domenica 9 dicembre 2012

l’Unità 9.12.12
«La politica è di tutti»
Pietro Ingrao: quel che è stato e le speranze per il futuro
Testo tratto dal discorso di Pietro Ingrao a Brescia per il quinto anniversario della strage di Piazza della Loggia
di Pietro Ingrao


«Non mi avete convinto» di Filippo Vendemmiati è una lunga intervista con l’intellettuale, poeta e leader della sinistra, un film che sarà in vendita con «l’Unità». IL DVD in edicola dal 15 dicembre insieme al nostro giornale

DIETRO QUEGLI ORDIGNI, E DIETRO QUELLI CHE AVEVANO TRAMATO LA STRAGE DI BRESCIA, C’ERANO UNA VOLONTÀ E UN ODIO CHE ANDAVA OLTRE L’ATTO CHE COMPIVANO. CREDO CI FOSSE UN ATTACCO PROFONDO CONTRO TUTTA UNA STORIA DEL NOSTRO PAESE, CONTRO LA SUA EREDITÀ E LA SUA RICCHEZZA PIÙ GRANDE. Contro una svolta storica che si era compiuta nel nostro secolo, contro quell’atto
fondante di tutta la nostra vita, quella pagina alta che si chiama la Resistenza italiana. Furono anni grandi e terribili ma straordinari quelli che vivemmo allora, quell’esperienza occupò tutta la vita del pianeta e per quelli di noi che vi parteciparono fu davvero uno scontro totale per la vita e per la morte. Sentimmo che era in gioco la ragione per cui scriviamo questo nome «antifascismo» e lo portiamo dentro l’animo nostro, le nostre carni, la nostra vita e lo facciamo vivere nelle nostre bandiere. Fummo costretti a combattere un nemico totale, implacabile, che non chiedeva questo o quello, ma che voleva tutto, che mirava al dominio del mondo. Perciò in quei giorni sentimmo che ci giocavamo tutto e che si discuteva non della sorte di uno o di altri e nemmeno di un solo popolo ma davvero di qualcosa di profondo e di generale. Scoprimmo un orizzonte nuovo, imparammo cose che fino ad allora a tanti di noi, quale che fosse la loro corrente, ancora non erano pienamente chiare. Scoprimmo un senso dell’uomo, una concezione nuova della libertà, una visione dei popoli, della loro identità, della loro storia. E imparammo che la libertà non poteva essere divisa e valere solo per alcuni e non per altri e l’indipendenza non poteva essere riconosciuta a un popolo senza che fosse minacciata poi anche per altri popoli (...).
Non per caso si trovarono improvvisamente l’uno di fianco all’altro uomini che avevano pensieri distanti, uomini di fede cristiana e altri di fede marxista, e collettivisti e liberali, e laici e socialisti. Ma tutti imparammo a condurre una battaglia comune per affermare la volontà di riconoscersi come nazione, di affermare il diritto e la capacità di decidere da sé. La vera vittoria che noi cercavamo non era solo colpire il nemico, ma fare crescere il popolo, la sua unità, la sua volontà di combattere e di difendere se stesso, la sua capacità di vivere un’esperienza comune. E così diventare più forti, ciascuno come individuo, conquistare una libertà più grande, una capacità di trasformare non solo piccole cose, ma tutta intera la vita intorno a noi (...).
Proprio questa grande speranza di fare crescere una vita del popolo, in cui non tutte le teste diventano uguali ma restano diverse e riescono lo stesso a ritrovarsi e a costruire insieme un avvenire comune, era quella che più odiavano gli uomini della strage di Piazza della Loggia. Avevano paura che ci incontrassimo, che ci ritrovassimo. Questo volevano colpire e distruggere. Perché la crescita di questo grande incontro, di questa civiltà nuova di un mondo del lavoro che si organizza, non solo era la negazione totale del fascismo, ma era un fatto straordinario. È la grande impresa cominciata in questo secolo e che, se riusciremo a farla camminare, romperà domini secolari, spezzerà antiche oligarchie, chiamerà ciascuno di noi finalmente a pensare, vivere, organizzarsi in modo nuovo. Perciò quello che avvenne il 28 di maggio del 1974 a Brescia non fu un episodio tra i tanti, ma fu un punto nodale di un grande scontro nella vita italiana. Dinnanzi a questo popolo che cresceva c’è stato chi, terrorizzato, mise in piedi e portò avanti la strategia della tensione che non fu solo morte e sangue, ma fu un disegno, un complotto, un tentativo di spaccare il Paese.
Chi spara e mette le bombe non vuole che ci siano organismi, partiti, sindacati, circoli, di idee diverse, che imparano a tessere un dialogo e a fare crescere la lotta comune. Non vuole che a contare siano molti perché chi vuole ridurre la vita dell’Italia a uno scontro di killer ha voi lavoratori nel mirino. Vi vuole cacciare dentro le case, vuole bloccare le assemblee in cui si discute, colpire quello che invece noi vogliamo ardentemente. Quante volte hanno raccontato, nei secoli, che chi decideva erano quelli che stavano in alto? E voi avete sperato, insieme, che venisse un tempo in cui non decide uno o un altro, ma tutti insieme. Questa speranza della politica è di tutti, non la lasceremo morire, la porteremo avanti con tutte le forze nostre. Perché abbiamo imparato che così davvero possiamo contare e fare crescere noi stessi. Se ci dividiamo, se ci rompiamo, se abbiamo paura, se ci chiudiamo nelle case, se lasciamo la decisione alla pistola e alle bombe tutti perdiamo il meglio di noi stessi e alla fine, anche quando viene ammazzato uno che non è della parte nostra, siamo anche noi che paghiamo perché diventiamo più deboli (...).
Noi rispondiamo che vogliamo e possiamo difendere insieme il diritto alla vita, il diritto alla libertà e al tempo stesso l’unità del nostro Paese senza cancellare le differenze, il confronto delle idee, proprio perché abbiamo imparato a concepire l’unità non come qualcosa in cui diventiamo tutti uguali e tutti gli stessi, ma come ricchezza, creatività, pluralità di idee che però sa darsi un orizzonte, un progetto, un metodo comune. La democrazia voluta nella Costituzione sa aprire nuovi orizzonti, sa rinnovare la vita nostra, sa correggere guasti, ingiustizie, sa cancellare oppressioni. E qui c’è un messaggio che dobbiamo far arrivare alle nuove generazioni per impedire che passi chi predica ai giovani sfiducia, chi insinua il disprezzo della libertà e della vita comunitaria, chi addirittura gli dice ma sì, dedicati all’esaltazione della prepotenza, buttati alla guerra dell’uomo contro l’uomo.

l’Unità 9.12.12
Il Pd: «Meglio le elezioni che il Vietnam in Aula»
Finocchiaro: «Vedo aria di tempesta da parte del Pdl, così non si può andare avanti»
Bersani convoca i segretari regionali per discutere le primarie per i parlamentari
di S.C.


La notizia che il Pdl mercoledì presenterà la pregiudiziale di incostituzionalità sul decreto legge di riordino delle Province viene interpretata dal Pd come la conferma che la campagna elettorale di Berlusconi è iniziata, e che il rischio di un «logoramento» lungo tre mesi è tutt’altro che scongiurato, dopo i colloqui al Quirinale. Per questo Pier Luigi Bersani ha deciso di stringere i tempi e iniziare a pianificare la strategia in vista delle politiche. Che, come si inizia a ragionare nel Pd, rischiano di essere troppo lontane il 10 marzo, se il disegno di Berlusconi è quello di approfittare del finale di legislatura per cercare di recuperare consensi attaccando il governo e i partiti che ancora lo sostengono.
SUBITO LE NORME PER LE PRIMARIE
Per mercoledì ha convocato a Roma i segretari regionali del partito. All’ordine del giorno c’è il risultato delle primarie, la crisi aperta dal centrodestra ma anche un argomento che fino a qualche giorno fa doveva essere affrontato più in là: le primarie per i candidati al Parlamento. Le speranze di riuscire a trovare un’intesa per superare il “Porcellum” sono a questo punto ridotte all’osso: Berlusconi ha fatto saltare la trattativa quando si era arrivati a un passo dall’accordo, giusto ventiquattr’ore prima che il Pdl togliesse il sostegno a Monti e l’ex premier tornasse in campo. E ora il Pd si lancia in una corsa contro il tempo per riuscire ad scrivere le regole (entro Natale) e organizzare le primarie (entro metà gennaio) per i parlamentari. L’agenda al momento viene ancora studiata tenendo come data probabile del voto il 10 marzo, il che vuol dire liste elettorali da presentare per la fine di gennaio. Ma in queste ore tra gli esponenti del Pd alle prese anche con il tema delle alleanze dopo che Enrico Letta si è detto certo che si farà un governo «insieme alle forze che sostengono Monti oggi» e il segretario di Sel Gennaro Migliore ha replicato che intesa con Monti e alleanza con l’Udc sono «impraticabili» cresce la voglia di andare alle urne in tempi più rapidi. E questo perché, viene spiegato, il «percorso costruttivo e corretto» auspicato da Giorgio Napolitano nella nota diffusa dal Quirinale dopo i colloqui con i presidenti di Camera e Senato e i vertici di Pd, Pdl, Udc, al momento sembra tutt’altro che realistico.
NO AL VIETNAM PARLAMENTARE
«Temo che il Vietnam parlamentare stia per cominciare, al di là del merito del provvedimento sulle Province, vedo aria di tempesta», dice infatti Anna Finocchiaro quando si viene a sapere delle pregiudiziali di incostituzionalità presentate dal Pdl. «Abbiamo già avuto modo di esprimere, nelle sedi dovute e pubblicamente, le nostre preoccupazioni sul calendario parlamentare e sulla situazione politica dei prossimi mesi, e ora mi auguro che, al di là delle enunciate volontà politiche del Pdl rispetto al governo, ci sia la possibilità di condurre queste ultime settimane di legislatura verso il necessario approdo, senza far diventare il clima politico irrespirabile». Conclude la capogruppo del Pd al Senato: «Per parte nostra, abbiamo preso questo impegno con il Capo dello Stato. Auspico che ci sia la stessa responsabilità da parte di tutte le forze politiche».
NON REGALARE TRE MESI AL PDL
Le parole di Berlusconi e le strategie parlamentari preparate dal Pdl non sembrano andare proprio in direzione della responsabilità. Per questo nel Pd c’è già chi, come Francesco Boccia, giudica rischioso regalare tre mesi alla destra per fare campagna contro il governo e chi lo sostiene, e dice esplicitamente che la data del 10 marzo rischia di essere troppo lontana: «Rispettiamo il Capo dello Stato ma non ha senso trascinarsi altri tre mesi se il clima resta quello di questi giorni. Lavoriamo ogni giorno da qui a Natale e poi, prima si va al voto, meglio è».
Il messaggio recapitato da Bersani venerdì nel colloquio al Quirinale è che un finale di legislatura «ordinato» può esserci soltanto se ci si concentra su pochi provvedimenti, come la legge di stabilità, il decreto Ilva, quello sullo sviluppo e quello sul pareggio di bilancio. Aggiungere altro materiale è pericoloso e anche inutile, visto che Berlusconi è interessato a fare una campagna contro Monti e Pd e visto che l’asse Pdl-Lega al Senato ha ancora la maggioranza per affossare i provvedimenti del governo.
Dopo il colloquio di ieri sera di Mario Monti con il Capo dello Stato, la prova dei fatti sarà nella settimana parlamentare che si apre domani.

Corriere 9.12.12
Bersani: «Dal premier un atto di dignità»
Il leader pd: pronti a operare il più in fretta possibile
E ai suoi: si voterà a febbraio
di Maria Teresa Meli


ROMA — «Credo proprio che a questo punto si voti a febbraio»: sono passati pochi minuti dall'annuncio di dimissioni di Mario Monti, quando Bersani avverte i suoi. I tempi si accorciano. Proprio come voleva il Partito democratico. L'annuncio del presidente del Consiglio non ha sorpreso il leader del Pd. Del resto gli spazi di manovra del premier si erano ridotti proprio dopo che il segretario aveva messo le mani avanti: «Non ci faremo logorare andando avanti ancora tre mesi e non accetteremo nessun altro governo Monti con una maggioranza diversa».
Capita l'antifona l'inquilino di palazzo Chigi ha tratto le conseguenze. E dopo che il Pd ha convinto anche l'Udc di Casini che l'unica strada è quella delle elezioni, congelare la crisi per Napolitano diventa difficile. D'altra parte Bersani era stato schietto con il capo dello Stato, com'è nel suo carattere, anche ieri dopo il loro ultimo colloquio: «Giorgio, mi sembra inutile, anzi nocivo per il Paese, andare avanti con questa situazione sfilacciata, non lo dico solo per noi che comunque verremmo logorati e danneggiati da un Pdl che si mette a fare l'opposizione negli ultimi mesi della legislatura, mentre noi sosteniamo un governo i cui provvedimenti di certo non ci convincono fino in fondo. A questo punto è necessario che la parola torni agli elettori e che finalmente nasca un governo politico in grado di gestire le difficoltà che ci attendono».
Non è dunque un caso che il segretario del Pd, dopo l'annuncio di dimissioni del premier, abbia fatto una dichiarazione che lasciava pochi spazi all'ambiguità: «Quello di Monti è un atto di dignità che rispettiamo profondamente. Siamo pronti a operare per approvare nel tempo più rapido possibile la legge di stabilità».
Insomma, nessuna richiesta al premier di ripensarci, nessun appello alla prosecuzione della legislatura per varare gli ultimi provvedimenti in calendario e per mandare in porto una riforma elettorale a cui da tempo non crede più nessuno: solo la semplice presa d'atto dell'annuncio di dimissioni del presidente del Consiglio e la conferma che a questo punto il Pd vuole concludere la legislatura il prima possibile. Calendario alla mano a largo del Nazareno hanno constatato che si può tranquillamente votare a febbraio. Proprio come voleva Bersani. Le elezioni a breve, infatti, consentono al leader del Pd di accelerare la composizione della sua aggregazione elettorale, che punta su più liste, e di non subire l'offensiva mediatica berlusconiana contro il governo Monti restando nella difficile posizione di chi è costretto ad appoggiare l'esecutivo.
A questo punto, finalmente, Bersani può scaldare i motori della sua campagna elettorale. E può metter mano alle liste elettorali imponendo il rinnovamento: per le primarie, ormai, non c'è più tempo e quindi il segretario del Pd dovrà occuparsi in prima persona delle liste. Senza però dare l'impressione di decidere tutto dall'alto, anche perché le regioni più rosse, l'Emilia-Romagna in testa, non vogliono essere costrette a eleggere i «catapultati» di Roma.
Lavoro duro, ma assai più piacevole di quello di chi «è costretto a portare la croce del governo mentre Berlusconi si tiene le mani libere». Bersani è pronto alla sfida con il Cavaliere e anche se alcuni sondaggisti sostengono che il ritorno di Berlusconi, per la sua capacità di condurre una campagna elettorale, possa far guadagnare diversi punti in percentuale al Pdl (addirittura il 28 per cento), il segretario del Pd è convinto di farcela. Sostiene di non temere il pareggio al Senato e di essere «pronto a prendere le responsabilità che mi competeranno». Tanto che sta già pensando al governo che verrà. Bersani vuole facce nuove nel suo gabinetto. Ed è pronto ad accettare la richiesta di Nichi Vendola che vorrebbe per sé il ministero dei Beni culturali.

il Fatto 9.12.12
Il tecnico sbatte la porta. Dimissioni prima di Natale
Sospiro di sollievo di Pd e Udc: “Scelta giusta”
A Bersani non conveniva reggere da solo un esecutivo impopolare e Casini spera di attirarlo al centro
di Carlo Tecce


Il primo commento, che propizia il diluvio tra le agenzie di stampa, lo riversa Pier Luigi Bersani: “Di fronte alla irresponsabilità della destra che ha tradito l’impegno assunto un anno fa davanti al paese, aprendo di fatto la campagna elettorale, il presidente Monti ha risposto con un atto di dignità che rispettiamo profondamente”. Il segretario democratico non si dispera per le dimissioni (annunciate) di Mario Monti, lo congeda con l’onere delle armi e fa capire che, in fondo non troppo in fondo, al Pd non conveniva reggere il peso di un governo antipopolare. Pier Ferdinando Casini s’avvicina sempre di più a Bersani, almeno nelle considerazioni che accompagnano il professore verso l’uscita e creano un blocco contro Silvio Berlusconi: “Chi pensava di costringere Monti a galleggiare ora è servito”.
I berlusconiani, abbastanza reattivi, capiscono che la mossa smonta le strategie del Cavaliere e disarma gli argomenti di propaganda: come faranno a contestare il rigore e poi a votera la legge di stabilità prima di Natale? Un gruppo di senatori Pdl lancia l’allarme: “Éscorretto che il presidente Monti, nominato da Berlusconi commissario europeo, a capo di un governo tecnico nato solo grazie al nostro senso di Stato, faccia riferimenti subliminali e prenda parte al dibattito politico: chiude in maniera ingloriosa il suo mandato. Il nostro senso delle istituzioni ha dato fiducia a un governo nel quale il Pd cercava di fare maggioranza e opposizione”.
TOCCA A Daniela Santanchè nascondere il potenziale (enorme) danno per il Capo: “É il primo risultato che ha già ottenuto Berlusconi. É un gesto che apprezzo molto. Dell’ultimo anno di azione di Monti questo è il gesto che apprezzo di più. Ha fatto la cosa giusta”. I movimenti sparsi che cercano un Terzo Polo, tentato subito la presa al professore, che potrebbe sostenere un agglomerato di centro (con Luca Cordero di Montezemolo) anche senza una candidatura diretta: “Siamo col presidente Monti. Da Berlusconi e Alfano atteggiamento irresponsabile che ci espone a grandi rischi. Adesso cambia tutto”, dice Italo Bocchino, vicepresidente di Fli. Risponde presente anche Francesco Rutelli (Api): “Annuncio sacrosanto”. E il presidente di Montecitorio, Gianfranco Fini, non va oltre un saluto formale: “La decisione di dimettersi gli fa onore. Dimostra alto senso di responsabilità istituzionale”. Marco Pannella potrebbe “ritirare” i Radicali: “Non presentiamo le liste”. Ma quelle, le liste, non mancheranno.

Repubblica 9.12.12
Bersani: "Atto di dignità, adesso tempi rapidi"
Casini: "Servito chi voleva costringere il premier a galleggiare"
Il leader pd anticipa il rientro a Roma. Fini: le dimissioni fanno onore a Monti


ROMA - «Un atto di dignità che rispettiamo profondamente». Bersani tornerà probabilmente da Piacenza, dove pensava di trascorrere il fine settimana in famiglia, già oggi. Il comunicato delle dimissioni di Monti arriva a sorpresa anche per il segretario del Pd. Che subito affida una dichiarazione alle agenzie di stampa: «All´irresponsabilità della destra, che ha tradito l´impegno assunto un anno fa davanti al paese, aprendo di fatto la campagna elettorale, Monti ha risposto con un atto di dignità... noi siamo pronti ad operare per l´approvazione nei tempi più rapidi della legge di Stabilità». Non piaceva ai Democratici una lenta agonia, in balia della campagna elettorale berlusconiana. Neppure all´Udc.
Pochi minuti dopo l´annuncio del Professore, Casini su twitter commenta: «Chi pensava di costringere Monti a galleggiare, ora è servito». Il premier ha costretto il Pdl a prendersi le proprie responsabilità, a non barare, dichiarando una cosa e poi facendone un´altra in modo camuffato. Apprezza anche Fini la mossa di Monti: «La sua decisione di dimettersi gli fa onore. Dimostra alto senso di responsabilità istituzionale». Twitter si scatena; i Democratici sono entusiasti: «Monti e Totti, rete» è il tweet di Chiara Geloni, direttore di Youdem, la tv del Pd.
I tempi quindi si accorciano. Il Pd prevede che si possa andare a votare entro fine febbraio. Prima di Natale, o al più entro la fine di dicembre, le Camere possono essere sciolte, avendo anticipato il voto sulla legge di Stabilità. Dario Franceschini, il capogruppo democratico alla Camera, aveva già fatto un rapido calcolo: «È un Pdl cinico e avvilente che, dopo avere nascosto all´ombra del lavoro di Monti i propri disastri, ora cerca di recuperare consensi elettorali prendendo le distanze dal Professore. Dobbiamo convertire migliorandoli la legge di Stabilità, i decreti in fase definitiva, e poi è finita». Insomma, lavoro compiuto prima di Capodanno, senza bisogna di attendere l´estenuante gioco del centrodestra.
Un segnale sulla volontà del Pdl di tenere tutti sulla corda era giunto sul decreto di riordino delle Province. Poco prima che Monti salisse al Quirinale, il Pdl aveva sbandierato il "no" alla riduzione delle Province. Annunciando in aula al Senato, mercoledì, la presentazione della pregiudiziale di costituzionalità. Se Pdl e Lega avessero la vecchia maggioranza, per il decreto Province sarebbe il requiem. Un atto di guerriglia parlamentare, il passaggio del Pdl all´opposizione pur sostenendo a parole di non avere sfiduciato Monti. «Un segnale inequivocabile: pensano di farsi propaganda anche con questo provvedimento», aveva contrattaccato Enzo Bianco, relatore per i Democratici. Tanto che Anna Finocchiaro, la presidente dei senatori del Pd, aveva ribadito: «Facciamo il punto con il governo, evitiamo il Vietnam parlamentare». Bersani lo aveva detto anche a Napolitano, nel colloquio al Colle di venerdì, che accelerare lo scioglimento delle Camere sarebbe stato meglio. Apprezzano il gesto di Monti i dipietristi: «Non cede al ricatto del Pdl, come gli avevamo chiesto», per Borghesi; «È la fine di un brutto film», afferma Belisario. Twitta Rutelli: «L´annuncio di Monti è sacrosanto». Donadi ("Diritti e libertà"): «Tra Monti e Berlusconi c´è un abisso di serietà». Poiché si va alle elezioni, Pannella, il leader radicale, annuncia: «È possibile che non ci saranno liste dei Radicali».
(g. c.)

il Fatto 9.12.12
Al fianco di Bersani. Matteo Orfini
Primarie subito per i candidati, è l’unica soluzione
di C. Pe.


Ieri mattina Emanuele Macaluso, uno degli uomini più vicini a Giorgio Napolitano, ha accusato il Pd dalle colonne del Fatto Quotidiano di “avere delle colpe” perché in cinque anni non ha imposto di cambiare la legge elettorale. Secondo Matteo Orfini, giovane bersaniano, si sbaglia.
Orfini, non pensa che pagherete caro e pagherete tutto, come dice Macaluso?
No, abbiamo fatto il possibile per provare a cambiare questa legge partendo da due paletti irremovibili: abolire le liste bloccate e sapere la sera del voto chi governerà. Ma ogni volta il Pdl ha rovesciato il tavolo.
O avete permesso voi di farlo?
Penso che a questo punto sia chiaro che Berlusconi vuole scegliere i suoi candidati. Voi no?
Noi faremo le primarie, anche se i tempi, dopo l’annuncio di Monti sono strettissimi. Faremo di tutto per realizzarle.
Come?
Mercoledì c’è la prima riunione della segreteria nazionale con i segretari regionali per capire disponibilità e modalità.
Cominciamo a capire quali: si potranno candidare tutti?
Secondo me no, il gruppo parlamentare del Pd non dev’essere composto da passanti. Ci saranno dei limiti dati dal periodo d’iscrizione al partito o dalle firme da raccogliere tra gli iscritti.
Poi chi voterà?
Io spero più gente possibile. Il minimo è usare gli albi di chi ha votato a queste primarie, ma mi auguro di più.
Non c’è il rischio infiltrazioni in quel caso?
Se si evitano con le regole su chi candidare direi di no.
Sta dicendo che il problema è il candidato, quindi alle primarie per il leader era Renzi?
Ma no, lasciamo stare Renzi. Dico che a Napoli non possiamo far candidare Sandokan.
Escluso Sandokan, tutti al voto allora.
Io spero di sì, non sono mai stato tra quelli che volevano ridurre la platea elettorale, nemmeno l’ultima volta. Poi certo, serve una quota di riequilibrio.
Cioè per avere più donne se ne eleggete poche?
No, direi piuttosto per alcune personalità che servono in Parlamento, ma non possono fare le primarie.
Quindi non per i derogati.
Per carità, chi ha ruoli politici, tanto più se è da 15 anni alla Camera o al Senato, non ha nulla da temere a fare le primarie.
Avremo un po’ di amici di Renzi e Bersani in Parlamento?
Ci sarà chi ha rappresentato le loro battaglie, se verrà votato alle primarie.
Renzi ci sarà?
Non lo so, ma credo sarebbe un errore se non fosse protagonista. Riesce a parlare a delle persone a cui noi non parliamo.
Che prezzo pagherete a Beppe Grillo se resta il Porcellum?
Nessuno, lo paga lui se funzioneranno le nostre primarie. Ma lo sapete che Tabacci da solo ha preso più voti di tutti i loro candidati messi insieme?

Repubblica 9.12.12
Ora le primarie per i parlamentari
di Nadia Urbinati


Il processo di riforma della politica avviato con le primarie del Pd dovrebbe avere l’opportunità di completarsi. Solo in questo modo potrebbe essere avvertito dai simpatizzanti e dai cittadini come sincero e i suoi effetti di rinnovamento essere reali. Se poi non si può cambiare la legge elettorale, come ormai sembra realistico dover ammettere, questa scelta è anche opportuna. Perché aggirerebbe l´ostacolo mettendo in campo un´iniziativa autonoma con la quale un partito dimostrerebbe di nuovo di essere il depositario dell´energia e del coraggio necessari a rimettere in moto non solo se stesso ma anche per il paese. Dimostrando che la partecipazione è capace di risanare la democrazia invece di sfasciarla quando e perché richiede e vuole restituire credibilità alle procedure e alle regole. E lo farebbe mettendo in moto un processo di immaginazione istituzionale che è unico, non solo nel nostro paese, un processo di sperimentazione che dimostrerebbe tra le altre cose come il metodo democratico abbia dentro di sé la capacità di rinnovarsi. Non si tratta di retorica. Perché le regole del gioco servono proprio a rimettere al centro della politica democratica i cittadini, come soggetti capaci di deliberazione ragionevole, senza tutele paternalistiche. A questo servono le regole. E le primarie per il Parlamento, o comunque una forma di consultazione che non sia fittizia e d´apparenza ma sappia raccordare tutto il partito ai cittadini, possono essere un esempio importante di questa innovazione immaginativa. Di cui c´è bisogno forse più che nel caso della scelta del candidato Premier. Innanzi tutto perché in questo caso le primarie svolgerebbero più esplicitamente la loro funzione di indicare il candidato per un posto certo.
Con le regole esistenti questo non è ancora possibile nel caso del candidato Premier, per ragioni non difficili da comprendere, poiché qualora il suo partito non ottenesse la maggioranza assoluta e dovesse fare alleanze non è escluso che il ruolo del Premier venga messo sul piatto dell´accordo. Ma questo non succederebbe con i candidati al Parlamento, poiché in questo caso una volta che il seggio sia stato conquistato dal partito, il candidato eletto lo occuperà senza dubbio. Le primarie o forme di designazione democratica non fittizie avrebbero quindi un esito certo. E questo sarebbe un modo non soltanto per aggirare la questione della riforma elettorale che non si fa, ma soprattutto per riportare in onore il Parlamento, l´organo elettivo più importante e in questo momento il più screditato.
Sono comprensibili i timori nel Pd per il coinvolgimento diretto dei cittadini, timori di aprire le istituzioni alle pressioni della società che la crisi rende oltretutto più radicalizzate; o ancora più concretamente timori di un mutamento troppo radicale della classe politica. Un´evenienza che fa pensare con giustificata preoccupazione agli effetti destabilizzanti (ben noti) un ricambio troppo repentino potrebbe avere. Ma si potrebbe ovviare a questo giustificato e serio timore con una strategia, come nel regolamento Civati-Vassallo, che preveda per esempio di calibrare l´innovazione con una quota riservata alla segreteria come a garanzia della continuità di un nucleo dirigente, un fattore importante per la vita del partito e l´efficacia del gruppo parlamentare. Le regole si possono definire nelle forme più adatte a risolvere i problemi di stabilità e di rinnovamento insieme. Ciò che andrebbe scongiurato è confondere la prudenza con la conservazione di questo status quo. Una leadership accreditata dovrebbe essere capace di un´utopia pragmatica, una formula che non è un ossimoro, ma significa sapere anticipare i problemi così realisticamente e per tempo da mettere in moto i rimedi giusti, quelli che al miope possono apparire come azzardati.
Una delle sfide ricorrenti nelle democrazie rappresentative sta nel porre rimedio all´opacità che fatalmente di forma nel processo di interdipendenza tra rappresentati e cittadini. Il criterio guida per attuare questa che è una manutenzione permanente del sistema sta nel pensare al diritto di voto sia come diritto di formare una maggioranza che come diritto di essere rappresentati. Per questo il modo di formazione e selezione dei candidati e l´efficacia dei canali di comunicazione e di controllo sono cruciali per un funzionamento decente delle procedure elettive. I cittadini dovrebbero avere l´opportunità di partecipare alla scelta dei candidati. Mettersi su questa strada non farebbe che dare ossigeno al sistema. La democrazia si corregge con la democrazia. Lo si è visto con le recenti primarie che hanno rimesso in moto, ma non completato, il processo di rilegittimazione della politica.

Repubblica 9.12.12
E Vendola toglie il veto sul leader Udc "Ma stop al rigore, qui serve Keynes"
Il capo di Sel: un pezzo d’Italia stremato, democrazia a rischio
intervista di Giovanna Casadio


I tecnici liberisti di Monti hanno schiantato un pezzo d´Italia, ridicolo prolungare l’agonia del governo
Certo che siamo affidabili agli occhi dell’Europa. Dobbiamo smetterla di avere paura delle nostre ragioni

ROMA - Monti si dimette. Come giudica questa accelerazione, presidente Vendola?
«I fatti hanno la testa dura. Monti correttamente chiede alla politica qual è l´ultimo atto. È finita la legislatura. Procrastinare le agonie, prolungare la paralisi operativa quando invece è urgente mettere in campo decisioni, fare scelte sarebbe stato peggio. La cosa che mi ha più colpito in queste settimane è stato il giudizio ottimistico che Monti dà sulla situazione del paese».
Lei è pessimista?
«Credo che ci sia una grave sottovalutazione del fatto che si sono aperte crepe gigantesche nel tessuto di coesione sociale del paese. C´è un´Italia che si è letteralmente schiantata, si è schiantato anche il ceto medio. E quando va in frantumi il ceto medio si mette in pericolo la tenuta democratica. C´è bisogno di un punto di rilegittimazione democratica delle istituzioni e della politica. È rivelatrice la confessione sincera del ministro Fornero: il suo sentirsi sotto attacco, col rischio di confondere ciò che è inaccettabile - e cioè la diffamazione, la contumelia o addirittura le minacce - da ciò che è critica politica. Per i tecnici di scuola liberista c´è sempre stato un dettaglio, chessò un esodato, che ha fatto saltare la perfezione scolastica dei modellini, come quelli di Fornero».
Ora che la situazione politica è precipitata, nel paese attraversato da un profondo disagio sociale, come si attrezza il centrosinistra, lei apre a un patto con Casini?
«Su questo dobbiamo dare una risposta chiara al popolo del centrosinistra e al paese. Se le primarie sono state solo una messa in scena e non il processo costituente di un nuovo centrosinistra, allora possiamo anche tornare a rinchiuderci nel Palazzo per fare i giochini che piacciono tanto agli strateghi della tattica. Se invece abbiamo intenzione di rispondere al populismo di Berlusconi non con una coalizione di Palazzo ma con quella alleanza di popolo che ha a cuore oggi innanzitutto il destino di precarietà dei propri figli, la condizione di decadenza della scuola, ecco noi dobbiamo costruire un Polo progressista che può essere maggioritario, rappresentando la travolgente domanda sociale di cambiamento».
La risposta è "no"?
«Non è un veto sulle persone. Il punto è quali strategie, quali linee mettiamo in campo. Le politiche di austerità stanno spingendo l´Europa verso una deriva recessiva. A Berlino, il presidente brasiliano Lula ha spiegato che dalla crisi si può uscire investendo in scuola, cultura, servizi sociali e lotta alla povertà, con un riformismo keynesiano, adattato alle diverse situazioni, si può far crescere l´economia. Noi abbiamo compiuto scelte come se fossero le uniche possibili. Dobbiamo discutere facendoci il segno della croce, come se l´austerity sia una religione? O possiamo dire che queste scelte diminuiscono i consumi, deprimono la domanda interna».
In concreto, con il centro "montiano" non dialogherete?
«L´agenda-Bersani non è sovrapponibile all´agenda Monti: su questa, si fa punto e a capo».
Con questa radicalità rischiate di non governare?
«Rischiamo di non governare se non diamo speranza agli italiani, se non ci sono segnali persino di riparazione nei confronti di settori che sono stati particolarmente penalizzati. Se non diamo speranza, si rompe tutto».
Il centrosinistra è pronto, e affidabile agli occhi dell´Europa?
«Sì. E deve smetterla di avere paura delle proprie ragioni».
Si aspettava la spallata di Berlusconi?
«Un anno fa, quando il governo Berlusconi cadde, dissi "attenzione, Berlusconi esce da Palazzo Chigi ma non dalla scena politica". Se la parte più aspra del risanamento se la intesta un altro governo, ricordai allora, finisce che il Cavaliere torna alla guida di una opposizione populista riuscendo nella magia di togliersi dal palcoscenico delle colpe. Non ha alcuna possibilità di vincere, ma prova a suggestionare gli italiani. Esposto a vicende giudiziarie, con i suoi tentati dalla fuga in qualche scialuppa centrista, vuole sparigliare».

l’Unità 9.12.12
Quanto ci costa il populismo della destra
di Paolo Gurrieri


Poco più di un anno fa la drammatica uscita di scena di Silvio Berlusconi consegnò a Mario Monti un Paese sull’orlo di un vero e proprio crack finanziario.
Se si fa un sommario bilancio di questo periodo non si può non riconoscere al governo il merito di aver evitato quel crack, avviando l’Italia verso un percorso di risanamento dei conti pubblici. In soli tredici mesi è stata restituita credibilità e un ruolo da protagonista al nostro Paese in campo europeo e internazionale, introducendo una forte discontinuità rispetto ai governi Berlusconi attraverso un modo di fare politica incentrato sui temi e contenuti piuttosto che su questioni di mero potere.
Decisamente più modesti, viceversa, sono stati i risultati raggiunti rispetto alle altre due grandi finalità che Monti aveva posto, unitamente al rigore, a fondamento del proprio programma: il rilancio della crescita e il perseguimento dell’equità. Certamente hanno pesato le difficoltà di antica data alla base del nostro ristagno e delle disuguaglianze nella società. Non meno importanti, tuttavia, sono state lacune e debolezze delle strategie e politiche adottate su temi quali la distribuzione del peso fiscale, il rilancio dello sviluppo, il risanamento del sistema produttivo.
Naturalmente non sono state queste le ragioni che hanno spinto Berlusconi a ritirare così bruscamente e platealmente il suo appoggio a Monti. I primi effetti sul piano economico si sono già verificati attraverso la negativa reazione dei mercati. E non è soltanto l’aumento dello spread a preoccupare, ma la vera e propria involuzione che il nostro Paese rischia nei confronti dei nostri partner in Europa. Basti pensare agli effetti sulle cancellerie europee di una campagna elettorale in cui Berlusconi e il rianimato centrodestra spenderanno a piene mani parole d’ordine in concorrenza con Grillo intrise di demagogia e populismo contro il governo Monti, l’euro, la Germania e a favore della rivolta fiscale.
Per contrastare una tale deriva la carta più efficace dello schieramento di centro sinistra che sosterrà un futuro governo guidato da Pier Luigi Bersani è la netta differenziazione nella forma e nei contenuti della propria campagna e del proprio programma elettorale. Sul piano della forma occorre far leva sulla responsabilità e affidabilità delle proposte, ribadendo di voler proseguire uno stile di governo nuovo che in questi mesi i cittadini italiani hanno mostrato di apprezzare.
Sul piano dei contenuti, occorrerà certo fare tesoro di quanto fin qui raggiunto, ma non meno impellente è la necessità di cambiare strada, mettendo in campo politiche in grado di perseguire e conciliare assai meglio tra loro le tre già citate finalità del rigore, della crescita e della equità che devono restare le stelle polari della politica economica italiana. Non si tratta, ovviamente, di ridurre il rigore nell’opera di risanamento delle finanze pubbliche, quanto tornare a considerare queste ultime come la precondizione per far ripartire il motore bloccato dell’economia italiana. Ed è un cambiamento che dovrà essere per forza gestito in chiave europea. Sia perché abbiamo bisogno per il nostro sviluppo di restare nell’euro, sia perché dobbiamo contribuire a modificare, insieme agli altri membri dell’Eurozona, le politiche fin qui seguite in Europa, appiattite sul binomio recessione-austerità e incapaci di avviare un nuovo ciclo di investimenti. Proposte in tale direzione sono venute da più parti, occorre creare le condizioni politiche perché possano essere adottate. E qualche spiraglio lungo questa direzione si è aperto recentemente anche in Germania.
Servono, infine, politiche fiscali e sociali rinnovate in grado di accrescere i loro effetti redistributivi, che andrebbero rafforzati ulteriormente attraverso miglioramenti quantitativi e qualitativi dell’offerta di servizi pubblici, come sanità, istruzione e servizi destinati alla persona. Sarebbero interventi in grado a un tempo di sostenere la domanda interna e correggere disuguaglianze che hanno raggiunto ormai livelli non più tollerabili nel nostro Paese. Da realizzare nella logica dello scambio, tra misure dettate da ragioni di efficienza ed equità, dirette a rilanciare l’economia nel breve termine, da un lato, e assicurare maggiore crescita in un futuro a medio termine, dall’altro. Si tratterebbe di una politica di riforme in grado di offrire maggiori opportunità di accesso economico a molti cittadini giovani e vecchi, uomini e donne e quindi pienamente compatibile con gli obiettivi della crescita. Non va dimenticato, in effetti, che la crescente disuguaglianza dei redditi in Italia e in tutta l’area industrialmente più avanzata ha contribuito a favorire la crescita abnorme di credito e attività finanziarie ad elevato rischio in tutti gli anni precedenti la crisi. Era diretta a colmare la distanza crescente tra redditi e aspirazioni alla spesa di vasti strati di cittadini ma ha finito per rendere a un certo punto insostenibile com’è noto il livello di debiti accumulato e ha generato la grande crisi economico finanziaria in cui siamo tuttora immersi.

Corriere 9.12.12
Chi paga il conto
di Massimo Franco


Il calcolo spregiudicato del Pdl di essere insieme partito di opposizione e di governo da ieri sera si sta rivelando per quello che è: un azzardo pericoloso. La decisione di Mario Monti di dimettersi dopo l'approvazione della legge di Stabilità mette Silvio Berlusconi e il suo partito di fronte alle loro responsabilità. Hanno destabilizzato la maggioranza in uno dei passaggi più delicati della legislatura. E il loro tentativo di rivendicare senso dello Stato fuori tempo massimo rivela la sorpresa di chi è stato colto in contropiede.
L'intervento di venerdì in Parlamento del segretario del Pdl, Angelino Alfano, che aveva attaccato frontalmente la politica economica dell'esecutivo, ha indotto il presidente del Consiglio a non accettare il ruolo di capro espiatorio delle tensioni e delle contraddizioni del centrodestra. La mossa di Monti è stata compiuta a mercati chiusi, per evitare riflessi immediati sulla situazione finanziaria dell'Italia. Ma è chiaro che il timore di conseguenze pesanti resta acuto: fin da domattina, alla riapertura delle Borse.
A questo punto non si può escludere neppure che Monti possa essere spinto a candidarsi lui a Palazzo Chigi. Se esisteva un accordo per riportare l'Italia fuori dall'emergenza, stipulato con Pdl, Pd e Udc, lo scarto berlusconiano ha rotto le regole tacite che questa intesa imponeva a tutti. E restituisce un Monti che di colpo sente di avere le mani libere: se non altro come riflesso di uno strappo che rischia di compromettere la credibilità italiana nella comunità internazionale dopo il discredito dell'ultimo governo Berlusconi.
Il comunicato durissimo diramato ieri sera dopo l'udienza dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano, è esplicito. Il premier, accompagnato dal suo consigliere a Palazzo Chigi, Federico Toniato, ha spiegato di non poter proseguire la sua azione. Ha respinto le pressioni del Pdl sulla giustizia e non è disposto ad accettare il ruolo di bersaglio di una campagna elettorale berlusconiana giocata contro la moneta unica, l'Europa e le tasse: una strategia «facile» quanto avventurista, destinata ad allontanare il centrodestra da qualunque politica moderata; e ad accomunarlo al leghismo e al movimento del comico Beppe Grillo.
È un altolà al tentativo di giocare la carta del populismo più vieto in una fase di crisi acuta. Allo smarcamento furbesco di Berlusconi, Monti reagisce con un annuncio che parla all'opinione pubblica; e le offre una scelta trasparente, radicale, contro un'operazione che a suo avviso tenta di prendere in giro gli italiani e rende troppo rischiosi i prossimi mesi. La destabilizzazione è responsabilità di Berlusconi: questo lascia capire il capo del governo, raccogliendo la «comprensione» di Napolitano. Meglio bruciare i tempi e dare la parola agli elettori che veder bruciare sui mercati l'Italia.

Repubblica 9.12.12
Un gesto che mette a nudo i ricatti del cavaliere
Berlusconi vuole rappresentare i moderati ma la sua posizione non ha nulla di moderato
Ora si tratta di ricostruire lo Stato, di modernizzare il welfare, di accrescere la produttività
di Eugenio Scalfari


Le dimissioni di Monti sono arrivate come un fulmine. Non certo un fulmine a ciel sereno perché sereno non è affatto ed anzi è rigonfio di nubi nere e cariche di tempesta.
Il redivivo Berlusconi ancora ieri aveva lanciato una serie di accuse contro il governo e contro gli altri due partiti della maggioranza che finora l´ha sostenuto e aveva preannunciato una serie di bombe a orologeria per intralciare e paralizzare Monti fino allo scioglimento delle Camere.
Tre mesi di continui agguati e trabocchetti che avrebbero impedito al governo di governare e costretto gli altri due partiti a sostenere Monti mentre il Pdl (o comunque si chiamerà) si sarebbe interamente dedicato ad una campagna elettorale con l´insegna del "tanto peggio tanto meglio", con i mercati in agguato e la finanza pubblica a rischio di grave pericolo. I decreti ancora in attesa di essere convertiti in legge sarebbero stati bloccati a cominciare da quello sulle Province e quello sullo sviluppo che infatti hanno già avuto il voto contrario del Pdl.
In questo condizioni Monti è salito al Quirinale ed ha preannunciato le dimissioni irrevocabili sue e del governo, condizionate soltanto all´approvazione della legge di stabilità finanziaria e all´approvazione del bilancio che potrebbero avvenire al più tardi entro Natale. Dopo di che le dimissioni di Monti, fin d´ora sostanzialmente date a Napolitano, saranno formalizzate dopo apposito Consiglio dei ministri e il governo resterà in carica - come d´uso - soltanto per l´ordinaria amministrazione.
Il Capo dello Stato ha dichiarato la sua piena comprensione delle decisioni di Monti e si voterà entro la seconda metà di febbraio anziché il 10 marzo come fino a ieri era previsto. Dunque: campagna elettorale ristretta al minimo previsto dalla legge e insediamento del nuovo Parlamento entro la fine di febbraio. Di fatto si tratta di un anticipo di 15 giorni su quanto era stato previsto, ma il fatto ha un rilievo politico molto più forte. Il governo cade perché sfiduciato da Berlusconi e dal partito di sua proprietà. La responsabilità è dunque del Cavaliere di fronte agli italiani e di fronte all´Europa.
Voleva rappresentare i moderati, ma quali moderati? I voti dei quali va in cerca non hanno nulla di moderato. La sua posizione si affianca a quella di Grillo: anti-Monti, anti - Europa, anti-tasse, anti-euro, anti-riforme. Ed anche anti-Napolitano che, pur restando rigorosamente "super partes", aveva garantito all´Europa il mantenimento degli impegni presi, affiancandoli con quell´equità sociale e quel rilancio degli investimenti e dell´occupazione che ora sono le stesse Autorità europee a chiederci, a cominciare dagli stimoli quasi giornalieri di Mario Draghi.
Ho detto che il neo-berlusconismo ha assunto gli stessi contorni del grillismo, ma debbo aggiungere che è peggio di Grillo che non ha clientele da difendere, bonifici da distribuire, ricatti da pagare, aziende proprie da sostenere, processi dai quali sottrarsi.
Grillo cerca di intercettare quella rabbia sociale che si sta diffondendo nel Paese a causa dei sacrifici che hanno colpito soprattutto i ceti medio-bassi. Il rapporto del Censis uscito l´altro giorno documenta quel disagio e lo quantifica: il ceto medio-basso rappresenta il 30 per cento della popolazione; un altro 30 per cento teme di precipitare anch´esso in una sorta di proletarizzazione.
Ma, scrive il Censis, questo diffuso disagio diminuirà gradualmente nei prossimi mesi, quando l´economia reale comincerà a registrare qualche consistente miglioramento.
Chi gioca però al «tanto peggio tanto meglio» rischia di alimentare gli aspetti eversivi e violenti di quel disagio, anzi se lo propone appoggiando al tempo stesso l´aumento delle diseguaglianze sociali. Ecciterà i poveri alla protesta proteggendo contemporaneamente le posizione dei ricchi, purché amici e sodali.
Non saranno certo i Briatore a rimetterci. Ecco perché il nichilismo berlusconiano è assai più insidioso e velenoso di quello grillino. Monti con la sua decisione di ieri ha strappato i veli che lo nascondevano. Ora appare in tutta la sua evidenza.
A questo punto saranno i cittadini elettori a chiudere la partita. Molti dicono che il popolo sovrano è dotato di un deposito di saggezza che vede più lontano e più lucidamente di quanto non accada alla classe dirigente. Lo spero anch´io, ma non lo darei per scontato. Una parte importante di cittadini ragiona con la propria testa e tiene a bada quella parte emozionale che c´è in ciascuno di noi e che si regola sull´immediato presente. Ma un´altra parte vive di emozioni e dà retta a false promesse e ad illusioni prive di qualunque riscontro con la realtà.
In ogni Paese esiste una massa di elettori che cade in preda a demagoghi e a venditori di paradisi artificiali, ma da noi purtroppo questa massa ha più consistenza che altrove. Chi pratica il gioco delle tre carte e chi vende San Pietro o il Colosseo ha sempre trovato compratori.
Berlusconi è un venditore formidabile, in questo non ha rivali ed è la ragione per cui è già stato votato per cinque volte di seguito da milioni di italiani che hanno creduto in lui anche quando il Paese stava precipitando.
E´ possibile che gli credano ancora? Il popolo sovrano chiamato tra poco alle urne darà la risposta. La previsione è che questa volta scelga responsabilmente i partiti della democrazia, del cambiamento, del realismo. Non si tratta soltanto di uscire dall´emergenza completando i compiti che l´Europa ci ha assegnato. Si tratta di molto di più. Si tratta di ricostruire lo Stato, di modernizzare il «welfare», di accrescere la produttività, di combattere le mafie e le clientele parassitarie, di distribuire equamente il reddito, di snellire la burocrazia, di ridare ai giovani e alle famiglie speranza e fiducia.
Problemi antichi, sempre discussi e mai risolti. Ora sono anch´essi diventati emergenza e con questo spirito vano affrontati senza dimenticarne un altro che tutti li condiziona: la costruzione dell´Europa come vera patria di tutti gli europei. Fuori da questo quadro saremo tutti condannati all´irrilevanza economica, politica, culturale.
Non dimenticatelo mai nei prossimi anni e non dimenticate che l´Italia non può far nulla senza l´Europa e l´Europa può fare ben poco senza l´Italia.
Cavour l´aveva capito e per fortuna anche la Francia, l´Inghilterra e la Prussia lo capirono. Solo così il movimento risorgimentale trovò il suo sbocco nella nascita dello Stato unitario. Talvolta la storia è maestra di vita e questo è l´obiettivo che ci sta dinanzi.

il Fatto 9.12.12
“Gioco per vincere” dice l’ex premier, e prepara l’arca di salvataggio per un centinaio di fedelissimi
Marco Belpoliti: “Giocherà la sua partita, non vincerà”
intervista di Luca De Carolis


Berlusconi è un clone di se stesso. E ripete sempre lo stesso modello di comunicazione, fatto di calcio e televisione”. Marco Belpoliti, scrittore e docente di letteratura contemporanea, ha dedicato un libro al peso dell’immagine nell’ascesa berlusconiana (Il corpo del capo). Non è sorpreso dall’ennesima discesa in campo dell’ex premier, né dalle modalità.
Berlusconi formalizza la candidatura da Milanello, il centro sportivo del Milan. Perché?
Perché il suo modello di comunicazione è sempre quello, basato su calcio e televisione. Da sempre, Berlusconi parla usando metafore calcistiche e televisive. Non conosce altri modelli, altri linguaggi.
Lo stesso nome Forza Italia, i parlamentari ribattezzati azzurri…
Sì. Una sua frase di oggi (ieri, ndr), “entro in gara per vincere”, ribadisce che il calcio è un paradigma che per Berlusconi va sempre bene: perché colpisce moltissimi italiani. Come la tv, e il sesso.
Lei ha scritto dell’ossessione di Berlusconi per il suo aspetto fisico. Ma gli anni ormai sono passati, e si vede.
Potrebbe contare meno di quanto si pensi. Alcuni, guardandolo, potrebbero sovrapporre al Berlusconi attuale un’altra immagine, quella che vorrebbero vedere. Per tanti, l’ex premier rappresentava una sorta di taumaturgo. E questo ha un peso, in un Paese come il nostro dove certe suggestioni, quasi istintuali, sono ancora radicate. L’Italia è la nazione delle Madonne che piangono, dei santi, dei miracoli.
Sta dicendo che Berlusconi potrebbe ancora piacere molto e prendere tanti voti?
No, non lo credo. Ma mi chiedo dove possa arrivare. Berlusconi giocherà una partita di seduzione, che potrebbe ancora dare risultati. Poi, certo, sarà anche aggressivo: dirà che Monti e i professori hanno strangolato l’Italia. E forse prometterà di togliere l’Imu.
Raccontano che negli scorsi mesi abbia trascorso intere serate a studiare i comizi di Grillo.
Intere serate mi pare troppo: Berlusconi conosce perfettamente la tv e la comunicazione, capisce e “registra” in tempi rapidissimi. Ma che se li sia guardati attentamente non ho dubbi. In fondo, sono entrambi personaggi televisivi, anche se ora Grillo è passato al web. Pagherei per un confronto televisivo tra lui e Berlusconi.
Il web di Grillo potrebbe essere più forte delle tv del Biscione?
Non credo. Un rapporto del Censis dice per l’80% degli italiani la televisione è fonte di tranquillità. La trovi lì ogni sera e non costa nulla, fatta eccezione per il canone. In più, l’utilizzo degli smartphone è ancora limitato, e una fetta di popolazione non va sul web. La gran parte della campagna elettorale si giocherà sulle tv, e Berlusconi punta su questo.
E Bersani, come dovrà regolarsi?
Fossi in lui, non farei un confronto in tv con Berlusconi. Bisogna cercare di tenere distinti i progetti politici, le diverse visioni. Altrimenti si rischia di mettere tutto sullo stesso piano.

il Fatto 9.12.12
L'intervista: Stefano Ceccanti, costituzionalista. È senatore nella lista del Partito Democratico.
“Elezioni entro febbraio, ci sarà anche il Prof”
di Caterina Perniconi


È a cena con gli amici il senatore democratico Stefano Ceccanti quando arriva l’annuncio di Mario Monti: legge di Stabilità e poi dimissioni. Accende il computer, legge convulsamente i comunicati. “La dichiarazione resa ieri in Parlamento dal segretario del Pdl, onorevole Angeli-no Alfano, costituisce un giudizio di categorica sfiducia nei confronti del governo e della sua linea di azione... ”.
Senatore Ceccanti, che significa?
I toni sono chiari. Ammette che il Pdl e Berlusconi gli hanno fatto la guerra, quindi gli attribuisce la grave responsabilità della fine dell’esecutivo. A questo punto non escludo un suo impegno attivo in campagna elettorale.
Da candidato premier?
Tutto è possibile.
Facciamo due calcoli. Quando sarà approvata la legge di Stabilità?
Dipende dagli accordi e dalla volontà. Se intendono correre, il 20 dicembre può essere licenziata.
In quel caso quando andremo alle urne?
Considerando che la legge prevede tra i 45 e i 70 giorni dallo scioglimento, potremmo fare in tempo anche per il 4 febbraio, con le elezioni regionali del Lazio. Però dobbiamo considerare le decisioni del ministero dell’Interno.
Cioè?
Di solito per attivare la macchina elettorale servono in media 60-65 giorni.
A quel punto?
Penso piuttosto al 10 o 17 febbraio e in quel caso potrebbero trovare un modo per accorpare anche il Lazio.
Le regionali di Lombardia e Molise invece?
È possibile strutturare un election day.
E votare il 10 marzo?
È lontano, significherebbe portare la legge di Stabilità fino al 2013 e non mi sembra ci sia la volontà.
Nell’interesse di chi?
Sia del Pdl che del Pd. Per i primi meno schiaffi elettorali in sequenza prendono meglio è. Il Pd deve andare all’incasso prima possibile.
Napolitano avrebbe preferito aspettare?
Ha provato a raffreddare la situazione, sperava in una crisi pilotata per portare a termine un programma minimo che non comprendesse solo la legge di Stabilità. Ma ha dovuto prendere atto delle parole di Monti che ha voluto evitare in tutti i modi un Vietnam parlamentare.
Una scelta di Monti, quindi?
Certo, non era il caso di farsi bombardare dal Pdl, volevano presentare l’incostituzionalità anche sui decreti del governo. Monti avrà pensato che Berlusconi è matto, che gli irresponsabili ora devono misurarsi con il voto e quindi anche con lui. In che modo, lo vedremo.

il Fatto 9.12.12
Resta il Porcellum, vince la Casta
Roberto Giachetti, deputato Pd: “Il Pdl non vuole cambiare, al Pd non conviene”
di C. Pe.


Glielo ha chiesto la sua famiglia e anche Giorgio Napolitano, ma alla fine Roberto Giachetti ha ascoltato solo le imposizioni del medico. Il deputato del Pd, dopo 123 giorni di sciopero della fame contro un Parlamento che non vuole saperne di cambiare la legge elettorale, la settimana scorsa ha capito che non c’era più nulla da fare e ha ricominciato a mangiare.
Onorevole, se aspettava una modifica del Porcellum probabilmente sarebbe morto di fame.
Lo so, ormai è assolutamente improbabile che cambino la legge. Dovrebbe avere un percorso netto, tra Senato e Camera, dal 19 dicembre al 6 gennaio. Le sembra possibile?
Me lo dica lei.
Il Pdl non vuole più cambiarla e perché Bersani dovrebbe averne interesse?
Per recuperare credibilità davanti all’opinione pubblica?
In ogni caso il prezzo sarà alto.
Ha fatto una riflessione sulla sua battaglia che rischia di essere stata inutile?
Sì, l’ho dovuta fare sul serio. Non ero il primo che passava per strada, sono un parlamentare e ho sentito il dovere morale di fare qualcosa, di dimostrare che c’era chi voleva cambiare le cose.
Non ha niente da rimproverarsi.
No, e sono uno dei pochi. Il mio primo obiettivo era quello di spostare il dibattito dalle stanze degli sherpa di partito al Parlamento ed è anche grazie alla mia battaglia se almeno lì ci siamo arrivati.
Poi però ci siete rimasti.
Purtroppo. Vorrei che emergesse la mia volontà, cioè che esisteva uno che ci credeva sul serio.
Uno, appunto.
Per i miracoli mi sto ancora attrezzando. Spero di aver fatto bene alla politica, alla mia parte politica.
Che vuole fare la sua parte politica?
É del tutto manifesto che non gli conviene più cambiare nulla. Quello che gli rimprovero è la mancanza di consapevolezza del rischio che avevamo di finire in una palude.
Troppi tentativi di dialogo?
Non dovevamo sottostare ai rinvii e ai giochetti del Pdl. Quando si è capito lo schema dovevamo portare la nostra proposta in aula e chi la bocciava si sarebbe preso la responsabilità. Ora la gente pensa che le colpe siano condivise, ma non siamo tutti uguali.
Le primarie per i parlamentari possono tappare il buco?
In parte, purché non pensino che sia la soluzione. É un ripiego che spero organizzeremo in modo adeguato, visti i tempi.
Ci sono i tempi dopo le parole di Monti?
Dovremmo votare con il Panettone. É difficile.

il Fatto 9.12.12
Parisi: le regole andavano cambiate, sono passati 5 anni


COME SI FA a dire per cinque anni che il Parlamento è composto di nominati e poi non fare nulla per cambiare il Porcellum?”. La domanda posta da Emanuele Macaluso sul Fatto Quotidiano è stata ripresa dall’ex ministro della Difesa Arturo Parisi, anche per il quale non cambiare la legge elettorale è uno dei più gravi errori anche per il Pd. “Nel momento nel quale la crisi di governo viene cavalcata da tutti per liberarsi dall'incomodo dovere di cambiarla, la domanda di Emanuele Macaluso è allo stesso tempo un’accusa gravissima. Un’accusa gravissima a tutti i dirigenti della dissolta maggioranza, ma anche al Pd che giustamente Macaluso ritiene al riguardo colpevole come il Pdl. Nonostante l’evidenza dei fatti - conclude l’esponente ulivista - spero fino all’ultimo che quello che non è stato fatto finora possa essere ancora fatto, e il malfatto corretto”.

il Fatto 9.12.12
Chi comanda chi cinguetta
di Paolo Flores d’Arcais


Dopo le prossime elezioni la metafora del Gattopardo non potremo usarla più. Quello che si sta preparando è un tale sabba di gattopardismo, una tale apoteosi (etimologicamente: divinizzazione) del “cambiare tutto per non cambiare nulla”, che bisognerà inventare metafore ben più hard per le ulteriori occasioni della “cosa stessa”. Tra poco si vota col Porcellum, l’ultimo sondaggio di Ilvo Diamanti (sono sempre molto accurati) assegna al centrosinistra, grazie all’effetto-primarie, circa il 45%. Casini è in caduta libera, Montezemolo ha detto ieri che forse fare una lista non vale la candela. Bersani, se si votasse oggi, avrebbe una maggioranza schiacciante non solo alla Camera ma anche al Senato. Potrebbe mandare al Quirinale chi vuole, a partire dal suo amico Prodi (meglio ancora: un Zagrebelsky). E invece tutti i “sussurri e grida” rimbombano di un solo nome per il Colle più alto: Monti. Il centrosinistra, a meno di non commettere in un pugno di mesi tutti gli errori di Occhetto, D’Alema e Veltroni messi insieme (e l’esperienza ci dice che nella genialità tattica per essere sconfitti la nomenklatura ex-Pci ha pochi rivali), potrà governare senza nessun accordo con i centristi, che al Senato, del resto, rischiano di non raggiungere il quorum. Se poi Bersani avesse il coraggio di fare le primarie anche per la formazione delle liste, mentre gli altri partiti nomineranno dall’alto vecchi corrotti e nuovi cavalli (anche femmine) di Caligola, il centrosinistra non vincerebbe, stravincerebbe. Perché, allora, è tutto un fiorire di riconoscimenti, uno sbocciare di lusinghe, un germogliare di rassicurazioni – per chiunque abbia orecchie per intendere – che implicano Monti subentrare a Napolitano? Monti, con la sua “agenda” tanto cara a banchieri e marchionni dell’establishment mondiale, rottamatori (uso per la prima volta l’orrendo vocabolo, perché qui va preso purtroppo alla lettera) del welfare, cioè meno pensioni, meno ospedali, meno diritti per tutti, e più privilegi per i soliti happy few. Monti, con i nuovo poteri da presidente quasi alla francese, che Napolitano, picconata dopo picconata (altro che Cossiga), ha imposto nella Costituzione materiale, e che garantiranno all’uomo di Bilderberg e altri Goldman Sachs una tutela sul governo di centrosinistra che renderà superflua ogni troika europea (sarà installata direttamente al Quirinale, una anziché trina). Comanderanno sempre “loro”. Alle nuove leve di Bersani sarà però concesso di cinguettare qualche parola “di sinistra”.

Corriere 9.12.12
Grillo blinda i dati delle Parlamentarie
Parenti in lista, è lite
di Emanuele Buzzi


MILANO — Un attacco al Cavaliere — «Molti al grido di arridatece il puzzone vogliono liberarsi il prima possibile di Monti rimettendo allo psiconano ogni peccato» — e uno all'esecutivo («L'agenda Monti, sottoscritta con voluttà dal pdmenoelle, prevedeva un solo punto: lo spread, ma lo spread non si mangia e soprattutto non dipende da Monti, ma dalle agenzie di rating internazionali»): Beppe Grillo sul suo blog punta all'attualità politica, ma in seno al movimento non si placano le polemiche sulle Parlamentarie, che si sono concluse giovedì. Tra i militanti, nei vari forum, tengono ancora banco le discussioni sull'effettivo numero dei votanti e su alcuni candidati che hanno legami familiari o affettivi con altri esponenti grillini.
Il leader non ha reso note le preferenze ottenute dai singoli candidati e ha cercato di blindare non solo i risultati ma anche le cifre relative agli iscritti ai Cinque Stelle, minacciando di ricorrere a vie legali nel caso di fughe di notizie: «Sono in corso alcuni tentativi di acquisire i dati degli iscritti al MoVimento 5 Stelle tramite sedicenti sondaggi o censimenti sulle Parlamentarie pubblicati su Facebook da parte di terzi facendo intendere di essere legati al MoVimento 5 Stelle. Sono ovviamente degli illeciti e saranno denunciati alle autorità», ha scritto sul blog.
Le intenzioni di Grillo vengono però sconfessate dagli stessi militanti. Serenella Spalla, attivista dell'Emilia-Romagna giunta quarantacinquesima alla consultazione online, ha postato su Facebook una stima dei votanti in molte Regioni. Cifre contenute: si va dagli 86 elettori del Molise ai 555 della Sardegna, ai mille (circa) di Piemonte, Veneto e Puglia. Numeri che suscitano reazioni e commenti. «È davvero scandaloso che qualcuno consideri normale essere candidato al Parlamento grazie a 70 segnalazioni su internet, come è accaduto in Emilia-Romagna con le Parlamentarie di Grillo», dichiarano gli esponenti pd Sandra Zampa e Giulio Santagata. «Aspettiamo che il Pd faccia con i suoi tre milioni di votanti le Parlamentarie per ogni candidato a Montecitorio o Palazzo Madama», ribatte Vito Crimi, volto storico dei Cinque Stelle, recordman di preferenze in «Lombardia 2» e candidato al Senato. «Le nostre sono state selezioni interne con oltre 32 mila votanti, non cambierei una virgola». E sulle contestazioni attacca: «Se ci sono situazioni critiche qualcuno le denunci, senza insinuare solo il dubbio». «Anche noi abbiamo visto risultati diversi da quelli che ci aspettavamo — continua —. In Emilia-Romagna per esempio la base ha sostenuto candidati vicini al gruppo dei cosiddetti dissidenti: è la dimostrazione che le consultazioni sono state libere e non manovrate».
Crimi replica anche alle accuse di favoritismi verso familiari e stretti collaboratori: «Perché penalizzare qualcuno solo perché è parente? Le persone sono state votate dagli iscritti». Anche Giancarlo Cancelleri, leader grillino all'Ars e fratello di Azzurra, in corsa per la Camera, si difende: «Nessun nepotismo, mia sorella è stata candidata perché ne ha i requisiti, fa parte del movimento da tempo anche prima di me». «Il fatto di essere mia sorella e di portare il mio cognome — assicura — non l'ha avvantaggiata». Ma intanto sul web la polemica divampa.

l’Unità 9.12.12
Corruzione, Italia maglia nera d’Europa
Oggi la giornata mondiale per la legalità
I dati di Transparency International: peggio di noi fanno solo Bulgaria e Grecia
di Marco Mongiello


BRUXELLES Non poteva essere più azzeccato lo slogan della giornata internazionale contro la corruzione celebrata oggi dalle Nazioni Unite: «Act Against Corruption Today» (agisci oggi contro la corruzione). Ricorrenza che arriva in una settimana nera per l'Italia e per l'Europa, culminata con il ritorno nell'agone politico di Berlusconi che ha spaventato i mercati.
L'allarme è però stato lanciato mercoledì scorso dall'associazione Transparency International che ha pubblicato l'edizione 2012 del suo indice di percezione della corruzione. Quest'anno l'Italia è precipitata al 72esimo posto su 174 Paesi del mondo, superata dal Ghana, dalla Romania e dal Brasile. In Europa fanno peggio solo Bulgaria e Grecia. L'anno scorso il Bel Paese era in 69esima posizione, appena sopra la Romania.
La corruzione in Italia, hanno scritto gli analisti dell'associazione, ha «un impatto devastante» sull'economia e sulla credibilità dell'intero Paese, fa fuggire gli investimenti esteri e fa lievitare i prezzi delle grandi opere pubbliche fino al 40% in più. Secondo la presidente di Transparency International Italia, Maria Teresa Brassiolo, «il governo presente e quelli futuri dovranno mantenere l’anticorruzione in cima alla loro agenda politica: non siamo solo noi addetti del mestiere a richiederlo, ma i cittadini e le imprese che non ne possono più di veder distrutto il frutto del loro lavoro per corruzione o negligenza nell’uso delle risorse pubbliche». Inoltre nel momento in cui la crisi economica colpisce tutta l'Europa la questione non riguarda più solo l'Italia. Nel comunicato dell'associazione si sottolinea che gli indici di corruzione sono più alti proprio nei Paesi dell'eurozona più colpiti dalla crisi.
«L'Italia è un Paese in cui i processi per corruzione si fanno», ha replicato venerdì il ministro della Giustizia Paola Severino, parlando a margine di una riunione a Bruxelles. Secondo il ministro quelle di Transparency International non sono «classifiche che misurano il reale livello di corruzione, ma la percezione del suo livello. È qualcosa di diverso».
Venerdì anche il rapporto del Censis sulla situazione sociale del Paese ha indicato che la corruzione è un problema grave per il 74% dei cittadini europei e per l'87% di quelli italiani. Il fenomeno è in aumento secondo il 47% degli europei e il 56% degli italiani, il cui 46% afferma di essere stato colpito personalmente dal fenomeno, contro il 29% dei cittadini dell'Ue. A peggiorare le cose sono le aspettative per il futuro. Per la maggioranza degli italiani, il 64%, aumenteranno i comportamenti scorretti per fare carriera, per il 58,6% aumenterà l'evasione fiscale, per il 55,1% aumenteranno le tangenti negli appalti pubblici e per il 53,2% la mercificazione del corpo. Dati che ieri hanno rafforzato la convinzione del presidente dell' Heimatbund, la lega patriottica sudtirolese, Roland Lang, che bisogna lasciare l'Italia al suo destino. «È tempo – ha detto – che ci separiamo da un Paese che è più corrotto della Namibia e della Romania».
Gli sforzi del governo Monti in materia non sembrano aver migliorato di molto la situazione. Il decreto sull'incandidabilità dei politici condannati, licenziato giovedì dal Consiglio dei ministri, è stato bollato come «un simulacro di legalità» dal sindaco di Napoli ed ex magistrato Luigi De Magistris. Con queste norme possono candidarsi Berlusconi e Nicola Cosentino, ha detto, «vogliono fare fessi gli italiani».
Venerdì anche il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli ha definito la nuova legge anticorruzione «un'occasione mancata». Secondo Sabelli «non c'è tutta la materia sul falso in bilancio, sul riciclaggio, non c'è attenzione alla materia della contabilità societaria, mentre è proprio nei flussi di denaro sporco che si nasconde il principio di quello che poi diviene malaffare nella pubblica amministrazione e alimenta la criminalità».
Anche a Bruxelles sta aumentando la consapevolezza della gravità della questione. Secondo le stime della Commissione europea la corruzione costa all'Europa qualcosa come 120 miliardi di euro all'anno, quasi quanto il bilancio annuale dell'Ue in discussione in questi giorni.
Si tratta di «conti fatti per difetto», ha sottolineato Rita Borsellino, sorella del giudice ucciso dalla mafia ed eurodeputato Pd membro della nuova commissione parlamentare sul crimine organizzato. La questione dei soldi, ha spiegato la Borsellino, «è una delle molle che ha sollevato l'attenzione europea. In un periodo di crisi così profonda e di problemi di bilancio pensare che c'è una quantità di denaro così enorme che finisce nelle tasche di qualcuno sviluppa un attenzione maggiore anche da parte di chi finora aveva considerato il problema in modo superficiale».

l’Unità 9.12.12
I nuovi italiani
Moustapha, un anno dopo monumento anti razzismo
Il 13 dicembre sarà passato un anno dalla strage di piazza Dalmazia, quando uno squilibrato simpatizzante fascista fece fuoco contro i senegalesi
di Marco Bucciantini


FIRENZE C’è anche l’Italia del 13 dicembre. Ha la pelle nera e gli occhi aperti, come l’altra, nella notte triste. Il pianto fermo sulla riva delle ciglia, per la commozione, per l’ingiusto senso di inadeguatezza, per i ricordi.
E per una pallottola nel cuore, oltre il cuore: nella schiena, fra le vertebre, nel midollo spinale.
Moustapha Dieng è un reduce. Partecipò, senza volerlo, senza saperlo, alla guerra di Gianluca Casseri, che il 13 dicembre dell’anno scorso uscì armato dalla sua casa fiorentina in piazza del Terzolle. Dopo un “giro” di pattuglia, tornò verso piazza Dalmazia, intenzionato a uccidere. Lo fece: a bruciapelo. Colpì a morte Samb Modou e Diop Mor. Più lontano, al mercato di San Lorenzo, ferì gravemente Sougou Mor che ebbe le braccia fracassate, messe come scudo fra sé e i colpi e Mbenghe Cheike. Poi si rivolse la Smith & Wesson 357 magnum e si sparò, convinto che la sua opera folle, fascista e razzista fosse stata compiuta con maggiore ampiezza: Moustapha Dieng sembrava morto, a terra in un angolo erboso della piazza, senza fiato e senza sguardo. Ma era vivo.
LA SUA VOLONTÀ
Moustapha è un ricordo di quel giorno. Come la lapide che il comune ha fissato in quel pezzetto della piazza, in mezzo ai due promettenti alberi, il baobab (pianta della terra d’Africa) e l’Ulivo, con le sue foglioline pacifiche. Poi c’è questo ragazzo un tempo alto, bello, allegro e che adesso può essere seduto o sdraiato, non conosce altre posizioni e non ha passo e sorride, sì, spesso e per rassicurare gli altri, ma non ride più. Il proiettile è il confine della sua vita: è un uomo presente nelle sue facoltà dal punto della lesione in su, è assente dalla ferita in giù. È tetraplegico, il corpo non risponde più al cervello, ai nervi. Solo sfilacciati riflessi che assicurano funzioni vitali. Ha perso la voce, la trachea è stata compromessa e poi trapiantata, ma il suono non arriva alla bocca: per emettere un verso più esasperato che netto serve che qualcuno gli prema con un dito sulla laringe. Ha salvato appena le mani (non le dita, a parte i pollici), e le muove in avanti per salutare, toccando con le nocche delle dita, piegate sul palmo. Gli avambracci poggiano sul sostegno di questa moderna carrozza, molto costosa (sui 40 mila euro), che gli ha donato un’associazione di volontari. Guarda negli occhi, e fa un gesto, l’unico e l’ultimo, avvicinando la mano sempre stretta verso il cuore, rimbalzando sullo sterno, per trasmettere affetto. È il suo modo di salutare. Eravamo d’accordo così, un attimo, nessuna faticosa parola. Vedersi, e basta. Perché una cosa ancora può fare, Moustapha: può scegliere: sì o no. È tutto qui la sua libertà, il suo diritto. Ed è piacevole accettarlo: non è più padrone del suo corpo, ma governa ancora la sua volontà. Niente domande, niente foto.
Nella sala d’aspetto c’è tutto il suo mondo: il fratello Ndega, c’è Madiagne Ba, uno dei più attivi nella numerosa, benvoluta comunità senegalese. E c’è una signora che non vuole farsi conoscere, «scriva solo il nome, Tina», e un’origine di mezza montagna, «vengo dalla Garfagnana, ma ormai sto a Firenze da tanti anni. Ero venuta in città per lavorare, ho fatto la donna delle pulizie e poi sono stata nelle cucine delle caserme». È in pensione, quando ha letto su un giornale di questo ragazzo sfortunato ha deciso di venire a trovarlo. «Ho cominciato a parlargli, lui mi seguiva con gli occhi». Tina racconta, aspetta. Torna. Da allora lo fa ogni settimana: Mustapha ha imparato a conoscerla, ad ascoltarla, le ha fatto posto nella sua stanza dove un computer lo abbottona alle cose ormai troppo distanti. Con quello, segue il suo sport preferito, una lotta tipica del Senegal, e controlla i risultati della Nazionale di calcio con Madiagne: «Sono individualmente forti, i più bravi d’Africa, ma non riescono a essere squadra». Nella stanza, ancora: un televisore appeso al soffitto, per essere visto dal basso verso l’alto, da allettati, e un monitor per far sapere ai dottori quanto pompa il cuore.
Madiagne e Moustapha non si conoscevano. L’uno si arrangiava in città (ambulante, facchino, sguattero) e l’altro vendeva abbigliamento a Cascina, nel Pisano. Gli spari in piazza Dalmazia sono l’inizio della loro amicizia. Madiagne adesso è disoccupato, «la crisi c’è anche per noi: non lavora più nessuno». Con il tempo ritrovato, viene al Cto di Careggi, l’ospedale sulle rampe della collina. Per arrivare nell’unità spinale si cammina per un corridoio lungo e non sempre rettilineo. L’ultima svolta è a destra, la prima porta a sinistra è l’uscio di casa di Moustapha. Che non sa quanto ancora dovrà vivere qui. Fa molta ginnastica ma non serve a guarire: sono pazienti dannati, possono solo difendere quelle poche funzioni rimaste, allenarle per non perderle. Ma la degenza non li cura. Non succederà.
DOPO IL DOLORE
A Ndega mancano le serate insieme nella piccola casa di Cascina, con gli altri cinque amici inquilini, a parlare di tutto, a riposare quando la stagione li fa chinare per ore a terra, a raccogliere la verdura. Ricorda quella telefonata, il 13 dicembre, la mattina. Imponeva un cambiamento di programma. «Chiesero a mio fratello di andare a Firenze perché al mercatino i clienti cercavano un giubbotto e lui lo aveva fra la sua merce. Moustapha andò». Il destino chiama, ed è lì, puntuale e stronzo. Il ragazzo, «credetemi fa Ndega era alto, bellissimo, piaceva molto», va in piazza Dalmazia, lascia il giubbotto e sta per ripartire. Una sosta di cinque minuti. Il proiettile è più veloce. La città è angosciata: i senegalesi sono carne di Firenze, è la prima e la più amata comunità straniera, il suo storico rappresentante (Pape Diaw) è stato consigliere comunale. Ma il dolore passa e serve invece qualcosa che resti: le istituzioni chiedono che ai tre feriti sia concessa la cittadinanza italiana. È una difficile forzatura legale che può fare solo il Capo dello Stato. Altri sollecitano un sussidio per permettere l’arrivo della madre dal Senegal e per le cure, ma a Careggi Moustapha è assistito in modo completo, perfino caloroso. La sua vicenda è anche un trionfo della sanità pubblica, un baluardo di questo Paese.
Il dolore passa, dunque. E si porta via l’emotività, che è benzina della buona volontà. Qualche giorno fa, con l’uso dei pollici, Moustapha stava navigando su Internet quando lesse dell’irruzione violenta di un gruppo di fascisti di Casa Pound a una festa di Pontedera (per loro simpatizzava il Casseri, l’assassino dei senegalesi). L’amministrazione stava concedendo la cittadinanza onoraria alle figlie ed ai figli dei migranti nati in quel comune.
Non c’è una morale in questa storia.

l’Unità 9.12.12
Imola decide: cittadinanza ai bambini i nati in Italia
La piccola città romagnola vara un protocollo e finanzia il sostegno all’alfabetizzazione e la mediazione culturale dentro e fuori le famiglie
di Rachele Gonnelli


La coltre di neve sui campi e il mercatino con le lucette in piazza Gramsci a Imola fanno l’effetto che tutto sia uguale a sempre in questa città di 70mila “anime” sulla via Emilia, Romagna profonda. Invece qualcosa di profondo sta cambiando, modificazioni del vivere di una comunità e della sua percezione sociale che non fanno rumore.
La giunta comunale di Imola ha appena varato un provvedimento che parifica i diritti degli studenti immigrati e non, di più: riconosce tutti i bambini e i ragazzi nati in Italia da genitori stranieri e che partecipano ai percorsi scolastici e formativi come italiani e stanzia fondi per facilitare l’alfabetizzazione loro e dei loro genitori e la mediazione culturale. E finora solo il Pdl ha alzato una voce contraria al provvedimento che sarà votato in Consiglio comunale mercoledì. «Critiche anche molto civili dice l’assessore Marco Raccagna che ha portato in giunta il rinnovo del protocollo per l’accoglienza si sono limitati a dire che la giunta dell sindaco Daniele Manca sta surrettiziamente applicando lo ius soli cioè il diritto di cittadinanza per tutti quelli che nascono in Italia ndr senza che la normativa nazionale lo preveda. In realtà non stiamo facendo una forzatura, non siamo sovversivi, sappiamo che serve una nuova legge nazionale sulla cittadinanza e speriamo che Bersani, una volta premier, la faccia come ha promesso come prima misura del nuovo governo. Ma nel frattempo non possiamo far finta di non vedere tutti questi ragazzi che vivono, giocano, studiano accanto ai nostri figli, si considerano italiani, alcuni persino parlano dialetto». L’assessore Raccagna è convinto che sulla multietnicità di Imola anche la destra si sia arresa alla realtà. «Magari non ce la fanno a dire che sono d’accordo ma da un anno a questa parte vedo un atteggiamento diverso di fronte a questa problematica, toni più civili».
In questa piccola città gli stranieri sono 7.014, il 10 per cento della popolazione. Marocchini, tunisini, albanesi, moldavi e ucraini soprattutto. Ma le statistiche dicono che di questi 1.077, cioè il 15 per cento del totale, sono ragazzi nati in Italia, nel 75 per cento dei casi bambini e minorenni. Con una legge sulla cittadinanza più moderna e europea questi ragazzini sarebbero italiani a tutti gli effetti. A Imola hanno iniziato a considerarli come tali già da ora. E quindi a farsi carico di eventuali loro problemi di integrazione sia con il resto della comunità cittadina sia all’interno delle loro famiglie d’origine. Spesso i genitori non parlano bene italiano o non lo sanno leggere e possono avere difficoltà e resistenze culturali nel capire comportamenti e relazioni dei figli.
Altri comuni, come Pontedera in Toscana, hanno dato a questi bambini attestati di cittadinanza, «noi spiega ancora l’assessore alla scuola di Imola abbiamo optato per un gesto altrettanto simbolico ma più concreto». È stata stanziata una piccola cifra 55mila euro per appaltare a due cooperative sociali un servizio di mediazione culturale e uno per corsi di alfabetizzazione e sostegno all’apprendimento della lingua italiana. Quest’ultimo si avvale anche di insegnanti madre lingua dei Paesi d’origine per corsi intensivi dedicati ai 50-60 bambini che si inseriscono ogni anno nelle scuole elementari e medie a lezioni già iniziate.
«È uno stanziamento molto modesto ma lo Stato non dà niente, sarebbe meglio che il governo si occupasse di tutto ciò così come di assistenza ai ragazzi disabili o di edilizia scolastica dice Raccagna invece sono gli enti locali a dover supplire». In effetti nella legge di stabilità attualmente in discussione non viene assegnato neanche un euro né al Fondo per l’inclusione sociale degli immigrati né al Fondo per le politiche migratorie. Gli unici capitoli di spesa previsti per l’immigrazione riguardano i Centri di identificazione e espulsione (236 milioni di euro per il 2013, 220 per il 2014 per spese correnti e investimenti sui Cie), in una logica che resta solo securitaria, non di inclusione. A Imola sono andati avanti, in un’altra direzione.

il Fatto 9.12.12
Il Papa: salvate la sanità cattolica
Benedetto XVI contro i tagli agli ospedali. Quelli della Chiesa, però
di Carlo Di Foggia


Nel disastrato panorama della sanità laziale, che attende per fine anno la cura da cavallo del commissario straordinario Enrico Bondi, da ieri si conta anche un appello del Papa: “Desidero rivolgere l'auspicio che possano trovare soluzione i problemi che affrontano le varie istituzioni sanitarie cattoliche”, ha auspicato Benedetto XVI durante l'Angelus, rispondendo ai lavoratori dell'Idi e dell'ospedale San Carlo di Nancy che, senza stipendio da mesi, inscenavano un flash mob di protesta al grido di “ci dovete pagare”. Tradotto, nonostante la chiusura degli ospedali pubblici, nessuno si dimentichi delle strutture religiose, quasi ovunque in condizioni critiche e con le casse vuote, sulle quali si abbatterà il taglio lineare del budget del 7% previsto per i privati. Tra questi la variegata galassia degli ospedali vaticani, dieci strutture che insieme forniscono 25 mila prestazioni.
I LAVORATORI dell'Idi, su cui grava un buco da 800 milioni di euro e un'inchiesta che ha coinvolto il vertice dell'istituto, saranno quindi gli unici a tirare un sospiro di sollievo, visti i 4,5 milioni di euro sbloccati (ma non ancora erogati) dal commissario ad acta. Il resto degli istituti è in allarme. Per il 2012 il taglio retroattivo ammonta a quasi 100 milioni di euro, a danno anche dei policlinici universitari. Il Gemelli subirà da solo una sforbiciata di 19,5 milioni di euro mentre attende ancora 800 milioni di rimborsi. Intanto il Fatebenefratelli dell'Isola Tiberina e il San Pietro hanno sospeso per protesta le prestazioni in convenzione con il servizio sanitario pubblico mentre l'Airs, l'associazione che raccoglie gli ospedali religiosi, minaccia “il blocco delle visite specialistiche e delle attività ambulatoriali e non straordinarie erogate in convenzione con il sistema sanitario nazionale”. Il salasso riguarderà soprattutto i ricoveri per acuti, con 63 milioni di euro in meno solo per il 2012. In questo scenario, l'unica nota positiva potrebbe arrivare dallo sblocco dei fondi per il San Carlo di Nancy-Villa stabilito dal tribunale fallimentare. Non è solo il vaticano però a piangere miseria, ma tutta la sanità privata. Pochi giorni fa, il presidente dell'Aiop (Associazione italiana ospedalità privata), Gabriele Pellissiero, ha lanciato l'allarme sullo stato di salute del comparto su cui si abbatterà, per il triennio 2012-2014 un taglio di circa 12 milioni di euro, sui 14 complessivi previsti dalla spending review.

il Fatto 9.12.12
I “cattolicisti”: quando la fede serve al potere
di Furio Colombo


Discorso storico del cardinale di Milano su un evento che sconvolge il mondo. Il Prelato annuncia che lo Stato minaccia Dio. Quale Stato? Ma qualunque Stato laico, inclusi gli Stati Uniti di Obama. Non una parola sugli Stati in cui vige la Sharia, ovvero una religione, quella islamica, come legge civile e penale. Non una parola sulla bambina Malala, che è stata quasi uccisa in Pakistan (Paese che ha molti problemi ma che trabocca di Dio, nel senso di Scola) per avere sostenuto il diritto delle bambine ad andare a scuola, diritto negato – secondo gli Scola locali – dal Dio di quel Paese. Noto che il cardinale di Milano dichiara subito che “la laicità dello Stato minaccia la libertà religiosa”. Usa la stessa parola (inspiegabile, dal punto di vista logico) che i cattolici estremisti usano per condannare le coppie di fatto, come se fossero un pericolo per le altre famiglie. Mi riferisco a un “discorso alla città di Milano” nella ricorrenza dell'Editto di Costantino (312 d. C.) interpretato come l'inizio della libertà del culto cristiano (che invece apre il percorso ad altri editti che porteranno al più violento e rigido divieto di ogni altra pratica religiosa che non sia il cristianesimo.
USERÒ, come interprete delle parole di Scola, il teologo Vito Mancuso: “Per Scola occorre ripensare una visione culturalmente in grado di sostenere i cosiddetti valori non negoziabili cari a Benedetto XVI, cioè vita, scuola, famiglia, da intendersi alla maniera del magistero cattolico attuale, che non è detto che coincida con il vero senso del cristianesimo” (Repubblica, 7 dicembre 2012). L'ultima frase di questa citazione di Mancuso è confermata e illustrata da un libro di Carlo Casini (Movimento per la vita) dal curioso titolo Non li dimentichiamo. Viaggio fra i bambini non nati. “Non è un libro di fantascienza o un thriller alla Stephen King. ma un testo di presunta ortodossia cattolica. Interessante, infatti, notare che l'autore del libro cerca prove e sostegni per l’“identità giuridica” di embrioni e feti non dalla teologia cristiana (non ne troverebbe) ma in una personale interpretazione della Convenzione Onu sui diritti dell'Infanzia. Ecco il marchingegno La Carta, ovviamente protegge non solo i bambini nati ma anche le mamme incinte. Carlo Casini pensa che ciò significhi che l'Onu funziona e agisce nel vasto territorio non solo dei non ancora nati, ma dei mai nati e dell'universo non identificabile degli embrioni. Ed esclude del tutto dalla sua interpretazione della Carta dell'Onu ogni protezione del diritto delle donne alla tutela del proprio corpo e delle possibilità di sopravvivenza.
COME SI VEDE, il cardinale Scola, nella solenne occasione del discorso di Milano, si muove con le stesse parole e allo stesso livello del libro inventato alla svelta per l'occasione dal Movimento per la vita, ovvero fuori dalla storia, fuori dalle leggi dei Paesi democratici e fuori dalla Costituzione Italiana. Vito Mancuso ci dice che tutto ciò avviene anche fuori “dal vero senso del cristianesimo”. Credere o non credere è la grande scelta privata e individuale. Ma resta lo stupore e l'imbarazzo per ciò che Scola ha detto come capo della Chiesa di Milano. Ha detto che “lo scontro non è tra fede e istituzioni civili. Le divisioni più profonde sono quelle fra cultura secolarista e fenomeno religioso e non, come spesso erroneamente si pensa, tra credenti di fedi diverse. “Infatti – aggiunge – sotto una parvenza di neutralità e oggettività delle leggi, si cela e si diffonde una cultura priva di apertura al trascendente”. La frase è arrischiata, perché il solo sistema giuridico fondato sulla trascendenza – nel senso detto e pensato dal Vescovo di Milano – è la legge detta Sharia, un’ortodossia cieca che si avvinghia alla politica, intende dominarla, e tormenta alcuni Paesi islamici bloccando ogni passaggio ai diritti umani e civili.
In che modo l'apertura obbligatoria alla trascendenza, invocata dal Cardinale Scola per le istituzioni pubbliche italiane, sarebbe diversa dalla imposizione paleo-islamica contro cui tante donne e uomini di molti Paesi islamici si battono? Coloro che si oppongono, nella vita e nella cultura italiana, al fondamentalismo ormai ufficiale della Chiesa romana, sono definiti, come è noto, “laicisti”. La parola descrive in modo sprezzante una categoria culturale e politica inferiore (“laici” sono coloro che accettano gentilmente che il cadavere di Welby venga lasciato fuori dalle porte chiuse di una chiesa e privato del funerale della sua fede) a cui non si deve prestare alcuna attenzione.
SI USI ALLORA, per chiarezza nei confronti dei credenti, la parola “cattolicista” per definire tutti coloro, cardinali e no, che usano la religione e la fede come strumento per governare. È storia italiana da decenni. Dovunque si veda o si creda di vedere una promessa di protezione della gerarchia ecclesiastica per un partito o per un potere, subito si raccoglie una folla di cattolicisti, travestiti da fervidi credenti e impegnati a cercare e affermare le loro radici cristiane mentre lasciano morire a migliaia gli immigrati in mare. Ecco dunque il vero punto di scontro evocato dal Cardinale Scola. Il Vescovo di Milano include tra i veri nemici della trascendenza il presidente americano Obama che vuole estendere il diritto alle cure mediche gratuite anche alle donne in caso di aborto. Alcuni giorni fa un padre gesuita che stava ascoltando questi miei argomenti in un incontro pubblico, mi ha dato la frase giusta per concludere: “Ricordi, però, che la Chiesa non sono soltanto i cardinali”.

Repubblica 9.12.12
Dallo Ior a casa Orlandi la mappa dei misteri
di Corrado Augias


Questa bella guida alla città del Vaticano in quanto guida potrà servire da bussola per chiunque voglia conoscere, almeno sulla carta, i cento luoghi che compongono questo Stato minuscolo con la più alta concentrazione al mondo di opere d´arte. Ma sarebbe bello se ci permettesse di conoscere anche non solo le bellezze, ma i luoghi che hanno fatto la fama del Vaticano come uno Stato pieno di segreti. Non sarà facile. Tra i luoghi elencati ce ne sono di facilmente accessibili, altri per i quali è necessaria un’autorizzazione, altri ancora che restano inaccessibili.
In questi ultimi si sono spesso svolti eventi che hanno riempito le cronache mondiali, lì sarebbe interessante fare liberamente una passeggiata. Cominciando per esempio dall’arcigno torrione che ospita lo Ior, la banca del Vaticano. In quale sala saranno stati depositati i cct della maxitangente Enimont? Com’era arredato l’ufficio del celeberrimo monsignor Marcinkus? Poco più in là ecco la casa dove abitava una ragazzina famosa suo malgrado, Emanuela Orlandi. Suo nonno faceva il cocchiere papale: ci saranno ancora le rimesse per le carrozze? E in quel pomeriggio fatale quale strada avrà preso per andare incontro alla morte? Ecco poi l´alloggio del comandante delle Guardie svizzere. La sera del 4 maggio 1998 il colonnello Estermann, sua moglie Gladys e il vice caporale Cedric Tornay vennero trovati uccisi a colpi d´arma da fuoco: una visita all´appartamento e al pianerottolo potrebbe forse aiutare a capire quanto meno la dinamica dei fatti, cosa che un´approssimativa indagine interna non ha mai fatto. La stessa aula del tribunale dove si è celebrato di recente un processo approssimativo nei confronti del maggiordomo Paolo Gabriele sarebbe del più grande interesse. Poche udienze frettolose, divieto di parlare con la stampa. Solo nell´Urss di buona (anzi: cattiva) memoria si celebravano processi così.
Del resto nella stessa basilica di san Pietro si possono volendo trovare itinerari inconsueti. Per indicarne solo uno: la basilica ospita tomba e mausoleo di una donna, una delle poche presenti all´interno di quel maestoso edificio. Il mausoleo è opera di Carlo Fontana; sotto, nelle cripte, la sepoltura si viene a trovare accanto a quella di Giovanni Paolo II. Si tratta di Cristina di Svezia, omosessuale notoria. Quali segrete ragioni ne avranno portato le spoglie fino a san Pietro?

Il Fatto 9.12.12
Due pagine da il “Misfatto de Il Fatto" di oggi di satira contro il Vaticano

qui

La Stampa 9.12.12
Il rientro dall’esilio dopo 45 anni: folla immensa per il suo primo discorso
Meshaal: non cederemo mai a Israele
Il leader di Hamas infiamma Gaza. E punta all’unità con l’Olp
di Paola Caridi


Khaled Meshaal ha avuto il suo bagno di folla, ieri, a venticinque anni di distanza dalla prima Intifada e dalla nascita formale di Hamas. Un bagno di folla nel centro di Gaza, di fronte a centinaia di migliaia di militanti. La prima volta dopo 45anni di esilio, che ha usato per lanciare sfide e messaggi politici.
Anzitutto la sfida a Israele, pronunciata dalla Striscia a poche settimane di distanza dall’accordo di tregua che ha posto fine all’ultima breve e sanguinosa guerra di Gaza. «La Palestina è nostra dal mare (Mediterraneo) al fiume (Giordano), e dal Sud al Nord. Non ci sarà nessuna concessione, neanche su un centimetro quadrato della terra», ha detto Meshaal dal palco tirato su a piazza al Qatiba, la piazza delle grandi dimostrazioni. «Non riconosceremo mai la legittimità dell’occupazione israeliana», ha detto il capo dell’ufficio politico di Hamas, giunto a Gaza per una visita di due giorni, assieme al numero due, e vero stratega del movimento islamista palestinese, Moussa AbuMarzouq. Visita concordata con gli egiziani, che hanno concesso loro l’ingresso dal valico di Rafah. Il discorso di Meshaal è stato tutto concentrato sulla muqawwama, la «resistenza» in arabo, una parola parte costitutiva dello stesso acronimo, Hamas, che - appunto - significa Movimento di resistenza islamica.
Alle sue spalle, la scenografia del palco ha messo insieme l’intera retorica di Hamas: il fondatore, lo sceicco Ahmed Yassin, che un quarto di secolo fa, nella sua casa in un quartiere di Gaza City, decise di far nascere il braccio politico e armato dei Fratelli Musulmani palestinesi. Proprio all’indomani dello scoppio della prima Intifada, l’8 dicembre del 1987. E dall’altro capo Ahmed Jabari, capo dell’ala militare, ucciso dagli israeliani in un omicidio mirato che ha dato il via alla guerra di Gaza, lo scorso 14 novembre. In mezzo all’enorme striscione, la moschea di Al Aqsa, e il modello a grandezza naturale di un Qassam M75, il missile lanciato in direzione di Gerusalemme durante l’ultima fiammata tra Israele e Hamas. Ce n’è abbastanza per scatenare la reazione di Israele, che non avrebbe voluto la visita di Meshaal. Per l’Egitto però, la presenza di Meshaal e di Abu Marzouq nella Striscia è anche il tentativo di ricomporre gli attriti tra l’ala interna di Hamas e la diaspora. E siccome le immagini hanno il loro peso, Meshaal e il premier di Hamas a Gaza, Ismail Haniyeh, si sono fatti vedere sempre insieme, sin dall’inizio della visita.
Compressa sul piano interno dal durissimo confronto con l’opposizione, la presidenza egiziana di Morsi continua a fare politica estera, premendo sugli israeliani per far entrare Meshaal a Gaza. E Meshaal ha parlato anche della riconciliazione con Fatah. Indicando la direzione verso la quale intende muovere Hamas, e la politica palestinese. Tutti uniti, ma dentro l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, di cui Hamas non fa parte ma in cui vorrebbe entrare. Abbiamo «una sola autorità e un punto di riferimento», ha detto. «Ed è l’Olp».

La Stampa 9.12.12
Amos Gitai
“Solo l’ottimismo può cambiare il Medio Oriente”


Il regista sessntaduenne Amos Gitai si trova da alcune settimane a Haifa, in Israele. Il Paese è calmo, come accade prima di un conflitto.
Perché ci sarà un conflitto?
«Netanyahu fa continue provocazioni, ci deve essere un limite a tutto questo. Non vuole più dare denari ai palestinesi e se davvero non gliene darà avranno difficoltà addirittura a pagare i loro funzionari. Quindi ci sarà ancora più miseria di adesso».
Personalmente mi domando cosa voglia davvero.
«Adesso non so davvero cosa voglia, si mette non soltanto in conflitto con tutti i Paesi arabi e con i palestinesi, ma anche con i Paesi che lo appoggiano. Io credo che lo faccia per avere i voti dell’estrema destra nelle prossime elezioni, ma questa politica mi pare assolutamente irresponsabile».
Secondo lei sarà rieletto?
«Se la sinistra continua a lacerarsi senza riuscire a compattarsi e non si mette d’accordo, Netanyahu finirà con essere rieletto».
E ciò sarebbe un disastro per Israele?
«Non mi piace la parola disastro, ma di sicuro potrebbe essere un gioco pericoloso».
Lei cosa crede possa succedere?
«Basta pensare che il 29 novembre 1947 Israele ha ricevuto all’Onu due terzi dei voti delle varie nazioni del mondo, e quindi esiste anche per la buona volontà della comunità internazionale e non soltanto per il suo potere militare. C’è stata una buona volontà da parte dei Paesi che erano al corrente delle sofferenze che gli israeliani avevano patito durante la guerra».
Ma perché Netanyahu è così indignato per la questione del riconoscimento della Palestina come Stato?
«C’è confusione tra quello che è il rapporto tra Israele e il mondo arabo e il rapporto con i palestinesi; per di più la maggior parte dei Paesi sono preoccupati dei rapporti tra Israele e Palestina. Dobbiamo assolutamente trovare un modo di coabitare e questo è un problema centrale per Israele. Ma Netanyahu viene da una scuola e da un modo di pensare molto ideologici. In realtà oggi si tratta più che mai di un problema etico e di una necessità politica, bisogna trovare una soluzione. I moderati hanno sempre avuto poco successo, hanno governato poco, sono 35 anni dalla fine della guerra del Kippur che il Partito laburista ha perso via via sempre più potere».
E Likud?
«Controlla in realtà il Paese».
Ma secondo lei, dove vuole andare Netanyahu?
«Lui non può forzare le cose. La missione di altri territori del West Bank e le costruzioni bloccano ogni speranza. Eppure Netanyahu ripete parole e frasi senza significato, perché in realtà non vuole l’esistenza dei due Stati».
Ritiene che in questi giorni gli americani finiranno per intervenire in Siria?
«Non lo so. Ma tutto il Medio Oriente è in una situazione molto difficile, a differenza dell’Europa che ormai ha stabilizzato i propri confini. In Medio Oriente adesso c’è davvero un grande tramestio. In ogni caso, ora bisogna smetterla con gli atti provocatori, a questo punto la ricetta migliore è quella che prevede di restare calmi».
Per quanto riguarda l’Egitto?
«Credo che in questo preciso momento storico ci siano molti poteri che stanno delirando. C’è chi sogna lo stato faraonico, chi l’impero ottomano, chi il grande Israele. Ma non ci si rende conto che se si fa così si finirà con una guerra».
Come è adesso la situazione di Gaza?
«Bisogna innanzitutto riconciliare il conflitto e non mettere olio sul fuoco».
Lei dove si trova in questo momento?
«Sono ad Haifa, dove sto preparando il mio prossimo film che vorrei girare a febbraio a Gerusalemme».
E di che film si tratta?
«Si intitolerà “La valle”. Farò lavorare attori palestinesi e israeliani e sarà ambientato nel bel mezzo di questo conflitto».
Qual è il tema del film?
«È sull’amore impossibile e la coesistenza durante il conflitto. Ma l’arte, sia ben chiaro, è uno degli ultimi fronti di resistenza e non bisogna tradire questo ruolo. Abbiamo visto abbastanza guerre in Medio Oriente, facciamo qualcos’altro! ».
Che cosa dicono gli israeliani?
«Sono calmi, ma è solo apparenza, in realtà sono confusi e se si guardano i sondaggi ci si accorge che cambiano idea ogni giorno. La conclusione è terreno purtroppo molto fertile per la xenofobia e per la perdita di identità. In ogni caso credo che ci si debba professare ottimisti, e per questo rimango in Israele e mi rifiuto di essere pessimista, perché è meglio cercare di cambiare qualcosa invece di diventare nichilisti».

Corriere 9.12.12
Una norma voluta da Lukashenko ripristina la servitù della gleba
di Fabrizio Dragosei


Chissà, forse Aleksandr Lukashenko si è ispirato al protagonista di Anime Morte di Gogol, quel Pavel Chichikov che voleva avere il maggior numero possibile di servi della gleba (vivi o morti), segno di potere e di ricchezza. La notizia è che il leader bielorusso, ormai etichettato come l'ultimo dittatore d'Europa, ha firmato un decreto per legare i lavoratori del settore del legno e alcuni di quelli dell'edilizia alle loro aziende. Non possono licenziarsi, non possono abbandonare il lavoro e quindi il luogo dove risiedono. Se fuggono e vengono ripresi? La risposta l'ha data lo stesso batka (babbo, come ama farsi chiamare) visitando una di queste fabbriche: «sarete condannati al lavoro obbligatorio e rimandati alla fabbrica».
Con il Paese in una situazione economica disastrosa (il debito estero ha raggiunto i 26 miliardi di euro), Lukashenko non vuole che i bielorussi vadano a cercare impieghi più remunerativi in Russia. Per ora si devono accontentare dell'equivalente di 150 euro al mese, in attesa di mirabolanti aumenti promessi per il futuro. Ma visto che è in rotta con l'Europa dove potrebbe esportare e anche con la Russia da dove compra il gas, non si sa come batka potrà trovare i quattrini necessari.
I suoi critici hanno subito detto che nel Paese di nove milioni di abitanti è stata reintrodotta la servitù della gleba, quella che lo scrittore Ivan Turgenev definiva «il mio nemico». Ma non è così, perché la servitù, abolita nell'impero russo (e quindi anche in Bielorussia) a partire dal 1861, era ben altra cosa. I servi che fuggivano a volte venivano frustati fino alla morte, quando i loro padroni erano i grandi latifondisti proprietari di decine di migliaia di anime. Chi boicottava la produzione agricola o faceva il lavativo, veniva comunque punito assai duramente.
A Minsk oggi chi scappa è solo costretto a tornare in fabbrica e coloro che boicottano l'azienda di Stato perdono semplicemente lo stipendio. Inoltre i datori di lavoro non possono vendere i dipendenti e nemmeno ipotecarli per ottenere finanziamenti dalle banche. Che era proprio quello che voleva fare il buon Chichikov acquistando le anime morte, vale a dire i servi defunti ma ancora non cancellati dai registri.

Repubblica 9.12.12
Pubblicità con le carceri cinesi, bufera sulla Bosch
Le organizzazioni per i diritti umani insorgono contro il colosso tedesco della tecnologia
di Andrea Tarquini


berlino - Volete sistemi di sicurezza antifurto o antifuga perfetti? Comprateli da noi di Bosch, noi simbolo dell´eccellenza tecnologica made in Germany. Se non ci credete guardate questi nostri spot pubblicitari, ecco cosa siamo riusciti a realizzare in Cina. L´annuncio di consigli per gli acquisti sembra normale, indolore. Ma le immagini no. Ecco la grata di ingresso di un centro di detenzione cinese, uno dei tanti dell´arcipelago Laogai, cioè l´arcipelago Gulag della futura prima potenza mondiale, l´arcipelago in cui vive anche il Nobel per la pace Liu Xiaobo. La foto dello spot mostra due agenti speciali del Guabuo, il Kgb cinese, che portano all´ingresso un detenuto ammanettato dietro le spalle e avvolto nel pigiama di detenzione arancione stile Guantanamo. La Süddeutsche lo ha denunciato, scatenando in tutto il mondo le proteste delle organizzazioni dei diritti umani.
Il Ministero per la sicurezza cinese ha organizzato a Pechino la grande fiera mondiale dei sistemi di sicurezza, Security China 2012. Per spingere economia, investimenti, posti di lavoro, certo.
Ma soprattutto per dimostrare che «miglioriamo la sicurezza nella Repubblica popolare, a ogni livello». Ecco, diffusi online in Cina, cinque spot pubblicitari. Immagini reali, o simulazioni da war game. I buoni sono sempre gli agenti del Guabuo e i cattivi i detenuti, quindi anche possibili oppositori. Sistemi di sorveglianza elettronici perfetti, quelli che noi produciamo, con noi nessuno può scappare, dicono gli spot. Mostrano i sensori in ogni punto di prigioni come quella in cui è rinchiuso Liu Xiaobo, o i reticolati. I sottotitoli consigliano: se un detenuto ha l´ora di colloquio con parenti o amici, «controllate bene con i nostri sistemi quanto a lungo parlano, cosa si dicono, che non abusino di quel tempo».
Le organizzazioni internazionali per i diritti umani sono indignate, protestano a livello globale. Dice Wolfgang Büttner di Human Rights Watch alla Süddeutsche: «Vendere sistemi di sorveglianza per centri di detenzione a stati dove vengono violati gli standard dello Stato di diritto e le persone sono detenute arbitrariamente vuol dire che le imprese che lo fanno violano i doveri di verifica». Aggiunge Kai Mueller della International campaign for Tibet: «La Cina è uno Stato autoritario, viola sistematicamente i diritti umani, è vergognoso che Bosch realizzi profitti con la repressione cinese, magari specie in Tibet o contro i dissidenti più coraggiosi, Bosch dovrebbe chiudere gli affari in Cina se avesse una coscienza», aggiunge. Ma via, in nome del primato dell´export e del rating del made in Germany che cosa contano simili considerazioni etiche? La risposta della Bosch lo chiarisce: «Non abbiamo violato le regole per le vendite all´estero», dice un portavoce, e aggiunge che l´azienda ha contribuito in modo positivo allo sviluppo dell´economia e della società cinesi. Infine, si giustifica la Bosch, i materiali non sono stati venduti direttamente alle carceri o alle autorità, ma agli imprenditori cinesi del settore elettronico.

Corriere 9.12.12
Arfè, la fede «una e trina» in una certa idea di sinistra
di Arturo Colombo


Dobbiamo essere grati ad Andrea Becherucci per il volume Giustizia e libertà restano gli imperativi etici (sottotitolo: Per una bibliografia degli scritti di Gaetano Arfè, Biblion, pp. 261,€ 18). Opera meritoria, che non solo ci restituisce la figura di Arfè, ma ci aiuta a capire chi è stata questa personalità definibile «una e trina», appena si considera che ha saputo essere giornalista (per un decennio direttore dell'«Avanti !»), docente universitario (in vari atenei, compresa la Facoltà di Scienze Politiche «Cesare Alfieri» di Firenze) e parlamentare (senatore a Palazzo Madama, e deputato europeo), sempre con la capacità di considerare queste tre attività distinte ma complementari.
Del resto, a scorrere le 1.384 voci che compongono la bibliografia dei suoi scritti, non è difficile ricostruire il profilo di Arfè e coglierne certe costanti, che aiutano a restituirci la sua presenza privata e pubblica per oltre mezzo secolo, non solo sulla scena italiana. C'è infatti un leitmotiv ribadito al numero 867 di questo volume, là dove Arfè confessa che fin da ragazzo «il socialismo divenne la mia regola di vita». E più tardi non esita ad aggiungere: «Il grande filone del socialismo italiano, che si diparte da Turati, che continua con Matteotti, che ingloba Rosselli, che alla mia generazione ha dato Nenni, è sopravvissuto alle aggressioni dello stalinismo, sopravvivrà al piccone e alle ruspe del neoriformismo, si pone ancora come componente viva e vitale di un processo di riorganizzazione unitaria della sinistra italiana» (ora in Scritti di politica e storia, a cura di Giuseppe Aragno, Città del Sole, 103-104).
Sono parole chiarissime; eppure come studioso Arfè ha saputo sfuggire il rischio di «politicizzare» il lavoro di storico, anche in virtù dell'influenza di «diretti maestri» — l'immagine è sua — come Croce, Salvemini e Chabod, oltre a Piero Calamandrei e Don Lorenzo Milani. Ma c'è un ulteriore elemento importante, che lo stesso Arfè più volte ha chiarito così: «Ho imparato il rispetto del documento in quindici anni passati negli archivi, dove vige ancora una tradizione di serietà, finora mai smentita».
È superfluo ricordare le sue opere più note: per esempio, la Storia dell' Avanti ! (1956), la Storia del Socialismo italiano. 1892-1926 (1965) o la raccolta I socialisti del mio secolo (2002, a cura di Donatella Cherubini).
Vale piuttosto tener presente questa sua testimonianza-confessione: «Ho sempre cercato, nelle pagine che ho scritte, di ricostruire l'ethos politico degli attori e protagonisti, attenendomi scrupolosamente alle regole del mestiere, evitando ogni forma di faziosità e anche di tendenziosità, cercando ogni volta di mettere in luce, di capire e far capire i moventi delle loro azioni». Ecco il valore dell'impegno di Arfè per una storia etico-politica, nella convinzione che «ogni giudizio storico è oggetto di revisione permanente». Non so di quanti altri si possa dire lo stesso.

La Stampa 9.12.12
A Sant’Anna di Stazzema i tedeschi che non dimenticano
“I nazisti fecero un eccidio, ma in Germania si preferisce il silenzio”
L’indignazione: «A Stoccarda sono stati archiviati i crimini di guerra»
di Niccolò Zancan


Il ricordo ieri verso il tramonto una giovane tedesca ha eseguito un lamento per voce e violino dove i bambini di Sant’Anna di Stazzema facevano il girotondo Poi la voce si inceppa. Occhi liquidi, labbra che tremano. Leibbrand Gunther, 63 anni, cappellano ospedaliero a Stoccarda, sta spiegando i suoi motivi: «A otto anni mia madre mi disse quello che aveva saputo da nostro cugino in guerra. Nella sua divisione, le SS giocavano a calcio con la testa di un ebreo».
Il signor Gunther si sfrega gli occhi con le mani enormi, cerca di riemergere dall’incubo, ma ci vuole tempo. Insieme ad altri 41 cittadini tedeschi, adesso è davanti al monumento ai caduti di Sant’Anna di Stazzema, 560 vittime innocenti, trucidate dai nazisti, la mattina del 12 agosto 1944. Hanno riempito un pullman, viaggiato 12 ore. «Vogliamo esprimere la nostra indignazione - dice Gunther - non siamo d’accordo con la decisione della procura di Stoccarda. Non si possono archiviare i crimini di guerra. Non dobbiamo dimenticare la nostra storia. Purtroppo in Germania molti preferiscono il silenzio... ».
Giornata speciale, qui a seicento metri sul livello del mare, all’orizzonte Marina di Pietra Santa. Ad abbracciare il signor Ghunter c’è Enrico Pieri, 78 anni, sopravvissuto all’eccidio. «Mi salvai buttandomi in un campo di fagioli, mentre intorno bruciava tutto. I nazisti usarono i banchi della chiesa per rendere più efficace il lavoro del lanciafiamme».
Oggi i tedeschi hanno zaini colorati e un’offerta da consegnare. Alcune spille gialle dell’associazione «Die AnStifter», che a Stoccarda sta lottando contro la costruzione della nuova stazione ferroviaria. «Siamo ambientalisti e pacifisti - spiega l’organizzatrice Julia von Staden - ma soprattutto siamo persone che ritengono vergognosa la decisione della procura di Stoccarda. Per questi stessi fatti, il Tribunale Militare italiano ha condannato 10 soldati tedeschi all’ergastolo».
L’unica giovane della delegazione è Leonie Pokutta, studentessa di 24 anni. Sta girando un documentario. Arrivano all’una, entrano nella sala del museo storico della Resistenza. «Questa era la mia scuola elementare - racconta Enrico Pieri - il paese era ritenuto sicuro. Zona bianca. Lontana dalla guerra. Adatta ad accogliere gli sfollati». La premessa è necessaria per capire l’orrore. Lo rievoca Enio Mancini, 75 anni, un altro scampato: «Iniziarono il massacro in frazione Vaccareccia. Poi altre 132 persone, di cui almeno 30 bambini, vennero radunati qui davanti. I nazisti, dopo la fucilazione, distrussero l’organo della chiesa e buttarono le bombe. Poi uccisero le sorelline di Siria Pardini e spararono nei sentieri come a una battuta di caccia. Trucidarono i mugnai, anche i ragazzi rifugiati al mulino. Elio Toaff, poi rabbino di Roma, era un bambino come me. Rimase sconvolto dall’immagine di una donna seduta immobile sull’uscio di una casa aperta. Era meravigliato nel vederla così tranquilla. Scoprì che i nazisti le avevano fatto un cesareo, a modo loro. Avevano sparato anche al feto, ucciso ancora prima di venire al mondo...».
La signora Singlinde Adam de Rivandeira, economista in pensione, prende appunti in italiano. Sul blocco ha scritto: «Massacro». Ma poi si ferma. Non scrive più. La sua amica Erika Hauff Cramer, dice: «Senza storia, non può esserci futuro per i nostri ragazzi. Ma i tedeschi rimuovono». Marine Winneman, sociologa all’università di Bochum: «Stanno tornando gruppi di estrema destra. Il pericolo è enorme... ». Lei ha deciso di affrontarlo facendo avanti e indietro da Stoccarda: «Ad agosto ho portato qui 25 studenti. Devono sapere». Devono sapere che Enrico Pieri si è salvato perché, portando spesso il gregge al pascolo, conosceva come nessuno le colline. Devono sapere che Enio Mancini deve la sua esistenza a un giovane soldato nazista, che sparò in aria e gli urlo di scappare: «E’ tutta la vita che lo sto cercando per r i n g r a z i a r l o ». Quasi al tramonto, una ragazza tedesca intona un lamento per violino e voce dove i bambini di Sant’Anna facevano il girotondo. Enio abbraccia Ghunter. Ancora una volta. Quasi si scusa per tutto il dolore evocato: «Grazie per questo viaggio, vi voglio bene. Amo la vita. Ho fatto l’emigrante, mia figlia ha studiato il tedesco, vorrei un’Europa forte, vera, unita. Tutti insieme. In pace. Ecco il mio sogno».

Corriere 9.12.12
Quei libri coperti dal cellophane. Piove nella Biblioteca di Firenze
Pochi fondi e troppe sedi, così il patrimonio va in rovina
di Gian Antonio Stella


Ricordate l'«accordo epocale» con Google per digitalizzare un milione di libri delle biblioteche italiane? Tre anni dopo (quasi il tempo impiegato dai cinesi per un ponte di 36 chilometri nel mare di Shanghai) non ne hanno trattato manco uno: il primo sarà consegnato allo scanner domani mattina. Evviva. E intanto alla Biblioteca nazionale centrale di Firenze, nella sala di lettura, le librerie sono coperte dal cellophane: quando piove, piove dentro. Un'immagine che da sola illustra lo stato spesso penoso delle biblioteche italiane.
Gli amici dell'«Associazione lettori» ci ridono sopra con amarezza. E accompagnano le fotografie inviate al Corriere di quelle librerie al primo piano protette con teli di plastica per mettere i libri al riparo se diluvia, cosa accaduta per settimane da novembre in qua, con una didascalia ironica. Che fa il verso alla canzone Singin' in the rain che Gene Kelly cantava allegro giocando con l'ombrello sotto la grondaia: «Studying in the rain». Studiando sotto la pioggia.
Certo, le condizioni rispetto all'anno scorso, quando l'Associazione lettori si spinse a chiedere l'intervento dell'Asl perché nelle sale di lettura il riscaldamento non funzionava e «certi giorni faceva troppo freddo per studiare anche col cappotto», spiega la ricercatrice Eliana Carrara, è migliorata. Ma è fuori discussione che, al di là della dedizione e degli sforzi per fare le nozze coi fichi secchi da parte di tante persone di buona volontà, dalla direttrice Maria Letizia Sebastiani all'ultimo dei bibliotecari, la più grande biblioteca italiana (sei milioni di volumi, quasi tre di opuscoli, 25 mila manoscritti, 4 mila incunaboli, 120 chilometri lineari di scaffalature…) non è trattata da anni come dovrebbe essere trattato un grande tesoro culturale.
E se questo vale per la biblioteca fiorentina, vale a maggior ragione per tutte le altre sparse per la penisola. Al punto che qualche settimana fa fu organizzata a Napoli e in tutta Italia la giornata del «BiblioPride». L'orgoglio bibliotecario. Certo, le nostre biblioteche soffrono di una debolezza storica: sono troppe. Lo diceva già nel lontano 1867 l'allora prefetto, cioè direttore, della grande istituzione fiorentina Desiderio Chilovi: «Le "nazionali" italiane sono per numero sovrabbondanti; giacché lo Stato non è in grado di sopportarne la spesa occorrente». Da allora hanno continuato a crescere e oggi non solo siamo gli unici, accusa l'Associazione italiana biblioteche, ad aver due grandi biblioteche centrali, a Firenze e a Roma, ma ne abbiamo ben 46 statali. «Nessuno Stato al mondo» sbuffava già nel 1972 l'allora direttore della «Nazionale» fiorentina Emanuele Casamassima «gestisce direttamente tante biblioteche».
Risultato: è impossibile concentrare gli sforzi su poche eccellenze, come fanno in Francia, in America o in Gran Bretagna. E tutto finisce per disperdersi in un'infinità di rivoli. Con conseguenze pesantissime. Tre soli esempi? La chiusura della biblioteca di Pisa dal 29 maggio perché dopo sei mesi non c'è ancora una perizia sui danni subiti a causa della scossa di terremoto in Emilia. Lo sciopero alla Biblioteca «Alberto Bombace» di Palermo, forse la più importante della Sicilia, perché il taglio dei fondi ha costretto a ridurre da sei a due le «spolverature» annuali col risultato che i libri sono coperti dalla polvere. La decisione di alcuni docenti della «Sapienza», guidati dall'antropologa Laura Faranda, di fare loro i «commessi di sala» per riaprire le biblioteche dell'università chiuse a metà ottobre «per mancanza di personale e il definitivo taglio alle borse di studio degli studenti che, negli ultimi anni, hanno garantito il servizio di sala, la distribuzione dei libri e i controlli». Ma sono un po' tutte le 12.375 biblioteche censite dal ministero a versare in condizioni difficili. Non solo economiche ma spesso strutturali.
Investito dalla protesta del «BiblioPride», il Consiglio superiore per i beni culturali ha varato un mese fa «un piano straordinario di interventi» per 6.602.820 euro. Il tutto, spiegava il comunicato, «risponde alla necessità sempre più pressante di tutela del patrimonio librario e prevede interventi di carattere strutturale e di sicurezza delle sedi». A partire dalla Biblioteca dei Girolamini (travolta dallo scandalo dei libri rubati dal direttore Massimo Marino de Caro) e dalla «Nazionale» di Firenze, che dovrebbe avere oltre 600 mila euro destinati in buona parte ai tetti e alle caldaie: «L'anno scorso gli impiegati lavoravano in giacca a vento — ricorda Natalia Piombino, portavoce dell'Associazione lettori —. Ma le difficoltà sono generali. Vent'anni fa c'erano 400 dipendenti e adesso credo siano 188, dei quali una trentina di lavoratori “svantaggiati” che non possono essere adibiti a certi ruoli. Per non dire di spese assurde come gli 80 mila euro l'anno che il Comune vuole di tassa sui rifiuti. Ha dovuto intervenire un mecenate privato per pagare gli 80 euro al mese per il servizio di trasporto delle riviste in abbonamento…». Alle altre 17 biblioteche elencate, dalla Marciana di Venezia alla Reale di Torino, dalla Braidense di Milano alla Alessandrina di Roma dovrebbero andare poco più che degli oboli.
Del resto la stessa Rossana Rummo, direttore generale del ministero per le biblioteche, ha riconosciuto che i tagli sono stati via via «spaventosi»: «Negli ultimi 7 anni, lo sviluppo dei servizi informatici è diminuito del 64% e del 93% per la catalogazione. Il budget, rispetto al 2005, è sceso del 63%». «Eppure quello dei soldi è solo uno dei problemi» denuncia il presidente dell'Aib Stefano Parisi «qualunque stanziamento straordinario, in una situazione sclerotizzata come questa, non risolverebbe granché. Va messo ordine. È assurdo che a Roma oltre alla "Nazionale", ci siano altre otto biblioteche statali. Come minimo vanno coordinate».
Come funzioni da noi rispetto all'estero lo spiega L'Italia che legge, di Giovanni Solimine: «Le due biblioteche nazionali vedono i loro bilanci ridursi al lumicino (un milione e mezzo quella di Roma e 2 milioni quella di Firenze), mentre quelli delle consorelle europee sono di tutt'altro ordine di grandezza: Parigi 254 milioni, Londra 160 milioni, Madrid 52 milioni». Quanto alla Bibliothèque Nationale parigina, «ha un numero di dipendenti più elevato di tutte le 46 biblioteche statali italiane messe insieme». Certo, da noi questi non sono direttamente pagati dalle biblioteche ma dai ministeri. Ma resta una sproporzione immensa.
Dice uno studio di Claudio Leombroni, responsabile Rete bibliotecaria della Romagna e di San Marino, che lo Stato dava nel 1892 alla Biblioteca nazionale di Roma, per comprare libri e riviste, l'equivalente attuale di 266.190 euro: oggi ne dà 120.000. E lo stesso, più o meno, vale per Firenze. Per non dire delle biblioteche «minori», ridotte più o meno alla fame. Bene: nonostante la crisi morda anche a Londra, la British Library nel 2011 ha contato per la stessa voce, dice il bilancio a pagina 45, su un budget di 16,5 milioni di sterline. La Bibliothèque Nationale, stando ancora ai dati forniti dall'Associazione italiana biblioteche, su 19,6 milioni di euro.
Un abisso. Del resto, il nostro sistema è così farraginoso, ormai, che fatichiamo a sfruttare anche le occasioni. Come, appunto, l'accordo con Google. Il motore di ricerca americano aveva stretto ai primi di marzo 2009, dopo nove mesi di trattative, un'intesa con l'allora ministro Sandro Bondi per digitalizzare un milione di libri antichi e non più coperti dal copyright contenuti nelle biblioteche italiane. Noi avremmo dovuto mettere solo 2 milioni di euro, loro circa un centinaio per poi fornire i testi a disposizione degli utenti dell'intero pianeta. Bene: quando si è installata Rossana Rummo, a luglio, «era ancora tutto bloccato in Corte dei conti». Colpa di mille impicci burocratici. Lacci e lacciuoli. Risultato: il primo carrello di libri sarà consegnato al centro allestito appositamente a Roma da Google, solo domani mattina.

l’Unità 9.12.12
Le due facce di Chomsky
È davvero necessario, per chi oggi si interessa di linguaggio, mettere da parte le questioni che investono società e politica?
di Massimo Adinolfi


A fine ottobre è stato a Gaza. Per uno nato nel 1928, che l’altroieri ha compiuto 84 anni, i cinque giorni trascorsi nella Striscia non devono essere stati una passeggiata e d’altra parte a Gaza non si va per passeggiare.
Noam Chomsky, forse il più grande linguista del Novecento, è andato laggiù per ben altro: per elevare un durissimo atto d’accusa contro la politica del governo di Israele e denunciare la manipolazione delle informazioni sul conflitto israelo-palestinese da parte di media compiacenti.
Fa quel che può, Chomsky, senza risparmiarsi mai. Del resto di j’accuse, nel corso della sua vita di attivista radicale, di socialista libertario, il filosofo e linguista americano di origini ebraiche ne ha pronunciati molti. È sempre stato un feroce critico della politica estera «imperialista» degli Stati Uniti, dall’America Latina al Medio Oriente alla lotta al terrorismo, così come dei poteri reali che, nel campo dell’economia come dell’informazione, impongono di fatto intollerabili restrizioni all’esercizio della democrazia. Così quando, nell’autunno del 2011, prese vigore negli Stati Uniti il movimento Occupy Wall Street, Chomsky non esitò a riprenderne in pieno lo slogan: «Come sottolinea il movimento scrisse oggi ci ritroviamo con una plutocrazia che rappresenta l’1 per cento della popolazione e con un precariato che riempie il restante 99». Per questa situazione, non c’erano per lui che una parola e un sentimento. La parola è ingiustizia e il sentimento è quello dell’indignazione.
Già, ma sono sufficienti per una politica? Soltanto un anno fa, Chomsky scriveva che il movimento Occupy «non ha precedenti». Lo scriveva col tono entusiasta di chi voleva elogiare finalmente una nuova presa di coscienza: il fatto che dopo un anno di quel movimento si siano un po’ perse le tracce lascia pensare che forse, se avesse avuto radici più robuste, qualche precedente in più e un po’ di storia a cui collegarsi avrebbe prodotto conseguenze di maggior momento. In realtà, può darsi persino che Occupy abbia aiutato la rielezione di Obama: mutando l’agenda del Paese, mettendo al centro il tema della sproporzione nella distribuzione della ricchezza. Il guaio è che, se anche così fosse, Chomsky non ne potrebbe trarre particolare motivo di soddisfazione, visto che per lui Obama e Romney non erano che due volti della stessa medaglia.
Perciò di solito si fa così: si mette da parte il Chomsky politico, per poter meglio riconoscere i meriti intellettuali del filosofo e dello scienziato. Oppure si fa il contrario: si prende dai suoi contributi alla linguistica o alle scienze cognitive solo il prestigio di cui sono circondati per cercare di trasferirlo alle prese di posizioni politiche per le quali ci si infiamma. Un po’ come si fa quando si esibisce trionfanti il premio Nobel della fisica che, però, crede in Dio. Che ci può stare, ma non cambia né il corso della fisica né quello della fede.
Ora, non si tratta di nutrire ambizioni così smisurate. Ma forse si può dedicare qualche riflessione in più a questa drastica separazione degli ambiti, e chiedersi per esempio se sia davvero necessario, per chi oggi si interessa di linguaggio, mente, moduli cognitivi, schemi rappresentazionali e altre computazioni mettere da parte le questioni che investono la società, la storia e la politica, e se d’altra parte sia inevitabile, per chi invece di storia e politica vuole occuparsi, accantonare ogni questione legata all’evoluzione del cervello e alla natura umana, in cui secondo Chomsky sarebbe instanziata l’innata struttura sintattica che governa tutte le lingue parlate dalla specie umana.
Se dappertutto e quindi anche in politica spunta fuori oggi una questione antropologica, forse vuol dire che questi steccati stanno venendo meno. Chomsky ha sostenuto che la creatività è il tratto caratteristico del modo umano di usare il linguaggio: da un insieme di elementi finiti, quali sono gli elementi di una lingua, è possibile tirar fuori un numero infinito di combinazioni. Potremmo insomma non smetterla più di parlare, dicendo ogni volta cose nuove. Ma è davvero una proprietà soltanto biologica, la creatività, indipendente da condizioni storiche e sociali? Davvero storicità e politicità dell’esperienza non aggiungono né tolgono nulla di decisivo ad essa? Davvero l’intelligenza è una proprietà individuale, oppure finiamo col pensarla così perché confondiamo le condizioni in cui per lo più la studiamo (in laboratorio) per le condizioni naturali del suo esercizio (che invece investono una ineliminabile dimensione sociale)? Davvero, infine, la parola ci può essere solo tolta, e non anche data, dal fatto di vivere in società?
Chomsky, per conto suo, non ha comunque mai smesso, per fortuna, di parlare. Di coltivare passione politica e interesse filosofico, slancio morale e dedizione scientifica. Non ha dato però motivi e modi convincenti di tenere insieme quei due lati del suo impegno, e ha così lasciato aperto il compito di ricercare il punto della mediazione storico-reale in cui possono costruirsi più robustamente, l’uno con l’aiuto dell’altro.
Facendogli gli auguri di buon compleanno, lo psicologo e amico Gary Marcus ricordava sul New Yorker che Chomsky non è certo il tipo che non voglia aver l’ultima parola in ogni discussione. Pazienza: vorrà dire che non si smetterà di discutere con lui, con i suoi libri e le sue idee.

l’Unità 9.12.12
Cultura, una cura contro l’anoressia
Finanziamenti: la Germania è «obesa» l’Italia invece «muore di fame»
«Kulturinfarkt» nella versione italiana viene trasformato in un appello al liberismo
Ma il senso è ben altro, perché altra è la situazione tedesca dove l’offerta culturale è enorme
di Giordano Montecchi


QUALCHE ANNO FA. LA COMMISSIONE MINISTERIALE ERA RIUNITA PER FISSARE I CRITERI DI QUALITÀ NELL’ASSEGNAZIONE DEI CONTRIBUTI DEL FONDO UNICO PER LO SPETTACOLO AL SETTORE MUSICA. Un commissario suggerì: «Fra i criteri di qualità si potrebbe considerare il numero dei biglietti venduti». Al che un altro commissario, cioè il sottoscritto, sbottò: «Ma siamo pazzi?».
L’equazione sottesa al ragionamento del mio interlocutore mi suonava come una bestemmia: fare della cultura un prodotto tout court. L’audience, il successo di pubblico come metro della qualità e quindi del valore. Cioè, nel caso delle arti, misura della bellezza: più vende più è bello e più vale. Stop. Senza contare che per qualcuno, la cultura intesa come attività economica autosufficiente, che non deve gravare sulle spalle della collettività, è l’alibi per spacciare tagli indiscriminati come una politica di risanamento di un settore parassitario.
Quell’indignazione nasceva però da un pregiudizio altrettanto discutibile e momentaneamente zittito: dare per scontato che l’arte più «pura» e innovativa sia per sua natura incompatibile col mercato e che quindi debba essere sostenuta a prescindere. Ovvero che il successo sia un indice inversamente proporzionale al valore.
Il tema è un groviglio quasi inestricabile, pieno di trappole, terreno di scontro fra concezioni neo-liberiste e stataliste, post-moderne e post-adorniane, elitarie e popular: tutte inconciliabili fra loro e tutte corredate dai loro bravi pregiudizi «silenziati».
In questo groviglio entra con acume e coraggio un libro affascinante, da pochi giorni uscito in traduzione italiana: Kulturinfarkt (Marsilio). Scritto a più mani da Dieter Haselbach, Armin Klein, Pius Knüsel e Stephan Opitz, è un libro che molto ha fatto e farà discutere, prima di tutto in Germania dove è uscito la primavera scorsa, e adesso in Italia.
Ma ecco subito la prima trappola. Il titolo originale è Kulturinfarkt. Von allem zu viel und überall das Gleiche, cioè «L’infarto della cultura. Troppo di tutto e ovunque le stesse cose». In edizione italiana subisce una sorprendente metamorfosi: «Kulturinfarkt. Azzerare i fondi pubblici per far rinascere la cultura».
Perché questo titolo «adulterato»? È vero che in Italia dai cinema ai libri le traduzioni disinvolte sono come le zanzare d’estate. In effetti, nel paese dove un giorno sì e l’altro pure risuonano i lamenti di un settore ridotto alla canna del gas per penuria di risorse, denunciare che c’è troppa cultura in giro sembra l’uscita di un umorista poco originale.
Presentare in Italia questo volume come uno sfrenato appello neoliberista a brandire il machete, «ad “azzerare” i fondi pubblici per restituire al mercato la sua funzione regolatrice» è una semplificazione di stampo televisivo, che ignora l’analisi approfondita e impietosa condotta in queste pagine di una realtà, la Germania, che dista mille miglia dall’Italia. E che ne riduce la ricetta a uno slogan da bar, l’ideale per quei commentatori che l’hanno sbandierato come l’elogio del darwinismo economico applicato alla cultura, addirittura rimproverando gli autori di non essere sufficientemente radicali.
La tesi del libro è che in Germania la crescita incontrollata delle sovvenzioni pubbliche ha prodotto un surplus di offerta culturale (teatri, musei, ecc.) rispetto alla domanda. Questa eccedenza di offerta, unita alla politica del Kulturstaat che elegge la cultura «alta» a bene irrinunciabile, e al tempo stesso emargina la «non cultura», ha prodotto un’omologazione della vita culturale divenuta conservatrice e viziata, a causa degli automatismi del sostegno pubblico. Ora questo sistema «obeso» rischia l’infarto: l’utopia della «cultura per tutti» è fallita; spettacoli, eventi, sedi si moltiplicano, ma il pubblico – un 5-10% della popolazione formato da borghesia benestante e istruita – è sempre quello e continua a calare, innescando una spirale perversa.
Qual è dunque la ricetta di Kulturinfarkt? Senza dubbio è una ricetta di stampo liberista: meno Kulturstaat e più mercato; archiviare l’utopia dello Stato pedagogo, poiché nella società dei media il cittadino ormai si emancipa da sé, e gli orientamenti del pubblico meritano più considerazione. Le imprese culturali non devono più disporre dei fondi pubblici come fossero un’assicurazione contro gli insuccessi, devono raddoppiare le entrate proprie portandole a un 30% almeno del loro budget, ed esporsi alle conseguenze dei loro risultati economici. Quel che Haselbach e compagni ipotizzano non è la riduzione dei fondi pubblici per la cultura ma un loro diverso utilizzo, attraverso il drastico ridimensionamento dell’infrastruttura: metà teatri, e metà musei alla Germania basterebbero. Ciò consentirebbe di liberare risorse per cambiare decisamente politica: promuovere le diversità culturali tenute ai margini (nonostante le dichiarazioni di principio), favorire start-up, nuova creatività, produzione indipendente, dilettantismo, e anche quella cultura del digitale tuttora ignorata da una politica ancorata al rito della rappresentazione pubblica. Guardiamo all’America, dicono, dove sono i cittadini a sostenere la cultura.
Di Kulturinfarkt convince più l’analisi che la proposta, animata da una fiducia nella consapevolezza della cittadinanza, e in una capacità di adattamento delle istituzioni che, dall’osservatorio italiano, si fatica a condividere. Secondo gli autori l’opulenza impigrisce l’iniziativa, mentre la scarsità di fondi stimola la creatività imprenditoriale . Da noi i fondi sono scarsi, ma a intraprendenza siamo messi peggio, tranne qualche eccezione (la Scala e l’Auditorium di Roma in primis).
La spesa culturale pubblica della Germania è oggi di circa 10 miliardi annui. In Italia non si sa, non si può sapere per la totale assenza di un monitoraggio adeguato, ma dovremmo essere fra 5 e 6 miliardi. In Italia i prezzi dei teatri sono alti, in Germania sono molto bassi, anche perché i finanziamenti pubblici coprono in media l’85% dei budget, molto più che in Italia.
Un esempio. 2010: Nationaltheater di Mannheim: 350.000 biglietti venduti, oltre 1000 spettacoli di cui quasi 300 recite d’opera; budget: 51 milioni. Sempre 2010, ma a Roma, Teatro dell’Opera: 120.00 biglietti, 161 spettacoli di cui 73 recite operistiche. Budget: 57 milioni. In una città tedesca di 300.000 abitanti il teatro locale offre un’infornata impressionante di spettacoli e ha il triplo di pubblico rispetto a Roma. Ma soprattutto viene da chiedersi: perché con un euro di denaro pubblico un manager tedesco produce tre o quattro volte più di un manager italiano?
Chi invoca l’applicazione in Italia della ricetta di Kulturinfarkt vorrebbe curare un anoressico allo stesso modo di un obeso: mettendolo a dieta stretta. Ma la differenza forse più sostanziale è un’altra. In Italia nel 2010 i privati cittadini hanno donato 26 milioni alla cultura (neanche mezzo euro procapite). Con imprese e fondazioni si arriva sui 500 milioni. In Germania si toccano i 4 miliardi. Negli Stati Uniti quasi 12 miliardi di euro cui l’80% dai privati cittadini (30 euro pro capite). Avviare in Italia una politica culturale all’americana? Possibilissimo: basta triplicare il pubblico dei teatri e convincere i cittadini ad essere 60 volte più generosi con la cultura rispetto a oggi.

Corriere 9.12.12
Al ballo dei nobili sovietici
Il romanzo-cronaca (incompiuto) di Curzio Malaparte sbeffeggia «l'aristocrazia comunista» nella Mosca del '29
di Mario Andrea Rigoni


Nel 1946, mentre lavorava a La pelle, Curzio Malaparte ebbe un'idea geniale, che nessuno aveva avuto prima e forse neanche dopo: ricavare dalla sua conoscenza della Russia sovietica, verso la quale aveva sempre nutrito un acuto interesse e nella quale aveva soggiornato alcune settimane nel 1929, un romanzo-cronaca sulla vita della nuova «aristocrazia comunista» moscovita che, a suo dire, aveva preso il posto dell'aristocrazia zarista e che sarebbe stata presto inghiottita dai processi e dalle purghe staliniane. Si trattava di lavorare su uno dei più sorprendenti e affascinanti ossimori: era arrivato a Mosca con la convinzione di trovare al potere una classe operaia tutta ideali rivoluzionari e stile puritano e aveva incontrato invece una nobiltà marxista scimmiottante il mondo occidentale, affogata nel vizio e nella corruzione, ad appena pochi anni dalla morte di Lenin. Malaparte intendeva dunque essere il Proust della decadente società comunista, dei suoi vizi, dei suoi scandali, dei suoi intrighi, come egli stesso dichiara nelle pagine introduttive e come appare anche dai titoli progettati per il libro (Du côté de chez Staline, Les princesses de Moscou) prima che approdassero al definitivo Il ballo al Kremlino.
Il romanzo, che si immagina avrebbe potuto costituire insieme con La pelle e Kaputt il terzo pannello di un trittico sulla decadenza dell'Europa, rimase incompiuto e fu pubblicato postumo, nel 1971, nell'ultimo volume delle Opere di Malaparte edite da Vallecchi; né fu più ristampato.
Attraverso un paziente lavoro di riassetto filologico, accompagnato da un prezioso commento che illustra la genesi e la storia complicata del testo, come pure i suoi rapporti con gli altri scritti di Malaparte di argomento sovietico (in particolare Intelligenza di Lenin, Tecnica del colpo di Stato, Le bonhomme Lénine, Il Volga nasce in Europa), l'opera riappare adesso presso Adelphi per la cura di Raffaella Rodondi (Il ballo al Kremlino. Materiale per un romanzo, pagine 418, 22), quasi in coincidenza con l'uscita in traduzione italiana della vasta, ricca e precisa biografia di Maurizio Serra, originariamente scritta e pubblicata in francese (Malaparte. Vite e leggende, traduzione di Alberto Folin, Marsilio, pagine 592, 25).
L'edizione Adelphi allinea, insieme con gli abbozzi e con altri frammenti, sei capitoli del libro (più un interessantissimo scritto sull'aura funebre della riproduzione fotografica della natura e sulla vergogna della morte nel mondo sovietico come, in generale, nel mondo moderno, dove «un uomo è un pezzo di ricambio»).
In questa costellazione il lettore incontra inevitabilmente varianti, anacronismi e ripetizioni, tutti perfettamente spiegati dalla curatrice, che peraltro non offuscano l'arte dello scrittore. Essa, più che in certe paradossali elucubrazioni di un romanzo-cronaca che è anche un romanzo-saggio, si manifesta in due generi, poco frequenti nella tradizione letteraria italiana: il ritratto e l'aneddoto.
Indimenticabile è la figura del roseo e biondo Florinski, antico funzionario del ministero degli Esteri zarista divenuto Capo del Protocollo del Commissariato degli Affari esteri della Repubblica dei Soviet, che appare in mezzo al traffico di Mosca su una tarlata carrozza nera tutto incipriato e bistrato, vestito di tela di lino bianca e di calze di seta bianca: un personaggio proustiano, per il quale «il marxismo era una sorta di complemento della sua natura di pervertito».
Più sobrio, ma pur sempre all'opposto dell'ideale d'uomo comunista, è il bellissimo ed enigmatico Karakan, partecipe e anzi protagonista della rivoluzione cinese, che parla con perfetto accento oxfordiano e gioca a tennis soltanto con palle fatte appositamente venire da Londra. Egli è l'amante dell'idolatrata Semënova, prima ballerina del Gran Teatro dell'Opera di Mosca, la cui grazia è scrutata ogni sera dall'occhio interessato dello stesso Stalin ed è oggetto delle chiacchiere di tutte le beauties della capitale. Ma vi sono anche figure già lambite dall'odore della morte, come la grassa e sfatta Madame Kamenev, che «era già in agonia dal giorno in cui suo marito e suo fratello Leon Trozki erano stati arrestati dalle "giacche di cuoio" della Ghepeu».
Alla vita della pègre dorée, la «mala dorata», contrasta la sorte dell'antica nobiltà esautorata e della borghesia ridotta alla fame, costrette a vendere «le ultime cianfrusaglie del loro antico splendore»: sulla via dell'Arbat un vecchio signore, che è il principe Lwow, cammina curvo portando sulla testa una poltrona dorata; sullo Smolenski Boulevard una dama della Croce rossa in uniforme, ancora giovane e bella, è ridotta ad offrire a Malaparte, «orrenda Veronica», un paio di vecchie mutandine di pizzo.
Ma l'elemento più impressionante del Ballo al Kremlino è dato da quella fosforescenza della decomposizione che si condensa nell'immagine, simbolica e ricorrente, della mummia di Lenin: «Specialisti tedeschi venivano ogni tanto da Berlino per svuotare, raschiare, disinfettare il guscio di quel prezioso crostaceo, quella sacra mummia cui un sudore verdastro, simile a una muffa, velava il bianco viso di porcellana illuminato di lentiggini rosse».

Corriere La Lettura 9.12.12
E il grano plasmò l'uomo
Grande fonte di civiltà ma anche di conflitti
Società e frumento si sono modificati a vicenda
di Telmo Pievani


Nutre un quinto del pianeta, secondo per produzione solo al mais e al riso. Ha un genoma molto più grande del nostro, perché viene dalla fusione di tre piante diverse, una erbacea e due graminacee. Questo ircocervo genetico non ha mai smesso di evolversi col suo addomesticatore, la specie umana. È il grano, nato da qualche parte tra il Tigri e l'Eufrate, e forse anche sugli altipiani del Corno d'Africa, quando i cacciatori raccoglitori umani iniziarono a selezionare inconsapevolmente alcuni mutanti delle specie selvatiche di frumento.
Dal pane alle paste, dall'amido all'alcol, dalla paglia alla crusca, è una manna per agricoltori e allevatori. Si macina, si fa fermentare, ci si costruiscono ripari. Non è difficile immaginare perché molti popoli lo venerassero come un dio. Quando nacque (la fusione genetica si concluse 8 mila anni fa, ma secondo le ultime datazioni la domesticazione cominciò almeno due millenni prima), si diffuse rapidamente tra la Persia e l'Anatolia, il Caucaso e l'Etiopia. La mappa dell'arrivo del grano in Europa sembra una marcia di conquista inarrestabile e coincide, secondo le tracce genetiche, con l'arrivo di popolazioni neolitiche dal Medio Oriente. Queste in alcuni casi soppiantarono i gruppi preesistenti e in altri si mescolarono ad essi, diffondendo per via culturale le pratiche e le tecniche agricole. Qualcosa di analogo accadde nella valle dell'Indo.
Oggi sappiamo però che questa epopea eurocentrica non è tutta la storia. Grazie a scoperte recenti si è appurato che la «rivoluzione agricola» è stata preceduta da un lungo periodo di sperimentazioni, durante il quale le tribù di cacciatori raccoglitori impararono a lavorare le piante a scopi alimentari. Nel sito di Bilancino, nel Mugello, come anche in Russia e Repubblica Ceca, sono state trovate evidenze (macine e pestelli con tracce di granuli di amido) della macinazione di radici, fusti e foglie per l'estrazione di farine vegetali (in particolare dalla tifa) risalenti addirittura a 30 mila anni fa.
Inoltre la domesticazione di piante e animali non avvenne soltanto in Medio Oriente. Cominciò in più luoghi della Terra indipendentemente, forse persino sei o sette volte in un periodo compreso tra 12 mila e 7 mila anni fa, finito il grande freddo dell'ultima glaciazione: in Estremo Oriente con il riso e il miglio; in Nuova Guinea con la canna da zucchero e la banana; in Africa con il sorgo e il caffè; in America centrale con il mais e i fagioli; sulle Ande con patate e manioca. La clemenza del clima sprigionò nuove possibilità. Quando le condizioni sono favorevoli, una popolazione umana può infatti aumentare grandemente in poche generazioni, e probabilmente fu lo squilibrio fra il numero degli esseri umani e il cibo disponibile in natura a promuovere lo sviluppo di agricoltura e allevamento. Si iniziarono così a coltivare alcune delle piante di cui già ci si cibava allo stato selvatico e ad allevare i più miti fra gli animali cui prima si dava la caccia. A questo punto agricoltori e nomadi si incontrarono e si scontrarono più volte, soprattutto nell'Africa centro-meridionale con l'espansione dei bantù a scapito dei cacciatori raccoglitori.
In questa pluralità di storie, il frumento fu forse il primo in ordine di tempo e senz'altro il più fortunato. La disposizione del continente euroasiatico, che da ovest a est comprende un'ampia fascia climatica temperata, facilitò la diffusione delle specie animali e vegetali, la loro domesticazione e lo scambio di tecnologie fra le diverse culture. Lo stesso fenomeno non si verificò nei continenti disposti da nord a sud, come le Americhe, perché le accentuate variazioni di clima e di vegetazione alle diverse latitudini impedirono tale diffusione, frapponendosi come barriere ecologiche. Il resto lo fecero le contingenze storiche: in alcune regioni dove vi sarebbero state condizioni favorevoli, come in Sudafrica e in Cile, la rivoluzione agricola non avvenne.
La posizione geografica non fu l'unico vantaggio del grano, perché, grazie all'autoimpollinazione, è anche tra le specie più semplici da selezionare artificialmente. È così flessibile da poter essere seminato prima dell'inverno in certe varietà, in marzo per altre. Si è adattato a ecosistemi assai diversi, fin nei Paesi nordici. Insomma, in fatto di malleabilità è il perfetto compagno dell'uomo e dei roditori, specie cosmopolite e invasive.
All'olivo e al grano, facilmente immagazzinabile, dobbiamo le prime civiltà urbane, l'inizio della proprietà privata, il commercio (e l'uso della scrittura che ne deriva), le prime città di Çatal Hüyük, di Tell es Sultan e di Gerico. Questo cereale ha plasmato dunque profondamente le nostre prime società, al punto che diventa controverso stabilire se sia il grano a essersi adattato a noi oppure il contrario. In ogni caso, l'Homo sapiens si trasformò in una specie culturale anche grazie a questa convivenza biologica. E qui cominciano i paradossi dell'amico frumento, perché l'accumulo di beni che esso permette ha generato pure la necessità di difendere i territori, di espandersi, di fare la guerra. L'aumento demografico innescò nuove diffusioni di popoli, colonizzazioni e conflitti.
Uscendo da una città, un campo di grano prima della mietitura ci sembra oggi un paesaggio «naturale», il condensato di tutto il bene che deriva dall'essere «biologico». Ma è un errore di prospettiva. Quella distesa di spighe dorate è il frutto di migliaia di tentativi di incrocio falliti, di selezioni incidentali di mutanti, di esperimenti improvvisati e di manipolazioni. La spiga più grande e senza dispersione dei semi è il risultato di un sistema che produce molto più di quanto sarebbe spontaneo fare, al fine di soddisfare le esigenze di un primate di grossa taglia particolarmente affamato. Quest'ultimo ha l'abitudine, dopo un po', di considerare naturale ciò che ha lungamente fabbricato.
La tentazione di attribuire alla natura un'autorità morale — in quanto buona, armoniosa, saggia dispensatrice di vita — fa parte del nostro corredo cognitivo contemporaneo, oltre che dei nostri sensi di colpa. In realtà, stando al suo successo mondiale, il grano ci ha addomesticato ben bene, usandoci come veicolo di diffusione. Quello coltivato è ormai così diverso geneticamente che spesso non si riesce più a incrociarlo con alcune forme selvatiche. Tra grani teneri e grani duri, ibridando, selezionando e talvolta creando mutanti con bombardamenti di raggi X, abbiamo prodotto migliaia di varietà. Sarebbe utile dare meno importanza alle categorie di naturale e artificiale, per concentrarsi maggiormente su quelle di economicamente giusto e ingiusto.
Anche la pelle chiara potrebbe essere connessa all'alimentazione a base di cereali: questa di per sé sarebbe povera di vitamina D3 (necessaria per la mineralizzazione delle ossa), ma nel frumento è presente un precursore della vitamina D, l'ergosterolo, che si converte nella vitamina sotto l'azione dei raggi solari, che traversano la pelle e raggiungono il sangue tanto più facilmente quanto più essa è chiara. Oltre alla ridotta insolazione, questo fatto deve avere favorito, fra gli agricoltori che colonizzarono l'Europa, le mutazioni che portarono un colore di pelle più chiaro. Sembra proprio che l'uomo e il grano si siano per millenni selezionati a vicenda.
A proposito, alcuni nel grano vedono talvolta persino dei cerchi. Ma è uno scherzo del vento, di un buontempone, o di una qualche dea del pane che da dodici millenni benignamente ci strizza l'occhio.

Corriere La Lettura 9.12.12
Il dominio dell’aratro
Quell'attrezzo escluse le donne Oggi la sua eredità le penalizza
di Alberto Alesina


La «World Value Survey» raccoglie sondaggi di opinione in un'ottantina di Paesi. Una domanda è la seguente: «Siete d'accordo con l'affermazione che quando i posti di lavoro sono scarsi gli uomini abbiano più diritto ad essere assunti rispetto alle donne?». Solo il 3,6 per cento degli islandesi risponde sì, mentre rispondono affermativamente il 28 per cento dei ruandesi, il 35 per cento degli svizzeri e il 95 per cento degli egiziani. La partecipazione femminile al lavoro più alta al mondo è nel Burundi, con il 94 per cento di donne che lavorano, in Italia è circa del 50, mentre il Pakistan ha la quota più bassa (17 per cento). Questi dati dimostrano due cose. Ci sono enormi differenze culturali tra vari Paesi riguardo alla divisione dei ruoli tra uomini e donne. Secondo punto: queste norme non dipendono solo dal livello di sviluppo del Paese. Quindi da cosa derivano? Una delle spiegazioni è l'uso dell'aratro in agricoltura in era preindustriale o precoloniale.
Un'antropologa ed economista, Ester Boserup, aveva avanzato già nel 1970 un'ipotesi che riguardava un confronto tra due tipologie di sistemi agricoli: la coltivazione intensiva basata sull'uso dell'aratro rispetto alla coltivazione a rotazione. Il ruolo della donna in società agricole tradizionali era estremamente diverso a seconda del tipo di regime prevalente. Un'intuizione simile l'aveva avuta il grande storico francese Fernand Braudel, che scrive riguardo alla Mesopotamia preistorica: «Le donne si occupavano dei campi. Facendo di tutto, dalla piantagione alla raccolta… ma poi gli uomini introdussero l'aratro riservandosi il diritto di usarlo… da ciò ne seguì una società dominata dall'uomo».
Ma che cosa c'entra l'aratro? La coltivazione a rotazione richiede molta manodopera e utilizza utensili manuali come la zappa. La coltivazione basata sull'aratro richiede meno manodopera, dato che si utilizza l'aratro per preparare il terreno. A differenza della zappa, l'aratro richiede notevole forza muscolare, soprattutto nel busto e nelle braccia, o per controllare l'animale che tira l'aratro, se non lo tira l'uomo stesso con uno sforzo ancora superiore. Per via di questi requisiti fisici, quando le pratiche agricole si basano sull'aratro, gli uomini hanno un vantaggio rispetto alle donne. Non solo, ma mentre la coltivazione a rotazione era compatibile con la cura dei figli piccoli nei campi, l'uso dell'aratro no, dato il pericolo rappresentato dalla presenza di grossi animali da tiro intorno ai bambini.
In un recente lavoro di ricerca disponibile sulla mia home page (http://www.economics.harvard.edu/faculty/alesina/files/PLOUGH%2BNOV%2B2012%2Bversion.pdf), il mio collega di Harvard Nathan Nunn, l'economista della Ucla Paola Giuliano ed io abbiamo verificato in modo sistematico che il ruolo dell'uso dell'aratro nell'agricoltura in tempi precoloniali e preindustriali influenza ancora oggi il ruolo della donna nella società. La mappa pubblicata in questa pagina mostra in quali zone si usava l'aratro e in quali no. Come si vede, c'è molta differenza anche all'interno di diverse zone dello stesso continente, sia in Africa che in Asia che in America Latina per esempio, e queste variazioni permettono di verificare l'ipotesi di Ester Boserup.
Che cosa abbiamo fatto? Prima di tutto, usando dati antropologici, abbiamo verificato la validità dell'intuizione di partenza della Boserup. I gruppi etnici che usavano l'aratro prevedevano una netta distinzione di ruoli e le donne accudivano unicamente alla casa, mentre nei gruppi con coltivazioni a rotazione le donne (e ragazze) partecipavano insieme agli uomini, e talvolta più degli uomini, all'agricoltura. Il passo successivo della nostra ricerca è stato quello di verificare se queste differenze storiche, risalenti a tempi remoti, implichino differenze di norme culturali anche oggi. La risposta è sì. Per verificarlo abbiamo combinato i dati etnografici precoloniali e preindustriali sull'uso dell'aratro, con indicatori attuali circa la visione degli individui sul ruolo della donna e dell'uomo, oltre che con misure riguardanti la partecipazione femminile ad attività fuori dell'ambiente domestico. La partecipazione al lavoro femminile oggi risulta molto più bassa proprio in quei Paesi in cui storicamente si coltivava prevalentemente con l'aratro, anche una volta effettuato un controllo su molti altri fattori che possono influenzare questa variabile.
Si obietterà, con ragione, che ci sono tantissime differenze fra questo e quel Paese, che potrebbero confondere queste differenze di ruoli. Da un lato abbiamo cercato di tenere conto di molte delle possibili differenze fra Paesi. Dall'altro ci siamo focalizzati su alcuni Paesi in cui vi erano differenze di uso dell'aratro in diverse regioni. Abbiamo verificato che, anche all'interno di uno stesso Paese, l'uso dell'aratro spiega differenze di ruoli tra i sessi. Non solo, ma siamo anche andati a livello di distretti all'interno di un Paese, usando dati estremamente disaggregati.
Infine abbiamo fatto un'altra verifica. Abbiamo considerato gli emigranti da Paesi in via di sviluppo verso Stati Uniti ed Europa. Le famiglie provenienti da Paesi in cui si usava l'aratro, anche quando emigrano altrove (Europa ed Usa appunto), mantengono le loro norme culturali riguardo al ruolo delle donne. Lo stesso dicasi per le norme, di segno opposto, dei Paesi che in prevalenza non usavano l'aratro. Questo risultato è importante, perché significa che certe norme «viaggiano» come un bagaglio culturale. Almeno per alcune generazioni rimangono anche quando individui con origini diverse vivono nello stesso Paese, quindi con le stesse politiche, istituzioni e regole.
Il lettore attento avrà notato che l'Europa ed il Nord America sono zone «aratro positive». In questi Paesi, si dirà, le donne sono emancipate e partecipano alla vita sociale e lavorativa. Due considerazioni: la prima è che, considerando l'Europa, la partecipazione delle donne alla forza lavoro è più bassa che in molti Paesi «aratro negativi», come si vede nel grafico. In Europa e Nord America le donne lavorano meno che nella media dei Paesi «aratro negativi». Come si diceva, la più alta partecipazione al lavoro delle donne è in Burundi, non in Europa! In secondo luogo è chiaro che non si vuole dire che l'aratro è l'unica determinante della partecipazione femminile alla forza lavoro. L'evoluzione storica, lo sviluppo socio-economico ed educativo contano in tanti altri modi. Infatti altri Paesi «aratro positivi», quando raggiungeranno livelli di sviluppo simili a quelli europei e nordamericani, probabilmente cambieranno un po' anche la loro divisione di ruoli tra donne e uomini. Forse le primavere arabe sono un primo esempio.
A pensarci bene, questa è una visione «marxista» della cultura, nel senso che la «struttura», ovvero la tecnologia del modo di produzione (l'aratro) influenza la «sovrastruttura» (ovvero la cultura). Si potrebbe obiettare che l'uso dell'aratro è stato scelto proprio perché preesistevano norme culturali di un certo tipo, quindi sarebbe la cultura che determina la scelta tecnologica. In realtà abbiamo verificato che i gruppi etnici che hanno adottato subito l'aratro erano quelli che vivevano in zone in cui quella tecnologia era necessaria, utile e profittevole per motivi di conformazione geografica e climatiche. Pertanto è la geografia a determinare le scelte tecnologiche e queste ultime a influenzare le norme riguardanti l'organizzazione della famiglia.
Due possibili obiezioni a queste tesi. Primo: il fattore religioso. Il ruolo della donna nella società è visto in modo diverso a seconda delle religioni, si pensi all'Islam rispetto alla Riforma luterana o alle religioni tribali africane. Probabilmente le norme di comportamento tra i sessi di certe religioni sono il risultato di costumi preesistenti. Ester Boserup scrive che in società che usavano l'aratro nell'antichità «le donne si occupavano unicamente di doveri domestici, vivendo spesso in uno stato di esclusione nelle loro case, apparendo in pubblico coperte da un velo, un fenomeno associato alla cultura dell'aratro e sconosciuta in regioni a coltivazione di rotazione, dove le donne facevano la gran parte del lavoro agricolo». La seconda obiezione è che il ruolo della donna è cambiato molto nel tempo. Com'è possibile che norme nate molti secoli fa influenzino ancora oggi la cultura riguardo alla divisione dei ruoli fra i sessi? Nessuno nega, neppure questa ricerca sull'aratro, che la cultura si evolva. Anzi spesso vi sono rivoluzioni culturali che velocemente cambiano la società, si pensi alla rivoluzione degli anni Sessanta riguardante proprio il ruolo delle donne. Oppure si pensi ai movimenti femminili che, all'inizio del secolo scorso, lottavano per il sacrosanto diritto di voto per le donne. È evidente che tutto ciò è importante, ma rimane sempre vero che in queste società in movimento certe differenze fra culture permangono nel tempo, sia pure in un mondo in cui tutto si muove. Sappiamo bene che certe norme sociali e culturali si tramandano di generazione in generazione. Se una madre è abituata a lavorare in agricoltura, educherà le figlie a fare altrettanto e, anche quando la società diventa industriale, le norme sopravvivono. Senza contare che molti Paesi hanno tuttora un'economia prevalentemente agricola.
Dobbiamo allora rassegnarci alla discriminazione contro le donne nel mercato del lavoro e accettarla come un fatto ineluttabile? Certo che no. Tuttavia rendersi conto delle origini molto lontane di certe norme culturali aiuta a non fare due errori grossolani. In primo luogo aiuta a evitare di fare del pericoloso dirigismo culturale. Non siamo tutti uguali e le differenze fra culture non si sradicano dall'alto. Il secondo punto è che dobbiamo evitare conclusioni affrettate e superficiali. Per esempio, si dice spesso che in questo o quel Paese le donne lavorano meno perché i servizi sociali, per esempio gli asili nido, non sono sufficienti. Può darsi, ma non sarà che certi servizi non ci sono perché la cultura locale attribuisce alla donna certi ruoli che sono incompatibili con il mandare figli molto piccoli all'asilo nido e che quindi, pure se ci fossero più asili, resterebbero vuoti? Non è il tipo di Stato sociale che un Paese adotta frutto della sua cultura, basata più o meno sulla famiglia, e non viceversa? Ciò non significa accettare divisioni inique del carico di lavoro domestico, per non parlare di discriminazioni nel mondo del lavoro. Significa però evitare luoghi comuni superficiali e rifuggire da un altrettanto superficiale dirigismo culturale.

Corriere La Lettura 9.12.12
Nell’era del web il lettering diventa ancora di più espressione dell’anima

A lezione di calligrafia: la bella scrittura come brand
di Michele Boroni


Scrivere con i segni, disegnare attraverso le lettere. Questa è, in estrema sintesi, l'essenza della calligrafia. In realtà, dietro una disciplina che a molti potrà sembrare desueta e ricordare l'opera paziente di antichi amanuensi o gli esercizi di bella scrittura d'altri tempi, si nasconde un universo multiforme e una pratica contemporanea che tutti noi possiamo frequentare. Dopo l'ubriacatura tecnologica e l'omologazione dei software, era inevitabile un ritorno alla manualità. In Italia e in tutta Europa nascono corsi sia per migliorare la scrittura manuale, sia per scoprire il proprio potenziale creativo.
«Con l'avvento della stampa si pensava che la scrittura a mano sarebbe scomparsa — racconta Monica Dengo, calligrafa e ideatrice di corsi di scrittura —. Invece è diventata uno strumento propulsore che ha dato vita a una moltitudine di scritture individuali desiderose di pubblicazione. Allo stesso modo, ora che stiamo gradualmente perdendo la scrittura manuale in favore di quella digitale, ci si rende conto che la calligrafia non serve solo a trasmettere un messaggio, ma anche un bisogno profondo di esprimere la propria specifica, inimitabile personalità». Cambiano le finalità: scrivere a mano porta alla riscoperta della funzione espressiva, al piacere del puro gesto. «Nei corsi si lavora persino sulla scrittura illeggibile: dunque non solo "bella calligrafia", ma una perlustrazione completa del mondo della scrittura manuale, vista anche come arte visiva personale», continua Dengo, che è anche presidente del Centro internazionale di Arti calligrafiche con sedi a Roma e Arezzo.
Stiamo assistendo alla rinascita di una disciplina che, specialmente in Inghilterra, è stata viva fin dagli inizi del secolo scorso, ma che negli ultimi vent'anni ha avuto un grande impulso anche nel resto dell'Europa grazie a molti gruppi di studi di calligrafia occidentale in Giappone, dove la scrittura a mano (shodo, letteralmente «la via della scrittura») è considerata al pari dell'arte figurativa. Solitamente si tende, piuttosto, ad apparentare il tratto intimo e meditativo dell'arte calligrafica alla danza: entrambe implicano il senso dello spazio, del ritmo, dell'azione e persino delle pause. Pratiche del corpo con uno spessore meditativo e corporale che si trova anche nello yoga.
La scrittura corsiva consente al nostro pensiero di arrivare fluido sul foglio, senza particolari cesure, fratture o intermediazioni; in un certo senso è la nostra lingua privata che permette di raccontarci meglio. Oggi però oltre il 40% dei giovani tra i 14 e i 19 anni non sa più utilizzare il corsivo, con il risultato che la fatica raddoppia a prendere appunti durante la lezioni. Quindi per molti è necessario iniziare il percorso da bambini, magari cambiando il metodo di insegnamento. Lo scorso anno la stessa Dengo, insieme con altri calligrafi, ha reintrodotto il corso di calligrafia (cessato nelle scuole negli anni Settanta) all'Istituto paritetico di Terranuova Bracciolini (Arezzo) con un metodo innovativo, in cui viene ripreso il corsivo italico — tipo di carattere a mano le cui semplici forme risalgono al Rinascimento e vengono eseguite con un unico tratto di penna — in una modalità facilitata e più divertente per i bambini rispetto ai quattro tipi di scrittura (stampatello e corsivo minuscolo e maiuscolo) imposti dai programmi ministeriali.
Dunque la voglia di scrivere a mano è un ritorno ai tempi antichi? Un fenomeno vintage? Non proprio. Semplicemente, come scrive anche il sociologo Richard Sennett nel suo L'uomo artigiano (Feltrinelli), un ritorno coscienzioso a saper fare bene le cose, all'apprendimento di una disciplina e all'utilizzo dell'intelligenza della mano. Per affermare la contemporaneità della calligrafia è uscito recentemente il libro Take Your Pleasure Seriously (Lazy Dog Press), dedicato alla figura di Luca Barcellona, classe 1978, nato come writer e graffitista e oggi tra i più stimati calligrafi di lettering artistico e commerciale. Brand e agenzie pubblicitarie sono, infatti, particolarmente attratti dalla grande forza comunicativa del lettering scritto a mano. Ma la rinnovata passione per la calligrafia non deve esser vista come una ribellione al mondo digitale. «In Italia — racconta Roberta Buzzacchino, che usa la calligrafia per realizzare mappe mentali, rappresentazioni grafiche del pensiero attraverso la scrittura radiale — i corsi di calligrafia sono stati promossi attraverso Twitter ideando l'hashtag #scriviamoamano, per dimostrare che anche un momento intimo e personale come la scrittura a mano può essere condiviso e social». La biografia di Steve Jobs, che iniziò la propria avventura proprio con l'iscrizione a un corso di calligrafia presso il Reed College di Portland, diventa un esempio paradigmatico. Come ricorda Jay Elliot in Steve Jobs. L'uomo che ha inventato il futuro (Hoepli) nei suoi appunti da studente, colui che ha ideato l'iPhone e l'iPad scriveva: «È la mano la parte del corpo che più di ogni altra risponde ai comandi del cervello. Se potessimo replicare la mano, avremmo realizzato un prodotto da urlo».

Corriere La Lettura 9.12.12
Deputati più devoti dei cittadini
Un quinto degli americani adulti non ha credo
Ma al Congresso c'è solo un eletto senza Chiesa
di Marco Ventura


Si chiama Krysten Sinema, viene dall'Arizona, ha 36 anni ed è l'unica tra gli eletti al nuovo Parlamento americano a dirlo: non appartengo a una religione, non mi riconosco in una Chiesa. Negli Stati Uniti la pensa come Krysten un adulto su cinque. Sono chiamati i nones, perché alla domanda «di che religione sei?» rispondono «nessuna». Per le statistiche sono gli unaffiliated: non hanno un'affiliazione religiosa tradizionale, anche se non necessariamente ripudiano la fede o negano Dio. Sono in numero crescente nel Paese, ma tra i deputati e i senatori che giureranno nel prossimo gennaio c'è solo Krysten a rappresentarli.
Ognuno dei 530 deputati e senatori eletti alle due camere del Congresso, ha una storia che nessuna etichetta può ridurre. Ai ricercatori del Pew Forum, accaniti misuratori di fede, interessano però i numeri, le percentuali, le tendenze. Nel rapporto appena pubblicato sulla composizione religiosa del centotredicesimo Congresso americano uscito dalle elezioni del 6 novembre scorso (cfr. «la Lettura» n. 55), le traiettorie individuali sfumano e si trasformano in dati e grafici. Emerge così la sproporzione. Mentre i tanti nones sono rappresentati dalla sola Krysten, i 465 membri del Congresso che si dichiarano cristiani superano la reale quota di cristiani nel Paese: poco più del 20 per cento degli americani adulti si dichiara cattolico, ma i congressmen cattolici sono il 30 per cento del totale; meno della metà degli adulti, negli Usa, si dichiara protestante, ma nel nuovo Congresso i protestanti sono il 56 per cento.
Anche i 32 parlamentari ebrei pesano in proporzione più del doppio della comunità ebraica nel Paese, mentre i 15 eletti mormoni fotografano il 2 per cento che si riconosce nella Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni. Le altre minoranze sono, come nel caso di Krysten, più storie individuali che numeri. È stato rieletto Keith Ellison, primo deputato musulmano entrato al Congresso nel 2006. Tulsi Gabbard, veterana della guerra in Iraq eletta a Honolulu, diverrà in gennaio il primo deputato hindu di sempre. Mazie K. Hirono sarà la prima senatrice buddista. Mancherà invece il californiano Pete Stark: deputato democratico dal 1973, fu il primo rappresentante del popolo americano a dichiarare nel 2007 di non credere in un Essere superiore: per un singolare contrappasso, ha perso le ultime elezioni. Vi è infine una decina di eletti che ha scelto di non indicare alcunché nel proprio profilo, neppure unaffiliated: come la democratica Tammy Baldwin, prima omosessuale dichiarata ad essere eletta senatrice.
Dire di che Dio siamo è un esercizio mai ovvio. Le identità religiose sono scatole a sorpresa. Sotto la calma superficie dei grandi numeri protestanti e cattolici vi è un mare in tempesta. Negli ultimi cinquant'anni, i protestanti sono passati dai tre quarti dei seggi a circa la metà. Tra di essi, sono in ascesa i battisti e in calo luterani, anglicani e metodisti: questi ultimi si sono dimezzati dal 1962 a oggi. I pentecostali sono sottorappresentati rispetto alla loro presenza sociale. Ben 58 eletti, l'11 per cento del Congresso, si dichiarano protestanti senza specificare a quale Chiesa appartengano.
Il mare cattolico è non meno mosso. Quella cattolica romana è la singola Chiesa più rappresentata nel nuovo Congresso: i cattolici sono passati dal 18,8 per cento di cinquant'anni fa all'odierno 30,4 per cento degli eletti; e la percentuale sale al 37 per cento se si considerano i soli eletti per la prima volta. A differenza dei protestanti, decisamente repubblicani, i cattolici sono in equilibrio tra i due fronti, con lieve prevalenza democratica. Le ricerche del Pew Forum sugli elettori cattolici, circa un quarto dell'intero elettorato americano, descrivono un universo composito: tra i cattolici moderati, un sottogruppo che vale più del 30 per cento dell'intero elettorato cattolico, più della metà ha votato per Obama. Hanno scelto il presidente uscente anche più del 70 per cento dei cattolici bianchi progressisti e ispanici. Ha invece preferito il mormone Romney il 78 per cento dei cattolici bianchi conservatori, un fronte cui appartiene un elettore cattolico su quattro. La battaglia sull'etica naturale non ha ridotto le distanze tra sottogruppi cattolici. Tra i cattolici moderati, rileva ancora il Pew Forum, il 65 per cento è favorevole all'aborto legale e il 60 per cento al matrimonio tra persone dello stesso sesso.
La super maggioranza ebraico-cristiana degli eletti, 497 su 530 tra Camera e Senato, lascia per ora la nuova religione americana alle porte del Congresso. Migrazioni e tensioni nelle grandi Chiese sfuggono all'osservatore distratto. Gli evangelici fondamentalisti si diluiscono nel mare protestante. Non ci sono testimoni di Geova e membri di Scientology. I musulmani sono solo due. La fede «spiritual» non si vede. Se non fosse per Krysten, non ci accorgeremmo dei nones. Il profilo religioso del nuovo Congresso preserva una tradizione formatasi dalla metà del XIX secolo, quando il primo ebreo fu eletto, nel 1845, seguito nel 1851 dal primo mormone. Ma ora, dietro le apparenze del Congresso, sotto le forme religiose consolidate, quella tradizione cede il posto a qualcosa di nuovo. La fede va spesso negli Stati Uniti per rinnovarsi. È Dio che benedice l'America.

Corriere La Lettura 9.12.12
Il revisionismo di Oliver Stone: meglio Stalin di Truman
di Ennio Caretto


Il revisionismo storico ha ispirato a Oliver Stone i migliori film, da Platoon e Nato il quattro luglio sulla guerra del Vietnam, che gli fruttarono l'Oscar nel 1987 e nel 1990, al recente W. sull'invasione dell'Iraq. Questo percorso lo ha portato a pubblicare un libro di 750 pagine e a presentare un documentario di 10 ore in altrettante puntate, dal provocatorio titolo La storia non narrata degli Stati Uniti. Coautore del libro, che copre il periodo dalla Seconda guerra mondiale al primo mandato di Obama, è Peter Kuznick, direttore dell'istituto di Studi nucleari della American University di Washington. La tesi di Stone e di Kuznick è che l'America avrebbe potuto, anzi dovuto, evitare di usare l'atomica contro il Giappone e prevenire la guerra fredda: se l'avesse fatto si sarebbe risparmiata il conflitto in Vietnam e quelli successivi. Tesi che ha spaccato la nazione in due. Per l'establishment americano, il regista si è confermato il dissacratore delle istituzioni e dei valori patriottici. Per la minoranza del dissenso, ha innescato un importante dibattito. È intervenuto persino l'ex leader sovietico Mikhail Gorbaciov, secondo cui occorre chiedersi «se gli Stati Uniti sceglieranno di essere i gendarmi della pax americana, la ricetta del disastro, o i partner delle altre potenze nella ricerca di un futuro più sicuro, più equo e più sostenibile». Una volta tanto, Stone non indulge nella denuncia del complotto di Stato come nel film sull'assassinio di John Kennedy: non abbraccia le ipotesi secondo cui Franklin D. Roosevelt congiurò perché i giapponesi attaccassero Pearl Harbour e George W. Bush congiurò perché Al Qaeda abbattesse le Torri gemelle. Stone sostiene solo che lo spirito imperiale, l'exceptionalism o unicità americana, spinse gli Usa a una politica estera aggressiva. In particolare, più che di Stalin la guerra fredda sarebbe stata responsabilità del vice di Roosevelt, subentratogli dopo la morte nell'aprile del 1945, il presidente Harry Truman. Egli usò l'atomica contro il Giappone ormai sconfitto, afferma Stone, sebbene i generali Dwight Eisenhower e Douglas MacArthur fossero contrari, e silurò così anche l'alleanza tra la Casa Bianca e il Cremlino. Stando al regista, se alla convention del 1944 i democratici conservatori non avessero scalzato il precedente vice di Roosevelt, Henry Wallace, pacifista e riformista, mettendo Truman al suo posto, il corso della storia sarebbe stato assai diverso. Wallace, sostiene Stone, era un uomo avanti di vent'anni, fautore tra l'altro della sanità di Stato e dell'integrazione razziale. La storia non narrata degli Stati Uniti illustra gli errori commessi, secondo gli autori, sulla scia della «dottrina Truman», dal maccartismo, la caccia alle streghe comuniste, alla guerra del Vietnam: a loro parere Kennedy, se non fosse stato ucciso, si sarebbe disimpegnato dal conflitto. Invece Bush ignorò i moniti dei servizi segreti su un possibile attentato di Al Qaeda, e s'impantanò in Iraq. Il regista e lo storico esortano gli americani a rivedere i propri miti e a ripensare la guerra fredda. Ma mentre l'iniziale responso popolare sembra positivo, e quello dei democratici più liberali entusiasta, non mancano le proteste degli studiosi. Uno di essi, Sean Wilenz della Princeton University, ha obiettato che Stone e Kuznick sottovalutano le colpe di Stalin e sopravvalutano Wallace, nel 1948 un misero candidato alla Casa Bianca per il partito progressista. La storia, aggiunge, non è mai fatta dai «se». Wilenz paragona i due autori a Carl Manzani, un comunista italiano naturalizzato americano che fu un analista dell'Oss, l'antesignano della Cia, e venne imprigionato nel '47 per un anno. In un libro del 1952, We Can Be Friends («Possiamo essere amici»), Manzani propugnò la stessa tesi. Stone e Kuznick ribattono che non è ancora stata fatta piena luce sul maccartismo. Di più. Il regista spera che libro e documentario restino come pietre miliari del filone revisionista, con Storia del popolo americano di Howard Zinn (Il Saggiatore) e Lies My Teacher Told Me («Le bugie che il mio insegnante mi ha detto») di James Loewen. Per me, spiega Stone, sarebbe l'Oscar più bello.

Corriere La Lettura 9.12.12
Il falso mito degli “Italiani brava gente”
di Dino Messina


I l mito degli italiani brava gente non è mai tramontato. Nonostante decenni di studi storici abbiano dimostrato che il nostro Paese nel secondo conflitto mondiale combatté una guerra di aggressione e di occupazione, a fianco dei nazisti, nell'immaginario collettivo è sempre prevalsa l'immagine del buon soldato italiano, protagonista valoroso soprattutto nelle disfatte (vedi la ritirata di Russia e l'onorevole sconfitta di El Alamein). A riflettere su questi concetti ci invita un intenso saggio di storia della storiografia pubblicato sul nuovo numero della rivista «Passato e Presente» (Franco Angeli editore). L'autore, Eric Gobetti, si concentra sull'occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943) e analizza il modo in cui questo aspetto cruciale dell'impegno bellico, che assorbì la maggior parte delle forze armate (circa trecentomila soldati necessari a controllare il territorio e a contrastare la guerra di liberazione delle popolazioni nei territori occupati), sia stato a lungo trascurato nelle opere storiografiche di segno diverso. Giorgio Bocca, osserva Eric Gobetti, vi dedicò meno di dieci pagine della sua Storia d'Italia nella guerra fascista, pubblicata da Laterza nel 1977; così Renzo De Felice, nella sua monumentale biografia di Mussolini, accordò al tema soltanto una ventina di pagine. Durante la guerra nei Balcani, gli italiani non diedero il meglio, tranne negare ogni responsabilità già dall'immediato dopoguerra, soprattutto attraverso i memoriali di ufficiali, come il generale Mario Roatta, autore della crudele circolare 3C contro la popolazione civile slovena. Ci sono voluti più di vent'anni per leggere gli studi più obiettivi di Mario Pacor, Enzo Collotti e Teodoro Sala. E si è dovuto attendere il crollo del comunismo e il nuovo conflitto in Jugoslavia, a partire dal 1991, per assistere a un rinnovato interesse sui Balcani. Tuttavia il mito del bravo italiano non è mai tramontato. Dopo decenni di negazione di un'altra tragedia rimossa, quella delle foibe, il sacrosanto racconto del sacrificio di italiani vittime della vendetta jugoslava ha messo in secondo piano ancora una volta le responsabilità dei fascisti durante il lungo periodo di occupazione.

Belfast, Beirut, Gerusalemme, Mostar e Nicosia
Corriere La Lettura 9.12.12
I muri dell'apartheid nelle cinque città divise
Jon Calame e Esther Charlesworth: gli esiti strutturali e sociali delle barriere
di Vittorio Gregotti


Non è un caso che il fenomeno generale dell'«apartheid» urbano sia proposto in questo libro da un architetto e da un urbanista, anche se la questione è esemplificata, attraverso numerose interviste, soprattutto sulla sociologia di cinque città che, tristemente, tutto il mondo conosce, Belfast, Beirut, Gerusalemme, Mostar e Nicosia, che, a partire dalla loro storia, sono divenute negli ultimi cinquant'anni del XX secolo, e poi a cavallo del nuovo millennio, esempi della tragica opposizione tra gruppi etnici, o religiosi, o politici e, nello stesso tempo, interrogativi sulla struttura della città, le sue possibilità e contraddizioni.
A tutto ciò il potere ha pensato di mettere freno con l'erezione di muri e recinti, un'idea di separazione che ha sovente ancor più aumentato l'opposizione tra le parti.
Gli effetti di tutto questo hanno esiti distruttivi anche sulla struttura e sul disegno della città, e quindi il libro di Jon Calame e Esther Charlesworth, Città divise (traduzione e cura di Cristiano Casalini e Luana Salvarani, prefazione di Guido Morpurgo, Medusa, pagine 304, 21), è una descrizione preziosa, partecipe e dolorosamente emozionante delle conseguenze urbane oltre che sociali di tutto questo.
Oltre a proporre un'analisi delle ragioni di queste divisioni e delle loro oscillazioni storiche evidenti, si tratta anche della rivelazione di contrasti talvolta fondati non solo su antiche opposizioni e tragedie ma sovente anche su «invenzioni di tradizioni» (per utilizzare il titolo del celebre libro di Hobsbawm) che risalgono soltanto agli ultimi settant'anni. Queste invenzioni, anche mettendo da parte l'immensa tragedia operata durante l'ultimo conflitto dal paradosso nazista, si sono sovente trasformate, nella loro progressiva crescita, in una forma generale dell'intolleranza sociale nei confronti della diversità dell'altro, sovente della paura dell'altro poiché diverso e quindi nemico, anziché fare della diversità delle culture e dei soggetti un fondamento prezioso di arricchimento.
Sappiamo bene quanto diffuso sia stato il fenomeno del «ghetto» razziale, religioso e di costumi, nell'Europa, in Asia Minore e almeno in tutto il Mediterraneo antico ma come, nello stesso tempo, esso sia stato anche il fondamento di ricche culture nuove. A tutto questo si è aggiunta, nell'ultimo mezzo secolo, l'ossessione dei quartieri rigorosamente separati e sorvegliati per classi agiate omogenee, talvolta accostati ad altri formati da baracche di poverissimi, e persino piccole città abitate solo da categorie sociali omologhe.
Vi sono poi i casi di separazione controllata di vasti spazi urbani per l'abitazione della mano d'opera temporanea che muove dalle campagne verso la città. Per molti secoli i centri urbani, anche in ragione della limitata e certa estensione delle città, sono invece stati esempi di mescolanza di attività e di classi sociali diverse. Poi nel XIX secolo, soprattutto con la diffusione del capitalismo industriale, si è assistito alla separazione per classi tra centro e periferia, sino ad assumere la forma della periferia urbana monoclasse, e agli slum nel Terzo Mondo (ma anche, sia pure con minore estensione, nel nostro mondo) che hanno assunto dimensioni enormi: i sociologi calcolano per esempio che esse produrranno nel futuro decennio un terzo dei nuovi nati di tutto il mondo.
Tutto questo ha avuto conseguenze fatali nei confronti della struttura della città, specie nelle grandi metropoli, sovente ormai organizzate per accampamenti chiusi accostati, che riducono i processi di integrazione, aggravati dalla scarsità di lavoro e dai trasporti pubblici faticosi e costosi, e incrementano la violenza delle proteste. I fenomeni dei riots, per esempio, che si sono sviluppati in alcune periferie di Londra nell'agosto del 2011, ne sono un segnale allarmante.
Dal punto di vista dell'architettura della città questo è poi fatale alla costruzione di qualsiasi organizzazione di un qualche disegno urbano, la cui prima qualità è il riconoscimento del senso collettivo dei suoi spazi pubblici e della loro memoria per mezzo proprio della loro utilizzazione aperta e del loro coordinamento come luoghi di congiunzione e di identità della città.
Nel penultimo capitolo gli autori cercano di cogliere le sequenze standard del fenomeno dell'«apartheid» urbano: nella politicizzazione delle etnie e delle credenze religiose, nella individuazione nella città di nuclei simbolici di divisione, nel tracciamento di confini, nella loro significazione simbolica, nella diffusione dell'idea di partizione come difesa, nella presenza di sacche di povertà di indigeni troppo deboli e di coloni troppo forti, nella molteplicità delle parti politiche internazionali in gioco.
Tutto questo muove da date precise del XX secolo: Gerusalemme nel '48, Nicosia nel '58, Belfast nel '65, Beirut nel '75, Mostar nel '92. Alcune di esse si sono improvvisamente e apparentemente spente, pur conservando danni a lungo termine. Ma tutto questo muove anche in noi il sospetto che in qualsiasi città del mondo il fenomeno potrebbe riaccendersi.

Corriere La Lettura 9.12.12
La forza mite degli italiani
I mattoidi buoni e gli eroi disarmati veri campioni del carattere nazionale
Nella crisi attuale patiamo un sentimento diffuso di colpe non commesse
Ma abbiamo come antidoti risorse insospettabili come follia e coraggio
di Emanuele Trevi


«High quality salami». Non c'è scampo, ogni volta che prendo il treno, poco dopo la partenza, una voce registrata si diffonde in tutte le carrozze, sempre la stessa, una voce che prima in italiano e poi in inglese vanta le delizie che attendono i viaggiatori nel vagone ristorante, infallibilmente collocato al centro del convoglio così come, nei sistemi astronomici degli antichi, la Terra se ne stava, volente o nolente, al centro del Cosmo. E a un certo punto della litania gastronomica, quando il messaggio è passato alla sua versione inglese, subito dopo le «big salads», eccoli arrivare, gli «high quality salami». Con le punte aguzze dei suoi termini intraducibili, da tempo immemorabile l'italiano possiede questa notevole capacità di perforare la superficie uniforme delle altre lingue, come qualcuno che si affacci da una tenda per fare uno sberleffo, o un occhiolino. Evidentemente, così come nella musica non esiste un equivalente di «adagio», non c'è nella lingua di Shakespeare un nome che possa degnamente designare i nostri salami d'alta qualità. Confesso di aspettarlo con una certa ansia, l'annuncio bilingue del vagone ristorante, e i suoi «high quality salami» che mi fanno pensare a quelli del divino Jacovitti, insieme succulenti e metafisici, dotati di zampe e di intelletto. Li considero come una mia particolare benedizione, all'inizio del viaggio. E se dovessi scrivere un libro sull'Italia, proprio così vorrei intitolarlo, High Quality Salami.
Già, un libro sull'Italia... impresa non facile, ma fino a un certo momento storico, abbastanza ragionevole. Anche a non possedere il talento di Stendhal, Goethe o di Henry James, qualcosa di buono erano capaci di tirarne fuori anche osservatori abbastanza mediocri. Due formidabili miniere erano lì, a disposizione di tutti: un numero incredibile di opere d'arte, e un altrettanto sterminato repertorio di aneddoti, leggende, fatti di cronaca e dicerie incontrollabili che davano corpo e voce a quel carattere italiano che per secoli ha destato stupore e ammirazione universali. Di cosa si trattava, esattamente? E in che misura le fantasie dei turisti corrispondevano alla realtà dei fatti? Poco importa, se è vero che i miti non devono presentare a nessuno i loro conti, e la loro verità coincide con la loro pura e semplice capacità di perpetuarsi nel tempo.
Il carattere italiano era una specie di ingegnoso artigianato esistenziale, un istinto del piacere, una capacità di dedizione all'attimo presente. Un certo grado di indifferenza morale era largamente compensato da un senso infallibile dell'onore, così come un sostanziale ateismo trovava il suo giusto contrappeso nel culto dei santi e nel rigoglio barocco della devozione. È inutile aggiungere che tutti i miti, proprio perché derivano la loro forza dalla loro durata, hanno le ore contate. Ed è insensato dedicare energie al più umiliante e inutile dei sentimenti, che è il rimpianto del passato, il desiderio che le cose tornino così come avevamo creduto di viverle o come almeno le avevamo sognate. Non ci sarà più l'Italia di Stendhal, così come non ci saranno più le feste contadine di Pier Paolo Pasolini e le belle giornate di Raffaele La Capria. Conviene semmai guardare le cose per quelle che sono.
Chi viaggia per l'Italia, in questi anni, vede cose poco allegre. La ristrettezza delle prospettive imposta dalla crisi economica non è solo un problema materiale. Afflitta dal bisogno e dalla precarietà, la mente diventa incline al più occhiuto moralismo, e al più sordido rancore. La lunga e lugubre storia del populismo italiano attraversa, in queste condizioni psicologiche, un invidiabile periodo di salute e rigoglio. Ma ancora più del moralismo e del rancore, ciò che affligge la vita di ognuno è il sentimento che sulle proprie spalle qualcuno abbia caricato il peso di colpe che non ha commesso, o non si è mai reso conto di commettere, non godendosi in questo modo nemmeno quel tanto di dolcezza che si annida in ogni colpa individuale, consapevolmente decisa e accettata come tale. Forse non c'è stata mai nella storia umana una forma di schiavitù più efficace di questa colpa che lega con un filo tenace il singolo individuo a eventi remoti, inconcepibili, fuori dalla portata dell'intelligenza e dell'immaginazione. Come potenti veleni, nomi sconosciuti si infiltrano nel nostro sistema nervoso. Lo spread ci mette in ansia tutti, compreso chi non sa esattamente cosa sia. Una sillaba irta di consonanti piantata in mezzo alla nostra libertà come il totem di un popolo di conquistatori imperscrutabili e ostili. Questo oscuro coinvolgimento individuale nei processi della finanza internazionale è il sintomo più oscuro di una malattia mortale. È la triste, inutile, disperante parodia di quella che una volta era la responsabilità morale del singolo di fronte ai suoi pari.
Ci saranno pure degli antidoti a questa sconcertante infelicità italiana, venata di colpa e di angoscia. Dubito che questi antidoti proverranno da qualche primavera politica. Come la pubblicità, la politica parla a tutti, e in particolare a quella parte di ognuno che assomiglia agli altri. Non può fare altro. Ma i mali individuali non possono essere né guariti né leniti dai rimedi universali. Servono medicine più efficaci, capaci di rendere ancora una volta possibile l'idea di possedere una vita propria, inviolabile, irripetibile. In queste settimane, durante i miei viaggi, ho iniziato a portare con me un libro sorprendente e prezioso, un vero concentrato di speranza nel futuro dell'Italia. Lo ha scritto Paolo Albani ed è intitolato I mattoidi italiani. C'è da sapere che il nostro è sempre stato un Paese di mattoidi di qualità suprema. L'opera di Albani è una specie di enciclopedia. Vi trovano spazio creatori di lingue universali, lettori e trasmettitori del pensiero, quadratori del cerchio, profeti e inventori di nuove religioni. Gente come Carlo Cetti, autore di una Teoria del brevismo, convinto di poter sfrondare l'italiano da ogni elemento superfluo, doppie e prefissi compresi, per fargli ottenere il massimo dell'efficacia. Nel 1965, Cetti pubblicò un Rifacimento dei Promessi sposi che sfrondava il capolavoro di Manzoni riducendolo di una buona metà. Alberto Corva, invece, nel 1915 mise a punto la sua teoria della Telefonia umana, fondata su un metodo progressivo che, nel giro di pochi anni, consentiva di scambiarsi i pensieri a distanza di chilometri.
Consiglio di utilizzare il libro di Albani come un vero e proprio breviario, leggendo una biografia di mattoide al giorno. È una lettura rincuorante, un tonico morale di cui nessun italiano dovrebbe fare a meno. Solo in apparenza questo libro manca di rispetto per i suoi protagonisti. Certo, le idee dei mattoidi, e i titoli dei loro libri, fanno ridere. Ma il nostro divertimento non cancella una profonda verità morale. Come i santi, come i grandi poeti, i mattoidi incarnano tutti, a loro modo, un modello di vita esemplare. Ignari del principio di realtà e dei suoi cinici ammonimenti, vanno dritti per la propria strada sposando due qualità umane preziosissime: la determinazione da un lato, e dall'altro quella mitezza che Norberto Bobbio, nei suoi ultimi anni, additava come la suprema delle virtù civili.
Mi sembra chiaro che le caratteristiche umane che vengono fuori dal libro di Albani, così godibile e in apparenza disimpegnato, possono venire proiettate su dimensioni serissime dell'esistenza. Chiamatelo santo, chiamatelo mattoide, ma nel singolo individuo c'è sempre la più preziosa delle risorse, che è la capacità di mettere da parte le regole del mondo, con la loro ingannevole apparenza di realtà immutabili e necessarie, per inventarne altre, più ricche di felicità e di giustizia.
L'Italia è come uno di quei disegni in cui si nasconde un trucco ottico. A seconda degli elementi ai quali si presta attenzione, si vede ora una cosa, ora un'altra. E dunque, quando considero le cose dal punto di vista dei discorsi e dei saperi collettivi, l'immagine che ne ricavo è deprimente. Non può esserci felicità in una politica dove ciò che preferiamo coincide, nel migliore dei casi, con il meno peggio. Forse dobbiamo rassegnarci a un'epoca storica in cui tutte le rappresentazioni ufficiali della realtà sono marcite, ed emanano l'odore sgradevole del sentimentalismo unito alla brutalità (che si accompagnano sempre, diceva Saul Bellow, «come i fossili e il petrolio»).
Al contrario, come in virtù di un incantesimo, sono i singoli che hanno il potere di farci accedere a un grado più puro, allegro, imprevedibile della realtà. L'individuo è un miracolo, un prodigio quotidiano. In lui bene e male si fronteggiano come se nulla fosse stato ancora usurpato dalla forza devastante del collettivo, dall'ipocrisia dell'anonimo. E così, se penso al futuro dell'Italia, a una vita degna d'essere vissuta in questo grande salume d'alta qualità, non mi viene mai in mente una coalizione di governo, e nemmeno un grande movimento d'opinione, una moltitudine indignata. Penso a dei nomi, a dei cognomi, ai lineamenti che sono sempre la traccia visibile del destino. Da qualche mese, penso a Vincenzo Linarello. L'ho conosciuto questa estate, quando sono andato in Calabria per fargli un'intervista. Vincenzo vive a Gioiosa Ionica, nel cuore della Locride, ed è il presidente di una cooperativa che si chiama Goel, una parola dell'ebraico biblico che significa «riscatto». È un uomo giovane, molto affabile ma schietto nei rapporti, un cristiano fermamente convinto del valore di testimonianza contenuto nelle cose che si fanno nella vita quotidiana. Vincenzo e gli altri ragazzi della cooperativa fanno un lavoro che ha dell'incredibile. Producono frutta, e tessuti preziosi. Hanno anche dato vita a un marchio d'alta moda. Il loro principio basilare è che, in un territorio dove la criminalità sembra possedere il potere di decidere ogni aspetto della vita, e dove anche solo protestare per una macchina parcheggiata in doppia fila può costare la pelle, sia possibile produrre delle merci in maniera totalmente onesta. Assegnando alle materie prime un valore diverso da quello stabilito dalla 'ndrangheta, per esempio, o rifiutando in maniera totale e definitiva di avvalersi di quell'immenso serbatoio di riciclaggio del denaro sporco che è il lavoro nero.
Vincenzo mi ha portato a Gerace, uno dei più bei paesi d'Italia. Lì, in un piccolo laboratorio, la cooperativa ha costruito delle perfette riproduzioni dei telai antichi. Da queste macchine di legno, di prodigiosa complessità, vengono fuori tessuti meravigliosi, ornati da motivi geometrici che risalgono all'età bizantina e il cui solo nome è in grado di suggerire un'idea di raffinata ed impeccabile eleganza: l'occhio di pernice, la spiga, la rosa greca...
Vincenzo è sposato, ha dei figli, e non ha l'aria di essersi arricchito. Va in giro disarmato, senza scorta, e l'aspetto che più mi ha colpito del suo carattere è la serenità con la quale considera la vita e le sue incognite. Al momento di salutarci, sulla banchina della stazione di Rosarno, mi è venuto naturale chiedergli se non avesse paura di finire ammazzato. E dalla sua riposta, ho ricavato uno dei più grandi benefici che si possa ricavare dal dialogo con un'altra persona: la possibilità di intravedere un modo diverso di interpretare le stesse cose, di concepire una diversa gerarchia di valori e significati. «Io sono nato qui — mi ha risposto Vincenzo — e ho imparato a vivere qui. Conosco il dialetto, so come ragiona la gente». E alla fine, come se volesse esprimere in sintesi un'intera filosofia, o forse un metodo infallibile di difesa personale, ha aggiunto: «Quando parlo con qualcuno, lo guardo negli occhi». Due esseri umani che si guardano negli occhi: ecco la storia più bella che si possa raccontare sull'Italia. L'unica di cui non si sa ancora come possa andare a finire.

Corriere La Lettura 9.12.12
La figlia di Lucian, scomparso un anno fa, e pronipote di Sigmund, apre le porte di casa
Scolpisco mio padre (e mio nonno)
Jane McAdam Freud fa i conti con il suo cognome «Sì, la mia arte è anche una forma di psicoanalisi»
di Gianluigi Colin


Privilegio o condanna? Un'eredità davvero impegnativa quella di essere artista e figlia di uno dei più grandi pittori del mondo, Lucian Freud, e insieme pronipote di Sigmund, padre indiscusso della psicoanalisi.
Jane McAdam Freud si muove nella sua piccola casa-studio nella periferia di Londra come un personaggio del romanzo di Milan Kundera: sembra portare con sé l'insostenibile pesantezza dell'essere, ma lo fa con discrezione e con un sorriso: «Con i miei amici non parliamo mai di mio padre, della mia storia familiare. Non so proprio se tutto questo rappresenta una fortuna o il contrario. Quando mi ritrovo con scultori o pittori, c'è sempre qualcosa di strano, di non detto. Così, solitamente, evito di stare insieme ad altri artisti. Loro hanno tutti un'esperienza comune. In questo, mi sento sola».
Ma Jane, nonostante tutto, non appare per niente oppressa dalla complessità della memoria. Minuta, un vestito di lana color senape, sorride solare e subito offre una tazza di tè che prepara in una cucina quasi spoglia, senza quadri alle pareti. Intorno, le tracce di una casa che è anche luogo di creazione: computer, appunti, disegni, calchi, piccole sculture. Scatoloni che nascondono opere. L'unico segno del legame con Sigmund è una fotografia, seminascosta, tra libri e ritagli. Quello che sconvolge subito è la somiglianza con il padre: stesso taglio degli occhi, stesso colore, stessa struttura del volto. Non a caso, ha realizzato una serie di opere su questo tema. In una recente mostra, curata da Nicola Angerame alla Whitelabs di Milano, l'artista ha esposto alcune opere in cui ha messo in relazione il suo volto con quello del papà: il ritratto di Lucian si fondeva col suo in una memoria visiva che esprimeva l'indissolubile legame che esiste tra un padre e una figlia. Un legame complesso, tormentato, negato e recuperato da poco tempo, cinque anni prima della morte di Lucian.
È difficile celare le proprie origini con una così evidente traccia. Jane, sin da bambina, in qualche modo, è stata costretta a farlo: sua madre, quando lei aveva otto anni, ha lasciato Lucian (che nella sua vita ha avuto 14 figli) tagliando ogni rapporto e negando ai figli di chiamarsi Freud. Ecco il perché di quel McAdam. «Eravamo quattro fratellini e mia madre ripeteva: sono stanca di accudire a un quinto figlio», ricorda Jane. «Mio padre era un uomo indomabile, la capisco». Eppure, il rapporto con il padre, la complicità iniziale e poi la sua negazione, è stato fondamentale per la sua formazione, anche artistica. La piccola Jane aveva nello studio di Lucian un angolo a sua disposizione. Aveva i propri colori, i pennelli e nessuno poteva toccare le sue cose. Con il padre condivideva l'atmosfera e il profumo dell'arte: quello della trementina e dei colori a olio. Poi, improvvisamente, tutto è finito: «Mi resta la nostalgia di quei giorni felici e di quel profumo». Jane McAdam Freud parla lentamente, ricorda quel momenti con commozione e con un senso di sgomento. «Rimpianti? Ero piccola. Mia madre mi ha lasciato libera di scegliere la mia vita, ma curiosamente, senza saperlo, seguivo le stesse tracce di papà, stessa scuola, la Central Saint Martins College of Art, e soprattutto, stessa scelta di vita».
L'arte si è impadronita di lei da subito con una epifania: «Avevo tre anni, stavo giocando nello studio di mio padre con la sabbia umida. Quel contatto della mano che si fondeva con la sabbia mi regalò un'emozione immensa. Una rivelazione. Il mio destino sarebbe stato segnato da quell'esperienza: avrei fatto la scultrice».
Jane scherza: «Per fortuna, mi è capitato questo, se avessi dipinto come avrei potuto competere con la pittura di mio padre?». Talvolta il destino porta a recuperare le fratture della vita. Dopo 23 anni di lontananza dal padre, casualmente lo incontra: «In una scuola dove insegnavo, una collega mi disse: guarda, c'è tuo padre. Il mio primo sentimento è stato di terrore. Non sapevo cosa fare, né cosa dire. Lui mi abbracciò, in silenzio. In quel momento affiorò il ricordo di quand'ero bambina, mi tornò alla mente il suo corpo grande, il suo abbraccio caldo, il sorriso affettuoso. Ma l'incontro fu anche formale, a suo modo freddo, senza concedere granché ai sentimentalismi. Era un uomo schivo, difficile, duro. Ci incontrammo di nuovo molte volte, era contento delle mie scelte, gli piacevano le cose che facevo. Mi ripeteva: "Vai avanti". Un giorno, dopo aver visto tutto quello che avevo fatto, mi disse: "Mi devi insegnare a scolpire"».
Jane ricorda quell'affetto ritrovato. Ma non era soltanto l'incontro tra un padre e una figlia. Era anche il confronto tra due artisti diversi per generazione, ma entrambi maturi. Jane ricorda le parole del padre sul suo stesso lavoro: «Mi ripeteva: "Voglio fare il reale, voglio che la mia pittura sia viva. La scultura è stato il mio primo amore. Ma quel primo amore è troppo difficile per me"». Jane McAdam Freud continua: «Quando diceva "reale", voleva dire tridimensionale. E guardando la sua pittura, con quei colori densi, stratificati e materici, si coglie una necessità tridimensionale, quasi scultorea. Mi piace la scultura perché non è illusione, è più vicina alla vita. Ho bisogno di verità».
La cucina ora è avvolta dal silenzio. La luce sta calando e dalle finestre si vede lo studio illuminato, un piccolo prefabbricato che riempie il giardino. Un'altra tazza di tè e Jane continua: «Chiesi a mio padre con insistenza di fargli un ritratto. Odiava posare. Poi sfinito dalle mie richieste un giorno rispose: "Solo quando sarò legato e non riuscirò a muovermi dal letto". Ridevamo spesso di questo». Così è stato: mentre Lucian Freud giace sul letto di morte, Jane affronta i propri fantasmi ritraendo la figura del padre. Un gesto d'amore: «Un modo per tenerlo in vita», dice sottovoce. «Sì, un modo per tenerlo in vita», ripete. Per Jane è un bisogno primario, di catarsi e ricongiunzione. Da lì, parte un viaggio nelle proprie radici: realizza molti disegni e sculture dedicate al padre. Ma è come se Jane fosse alla ricerca di un lessico familiare: comincia così a disegnare la collezione di reperti d'arte antica che accompagnavano la vita del bisnonno Sigmund: piccole sculture delle civiltà più antiche: etrusche, maya, romane, africane, egizie. Si tratta di un universo di divinità, simboli di fertilità e potenze occulte. Jane trova questa collezione nella casa museo di Sigmund, a Londra. In qualche modo, torna davvero a casa. Le statuette sono tutt'ora appoggiate sul tavolo di lavoro, accanto al celebre divano con i tappeti delle sedute psicoanalitiche. «Lo accompagnavano, sempre. Le spostava costantemente, erano i suoi guardiani di protezione. Le portava addirittura a mangiare con sé. Le metteva accanto al piatto, vicino al bicchiere. Muoveva le statuette come fosse il gioco di un bambino». Poi ironicamente dice: «Chissà, forse era uno scultore frustrato».
Tutto questo appare per lei come una chiave fondamentale per riconnettersi con una parte di sé: «Arte come terapia? Sì, l'arte può essere una importante terapia, è un importante strumento per trovare una serenità. È un fuoco che riscalda ma può anche distruggere. Sicuramente è essenziale per la mia esistenza. Ma non ho mai fatto la tradizionale psicoanalisi. Ho fatto delle terapie familiari. Col matrimonio ho incontrato i figli che mio marito aveva dalla precedente unione. Dovevo in qualche modo imparare a essere madre, a farmi accettare e imparare a educare. È stato importante. Credo che si dovrebbe imporre ai politici di fare analisi, per conoscere se stessi e imparare ad affrontare una posizione di responsabilità».
Jane incarna l'idea di una psicoanalisi che si fa arte. È appena tornata da un viaggio: «Sono andata in Medio Oriente per un progetto culturale multireligioso sul tema dell'arte e del dialogo. Questa esperienza mi ha insegnato una cosa: in quei tormentati luoghi tutti cercano Dio. E simbolicamente cercano il padre e la madre, la rassicurazione, l'amore che non c'è più. Oggi, quello che comanda è l'irrazionale. Siamo come animali nel mondo. E non vogliamo accettare e riconoscere la nostra parte irrazionale, animalesca. In fondo, lavoro costantemente su questo dualismo. Freud diceva: se cerchiamo e troviamo la parte nascosta del nostro io riusciamo a risolvere ogni cosa». Jane parla davanti al busto di suo padre, poi si ferma, sorride e con dolcezza, come se Lucian fosse vivo, lo sfiora con una carezza.

Corriere Salute 9.12.12
Doc Holliday. La tubercolosi lo costrinse a recarsi nel West. Dove imparò a usare la “sei colpi”
Il dentista pistolero all'O.K. Corral per la Tbc
di Alberto Paleari


«In pochi istanti tre uomini sono stati scagliati nell'Eternità»: l'edizione del 27 ottobre 1881 del quotidiano di Tombstone, poco più che un ammasso di turbolente case nella pianura dell'Arizona meridionale, così titolava la notizia della sparatoria del giorno prima. L'articolo occupava una sola colonna, perché già a quel tempo gli annunci pubblicitari requisivano spazio nella carta stampata, ma l'impressione suscitata nel pubblico, prima locale poi nazionale, con il tempo si fece enorme.
Quella che è passata alla storia come «the Gunfight at the O.K. Corral» vide affrontarsi due gruppi di uomini armati. Da una parte il clan dei fratelli Earp, guidati da Virgil, sceriffo della cittadina, ma meno carismatico del fratello Wyatt; dall'altra i fratelli Clanton, rinforzati dai McLaury. Quattro contro quattro. Da una parte gli uomini della legge, anche se non tutti immacolati nella fedina penale e nella coscienza, dall'altra un gruppo di cowboy dal poco raccomandabile presente. Tra loro una lunga serie di provocazioni, di accuse, di atti intimidatori, alcuni arresti, minacce alle mogli e sfide da sempre sul punto di esplodere. Poi qualche sciantosa oggetto di contesa e furti di bestiame. Lo sceriffo della Contea, John Behan, aveva tentato fino all'ultimo, ma senza troppa convinzione, di evitare la più che probabile strage, ma inutilmente.
Del resto Behan odiava gli Earp e gli Earp odiavano lui, quindi perché opporsi al destino? Conteggio finale: tre morti ammazzati, tre feriti e due senza nemmeno un graffio. Il tutto in poco più di trenta secondi in Fremont Street, davanti alle stalle dell'O.K. Corral e di fronte al laboratorio fotografico di un certo Fly.
Era il 26 ottobre del 1881. Tra i feriti c'era John Henry Holliday, scontroso e vecchio amico di Wyatt Earp, pistolero con qualche cadavere vero o presunto sul proprio conto e la fama di giocatore d'azzardo dalla mano veloce sia con la sei colpi sia con le carte. Holliday, insieme con l'amico Wyatt, venne processato e alla fine entrambi furono assolti in quanto «ufficiali in servizio con l'incarico di arrestare e disarmare uomini decisi e determinati, esperti nell'uso delle armi e pronti a usarle». I tre morti, i due McLaury e Billy Clanton, erano stati esposti, ognuno nella propria cassa, nella vetrina di un emporio.
Holliday aveva allora trent'anni; era alto, slanciato, con gli occhi azzurri, un bel paio di baffi e un carattere volitivo e poco malleabile. Era nato a Griffin, nella Georgia, e aveva studiato grammatica, retorica, storia, oltre a latino, greco e un po' di francese. Era tutt'altro che uno sprovveduto. A 19 anni si era trasferito a Filadelfia, dove due anni dopo aveva conseguito il diploma di dentista presso il locale College of Dental Surgery. John Henry per tutti divenne "Doc", dottore.
Poteva essere l'inizio di una vita tranquilla e rispettata. Infatti le cose si erano avviate per questa strada dopo che Doc aveva deciso di trasferirsi ad Atlanta e aprire uno studio per la cura dei denti. Durò pochi mesi. Quasi subito dopo avere iniziato l'attività medica, ecco il colpo che gli avrebbe condizionato la vita.
Gli venne diagnosticata la tubercolosi, quasi certamente ricordo indelebile della madre, uccisa da quello stesso male quando il ragazzo aveva quindici anni. A quell'epoca c'era ben poco da fare contro la tubercolosi. Niente radiografie, niente antibiotici. Veniva diagnosticata per così dire a orecchio e osservando l'inevitabile espettorato.
I medici alzavano gli occhi al cielo e consigliavano di trasferirsi in un clima caldo e asciutto. Di andare a sud. Holliday andò a Dallas, nel Texas, con l'intento di proseguire l'attività di dentista, ma nessuno voleva spalancare la bocca davanti a un medico che a tratti si contorceva in preda a violenti attacchi di tosse. Per convincere la gente non bastò certo il generoso annuncio apparso su un quotidiano di Dodge City (dove nel suo peregrinare Doc sarebbe poi arrivato), che avvertiva: «I pazienti insoddisfatti saranno rimborsati». Fu così che il mancato dottore scoprì che il gioco d'azzardo poteva essere un'occupazione più redditizia. L a nuova attività gli procurò subito una denuncia per gioco illegale e un'altra come conseguenza di una sparatoria. Primi inconvenienti di una vita che ora si prospettava molto movimentata. Un giorno si sparse la voce che Holliday era morto, ucciso da un collega di tavolo verde.
N on era morto, ma era stato ferito. Rimessosi in piedi, Doc si recò a Fort Griffin nel Texas, una tappa fondamentale per la sua breve esistenza. Là incontrò la compagna della sua vita, Mary Katharine Horony detta Big Nose Kate (Kate dal grande naso), e Wyatt Earp. A Wyatt si legò con una ferrea amicizia, segnata da reciproci salvataggi nel corso di violente risse da saloon o agguati in vicoli malfrequentati, culminata nella sfida all'O.K. Corral, alla quale, dopo una notte di convulsioni Holliday, si presentò indossando la lunga palandrana propria dell'abbigliamento dei cowboy sotto cui celava le armi. Dissero che Doc fu il primo a fare fuoco. La faida fu segnata da uno strascico di morti ammazzati, tra questi Virgil e Morgan Earp, e di feriti da entrambe le parti, con conseguenti arresti e processi, mentre Wyatt diventava sceriffo e Holliday prendeva un'altra strada, uscendo indenne da un ennesimo arresto con accusa di omicidio. Non fu l'unica occasione in cui il mancato dentista riuscì a farla franca in forza di una pur precaria presunzione d'innocenza.
Intanto in quegli anni la sua salute peggiorava a vista d'occhio. Corroso dalla tubercolosi e dal whisky, si diceva che quando Doc si metteva di profilo era difficile vederlo, tanto era ridotto a pelle e ossa. Anche le sue qualità di giocatore d'azzardo ne subivano le conseguenze: le mani tremavano, lo sguardo si appannava, le crisi di tosse, improvvise e devastanti, si facevano sempre più frequenti. All'inizio del 1887 si trasferì a Gleenwood Springs, nel Colorado, insieme con la fedele Kate, confidando nelle doti taumaturgiche di una locale sorgente. Ma invano.
R acconta la leggenda che, ormai incapace di alzarsi dal letto, tra una sorsata di whisky e una di laudano, osservando i suoi piedi nudi, esclamasse: «Dannazione, questa è proprio buffa!». Aveva sempre pensato di morire in piedi, con gli stivali, durante una sparatoria. Chiuse definitivamente gli occhi l'8 novembre del 1887 a 36 anni.
L'amico Wyatt lo descrisse in questo modo sul San Francisco Examiner: «Doc fu un dentista diventato giocatore d'azzardo per necessità; un gentiluomo che la malattia rese un vagabondo, l'uomo più pronto e veloce con la sei colpi che io abbia mai incontrato».

Corriere Salute 9.12.12
L’Oms: Anche la salute mentale è una priorità


«Non c'è salute senza salute mentale». È stata questa, già nel 2005, la dichiarazione finale dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) al termine di una conferenza che ha riunito i ministri della Sanità europei nel a Helsinki. In questo incontro è stato sottolineato che la promozione della salute mentale, la prevenzione, la cura, la riabilitazione dei problemi mentali sono una priorità.
Sui servizi offerti agli italiani in questo campo, dal "Rapporto Audit civico nella salute mentale", realizzato da Cittadinanzattiva-Tribunale per i diritti del malato nel 2010, emerge, in generale, una situazione discreta, seppure con evidenti contraddizioni: i servizi di salute mentale in Italia sono di qualità dignitosa, tuttavia sussistono troppe differenze sul territorio, non solo da regione a regione, ma perfino da struttura a struttura di una stessa Asl. Sicurezza dei pazienti, accessibilità, informazione
e integrazione socio-sanitaria, sono i principali aspetti critici rilevati.

Corriere Salute 9.12.12
Che cosa si può fare per non sentirsi sempre più «a disagio»
Tra le cause, il venir meno delle certezze sociali, la fragilità di fronte alle malattie e legami affettivi deboli


Depressione, disturbi dell'umore, d'ansia e del comportamento alimentare: nel 2015 saranno le malattie psichiche più diffuse nella popolazione italiana e potrebbero riguardare addirittura un italiano ogni quattro.
Questo almeno, stando alle stime rese note durante l'ultimo convegno della Federazione Nazionale delle Strutture Comunitarie Psico-Socio-Terapeutiche (Fenascop), ovvero le comunità che si occupano della cura del disagio psichico.
Le categorie considerate più a rischio dagli esperti sono i giovani fino a 25 anni (l'80 per cento dei casi di disagio psichico infatti ha gli esordi entro questa età) e le donne, che hanno il doppio delle probabilità di ammalarsi di depressione rispetto agli uomini, mentre ragazze giovani e giovanissime, tra i 12 e i 20 anni, restano le più esposte al pericolo di manifestare disturbi alimentari.
In tutto, queste stime prevedono che 3.300.000 italiani potrebbero soffrire di disturbi d'ansia, 2.100.000 mila si troverebbero a lottare con depressione e disturbi dell'umore e 1.200.000 connazionali sarebbero alle prese con disturbi del comportamento alimentare.
«Un'emergenza silenziosa e trascurata, che avrà anche un costo sanitario e sociale enorme: per intenderci, superiore a quello delle malattie cardiovascolari e dei tumori — dice Giovanni Giusto, presidente nazionale di Fenascop —. E si tratta di numeri destinati a crescere, a cui va fin d'ora aggiunto un ulteriore 10 per cento della popolazione che soffre di disagi psichici lievi, fra cui i disturbi del sonno oppure lievi attacchi di panico, che potrebbero però essere sintomi iniziali di altre patologie». Le cause di questo sempre più diffuso disagio?
Tante, dal crollo delle certezze a causa della crisi economica ai cambiamenti nella società: famiglie e coppie che si spezzano in primis, vicende che hanno spesso come conseguenza una crescente «solitudine», oltre al potenziale disagio dei figli.
E poi i ritmi di vita frenetici, i cambi delle abitudini che favoriscono l'isolamento, lo stress. Infine, l'invecchiamento della popolazione, che incide soprattutto con un incremento delle persone colpite da demenza e Alzheimer, con tutte le problematiche connesse a queste malattie.
Secondo molti esperti, poi, l'aumento dei casi di disagio psichico è in parte legato anche a una crescente attenzione e sensibilità delle persone verso la salute mentale e in particolare verso quei disturbi meno eclatanti che negli anni passati non venivano riconosciuti.
Resta il fatto che un recente studio dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (mirato a valutare la diffusione delle varie malattie e i relativi costi socio-economici) ha evidenziato che i disturbi relativi alle malattie mentali rivestono un'importanza crescente in tutti i Paesi industrializzati sia per il numero dei soggetti colpiti, sia per l'elevato carico di disabilità e di costi economici e sociali che comportano per le persone colpite e per i loro familiari. Già oggi, circa 450 milioni di persone nel mondo — fa sapere l'Organizzazione Mondiale della Sanità — manifestano disturbi neurologici, mentali e comportamentali. E nel nostro Paese, secondo quanto riportato dal Ministero della salute, circa otto connazionali su cento soffrono di disturbi mentali: «anche in Italia — sottolinea il Ministero — come in altri Paesi industrializzali, i disturbi mentali costituiscono una delle maggiori fonti di carico assistenziale e di costi per il Servizio sanitario nazionale. Si presentano in tutte le classi d'età, sono associati a difficoltà nelle attività quotidiane, nel lavoro, nei rapporti interpersonali e familiari e alimentano spesso forme di indifferenza, di emarginazione e di esclusione sociale».
Per Egidio Moja, Ordinario di Psicologia clinica alla Facoltà di Medicina dell'Università degli Studi di Milano e direttore del reparto di Psicologia clinica all'ospedale San Paolo, un grande aiuto si avrebbe aumentando la presenza degli psicologi in ospedale.
«I numeri dell'Organizzazione Mondiale della Sanità comprendono anche le persone colpite da una malattia organica che spesso sviluppano ansia, depressione e altri disturbi, così come accade ai loro parenti coinvolti inevitabilmente da queste dolorose circostanze — spiega infatti Moja —. In quest'ottica esistono due grandi fronti su cui si può intervenire per prevenire un'ampia fetta di disagi: dare sostegno psicologico a pazienti e parenti che ricevono cure o diagnosi difficili, e fornire assistenza psicologica a chi è ricoverato per una malattia cronica».
Gli esempi sono moltissimi e lampanti: «Basta girare per i reparti dell'ospedale — prosegue Moja — e pensare a chi si trova a dover fare i conti con una menomazione fisica, una diagnosi di tumore, una grave patologia pediatrica. O ancora basta immaginare le centinaia di situazioni altamente drammatiche che finiscono al Pronto soccorso ogni giorno: lo sguardo e l'aiuto di uno psicologo possono contribuire in maniera pratica ad assistere le persone. Invece, ancora oggi troppo spesso si cura il corpo e si trascura la mente». Nel suo reparto, all'ospedale San Paolo di Milano, Moja ha organizzato una serie di gruppi di sostegno, per una ventina circa di patologie diverse, a cui vengono inviati i malati ricoverati in altri reparti.
Ci sono, per esempio, corsi psicoeducativi dedicati ai diabetici, oppure i corsi per chi viene sottoposto a Cpap, metodo di ventilazione meccanica respiratoria utilizzato principalmente nel trattamento delle apnee del sonno. In questi casi, infatti, si ha bisogno di aiuto per gestire meglio l'impatto emotivo della malattia, proprio come lo stesso tipo di aiuto serve ai pazienti in cura con terapia anticoagulante orale (di grande e crescente importanza per la cura e la prevenzione delle malattie tromboemboliche e della patologia vascolare in genere). «In gruppo, in una decina o anche meno di sedute — spiega Moja — i malati imparano molto sulla loro patologia, capiscono meglio la cura che devono seguire e fanno domande che difficilmente oserebbero fare in altri contesti. Con enormi vantaggi: non solo, così, il paziente è davvero al centro della cura ed è "competente", ma anche la sua qualità di vita è migliore, e lui stesso in conclusione è più sereno».
«Insomma, curando fin dall'inizio la sofferenza psicologica legata ad altre malattie — conclude Egidio Moja — possiamo prevenire disagi che rischiano altrimenti di restare inespressi a lungo, e che potrebbero perciò palesarsi solo anni dopo, in forme molto più gravi».

Corriere Salute 9.12.12
Psicologi a portata di mano
«Sedute» in farmacia e in ambulatorio


Lo dimostrano diverse ricerche: solo una minoranza dei pazienti riceve un trattamento adeguato. La presenza di uno psicologo in farmacia o nella stanza del medico di base potrebbe aiutare per intercettare i bisogni in uno stato iniziale? Nel nostro Paese sono stati fatti entrambi gli esperimenti.
Nel 2009 un progetto pilota è partito nelle farmacie di Milano: «Esistono bisogni dei cittadini che non trovano risposta perché il disagio non viene rilevato, le persone non hanno l'idea di rivolgersi a uno psicologo o non hanno i mezzi economici per pagarlo. Così ho pensato di sfruttare la capillarità delle farmacie sul territorio e la fiducia della gente nei confronti dei farmacisti — chiarisce Enrico Molinari, presidente dell'Ordine Psicologi della Lombardia e ideatore del progetto milanese —. Il test è stato fatto in 24 farmacie per quasi tre anni». L'esperienza è riuscita, dimostrando di cogliere i disagi agli stati iniziali: evitando l'intasamento dei Cps (i Centri per la salute mentale territoriali) o dei Pronto soccorso ospedalieri, impedendo che i disturbi si aggravassero e indirizzando i singoli casi ai servizi idonei. Oggi esperienze analoghe sono in corso a Torino, Bologna e Roma.
La sinergia fra medico di base e psicologo è stata invece al centro di un convegno appena conclusosi a Roma e organizzato dal Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica dell'Università La Sapienza, diretto da Renata Tambelli. «La presenza di entrambe le figure nell'ambulatorio del medico di famiglia è da 12 anni un progetto pilota della Scuola di Specializzazione in Psicologia della Salute della Sapienza che ha coinvolto a turno 14 studi medici — spiega Luigi Solano, docente alla Facoltà di Medicina e Psicologia, promotore del progetto —. Abbiamo appurato sul campo che una visita congiunta è utile per risolvere i disagi più leggeri, per aiutare le persone a prendere coscienza di avere un problema, per incanalare verso i referenti adeguati i disturbi più seri. E si risparmiano i costi di visite, analisi, farmaci spesso inutili per risolvere il disagio che può celarsi dietro sintomi fisici». Diversi studi hanno infatti dimostrato che almeno la metà delle richieste che pervengono ai medici di medicina generale esprimono dietro un sintomo somatico disagi di tipo relazionale o esistenziale. «Lo confermano i dati del sondaggio (condotto dalla società di ricerca Sinopia nel settembre 2012 su mille connazionali) presentati durante l'incontro — aggiunge Tambelli —. I sintomi del disagio ("disturbi psicosomatici" come colite, mal di testa, insonnia, e disturbi psicologici come ansia e depressione) interessano il 67% degli intervistati e risulta una forte correlazione tra difficoltà di vita e manifestazione di sintomi psicofisici. Ma il pregiudizio nei confronti dei servizi di salute mentale spesso impedisce alle persone di chiedere aiuto a psicologi o psichiatri. La resistenza viene superata nel momento in cui l'offerta di tipo psicologico viene proposta al pari di quella medica, cioè rivolta a tutti. E proprio chi non chiede aiuto (specie i residenti al Nord e i giovanissimi) riconosce maggiormente l'utilità di uno psicologo dal medico di famiglia. La copresenza medico-psicologo ha raccolto comunque ampi consensi: sono favorevoli sette interpellati su dieci».
Ma al di fuori di queste particolari esperienze, come affrontano gli italiani il disagio psichico e dove si rivolgono? «Cerca sostegno solo il 41% di chi ne ha bisogno, per difficoltà ad esporsi, paura di stigma sociale, inconsapevolezza della relazione tra eventi di vita e malattia, difficoltà nel reperire il tipo di aiuto necessario — risponde Brunella Gasperini, coordinatrice dell'indagine insieme a Massimo Galimi —. La tendenza è poi quella di interpretare il disagio prettamente in termini fisici, ignorando quelli emotivi: ciò fa dedurre che buona parte dei problemi si riversino negli ambulatori del medico. E c'è un disagio piuttosto diffuso al quale corrisponde una incapacità marcata delle persone, soprattutto i più giovani, a tradurlo in una richiesta di aiuto: così, se il 17% di chi ha bisogno arriva da psichiatra o neurologo e il 19% consulta psicologi o psicoterapeuti, altri si rivolgono a figure varie, i sacerdoti, per esempio, ma anche i filosofi new age».

Corriere Salute 9.12.12
A chi rivolgersi. La rete di igiene mentale
Tanti servizi molta confusione


Una volta che si percepisce un problema, a chi chiedere aiuto? La risposta non è semplice perché in Italia, dopo la Legge Basaglia (Legge 180 del 1978), si è passati da una strategia di cura incentrata sul ricovero ospedaliero a una rete imperniata sui servizi territoriali di igiene mentale, la cui attuazione è stata demandata alle Regioni. «Il risultato odierno è un panorama assai diversificato — dice Rita Gualtieri, past president della Società Italiana Psicologi Servizi Ospedalieri e Territoriali —. I "servizi di psicologia" non sono diffusi in maniera uniforme e sono organizzati in modo diverso dalle varie Asl, così spesso il disagio e le problematiche non classificabili come patologie psichiatriche faticano a trovare accoglienza». Esistono dipartimenti e centri di salute mentale, centri diurni, strutture residenziali, servizi psichiatrici di diagnosi e cura, day hospital. E poi ancora consultori, strutture riabilitative, Sert (i servizi per le tossicodipendenze), oltre naturalmente ai reparti ospedalieri e agli psicologi presenti in alcuni reparti. In pratica non esiste percorso «standard». «Le richieste sono tante e le risorse pubbliche molto limitate: bisogna fare ordine per poter intervenire con maggiore efficacia — aggiunge Gualtieri —. Per ora la soluzione più valida è parlare con il medico di famiglia che deve valutare le necessità del paziente e indirizzarlo al referente specifico».
«La rete attuale di servizi così frammentata contribuisce a creare difficoltà di accesso, per burocrazia ma anche per un fattore culturale — dice Nicolino Rossi, coordinatore del Servizio d'assistenza psicologica in oncologia al Policlinico Sant'Orsola Malpighi a Bologna —. Non c'è abbastanza attenzione per la sofferenza psicologica del paziente, anche all'interno degli ospedali. I medici, di base o i vari specialisti nei reparti, sono il punto centrale della "cinghia di smistamento": sono loro che devono intercettare il disagio e indirizzarlo al centro idoneo più vicino».
È questo il modo migliore anche per contenere la spesa. Calcoli fatti dall'Oms testimoniano che molti disturbi mentali sono dispendiosi per la società: ad esempio il 6,4 per cento dei lavoratori ha in un anno un disturbo depressivo, con in media cinque settimane di assenza dal lavoro. A tal proposito, nel 2011, la London School of Economics ha pubblicato i risultati di uno studio le cui conclusioni indicano che una programmazione mirata alla prevenzione e alla cura di depressione e disturbi d'ansia attraverso un intervento psicologico, piuttosto che esclusivamente farmacologico, riduce drasticamente la spesa sanitaria inglese.
«Anche per questo è fondamentale individuare precocemente gli "stati mentali a rischio" — concludono gli esperti —. L'intervallo fra l'esordio dei sintomi e l'inizio di una cura è strategico: prima s'interviene nel modo giusto, più veloce e completo sarà il processo di guarigione e minori i costi sanitari».

Corriere Salute 9.12.12
Le difficoltà compaiono sempre più presto

qui

Repubblica 9.12.12
Liliana Cacvani
"Foucault intervenne per difendere il ‘Portiere di notte´ allora eravamo europei oggi siamo animali marginali"
Rifiutai la cinepresa che mio padre volle regalarmi
Dopo un gesto di rottura mi chiedo: e ora che accadrà?
intervista di Antonio Gnoli


La regista racconta la sua vita, i film e di quando il cinema era una comunità che andava da Godard a Bertolucci

Tra tutti i registi Liliana Cavani è la più appartata. Non presenzia, non rilascia, quasi mai, dichiarazioni e quando proprio è incalzata dagli eventi dice, con cortesia, di non aver nulla da commentare. C´è il cinema, quello che ha girato, che parla al suo posto. Anche qui, a dire il vero, si nota un certo imbarazzo a commentare, a spiegare, a orientare convinta com´è che un autore tende, anche involontariamente, a giustificare e a volte a mistificare il proprio lavoro. È timida Liliana Cavani. Così a me appare. Di quella timidezza un po´ aspra e sospettosa, capace di improvvise aperture: «Non so definirmi» dice di sé. «Però mi sento ancora viva e lontana dai marmi dell´accademia», aggiunge. Un libro di Francesca Brignoli (edizioni Le Mani) ne ripercorre la carriera. Lo sfoglio e penso che il suo cinema, una ventina di film, è un distillato di rigore, di sensualità, di tormento. Come se l´occhio della macchina da presa venga attratto dalle zone meno prevedibili dell´esistenza umana, le più ardue e instabili. A cominciare da quel gioiello, Francesco d´Assisi, che fu il suo esordio: «Parliamo di oltre mezzo secolo fa. Era il mio ingresso vero alla regia. Però avevo girato alcuni importanti documentari per la Rai. Tra questi una Storia del Terzo Reich che fu una delle prime testimonianze su cosa era stato l´antisemitismo in Germania. E sulla difficoltà che incontrammo nel raccontare quell´immensa follia».
Difficoltà di che genere?
«Riuscii ad avere i filmati inediti, che erano conservati a Washington, su quello che accadde nei lager nazisti. Fu per me scioccante vederne le immagini. Allora la televisione aveva solo due canali e si pensò che potessero andare sul primo. Ma ci fu un veto dell´ambasciata tedesca. Alla fine potemmo utilizzare solo qualche scena per la seconda rete. Ricordo che la delusione fu tanta».
Lei non nasceva documentarista.
«Mi ero laureata in storia della lingua su un manoscritto del Quattrocento. Ma non vedevo la filologia nel mio futuro. Sfruttai l´occasione di fare un concorso in Rai nei primi anni Sessanta. Lo vinsi, come lo avevano vinto qualche anno prima a Torino Eco e Vattimo. Ma non volevo fare la funzionaria. Nel frattempo, mi ero anche diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia. Per cui proposi alla Rai, che mi aveva assunto, di cambiare il contratto. Volevo fare cinema e farlo liberamente».
Da cosa nasceva tanta determinazione?
«Da una passione che mi ha trasmesso mia madre. Quando ero piccola la mamma mi lasciava spesso al cinema Fanti di Carpi. Era un posto pulcioso. Entravo al pomeriggio e poi alla sera tornava a prendermi».
E suo padre?
«Papà era un architetto urbanista. Lavorava spesso all´estero. Passò un lungo periodo in Iraq, almeno fino a quando ci furono gli inglesi. Ricordo che ogni tanto andavo a trovarlo a Roma. Non c´era un gran rapporto con lui. Non si era comportato bene con mia madre. E quando volle regalarmi la sua cinepresa rifiutai. Non desideravo nulla da lui. Volevo solo percorrere la mia strada».
Francesco uscì quasi in contemporanea con Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini. Due opere a sfondo religioso in un Italia che si andava allontanando dalla fede.
«Il film di Pier Paolo era apparso qualche mese prima. Ricordo che la teologa Adriana Zarri ci intervistò proprio su questo tema della fede perduta. Ad ogni modo Francesco fu mostrato al Festival di Venezia. I fascisti lo attaccarono. Ma ebbe un grande riconoscimento di critica e di pubblico. Quell´anno Rossellini presentava La prise de poivoir par Louis XIV. Ci intervistarono spesso insieme: la giovane e il grande maestro».
Che ricordo ha di Rossellini?
«Non ho mai sentito nessuno raccontare tanti aneddoti su di sé e sul proprio mestiere».
E invece Pasolini?
«Era intelligentissimo e colto, ma anche sensibile e impulsivo. Da allora cominciammo a frequentarci. Ci vedevamo spesso a casa di Laura Betti. Le sue cene me le ricordo. Venivano Moravia e Dacia Maraini, qualche volta Isabella Rossellini e il suo compagno di allora: Martin Scorsese. La prima volta Laura mi disse: stasera ci sarà anche la Martina, intendendo Scorsese. Declinava i nomi dei maschi al femminile».
Per vezzo?
«Perché si divertiva. Per lei non contava il genere ma l´intelligenza. Era dotata di una finta cattiveria che adoravo. Raramente mi è capitato di conoscere una persona così ospitale e accuditiva come Laura. Si incupì molto dopo la morte di Pier Paolo».
Lei come reagì a quella tragedia?
«Ero a Los Angeles quando proprio la Betti mi fece una telefonata notturna: "Liliana, hanno ammazzato Pier Paolo". "Ma che dici? Sei ubriaca!", reagii incredula».
Cosa pensa del cinema di Pasolini e del fatto che oggi alcuni lo considerano eccessivamente intellettuale?
«Non me la sento di giudicare il suo cinema. Per me la sua figura si intreccia ai sentimenti che abbiamo condiviso. Faceva film da uomo colto. Credo che si sia sempre portato dietro la vocazione all´insegnamento e alla pedagogia. Sapeva però essere molto controcorrente».
E lei?
«Io cosa?».
Sente di vivere controcorrente?
«Non spetta a me dirlo. Certo, il fatto di aver vissuto con un nonno materno molto libero e profondamente antifascista, mi ha trasmesso un certo spirito libertario. Al tempo stesso, quando a Carpi arrivava qualche alto gerarca da Roma, tutti in famiglia ci mettevamo in allarme. Quindi, la mia reazione al conformismo è al contempo di ansia e liberazione. Dopo un gesto di rottura mi chiedo sempre: e ora che cosa accadrà?».
Una domanda che si sarà rivolta quando uscì Il portiere di notte.
«Eravamo un po´ preoccupati dalle reazioni e dalla censura. Per questo il produttore americano, Bob Wilson, suggerì di farlo uscire prima a Parigi».
E come andò?
«I giornali e le riviste dibatterono in modo serio se si poteva affrontare il nazismo mettendo al centro un eroe negativo. Ricordo che Michel Foucault difese il film mentre i Cahiers du Cinéma lo attaccarono. Per me Il portiere di notte era una metafora sul male che ci contagia e su un popolo che in parte aveva rifiutato la colpa».
Non sapevo che Foucault fosse intervenuto a suo favore.
«Gli era molto piaciuto. In seguito ci vedemmo qualche volta a cena. Era charmant e immensamente colto. Una sera ci divertimmo enormemente. Mi portò a sentire la sua amica Hanna Schygulla che interpretava le canzoni di Marlene Dietrich. Altri tempi».
Lo dice con rimpianto.
«Semmai con la consapevolezza che non torneranno. C´era una comunità intellettuale che non aveva confini e si frequentava intensamente. E quanto al cinema non c´era quello italiano, francese, tedesco. Ma un cinema europeo dentro il quale trovavi Fassbinder e Bertolucci, Godard e Bellocchio. C´era molta condivisione. Oggi siamo diventati animali marginali. Senza più lo sguardo internazionale».
A questo proposito, lei ha spesso lavorato con attori internazionali. Come riuscì ad avere Dirk Bogarde nel Portiere di notte?
«Fu meno complicato del previsto. Non volevo un macho. Dirk che aveva girato La caduta degli dei mi pareva perfetto. L´andammo a trovare, insieme alla mia agente Carol Levi non lontano da Nizza. Facemmo una cena molto gradevole io, Carol, Dirk e il suo compagno, un colonnello inglese molto simpatico. Per tutta la sera Dirk non fece che bere whisky e io birra. Alla fine eravamo completamente ciucchi e francamente non ricordo di che cosa parlammo».
Accettò subito il ruolo?
«Ci dimenticammo di fargli firmare il contratto, e soprattutto di parlargli della sceneggiatura. Accettò per simpatia. E quando lesse il copione, mi chiese solo di prendere nel ruolo della contessa Simone Signoret. Ma lei non poteva per cui pescai Isa Miranda. Dirk rimase molto sorpreso. L´aveva conosciuta a Los Angeles in anni remoti e la considerava straordinaria. Il primo giorno le fece trovare sul set un enorme mazzo di rose».
Era un uomo generoso.
«Era di una finezza unica e il suo modo di fare ci contagiava. Ricordo la disperazione di Charlotte che negli ultimi tempi gli fu molto vicina prima che lui morisse».
Charlotte intende la Rampling?
«Era l´interprete femminile. Ricordo che quando il film fu presentato a New York, Bob Levine – che aveva portato La dolce vita in America – organizzò un pranzo al "Four Season". Venne anche Andy Warhol. Charlotte era molto preoccupata dall´atmosfera mondana e dal fatto che il giorno dopo avrebbe dovuto rilasciare molte interviste. A un certo punto sparì».
Cos´era accaduto?
«Si era rinchiusa nella toilette. La trovai impaurita. Mi disse che non voleva avere rapporti con la stampa. Mi disse che temeva di essere messa a nudo. Le risposi che doveva farle. Ne andava del film. Niente. La mattina dopo partì con il suo compagno neozelandese. La voleva lontana dalle città. Farla vivere insieme alle pecore».
Era una donna fragile?
«No, aveva solo un compagno sbagliato».
Diceva della presenza di Andy Warhol.
«Aveva un modo di sedere un po´ strano: con le mani appoggiate al mento e i gomiti sulle ginocchia. Immobile, con quella maschera sovrastata dalla sua parrucca gialla. Talmente innaturale da diventare un marchio inconfondibile. Lo vidi a più riprese. Era un uomo silenziosissimo».
Le piace l´arte contemporanea?
«Fa parte del nostro paesaggio, come il cinema, usa il linguaggio per immagini».
E la video arte?
«Ho visto troppe cose banali per piacermi. Forse dovrei insistere. Preferisco il cinema. Duttile. Paradossale. Vitale. Pensi a Fellini. Tutto il tempo non ha fatto che raccontare se stesso».
Chi è per lei il più importante regista italiano?
«De Sica lo trovo irraggiungibile. Se ci fosse un film da salvare salverei L´oro di Napoli. Lo vedi e capisci anche chi siamo stati noi italiani».
E cioè?
«Un popolo che proviene da una cultura antica. E mi fa disperare che la forza di questo paese sia stata sperperata. Mi indigna vederci fuori da tanta arte e tanta cultura. Indifferenti al bello».
Si sente una sopravvissuta del Novecento?
«Non sono mai stata un´entusiasta di quel secolo anche se ho provato a raccontarlo nella sua crudeltà e grandezza. Ma non mi sento una sopravvissuta. Penso anzi che ancora sia possibile rinascere e ricominciare. Forse sono un po´ ottimista, come quel mio nonno materno che mi insegnò a guardare alla vita con gli occhi della speranza».