venerdì 7 dicembre 2012

l’Unità 7.12.12
Bersani: noi leali, il Pdl chiarisca subito
«Non assisteremo passivamente al loro gioco allo sfascio»
di M. Ze.


ROMA Pier Luigi Bersani riceve la telefonata di Anna Finocchiaro non appena in Senato si palesa quale sarà la linea dettata da Silvio Berlusconi ai suoi fedelissimi: far saltare il tavolo. Un attimo dopo il candidato premier del centrosinistra è al telefono con il presidente della Repubblica. Napolitano è preoccupato e non fa nulla per nasconderlo. Bersani ripete al presidente quanto detto a Mario Monti soltanto la sera precedente: «Noi ribadiamo la nostra lealtà al governo fino alla conclusione della legislatura, ma è evidente che questa partita non è nelle nostre mani. È il Pdl che deve chiarire cosa intende fare».
Inizia così una giornata vorticosa di incontri e telefonate tra il Colle, Palazzo Chigi e il Nazareno. Bersani convoca un vertice nella sede del partito con i due capigruppo di Camera e Senato e il vicepresidente Enrico Letta per fare il punto. La situazione, dirà poco dopo il segretario, «la riteniamo seria, molto seria, grave. Il Pdl sta trasferendo i suoi problemi sul sistema politico». Definisce «irresponsabile» l’atteggiamento del Pdl in Senato, la sua decisione di astenersi rispetto ai provvedimenti da votare e se è vero che sul sostegno del Pd non ci sono dubbi, il segretario aggiunge anche che i democratici non hanno «paura del voto». I sondaggi danno un Pd a livelli mai raggiunti prima, neanche con Veltroni, oltre il 36%, è evidente che non è questo a preoccupare il Pd, soprattutto se dovesse restare in vigore il Porcellum. È tutto il resto, semmai, a non far stare tranquilli: è la situazione che il prossimo governo si troverebbe a dover affrontare se la crisi politica dovesse sfociare oggi in un voto anticipato e con la sola legge di stabilità approvata. Dalle riforme sui costi della politica, al riassetto delle Province in giù.
Ma il timore di Bersani, di cui ha parlato a lungo sia con i suoi capigruppo sia con il faccia a faccia di ieri sera con Pier Ferdinando, è che Berlusconi cerchi di tirarla per le lunghe sfruttando le prossime settimane per fare campagna elettorale e mettere sotto scacco il governo in occasione di ogni singolo voto. Insomma, per dirla come l’hanno esplicitata ieri diversi deputati, «leali sì, fessi no».
MONTI E IL QUIRINALE
Adesso la «pratica» non può che essere nelle mani del Capo dello Stato che ieri ha detto chiaramente che non si può mandare tutto a picco.
I democratici chiedono anche a Palazzo Chigi di verificare la reale consistenza della sua maggioranza perché «non si può dare all’esterno l’idea di un Paese che manca di solidità. Tutti vedono i problemi del Paese e l’esigenza di dare uno sviluppo ordinato alla situazione». Siamo gente seria, ha ripetuto ieri Bersani, ma essere seri non vuol dire assistere passivamente al gioco allo sfascio che l’ex premier sta preparando. Un primo segnale da parte del governo è arrivato con la decisione di andare avanti sul dl sulla incandidabilità dei parlamentari: Monti non accetta ultimatum dal Pdl neanche se quel provvedimento tocca più di un nervo scoperto di Berlusconi e potrebbe spingerlo ad alzare la posta.
Monti sa che non tutti nel Pdl seguiranno il Cavaliere, i primi segnali arrivano a partire da quella presa netta di distanza dall’astensione di nomi «pesanti» di alcuni parlamentari, come Franco Frattini. Non a caso ieri il Pd e i centristi si sono dati la mission di capire quanti sono i pidiellini che continueranno a garantire l’appoggio al governo e quante possibilità ci sono che la falla aperta dai dissidenti diventi una voragine.
IL FACCIA A FACCIA
Sull’incontro fra i due leader, Bersani e Casini, invece, grande riserbo. Si sono visti dopo aver dato il loro voto di fiducia e dopo un primo scambio di battute a braccetto, in Transatlantico. Lontano dai giornalisti, lontani i collaboratori più stretti, cellulari staccati, quaranta minuti a ragionare sugli scenari che da qui ai prossimi giorni potrebbero aprirsi. Berlusconi il convitato di pietra. L’unica cosa trapelata è stata la comune preoccupazione per la crisi che potrebbe avere pesanti ripercussioni sui conti dello Stato e sull’immagine del Paese in Europa perché un conto è arrivare a fine legislatura in modo «ordinato» e quindi avviare la campagna elettorale, un conto è far precipitare gli eventi. Altro elemento di allarme sono i toni che potrebbero contraddistinguere una nuova discesa in campo del Cavaliere: dal populismo alla deriva antieuropeista, all’attacco alle politiche del governo proprio nel mezzo della discussione della legge di stabilità, del dl sviluppo, del riassetto delle Province. Lo spettro del baratro e della sfiducia dei mercati, oltre che dell’Europa: è stato questo l’argomento al centro dell’incontro fra i due leader, ancora fresco il balzo verso l’alto dello spread non appena in Senato è andato in scena l’ultimo atto della tragedia Pdl. Il timore è che Berlusconi, che a questo punto si giochi il tutto per tutto e riaccenda un clima da scontro totale durante questa coda di legislatura bloccando di fatto l’azione di governo.

il Fatto 7.12.12
Il Pd “leale”, ma pronto al voto
Bersani assicura la propria fedeltà al governo, ma chiarisce: “Le elezioni non ci fanno paura”
di Wanda Marra


Ormai questa legislatura se ne può andare definitivamente a quel paese”. A dar voce al pensiero di molti nel Pd è un onesto deputato, mentre nell’Aula di Montecitorio è in corso la chiama per la fiducia al dl enti locali. Sono le 18 e la politica italiana precipita di nuovo nel caos. Nel Pd si moltiplicano le posizioni, le interpretazioni, gli scenari, con un unico comun denominatore: la coscienza che in realtà tutto si gioca in altri luoghi. A Palazzo Chigi, al Quirinale, nella testa di Silvio Berlusconi. I Democratici stavolta giocano di rimessa, tenendo fermi due punti: “responsabilmente” (la parola d’ordine di Bersani dall’inizio del sostegno al governo) saranno “leali” a Monti fino a fine legislatura; ma “non hanno paura delle elezioni” (la puntualizzazione è del segretario).
L’INTERVENTO in Aula del capogruppo, Dario Franceschini tra gli applausi è il vero indicatore del percorso. Quello del Pdl è stato “un gesto insieme incomprensibile e irresponsabile”. Mai nella storia del Parlamento, dice, “è capitato vedere un grande partito togliere la fiducia al governo senza nessuna spiegazione. Forse è arrivato un ordine nella notte”. Poi, due passaggi che negando accusano: “Non voglio credere che la motivazione di questo passaggio sia bloccare il dl sulle incandidabilità. E non voglio credere che sia per tenersi la facile nomina delle candidature con il Porcellum”. Dai banchi avversari partono le urla, le ironie su a chi convenga votare con la legge vigente. Ma Franceschini vuole essere chiaro: “State scaricando i vostri problemi interni sugli italiani. Noi vorremmo portare a termine la legislatura a scadenza naturale, mostrando al mondo un Paese responsabile, con un Parlamento che completa l'agenda parlamentare”. Ed ecco la chiave: “È irresponsabile mandare in fumo tutto questo e noi vorremmo chiarire di chi è la responsabilita”. Come dire, è prioritario in questa fase stabilire le colpe. Bersani arriva in Aula mentre il capogruppo comincia a parlare. Si siede in uno dei banchi più vicini, provvisoriamente, allunga le gambe, allarga le braccia. Un momento di rilassamento. Ma appena il collega di partito finisce il suo intervento si alza e raggiunge il suo posto vicino a lui. Tra gli applausi di tutti i deputati Pd in piedi. “Complimenti a Pier Luigi Bersani per aver vinto le primarie”, dice Fabrizio Cicchitto all’inizio del suo intervento. La soddisfazione di Bersani è palpabile: se è il Pdl a mandare tutto in fumo, i Democratici hanno comunque tutto da guadagnare. Spread a parte. Non a caso il “la” alla giornata lo dà la capogruppo a Palazzo Madama, Anna Finocchiaro, in mattinata, che dopo l’astensione del Pdl in Senato dice: “Monti vada al Colle”. In gergo politico salire al Colle in alcune circostanze significa rimettere il mandato. In questo caso la Finocchiaro voleva dire che sta a Napolitano trovare una soluzione. Ma Franceschini lo deve spiegare: “Noi rimettiamo ogni decisione nelle sue mani”. Bersani è andato di persona ad assicurare a Monti il sostegno fino a fine legislatura, ma di certo non ci sta ad approvare da solo o con l’Udc una legge di stabilità impopolare, mentre gli altri fanno campagna elettorale contro il governo. E dunque, o Napolitano trova un modo per garantirli o meglio votare. Difficile essere garantiti in una situazione in cui il Pdl in mano agli umori di Berlusconi.
DICE lo stesso Bersani, dopo gli incontri con Finocchiaro e Franceschini: “Siamo responsabili, ma non abbiamo paura del voto”. Andare a votare presto, con il Porcellum che li favorisce e il consenso guadagnato nei sondaggi grazie alle primarie non sarebbe certo una tragedia. E per molti parlamentari non doversi misurare con le primarie per le liste è una priorità.
Su questa linea si muove Bersani vedendo Casini in serata. Un incontro di 45 minuti che soprattutto ristabilisce un asse tra i due. Il leader Udc parlando in Aula si appella più volte ai moderati ragionevoli del Pdl. Per i centristi, visto che il campo moderato è tutt’altro che organizzato, andare a votare presto sarebbe un problema. I due si sono messi d’accordo sul sostegno a Monti ma Bersani ha anche confermato l’approccio “sereno” rispetto alla prospettiva di un voto anticipato. E per dirla con Arturo Parisi “Un governo scaduto è un governo scadente”.

l’Unità 7.12.12
Anna Finocchiaro
«Non consentiremo che le loro risse travolgano tutto»
«Sulla legge elettorale è Berlusconi che fa saltare il tavolo ogni volta che si profila un accordo»
di Maria Zegarelli


ROMA «Non permetteremo che usino questo ultimo scorcio di legislatura per mettere in scena la fiera delle vanità provocando gravissimi danni al Paese». Anna Finocchiaro, capogruppo Pd al Senato, teme «il Vietnam» parlamentare nelle prossime settimane.
Presidente, Berlusconi vuole andare alla rottura?
«Noi prendiamo atto che il presidente del gruppo del Senato e contestualmente il suo collega alla Camera hanno espresso il passaggio del loro partito ad una posizione di astensione rispetto al governo, di fatto ricattandolo. A me sembra che il Pdl, alle prese con una rissa interna e l’incapacità di governarla, stia scaricando sul Paese la propria irresponsabilità. E di questo dovrà rispondere agli italiani. Non ci sono tensioni tra i partiti. Le tensioni sono nel e del Pdl. Sono loro che minacciano il governo».
Alfano sale al Colle, Berlusconi si candida. Praticamente un nuovo scenario che però già conosciamo.
«È giusto che Alfano salga al Colle a spiegare al Presidente la posizione del Pdl. Noi vogliamo chiarezza sul sostegno al governo da parte del Cavaliere e del suo partito. E Berlusconi scenda pure in campo se vuole. Noi non abbiamo paura, sono certa che il Paese non vuole tornare indietro. Quello che non possiamo accettare oggi è che di fronte alle incertezze di un uomo si metta a rischio la stabilità e la credibilità dell’Italia».
Questa pre-crisi ha già fatto fibrillare mercati e spread. Pensa che il Paese possa permettersi settimane di incertezza? «Oltre a questo che è un rischio reale ce n’è un altro: che il Pdl, dove già si registrano dei distinguo, sia tentato di avviare una campagna elettorale demagogica e populista per cercare di far dimenticare che sono stati loro a portarci sull’orlo del baratro. Loro sono stati la malattia, non possono essere la medicina per il Paese».
Monti dovrebbe salire al Quirinale?
e una maggioranza perde un pezzo così importante in Parlamento, non nel Paese dove ormai è minoranza, è evidente che c’è un problema politico che deve essere consegnato nelle mani del Capo dello Stato».
Napolitano però è stato chiaro: ci sono la legge di stabilità e altri provvedimenti importanti da votare. Crede che si arriverà a fine legislatura?
«Sta avvenendo tutto questo a poche settimane dalle elezioni, che dovrebbero tenersi a marzo, e alla vigilia di scadenze importanti, come appunto la legge di stabilità. Il Pdl si sta comportando in maniera irresponsabile. Noi del Pd siamo qui e ribadiamo la nostra lealtà al governo fino alla conclusione della legislatura. Voteremo i provvedimenti senza rinunciare ad apportare quei miglioramenti che riteniamo necessari, come ha ribadito il segretario Bersani durante il suo incontro con Monti. Quello che non permetteremo è di trasformare in Vietnam queste ultime settimane».
Le sembra così improbabile il voto anticipato?
«È il Capo dello Stato a dover stabilire se ci sono le condizioni per andare avanti o per sciogliere le Camere. Noi crediamo che non sia utile al Paese chiudere ora la legislatura, ma aggiungiamo anche che siamo l’unico partito, e sottolineo la parola partito, a non aver paura del voto. Siamo una forza politica apprezzata dal Paese, così dicono i sondaggi, veniamo da una grande prova di democrazia, le primarie, a cui il Paese ha risposto con una larghissima partecipazione e abbiamo un programma di governo che prevede che alle misure di rigore necessarie vengano affiancati interventi massicci per l’equità e strumenti di crescita e sviluppo».
Non crede che il Pdl sia ormai sceso in campagna elettorale e quindi sarà impossibile per Monti portare avanti l’azione di governo?
«Di questa irresponsabilità prima che al Parlamento dovranno risponderne al Paese. Noi non consentiremo al Pdl di far “sopravvivere” il governo e contemporaneamente di sparargli addosso mettendo in atto una campagna elettorale populista, mistificatoria e antieuropea per risalire la china della rovinosa caduta che hanno registrato in questi mesi».
Frattini e altri nomi importanti del Pdl sono ormai con un piede fuori. Ci sarà l’effetto domino o si ricompatteranno in vista delle liste elettorali?
«Il Pdl è ormai una barca con una falla in piena burrasca. Il metodo che spesso adoperano è quello di rovesciare il tavolo nei momenti di difficoltà. Immagino che ci siano personalità politiche che non intendono assecondare scelte dettate dall’interesse di pochi e non di tutti».
In questa situazione come è pensabile che si possa arrivare ad un’intesa sulla legge elettorale?
«Se domani il Pdl rientrasse nei ranghi e si dicesse d’accordo ad approvare i provvedimenti importanti e riaprire il dialogo sulla legge elettorale, io sarei di nuovo pronta al confronto perché una nuova legge elettorale è necessaria».
Stando così le cose non conviene anche al Pd andare al voto con il Porcellum? «Noi non ragioniamo per convenienza. Abbiamo provato a cambiare il Porcellum sin dal primo momento perché crediamo che gli elettori debbano scegliere gli eletti e che il Parlamento non possa essere composto da nominati. Ma sono loro a far saltare il tavolo ogni volta che si profila un accordo».

Corriere 7.12.12
il mondo ci guarda
di Massimo Franco


Giorgio Napolitano cerca di declassare quanto sta accadendo a tensioni pre elettorali. Il nervosismo dei partiti, e in particolare del Pdl, è evidente. Ma il capo dello Stato lo deve fare anche perché sa quanta sensibilità esista, soprattutto all'estero, rispetto alla tenuta del governo di Mario Monti. Vuole smentire l'immagine di un'Italia prossima al baratro, che la deriva populista di Silvio Berlusconi punta strumentalmente ad accreditare. Il tentativo del Quirinale è di impedire che un centrodestra sull'orlo del collasso scarichi le sue tensioni e la sua incertezza su Palazzo Chigi.
Significherebbe esporre di nuovo il Paese agli attacchi della speculazione finanziaria, e annullare il poco o il tanto di positivo fatto in dodici mesi. Per questo Napolitano è intenzionato ad arginare l'attacco del centrodestra contro il governo. L'astensione decisa ieri, e minacciata per il futuro prossimo fino al punto da provocare, pare di capire, una crisi, spingerebbe la situazione verso il precipizio di un voto molto anticipato. E dunque renderebbe ancora più convulso un finale di legislatura già complicato dall'incrocio fra elezioni regionali e politiche, e fine del settennato alla presidenza della Repubblica.
Berlusconi rischia di essere percepito come il cultore involontario del «tanto peggio tanto meglio». Evocando un fallimento delle istituzioni, che non c'è, può finire per produrlo davvero. Il dissenso di alcuni suoi parlamentari che ieri hanno votato comunque la fiducia a Monti, è solo una piccola eco delle profonde resistenze emerse negli ultimi mesi nel Pdl su una ricandidatura del Cavaliere. A oggi non si vedono nel partito di Angelino Alfano né la forza né il coraggio per ostacolare un progetto di rivincita almeno apparentemente velleitario; ma soprattutto perseguito senza tenere conto degli interessi dell'Italia.
L'ex premier sembra dimenticare che in questi mesi il Paese è faticosamente risalito da un baratro nel quale stava scivolando nella fase finale del suo governo. E non analizza le possibili conseguenze di una sua riapparizione come candidato alla presidenza del Consiglio. È difficile ignorare che ieri lo spread sia cresciuto non appena dal Senato sono arrivate le prime bordate del Pdl contro Monti: come se la fiducia degli investitori nei titoli italiani fosse di nuovo in bilico. Non ci si può non domandare che cosa succederà se e quando la ricandidatura sarà ufficializzata. Va valutato il pericolo di rimettere in discussione la credibilità ritrovata dell'Italia.
Anche perché, per il modo in cui critica Palazzo Chigi, Berlusconi lascia indovinare una campagna elettorale da picconatore dell'Europa «cattiva», della moneta unica «da ripensare», dei sacrifici «inutili». Sarebbe un trionfo di luoghi comuni «popolari» che alla fine, però, porterebbero a una rivincita non sua ma della realtà: pagata da tutti e amarissima anche per lui.

il Fatto 7.12.12
Kamikaze allo sbaraglio
di Antonio Padellaro


Primo. Berlusconi si ricandida e subito la politica precipita nel caos. Come un kamikaze votato alla distruzione di tutto e tutti sperando di salvare se stesso l’ex premier piomba sul governo Monti, gli toglie di fatto la fiducia astenendosi sul fondamentale decreto sviluppo dopo che il vice-kamikaze Cicchitto ha ricoperto di contumelie il governo tecnico e insultato il ministro Passera (“povero untorello”) reo di aver sussurato in tv che il ritorno del Caimano “non è un bene per il Paese”.
Secondo. Per carità, i Professori ne hanno combinate di cotte e di crude tirando il collo a un’economia già collassata, accanendosi contro i pensionati, tagliando a colpi di accetta la sanità pubblica, creando masse crescenti di disoccupati. Ma è del tutto irresponsabile far cadere di colpo un governo che commissariando l’Italia per conto dell’Europa si è comunque ritagliato una certa credibilità internazionale. Infatti, pochi minuti dopo la disastrosa incursione berlusconiana la Borsa ha ceduto e lo spread è tornato a crescere. Ecco i soliti italiani inaffidabili, ha commentato la stampa internazionale, Economist in testa.
Terzo. Il presidente Napolitano tenta di impedire che tutto “vada a picco”. Ma c’è poco da fare se a tenere il Parlamento sotto ricatto è l’esercito di disperati pdl che se si votasse domani nel migliore dei casi si dimezzerebbe. Disperati allo sbaraglio che in queste ore si prostrano davanti al padrone di Arcore sperando di essere ricandidati. Oggi al Quirinale salirà un Alfano sempre più terrorizzato dal ritorno del capo (vieppiù infuriato dal decreto sui pregiudicati incandidabili che potrebbe farlo decadere dal mandato). Sarà difficile che smentisca la frase attribuita a Previti: “È uno che se gli mozzi un orecchio ti porge subito l’altro”. Quarto. Nel partito kamikaze fanno la voce grossa gli ex An come La Russa e Gasparri speranzosi di raccogliere nel fuoco della campagna elettorale il pezzo più qualunquista della protesta antimontiana. Sembra certo che si voterà tra febbraio e marzo. Con l’infame Porcellum dei candidati nominati dai vertici di partito. Così i tempi per le primarie rischiano di essere troppo risicati. Non è detto che per Bersani e soci sia una disgrazia. Certamente sì per i poveri elettori del centrosinistra, illusi da due domeniche di democrazia dal basso. Speriamo di essere smentiti

il Fatto 7.12.12
Lo psicanalista Recalcati
Mollare vuol dire affrontare la morte


Nietzsche afferma che la saggezza più grande per un uomo è quella di saper uscire di scena al momento giusto. Questa massima non sembra ispirare il nostro ex Presidente del Consiglio. Nel caso di Berlusconi essere sulla scena sembra una questione di vita o di morte”. Massimo Recalcati, psicanalista lacaniano, fotografa le ragioni psicologiche che stanno dietro ai comportamenti di Berlusconi (di cui si è occupato in molti dei suoi saggi), alle tante annunciate uscite di scena e altrettanti ritorni in campo.
Professor Recalcati, perché Berlusconi non molla?
Uscire di scena, saper tramontare, è la saggezza più grande perché rivela la capacità di non credere troppo al proprio Io, a quell'Io che crediamo di essere. Sappiamo che le vecchie glorie del passato fanno fatica a scegliere la via del tramonto restando aggrappate disperatamente ai sembianti del loro antico prestigio.
Ci vuole una potenza nevrotica enorme per tenere in ostaggio ancora una volta un intero paese.
Per Berlusconi è questione di vita o di morte. Senza l’Io illuminato dai riflettori e dai sondaggi di popolarità sarebbe costretto a confrontarsi con il senso dei propri limiti e della propria morte. Per questa ragione il palcoscenico televisivo non era più sufficiente e doveva necessariamente dilatarsi nell'arena politica. Certo si trattava di difendere i proprio interessi economici. Ma non solo. Si trattava di difendere anche la propria immagine fallica.
Oggi, cosa sta cercando di salvare rimanendo sulla scena?
Deve salvare la propria potenza fallica dal declino alla quale essa è fatalmente consegnata. Il fantasma berlusconiano incrocia quello del marchese De Sade: rendere il godimento eterno, sottratto allo scorrere del tempo e alla morte. Da questo punto di vista l'impossibilità di congedarsi definitivamente dalla sua carriera politica - come invece fece a suo tempo Prodi - non segnala tanto l'attaccamento al potere, ma l'impossibilità di esistere senza occupare la scena del mondo come protagonista. La psicoanalisi chiama questo angoscia di castrazione.
Ma perché negli ultimi mesi ha cambiato idea e posizione prima di tutto sul suo futuro tante volte?
È difficile rispondere a questo. Quel che è certo è che quest’uomo non sa accettare la dimensione finita dell’esperienza, la dimensione del lutto. Questa incertezza è dovuta al fatto che pur sapendo che il suo tempo è politicamente esaurito, da una parte percepisce, dall’altra lo nega.
Cosa vuol dire questo per l’Italia?
Deleuze diceva che non c’è niente di peggio che scoprirsi prigionieri del sogno di un altro. È quello che rischiano gli italiani con una nuova discesa in campo di Silvio Berlusconi.
Ma come mai ha ancora tanta forza, che nessuno, a cominciare dal suo partito, è in grado di fermarlo?
Come padre titanico non ha fatto crescere figli. Piuttosto li mangia: basta pensare al povero Alfano.
(wa.ma.)

Corriere 7.12.12
L'altra ribellione anti-premier «Sulla Palestina scelta sbagliata»


«Intendiamo esprimere viva preoccupazione e stupore per la decisione italiana di votare a favore della dichiarazione unilaterale di uno Stato palestinese all'Assemblea generale dell'Onu del 29 novembre scorso». È il passaggio di una lettera aperta al governo firmata da 87 deputati del Pdl (primo firmatario Fabrizio Cicchitto) diffusa nel giorno in cui il partito non ha votato la fiducia in Parlamento. «Uno fra i motivi centrali che suscitano il nostro disappunto — si legge — è l'atteggiamento di Palazzo Chigi nei confronti del Parlamento nel prendere tale decisione: il Parlamento non è stato consultato nel compiere una scelta che ha cambiato radicalmente la linea della nostra politica estera. Infatti, nel corso di questa legislatura, per mezzo di molti atti pubblici, il nostro Paese ha dimostrato profonda amicizia e sostegno nei confronti dello Stato d'Israele».

Repubblica 7.12.12
E la metà dei sostenitori “in sonno” avrebbe voluto le primarie
Il Cavaliere e la destra delusa solo per un ex elettore su cinque il suo ritorno fa bene al Pdl
di Roberto Biorcio e Fabio Bordignon


IL “risveglio” del popolo di centro-sinistra ha cambiato, nell’arco di pochi giorni, il clima politico e lo scenario elettorale. Gli equilibri in vista delle prossime politiche appaiono, oggi, largamente favorevoli alla coalizione guidata da Bersani, ma nel campo del centro-destra rimane un bacino potenziale di elettori “in sonno”.
Le primarie del centro-sinistra hanno galvanizzato e ri-attivato una parte consistente degli elettori delusi, che fino a poche settimane fa si rifugiavano nella zona grigia dell’astensione. Diminuisce, in generale, il numero di persone che non dichiarano le proprie intenzioni di voto: oggi al 30%, contro il 46% di settembre. Tra queste la quota più consistente è di elettori del Pdl. L’ennesima ri-discesa in campo di Berlusconi e la scelta di mettere in discussione il sostegno al governo Monti rispondono a una doppia necessità: frenare l’ascesa del Pd, riportando il PdL (o una nuova “cosa di destra”) al centro della scena politica; tentare di mobilitare questa parte di elettorato incerto. Essa si scontra, tuttavia, con una serie di difficoltà: anzitutto, con la presenza di divisioni che rivelano l’esistenza di (almeno) due diverse “destre”.
La divisione più evidente contrappone gli elettori che ancora destinano la propria preferenza al Pdl agli ex-elettori oggi reticenti o incerti. Nella prima componente, il potenziale di attrazione esercitato da Berlusconi è ancora elevato: il 67% chiede esplicitamente il ritorno del Cavaliere, e una quota ancora più elevata sarebbe
favorevole a trovare un “nuovo Berlusconi” (73%). Quasi uno su due (44%), inoltre, lo preferisce come candidato premier, mentre il 36% sceglie Alfano. Chi invece aveva votato Pdl nel 2008, e oggi si dice incerto, appare più “freddo” sull’ipotesi di ritorno al 1994 o al 2007, con una nuova discesa in campo o un nuovo predellino: solo il 20% considera positiva la candidatura dell’uomo di Arcore, un terzo chiede di rifondare Forza Italia. Soprattutto, oltre la metà indica le primarie come strategia privilegiata.
La frattura tra le due destre si manifesta anche nelle posizioni rispetto al governo Monti e sulle alleanze. Tra gli elettori del Pdl, pochi giudicano positivamente l’esecutivo tecnico: il 26%, contro il 37% degli ex-elettori. Le divisioni in materia di alleanze sono molto marcate: l’elettorato del Pdl è per metà favorevole a una coalizione con i partiti di centro (52%), mentre una quota analoga (53%) approverebbe un patto con la Lega.
Berlusconi sembra dunque intenzionato a ricompattare almeno una parte degli elettori di centro- destra, utilizzando la propria “riserva” di appeal personale, combinandola con l’evocazione di una nuova “minaccia comunista” e la critica alle politiche del governo Monti. Questa strategia può produrre un parziale recupero del centro-destra e una ribipolarizzazione del quadro politico (con un ridimensionamento delle “terze” forze). Il progetto si scontra, tuttavia, con le domande di cambiamento presenti in ampi settori dell’elettorato di centro-destra, difficili da interpretare e gestire per chi ha caratterizzato un’intera “era” politica.

l’Unità 7.12.12
Primarie, tre consigli al Pd per conservare l’unità
di Giorgio Merlo


LE PRIMARIE PER SCEGLIERE IL CANDIDATO A PREMIER DEL CENTRO SINISTRA SONO STATE INDUBBIAMENTE UN SUCCESSO. Partecipazione popolare significativa, confronto politico ricco e articolato e mobilitazione organizzativa straordinaria. Ora, però, si tratta di capitalizzare questo patrimonio senza disperderlo in polemiche che possono presentarsi all'orizzonte. In sostanza, l'unità politica del Pd è la condizione politica decisiva ed indispensabile per preservare questo patrimonio di credibilità e di trasparenza ottenuto sino ad oggi. E questo obiettivo lo si deve pretendere almeno su 3 fronti.
Innanzitutto va bandito alla radice ogni forma di «fuoco amico». Gli attacchi sconsiderati contro singoli esponenti vanno sospesi e archiviati definitivamente. Del resto, non è più tollerabile assistere a una sorta di semi insulti quotidiani indirizzati contro singoli, nonché autorevoli, esponenti del gruppo dirigente del Pd. Passato o presente che sia. Come diventa sempre più imbarazzante assistere a tentativi di delegittimare politicamente singole storie e culture politiche attraverso la demolizione delle persone che, con maggior autorevolezza e prestigio personale, le incarnano. Un brutto gioco che deve finire. Spero, credo, che Bersani non tolleri questa degenerazione che rischia di ipotecare la stessa unità politica del Pd.
In secondo luogo la strategia politica del partito democratico. È indubbio che ormai il profilo politico, culturale e programmatico del Pd è sufficientemente condiviso. Ma sulla prospettiva politica non ci possono essere divergenze sostanziali. Se il Pd percorre la strada di un centro sinistra riformista e di governo, è chiaro che non sono più ammesse coalizioni raccogliticce e generiche o alleanze estemporanee e casuali. Sarebbe come condannarci anzitempo all'ingovernabilità e alla confusione programmatica. Del resto, il centro sinistra ha già provato nel tempo cosa significa far convivere nella stessa coalizione tanto la maggioranza quanto l'opposizione. Una situazione francamente insostenibile che rischierebbe di gettare alle ortiche una promettente stagione di governo riformista. Sotto questo profilo, l'alleanza tra i progressisti e democratici e il mondo moderato e centrista quasi si impone. Al di là del giudizio e del gradimento del singolo esponente o della singola forza politica.
Una collaborazione che si impone anche perché nella ormai lunga storia democratica del nostro Paese le migliori stagioni riformiste sono sempre coincise con il centro sinistra al governo. E cioè, con la fattiva e feconda collaborazione tra il centro riformista, cattolico o laico che fosse, e la sinistra riformista e di governo. E anche questa volta non si può uscire da questo solco.
In ultimo, la selezione della classe dirigente del Pd. Ripeto, le recenti primarie per la scelta del futuro Premier sono state positive ed incoraggianti. Ora, però, si tratta di definire e costruire la futura rappresentanza parlamentare del Pd. Certo, tutti siamo per una nuova legge elettorale e per superare definitivamente il porcellum. Ma, nella malaugurata ipotesi che non si modifichi l'attuale legge elettorale voluta e votata dal centro destra, cosa facciamo? Molti dicono: facciamo le primarie! Benissimo. Come? Con le preferenze? Singole? Multiple? E, soprattutto, chi vota per scegliere con le preferenze i futuri parlamentari di un partito, cioè il Pd? Ovviamente, è persin facile dedurlo, tutti i cittadini italiani. Almeno quelli che lo ritengono opportuno e necessario. Ora, premesso che non ritengo affatto irrealistica la scelta dei futuri parlamentari con lo strumento delle preferenze quando però sono disciplinate per legge sarebbe singolare se la scelta dei candidati di un partito fosse affidata indistintamente a tutti i cittadini, di qualqunque orientamento politico siano. E cioé i parlamentari di un partito possono essere scelti da chiunque? Con questo non voglio affatto legittimare la scelta centralistica delle candidature ma semplicemente richiamare l'attenzione sul rischio di un uso disinvolto e demagogico delle regole che si dovrebbero varare.
Ho voluto accennare a questo tema perché non vorrei com'è evidente a tutti che attorno a questo argomento si bruciasse rapidamente quel potenziale di credibilità e di unità che il Pd ha riscosso alle recenti primarie. A volte, seppur inconsapevolmente, a rincorrere troppo le ipotesi irrealizzabili si corre il serio rischio di bruciarsi. E proprio su questo tema, e cioè la selezione della futura classe dirigente, è bene conservare una forte unità interna e una vera convergenza di intenti, senza fughe in avanti e ridicole primogeniture. Ne va della credibilità dell'intero Partito democratico.

Repubblica 7.12.12
Il potere delle primarie Pd al 38%, Grillo in calo
di Ilvo Diamanti


LE PRIMARIE si sono concluse domenica scorsa, ma i loro effetti proseguono e si riproducono.
La competizione del centrosinistra coinvolge in modo violento tutti i soggetti politici, come emerge dal sondaggio dell’Atlante Politico di Demos
Le primarie scuotono la politica Pd al 38%, Grillo in frenata calano drasticamente gli indecisi
E per la prima volta Renzi e Bersani superano Monti

COINVOLGONO in modo diverso – ma egualmente violento - tutti i principali soggetti politici. Partiti, leader, lo stesso governo e il premier. Con effetti difficili da valutare. Come emerge dal sondaggio dell’Atlante Politico, condotto da Demos negli ultimi giorni.
1.Le primarie. Hanno accentuato tendenze già evidenti sul piano politico ed elettorale. Il PD, anzitutto, è rimbalzato ancor più in alto. Al punto che, nel sondaggio di Demos, avvicina il 38%. Il massimo raggiunto dalla fondazione, nel 2007. A livello elettorale ma anche nei sondaggi. Prima dell’estate era scivolato al 25%. Dopo l’estate è risalito in modo prepotente. Spinto, trainato dalle primarie.
Non a caso i duellanti, Bersani e Renzi, oggi svettano, nella graduatoria dei leader. Entrambi cresciuti di circa 20 punti percentuali.
Renzi, peraltro, è in testa, con oltre il 60%, in quanto intercetta consensi anche a centrodestra e soprattutto al centro. Ma Bersani, per la prima volta da quando è segretario del PD, supera il 50% dei consensi.
2.L’avanzata del PD, peraltro, avviene mentre gli altri partiti ripiegano. Nel centrosinistra, infatti, si assiste al declino rapido dell’IdV, i cui consensi crollano, insieme a quelli di Di Pietro. Anche SEL arretra, seppure di poco. Mentre la fiducia in Vendola cresce di qualche punto. Anche così si spiega il largo sostegno espresso dagli elettori di centrosinistra all’alleanza con SEL. È come se SEL e Vendola apparissero, rispettivamente, la componente e il leader della sinistra PD. Soprattutto dopo le primarie.
3. Nel centrodestra, il PdL staziona, per inerzia, intorno al 18 %. Ma appare diviso, lacerato all’interno. Tra i “fedeli” a Berlusconi, che sognano una nuova Forza Italia. E quelli che, invece, vorrebbero andare oltre Berlusconi. Scegliere il leader attraverso le primarie, in-seguendo l’esempio del PD.
Oltre metà degli elettori del PdL, peraltro, vorrebbe riproporre l’alleanza con la Lega, ma anche con i partiti di Centro. Per non rischiare l’isolamento. Per non precipitare nello “sconfittismo”. La condizione, psicologica, di chi si sente sconfitto prima del voto. E in questo modo prepara la propria sconfitta.
4. La Lega, d’altronde, non sembra in grado di “correre da sola”. Continua, infatti, a galleggiare intorno al 4%. Come nel 2006, peraltro. Quando, però, insieme al PdL, aveva quasi pareggiato la sfida elettorale con l’Unione di Prodi.
5. Neppure i soggetti politici di centro sembrano in grado di allargare il loro spazio, che, anzi, si riduce. Assorbito, in parte, dal PD. In particolare da Renzi. I consensi di Casini, Fini, dello stesso Montezemolo non crescono. Anzi, si riducono, sul piano personale oltre che di partito.
6. Infine, il M5S, ispirato da Grillo, mantiene un peso elettorale notevole, intorno al 15%. Ma pare aver frenato la sua avanzata. Quasi che la mobilitazione politica degli ultimi mesi, prodotta dalle primarie, ne avesse circoscritto le ragioni, ma anche gli spazi di crescita.
7. È interessante – e significativo – osservare come l’area grigia degli elettori incerti se e per chi votare, in questa occasione, si sia ridotta sensibilmente. In due mesi, dal 45% è scesa al 30%. I “delusi” di centrosinistra se ne sono staccati. Coinvolti e sollecitati dalla mobilitazione di questa fase.
8. Il successo delle primarie, tuttavia, ha scosso anche le basi del governo. Secondo il sondaggio di Demos, infatti, il gradimento verso il suo operato, da settembre, è sceso di quasi 10 punti. Attualmente è intorno al 44%. Come nella scorsa primavera. Anche il giudizio su Monti appare meno positivo che in passato. Coloro che ne valutano positivamente l’operato sono il 47%: 8 punti meno dello scorso settembre. Per la prima volta da quando è divenuto premier, dunque, Monti si vede superato da due “politici”: Renzi e Bersani. A scanso di equivoci, occorre chiarire: Monti e i tecnici dispongono, comunque, di un grado di considerazione fra i più elevati degli ultimi 10 anni. Tanto più se si pensa alle difficoltà del momento. Oltre al fatto che Monti e i tecnici sono stati chiamati a governare proprio per condurre politiche “impopolari”. Tuttavia, non è un caso che il calo di fiducia nei confronti del governo avvenga proprio all’indomani delle primarie. D’altronde, secondo il 44% degli elettori (anche per la maggioranza di quelli del Pd), proprio le primarie avrebbero indebolito il governo Monti. Mentre solo il 23% ritiene, al contrario, che l’abbiano rafforzato.
9. Naturalmente, le primarie non hanno sanzionato Monti. Anche se il dibattito di questi mesi è stato scandito da critiche accese al suo operato. Tuttavia, le primarie hanno sicuramente “rafforzato” l’offerta politica del PD. Hanno garantito legittimità alla sua leadership. Rendendo, di conseguenza, più credibile il proposito espresso da Bersani - ma anche da Renzi – di fare il premier, dopo le prossime elezioni, in caso di vittoria. Senza tutele “tecniche” e presidenziali. Non è un caso che la quota di quanti auspicano un governo della coalizione che ha vinto le elezioni, nel sondaggio Demos, sia salita oltre il 55%. Quasi 20 punti più di coloro che continuano a preferire un governo tecnico, sostenuto da una “grossa” coalizione.
Le primarie hanno dunque scosso l’intero sistema politico italiano. Hanno dato evidenza e spazio alla domanda di politica diffusa, latente e frustrata in tanta parte della società. E hanno aperto direttamente, senza mediazioni, la campagna elettorale. Perché c’è una coalizione che dispone di un candidato eletto con la partecipazione e il voto di più di tre milioni di elettori. Ciò ha già prodotto sussulti evidenti, che hanno scosso alla base la maggioranza del governo Monti. Come si è visto ieri, al Parlamento. Per iniziativa del centrodestra, lacerato al suo interno.
Il fatto è che oggi, anzi, da domenica scorsa, la competizione elettorale si è aperta. Per il PdL, in crisi di consensi e di identità, vedersi “doppiato” dal PD nelle stime elettorali calcolate dai sondaggi, diviene traumatico. Insostenibile. Così “l’interesse nazionale” passa in secondo piano. Sovrastato dall’interesse di partito.

Corriere 7.12.12
Fuori lista i condannati a oltre 2 anni
Il decreto sull'incandidabilità
Quasi tutti salvi Anche Dell'Utri


ROMA — Anche Marcello Dell'Utri sarà candidabile. Tra le maglie del provvedimento passano quasi tutti i parlamentari che avevano temuto di non poter ripresentarsi alle elezioni. Tra questi l'amico di Silvio Berlusconi, che ha condiviso successi e avventure politiche e giudiziarie. Dei diversi procedimenti subiti, incluso quello per concorso esterno in associazione mafiosa (la condanna in appello a 7 anni è stata annullata con rinvio in Cassazione), solo uno avrebbe potuto fermare una sua ricandidatura: la condanna definitiva a 2 anni e 3 mesi per false fatture e frode fiscale in Publitalia. Ma arrivò al termine di un patteggiamento, nel '99. Quindi non vale. A fugare ogni sospetto il ministro Severino chiarisce: «Chi decide di patteggiare deve essere messo nella possibilità di conoscere le conseguenze della sua scelta. Applicarla oggi ritornerebbe a carico dell'imputato in modo irrazionale». Anche Marcello De Angelis (Pdl) era e resta candidabile perché ha scontato la sua pena a 5 anni e 6 mesi per associazione sovversiva e banda armata nell'89. Tra i condannati in via definitiva si salva il pdl Aldo Brancher perché condannato solo a due anni per ricettazione e appropriazione indebita nello scandalo Antonveneta. Anche Salvatore Sciascia (Pdl) potrebbe essere candidato perché la condanna a 2 anni e sei mesi per aver corrotto alcuni ex colleghi della Finanza risale al 2001: troppo vecchia.
V.Pic.

il Fatto 7.12.12
Servizio pubblico
Lettera della vedova Agnese Borsellino: “Paolo vide Mancino e respirò aria di morte”
Agnese Borsellino: “Mancino spregiudicato”
“Quale ruolo rivestiva allora ministro dell’interno, quando il primo luglio del ’92 incontrò mio marito?”
“Tutto il mio sdegno per l’ex ministro” che per beghe personali non ha avuto scrupoli nel telefonare al Capo dello Stato. Cordero: “Sui nastri, la partita non è chiusa”
di Francesca Fagnani


Non ho il titolo né la competenza per commentare conflitti di attribuzioni sorti tra poteri dello Stato, ma sento di avere il diritto, forse anche il dovere di manifestare tutto il mio sdegno per un ex Ministro, Presidente del Senato e vice Presidente del Csm che a più riprese nel corso di indagini giudiziarie, che pure lo riguardavano, non ha avuto scrupoli nel telefonare alla più alta carica dello Stato, cui oggi io ribadisco tutta la mia stima, per mere beghe personali”.
Agnese, la moglie del giudice Paolo Borsellino, che ha fatto del silenzio la sua religione, ha deciso di parlare. “Una bomba, per chi saprà capirlo”, mi ha detto. In questi vent’anni senza suo marito ha fatto pochissime dichiarazioni, non ha frequentato le vuote passerelle delle commemorazioni di rito, né tantomeno i salotti buoni e chiacchierati di Palermo. É rimasta a casa, con i suoi figli e con le foto e i ricordi di Paolo. Ma non ha mai smesso di lottare per giungere ad una “verità vera”. E alle telecamere di Servizio Pubblico dice: “Non sorprende che l’attenzione dei media si sia riversata sul Quirinale, ma il protagonista di questa triste storia è solo il signor Mancino, abile a distrarre l’attenzione dalla sua persona e spregiudicato nel coinvolgere la Presidenza della Repubblica in una vicenda giudiziaria, da cui la più alta carica dello Stato doveva essere tenuta estranea. Oggi io, moglie di Paolo Borsellino, mi chiedo: chi era e quale ruolo rivestiva l’allora Ministro dell'Interno Nicola Mancino, quando il pomeriggio del primo luglio del '92 incontrò mio marito?
Perché Paolo rientrato la sera di quello stesso giorno da Roma, mi disse che aveva respirato aria di morte? ”.
Agnese chiede di rompere. E chi la conosce sa quanto sia granitica la sua riservatezza, quanto negli anni abbia pesato attentamente ogni singola parola che riguardasse la strage di via d'Amelio, per timore che il suo diritto alla verità e il dolore della sua famiglia venissero strumentalizzati. Eppure l’altra sera qualcosa è successo, perché la signora Borsellino ha accettato di parlarmi, in un momento difficilissimo della sua vita, con un messaggio che lei stessa ha definito “una bomba, per chi saprà capirlo”. Mi chiede però di non riprendere nulla, né il volto, né le mani, né il foglio e neppure un centimetro della sua casa. Desidera rispettare fino in fondo la scelta di essere una presenza assenza. Così vorrebbe Paolo.
Queste le sue parole, dette con voce ferma e occhi bagnati.

il Fatto 7.12.12
Ok alla corte internazionale ma niente reato di tortura
Nell’ordinamento italiano continua a non essere previsto perché potrebbe mettere nei guai le forze di sicurezza
di Gaia Giuliani


È nata in Italia, approvata in Italia (e dall'Italia), ma fino a oggi il nostro paese non l'aveva ancora riconosciuta, nonostante dal 1999 abbia versato per il suo funzionamento circa 32 milioni di euro. Martedì la Camera ha dato il sì definitivo all'adeguamento del nostro ordinamento alla Corte Penale Internazionale (Cpi), organismo che ha il potere giuridico di perseguire i crimini di genocidio, guerra, schiavitù, apartheid, stupro, sterminio e tortura: uno scopo vitale, anche se nel suo decennio di vita, pur avendo istituito molti processi, la Corte è giunta a un un'unica condanna. Diventiamo il 121esimo paese che entra a far parte della Cpi in modo effettivo: tra i 139 firmatari del ’99, Israele, Usa e Russia non la ratificheranno, mentre Cina e India ne sono fuori (non a caso, tre quinti dei membri del Consiglio di Sicurezza Onu).
PERCHÉ TANTA lentezza da parte italiana? “Proprio a causa dei paesi ‘forti’ che hanno di deciso di continuare ad agire in modo autonomo”, dice Roberto Rao, Udc, relatore alla Camera del disegno di legge: “Il loro ostruzionismo dipende dal fatto che preferiscono agire su questioni che li coinvolgono con accordi bilaterali. L’Italia ha tentennato a lungo per timore di creare inimicizie internazionali ma anche perché pensava che non sarebbe stata in grado di tutelare adeguatamente i propri militari all’estero”.
Si è dovuto dibattere a lungo, e adeguare le norme anche sulla questione spinosa del reato di tortura, che continua a non far parte del nostro ordinamento. “L'importanza di questa decisione tocca anche questo – dice Rao - Adesso possiamo dare il nostro contributo anche in casi del genere, pur avendo ‘aggirato’ la questione”. Aggirato nel senso che il Parlamento si è rifiutato di farlo.
Nonostante siano anni che l'Italia ha firmato la Convenzione Onu contro la tortura, l’ultimo tentativo di introdurre quel reato nel nostro codice è arrivato a settembre, ma l’aula del Senato ha detto no. “E dubito che per lungo tempo se ne parlerà ancora”, chiosa Matteo Meccacci, deputato radicale e relatore dei disegni di legge sul tema: “L’ultimo stop è stato letale: con la maggioranza di centrodestra al Senato i numeri non ci saranno mai. Si tratta di chiamare le cose con il loro nome: adesso si parla di lesioni, minacce, ma il termine vero è tortura, così come riconosce la giurisprudenza internazionale”.
“Sul reato di tortura c'è una volontà specifica di ostacolarne l’introduzione che dura ormai da più di un quarto di secolo. Per anni Amnesty ha mandato appelli a ministri e governi, ma il tema è tabù perché si teme di gettare lo stigma di torturatori sul corpo di polizia”, spiega Riccardo Noury portavoce di Amnesty International Italia. Il diritto internazionale prevede il reato “nei confronti dei pubblici ufficiali e questo non fa altro che rinvigorire il clima di sospetto tra cittadini e polizia. È paradossale che in processi come quelli di Bolzaneto o della Diaz non si siano potute chiamare le cose col loro nome”. A novembre, comunque, un altro passo avanti è stato fatto con l'approvazione dell’Opcat (il Protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura dell’Onu, che prevede la possibilità di istituire ispezioni internazionali all'interno a esempio degli istituti di pena). “Si spera – conclude Nouri – che così casi come quello di Stefano Cucchi non possano essere reiterati, ma resta in ogni caso un vuoto legislativo inaccettabile”. Riusciremo a fare anche l’ultimo passo? Si potrebbe chiedere a Cuno Tarfusser, italiano, ex procuratore di Bolzano, che pochi mesi fa è stato nominato vicedirettore della Cpi.

l’Unità 7.12.12
Scola: la laicità non sia idolo anti-religioso
Alla festa di Sant’Ambrogio il cardinale attacca l’idea di laicità dello Stato come «neutralità» e «secolarismo»: «La libertà religiosa è la cartina al tornasole della civiltà»
di Tullia Fabiani


Libertà religiosa e laicità dello Stato. «Sono due aspetti decisivi per la buona organizzazione della politica». L’una non può fare a meno dell’altra; l’una è garanzia dell’altra, a patto che della laicità non se ne faccia un idolo contro le libertà. Quasi 1700 anni dopo l’Editto di Milano del 313 d.C. «atto di nascita della libertà religiosa», l’arcivescovo di Milano, Angelo Scola, ha ricordato ieri, nel consueto discorso alla città e alla diocesi, in occasione delle celebrazioni del patrono Sant’Ambrogio, che «parlare oggi di libertà religiosa significa affrontare un’emergenza che va sempre più assumendo un carattere globale»; perché fra il 2000 e il 2007 sono stati 123 i Paesi «in cui si è verificata qualche forma di persecuzione religiosa. E purtroppo il numero è in continuo aumento». Da qui il richiamo alla dichiarazione conciliare Dignitatis humanae, con la quale si riconosce che la «persona umana ha il diritto alla libertà religiosa. Non si tratta di un diritto al cospetto di Dio; è un diritto rispetto ad altre persone, alla comunità e allo Stato».
Nella sua riflessione Scola evidenzia alcuni aspetti controversi e irrisolti legati alla convivenza civile: il primo riguarda il «nesso tra libertà religiosa e pace sociale. Più lo Stato pone vincoli, più aumentano i contrasti a base religiosa. Imporre e proibire per legge pratiche religiose, non fa che accrescere quei risentimenti e frustrazioni che si manifestano poi, sulla scena pubblica, come conflitti».
Poi c’è la «connessione tra libertà religiosa e orientamento dello Stato», il cui giudizio ha sollevato immediate reazioni. L'arcivescovo di Milano, infatti, osserva una presunzione di neutralità dello Stato, che «lungi dall’essere tale fa propria una specifica cultura secolarista»; una cultura dominante che «finisce per esercitare un potere negativo nei confronti delle altre identità, soprattutto quelle religiose, tendendo ad emarginarle, se non espellendole, dall’ambito pubblico». L'esempio che fa il cardinale Scola è quello dell'Hhs Mandate, cioè la riforma sanitaria di Obama negli Stati Uniti «che impone a vari tipi di istituzioni religiose (specialmente ospedali e scuole) di offrire ai propri impiegati polizze di assicurazione sanitaria che includano contraccettivi, abortivi e procedure di sterilizzazione». Una laicité alla francese che nei fatti ha finito «per diventare un modello maldisposto verso il fenomeno religioso». Questo modello, dunque, secondo il successore di Martini e Tettamanzi, va ripensato: non è in discussione la laicità dello Stato, la sua aconfessionalità «giusta e necessaria», ma se la libertà religiosa è «la cartina di tornasole del grado di civiltà delle nostre società plurali» ed è «in cima alla scala dei diritti fondamentali», è necessario un profondo ripensamento.
Questa la tesi del cardinale. Perché «l’aconfessionalità ha finito per dissimulare, sotto l’idea di neutralità, il sostegno dello Stato a una visione del mondo che poggia sull’idea secolare e senza Dio». Lo Stato non dovrebbe quindi interpretare «la sua aconfessionalità come distacco, come una impossibile neutralizzazione delle mondovisioni che si esprimono nella società civile», ma aprire «spazi in cui ciascun soggetto personale e sociale possa portare il proprio contributo all'edificazione del bene comune».
Parlando di Milano e della Lombardia il cardinale ha ricordato che entrambe «sono e saranno sempre più abitate da tanti nuovi italiani. Un processo storico di civiltà e di culture» che richiede «la capacità di rispettare la libertà di tutti, di edificare il corpo ecclesiale e un buon tessuto sociale trasmettendo fede e memoria». Bisognerà fare i conti con «lo sviluppo di una società civile dai contorni molto più variegati» e con «il rischio di sempre maggior frammentazione». Perciò, conclude Scola, «il nostro è un tempo che domanda una nuova, larga cultura del sociale e del politico».

La Stampa 7.12.12
Il cardinale Scola
“L’Europa emargina la religione”
di An. Tor.


Lo Stato improntato alla «laicità» francese finisce «per esercitare un potere negativo nei confronti delle altre identità, soprattutto quelle religiose, presenti nelle società civili tendendo ad emarginarle» dall’ambito pubblico. Lo ha affermato ieri l’arcivescovo di Milano Angelo Scola aprendo le celebrazioni per i 1700 anni dell’editto di Costantino, considerato l’atto di nascita della libertà religiosa e della laicità dello Stato.

Il cardinale ha ricordato «il presupposto teorico» del modello francese che «si basa sull’idea dell’indifferenza, definita come “neutralità”, delle istituzioni statuali rispetto al fenomeno religioso». Ma questa concezione, «assai diffusa nella cultura giuridica e politica europea» e nata per favorire la libertà religiosa di tutti, ha finito per diventare, secondo il cardinale, «un modello maldisposto verso il fenomeno religioso».
Oggi, ha aggiunto Scola, «nelle società civili occidentali, soprattutto europee, le divisioni più profonde sono quelle tra cultura secolarista e fenomeno religioso, e non – come spesso invece erroneamente si pensa – tra credenti di diverse fedi». Non riconoscendo questo dato di fatto, «la giusta e necessaria aconfessionalità dello Stato ha finito per dissimulare, sotto l’idea di “neutralità”, il sostegno dello Stato a una visione del mondo che poggia sull’idea secolare e senza Dio». Lo Stato, finisce così per far propria, ha detto il cardinale, una specifica cultura, quella secolarista, che «attraverso la legislazione diviene cultura dominante».

Corriere 7.12.12
Scola contro la laicità di Stato
Il cardinale Scola e la laicità: «No a uno Stato senza Dio»
Contro il «modello francese di laicité»
E contro la «riforma sanitaria di Obama» laddove essa «impone polizze che includano contraccettivi, abortivi e procedure di sterilizzazione»
di Paolo Foschini


Contro il «modello francese di laicité». E contro la «riforma sanitaria di Obama» laddove essa «impone polizze che includano contraccettivi, abortivi e procedure di sterilizzazione». Questo ha detto, tra l'altro, il cardinale Angelo Scola nel discorso rivolto ieri sera alla città di Milano per la festa di Sant'Ambrogio.
Il cardinale Scola e la laicità: «No a uno Stato senza Dio»
L'arcivescovo: non s'impongono contraccettivi e aborto

MILANO — A favore della «libertà religiosa» ma contro la «neutralità» dello Stato in fatto di religione. A favore di una «giusta e necessaria aconfessionalità dello Stato» ma contro «l'idea secolare» di uno Stato «senza Dio». Insomma contro il «modello francese di laicité». E anche contro la «riforma sanitaria di Obama» laddove essa «impone polizze che includano contraccettivi, abortivi e procedure di sterilizzazione».
È per sua ammissione un discorso «complesso» quello che il cardinale Angelo Scola ha rivolto ieri sera alla città di Milano, secondo la tradizione, per la festa del suo patrono Sant'Ambrogio: «Ho cercato di tagliare il più possibile — ha esordito scusandosi in anticipo — ma è comunque più lungo di una omelia».
Cinque cartelle fitte, in verità, per affrontare appunto il tema del rapporto tra Stato e religione/i alla luce dell'Editto di Milano di cui la città si appresta a celebrare il 17esimo centenario e che nel 313 — imperatori Costantino e Licinio — rappresentò «l'atto di nascita della libertà religiosa»: purtroppo un «inizio mancato», ha subito precisato Scola.
Il cardinale, rilevata la «storica e indebita commistione tra potere politico e religione» attraverso i secoli, ha parlato della «libertà religiosa oggi» come di una «emergenza globale» ricordando i «123 Paesi in cui tra 2000 e 2007 si è verificata una qualche forma di persecuzione». Detto questo, ha proseguito l'arcivescovo, la libertà non è una faccenda semplice anche quando «sembra» di averla.
Il primo problema riguarda «il nesso tra libertà religiosa e pace sociale», da cui Scola fa discendere una conclusione che lui per primo riconosce ovvia: «Più lo Stato impone dei vincoli, più aumentano i contrasti. Imporre o proibire per legge pratiche religiose non fa che accrescere risentimenti e frustrazioni che si manifestano poi come conflitti». Ma il problema più serio per il cardinale è il secondo e cioè il rapporto «tra libertà religiosa e orientamento dello Stato». Ed è qui che egli ha voluto smontare pezzo per pezzo quel «modello francese di laicité» che «solo a prima vista», ha precisato, è favorevole alla libertà religiosa di tutti»: di fatto esso sarebbe invece «un modello maldisposto verso il fenomeno religioso» in quanto «l'idea stessa di neutralità non è applicabile alla società civile».
Oggi più che mai il problema non è tra credenti diversi, dice Scola, ma tra credenti e non: «La giusta e necessaria aconfessionalità dello Stato ha finito per dissimulare, sotto l'idea di "neutralità", il sostegno dello Stato a una visione del mondo senza Dio». E per compensarla non basta, sottolinea, rivendicare una generica «liberty of religion».
Quel che serve secondo Scola sono invece altre due cose. La prima: «È necessario uno Stato che, senza far propria una specifica visione, non interpreti la sua aconfessionalità come distacco». La seconda: rendere la «libertà religiosa» una «libertà realizzata» e «posta in cima alla scala dei diritti fondamentali», altrimenti «tutta la scala crolla».
Il tutto senza alcun «ritorno al passato», ha concluso il cardinale, ma «nel rispetto della natura plurale della società».

Repubblica 7.12.12
Scola, lo Stato laico e la libertà religiosa
di Vito Mancuso


È TRADIZIONE che i discorsi tenuti il giorno di Sant’Ambrogio dagli arcivescovi di Milano siano caratterizzati da una profonda attenzione all’attualità sociale e politica. È il caso anche del discorso tenuto ieri a Milano da Angelo Scola, nel quale il cardinale è giunto a pronunciare parole molto pesanti.
PAROLE a mio avviso poco fondate, su un tema di straordinaria delicatezza quale quello della laicità e della aconfessionalità dello Stato. Scola è partito da molto lontano, dall’anno 313, visto che l’anno prossimo saranno 1700 anni da quell’Editto di Milano con cui Costantino e Licinio posero fine alle persecuzioni contro i cristiani. Scola non esita a celebrare tale editto come “l’atto di nascita della libertà religiosa”. È doveroso chiedersi per chi tale libertà nacque, e la risposta corretta è per i cristiani, i quali, da perseguitati sotto alcuni imperatori romani (in particolare Decio, Valeriano e Diocleziano) iniziarono a godere libertà di culto e poterono professare pubblicamente la loro religione. Ma alla loro libertà non seguì la libertà di altri. Io penso quindi che non sia corretto da parte di Scola elogiare così tanto l’Editto di Milano senza neppure ricordare l’Editto di Tessalonica dell’imperatore Teodosio del 380 con cui si toglieva la libertà di religione ai pagani, cui seguirono tra il 391 e il 392 i Decreti teodosiani che mettevano al bando ogni forma di sacrificio pagano, anche in forma privata, compresi i culti dei lari e dei penati che da secoli gli abitanti della penisola italica praticavano nelle loro case. È vero che Scola scrive che l’Editto di Milano fu un “inizio mancato”, ma non si può sorvolare in questo modo così leggero su secoli e secoli di sanguinosa intolleranza cattolica, generata da tale editto e dal matrimonio con il potere imperiale che esso comportava. La cosa era del tutto chiara già a Dante Alighieri: “Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco patre!” (Inferno XIX, 115-117), laddove tra i mali procurati dall’alleanza con il potere politico oltre alla corruzione della Chiesa vi sono le sanguinose persecuzioni contro ogni forma diversa di religione, in particolare contro i catari, i valdesi, gli ebrei.
La storia insegna che si dà libertà religiosa solo nella misura in cui lo Stato non si lega a nessuna religione particolare, solo se si pone di fronte ai suoi cittadini con l’intenzione di rispettare tutti, minoranze comprese, solo se pratica quella forma di neutralità così esplicitamente criticata dal cardinal Scola nel suo discorso di ieri. Per Scola infatti occorre “ripensare il tema della aconfessionalità dello Stato”, facendo in modo che lo Stato passi da una visione pluralista a una visione culturalmente in grado di sostenere le “dimensioni costitutive dell’esperienza religiosa: la nascita, il matrimonio, la generazione, l’educazione, la morte”: insomma i cosiddetti valori non negoziabili tanto cari a Benedetto XVI, cioè vita, scuola, famiglia, da intendersi alla maniera del Magistero cattolico attuale (che non è detto coincida con il vero senso del cristianesimo).
Prova ne sia proprio il tema della libertà religiosa, la quale, se è giunta a essere un patrimonio della dottrina sociale della Chiesa, è solo grazie alla lotta in favore dei diritti umani da parte della laicità illuminista. La libertà religiosa è stato il dono della laicità al cristianesimo. Senza lo Stato laico, senza la sua volontà di rispettare le minoranze come quelle dei valdesi e degli ebrei dando loro gli stessi diritti della maggioranza cattolica, la Chiesa non sarebbe mai giunta al documento Dignitatis humanae del Vaticano II che apre finalmente la gerarchia cattolica alla libertà religiosa, dopo ben 1573 anni (distanza temporale tra la Dignitatis humanae del 1965 e l’ultimo decreto di Teodosio del 392)! Per rendersene conto è sufficiente leggere i documenti pontifici che durante la modernità condannavano aspramente la lotta dei laici e di alcuni teologi a favore della libertà religiosa, come per esempio le parole di Gregorio XVI che nel 1832 bollava la libertà religiosa come deliramentum o le parole di Pio IX nel 1870 o quelle di Leone XIII nel 1888.
Scola ha ragione nel dire che “il nostro è un tempo che domanda una nuova, larga cultura del sociale e del politico”. Ma questa larghezza della mente e dell’anima dovrebbe riguardare davvero tutti, anche la Chiesa cattolica, la quale non può limitarsi a rimpiangere Costantino e Teodosio e magari a cercare candidati politici che
ne ricalchino le orme.

Repubblica 7.12.12
Il sindaco difende la tutela dei diritti civili senza discriminazioni
Pisapia: “Nessun credo va privilegiato rivendico l’autonomia della politica”
di Alessia Gallione


MILANO — Accogliendo il Papa in città la scorsa estate, Giuliano Pisapia rivendicò l’autonomia delle decisioni della politica. «Ed è quello che continuerò a fare», dice il sindaco. Che aggiunge: «È giusto confrontarsi e riflettere, ma io non penso di possedere la verità e chiedo che, anche chi è profondamente credente, non ritenga di avere la verità assoluta. Lo dico soprattutto per quelle scelte individuali che riguardano la propria vita, anche se questo non deve limitare i diritti altrui».
Crede, come sostiene Scola, che la laicità dello Stato sia una minaccia per la libertà religiosa?
«Il suo discorso sarà per me motivo di riflessione, ma non mi convince la sua posizione negativa sulla “neutralità” dello Stato. Forse bisogna intendersi sul concetto di neutralità: lo Stato non deve essere confessionale, ma deve fare di tutto per rendere effettivo il principio costituzionale della libertà di professare liberamente la propria fede, serve una equidistanza tra tutte le religioni. Il diritto di professare il proprio credo non deve portare a discriminazioni né privilegiare una religione anche se maggioritaria. In Italia, dobbiamo fare ancora molti passi in avanti ed è per questo che, a Milano, stiamo lavorando per dare vita a un albo delle associazioni e organizzazioni religiose che permetta a tutti di avere gli spazi adeguati per potersi riunire».
La laicità alla francese sarebbe davvero un male?
«Credo che la laicità dello Stato sia un dovere, ma uno Stato profondamente laico deve dare a ognuno la possibilità di esprimere i propri valori e la propria fede».
Milano ha istituito il registro delle coppie di fatto e potrebbe avviare quello di fine vita. Si è sentito chiamato in causa da Scola?
«No, assolutamente. Proprio l’equivicinanza alle religioni comporta che bisogna garantire a tutti, anche ai non credenti, la possibilità di esercitare i propri diritti senza essere discriminati. Il cardinale dice che la libertà religiosa “è ai primi posti nella scala dei diritti”. Io dico che tutti i diritti sono al primo posto nella scala dei valori. Milano continuerà sulla strada dei diritti civili, con la profonda convinzione che non solo non contrasta con la libertà religiosa, ma la rafforza».
Non teme un rapporto conflittuale con la Curia?
«In realtà, no. Quando il Comune ha preso decisioni non condivise dalla Curia, ci sono state comprensibili e legittime prese di posizioni, ma nessun tentativo di bloccare scelte democratiche. Sono molto fiducioso che il confronto e il dialogo continueranno, pur nelle reciproche diversità. Forse, chi crede in una religione — qualunque essa sia — è convinto che quella sia la verità. La differenza, per quanto mi riguarda, è che su certi temi mi pongo sempre il dubbio sulla base della realtà e non di un’indicazione che viene dall’alto. C’è però un passaggio del discorso che condivido pienamente ».
Quale?
«È quello che mette in relazione la libertà religiosa e la pace sociale. Il dialogo e la comprensione tra diverse confessione favoriscono la pace dentro una comunità e tra le diverse comunità. Questa coesione sociale, anche tra fedi e culture diverse, è un obiettivo a cui tutti dovrebbero puntare, ma che alcune forze politiche purtroppo non auspicano».

La Stampa 7.12.12
Caro Scola, laicità dello Stato non è nichilismo
di Gian Enrico Rusconi


Il discorso alla città di Milano pronunciato ieri sera dal cardinal Scola in occasione di Sant’Ambrogio contiene alcuni passaggi cruciali sul tema dello Stato laico che sono sorprendenti per l’atteggiamento che li sottende, per il tono, prima ancora che per alcuni loro contenuti. C’è diffidenza, sfiducia, allarme di fronte a una presunta involuzione della laicità nello Stato, che si configurerebbe addirittura come minaccia alla libertà della coscienza religiosa. L’ assunto da cui parte il discorso del cardinale è la centralità della «società civile», «la cui precedenza lo Stato deve sempre rispettare, limitandosi a governarla e non pretendendo di gestirla».
Questa affermazione sarebbe anche condivisibile (nessuno infatti vuole uno Stato etico) se non contenesse un fraintendimento. Non è chiaro, infatti, che cosa significa che lo Stato deve «limitarsi a governare la società civile» senza «pretendere di gestirla». Definire le leggi, le norme di comportamento vincolanti per tutti i cittadini - tramite un dibattito pubblico e costituzionale che tiene presente l’intera «società civile» in tutta la sua complessità - è una «gestione» intrusiva della società?
Proprio su questo punto invece il card. Scola usa parole pesanti: «Sotto una parvenza di neutralità e oggettività delle leggi, si cela e si diffonde una cultura fortemente connotata da una visione secolarizzata dell’uomo e del mondo, priva di apertura al trascendente. In una società plurale essa è in se stessa legittima ma solo come una tra le altre. Se però lo Stato la fa propria finisce inevitabilmente per limitare la libertà religiosa».
Innanzitutto non si capisce come una legislazione neutrale rispetto ai valori religiosi impedisca, a coloro che lo desiderano, di condurre la propria vita e operare le proprie scelte sulla base di quei valori. Salvo garantire che si tratti di scelte effettivamente libere e non di imposizioni familiari o comunitarie.
Inoltre a quale Stato in concreto si riferisce il cardinale? Certo non al nostro Paese con la sua legislazione sull’insegnamento della religione nelle scuole, con la normativa sui simboli religiosi negli spazi pubblici, sul sostegno indiretto alle scuole confessionali, sulla forte (e formalmente legittima) influenza della Chiesa sulla problematica bioetica - per non parlare della deferenza pubblica e dei partiti politici verso la Chiesa.
Non mi è chiaro quali altri spazi possa aprire uno Stato laico «in cui ciascun soggetto personale e sociale possa portare il proprio contributo all’edificazione del bene comune». Non a caso sono i laici spesso a non vedere riconosciuti i propri come «valori» (ma sempre come apertura al peggio) e la legittimità delle proprie opzioni.
E’ deplorevole che la laicità dello Stato sia identificata tout court con una idea di secolarizzazione che sconfina di fatto con il nichilismo. Se c’è uno spazio che dovrebbe essere aperto è il confronto pubblico competente e leale sui valori positivi della laicità, che sono l’unica garanzia della libertà di coscienza.

Repubblica 7.12.12
Chiesa, da subito il pagamento dell’Imu
Napolitano: l’imposta sulla casa torni ai Comuni. Confcommercio: allo Stato 28 miliardi
di Valentina Conte


ROMA — A sorpresa, Chiesa ed enti no profit dovranno pagare l’Imu già da quest’anno, entro il 17 dicembre. Esattamente come gli altri 25 milioni di proprietari italiani. La notizia arriva da una circolare del Dipartimento delle Finanze che scioglie in modo definitivo l’equivoco sul 2013 come anno di partenza. Il Centro studi di Confcommercio, intanto, conferma la stangata fiscale di dicembre sulle tredicesime: un ciclone di tasse da quasi 10 miliardi in un mese - tra Imu, auto, canone Rai - il doppio di un anno fa, con l’imposta sulla casa che traina il nuovo bottino. Al punto tale che Confcommercio calcola il gettito finale Imu in una forbice tra 24 e 28 miliardi, ovvero tra 3 e 7 in più delle stime del governo. Un tesoretto che l’associazione invita ad usare per scongiurare l’aumento del-l’Iva tra sette mesi. Il presidente Napolitano, invece, intervenuto al direttivo Anci in Campidoglio, si schiera per un ritorno totale dell’imposta sul territorio: «C’è poco da fare, voi sindaci avete ragione: l’Imu deve andare ai Comuni e deve rappresentare la base della vostra autonomia».
Imu per tutti e da ora, dunque. Senza aspettare il 2013, come si credeva fin qui. La decorrenza del prossimo anno, spiega il direttore generale Fabrizia Lapecorella nella risoluzione 1/DF pubblicata mercoledì, vale solo per le nuove regole sugli edifici misti, divisi tra volontariato o culto e “profit”, per i quali l’Imu si calcola in proporzione. Ma l’imposta invece va pagata subito, già per il 2012, dunque entro il 17 dicembre, per tutti quegli immobili dove si fa attività commerciale, anche solo in una parte dell’edificio: l’Imu si paga per l’intero. Cliniche, alberghi, scuole private, centri culturali, ricreativi, sportivi hanno dunque dieci giorni di tempo per regolarizzarsi ed evitare sanzioni. Una notizia destinata a scatenare proteste vivaci, specie delle scuole cattoliche, da giorni in pressing sul governo per la cancellazione totale dell’imposta.
La circolare delle Finanze è però chiara. Analizza il famoso regolamento del ministero dell’Economia, che entro il 9 dicembre diventerà legge, grazie alla complicità del Parlamento. E ne deduce che un conto è il criterio di “proporzionalità” per gli edifici misti, che parte dal 2013. Un altro conto sono i “requisiti generali e di settore” che definiscono le attività “non” commerciali degli enti ed esentano dall’Imu. Questi requisiti valgono già ora. E dunque in presenza di tariffe gratuite o simboliche e comunque non superiori alla metà della media di mercato oppure, nel caso delle scuole, in grado di coprire solo una frazione dei costi, l’Imu non è dovuta perché l’attività non è commerciale. Criteri vaghi e confusi che aprono ad abusi e sconti, ma che nell’imminenza dell’imposta (tra dieci giorni) è difficile rincorrere o simulare. Gli enti che ne sono privi devono pagare, a meno di disubbidienze fiscali clamorose. Le Finanze poi ricordano che per essere esentati dall’Imu, gli enti devono cambiare i loro Statuti entro il 31 dicembre (utili non distribuiti o reinvestiti nel sociale). Enti ecclesiastici inclusi, seppur privi di Statuto, che dovranno stilare un regolamento nella forma della scrittura privata registrata.

l’Unità 7.12.12
Attacco alla Chiesa, ministra francese divide la gauche
Toni duri della «verde» Duflot sulle case ai clochard
Il premier Ayrault si dissocia
di Luca Sebastiani


PARIGI Nel primo anno dell’era hollandese anche l’inverno rischia di diventare oggetto di contesa politica. Addirittura occasione per rispolverare un orgoglio lessicale d’antan e una battaglia che sa di secolo scorso. Quando infatti la giovane e irruenta ministra della Casa, Cécile Duflot, ha parlato dell’urgenza sociale di dar riparo ai «senza tetto» con il freddo glaciale in arrivo, non ha esitato a minacciare lo strumento della «requisizione» degli immobili inoccupati. Compresi quelli della Chiesa? «Ho speranza che non ci sia bisogno di far prova d’autorità – ha risposto la ministra – non comprenderei che la Chiesa non condivida i nostri obiettivi di solidarietà».
Quest’ultima frase in particolare, pronunciata dalla ministra verde in un’intervista a Le Parisien, ha fatto scoppiare un dibattito che si è propagato fin dentro l’Assemblea nazionale, dove due giorni fa, tra urla da stadio, i deputati della destra hanno accusato il governo di prendersela con la Chiesa cattolica manifestando un certa «cattofobia».
Ma è la medesima diocesi di Parigi che si è detta «irritata e stupita» dai toni della Duflot. «Come se la Chiesa non facesse nulla», hanno fatto sapere dall’entourage dell’Arcivescovo della capitale cardinale Andrè Vingt Trois, che la ministra chiamava direttamente in causa annunciando che gli avrebbe scritto una lettera per chiedere di mettere a disposizione dell’emergenza gli immobili «vuoti o quasi» in possesso della curia. La lettera in realtà non è mai arrivata, ma la risposta non si è fatta attendere: «con il Soccorso cattolico ed altre associazioni, i cattolici di Parigi non hanno certo aspettato la ministra per agire», hanno fatto sapere.
Da quando nel rigido inverno 1954 l’Abbé Pierre, fondatore di Emmaus, dopo l’ennesima morte per assideramento nelle strade della capitale, lanciò l’appello contro lo scandalo dei senza tetto, il tema è molto sentito in Francia. Le associazioni, cattoliche e non, e lo Stato hanno creato circa 80mila posti letto di emergenza, insufficienti se si stima la platea 130mila persone bisognose di riparo. Le requisizioni erano già state fatte nel 1995 dalla destra di Jacques Chirac e nel 2001 dall’esecutivo di «gauche» di Lionel Jospin.
Niente di nuovo dunque. Semmai la polemica è stata innescata dai toni della Duflot, muscolosi e vagamente minacciosi. Tanto che la sortita ha creato un certo imbarazzo anche a sinistra. Nonostante la contesa tra la Chiesa cattolica e l’esecutivo sui «matrimoni per tutti», il primo ministro Jean Marc Ayrault ha sempre vegliato a tener bassi i toni. Del resto è lo stesso François Hollande a prediligere una politica pacata e inclusiva evitando gli scontri frontali. Ayrault infatti, pur solidarizzando con Duflot sulla sostanza del problema, si è dissociato dalla forma usata dalla ministra, la quale ancora ieri ribadiva che non era sua intenzione far polemica con la Chiesa. Il problema vero, però, rivelato dalla polemica di queste ore, è squisitamente politico e interno alla «gauche».
I verdi sono, infatti, allo stesso tempo nella maggioranza e fuori, al governo e contro l’esecutivo su diverse questioni decisive come la nuova centrale nucleare (Epr), l’aeroporto di Nantes o la Tav Lione-Torino. Costretta all’ambiguità e spesso al silenzio, lo choc comunicativo è allora la sola arma rimasta alla Duflot per esistere e marcare la sua differenza. Se così non fosse, ritengono in molti, invece di annunciare una lettera al Cardinale e di minacciarlo pubblicamente, avrebbe agito con la diplomazia e lo avrebbe chiamato.

l’Unità 7.12.12
Insediamenti dei coloni, Merkel critica Netanyahu
di U.D.G.


«Sulla questione delle colonie siamo d’accordo sul dire che non siamo d’accordo». Angela Merkel gela Benjamin Netanyahu. Berlino non segue la linea di Parigi, Londra, Madrid, Roma e non convoca l’ambasciatore dello Stato ebraico, ma la canceliera tedesca non può far finta che tra Israele e l’Europa i rapporti non si siano incrinati dopo la decisione del governo di Gerusalemme di rilanciare in grande stile la politica degli insediamenti come reazione al voto dell’Onu sulla Palestina.
Netanyahu sa di avere nella Merkel il più solido alleato nell’Europa che conta. Al tempo stesso, però, il premier israeliano non può, né vuole, fare un passo indietro sulle colonie. «Israele decide per se stesso. È un Paese sovrano», sottolinea la cancelliera tedesca nella conferenza stampa congiunta con Netanyahu dopo il loro incontro a Berlino. «Io ho detto la mia opinione aggiunge rispondendo a una domanda specifica dei giornalisti sugli insediamenti coloniali -. Non sono una che fa minacce». «Sul fatto che la politica degli insediamenti possa essere un passo verso una soluzione più veloce, non siamo d'accordo» ha spiegato. La Merkel però ribadisce che «il fondamento dei rapporti» fra Germania e Israele «non può essere intaccato».
A Berlino va in scena la performance di «Bibi l’equilibrista». Israele vota il 22 gennaio e Netanyahu non può scontentare il suo elettorato di destra. Al tempo stesso, deve concedere qualcosa, almeno sul piano dialettico, ai leader europei. Ecco allora affermare che Israele manterrà il piano di sviluppare nuovi insediamenti nell’ambito di un futuro accordo di pace. «La maggior parte dei governi che ha esaminato queste proposte, tra cui gli stessi palestinesi, capisce che questi complessi residenziali faranno parte di Israele ai sensi di un accordo di pace politico finale» rimarca Netanyahu. In un’intervista pubblicata l’altro ieri dal quotidiano tedesco Die Welt, il premier israeliano aveva detto di essere rimasto «deluso, così come molti israeliani, dal voto della Germania» sulla richiesta di modificare lo status della Palestina in uno Stato osservatore non membro dell'Onu. Berlino si è astenuta dal voto. «Ne ho preso nota», dice Merkel durante la conferenza stampa congiunta con Netanyahu. «Non abbiamo trattato aggiunge il voto e la nostra posizione alla leggera. Siamo contrari a misure unilaterali, perciò non abbiamo votato sì. Lo abbiamo valutato attentamente».
SHIMON DIALOGANTE
L’«intifada diplomatica» ha allontanato ulteriormente Netanyahu e il presidente palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen) ritenuto un partner «inaffidabile» dopo l’«atto unilaterale compiuto all’Onu». Ma dello stesso avviso non è Shimon Peres. Abu Mazen afferma è «un partner serio per la pace», nonostante la sua politica alle Nazioni Unite, dove ha ottenuto lo status di Stato osservatore per la Palestina. Il presidente israeliano Peres in un’intervista esclusiva con la France presse aggiunge: «Ho cercato di dissuaderlo», dal presentare la sua richiesta all’Onu «in questo momento». «Ma penso che resti un partner serio per la pace». Il presidente israeliano ha poi spiegato che il quartetto per il Medio Oriente (Stati Uniti, Russia, Unione Europea, Nazioni Unite) «dovrebbe ridiventare un organo di negoziati» perché ne ha «la legittimità». «Hanno cominciato a fare un buon lavoro ha aggiunto ma sono stati fermati per vari motivi. Ma ora penso che dovrebbero riprendere il lavoro». Immediata la risposta palestinese: «Pronti a tornare al tavolo del negoziato dice Nabil Abu Rudeinah, portavoce di Abu Mazen ma solo se Israele blocca la colonizzazione dei Territori. E lo stop degli insediamenti fa parte della “Road map” delineata dal “Quartetto”». Intanto il presidente dell’Anp incassa la prima visita ufficiale dopo il voto all’Onu. Ieri a Ramallah è volato il re di Giordania, Abdallah II, molto critico sugli insediamenti dei coloni in Cisgiordania.

il Fatto 7.12.12
Registi ebrei e arabi insieme per raccontare il problema cruciale della terra che si contendono i due Paesi
L’acqua unisce Israele e Palestina (solo in un film)
di Federico Pontiggia


La pace? Non verrà dalla sinistra israeliana, ma dai coloni. Sembra incredibile, ma sono loro a vivere a stretto contatto con i palestinesi: prima o poi, dovranno pure parlarsi”. Lo sostiene Yael Perlov, docente di cinema all’Università di Tel Aviv, che porta al festival Tertio Millennio di Roma il film collettivo Water, realizzato sotto la sua supervisione da 4 registi israeliani, 2 palestinesi e un arabo-israeliano. “Un tema cruciale, perché sull’acqua si gioca la nostra agenda politica, e un progetto insolito, perché israeliani e palestinesi non si conoscono e non si incontrano: noi crediamo siano terroristi, loro vedono solo i nostri soldati ai checkpoint”. Tra entusiasmi e polemiche, l’Autorità Palestinese è divenuto “Stato osservatore” dell’Onu, ma la Perlov non ha dubbi: “Vorrei andare a Ramallah a festeggiare con loro, finalmente qualcosa si muove, e metà Israele la pensa come me”.
L’ALTRA PARTE PARLA per bocca del governo, che ha dato il via libera alla costruzione di nuovi insediamenti nell’area tra Gerusalemme e la città di Ma’ale Adumim: “Una decisione sciagurata, che toglie ulteriore terra ai palestinesi e porta fuori da Israele i soldi di cui abbiamo disperato bisogno: anziché destinarli a scuole e servizi, vengono dati ai coloni, che nessuno conosce e nemmeno sa dove siano”.
Sul banco degli imputati, la Perlov mette proprio i coloni: “Sono estremamente pericolosi, violenti e al di sopra della legge: come si vede nell’episodio di Water Kareem’s Pool, in Cisgiordania entrano in piscina accompagnati dai nostri soldati. Si comportano da padroni, pistola in pugno, forti dei finanziamenti dall’America, dalla Francia e non solo”.
Ma sulla soluzione “due popoli, due stati” pesano anche altri problemi: “Innanzitutto, una drammatica mancanza di informazioni: in Israele non si sa che in Cisgiordania non c’è acqua, si conta quante volte la parola Palestinian compare sui giornali e si ignora la realtà. La conseguenza è catastrofica: indifferenza, e all’università me ne rendo conto facilmente. I giovani pensano solo ai soldi e a vivere a Tel Aviv, dove ci si può illudere che tutto vada bene”. Le elezioni sono alle porte, e il premier Benjamin Netanyahu rischia di essere superato a destra: “Il centrosinistra crolla, mentre le destre, ovvero Lieberman, i partiti religiosi e quelli nazionalisti, beneficiano della mancanza di informazioni. Ma non voglio perdere la speranza: siamo ancora una democrazia, e possiamo ancora fare film e cultura. Nel segno del dialogo”.

La Stampa 7.12.12
Due fronti inconciliabili. Solo l’esercito può unirli
Il raiss ha sottovalutato il dissenso laico, difficile ora tornare indietro
di Vittorio Emanuele Parsi


Speriamo di essere smentiti dai fatti, ma la probabilità che si possa raggiungere rapidamente un compromesso tale da riportare la calma in Egitto è estremamente bassa. Tutti i protagonisti di questa partita a tre il presidente Mohamed Morsi e il fronte islamista, l’opposizione riunita nel Fronte di Salvezza Nazionale, e l’esercito sono consapevoli di star giocando probabilmente la manche decisiva per il loro futuro. Per il presidente che, non dimentichiamolo, ha dato per primo fuoco alle polveri, si tratta di blindare l’operazione grazie alla quale i Fratelli Musulmani e i Salafiti si sono impossessati di una rivoluzione spontanea, per cui altri hanno versato il proprio sangue e guidata al successo nei confronti del regime da una leadership «diffusa», espressione della parte più evoluta ed urbana della società civile egiziana.
La decisione di sottrarre gli atti presidenziali al sindacato della magistratura significa, considerato che anche il legislativo è dominato dagli islamisti, abolire per decreto la divisione dei poteri. Il fatto che sia un provvedimento temporaneo non rappresenta in alcun modo una garanzia, giacché l’adagio per cui «in politica non c’è niente di più definitivo del provvisorio», trova nella tecnica del colpo di Stato la sua perfetta realizzazione. La sua ostinazione nel sottoporre a referendum popolare la bozza costituzionale a due settimane dalla sua approvazione da parte dell’Assemblea svela le reali intenzioni del presidente: impedire che nella società e sui media si possa svolgere un vero dibattito informato sui contenuti della nuova Costituzione, e cercare piuttosto la prova di forza, il plebiscito (mezzo plebiscito, in realtà) attraverso il quale saldare il potere del raiss alla legittimazione delle moltitudini. Una sostanziale riedizione della strategia nasseriana, ma questa volta in chiave islamista. È possibile che il presidente abbia sopravvalutato la sua forza, considerato le dimissioni che stanno fioccando anche dal suo entourage e l’invito a ritirare il decreto rivoltogli dall’Università islamica di Al Azhar. Resta comunque poco credibile che la violenza scatenata dai suoi sostenitori nei confronti degli oppositori radunati in sit-in permanente davanti alla residenza presidenziale di Helioplis non abbia goduto di un suo avallo perlomeno implicito.
Dopo la rimozione del feldmarescialllo Tantawi, appena pochi mesi orsono, Morsi deve aver pensato che licenziando il procuratore generale della Repubblica Abdel Meguid Mahmoud, e scrollandosi di dosso la magistratura, il suo progetto sarebbe scivolato placidamente verso la realizzazione, considerata la litigiosità delle forze dell’opposizione. In ciò ha probabilmente commesso un errore non così dissimile da Mubarak: ha cioè ignorato la forza di quella società civile che fu capace di provocare la caduta del «faraone» e che oggi ha costretto i partiti ostili al presidente a fare fronte comune. Ancora una volta il popolo ha trovato da solo la strada per piazza Tahrir e il successo della manifestazione di martedì scorso ha dato un segnale della rilevanza dell’ostilità a un presidenzialismo autoritario e clericale che è presente in almeno metà della società egiziana. È in questa metà che si ritrova la maggioranza dei protagonisti della primavera egiziana, della rivoluzione spontanea che ha sorpreso il mondo, i cui punti di riferimento ideali sono il premio Nobel per la pace Mohamed El Baradei e il liberale Amr Moussa. Tra le donne senza velo, i giovani e gli esponenti delle professioni che martedì scorso si sono dati appuntamento in piazza era evidente la consapevolezza di come la sfida di questi giorni rappresenti forse l’ultima occasione per tornare in possesso della «loro» rivoluzione, prendendosi la rivincita su chi ritengono li abbia espropriati, defraudandoli di una vittoria guadagnata col sangue.
Il ritorno in piazza dei militari, su ordine presidenziale, potrebbe significare che Morsi ha l’effettivo controllo dell’esercito, al punto di poter contare sulla sua fedeltà. Ma non è da escludere che si sbagli anche in questo caso e che, se la situazione dovesse degenerare, l’esercito torni all’antico, a una tradizione che va ben oltre Mubarak, Sadat e persino Nasser, ma che affonda nelle origini dell’Egitto moderno: e si proponga come «salvatore della Patria», imponendo la propria soluzione ai due popoli che si fronteggiano in piazza Tahrir. Anche per l’esercito questa rappresenta forse l’ultima finestra di opportunità per tornare protagonista e difendere i privilegi di cui le imponenti, ordinate e ricche installazioni militari che occupano tanta parte della strada tra Il Cairo e il suo aeroporto forniscono una plastica e inequivoca rappresentazione. Ovviamente un simile intervento verrebbe presentato come «temporaneo» e giustificato dall’essere l’esercito il solo in grado di impedire la collisione sempre più violenta dei due Egitti, quello di Morsi e quello del Fronte di Salvezza Nazionale. Un richiamo implicito alla millenaria storia del Paese, in cui il faraone era chiamato «il signore dell’Alto e del Basso Egitto», e indossava le due corone insieme, a rappresentare che il suo potere derivava dalla capacità di tenere uniti e dominare due Paesi una volta distinti.

Repubblica 7.12.12
La costituzione che divide il Paese
La Rivoluzione contesa tra laici e Fratelli musulmani E l’incognita resta l’esercito
La Primavera araba torna rovente, non solo in Egitto
di Bernardo Valli


NELLE rivoluzioni il compromesso, soluzione principe della politica, tarda ad arrivare. È quel che accade in queste ore in Egitto dove due forze si contendono in aperta tenzone, a muso duro, la «primavera » cominciata nel gennaio dell’anno scorso in piazza Tahrir, nel cuore del Cairo. Entrambe rivendicano di fatto, separatamente, il diritto di esercitare il potere, poiché ciascuna si considera appunto l’unica autentica rappresentante della rivoluzione da cui quel potere deriva.
DA UN lato i laici, i liberali, i cristiani, raccolti in un Fronte nazionale di salvezza dai confini incerti, accusano il presidente Mohammed Morsi, espressione di un vago, ampio fronte islamico, di essere un usurpatore; dall’altro i Fratelli musulmani difendono la legittimità di Morsi e delle prerogative che si attribuisce, in quanto capo dello Stato eletto al suffragio universale.
L’esercito avrebbe gli strumenti per decidere la sorte della rivoluzione contesa. Ma a parte l’inevitabile impegno di alcune unità d’élite, incaricate della protezione del capo dello Stato, rafforzate per l’occasione da qualche carro armato parcheggiato davanti alla presidenza, nel quartiere di Heliopolis, al fine di tenere a distanza i manifestanti, a parte queste essenziali precauzioni, i militari sono rimasti fuori dalla mischia. Si sono ben guardati dall’intervenire in appoggio di una delle parti a confronto.
In agosto i generali più giovani hanno esautorato i loro colleghi anziani, compromessi col vecchio regime, hanno concluso un’alleanza con i Fratelli musulmani, e quindi hanno appoggiato Mohammed Morsi appena eletto alla presidenza della Repubblica. In cambio hanno conservato, e conserveranno, i privilegi riservati da più di sessant’anni alla società militare. Ma non hanno venduto del tutto la loro anima. Un’anima tutt’altro che omogenea, poiché nel corpo ufficiali prevale un tradizionale spirito laico, risalente ai primi anni Cinquanta, quando fu proclamata la repubblica; mentre la truppa, in cui sono in maggioranza i coscritti provenienti dalle diseredate periferie urbane, e dalle province ancora rurali, è sotto una forte, altrettanto tradizionale influenza religiosa. Quindi i soldati sono tendenzialmente per i Fratelli Musulmani, o per i salafiti, più estremisti. Insomma l’esercito, per ora, resta un enigma.
E’ invece evidente che la «primavera araba» data per morta, sommersa dall’ondata islamica, è ancora rovente, e non solo nella sua versione egiziana. La Tunisia, che ha conosciuto la prima rivolta contro i raìs, e che poi è rimasta prigioniera di un prepotente, inquietante risveglio islamico, sarà influenzata, come altre società arabe, dagli avvenimenti del Cairo, principale capitale mediorientale. Dove i laici, i liberali, i progressisti, all’origine della insurrezione di piazza Tahrir, dopo essere stati emarginati dalla tardiva ma incontenibile irruzione sulle sponde del Nilo dei Fratelli musulmani, sono adesso riemersi in forza per far valere le loro esigenze democratiche. E contrastare la svolta autoritaria di Mohammed Morsi. Il quale, in attesa di una Costituzione, si è aggiudicato poteri definiti dai laici «uguali o superiori a quelli che aveva Mubarak», il raìs destituito.
Adesso i promotori della «primavera araba» vorrebbero ridarle i colori iniziali. Il loro programma è vasto e di difficile applicazione. E’ tuttavia la prova che la rivoluzione continua. La posta in gioco è la futura Costituzione. Vale a dire la natura politica dell’Egitto di domani. I due fronti, il laico e l’islamico, non usano le stesse armi. I primi, i laici, all’inizio chiedevano libere elezioni, ma si sono accorti molto presto che essendo frantumati in numerosi movimenti sarebbero stati facilmente sopraffatti nelle urne dai Fratelli musulmani, dotati di un partito ben organizzato (Libertà e giustizia), e di una rete sociale che abbraccia l’intero Egitto.
Sono stati dunque gli islamici, non per vocazione democratica ma per motivi tattici, ad adottare le elezioni come armi politiche. Ed infatti hanno vinto tutte le consultazioni, quelle parlamentari annullate, come quelle presidenziali che hanno portato Mohammed Morsi alla massima carica dello Stato.
Morsi è tuttavia un presidente senza Costituzione, poiché quella del vecchio regime è stata annullata, e quella nuova dovrebbe essere sottoposta il 15 dicembre a un referendum. Al quale il fronte laico si oppone; e sul quale i giudici, indignati dai poteri giudiziari che il presidente si è attribuito, non vogliono soprintendere come la legge esigerebbe. Non è dunque sicuro che lo si possa tenere.
Il testo costituzionale preparato dai Fratelli musulmani, nel caso si dovesse votare tra una settimana, non correrebbe comunque troppi rischi, perché sul terreno elettorale i Fratelli musulmani sono imbattibili. I numeri sono per loro. Per questo i laici, i progressisti, i cristiani si oppongono a un voto che renderebbe legittima la svolta islamica del paese attraverso la nuova Costituzione.
Secondo Human Rights Watch il progetto di magna charta presentato da Morsi è difettoso e contraddittorio, ma non catastrofico. È ambiguo. Si presta a varie letture. La nuova Costituzione non disegna uno Stato teocratico, ma lascia aperte molte porte a un’evoluzione conservatrice rigorosa. Le libertà individuali sono garantite, ma al tempo stesso si affida a un’autorità religiosa, l’università islamica di Al Azhar, le decisione di interpretare, senza appello, i principi della sharia (le leggi coraniche) da applicare. Viene così esclusa curiosamente da questo compito qualsiasi altra autorità, giuridica o legislativa. E abbandonata alle variabili tendenze teologiche, agli umori religiosi, la facoltà di regolare le libertà dei cittadini. Per il capitolo essenziale delle donne è stata abbandonata una prima versione salafita, che puntava sulla lettura più intransigente del Corano. Ed è stata adottata la generica formula che riconosce «l’uguaglianza tra tutti gli egiziani». Anche se poi si esplicita che la donna «deve trovare un equilibrio tra i suoi doveri familiari e professionali». La libertà di culto è assicurata alle tre religioni monoteistiche, ma non è estesa a tutte le religioni.
Mohammed Morsi non può agire come i vecchi raìs. Lui è condizionato dai salafiti, ala radicale dell’islamismo e concorrenti dei Fratelli musulmani. Non può disporre liberamente, almeno per ora, dell’esercito che vuole tenersi fuori dalla mischia. Non può usare con spregiudicatezza la polizia e annessi per reprimere le manifestazioni perché è sotto sorveglianza del Fondo Monetario internazionale dal quale aspetta quattro miliardi e mezzo di dollari, che dovrebbero impedire il fallimento economico del paese. E deve tener conto dello sguardo, sia pur non troppo severo degli americani, che danno un miliardo e mezzo all’anno alle forze armate.
Il 22 novembre Mohammed Morsi ha tuttavia compiuto quel che può essere considerato un colpo di Stato. Ha proibito qualsiasi tipo di ricorso contro le sue decisioni e contro la Costituente, assumendosi così tutti i poteri. Compreso quello di scrivere una Costituzione su misura. Si è messo al di sopra delle leggi e ha eliminato via via tutti gli ostacoli alla conquista del potere da parte dei Fratelli musulmani. L’operazione ha colpito anche numerosi uomini del vecchio regime, in particolare nell’amministrazione della giustizia, spingendo verso l’opposizione funzionari epurati perché un tempo al servizio del deposto raìs. Questo non favorisce l’immagine del movimento laico e liberale.

Repubblica 7.12.12
Lo scrittore: “Vogliamo toglierceli di torno una volta per tutte”
Al Aswani: “Ci hanno mentito non è il governo del popolo”
di Francesca Caferri


«SARÀ un lungo braccio di ferro. Ma sarà decisivo. I Fratelli musulmani hanno chiesto il supporto della gente, promettendo riforme e giustizia, però hanno fallito. Gli egiziani vedono bene che sono stati imbrogliati: e non ci stanno. Se votassimo ora i Fratelli perderebbero. Invece li stiamo affrontando in strada, non nelle urne: ma è lo stesso, vogliamo toglierceli di torno una volta per tutte». In queste ore Ala al Aswani, il più importante scrittore egiziano, è in Germania: nella sua stanza di hotel, in sottofondo, si sente la televisione che trasmette gli eventi del Cairo.
Signor al Aswani, cosa è quello a cui stiamo assistendo?
«La seconda onda della rivoluzione. Nessun dubbio a proposito. Abbiamo eletto un presidente che non risponde alla gente, ma alla struttura piramidale dell’organizzazione politica a cui appartiene. È stato Shater (il leader dei Fratelli musulmani, ndr)
ad ordinare di sparare sulla folla e Morsi ha avallato. Il presidente pensa di poter governare il paese così: la gente gli sta dicendo di no. È uno sviluppo utile: anche se sanguinoso. Gli egiziani hanno capito che i Fratelli musulmani hanno cattive intenzioni».
Lei parla come se Morsi non si fosse dimesso dalla Fratellanza subito dopo essere stato eletto: invece lo ha fatto.
«La mia risposta è solo una: ah ah ah».
Vuole spiegare meglio?
«Ho incontrato Morsi qualche tempo fa e gli ho detto chiaramente che così non poteva andare, che un presidente non poteva rispondere a un gruppo di cui non si sa nulla a livello di finanziamenti o di decisioni interne. Mi ha risposto “ha ragione, concordo con lei”. Poi mi ha sorriso ed è andato via. Come se nulla fosse».
Però anche l’opposizione ha molte responsabilità: una fra tutte, quella di non essere riuscita a presentarsi unita alle elezioni presidenziali.
«È stato un enorme errore. Se lo avessimo fatto, avremmo vinto noi. Ma dagli errori si impara. Oggi in piazza a dire “no” a Morsi c’è tutto l’Egitto che non è schierato con i Fratelli musulmani. Siamo uniti di fronte al pericolo: e lo resteremo. Morsi sarà obbligato a fare un passo indietro. Ed è meglio che lo faccia presto. Dovrebbe aver imparato la lezione della rivoluzione: se Mubarak si fosse fermato in tempo, se avesse ascoltato la folla dall’inizio, forse sarebbe ancora al potere. Ha aspettato troppo e la gente ha alzato le sue richieste: è finita come avete visto».
Lei oggi è in Germania: nello scenario che delinea, che ruolo hanno i paesi occidentali?
«I governi occidentali si stanno comportando in modo riprovevole: hanno dato mano libera a Morsi. Cercano un nuovo Mubarak, qualcuno che esegua i loro ordini: lo hanno trovato in Morsi. In cambio gli hanno dato mano libera sul piano interno».

l’Unità 7.12.12
Il voto in Romania e il principio di legalità
di Pino Arlacchi

Europarlamentare Pd

COME PER MOLTI ALTRI PAESI EX COMUNISTI, la più grande sfida per la Romania dalla caduta della Cortina di ferro in poi è stata quella di stabilire e rispettare i principi dello Stato di diritto. Benché la democrazia romena non abbia ancora raggiunto gli standard auspicati da molti romeni, bisogna riconoscere che nell’ultimo periodo si è verificato un salto di qualità estremamente positivo.
Questa primavera, la nuova coalizione social-democratica al governo è riuscita a sbarazzarsi di uno degli accordi finanziari più controversi di tutta l’Unione Europea. Mi riferisco allo schema di trading dell’energia denunciato dalla Commissione europea per diversi anni, senza che alcun precedente governo riuscisse a produrre fatti concreti al di là della solita retorica.
Come conseguenza del malgoverno e della corruzione associati a questo schema di trading intermediato, la Romania ha accumulato una perdita di oltre un miliardo di euro. Una cifra considerevole, sottratta dalle tasche dei contribuenti. Uno dei primi successi ottenuti dal primo ministro Victor Ponta dopo la vittoria elettorale è consistito proprio nella eliminazione di questa frode.
I principi dello Stato di diritto sono stati veri vincitori della crisi politica romena della scorsa estate. La procedura di sospensione del presidente Basescu è stata formulata rispettando scrupolosamente i dettami della Costituzione. Nonostante la stragrande maggioranza di votanti abbia richiesto le dimissioni del presidente (l’87% ha votato a favore del referendum), il governo in carica ha rispettato la decisione finale della Corte costituzionale, che ha deciso di non costringere Basescu a dimettersi poiché non era stato raggiunto il quorum del 50% necessario per conferire validità al referendum stesso. Guardando, inoltre, al numero di reclami registrati durante il referendum, questo voto è stato anche uno dei più trasparenti nella storia democratica della Romania.
Il prossimo grande test del rispetto del principio di legalità in Romania è fissato per il 10 dicembre, che è il giorno successivo alle elezioni politiche nazionali. Molti sondaggi prevedono un netto successo dell’attuale coalizione social-democratica, che potrebbe raggiungere la maggioranza assoluta attestandosi intorno al 60% dei consensi.
Ma il presidente Basescu ha già detto la sua, lanciando un’altra delle sue sfide alla Costituzione della Romania. Egli ha dichiarato che in tutta probabilità si rifiuterà di nominare primo ministro il leader della coalizione vincente.
L’invito di tutti quelli che in Europa hanno a cuore la democrazia romena, e l’invito mio personale al presidente, è di accettare senza indugi la coabitazione con qualunque leader venga eletto dalla maggioranza dei cittadini.
Sarà questo il test decisivo su cui si misurerà la qualità della legalità costituzionale della Romania. La sua violazione riporterebbe il Paese nella zona buia del passato.

Corriere 7.12.12
Ora è possibile fotografare l'attività del singolo neurone
di Massimo Piattelli Palmarini


Nei giorni scorsi, all'Università dell'Arizona, nel quadro delle conferenze interdisciplinari della School of Mind, Brain and Behavior, il neurobiologo Michael Nitabach, dell'Università di Yale, ha presentato risultati ottenuti con una tecnica di imaging molto innovativa, a dir poco. In sostanza, riesce a visualizzare l'attività spontanea di singoli neuroni senza inserire dall'esterno alcun elettrodo, sia pure sottilissimo. Il suo metodo, chiamato «ArcLight», consiste nel far crescere, entro i neuroni del topo, naturalmente, mediante attivazione di specifici geni, una sostanza altamente fluorescente. Questo viene fatto indirizzando la fissazione di tale sostanza verso popolazioni molto specifiche di neuroni. Coltivando poi tali neuroni in vitro, la loro attivazione o inattivazione viene chiaramente rivelata da un rivelatore di fluorescenza. Chiedo al professor Nitabach un commento: «Per molti anni, il Santo Graal della neurobiologia è stato quello di misurare con metodi ottici l'attività della membrana di specifici neuroni. Dopo molti tentativi infruttuosi, riportati da vari laboratori, adesso noi ci siamo riusciti». Mi precisa che anche questi altri metodi usavano, come lui adesso fa, dei marcatori fluorescenti trasportati dall'interno, per via genetica, ma il segnale ottico era troppo debole. Adesso, la sonda genetica ad alta fluorescenza, chiamata, appunto «ArcLight», rivela nettamente il micro-voltaggio dell'attività di specifici neuroni. Le diapositive da lui proiettate nel corso della recente conferenza sono, in effetti, di grande chiarezza. Nitabach si è specificamente concentrato sul topo, mirando ai neuroni detti piramidali dell'ippocampo, un centro cerebrale di capitale importanza, tra l'altro nella fissazione della memoria. Aggiunge: «Inizialmente avevamo messo a punto questa tecnica nel moscerino della frutta, la celeberrima drosofila. Per la prima volta siamo riusciti, date le piccole dimensioni del cervello del moscerino, a realizzare, in esemplari transgenici, una neurofisiologia ottica nel cervello intatto, soprattutto mirando a neuroni responsabili dell'orologio biologico naturale, cioè dei ritmi circadiani (il controllo di veglia, sonno e appetito). Ottimi risultati sono anche stati ottenuti sui neuroni dell'olfatto». Inevitabile è per me la domanda: cosa ci riserva il futuro di questa tecnologia? «I nostri risultati promettono un'estensione della ricerca sul cervello nei mammiferi, dai topi transgenici ai primati. Diventerà possibile una neurofisiologia fine che copra in ogni dettaglio l'intero orizzonte dei processi cerebrali, dallo stimolo alla risposta (il termine tecnico e high-throughput). Questa tecnica può anche trovare applicazioni nello studio delle funzioni neuronali fondamentali di vari organismi e potenzialmente può essere usata per ottenere un controllo ottico delle funzioni di protesi robotiche in pazienti disabili». Il nuovo Santo Graal diventa, quindi, risolvere molti problemi centrali e antichi su come il cervello elabora l'informazione e genera la cognizione.

Corriere 7.12.12
Maria Zambrano
Sant’Agostino erede di Platone
di Armando Torno


Maria Zambrano, la filosofa spagnola scomparsa nel 1991, sosteneva una tesi semplice e sconvolgente al tempo stesso: la cultura europea è nata con le Confessioni di Agostino. In esse non si scopre soltanto un uomo che si converte ma come e perché cambia un'epoca.
Giovanni Reale in questi ultimi anni sta studiando soprattutto Agostino. Dopo il Commento al Vangelo di Giovanni, ora firma la nuova traduzione — testo a fronte, monografia introduttiva di 350 pagine, note esplicative e apparato di cinque indici — delle Confessioni (Bompiani, «Il pensiero occidentale», pp. 1406, 30). La sua ricerca parte da una certezza: è un errore interpretarlo come un filosofo medievale, giacché va letto con gli strumenti del pensiero antico; o meglio: con l'aiuto del neoplatonismo. Tra le novità di questa sua edizione, c'è la «tarsia letteraria», stile basato sulle citazioni che Agostino prende dalla Bibbia. Di tarsia, va precisato, se ne parla solitamente in arte; qui si entra in una nuova dimensione in cui l'ornamento cede il passo alle esigenze di ricerca della verità. Non è, per intenderci, un mosaico con tante fessure; assomiglia piuttosto a quelle tarsie del legno che non lasciano spazio tra l'elemento introdotto e la base in cui sono inserite. Tutto questo per dire che le parole di Agostino nelle Confessioni non avrebbero senso senza gli inserti: non sono ripetizioni retoriche ma locuzioni che ribadiscono un concetto forte, atomi fonetici che egli vede giungere dal Logos incarnato. Si prenda, per esempio, il XIII libro, dove si legge l'interpretazione allegorica della creazione: ha più citazioni che altro e presenta la ri-creazione dell'uomo, la medesima resa possibile dal Logos, dalla Parola, che assume appunto sembianze di carne.
Nelle Confessioni ci si accorge più che in altre opere che i termini della Bibbia sono quelli di Dio. Il lavoro della tarsia lo evidenzia. Kierkegaard osservava che per fidarsi di una persona si chiede la sua parola, ma nota che questo semplice atto Dio l'ha compiuto in Cristo. «Io sono la verità» asserì Gesù: è possibile fidarsi dell'affermazione perché la Parola è stata data in garanzia a ogni uomo. Siamo dinanzi a un'opera che per Reale non va letta con il criterio biografico. Presenta due livelli: uno orizzontale e uno verticale. Nel secondo caso Agostino rimanda continuamente al suo rapporto con Dio. È come se dicesse: tutto quello che ho fatto e che ora vedo o continuo a compiere ha senso solo nel mio ostinato colloquio con Lui. La confessione, insomma, la chiede Lui. La relazione che si instaura è particolarmente forte: l'io si trasforma in un rapporto con il Tu, con Dio.
La Zambrano ha colto un altro aspetto di cui Reale fa tesoro: le Confessioni non hanno dei precedenti letterari se non nel Libro di Giobbe, dove si vive un continuo confronto con il Signore. Ma così come non è biografia Giobbe, allo stesso modo non lo sono le Confessioni: la logica che le governa non è empirico-storica ma quella di un uomo che evoca il significato di alcuni momenti della sua vita, punti topici ripensati attraverso la psiche. Per questo e per altri motivi Reale coglie in esse un'unità. Non ci sono i primi o gli ultimi libri, non c'è per lo studioso un'aggiunta o una digressione sfuggita alla penna: Agostino affronta con un solo respiro quello che è stato o ha pensato, ma anche quello che fu in quel momento, saltando anni, senza mai accantonare la tensione che lo lega al colloquio con l'assoluto.
Certo, verso la fine, soprattutto nei libri XI e XII, entrano in gioco dei concetti fondamentali: la creazione dal nulla, l'eternità, il tempo. Per Agostino, così come per la Chiesa e per i Padri in genere, la stessa materia non è coeterna a Dio ma viene dal nulla. La differenza tra tempo ed eterno incanta ancora il lettore. Si può così comprendere che è domanda senza senso chiedersi cosa facesse Dio prima della creazione, perché il tempo nasce insieme al cosmo, e non c'era un prima e un poi: soltanto dopo l'intervento di Dio la questione si presenta. Platone nel Timeo si interrogò sulla nascita del tempo e delle cose, Agostino risponde aggrappandosi al Creatore. E cos'altro poteva fare? Passano i secoli e anche noi siamo ancora qui, con lui, tra una riga e l'altra delle Confessioni.

Repubblica 7.12.12
La società stressata secondo Sloterdijk
Un saggio del filosofo e un numero di Aut Aut dedicato al suo lavoro
di Antonio Gnoli


Un pensiero avvolto in un elegante confezione lessicale, attraversa da qualche tempo l’attività filosofica di Peter Sloterdijk. Un signore, verrebbe da dire, che si è guadagnato un posto di primissimo piano tra coloro che indagando l’antico non disdegnano di affrontare i dilemmi della modernità. Nell’attuale parlottio filosofico egli si distingue non solo per il rigore, ma anche per la fantasia con cui affronta gli argomenti che lo hanno imposto all’attenzione internazionale. Prontamente recepiti dalla rivista Aut Aut che
gli dedica l’intero nuovo numero, facendone un erede (molto autonomo) di Michel Foucault e interprete eretico ma efficace di Martin Heidegger (piuttosto bello quel libro apparso anni fa da Bompiani, Non siamo ancora stati salvati).
Sloterdijk è noto, altresì, per quel lavoro monumentale (solo parzialmente tradotto in italiano) che è Sfere e per una benevola attenzione con cui fu accolta da noi Critica della ragion cinica, dove l’aggettivo suggeriva più che altro un distinto esame delle virtù antiche. Alle quali egli non ha mai smesso di pensare, anche quando sono fortemente insidiate dal potere tirannico. Come si evince dal suo libro più recente Stress e libertà
(pubblicato da Cortina, l’editore che ha promosso i suoi ultimi libri). Nella casistica medica “Stress” è un termine che denuncia una pressione alla quale rispondiamo con stati d’animo di sofferenza (nervosismo, depressione, eccetera). Nell’accezione di Sloterdijk lo stress più che al singolo individuo va ricondotto alla collettività. Sono i macro corpi politici — quegli animali fiabeschi che rispondono al nome di società — a essere esposti a una certa irrequietezza. Senza la quale, per altro, non si creerebbero i presupposti della stabilità sociale. Lo stress, insomma, non è una malattia ma un ricostituente, un fattore di integrazione sociale, agevolato e promosso dai mezzi di comunicazione di massa. Il cui ruolo è di suggerire “ogni giorno, a ogni ora, nuovi motivi di inquietudine, spunti di indignazione, di invidia, di presunzione”. Le rivoluzioni, in fondo, sono ondate mimetiche di stress condiviso. Ma le società stressate sono anche le più libere? Ogni nascente comunità politica fa un certo uso incondizionato della libertà che decresce tuttavia, man mano che si consolidano gli istituti che la rappresentano. Come liberarsi, allora, dall’oppressione del collettivo? Sloterdijk racconta di Jean-Jacques Rousseau che per sfuggire alla pesantezza e minacciosità del reale rivendica nelle Rêveries il diritto alla spensieratezza. E per questo gli spetta un posto d’onore nella storia della nascente cultura di massa. Quel gesto che Rousseau, sdraiato in una barca sul lago di Bienne, compie come fuga nell’onirico sarà gravido di conseguenze per noi moderni altrettanto afflitti dal reale e pronti, quando possiamo, a evaderne. Sloterdijk non è un propugnatore della cultura del disimpegno post-moderno. Semplicemente coglie uno dei tratti distintivi della nostra contemporaneità. Rispetto alla quale la libertà finisce con l’esprimersi nella sua estatica inutilità.
Da buon filosofo egli sospetta che il Soggetto — sia esso espressione della volontà politica, imprenditoriale, conoscitiva — stia al tramonto. In suo luogo si erge qualcosa di nuovo e di sorprendente che assomiglia a un acrobata. “Il soggetto acrobatico”, nella sua tensione verso l’alto, richiama immagini nicciane, come pure il bisogno di un’ascesi: una soglia di santità, improponibile (al più possiamo aspirare ai “deserti tascabili”) e tuttavia ancora in grado di rammentarci che se Dio è morto noi siamo ancora lì
a elaborarne il lutto.

Repubblica 7.12.12
Renzo Piano: “Niemeyer un architetto con lo stile di Saramago”
di Francesco Erbani


«A 85 anni continuava ad apprendere. Me lo scrisse in una lettera che risale a due decenni fa. E credo che fino all’ultimo respiro Oscar Niemeyer abbia pensato a come proseguire il suo lungo apprendistato». Da Parigi Renzo Piano ricorda l’architetto brasiliano che si è spento nella notte - italiana - fra mercoledì e giovedì. Niemeyer aveva 104 anni e se la sua fibra rude e tenace avesse resistito ancora un po’, appena la metà di dicembre, avrebbe raggiunto i 105. Dai primi di novembre era in ospedale e molte cose facevano pensare che non ne sarebbe più uscito. «Ai miei occhi è sempre sembrato un giovane vecchio», insiste Piano, «un maestro che ha innestato la propria maturità su una specie di adolescenza prolungata nel tempo».
Ultimo esponente del movimento moderno, si è detto di Niemeyer. Dentro il quale linguaggio, però, artista geniale e fantasioso, avrebbe riversato un amore per le forme curvilinee, spiccatamente sensuali e tanto brasiliane che di quel movimento rappresentano un rovesciamento.
Autore prima di abitazioni, fra le quali spicca casa Canoas (1953), realizzata per sé e che poi avrebbe ospitato la Fondazione Niemeyer, quindi degli imponenti edifici, le costruzioni più significative di Brasilia (fra queste la strabiliante cattedrale), città di fondazione, voluta nel 1956 dal presidente brasiliano Juscelino Kubitschek e disegnata dal suo maestro Lucio Costa, con il quale aveva disegnato il padiglione del proprio paese alla Fiera internazionale di New York ancora nel 1939. Fu collaboratore poi di Le Corbusier nel 1947 per il Palazzo di vetro dell’Onu. E quindi progettista di opere in tutto il mondo, dalla Bolivia alla Francia, compresa l’Italia dove ha realizzato la sede della Mondadori, a Segrate.
Intellettuale impegnato, amico di Chico Buarque e di Jorge Amado, e anche di Fidel Castro, iscritto al partito comunista (e per questo esule in Francia durante la dittatura militare in Brasile), ha scritto in un libro raccolto da Alberto Riva (Il mondo è ingiusto,
Mondadori): «L’architettura dovrebbe poter essere goduta da tutti, ma spesso
soltanto i ricchi hanno l’opportunità di farlo. L’architetto lavora per i ricchi, per i governi, per le imprese, un tempo lavorava al servizio di principi e re, e i poveri sono segregati nelle favelas in condizioni di vita assurde». Lui ha lavorato per i ricchi, per i governi e per le imprese, ma l’occhio vigile, sensibile, sul riscontro che produceva quel che usciva dal suo studio l’ha conservato sempre.
Racconta Piano: «Con Niemeyer ci siamo incrociati solo una volta, ma quella volta è stata per me fondamentale».
Quando è accaduto?
«Niemeyer era membro della giuria che doveva decidere del Beaubourg, a Parigi. In quel gruppo c’erano anche gli architetti Philip Johnson e Jean Prouvé, che era anche il presidente. Furono esaminati quasi settecento progetti e dopo seppi che Niemeyer fu un sostenitore acceso del lavoro di Richard Rogers e mio».
E fu decisivo per la vostra vittoria?
«Credo proprio di sì. Sia Johnson che Niemeyer avevano più di sessant’anni quando si svolse il concorso. Ma so per certo che Niemeyer si batté per le innovazioni che proponevamo, scontentando la parte più accademica dell’architettura di quel tempo, soprattutto quella francese e vicina al prestigioso Grand Prix de Rome».
Dopo di allora vi frequentaste?
«Non abbiamo mai avuto stretti rapporti. Niemeyer venne un anno dopo l’avvio dei lavori sul cantiere del Beaubourg. Era un impegno preso dalla giuria. Ma la vicenda del concorso gli procurò noie anche in seguito».
Che tipo di noie?
«Se non ricordo male si svolsero sette diverse cause giudiziarie. E in una, in particolare, vennero coinvolti i membri della giuria. In seguito tutto si risolse per il meglio».
Poi solo contatti a distanza?
«Nella seconda metà degli anni Ottanta lavoravamo a pochi passi l’uno dall’altro, nel XIX
arrondissement di Parigi. Lui realizzava la sede del Partito comunista francese, uno degli edifici più importanti del suo vastissimo catalogo. Io mi occupavo degli appartamenti di Rue de Meaux. E ogni tanto ci scambiavamo qualche visita».
Che cosa apprezza di lui?
«L’assoluta coerenza del suo linguaggio, che potrei definire anche come una forma di integrità. Per certi aspetti mi fa pensare ai romanzi di José Saramago. Un atteggiamento molto lontano dall’idea che la propria architettura debba fare ogni sforzo per essere riconosciuta».
Eppure le forme di Niemeyer mirano ad essere strabilianti la cattedrale di Brasilia, il Museo d’arte contemporanea di Niteroi, il Palacio da Alvorada sempre a Brasilia. O no?
«È vero. Ma i suoi progetti non puntano mai a diventare un brand,
come si dice oggi. E non c’è nulla di più noioso di un brand. Niemeyer ha esplorato diverse strade, ha manifestato un costante desiderio di movimento. Ma, appunto, non è difficile rintracciare in lui una coerenza di fondo».
La vostre architetture sono comunque molto diverse.
«Non potrebbero essere più distanti. Ma, come dicevo, considero il più grande pregio di Niemeyer l’incessante attitudine ad apprendere. La sua è una lezione che vale per tutti noi che facciamo questo lavoro. L’architettura non è un mestiere che possa dare frutti precocemente».
In Italia ha suscitato dure polemiche l’Auditorium di Ravello, sulla costiera amalfitana.
«Io trovo quel progetto molto bello».
Molto bello, però, è anche il paesaggio in cui quell’edificio cala.
«Ho seguito a distanza le discussioni. So soltanto che in quell’area ci si voleva fare un parcheggio...».
... o anche nulla, come molti sostenevano fosse la soluzione migliore.
«A prescindere da quel dibattito, che conosco poco, vorrei si sottolineasse la generosità e la misura di un personaggio che a quasi cent’anni si è cimentato con un’impresa così delicata. Anche in quel progetto c’è un elemento della sua grandezza».

l’Unità 7.12.12
Architetto da Oscar
Se n’è andato a 104 anni Niemeyer ideatore della città di Brasilia
Era il 1957 quando il presidente Kubitschek gli disse: «Sto per costruire una nuova capitale del Paese e voglio che mi aiuti». Un’idea socialista con tutte le case del governo affittate ai lavoratori
di Renato Pallavicini


ROMA CORRE, CADE, SI RIALZA, S’ARRAMPICA L’ATLETICO JEAN-PAUL BELMONDO in una lunga sequenza di L’uomo di Rio, un film di grande successo del 1963. Ma il vero «uomo di Rio», l’autentico protagonista non è l’attore francese ma colui che ha costruito lo sfondo su cui si muove Belmondo: un susseguirsi vertiginoso di edifici, archi, pilastri che un tempo si definivano «avveniristici» piantati su un terreno rosso, desertico. È la città di Brasilia, nuova capitale politica del Brasile, inaugurata soltanto tre anni prima. Quella città «utopica» che fa da scena alla sequenza cinematografica è opera di Oscar Niemeyer, ingegnere, architetto e uno dei maestri del Novecento, morto ieri nell’ospedale samaritano di Rio de Janeiro a pochi giorni dal suo 105° compleanno (era nato a Rio, il 15 dicembre del 1907).
Nel 1957, quando il nuovo presidente del Brasile, Juscelino Kubitschek, chiama Niemeyer e gli dice: «Sto per fare costruire una nuova capitale del paese e voglio che lei mi aiuti», l’architetto è già l’affermato protagonista del Modernismo brasiliano ma, soprattutto, è forte di un’esperienza di formazione invidiabile. Dalla metà degli anni Trenta, infatti, lavora nello studio di Lucio Costa (che firmerà il piano urbanistico di Brasilia) e lavora fianco a fianco con un team di architetti che ha, tra i suoi consulenti, Le Corbusier. Ha già progettato, lavorato e costruito molto: il Ministero dell’Educazione e della Sanità a Rio; il padiglione brasiliano alla New York World’s Fair; il complesso di Pampulha, vicino Belo Horizonte, in cui spicca la chiesa di San Francesco d’Assisi (un’onda di cemento bianco che le gerarchie ecclesiastiche si rifiutarono a lungo di consacrare a causa della sua forma poco ortodossa); la sede dell’Onu a New York (in collaborazione con Le Corbusier); il palazzo Copan a San Paolo. E poi il Parco Ibirapuera, sempre a San Paolo (assieme al grande paesaggista Roberto Burle Marx), e la sua stupenda Casa das Canoas a Rio: un sinuoso padiglione immerso nel verde, un’altra applicazione concreta della sua idea di forma: «una curva libera e sensuale amava ripetere la curva che trovo sulle montagne del mio paese, nel corso sinuoso dei suoi fiumi, nelle onde dell'oceano, nelle nuvole del cielo e nel corpo della donna preferita». Infine ma siamo solo a metà della sua straordinaria vita e carriera Brasilia, città nuova, nuovissima, lontanissima dalle altre maggiori città del Paese, venuta su in una landa deserta. Un’idea «socialista» con tutte le case di proprietà del governo e affittate ai lavoratori, con zone omogenee e «uguali», senza distinzioni tra il ceto politico e i cittadini comuni che la abiteranno (ma negli anni le cose non andranno proprio così). Un’idea e un piano urbanistico disegnato da Lucio Costa che ha la forma di un grande uccello, con un asse centrale lungo il quale si allineano gli edifici pubblici e, ai lati, le grandi ali per le abitazioni. In fondo alla promenade architectural che è la spina dorsale della città, spicca il complesso del Congresso Nazionale (il doppio grattacielo lamellare con alla base le coppe che fanno da cupola alle aule parlamentari). Disseminate nell’area della città le altre perle di questa fantastica collana niemeyeriana: dall’ardito paraboloide della Cattedrale alle eleganti membrature del Palazzo dell’Alvorada e ai sottili pilastri del Palazzo Itimaray (che saranno poi «replicati» nella sede della Mondadori a Segrate).
Comunista dal 1945 fino ai suoi ultimi giorni (Fidel Castro dirà di lui: «Niemeyer ed io siamo gli ultimi comunisti rimasti a questo mondo»), Niemeyer sarà costretto, di lì a pochi anni, a subire minacce e persecuzioni dal regime militare che aveva preso il potere con il golpe del 1964: il suo studio verrà saccheggiato più volte e la rivista Modulo, che aveva fondato nel 1955, sarà chiusa. Oscar emigra in Europa e si ferma a Parigi, dove apre un nuovo studio. Qui progetta la splendida sede del Pcf e subito dopo, a Milano Segrate, lavora al nuovo edificio della casa editrice Mondadori, realizzando quell'altro gioiello di forza e leggerezza, di modernismo temperato da una sensibilità per i materiali e per l'ambiente che era sconosciuta alla deriva dell’International Style che aveva preso il sopravvento e consegnato le aspirazioni migliori del razionalismo al mercatismo immobiliare.
Insignito di onorificenze e premi (tra questi il Pritzker Prize nel 1988) e tornato in Brasile alla fine della dittatura (1985), l’ottantenne Niemeyer non smette di stupire e sfodera una serie di opere strepitose per forma e arditezza strutturale: dal Museo di Arte contemporanea a Niterói (1996), un disco volante bianco appoggiato su uno sperone di roccia nella baia della città, al Mon Museo a Curitiba (2002), un’occhio di cemento adagiato su un parallelepipedo; dall'Auditorium di Ibirapuera a San Paolo (2005), ancora una «provocazione» formale con quella lingua rossa che guizza fuori da una parete bianca, fino all’Auditorium di Ravello (2009), coraggioso e poetico, sciaguratamente in abbandono a pochi anni dalla sua inaugurazione.
Accusato di tradimento e di formalismo dai rigidi custodi del purismo geometrico razionalista, Niemeyer andò dritto per la sua strada: nella vita (a 98 anni, contro la volontà dell'unica figlia, si risposa con la sua segretaria, più giovane di lui di 38 anni) e nel lavoro. Libero, dal suo studio che si affaccia su Copacabana, guardava il mare e le colline di Rio, mentre con la mano tracciava sulla carta le curve angeliche che lo hanno fatto volare in cielo.

l’Unità 7.12.12
Il cinismo dei ricchi
Parlava sempre dei poveri. E per ultimare in tempi rapidi il progetto di Ravello dormì spesso nel suo studio
di Domenico De Masi

OSCAR NIEMEYER È STATO UNO DEI MASSIMI ARCHITETTI DEL SECOLO. EPPURE IL SUO MERITO MAGGIORE FORSE NON CONSISTE NELLA SUA GENIALITÀ ARCHITETTONICA, per quanto straordinaria, ma nella sua generosa saggezza e nel suo coraggio politico.
Parlando di se stesso, ha scritto: «Il mio vero nome è Oscar Ribeiro de Almeida de Niemeyer Soares ma sono conosciuto come Oscar Niemeryer. Le mie origini sono multiple, cosa che mi aggrada particolarmente: Ribeiro e Soares, portoghesi; Almeida, arabo; Niemeyer tedesco. Sono dunque meticcio come sono meticci tutti i miei fratelli brasiliani». Da questo meticciato, Niemeyer ha ricavato un senso di solidarietà che lo ha accompagnato per tutta la vita: «Io mi vergognerei se fossi un uomo ricco», usava ripetere. In tutti questi anni di amicizia, ogni volta che ci incontravamo per le nostre lunghe chiacchierate, il suo discorso sempre finiva sui poveri, sul cinismo dei ric-
chi, sulla necessità di intervenire con intransigenza in questo mondo ingiusto che dobbiamo migliorare. Quando seppe che avrei desiderato un suo progetto per l’Auditorium Oscar Niemeyer di Ravello, ma che il Comune non poteva permettersi un progettista così prezioso, mi telefonò per assicurarmi che in settanta giorni avrebbe approntato il progetto iniziale e in altri quattro mesi di lavoro avrebbe consegnato il progetto definitivo. E così fece, con un impegno ininterrotto, che lo costrinse a dormire più volte nel suo studio, senza tornare a casa. In Italia vi sono solo tre capolavori di questo grande architetto: la sede della Mondadori a Milano, la sede della società Burgo a Torino e l’Auditorium di Ravello ma più volte Niemeyer mi ha detto che aveva per il capolavoro ravellese una forte predilezione. Gli piaceva l’idea che quest’opera potesse contribuire a destagionalizzare il turismo e dare lavoro ai giovani in un settore come la musica e l’arte. Inoltre gli piaceva l’idea che l’Auditorium sarebbe stato gestito dalla stessa collettività, tramite il Comune. Il poeta Keats diceva che «l’opera d’arte è una gioia creata per sempre». Ora che l’Auditorium è realizzato, Niemeyer sarà certo felice per la gioia donata alla Campania e per la soave dolcezza che, sotto la sua cupola felice, la musica donerà per secoli agli ascoltatori, sorpresi dalle linee curve del capolavoro nell’azzurro del cielo e del mare.
Ora il modo migliore per essere grati a un genio grande e disinteressato come Niemeyer è di coltivare i suoi valori anche nella nostra regione: la generosità, la creatività, la contemplazione della bellezza, l’umiltà e l’intransigenza.

il Fatto 7.12.12
L’Oscar dell’architettura
Niemeyer, ideatore di Brasilia, si è spento a 104 anni
Da 50 era una leggenda vivente
di Giuseppe Bizzarri


Rio de Janeiro Il 15 dicembre avrebbe compiuto 105 anni, ma Oscar Niemeyer, questa volta, non è riuscito a vincere la partita che aveva in sospeso da tempo con la morte. Ricoverato per la terza volta quest’anno, il maestro dell’architettura moderna è morto alle ventidue di mercoledì all’ospedale Samaritana di Rio de Janeiro, dove era internato dal 2 novembre. Nel momento della morte, c’erano al suo fianco la sua seconda moglie Vera Lucia, 67 anni e i suoi nipoti. Oscar, come amava farsi chiamare, è stato lucido per tutto il giorno, ma durante la serata il suo stato si era aggravato.
LA MORTE del leggendario progettista ha lasciato un vuoto non solo nell’architettura mondiale, ma anche nella vita di molti brasiliani, inclusi quelli della Rocinha che hanno sempre rammentato i suoi compleanni con striscioni d’auguri appesi al ponte progettato dall’architetto di fronte alla sterminata favela carioca. L’instancabile Oscar amava la vita, gli amici e non smetteva mai di lavorare. Immancabilmente alle dieci del mattino si recava nel suo affascinante studio di Copacabana in cui ha progettato i suoi inconfondibili edifici nel mondo, ma dove accoglieva anche una volta a settimana amici e conoscenti per parlare a lungo di astronomia, filosofia e politica. “La mia vita non ha avuto nulla di particolare, è stata uguale a quella di qualsiasi altro essere umano; oltretutto non so neanche io come ho potuto vivere così a lungo”. È quello che disse Niemeyer a decine di giornalisti del mondo intero presenti all’affollata festa di compleanno in cui Oscar celebrò il suo centesimo anno di vita nella Casa das Canoas, la villa progettata da giovane e in cui visse nella lussureggiante foresta tropicale della Tijuca a Rio de Janeiro.
OGNI GIORNO, in quattro continenti, centinaia di migliaia di persone entrano ed escono nei sinuosi e sensuali edifici progettati dall’architetto. Niemeyer ha utilizzato la linea curva in maniera inconfondibile, anche per questo, alcuni esperti, hanno considerato il brasiliano come uno scultore monumentale più che un architetto. Oscar amava la linea curva perché gli rammentava quelle presenti nella natura e nelle donne che ha sempre amato nella sua vita di bon vivant. Fino alla fine ha bevuto vino e ha fumato i suoi cigarrilhos cubanos. Adorava cenare al Terzetto nel bairro di Ipanema, dove abitava in un appartamento di tre stanze. Ci viveva con Vera, la sua ex segretaria che sposò a 99 anni. Religiosamente ateo, Oscar non credeva che ci fosse qualcosa dopo la morte.
Il genio brasiliano è stato un precursore nell’utilizzazione del cemento armato come elemento espressivo architettonico. Con Lucio Costa, amico e professore di facoltà, Niemeyer ha coronato il sogno di molti architetti, quello di progettare una città, Brasilia. Ma per Oscar il lavoro non è stato la cosa più importante della sua lunga esistenza. “Bisogna pensare a un’architettura per la vita. La vita è al disopra di tutto. Bisogna prepararci per organizzarla correttamente, rispettando tutti, poiché siamo tutti uguali. La vita è l’obiettivo principale, ma sfortunatamente non è così. Un giovane architetto esce dall’università, ma non ha mai letto un libro che lo faccia pensare alla vita, ai problemi sociali. Tutti pensano a una bell’architettura, ma questo non cambia nulla. È la vita che cambia l’architettura”, ha detto Niemeyer. Affiliatosi al Partito Comunista nel 1945, esiliato in Francia durante la dittatura militare in Brasile, l’architetto ha sempre difeso i diritti della classe lavoratrice. “Niemeyer ed io siamo gli ultimi comunisti di questo pianeta” disse Fidel Castro, quando andò a trovarlo nella sua casa di Rio.

Corriere 7.2.12
Niemeyer. L'utopista che creò la sua città dal nulla
di Stefano Bucci


Il 15 dicembre avrebbe compiuto 105 anni. Dal 2 novembre era ricoverato all'Ospedale Samaritano di Rio de Janeiro per disidratazione e i bollettini alternavano speranze e cattivi presagi. Così se n'è andato Oscar Niemeyer, ultimo grande dell'architettura moderna.
Da poco era uscito per Mondadori Il mondo è ingiusto, libro-testamento curato da Alberto Riva. Vanitoso (amava le camicie bianche e i profumi francesi), Oscar Niemeyer fino alla fine ha voluto guardare oltre (non aveva nemmeno esitato a sottoporsi a un intervento di chirurgia plastica per farsi togliere una brutta macchia dal viso). A cominciare dai progetti ai quali continuava a lavorare: un «sambodromo» di Rio (simbolo delle Olimpiadi del 2016); il museo del calcio «Pelè», a Santos; una chiesa a Petropolis; un altro «salsodromo» a Calì, in Colombia; una piazza nel Kazakhistan, ad Astana. E poi c'era l'impegno per la rivista «Novo Caminho» («Partecipo sempre alle riunioni della redazione perché amo stare e parlare con i giovani»). «Avere cent'anni è una merda»: si era lasciato scappare durante uno degli ultimi incontri pubblici (ma diceva vezzosamente di sentirsi «al massimo sessant'anni»). E aveva aggiunto: «Tutto sta divenendo più difficile. Ogni giorno è come se mi trovassi a dire addio alle persone. D'altra parte il nostro destino è quello di vivere, di morire e di vedere gli altri morire».
L'uomo che creò Brasilia, «l'unico moderno a cui è stato concesso di costruire una capitale», è stato il prototipo di tutte le archistar. Eppure poco prima di morire aveva detto: «Mi fanno inorridire; la nuova architettura è noiosa e priva di bellezza. Tutti quegli edifici di vetro puntano a stupire, ma non sanno che la bellezza sta nella semplicità e che la tecnologia deve essere sempre al servizio della bellezza». Progettista militante, tra i sostenitori dell'attuale presidente Dilma Rousseff (nonché grande amico dell'ex leader Lula) ha realizzato più di 600 opere in tutto il mondo, in oltre 70 anni di carriera. Secondo Oscar Ribeiro de Almeida de Niemeyer Soares, per tutti Oscar Niemeyer, l'architettura era d'altra parte solo «uno dei tanti tasselli che compongono l'esistenza dell'uomo» al pari di arte, letteratura, musica, scienza e donne: non è stato solo un «tecnico» appassionato di Palladio e Alvar Aalto ma anche «buon intenditore» di Matisse e Calvino, di Einstein e Visconti. E ha sempre cercato di conoscere il mondo. Compresa la politica: amico di Fidel, amava parlare di sé come dell'«ultimo dei comunisti rimasti», ma era stato anche uno dei 60 artisti prescelti dal cardinale Ravasi per rendere omaggio, in una mostra in Vaticano nella scorsa estate, ai 60 anni di sacerdozio di papa Ratzinger (aveva accettato inviando il modello per il campanile della nuova Cattedrale di Belo Horizonte, perché «voleva che il Papa la vedesse»).
Sperimentatore di nuovi concetti architettonici, è riuscito a elaborare uno stile «scultoreo fluido», servendosi del cemento armato «per creare strutture emozionanti e sensazionali». Strutture che finivano sempre (o quasi) per ricordare le sinuose curve naturali delle sue montagne e spiagge, e della baia di Rio de Janeiro. Al pari dei maestri, Lúcio Costa e Le Corbusier, Niemeyer è stato un modernista, «ma la sua ricerca di architettura grandiosa lo ha portato a elaborare nuove forme di un inedito lirismo architettonico». Dalla Residencia Oswald de Andrade a San Paolo (1938) alla sede della Mondadori a Segrate (1976), dal Museo d'arte contemporanea di Niterói (1996) all'installazione per la Serpentine Gallery a Londra (2003).
Niemeyer nasce a Rio de Janeiro nel 1907, da una famiglia di origini tedesche. Dopo una gioventù da «ricco bohémien carioca» e dopo essersi sposato a 21 anni con Annita Baldo (figlia di immigrati veneti), si laurea alla Scuola nazionale di Belle Arti di Rio nel 1934, e nel '37 si unisce a un gruppo di architetti brasiliani (tra cui Lúcio Costa e Carlos Leão) che collabora con Le Corbusier («un maestro anche se umanamente non ho mai condiviso certe sue scelte») alla costruzione del nuovo ministero dell'Educazione e della Sanità di Rio (il cosiddetto Capanema Palace), esperienza che lui giudicherà «estremamente formativa». La collaborazione con Le Corbusier, che l'avrebbe definito «ragazzo prodigio», sarebbe proseguita con il Palazzo delle Nazioni Unite di New York (1947).
Le forme «fluide» di Niemeyer sembrarono, da subito, «offrire un'alternativa poetica alle linee dritte e agli angoli retti dello stile internazionale», che rappresentava la tendenza dominante dell'architettura europea anni 30 («non sono attratto dalla rigidità dell'angolo retto e della linea retta, ma dalla sensualità della curva»). Nel 1956, la svolta: Juscelino Kubitschek, presidente del Brasile, nomina Niemeyer consulente architettonico della NovaCap, l'organizzazione incaricata di realizzare i progetti di Lúcio Costa per la nuova capitale del Brasile, in un'area disabitata al centro del paese. L'anno successivo diventa capo architetto della NovaCap, progettando la maggior parte degli importanti edifici della città (a lui e alla costruzione di Brasilia si sarebbe ispirato il film L'uomo di Rio con Jean-Paul Belmondo). Edifici destinati a diventare «pietre miliari del simbolismo moderno» dove la natura avrebbe dovuto integrarsi con l'architettura, senza divisione tra zone per ricchi e per poveri.
Niemeyer parlava di Brasilia come di «un sogno realizzato»: aver dimostrato che anche «il Brasile poteva essere capace di fare grandi progetti, di creare addirittura una città». Minimizzando le accuse che venivano mosse a quel progetto (sogno mancato, città invivibile): «Brasilia ha gli stessi problemi di tutte le altre città, dal degrado degli edifici alla difficile manutenzione. Ma nonostante tutto può andare bene così». La sua permanenza in Brasile si conclude nel 1964, quando la sua appartenenza politica al Partito comunista (si era iscritto nel 1945) lo costringe a emigrare in Francia. All'inizio degli anni 80, con la fine della dittatura, il ritorno in Brasile, l'insegnamento all'Università di Rio de Janeiro e i progetti per i «privati».
Fino all'ultimo ha lavorato — a 98 anni si è risposato con la segretaria Vera Lucia. Nel suo ufficio, all'ultimo piano di Casa Ypiranga, in un appartamento studio bianco e pieno di luce, fatto di pochi arredi (qualche poltrona di cuoio nero, una chaise longue, una sedia a dondolo di metallo, un tavolo), sulla parete a lungo è rimasto inciso un motto: «Quando la miseria si moltiplica e la speranza fugge dall'uomo, è tempo di rivoluzione». E fino all'ultimo ha avuto nel cuore il Brasile: «Il mio è il paese di Ipanema e delle favelas — diceva — per il quale bisogna combattere sempre».

il Fatto 7.12.12
Pillole on line. La “radio-follia” che fa bene
Un gruppo di pazienti psichiatrici e un programma su Internet per essere liberi di parlare di tutto, dal Medio Oriente al calcio
di Francesco Maesano


Se la Roma avesse perso, non c’era primavera araba che tenesse” racconta Gabriella, una delle operatrici del centro diurno per pazienti psichiatrici di via Montesanto, nel quartiere romano di Prati, dove ogni venerdì si svolge la riunione di redazione di Radio Uéb, che si può ascoltare su www.radioueb.it . “I pazienti psichiatrici più gravi – ci spiega il dottor Gianluigi di Cesare, responsabile medico del centro – tendono ad essere compiacenti con i servizi di assistenza, ad immedesimarsi totalmente in uno stato di sudditanza verso l’istituzione che li ha in cura e a non assumere mai un ruolo critico. La radio, viceversa, è uno spazio dove possono esercitare questo diritto di critica, anche dura, aggressiva. O almeno così dovrebbero. Da questo punto di vista ha una funzione terapeutica. È un dato: le prognosi migliorano quando si riduce il rapporto di potere tra medico e paziente”. Gli ospiti del centro l’hanno interpretato alla lettera: “La prima cosa che ci siamo chiesti è stata se volessimo essere la radio del centro diurno o una radio libera. Abbiamo scelto la seconda” dice uno dei pazienti più attivi nella radio, che chiameremo Alfredo.
“IL PROBLEMA più grande che abbiamo è quello dell’autocensura. Noi tutti sentiamo di appartenere all’istituzione che rappresenta questo centro diurno e questo porta qualcuno di noi a decidere di censurarsi un’opinione o un commento. Il venerdì facciamo la nostra riunione di redazione e pensiamo a cosa dire nelle pillole di 20/25 minuti che poi pubblichiamo sul sito della radio. Alle volte i contributi durano anche meno e diventano delle gocce, più che altro. L’anno scorso ci siamo occupati della primavera araba e ci siamo chiesti il significato della parola rivoluzione, ci siamo interrogati sul come si realizza un cambiamento. Abbiamo parlato del referendum sull’acqua. Siamo stati al festival del cinema del reale a Specchia, in Salento. Tutto mi sarei aspettato meno che un giorno mi sarei ritrovato ad essere l’inviato di una radio. Da poco abbiamo anche una pagina Face-book, per farci conoscere, per promuovere la radio. Stiamo per postare una trasmissione dal titolo ‘crisi e psichiatria’, incentrata sui tagli al servizio sanitario nazionale decisi nella spending review”. “Il bilancio del centro – lo interrompe Gabriella – è finanziato in parte dalla regione e in parte dal comune di Roma. Il budget è lo stesso da vent’anni. Nel 1996, quando sono arrivata, qui c’erano otto infermieri, uno psicologo e uno psichiatra. Ora riusciamo a malapena a garantire la metà delle ore, è come se avessimo quattro persone e mezza”.
“Radio Uéb – ci spiega il dottor di Cesare – è passata attraverso una gestazione un po’ lunga. Ci sono voluti due anni per riuscire a mettere insieme la strumentazione e trovare qualcuno che ci aiutasse dal punto di vista tecnico”. “È una radio discontinua, in pillole. Perchè qui le pillole a volte le prendiamo e a volte no”, racconta l’organizzatore delle trasmissioni, Paolo Pisanelli, una laurea in architettura e un diploma al centro sperimentale di cinematografia: “Sono entrato nel centro diurno per realizzare un documentario. Alla fine delle riprese ho proposto al dottor di Cesare di organizzare un corso di cinema per i pazienti: è durato tre anni, poi l’abbiamo riconvertito in laboratorio radiofonico. Con la redazione parliamo di tutto, di crisi della sanità, degli alloggi, qualcuno ha raccontato la sua esperienza personale. Ci siamo chiesti se esista un genere musicale che aiuti a guarire, abbiamo tirato giù un elenco di ricette da mettere in campo per imparare a tenere sotto controllo gli attacchi d’ansia. Ma discutiamo anche di argomenti più leggeri, il calcio, il teatro. Dopo una fase di elaborazione iniziale, molto lunga, ora ci sentiamo pronti ad aprirci verso l’esterno”.

Repubblica 7.12.12
La libertà di Internet
di Timothy Garton Ash


In sintesi l’etica del buon giornalismo e la prassi della buona autoregolamentazione indipendente dovrebbero e potrebbero coincidere online e sulla carta stampata. Dopo tutto, perché le parole che state leggendo in questo momento dovrebbero essere vagliate, soppesate o trattate diversamente solo in base alla forma in cui le vedete?
Ovviamente Internet ha aperto nuove grandi sfide. Su alcune si dibatterà in modo acceso questa settimana in occasione della Conferenza Mondiale della Tecnologia dell’informazione organizzata a Dubai, Emirati Arabi Uniti, dall’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni, un organismo Onu. La federazione degli emirati del Golfo ha varato recentemente un decreto che rende punibile con un minimo di tre anni di carcere l’utilizzo di un sito web o di qualunque altro mezzo informatico al fine di “irridere o danneggiare la reputazione o la levatura dello stato o di qualunque sua istituzione”, e in tali “istituzioni” vanno inclusi i governanti degli emirati, i loro vice e i principi ereditari. Proprio il posto adatto per ospitare una conferenza sulla regolamentazione di Internet.
Il tema caldo a Dubai è stabilire se i governi, molti dei quali autoritari, riusciranno a controllare in maniera più efficace una rete che porta ancora cospicue tracce delle sue origini americane di strumento di libertà di espressione. Da più parti si punta a rendere i motori di ricerca come Google, i social network come Facebook e i siti di microblogging come Twitter responsabili di quanto pubblicato online da voi, da me, da dissidenti sotto pseudonimo, da idioti anonimi e, recentemente dal Papa (@Pontifex), alla stregua di editori. Un’opposizione netta a qualunque versione più intrusiva della cosiddetta “responsabilità dell’intermediario” è vitale per il futuro della libertà di espressione a livello globale.
Poi si pone il problema di come rendere responsabili i singoli blogger e tweeter per le affermazioni ineducate, offensive o imprecise digitate nella foga del dibattito online. L’ex tesoriere del Partito conservatore, Lord McAlpine, lo sta sperimentando nel diritto britannico perseguendo legalmente centinaia di utenti che hanno ritwittato un messaggio errato e diffamatorio che lo voleva coinvolto in una vicenda di pedofilia. Ma, legge o non legge, ci sono mille interrogativi riguardo a come dovremmo esprimerci online o reagire alla stupidità e all’infantilismo di certi tweet razzisti, ad esempio.
Si tratta di tematiche del tutto nuove, complesse, difficili. Ma, stranamente, Internet influisce pochissimo sulle questioni relative all’etica del giornalismo. (L’etica, ripeto, non il modello commerciale). Quello che era buon giornalismo nel 1962 resta buon giornalismo oggi, come l’infimo giornalismo di allora resta infimo oggi.
La semplice quantità di contenuti editoriali che il Guardian o la Bbc mettono online ogni ora e la velocità con cui li postano ne rende più arduo il controllo. Le regole per i commenti dei lettori online sono ovviamente diverse da quelle applicabili alla posta dei lettori sull’edizione cartacea, ma essenzialmente ad ogni contenuto di cui quello che ancora chiamiamo “il giornale” si assume la responsabilità editoriale dovrebbero applicarsi gli stessi standard etici. Wikileaks non sarebbe esistito senza Internet, ma il
New York Times, Le Monde e il Guardian non vi hanno applicato standard editoriali molto diversi rispetto a quelli validi in passato per il Nastri del Watergate, le Carte del Pentagono o addirittura il Telegramma Zimmermann del 1917.
Come osserva Leveson, il Mail Online, uno dei siti giornalistici più cliccati, si è impegnato volontariamente ad attenersi al Codice dei giornalisti redatto dalla ormai screditata Press Complaints Commission (Pcc). Anche l’Huffington Post UK è membro della Pcc. Sì, lo so, la Commissione ha meno denti di una Babushka ucraina centenaria, ma se la Gran Bretagna si dota di un vero e proprio garante indipendente della “stampa”, non vedo perché le testate online, grandi e piccine, non debbano aderire agli standard e alle procedure imposte, godendo dei promessi vantaggi giuridici e finanziari.
In breve, Internet non è un “vuoto etico” più di quanto lo sia la carta stampata. Forse è più facile pubblicare spazzatura online ma esistono anche nuove opportunità per fare del grande giornalismo su Internet. Il problema vero che Internet pone non è di stampo etico, bensì finanziario. Come procurarsi i fondi necessari a un giornalismo di livello, soprattutto i reportage dall’estero, nel momento in cui “i commenti sono gratis, i fatti costano”? Il problema è questo. Meno male che scrivendo questo articolo per la vecchia carta stampata ho un limite imposto dai centimetri su una pagina fisica e non ho più spazio per la risposta. Che peraltro non ho.
Traduzione di Emilia Benghi

Corriere 7.12.12
Editoria, il ruggito dei piccoli
Fatturato e vendite scendono meno rispetto ai grandi gruppi
di Edoardo Sassi


A causa della crisi economica, nel mercato del 2012 hanno rallentato tutti. Ma loro, i piccoli e medi editori — quelli con un massimo di 80 titoli pubblicati all'anno, da ieri e fino a domenica riuniti a Roma per l'XI edizione della fiera «Più libri più liberi» — rallentano un po' meno degli altri, ovvero dei colleghi grandi editori. E si difendono.
Questo il dato principale emerso nella giornata di apertura dell'ormai tradizionale kermesse al Palazzo dei Congressi dell'Eur, durante la presentazione dell'annuale rapporto Nielsen: meno 7,1 per cento per la piccola e media editoria, meno 7,5 per cento per il mercato librario nel suo complesso. Il meno 7,1 rispetto al 2011 riguarda il dato «a valore» (fatturato), mentre sulle copie il calo scende al -6,3 per cento, con performance comunque un filo migliori rispetto a quelle del mercato nel complesso. Va però ricordato che quel meno 7,1 è ovviamente «media», e che tra molti piccoli il calo è assai maggiore ma statisticamente influenzato dai casi di alcuni bestseller (un esempio per tutti: il doppio recente primato in classifica per il marchio Sellerio, con Andrea Camilleri e Marco Malvaldi).
«È un momento di grande sofferenza per il Paese, dunque è naturale che anche il libro soffra», il primo commento di Marco Polillo, presidente dell'Aie, l'Associazione italiana editori che è anche organizzatrice della fiera. Poi, l'auspicio: «Ora confidiamo che il Natale porti una boccata d'ossigeno per tutti, piccoli, medi, grandi, e faccia riscoprire il valore di regalare un libro». Non è stato in effetti un anno facile per nessuno, neanche per il mercato dei piccoli e medi, che già si erano presentati al tradizionale appuntamento romano — 400 gli espositori quest'anno, 60 mila i titoli esposti, 280 gli appuntamenti tra incontri con l'autore e dibattiti — con molti indici in negativo nei dati 2011 su 2010 (calo del numero degli editori, diminuzione dei titoli pubblicati che sfiorava il 10 per cento, tagli degli addetti dell'11,7 eccetera).
Al di là degli auspici natalizi, chiude comunque con qualche speranza concreta in più il mercato librario 2012 in generale, i cui dati, diffusi sempre ieri nella capitale, riguardano come sempre il periodo gennaio-ottobre (nello specifico i numeri Nielsen concernenti la piccola editoria utilizzano come campione rappresentativo proprio gli espositori della Fiera). Migliora infatti nella seconda parte dell'anno l'andamento: a fine ottobre si è registrata una sia pur piccolissima ripresa, dopo il consistente calo dei consumi del libro, che segna un meno 7,5% a valore (pari a 82 milioni di euro di spesa in meno) nei canali cosiddetti trade (librerie tradizionali, catene di librerie, grande distribuzione, internet). Certo, un segno meno ancora molto consistente, che però indica, è stato spiegato, un progressivo recupero se si considera che il mercato registrava un meno 11,7 per cento a fine marzo e un meno 8,6 per cento a settembre (maggio è il mese col calo minore, meno 1,3).
Cresce il peso del settore ragazzi e della fiction, ma anche qui il segno generale resta negativo, nonostante il segmento bambini e ragazzi e la fiction siano quelli che registrano migliori performance: meno 6,1 per cento a valore e meno 5,2 a copie per l'editoria per i più piccoli, meno 2,7 a valore e meno 0,9 a copie la fiction. Perdono parecchi punti invece tutti gli altri generi: non-fiction pratica (meno 10,6, vi rientrano libri per il tempo libero, libri di cucina, famiglia e benessere); non fiction specialistica (meno 10,7, vi rientrano testi di management, giurisprudenza, business, economia, computer) fino alla non fiction generale (meno 14,1 per testi d'arte, religione, attualità, storia). Lo stesso settore ragazzi aumenta di peso anche per i piccoli (crescendo a valore del 5,6 per cento), dove perde la fiction (5,6%) e moltissimo la non fiction pratica (meno 11,5), quella generale (meno 11,7), quella specialistica (meno 9).
Oggi il secondo giorno di programmazione della fiera, dove fino a domenica sono attesi, tra gli altri, in veste di autori o ospiti, Camilleri e Malvaldi, Dacia Maraini, Nanni Moretti, Marco Bellocchio, Margherita Hack e decine di altri... Ieri l'apertura con la lectio magistralis di Massimo Cacciari dal titolo Il libro nell'età dell'immagine.

Repubblica 7.12.12
Quei titoli in classifica grazie a Twitter e ai blog
Una ricerca dell’Aie a “Più libri più liberi” sull’influenza nelle vendite della Rete
di Simonetta Fiori


È solo una questione di “follower”. Se un tempo gli editori corteggiavano i critici letterari, oggi buttano un occhio su Twitter. «Basta avere più di cento followers che cominciano a spedirti libri da recensire», confessa la blogger Jessa Crispin, fondatrice di Bookslut, un blog culturale molto seguito negli Stati Uniti. Ma anche in Italia le cose cominciano a cambiare. Dipende dai libri, naturalmente. È difficile che un tweet possa decretare la fortuna di Melville, ma certo può fare impennare le vendite del memoir di Agassi, il campione di tennis che ha sfogato in Open tutto il suo odio per la racchetta. Questa volta è bastato un mucchietto di caratteri di Valentino Rossi, non esageratamente pensosi. “Me lo ha regalato un mio amico che ne legge un sacco. Ve lo consiglio”. Duecento copie di Agassi vendute quel giorno in libreria. Altro che Bo o Cecchi, o — per essere più contemporanei — Mengaldo o Guglielmi. Loro un milione e quattrocentomila followers non ce li hanno. Il campione di motociclismo sì.
Esplora un mondo ancora sommerso l’inedita ricerca dell’Aie, che per la prima volta indaga l’influenza sui lettori esercitata dai blog di libri (sarà presentata domenica a Più libri più liberi).
La metodologia è ancora sperimentale, ma l’inchiesta ha il merito di lumeggiare anche i minimi movimenti determinati dalle piazze letterarie considerate più importanti, ed è già qui un elemento di novità. Le case editrici hanno espresso una lista dei blog più influenti, dal borgesiano Finzioni a Tazzina di caffè, e poi Minima Moralia, Booksblog, Critica letteraria, Ho un libro in testa, Letteratitudine, Bookfool, Vibrisse, Nazione Indiana, Il primo amore, Scrittevolmente, Amanti dei libri.
Tredici sigle a cui si attribuisce un peso. Con quali esiti?
I numeri, a dire il vero, sono pochi e confusi, «proprio come per le questure quando ci sono le manifestazioni », aggiunge spiritosamente Giovanni Peresson, curatore dell’inchiesta. «Se da un lato emerge una forte specializzazione in determinati generi — fantasy, fumetti, o pubblicazioni molto di nicchia — dall’altra viene fuori la propensione a cavalcare casi letterari, anniversari e festival di cui parlano anche giornali e tv». Allora è difficile separare l’eco di un riconoscimento prestigioso dalla segnalazione di un blog. Se il libro di Carmine Abate ha un picco vertiginoso il 1 settembre del 2012, sarà presumibilmente perché il giorno prima ha incassato il Campiello più che per i post di
Booksblog.
Mentre il diagramma di 1Q84 ci mostra che non si muove nulla finché non esce il terzo titolo della serie, e allora è l’Everest delle vendite, con un discreto contributo del blog
Critica letteraria e dell’immissione in Pinterest di fotografie di Murakami.
In altre parole, se non grandi sommovimenti tellurici, qualche piccola scossa i blog la producono, versione digitale del vecchio passaparola. Diverso è il caso delle star dell’opinionismo, e allora bisogna tornare al sorprendente Agassi per vedere le guglie di vendita disegnate da Baricco (Repubblica), Piperno (Corriere), Jovanotti (un tweet) e Daria Bignardi (Barbablog), tradotte da Peresson in un paio di centinaia di copie vendute. Ma qui si mischiano cose diverse, dunque è difficile misurare le potenzialità dei social network. Con un’unica certezza: che più dei followers può Fabio Fazio. E soprattutto Babbo Natale, il solo a raggiungere le vette più alte di qualsiasi diagramma.
E sul Natale puntano ora gli editori, sempre molto affannati, anche se i dati Nielsen rilevati a fine ottobre segnalano un’emorragia più contenuta rispetto a qualche mese fa (un meno 7,5 % del fatturato contro il meno 11,7 % registrato a fine marzo). Quelli che se la cavano meglio sono proprio i piccoli editori (meno 7,1 %), con un peso crescente nel campo della letteratura per ragazzi (e basta fare un giro in fiera per vedere librini raffinatissimi). Per il resto, le cifre confermano che il 2012 è stato l’anno della fiction, specie straniera. E stando ai primi quattro bestseller - la trilogia delle sfumature e il racconto di Gramellini - la diagnosi è certa: il mondo dei libri è stato salvato dal pornosoft. Per la saggistica, al contrario, è un anno da dimenticare (meno 14,5 % di copie vendute). Se il mercato piange, non sorride certo la cultura degli italiani.

Repubblica 7.12.12
Casa Freud
Esce in Francia la corrispondenza inedita tra i due, che rivela il lato intimo del rapporto Sono quasi 300 missive: fino al 1938, un anno prima della morte del padre della psicoanalisi
di Anais Ginori


“Vedo adesso, guardandoti, quanto sono vecchio visto che hai esattamente l'età della psicoanalisi”. Così scrive il 6 dicembre 1920 Sigmund Freud nella lettera per Anna, figlia prediletta, ma anche paziente e poi discepola. Ultima dei sei figli, si chiama con il nome che ricorda il famoso caso clinico della “signorina Anna O.”, ed è nata nel 1895, proprio l'anno in cui esce Studi sull'isteria, testo fondante della teoria freudiana.
Non è solo la sovrapposizione di date e nomi che colpisce. Tra padre e figlia c'è una relazione unica, totalizzante, come dimostra ora la corrispondenza pubblicata da Fayard. Quasi trecento missive, dal 1904 quando Anna ha solo 9 anni fino al 1938, un anno prima della morte di Freud, che riprendono e integrano con un notevole apparato critico l'edizione tedesca del 2006 curata da Ingeborg Meyer-Palmedo. Un carteggio tutto sommato limitato rispetto alla mole di lettere che Freud ha scritto nella sua vita (oltre ventimila, conservate in parte alla Library of Congress), ma che rivela la dimensione più intima del fondatore della psicoanalisi. Colui che così tanto ha fatto per destrutturare il ruolo paterno, appare come un genitore premuroso, attento alla salute cagionevole della figlia adolescente e al suo sviluppo intellettuale. E' Freud che le presenta Lou Andreas-Salomé, diventata poi confidente e mediatrice nel loro rapporto, come si evince da Legami e libertà, la corrispondenza tra le due donne (uscito per La Tartaruga).
Anna è educata dal padre all'introspezione, confessa con candore le sue pulsioni, la rivalità con la sorella maggiore Sophie, racconta le sue fantasie. “Ho sognato che tu eri un re ed io una principessa. Qualcuno voleva aizzarci l'uno contro l'altra con degli intrighi politici”. Geloso e protettivo, Freud prima si preoccupa delle mire di altri uomini sulla giovane fanciulla, poi del suo disinteresse per il genere maschile. Cerca di “risvegliare la libido” di Anna prendendola in analisi per circa quattro anni, contravvenendo a regole deontologiche ancora non codificate.
“In quegli anni la psicoanalisi era un affare di famiglia” ricorda la storica Elisabeth Roudinesco nella prefazione all'edizione francese. Anna rimarrà fino alla fine accanto al padre, anche nella lunga malattia (“non vorrei che fossi la mia triste infermiera”, dice lui), seguendolo nell'esilio a Londra. Freud dovrà accettare che la brillante e tormentata ultimogenita non è attratta dagli uomini bensì dalle donne, come lei stessa confessa a Lou già in una lettera del 1922, proprio mentre prepara la prima relazione per la Wiener Psychoanalystiche Vereinigung, debuttando così nei suoi studi sull'infanzia, in rivalità con Melanie Klein. “Il vostro è un viaggio non ordinario, ma che corrisponde al vostro gusto individuale”, annota nel 1927 Freud a proposito della vacanza in Italia della figlia con Dorothy Burlingham, ereditiera della famiglia Tiffany che diventerà la sua compagna definitiva.

“Sigmund Freud-Anna Freud 1904-1938” Fayard

“CARA FIGLIA, NON SPOSARTI GIOVANE”, “CARO PAPÀ, TU SEI IL RE”
(ANNA ha 9 anni, è in vacanza in Baviera con la zia Minna Bernays, sorella
di Martha Freud)
4 LUGLIO 1904
Mia cara Anna, ti sei sicuramente sbagliata nella tua ultima lettera, forse volevi dirmi che hai preso 1 chilo. Se invece è vero che hai perso peso, bisogna che tua zia ti nutra di più finché ti sarai ripresa. Alla tua età bisogna prendere peso senza paura di ingrassare.
(Anna è a Londra. Freud si preoccupa per le mire del suo discepolo Ernest Jones)
16 LUGLIO 1914
Cara Anna, so attraverso buone fonti che il Dr. Jones ha la serie intenzione di farti la corte. E’ probabilmente il primo caso nella tua giovane vita, e non mi sogno di privarti della libertà di cui hanno goduto le tue sorelle maggiori. Ma siccome hai vissuto con noi in un modo ancor più intimo di quanto non sia accaduto con loro, mi cullo nella speranza che sarà per te più difficile prendere una decisione sulla tua vita senza avere prima la nostra approvazione. Il Dr. Jones, lo sai, è per me un amico e un prezioso collaboratore. Questo potrebbe rappresentare per te un’ulteriore tentazione. (...) Non vogliamo che tu ti sposi o ti leghi troppo giovane, prima che tu abbia potuto vedere, imparare, vivere un po’ di più tra la gente. Il Dr Jones (...) non è l’uomo giusto per una creatura femminile di natura raffinata.
6 AGOSTO 1915
Caro papà, oggi sono di cattivo umore e non riesco a capire perché. Forse è la pioggia che mi ha completamente distrutta. Ho sognato che tu eri un re ed io una principessa. Qualcuno voleva aizzarci l’uno contro l’altra con degli intrighi politici. Non era bello e mi sono molto innervosita.
6 DICEMBRE 1920
Mia cara Anna, hai ragione, non si può rimandare un compleanno. I regali possono aspettare, non i sentimenti. Vedo adesso, guardandoti, quanto sono vecchio visto che hai esattamente l’età della psicoanalisi. Mi avete causato entrambe delle preoccupazioni, ma in fondo è da te che mi aspetto più gioia. Mi puoi certamente promettere che non mi sfiancherai per 9 ore al giorno”.
(Anna è in vacanza insieme a Lou Andreas Salomé, presentatagli dal padre, diventata amica e confidente)
30 APRILE 1922
Caro Papà!, la mia nuova amica è davvero magnifica, e in fondo il modo
nel quale mi avvicino a lei m’ispira un po’ di inquietudine. D’altra parte, accanto a lei vivo con una leggerezza, una semplicità e una naturalezza che ho trovato in poche persone. Più la frequento, più la trovo giovane, vitale, intima e loquace. Mi fa scoprire ogni giorno cose talmente straordinarie che solo in quel momento mi sembra di vedere tutto ciò che il mondo può offrire.
13 LUGLIO 1922
Mio caro papà, è bello constatare che qui, in Germania, si viaggia quasi bene come in Olanda. Non ci sono praticamente ritardi, e nelle stazioni non c’è bisogno di arrivare
più di qualche minuto prima la partenza del treno. L’unico problema sono i viaggiatori. Non so se siano davvero tutti antisemiti, ma in ogni caso ne hanno tutta l’aria. Provo pena nell’immaginare un paese dove, di fronte alla gente, avremo l’impressione di essere degli “stranieri”.
(Freud è a Vienna per farsi visitare, incomincia a essere malato. Anna chiede di poterlo assistere nelle terapie)
21 LUGLIO 1923
Mia cara Anna, non vorrei subito acconsentire al tuo desiderio. Non devi infatti entrare prematuramente nella triste funzione di infermiera dei tuoi vecchi genitori malati. Sarebbe meglio che fossi risparmiata. Ti faccio invece una concessione: sarai immediatamente avvertita con un telegramma se sarò trattenuto a Vienna, cosa che comunque mi sembra inverosimile.
(Anna è in vacanza con Dorothy Burlingham, con la quale è iniziata una relazione destinata fino alla fine dei suoi giorni)
16 APRILE 1927
Mia cara Anna, sono molto felice del modo in cui si svolge il vostro viaggio, mi sembra che siate entrambe soddisfatte. Evidentemente non è ordinario, ma una scelta secondo
il vostro gusto individuale. (...) Le cure sono noiose, stancanti a causa della loro accumulazione, bisognerebbe essere in salute per affrontarle. Ridiamo, ma non si può
ridere sempre.
(Freud è nella casa di Londra, a Elsworthy Road, già molto malato. Questa è l’ultima lettera del carteggio con Anna, allora a Parigi, prima della sua morte il 23 settembre 1939)
LONDRA, 3 AGOSTO 1938
Mia cara Anna, anche da noi ha fatto molto caldo, ma le serate in giardino, con questa vista magnifica, sono deliziose. Ho incredibilmente sopportato il caldo, forse grazie alla nitroglicerina che avevo preso a titolo preventivo. (...) La fortunata circostanza della mia unica paziente che mi ha dato un assegno mi ha permesso di pagare la fattura semestrale, perché non c’è più liquidità in banca. La mia altra paziente soffre, come sai, d’una grave tonsillite e per qualche settimana non ci sarà.
Mi riferiscono che tutto è stato imballato, pesato e portato via. Non ci sentiremo liberi dai nazisti prima di quel momento.
(da “Sigmund Freud-Anna Freud correspondance 1904- 1938”, Fayard)