrosi. E i palestinesi, una volta conquistata la sovranità, sarebbero indotti, se non a rinunciare ai sogni (chi può vivere senza sognare?) di tornare nelle case di Giaffa, Haifa o Lod, a misurarli con la realtà. Si può anche condividerlo, un sogno: per esempio, che nasca a Gerusalemme un’università comune ai due popoli dove studiare la storia del conflitto, e i suoi effetti sulle anime.

Corriere 6.12.12
Discorsi più brevi e niente fiori. La svolta sobria del leader cinese
di Marco Del Corona


Che per la Cina sia scattata davvero l'ora X(i)? Se si trattasse di un leader occidentale, alle prese con le aspettative dell'opinione pubblica che lo ha eletto, ci si potrebbe azzardare a dire che il segretario del Partito comunista cinese sta cercando di non sprecare i primi 100 giorni. Nel caso di Xi Jinping sono di meno, visto che è stato formalmente nominato lo scorso 15 novembre, ma la sua offensiva contro ogni inutile ostentazione di lusso e potere da parte di vertici e funzionari è già partita, con l'ovvia eco da parte dei media governativi. Un comunicato informa infatti che «mostreremo con chiarezza la nostra determinazione a migliorare il nostro stile di lavoro e risolvere i problemi nei confronti dei quali le masse esprimono particolare malcontento».
Le indicazioni confermano la percezione di Xi come uomo meno formale rispetto alla rigidità di Hu Jintao. Con un tocco populista, si affrontano fastidi autentici la cui soluzione (o almeno il gesto di volerne trovare una) comporta difficoltà relativamente minori. Le misure toccano vanità personali cui le leadership, centrali e locali, sono affezionate: cancellazione o riduzione dei blocchi stradali per spostamenti nel traffico, taglio o quasi di quelle cerimonie di benvenuto non solo negli aeroporti note per il dispendio di tappeti rossi ed elaborate composizioni floreali, «spending review» delle delegazioni che si muovono da una provincia all'altra o all'estero. Alcune delle prescrizioni riprendono iniziative già tentate: se all'inizio dell'anno il segretario del Partito di Canton aveva imposto ai suoi di non tenere discorsi superiori ai 60 minuti (!) e contenere la tiratura dei medesimi, adesso anche nel Politburo si farà lo stesso: «Riunioni efficienti, concisione, niente salamelecchi» e così via. «Lo stile dei funzionari, soprattutto di quelli ai vertici, ha un impatto importante sullo stile del Partito e del governo — riconosce la nuova leadership — e anche sulla società nel suo complesso. Questo stile di lavoro deve cominciare a manifestarsi tra i membri del Politburo. Se vuoi che il popolo faccia qualcosa, fallo tu per primo; se vuoi che non faccia qualcosa, allora certamente non devi farlo tu».
L'appello di Xi alla sobrietà è accompagnato da altre mosse che assecondano l'insofferenza della pubblica opinione per lo stile di vita irragionevolmente lussuoso di chi comanda. Il vicesegretario dell'importante regione del Sichuan, Li Chuncheng, è indagato dal Partito per «violazioni della disciplina», ovvero corruzione. Idem parrebbe per Yuan Zhanting, sindaco di Lanzhou (capoluogo del Gansu), per via di una collezione di orologi di lusso svelata dai microblogger: oltre 20 mila euro di valore, incompatibili con la paga ufficiale. A Chongqing, ex feudo del carismatico «neomaoista» Bo Xilai, una serie di dirigenti è stata rimossa o è indagata per violazioni della disciplina di Partito in materia di corruzione e frequentazioni sentimental-sessuali. Tuttavia la lotta contro il malaffare annunciata già nelle settimane scorse da Xi non potrà accontentarsi di un restyling e dovrà trovare un equilibrio tra metodi troppo blandi (che irriterebbero la popolazione) e metodi troppo efficaci (che farebbero vacillare l'unità del Partito e troppe lealtà particolari). La formula magica spetta a Xi. Ha poco tempo per metterla a punto, ma dieci anni per completare — se riesce — la cura.

Corriere 6.12.12
Addio a Oscar Niemeyer il grande patriarca dell'architettura moderna
di Giulia Ziino


Avrebbe compiuto 105 anni il 15 dicembre ma non ce l'ha fatta: Oscar Niemeyer, l'architetto brasiliano — uno dei padri dell'architettura moderna —, è morto ieri sera all'ospedale Samaritano di Rio de Janeiro, dove era ricoverato dal 2 di novembre. A dare la notizia della morte, interrompendo la normale programmazione, la tv brasiliana Globo. Le condizioni di Niemeyer si erano aggravate nel pomeriggio di ieri. «Il paziente è lucido», avevano fatto sapere i medici, ma era stato sottoposto a dialisi per insufficienza renale e accusava anche problemi respiratori.
Nato a Rio nel 1907, Niemeyer era il più celebre degli architetti brasiliani, conosciuto in tutto il mondo per i suoi progetti. Alcuni, come il Palazzo dell'Onu a New York, diventati simboli dell'architettura contemporanea. Suo anche il progetto di Brasilia, la nuova capitale, inaugurata nel 1960 e «disegnata» insieme a Lucio Costa, nel cui studio Niemeyer era andato a lavorare dopo la laurea in ingegneria presa nel 1934. «Nonostante non avessi un soldo — raccontava — ho preferito lavorare gratuitamente nello studio di Costa dove trovavo le risposte ai miei dubbi di giovane studente». È di quegli anni anche il contatto con Le Corbusier, uno dei grandi che più hanno lasciato il segno sul lavoro di Niemeyer, teso a esplorare le possibilità più estreme del cemento armato.
Esule a Parigi nel 1967, l'anno dopo firma il suo più famoso progetto in Italia: la sede della Mondadori a Segrate. Premiato nel 1988 con il Pritzker, il Nobel dell'architettura, nel 1996 riceve il Leone d'Oro della Biennale di Venezia. Uno dei suoi lavori più recenti era stato l'auditorium di Ravello, inaugurato nei primi mesi del 2010.

Repubblica 6.12.12
Addio a Oscar Niemeyer il visionario di Brasilia
Il maestro dell’architettura è morto ieri notte a 104 anni
di Franco La Cecla


RIO DE JANEIRO — Il grande architetto brasiliano Oscar Niemeyer è morto ieri sera nell’ospedale Samaritano di , dove era ricoverato da oltre un mese. Aveva 104 anni, ne avrebbe compiuti 105 il 15 dicembre. Lascia la seconda moglie Vera Lucia Cabreira, quattro nipoti, e 19 bisnipoti. Aveva perso da poco l’unica figlia, Annamaria.

OSCAR Niemeyer è stato l’ultimo grande maestro del movimento moderno di quel razionalismo in architettura di cui furono antesignani Gropius, Mies Van der Rohe e Le Corbusier. Di quest’ultimo Oscar Niemeyer fu giovane allievo, quando Le Corbusier venne chiamato nel 1934 a realizzare a Rio la costruzione del nuovo ministero dell’Educazione e della Sanità. E fu con lui nella concezione del nuovo Palazzo delle Nazioni Unite a New York, il cui progetto fu poi sottratto nella costruzione finale all’architetto svizzero. Le opere di Oscar Niemeyer, una produzione ricchissima che copre ottant’anni di lavoro, sono diventate simbolo di una maniera visionaria, provocatoria di applicare il verbo del movimento moderno molto spesso sovvertendolo. Alle linee rette e alla freddezza di molte opere europee del razionalismo architettonico Niemeyer contrappone linee curve, sensualità di onde, ellissi, ovali, curve di donna che diventano case della musica,
ministeri, cattedrali. Quello che ne fa un maestro della generazione dei primi architetti moderni è l’assoluta mancanza di dubbi, l’assertività, un’architettura che proclama costantemente il trionfo delle forme, le superfici bianche curve che si aprono in vetrate, vengono servite da iperboliche passerelle lanciate nel vuoto. Come se nella architettura di Niemeyer trionfasse la linea di matita continua che non si stacca mai dal foglio. Oscar Ribeiro de Almeida Niemeyer Soares Filho nasce il 1907 a Rio, da una famiglia che per parte di madre ha delle radici in Germania. Cresce in una città piena di fermenti culturali ed in piena espansione.
È della stessa generazione di Vinicius de Moraes, l’inventore della Bossa Nova (c’è un video di Chico Buarque, «As Cidades», «Le città», dove il maestro viene intervistato dal cantante a questo proposito) e fa parte di un mondo progressista che guarda all’Europa come ad un luogo cui ispirarsi per creare un paese moderno. Diventa comunista e questo gli costa un ventennio di esilio volontario in Europa durante il regime dei colonnelli. A Parigi dove risiede per un certo tempo realizza la straordinaria sede del Partito Comunista, una cupola bianca che emerge da un prato in declivio e che copre un’enorme sala assembleare dalle pareti scoscese. La sua fede marxista non gli impedirà di lavorare per ogni tipo di cliente, con una sicurezza che fa parte anch’essa del suo stile di maestro indiscusso. Torna negli anni 80 in Brasile e produce una serie di progetti mirabolanti, come il museo d’arte contemporanea di Niteroi, vero e proprio disco volante poggiato su un pilastro da cui sembra che stia per spiccare il volo verso la Baia di Guanabara. Il suo stile diventa sinonimo di una architettura «del futuro» a tal punto da ispirare film ironici come uno famoso con Jean Paul Belmondo (L’uomo di Rio) dove le forme concave, convesse, le iperboli diventano il paesaggio di un futurismo lunare. Perfino nel film il dormiglione di Woody Allen il futuro viene rappresentato con architetture che sono una copia di quelle di Niemeyer.
Lavora in tutto il mondo, Israele, Libano, Algeria, Bolivia, Francia, Portogallo e in Italia realizza su incarico di Giorgio Mondadori la sede della Mondadori a Segrate e quella della fabbrica della Fata Engineering a Pianezza e della cartiera Burgo a San Mauro Torinese. È una fioritura continua di opere che non si arresta nemmeno quando il maestro compie novant’anni e realizza alcune opere di una purezza formale straordinaria, come il museo Oscar Niemeyer a Curitiba e nelle Asturie in Spagna e il museo nazionale del Brasile a Brasilia. Brasilia rimane la città a cui ha dato i segni più forti del suo stile, a partire dagli edifici realizzati negli anni ‘50 dentro al piano della nuova città concepito dal mestro di Niemeyer, Lucio Costa. Il palazzo del governo a Brasilia, con le sue due coppe una concava ed una convessa e l’edificio alto in mezzo sono state descritte dal musicista Gilberto Gil come una composizione musicale che ricorda samba e bossa nova. Viene invitato, quasi centenario a realizzare a Ravello una casa della Musica che riproporrà l’ovale dell’occhio del museo di Curitiba, ma questa volta con uno sguardo mozzafiato sul mare campano. Negli ultimi anni di attività alcuni critici hanno rinvenuto nelle ultime opere un manierismo che rappresenterebbe un inaridimento della creatività del maestro. Anche se è difficile non essere impressionato dall’audacia del progetto di una cupola di sessanta metri d’altezza per la nuova Catedral do Cristo Rei e il Santuario della Divina Misericordia a Belo Horizonte. È difficile dare ragione ai critici, proprio perché l’energia, l’assertività, la sicurezza assoluta di Niemeyer sono ancora dentro ad un’idea di «purezza» del messaggio architettonico come messaggio di progresso e di pace. Niemeyer somiglia in questo a Picasso. Entrambi personaggi complessi, contraddittori, comunisti ricchissimi e militanti mondani, con un rapporto fertile e vorace con il mondo femminile, eppure talmente convinti di essere «alla guida» che qualunque loro scelta sembra parte di una coerenza imbattibile.

l’Unità 6.12.12
«Strati della Cultura» Per cambiare davvero
di Carlo Testini

Responsabile politiche culturali dell’Arci

«NOI CI TROVIAMO DI FRONTE A UNA SITUAZIONE IN CUI LA SPESA PUBBLICA PER LA CULTURA è da un lato estremamente frammentata fra soggetti amministrativi disparati, dall’altro incredibilmente modesta, considerato il fatto che non arriva neppure allo 0,50% della spesa statale complessiva». Con queste parole Renato Nicolini, straordinario uomo di cultura e assessore innovatore delle politiche culturali della città di Roma tra il 1976 e il 1985, scomparso quest’estate, interveniva ad un convegno organizzato nel 1984 confrontando le policy degli Stati Uniti e dell’Italia. La situazione, dopo quasi trent’anni, non è cambiata in meglio. Anzi, il dato percentuale della spesa per la cultura è calato ancora, arrivando ad uno scarso 0,3%.
Fino ad un anno fa avremmo potuto dire che la spesa pubblica per la cultura si era spostata in parte sui territori passando attraverso le Regioni e gli altri enti locali. Ora sappiamo bene che il quadro è drammaticamente cambiato. Né ci sono particolari novità concrete per quanto riguarda la messa a punto di un progetto, di una strategia, nazionale e di lungo periodo che definisca una politica per la cultura e la conoscenza che coinvolga Stato, Regione ed enti locali. Eppure secondo un recentissimo rapporto di Unioncamere e di Symbola, sono impegnate in queste attività 1 milione e 400 mila persone, la ricchezza prodotta rappresenta il 4,9% del Pil, senza contare l’effetto determinante che queste attività hanno per l’attrazione turistica del nostro Paese e per la promozione dei nostri prodotti nel mondo. Gli occupati nelle attività culturali propriamente dette sono 585.000, a cui vanno aggiunti gli occupati nel Ministero dei Beni e delle attività culturali, nel dipartimento dell’Informazione e dell’editoria della Presidenza del Consiglio, nella direzione generale per la promozione culturale del ministero degli Esteri, e quanti lavorano nelle attività culturali dei Comuni, delle Province e delle Regioni che sono classificati indistintamente fra i dipendenti pubblici. E dovremmo aggiungere inoltre le persone coinvolte nella gestione delle circa 40 mila organizzazioni del no profit culturale che si aggirano intorno alle 500 mila unità, volontari compresi.
Insomma stiamo parlando di un settore importante, che dovrebbe diventare uno dei pilastri del futuro sviluppo di questo Paese. Lo stesso presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel recente intervento agli Stati generali della cultura del Sole 24 Ore a Roma, ha chiesto con forza che il governo scelga con decisione tra le priorità proprio l’investimento pubblico in cultura, conoscenza, ricerca scientifica. Per questi motivi, l’Arci organizza da oggi all’8 dicembre a Mirandola e Modena il suo appuntamento annuale, «Strati della cultura», in cui confronterà analisi e proposte con i numerosi ospiti che saranno presenti alle tre giornate: operatori del settore, artisti, intellettuali, esponenti delle istituzioni e dei partiti. Sarà anche l’occasione per lanciare il «Manifesto dell’Arci per la cultura», che verrà presentato e discusso in tutta Italia attraverso una lunga carovana culturale.

l’Unità 6.12.12
«Sinistra, è ora di organizzarsi»
Il capitalismo è morto, tocca a noi cambiare le cose
Ken Loach ieri a Roma per presentare il suo film «La parte degli angeli» ha ribadito le ragioni del rifiuto al Torino Film Festival
Oggi incontrerà gli operai del Museo del Cinema
di Gabriella Gallozzi


«LA QUESTIONE NON È SE VADO O MENO AL FESTIVAL. MA PIUTTOSTO QUELLO CHE RIGUARDA LE PERSONE CHE PERDONO IL LAVORO, HANNO UNO STIPENDIO DA FAME E NESSUNA RAPPRESENTANZA SINDACALE. Se questi lavoratori senza diritti puliscono le nostre scrivanie, non possiamo non sentircene responsabili. Questa è la differenza tra me e i direttori del Festival di Torino». Eccolo Ken Loach, il «megalomane», il «vetero», quello dai «comportamenti superati», come in questi giorni l’hanno bollato i tanti «osservatori» coinvolti e non nel Torinofilmfestival. Il gran rifiuto di «Ken il rosso» di andare a ritirare il premio alla carriera per solidarietà con i lavoratori in lotta del Museo del cinema partner fondamentale del festival torinese proprio non è andato giù. Soprattutto a sinistra, area in cui la storica rassegna si muove da sempre con tanto di Premio Cipputi. Le polemiche, dunque, hanno trascinato nel consueto tritacarne mediatico le vere motivazioni del vecchio Ken che ieri è arrivato a Roma per presentare La parte degli angeli straordinaria commedia sulla generazione senza futuro e raccontare, finalmente, le sue ragioni.
Così mentre qui da noi il tema politico del giorno sono i «criticatissimi» pugni alzati alla festa per la vittoria delle primarie di Bersani, è una boccata di ossigeno ascoltare le riflessioni di questo anziano signore (classe 1936), cortese ed ironico, che con calma olimpica rivendica un principio ormai desueto come la coerenza. È per questo, infatti, che non è andato a Torino, dove sarà oggi proprio per incontrare i lavoratori del Museo del cinema. «Mi è dispiaciuto non accettare l’invito e il premio spiega -, ma c’era una questione di principio: i lavoratori che fanno le pulizie al Museo sono esternalizzati, hanno già salari molti bassi e in 5 sono stati licenziati in maniera iniqua». Di fronte a questo Ken Loach aveva già espresso le sue critiche ad Alberto Barbera, direttore del museo e da quest’anno anche del Festival di Venezia. «Mi aveva assicurato che si sarebbe interessato alla salvaguardia dei loro diritti prosegue il regista -, ma poi non l’ha fatto, dicendo che il museo non poteva essere ritenuto responsabile del comportamento di terzi. Ora se accettiamo questo principio ogni grande azienda potrà scaricarsi da ogni responsabilità e non tutelare più i diritti dei lavoratori».
PENSIERI SEMPLICI
Argomenti, del resto, che Ken ha sapientemente affrontato nei suoi film, sempre dalla parte dei più deboli, operai, lavoratori precari, emigrati, disoccupati, adolescenti a rischio (quest’ultimo, una commedia dopo il più drammatico Sweet Sixsteen). E senza mai risparmiare critiche anche ai sindacati e alla stessa sinistra. «Da noi in Gran Bretagna c’è una triste prospettiva prosegue -, che a vincere sarà il centro sinistra. Un concetto che non esiste. Se sei per il mercato sei di destra, se sei per un’economia pianificata e per la proprietà comune sei di sinistra. Bisogna ricordare a quelli che si dicono di centro che se stai al centro della strada normalmente ti investono». Sorride Ken Loach assestando le sue frecciatine. Sorride e continua a parlare di sfruttamento, di capitalismo che ha bisogno di «disoccupazione per tenere basso il costo del lavoro». Di una Unione Europea che ha come unico obiettivo il «neo liberismo». «Guardiamo alla Grecia dice costretta a svendere quello che ha». L’Europa è la prima a garantire il rapporto con le grandi multinazionali, aggiunge. «Dobbiamo interrompere tutto questo... Ma del resto ecco cosa fa il centro sinistra in tutto il continente: dice che procederà con le misure di austerity. Solo che lo farà più lentamente. Come dire ad un condannato a morte che sarà strozzato più lentamente». Il risultato è sotto gli occhi di tutti. «Ci stanno strappando tutti gli elementi che rendono una società civile: il sostegno ai disabili, gli ospedali. Negli anni Sessanta dicevamo che il capitalismo era in crisi e vendevamo tanti giornali. Ora che c’è la crisi del capitalismo non si vendono neanche più tanti giornali». Quindi, conclude Ken, «trovare un nuovo modello economico è un’urgenza non più rinviabile». Ma soprattutto la sinistra deve fare la sua parte. «Educare, agitare, organizzare conclude secondo il vecchio slogan dei sindacati americani. Perché la solidarietà senza organizzazione non basta».

La Stampa 6.12.12
Loach: è più importante il lavoro dei premi
Il regista: la destra uccide in fretta, il centrosinistra lentamente
di Andrea Malaguti


The Angel’s Share Premio della giuria al Festival di Cannes, il film è la storia di quattro emarginati di Glasgow che grazie a una furbata, a una distilleria di whisky e a una specie di padre buono, rialzano la testa

La parte degli angeli (premio della giuria a Cannes, in sala dal 13 dicembre) è appena finito quando Ken Loach entra nella sala romana del Quattro Fontane. Boato. Applausi. È sottile come una betulla, piccolo, il naso a punta e due occhi da druido. Un ecosocialista rigoroso nato per illuminare gli angoli sudici del pianeta. Meglio se britannici, preferibilmente del nord. Botte, alcol, case popolari. Questa volta ha scelto una chiave più leggera. La storia di quattro emarginati di Glasgow che grazie a una furbata, una distilleria di whisky e una specie di padre buono, rialzano la testa. Tre di loro riescono a immaginare una vita solida, saldamente allineata, pur sapendo che la loro esistenza si è solo fugacemente scontrata con un mondo destinato a rimbalzarli lontano. Il quarto, Robbie, si emancipa davvero. Si ride e si piange molto. «In fondo la commedia è una tragedia con un finale felice».
Signor Loach, le piace il whisky?
«Lo apprezzo. Anche se preferisco il vino rosso. Ma l’idea di farlo diventare uno degli elementi centrali del film è stata di Paul Liverty. I giovani britannici sanno cos’è senza averlo mai bevuto. Costa troppo. Si devono accontentare di sbronzarsi con bevande più povere. Le prospettive per le nuove generazioni non sono un gran che».
Colpa della globalizzazione?
«Anche».
Senza globalizzazione che fine farebbe il mercato del whisky scozzese?
«Il whisky è stato prodotto e commercializzato per centinaia di anni. Forse anche con più fortuna di oggi da piccoli produttori».
Poi?
«Sono arrivate le multinazionali. E un sacco di gente ha perso il lavoro».
Le multinazionali tolgono lavoro?
«Le multinazionali hanno bisogno della disoccupazione. Più gente è a spasso più è facile elargire stipendi da fame e creare lavoro temporaneo».
La precarietà è uno dei motivi della sua polemica col Torino Film Festival.
«Il premio era un onore. Ma c’era una questione di principio sull’esternalizzazione del lavoro al museo».
Che cosa poteva fare il Museo?
«Ribellarsi. Al taglio degli stipendi di chi già guadagna una miseria e ai cinque licenziamenti».
Non erano dipendenti loro.
«Chi pulisce i nostri bagni e assicura la nostra sicurezza è una presenza che ci riguarda».
Lei fa cinema da quasi mezzo secolo, qual è stato il momento peggiore?
«Gli Anni 80, quelli del thatcherismo. Trovare una chiave per raccontarli non era semplice. Ho scelto i documentari. Ne ho fatti sei. 5 sono stati bloccati».
Un pericoloso comunista.
«Scrissero che non ero adatto neppure a regolare il traffico».
Dunque?
«Scelsi il teatro».
Rifugio sicuro.
«Non tanto. Scrissi un testo antisionista per il teatro più progressista di Londra. Una settimana prima dell’esordio la sceneggiatura finì alla comunità ebraica. Mi accusarono di antisemitismo e di razzismo. Bloccato».
Il mondo di oggi come lo racconta?
«Dipende. “La parte degli angeli” è una favola sul talento sprecato e su che cosa può succedere quando la vita ci offre un’occasione».
Si aspetta il lieto fine anche dalla crisi?
«Se guardo alla Gran Bretagna mi preoccupo molto. E pare che la sinistra non esista più. In compenso c’è il centrosinistra, un’assurdità».
Il centrosinistra o la crisi?
«Il centrosinistra. Una cosa che non esiste. La verità è che se il centrodestra ti strangola rapidamente il centrosinistra fa la stessa cosa più lentamente. Ma il risultato è identico».
Che cosa sono destra e sinistra?
«Se sei per il mercato e la deregulation sei di destra. Se credi nella proprietà comune e nella pianificazione condivisa sei di sinistra. Fino a pochi anni fa almeno metà dello Stato era nostro. Oggi non abbiamo più niente».
L’Europa la convince?
«L’Europa prende atto di condizioni di difficoltà oggettiva e risponde con ricette sbagliate, ma è un’organizzazione neoliberista. La vera questione è: come restituiamo fiducia alle nuove generazioni?».
Internet è la soluzione?
«Non lo so. Non credo di essere la persona più adatta a parlarne».
Ci crede al cinema in rete?
«Preferisco il grande schermo. E poi non amo l’idea che l’industria cinematografica finisca per sparire. Nella produzione di un film ci sono un sacco di professionalità coinvolte. Vanno tutelate. Tra l’altro andare al cinema ai ragazzi fa bene, li spinge a uscire di casa».
Ultima cosa. Assange si è rifugiato nell’ambasciata ecuadoregna e lei ha perso i soldi che aveva versato per garantire i suoi arresti domiciliari. Pentito di averlo aiutato?
«No. Assange va appoggiato. Gli americani lo stanno perseguitando. Una società civile non lo può accettare. Ma il mondo è ancora civile?».

Corriere 6.12.12
Le fosse di Katyn e l’Urss. Come fu rotto il silenzio
Risponde Sergio Romano


Perché sull'eccidio di Katyn, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, calò il silenzio? Anche gli Stati Uniti hanno coperto ciò che Stalin e Beria avevano fatto nel 1940. Perché preferirono tacere? Perché si è voluto coprire una azione di cui tutti sapevano e mettendo in evidenza solamente i crimini contro gli ebrei? Perfino Gorbaciov sapeva. Eltsin fu forse l'unico che ha tentato di far luce.
Berto Binelli

Caro Binelli,
Dopo la fine della guerra, gli Alleati vollero che la vittoria fosse coronata da un processo che avrebbe condannato le guerre di Hitler e rivelato al mondo la spietata politica con cui il regime nazista, tra l'altro, aveva sterminato circa sei milioni di ebrei. Occorreva che alla punizione politica e militare si accompagnasse una punizione giudiziaria. Se gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia avessero ufficialmente sollevato il problema dell'eccidio degli ufficiali polacchi seppelliti nelle fosse di Katyn, scoperte dalle forze armate tedesche nella fase iniziale del conflitto, il processo di Norimberga non avrebbe avuto luogo. Mosca aveva attribuito il massacro alla Germania hitleriana e non avrebbe mai permesso che la liturgia processuale di Norimberga mettesse l'Unione Sovietica, sia pure incidentalmente, sul banco degli accusati.
Aggiungo che accanto a questa motivazione etica e giuridica vi fu anche, forse soprattutto a Washington, un calcolo politico. Alla conferenza di Yalta del febbraio 1945, due mesi prima della sua morte, Franklin D. Roosevelt aveva discusso con Stalin la creazione di una nuova Società delle nazioni — l'Organizzazione delle nazioni unite — e aveva raggiunto l'accordo sulla composizione di un organo direttivo, il Consiglio di sicurezza, in cui le maggiori potenze avrebbero avuto il diritto di veto. Nel futuro sognato dal presidente americano vi era quindi, alla fine della guerra, il sogno di una gestione concordata degli affari mondiali. Una pubblica discussione sulla responsabilità del massacro di Katyn avrebbe reso questa prospettiva impossibile. Se la Guerra Fredda fosse scoppiata subito dopo la fine del conflitto, anziché tra la fine del 1947 e gli inizi del 1948, la rottura dell'alleanza avrebbe certamente influito sull'impostazione del processo di Norimberga.
L'uomo che maggiormente si prodigò perché l'Urss riconoscesse le sue colpe fu Aleksandr Jakovlev (1923-2005), un comunista eretico e coraggioso che aveva preso posizioni eterodosse ancor prima di Gorbaciov ed era stato allontanato da Mosca con un incarico diplomatico. Durante la perestrojka ebbe compiti che gli permisero di allargare considerevolmente i confini della glasnost; e dopo la morte dell'Urss, Eltsin lo chiamò a presiedere una commissione per la riabilitazione delle vittime delle repressioni politiche. Quegli incarichi gli permisero di riaprire il «caso Katyn» e di rendere noti molti documenti segreti, fra cui il verbale della riunione del presidium del Comitato centrale del Partito comunista dell'Urss durante la quale fu autorizzata l'esecuzione degli ufficiali polacchi. Di quel verbale esistono fotocopie che circolavano a Mosca nel 1992. Riuscii a procurarmene una.

La Stampa 6.12.12
1939-1945 così un mondo di ciechi scivolò nell’inferno
La narrazione della Seconda guerra mondiale nel vissuto degli uomini e delle donne che ne furono coinvolti: un lavoro di Max Hastings
di Antonio Scurati


"Si scopre che in alcuni casi, per chi lo visse in prima persona, il grande evento non ebbe nessun significato A Parigi sfilano i nazisti e una giovane inglese osserva lo spettacolo ammirata. I suoi amici americani si esaltano Militari e civili come in letargo Ma fu quell’azzeramento dell’umano a inaugurare un’era di nuovo umanesimo"

A raccontarla oggi, si stenta a credere che la Seconda guerra mondiale sia realmente accaduta. La bandiera con la svastica sventola al di sopra dell’Arc de Triomphe, a Parigi, nel giorno dell’occupazione da parte delle truppe tedesche: la foto è stata scattata il 17 giugno 1940, cinque giorni dopo gli stessi luoghi saranno teatro della grande parata per la vittoria nazista
La conclusione del più grande e terribile evento della storia umana dista da noi 67 anni. Non solo i nostri nonni ma perfino i nostri padri l’hanno vissuto. Eppure, se proviamo a misurare quegli accadimenti sul metro delle nostre vite odierne, sbattiamo contro il muro dell’incommensurabile. L’esperienza di vita delle generazioni nate in Europa dopo la fine del secondo conflitto mondiale manca di una base comune a quella della generazione che lo attraversò. Se rileggiamo oggi sullo schermo a cristalli liquidi di un tablet i diari dei nostri nonni sotto le bombe, potremmo legittimamente pensare di non appartenere alla medesima specie umana. Per questo motivo, il merito principale di Inferno. Il mondo in guerra (Neri Pozza, pp. 895, da domani in libreria), di Max Hastings, consiste proprio nell’offrire una narrazione complessiva, analitica, documentata della Seconda guerra mondiale ma incentrata sul vissuto degli uomini e delle donne che vi presero parte. Questo affresco grandioso ci offre, insomma, l’occasione di verificare se sia possibile essere i continuatori dei nostri padri e dei nostri nonni.
«Questo libro parla soprattutto dell’esperienza umana», proclama l’autore nell’incipit. Ovvio – potremmo essere portati a replicare – di cos’altro si può parlare se non dell’esperienza umana? Se ci si cala, però, nel flusso di questo terribile, affascinante, ipnotico racconto, l’ovvietà svanisce. Hastings, consultando una mole enorme di scritture private (diari, lettere, memorie), è andato alla ricerca del significato del conflitto per le persone comuni di molti Paesi, coinvolte in modo attivo o passivo, nei cinque continenti. Seguendolo, si scopre ben presto che in molti casi, per chi lo visse in prima persona, il grande evento non ebbe nessun significato. L’esperienza vissuta – intensa, eccitante e sconvolgente – rimase in seguito quasi sempre memorabile sebbene fosse stata, al momento del suo darsi, cieca a se stessa e priva di senso.
«Volevamo combattere, eravamo eccitati, e volevamo che succedesse in fretta. Non credevamo che potesse capitare qualcosa di brutto». Lo dichiarerà un pilota polacco rievocando l’agosto del 1939, vigilia dell’invasione del suo Paese. Ciò che poi capitò in poche settimane fu lo smembramento della Polonia, la distruzione della sua capitale, lo sterminio di un milione e mezzo di Polacchi e la schiavizzazione dei rimanenti. L’ubriacatura nazionalistica, l’oscurità degli inizi, l’insondabilità dell’inaudito – si dirà. Certo, anche questo. Proviamo, allora, a cambiare scena. Parigi, 22 giugno 1940, una stupefatta ragazza inglese di 19 anni, Rosemary Say, assiste alla parata per la vittoria tedesca: «La macchina da guerra percorreva gli Champs Elysées: cavalli dal pelo lucido, carri armati, macchinari, cannoni, e migliaia e migliaia di soldati. Una processione immacolata, scintillante e apparentemente senza fine (…). I miei amici americani erano come ragazzini: ripetevano ad alta voce i nomi dei diversi reggimenti, gridavano al passaggio dei carri armati più moderni, fischiavano a quei meravigliosi cavalli. Io restavo in silenzio, del tutto consapevole di assistere a un evento storico. Anche così, tuttavia, non provavo grandi emozioni». I nazisti sfilano a Parigi sotto l’arco di trionfo innalzato per Napoleone eppure la giovane Rosemary non rabbrividisce dinanzi agli uomini terribili che presto bombarderanno i suoi parenti in Inghilterra. I suoi amici statunitensi si esaltano, addirittura, alla vista degli armamenti che pochi anni dopo li uccideranno sulle spiagge di Normandia. Il più grande choc culturale dell’età moderna vissuto come spettacolo glamour .
Potremmo continuare a lungo. Il libro di Hastings è zeppo di aneddoti che testimoniano la struggente cecità dell’esperienza riguardo a se stessa. Ampio è lo spettro di questo accecamento. All’estremo opposto della folgorazione abbagliante, troviamo l’ottundersi della vista, l’addensarsi delle ombre, il progressivo sprofondare del mondo in un anti-spettacolo ottenebrante. Nel dicembre del 1943 il canadese Faley Mowat scrive alla famiglia dal fronte del Sangro: «La maledetta verità è che viviamo in due mondi diversi, su piani totalmente diversi, e io in realtà non vi conosco più, conosco solo quelli che eravate. Vorrei riuscire a spiegarvi il disperato senso d’isolamento, del non appartenere più al mio passato, di essere alla deriva in una sorta di spazio alieno». E la tenebra non fa distinzioni tra militari e civili. Poche pagine più avanti, gli fa eco Mihail Sebastian, cittadino romeno che non vide mai il campo di battaglia: «Qualsiasi bilancio personale perde importanza, all’ombra della guerra. La sua terribile presenza è la realtà più immediata. Poi, da qualche parte, lontani, dimenticati perfino da noi stessi, ci siamo noi, con la nostra esistenza sbiadita, rimpicciolita, come in letargo, in attesa di risvegliarci e vivere».
Anche lungo questa linea si potrebbe proseguire all’infinito, sommando frammenti di cieche esperienze personali, brani di vite lacerate e ignote a loro stesse, in un racconto che ci restituisce la vastità della tragedia umana senza mai poter comporre una figura di senso unitaria. È esattamente ciò che fa Hastings. La cosa più interessante di questa operazione di compassionevole, impossibile sutura, è che, a mio modo di vedere, è figlia di un’ideologia dell’esperienza vissuta, a sua volta figlia della Seconda guerra mondiale: la narrazione della storia che «enfatizza il punto di vista e l’esperienza dal basso, la voce dei piccoli piuttosto che dei grandi», la cecità di civili immersi nella nebbia della propaganda o dell’incertezza, la cecità di militari immersi nel caos tattico della guerra post-umana, è probabilmente il più significativo prodotto culturale di quell’immane carneficina.
Fu, infatti, quell’azzeramento dell’umano a inaugurare in Europa una stagione di nuovo umanesimo, nel corso della quale nessuno avrebbe più rinunciato a misurare il senso delle idee e degli eventi sul metro breve dell’esperienza vissuta da ciascuna singola vita. Alle maligne astrazioni anti-umane della «mistica meccanizzata» nazista, delle ideologie totalitarie, delle guerre di materiali, l’Europa postbellica reagì inaugurando ciò che Annette Annette Wieviorka, in un suo saggio del 1998, definì «l’era del testimone», registrando la novità epocale rappresentata dalle centinaia di migliaia di ebrei che in tutti i ghetti della Polonia invasa dai nazisti cominciarono a scrivere, a raccontare, a raccogliere testimonianze «dal basso» e in prima persona, nella consapevolezza che la loro esperienza vissuta si sarebbe storicizzata soltanto attraverso una stenografia quotidiana di ciò che stavano patendo. Molto presto, quel modo di raccontare divenne anche un modo di intendere la vita, la politica e il mondo. «Il popolo dei morti», evocato da Calamandrei durante i lavori dell’Assemblea Costituente – si veda il saggio di Leonardo Paggi sull’argomento – divenne fonte di legittimazione della rinata democrazia europea, fondata sul nuovo diritto alla vita e sull’autorità assoluta che l’esperienza di vita di ciascuno detiene riguardo a se stessa.
Oggi, nel momento in cui la formidabile generazione della ricostruzione postbellica si avvia a esaurire la propria esistenza, la storia europea sembra ancora smottare verso un ciclo di maligne astrazioni e l’autorità della vita vissuta è usurpata dalle fantasmagorie delle merci sfrenate, delle esperienze mediate e della finanza globale. Il culto umanistico dell’esperienza, non a caso, si tecnicizza in una retorica della vita vissuta. Alla testimonianza di chi ha sofferto e vissuto si sostituisce la loquacità di massa dei social media. Il criterio umanistico della tutela della vita non è più minacciato dalla sublime tragedia della storia ma dal suo scadimento a pantomima farsesca.
Per tutti questi motivi, Inferno. Il mondo in guerra, la storia narrata in prima persona degli uomini che prima distrussero e poi ricostruirono l’Europa, la storia dei nostri padri e dei nostri nonni, potrebbe rivelarsi una lettura preziosa. Ci attende forse il loro stesso compito, sebbene le nostre distruzioni rimangano incommensurabili alla loro.

l’Unità 6.12.12
Tutte le carte di Elsa. Una mostra a Roma
Il mondo di Morante, donna e scrittrice tra l’epistolario, raccolto in un libro e l’esposizione di manoscritti e disegni
di Paolo di Paolo


ROMA UNA LEGGENDA METROPOLITANA VUOLE CHE, appena qualche giorno dopo l’uscita, l’epistolario di Elsa Morante L’amata (Einaudi) fosse già quasi esaurito nelle librerie romane. Chi sono questi lettori e lettrici appassionati alle lettere di una scrittrice? È un bel segno, e dà conferma di come il mito di Morante, a 100 anni dalla nascita, sia ancora molto vivo e vitale. L’amata è una sorpresa continua: Adriano Olivetti che scrive alla «cara signorina Elsa», lei che racconta alle amiche i suoi progetti di scrittura, gli amori, i premi, le trafile editoriali, lei che si firma «Arturo Gerace scapolo napoletano» in una lettera a Landolfi... A Moravia, che sarà suo marito dal ’41, tre anni prima scrive: «ho un tale desiderio di parlarti ogni momento, che dovrei sempre scriverti. Ma questo non è possibile come non sono possibili tante altre cose. E poi se ti scrivessi sempre, tu finiresti per non leggere nemmeno più le mie lettere per il tuo carattere che ti fa sembrare inutili le cose che hai».Tempestosa Elsa, che chiede scusa ad Alberto «per il comportamento di questi ultimi tempi»; che vorrebbe, nell’estate del ’51, raggiungerlo a Capri, «ma mi viene il timore di potere disturbarti...». Le confidenze con Renata Orengo moglie del critico Giacomo Debenedetti; il carteggio con il suo «diletto Luca», Luchino Visconti: «anche se ho scritto un libro gli confessa non sono una vera scrittrice. Adesso dico a tutti che lavoro sempre e loro mi credono. Ma non è la verità». «Correvano tempi difficili per il cuore» scrive a Calvino: è un verso della Dickinson «che va sempre bene per me». E poi ancora Attilio Bertolucci, Pasolini, Wilcock,i lettori illustri e quelli anonimi che le inviano commenti sui romanzi.
Non si finisce mai di scoprire il mondo di Elsa Morante come dimostra anche la mostra Santi, Sultani e Gran Capitani in camera mia, alla Biblioteca Nazionale di Roma fino al 31 gennaio, a cura di Leonardo Lattarulo e Giuliana Zagra, con inediti, carte ritrovate, fotografie: dai quaderni di scuola della bambina-prodigio a quelli di scrittrice: i quaderni sono stati per tutta la vita il supporto del suo lavoro, «con la copertina nera e il taglio rosso in una prima fase – come scrive Giuliana Zagra –, oppure grandi quaderni simili a registri, o ancora dalla forma allungata degli album da disegno» (per Menzogna e sortilegio ne usò 40). I manoscritti di Morante sono un’avventura non solo filologica, ma visiva: revisioni, commenti, versi, citazioni, disegni, dediche.
Un frastagliato e imprevedibile arcipelago di scritture che ci offre un colpo d’occhio sull’officina di Elsa e sul mistero della sua vocazione: «incandescente» scrive Zagra, e giustamente. Si rivolge al Dio dell’ispirazione, ma anche a sé stessa, in coda a Menzogna e sortilegio: «Cara Elsa, siamo intesi: copiare il libro, e poi basta, morire. Quel che ti resterebbe da fare dopo non sarebbe che mortificazione e scherno. Allora promesso eh? Affettuosamente, Elsa». Vertiginose sono poi le liste di parole: ne accumulava quantità ragguardevoli, parole e parole, spesso di diversi colori, parole comuni e parole strane. A volte accostate come gradazioni di colore: fuligginoso, tetro, affumicato. Altre volte con insondabili connessioni: canterino, assiso, soggiogare, chimerico. Difficile comprendere le ragioni di questi elenchi: parole che intende usare nel romanzo? Una semplice tecnica di «riscaldamento» prima di cominciare a scrivere? Più il tempo ce la allontana (è morta nel 1985), più si infittisce anziché chiarirsi il mistero magico di questa scrittrice senza parenti nella letteratura italiana, senza un albero genealogico riconoscibile. Un talento fuori misura, sopra le righe, come la voce dei suoi romanzi sempre sospesa tra la confessione e il grido, tra il pianto disperato e il riso convulso, con quella potenza di sentimenti e di passioni che le fa sempre cercare, senza trovarlo, «il riposo del cuore».

l’Unità 6.12.12
Piccoli e resistenti
Sopravvivere alla crisi: gli editori raccontano
Da oggi a domenica a Roma ci sarà «Più libri più liberi» la vetrina di chi non ha d’ufficio un posto al sole in libreria
di Maria Serena Palieri


«400 ESPOSITORI, 60MILA TITOLI, 280 APPUNTAMENTI IN FIERA, 140 INIZIATIVE IN 50 LUOGHI DELLA CITTÀ. AUTORI INTERNAZIONALI, TALENTI ITALIANI, ESPLORAZIONI TRA FUMETTO, MUSICA E ARTI VISIVE. Più grande, ricca e indipendente che mai, torna la Fiera nazionale della piccola e media editoria»: così si annuncia l’undicesima edizione di «Più libri più liberi», da oggi a domenica a Roma. Ha senso lo squillo di trombe? Se stiamo ai dati statistici, no. L’Aie oggi presenta in Fiera l’indagine Nielsen. Il 2012 è stato un anno da ecatombe: il mercato a fine marzo registrava un -11,7%; inizio settembre, un -8,6% e a fine ottobre un -7,5%. Se «Più libri più liberi» mantiene il suo appeal, però, un motivo c’è. Ed è che nel candido cubo all’Eur i piccoli & medi hanno la possibilità di un contatto diretto col pubblico, senza le trappole che li aspettano in libreria e senza essere schiacciati dai megastand dei grandi gruppi, come avviene al Lingotto in maggio. Perciò i 400 posti sono sempre ambiti: per i Rubettino, Ananke, il Segnalibro, Manifestolibri che quest’anno mancano, altri si affacciano, Mimesis e Jaca Book, Rosenberg & Sellier e l’Orma... Perché, appunto, i «p&m», in questa stagione di crisi, è di libreria che periscono.
Ginevra Bompiani (nottetempo): «Noi, quanto a vendite, siamo in controtendenza. Nel 2012 abbiamo venduto un pochino in più, grazie a titoli traino come Sottosopra di Milena Agus o, adesso, Siberiade di Luciana Castellina. La crisi l’abbiamo sentita, ma abbiamo reagito tenendo duro e cercando di convincere i librai a esporre e vendere i nostri titoli. Il problema drammatico in Italia, specie in questi ultimi due anni, è la resa. Da noi le rese vanno dal primo giorno praticamente all’infinito e raggiungono il 40-50%. Significa che un libro può essere appena annusato dal libraio e rispedito indietro il giorno dopo. E, siccome la resa costa in termini di trasporto e magazzino, e anche di distribuzione, il libro che va bene ti penalizza di più: più copie tiri più te ne tornano indietro. Altro paradosso: capita che se un libro comincia a marciare devi riportarlo in libreria ripescandolo in magazzino. È ineluttabile? No. In altri paesi non si può rendere prima di tre mesi. Altro nodo, il marketing in libreria: vetrine, pile, spazio sui tavoli comprati a decine di migliaia di euro. Anche di questo si tace, ma è illegale, è pubblicità occulta».
Daniela di Sora (Voland): «Io non credo nel supereconomico di cattiva qualità. Quindi abbiamo fatto risparmi spiccioli: per esempio quest’anno ero alla Buchmesse ma senza un mio stand. Non facciamo risparmi sul libro: traduzioni, fattura, devono rimanere uguali. Abbiamo cercato però di puntare su autori più noti, riconoscibili come il Georges Perec di cui pubblichiamo l’inedito Il condottiero, e non abbiamo rischiato col bulgaro sconosciuto... Ma il problema non siamo noi, sono i nostri referenti. Chiude una libreria dopo l’altra. Chiudono le indipendenti. E la Feltrinelli, col franchising, si espande assorbendole. Non voglio inimicarmi la Feltrinelli, ma è una strategia distruttiva. Noi con Amélie Nothomb possiamo benissimo resistere da loro, ma ci sono titoli che avrebbero bisogno di un tempo e una visibilità che non vengono concessi. E anche la distribuzione accusa colpi: Giunti, Messaggerie. Il fatto è che se non riparte il Paese non riparte nessuno. Se non ce la facciamo in un anno, non vedo orizzonti rosei».
Sandro Ferri (e/o): «Librerie che chiudono, che falliscono, che non pagano: è l’urlo di dolore che arriva in particolare da quelle indipendenti. I nostri promotori tornano sempre molto preoccupati. La crisi c’è. Nel nostro settore, poi, si aggiunge un’altra penalizzazione: l’invasione dei best seller, i pochissimi titoli, non per forza di star, anche di sconosciuti, che diventano totalizzanti. Il marketing invade le librerie con questi e caccia fuori gli altri. L’80-90% della produzione editoriale, cioè tutto quello che non è alla moda, soffre. Sembra che Random House-Mondadori, ovvero un gigante, in Spagna si sia salvato “solo” grazie alla trilogia erotica delle Cinquanta sfumature. D’altronde anche i fenomeni distributivi, di marketing e di concentrazione, sono internazionali. La domanda è: perché i consumatori si accalcano tutti sullo stesso libro? Sono pecore? Di sicuro c’è che il marketing è sul consumatore pecora che punta. Campagne e mega sconti puoi farli su titoli così, non su titoli di catalogo. Che la questione degli sconti e del prezzo fisso sia centrale lo vediamo in prima persona. A gennaio è nata Europa Editions Uk, la costola londinese della nostra Europa. L’abbiamo voluta perché, coi trenta titoli l’anno che produciamo per gli Stati Uniti, volevamo penetrare meglio anche il mercato britannico. Ma la Gran Bretagna, con la liberalizzazione completa del settore, davvero fa paura. Per fortuna c’è la Francia, che non ammette sconti! Alla crisi abbiamo reagito facendo quello che non bisognerebbe fare. In realtà non crediamo affatto che sia meglio fare ancora più libri. Ma confesso: abbiamo prodotto più titoli dell’anno scorso. Perché c’è la molla che ti spinge a tentare: chissà, magari è la volta buona...».
Marco Cassini (minimum fax): «La crisi c’è. Di sicuro come sentimento: la sentono librerie, biblioteche, giornali. Per noi però no: chiudiamo con un fatturato in crescita, al 30 novembre, del 15%. Vero è che il colpo l’avevamo sentito nel 2011. Noi abbiamo diminuito le rese. A fare da traino Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan, il cofanetto su Gadda e Pasolini di Gifuni-Bertolucci, Sofia veste sempre di nero di Paolo Cognetti e Nato a Casal di Principe di Letizia-Zanuttini. E sui nostri dieci titoli più venduti, cinque sono di catalogo. Vuol dire che i libri minimum fax durano. Succede che i grandi rischiano in grande, noi pesci piccoli siamo più abituati a vivere nell’emergenza. E basta un titolo che vada bene o benissimo a farci quadrare i conti. La congiuntura c’è. Ma la pluralità delle idee anche. Le idee non vanno in crisi».

Repubblica 6.12.12
Uno studio francese: calati di un terzo in 20 anni In crescita gli effetti negativi sulla fertilità maschile
Addio maschio, rallenta la corsa degli spermatozoi
di Elena Dusi


NON ci sono più i padri di una volta. Gli andrologi lo avevano percepito da tempo. Ora una ricerca conferma il fenomeno: gli uomini producono meno spermatozoi rispetto al passato. La sopravvivenza della specie non è a rischio. Ma il declino della qualità del seme è ormai un dato costante nei paesi industrializzati, soprattutto a causa delle sostanze chimiche inquinanti.
I francesi dell’Institut de Veille Sanitaire pubblicano oggi su Human Reproduction fanno un confronto fra le analisi del liquido seminale di 26.600 uomini, raccolte tra 1989 e 2005. Nell’arco di 17 anni e al netto dell’età, la concentrazione di spermatozoi è calata del 32% (da 73 milioni a 50 milioni per millilitro). È scesa del 33% anche la frazione di spermatozoi senza difetti di forma.
L’illusione che si tratti di un problema francese è fugata dai dati italiani. Fabrizio e Filippo Menchini-Fabris, padre e figlio, entrambi andrologi, da 40 anni mettono insieme i dati sulla fertilità degli uomini in Italia. «Da quando abbiamo iniziato lo studio, la concentrazione di spermatozoi è calata del 20-30%» spiega Filippo. Carlo Foresta, professore di endocrinologia e direttore del Centro di crioconservazione dei gameti maschili all’università di Padova, alla fine di novembre ha presentato al Convegno di medicina a Lecce dei dati addirittura paradossali: «La conta degli spermatozoi nei diciottenni è più bassa rispetto ai quarantenni». Un terzo dei mille diciottenni padovani sottoposti all’analisi è risultato ipofertile (meno di 39 milioni di spermatozoi per millilitro). Oltre uno su dieci non raggiunge i valori minimi stabiliti dall’Organizzazione mondiale per la sanità: 15 milioni.
La stessa asticella fissata dall’Oms è andata abbassandosi nel corso degli anni. «Quando ho iniziato la professione — racconta Giovanni Morrone, primario di andrologia e fisiopatologia della riproduzione all’ospedale di Cosenza — si considerava problematico un valore sotto ai 60 milioni. L’Oms nel 1999 ha portato il limite a 20 milioni e nel 2010 ha rivisto ancora il dato al ribasso, arrivando a 15 milioni ». A chi fa notare che per fecondare una cellula uovo basta un solo spermatozoo, Foresta ribatte così: «È come se un serbatoio si avvicinasse al livello di riserva. La produzione di spermatozoi sani nel corso della vita può essere compromessa da fumo, uso di farmaci, infiammazioni. Più basso è il valore di partenza, più è facile ritrovarsi in una zona grigia di bassa fertilità».
Per capire le ragioni del declino, un punto di partenza utile è la ricerca di Aldo Calogero dell’università di Catania, che ha confrontato la qualità del seme in aree industriali e in aree rurali della Sicilia. Nel primo caso la mobilità ridotta degli spermatozoi è associata a maggiori quantità di metalli pesanti come cadmio e nichel nell’organismo. «Varie sostanze inquinanti, dai pesticidi agli ormoni presenti nella carne, hanno effetti nocivi sul delicato meccanismo ormonale di produzione degli spermatozoi. E i danni possono iniziare già nell’utero della madre» spiega Foresta. «Obesità o sovrappeso sono altri fattore negativi, perché le cellule del grasso favoriscono la produzione di estrogeni ». A soffrire di più per l’inquinamento ambientale e il bombardamento di estrogeni sono proprio le attività degli ormoni prodotti dai testicoli. «Non è solo il numero degli spermatozoi a diminuire » spiega Foresta. «Braccia e gambe si sono allungati negli ultimi anni, mentre il volume dei testicoli è diminuito». È il corpo dell’uomo in generale, secondo Morrone, «che sta subendo un processo di femminilizzazione. Il calo degli spermatozoi è solo uno degli aspetti del fenomeno».