martedì 11 dicembre 2012

l’Unità 11.12.12
Bersani rassicura l’Ue: «Il Pd è una garanzia»
La strategia del leader democratico, che consiglia al premier Monti di «restare fuori dalla contesa»
Primarie per le liste, forse una consultazione nei circoli tra gli iscritti
di Simone Collini


Non aveva cambiato strategia dopo la candidatura di Berlusconi, non cambia strategia ora che si discute l’ipotesi di una candidatura di Monti, al quale comunque consiglia di «rimanere fuori dalla contesa». E questo, perché Bersani resta convinto di due cose. La prima, che senza il Pd non si governa. La seconda, che «gli italiani di fronte alla scelta tra governabilità e ingovernabilità sapranno fare la scelta più saggia»: «Ho una fiducia enorme negli italiani, che hanno i fatti spiattellati davanti per poter riflettere», dice riferendosi alla ricandidatura di Berlusconi e non solo. E i sondaggi, che registrano un Pd tra il 33% (Ipr per Tg3, che dà anche Bersani premier al 37% contro il 23% di Monti e il 20% di Berlusconi) e il 38% (Demos) da questo punto di vista sembrano dargli ragione (il sondaggio Ipr dà anche un’eventuale lista Monti al 9% con il Professore, al 4% senza).
Il leader Pd rientra oggi a Roma, ma dalla sua Piacenza ha avuto modo di avere uno scambio di opinioni con i vertici del suo partito e anche con il leader centrista Pier Ferdinando Casini. L’intenzione di andare alle elezioni alla testa di una coalizione dei progressisti che in ogni caso sarà pronta a siglare un patto di legislatura con il centro moderato rimane immutata. Le uniche due novità ora riguardano la richiesta di un’anticipazione del voto e l’avvio di una campagna per rassicurare mercati e cancellerie europee circa l’affidabilità del centrosinistra per quel che riguarda gli impegni comunitari.
Non a caso da un lato il gruppo del Pd al Senato si è detto disponibile a ritirare gran parte dei 450 emendamenti alla legge di stabilità che erano stati presentati, in modo da andare ad un’approvazione a tempo di record e a uno scioglimento delle Camere prima di Natale (il che consentirebbe di votare il 17 febbraio). Dall’altro, ieri è uscita sul Wall Street Journal la prima di una serie di interviste attraverso le quali Bersani vuole mandare messaggi rassicuranti all’estero: le prossime saranno con il canale economico della tv americana Cnbc e con il quotidiano tedesco Die Welt (non casuale la scelta di Stati Uniti e Germania, visto che da qui arrivano le spinte maggiori per un Monti bis).
SENZA IL PD L’ITALIA È UN PROBLEMA
Ciò che impensierisce adesso Bersani non è un possibile ritorno di Berlusconi e nemmeno tanto uno stravolgimento del quadro politico in caso di candidatura di Monti. Sono però già evidenti le mosse di una serie di mondi finanziari ed editoriali, italiani più che stranieri, per i quali sembra andare bene tutto, tranne un governo a guida Pd. Per questo avvisa dalle colonne del Wsj che se dalle urne non dovesse uscire una chiara maggioranza non ci sarebbe un Monti bis «ma solo nuove elezioni» e anche che «commentatori e protagonisti della vita economica e culturale» farebbero bene a muoversi con cautela: «Attenzione a chi volesse in Italia spargere dubbi sull’affidabilità del centrosinistra. Sono convinto che senza il centrosinistra l’Italia potrebbe diventare un problema per l’Europa e per il mondo. L’Europa sa benissimo che noi siamo quelli di Ciampi, Padoa-Schioppa, Visco, Prodi, Amato e D’Alema, quelli che hanno aggiustato i conti, che hanno portato l’Italia nell’euro, che hanno tenuto una politica solidamente e fortemente europeista». Bersani si pone come il garante dell’affidabilità del centrosinistra, e agli interlocutori spiega che questa sarebbe rafforzata se Monti mantenesse un ruolo super partes. «Proprio perché Monti deve essere ancora utile a questo Paese sarebbe meglio che rimanesse fuori dalla contesa». Dopodiché sta a Monti decidere, precisa, e però è chiaro che se Monti scegliesse di schierarsi con una parte, dopo sarebbe più complicato coinvolgero in un ruolo che, ormai è piuttosto certo, ha il profilo del Quirinale.
GLI ISCRITTI SCELGONO I DEPUTATI
Ma questo è il tempo di pensare a questioni più ravvicinate. Con il voto il 17 febbraio, le liste dei candidati deputati e senatori andrebbero depositate il 14 gennaio. Il che vuol dire che le primarie per scegliere i parlamentari dovrebbero svolgersi al massimo domenica 6, in modo che gli organismi dirigenti del partito possano poi dare il via libera definitivo alle candidature. «Non garantisco i miracoli ma farò tutto il possibile per incentivare la partecipazione», assicura Bersani, che domani affronta la questione con la segreteria e i segretari regionali. Il leader del Pd non vuole nominare i parlamentari, e anzi denuncia il fatto che il Pdl abbia «preso in giro per sei mesi» le altre forze politiche impegnate nella discussione di una nuova legge elettorale che permettesse di superare il “Porcellum”. Un’ipotesi che si sta valutando al Nazareno è quella di valorizzare il ruolo dei quasi settecentomila iscritti al partito. Una consultazione nei Circoli sarebbe infatti fattibile anche in tempi molto stretti. Matteo Renzi potrebbe avere da obiettare? Vedremo. Intanto, se Berlusconi dice che gli lascia aperta la porta, il sindaco di Firenze lo invita a richiuderla. E Bersani manda a dire: «Berlusconi non cada nel ridicolo, con Renzi combatteremo insieme la battaglia elettorale».

l’Unità 11.12.12
Roberto Gualtieri: «Il centrosinistra terrà fede agli impegni europei»
L’europarlamentare democratico: «Monti non si faccia schiacciare su un’area che non pare in grado di raccogliere molti voti»
«I nostri partner possono star tranquilli: le posizioni populiste e antieuro sono minoritarie»
«Non esiste una risposta nazionale alla crisi. Per cambiare bisogna battersi dove si decide»
di Maria Zegarelli


ROMA «Non tentino di usare in Italia argomenti privi di fondamento in Europa. Qui sanno che il Pd è una forza europeista, attendibile e pronta a far fede agli impegni presi dal nostro Paese». L’europarlamentare Pd Roberto Gualtieri, fiuta l’aria che tira in questo inizio di campagna elettorale che non promette niente di buono. Sente gli argomenti del centrodestra e osserva i numeri ballerini di spread e borse. Ammetterà però che l’Europa ci guarda con una certa preoccupazione, Monti che si dimette e Berlusconi che torna in campo. Non teme una caduta di credibilità per il nostro Paese?
«Il ritorno di Berlusconi non può che suscitare un comprensibile allarme in Europa. Allo stesso tempo occorre sapere, e i nostri partner lo sanno benissimo, che questa irresponsabile posizione assunta dal Pdl accelera l’epilogo di una legislatura che comunque era giunta a compimento. Anzi, ho la percezione che dopo le primarie del Pd, in Europa si sia accolta con sollievo la prospettiva di un governo politico con una forte leadership e di una maggioranza parlamentare solida».
Dunque, le ripercussioni riguardano “solo” i mercati?
«Dico che le dimissioni anticipate di Monti e il ritorno di Berlusconi è normale che provochino maggiore attenzione sul nostro Paese. Ma non bisogna neanche cadere in una rappresentazione, più ad uso interno, secondo la quale in Europa non c’è fiducia nella possibilità di un normale processo democratico per determinare un governo affidabile e serio come sarebbe quello a guida Bersani».
Eppure è stato lo stesso Josè Manuel Barroso ad auspicare che le elezioni non fermino le riforme di cui l’Italia ha bisogno. «Quando in un Paese membro dell’Ue si cambia il governo l’Europa ribadisce la necessità di mantenere fede agli impegni presi, questo è normale e non ci vedo alcun allarme nell’appello di Barroso. La possibilità di un ritorno di Berlusconi è remota e questo lo sanno anche in Europa, mentre Bersani è stato chiaro sulle posizioni del Pd in caso di vittoria: il governo rispetterà l’obiettivo di medio termine assegnato all’Italia e la prospettiva del pareggio di bilancio anticipato al 2013 ma cercherà di raggiungerli prestando più attenzione alla crescita e all’equità. Peraltro lo stesso Barroso ha annunciato domenica scorsa l’esito di un intenso e lungo negoziato, per il quale anche l’Italia ha avuto un ruolo attivo, per l’introduzione in futuro di una maggiore flessibilità rispetto alla definizione degli obiettivi di finanza pubblica che salvaguardi un ruolo per gli investimenti pubblici. Non una vera e propria golden rule ma una potenziale svolta».
C’è il rischio che le elezioni si trasformino in un referendum sull’Europa stessa? «Ci saranno posizioni populiste e antieuropeiste durante questa campagna elettorale e sarà un elemento negativo, si tratta di posizioni minoritarie e questo dovrebbe rassicurare i nostri partner europei. D’altronde proprio in presenza di una doppia sfida antieuropeista, Grillo-Berlusconi, si rende indispensabile contrapporre un europeismo innovatore e non conservatore. Quella del Pd è l’unica posizione possibile per affermare le ragioni di un Europa migliore che non sia solo un meccanismo di vincoli ma sappia affiancare alla disciplina di bilancio la crescita, la solidarietà e la democrazia. Un’Europa più politica e attraversata da un dibattito di cui il Pd è da tempo parte integrante a pieno titolo. Tra pochi giorni il Consiglio europeo si pronuncerà sul progetto per “una genuina unione economica e monetaria”: è la più esplicita ammissione che l’attuale governance dell’euro è inadeguata. Monti in questi mesi ha avviato a fianco di Hollande un’azione per un riequilibrio delle politiche europee che il Pd proseguirà e rilancerà quando sarà al governo del Paese».
Monti dice anche: l’Europa non è perfetta ma gli Stati membri facciano autocritica.
«Bersani ripete in ogni occasione che non può esistere una risposta nazionale alla crisi e che occorre battersi nelle istituzioni dell’Ue affinché cambino le politiche economiche e sociali dell’Europa. Per raggiungere questo obiettivo è necessario un grande compromesso fra i principali Paesi e le maggiori famiglie politiche europee, ma occorre anche presentare ai cittadini una visione ambiziosa ed esigente dell’Europa». Eppure sono in molti a chiedere a Monti di tornare in pista per le elezioni. A partire da quel centro a cui il Pd guarda per un patto di legislatura. «Il Pd è convinto della necessità di un patto con le forze moderate ed europeiste. Monti valuterà se schiacciare la sua figura su un’area politica che non appare realisticamente in grado di ottenere un grande risultato in termini elettorali o restare fuori dall’agone politico per meglio dare un contributo prezioso al Paese. Per questo noi non lo tiriamo per la giacchetta».

l’Unità 11.12.12
Il partito della nazione
Il ritorno in campo di Berlusconi non è una buffonata: spinge una parte importante della destra sul terreno del sovversivismo
Ora Bersani potrà fare una campagna elettorale ponendosi come garante non solo di una parte ma del sistema democratico
di Alfredo Reichlin


Ci avviamo a una campagna elettorale che segnerà il futuro dell’Italia in uno dei momenti più drammatici della sua esistenza statuale.
La posta in gioco è molto alta, senza precedenti. Non è riducibile a un tradizionale scontro tra destra e sinistra all’interno di un assetto politico-istituzionale tranquillamente condiviso. Il ritorno in campo di Berlusconi non è una triste buffonata. È un fatto molto grave perché colpisce alle spalle un Paese che con immensi sacrifici stava riguadagnando il suo posto in Europa. Ed è ignobile perché spinge una parte importante del mondo di destra sul terreno del sovversivismo (vecchia pulsione delle classi dirigenti italiane) facendo leva con freddo cinismo sulle paure e sulle sofferenze reali del nostro popolo. Non mi rallegro affatto per la miserabile pochezza che tutto ciò rivela. Sento invece il peso (e l’orgoglio) delle responsabilità che a questo punto gravano sulle spalle del Pd. E chiedo scusa se penso per un momento ai sarcasmi di autorevoli amici per avere, anche in tanti articoli, sostenuto lo sforzo del Pd di costruirsi come un «partito della nazione» che andava oltre i vecchi confini della sinistra storica.
Avevamo ragione. Bersani potrà fare (credo e mi auguro) la campagna elettorale ponendosi come garante non solo di una «parte» ma del sistema democratico (moralità, lavoro, coesione sociale) e come il leader di una forza popolare che non ha padroni ma, in compenso, ha una idea forte dell’Italia. Forte e moderna. Perché anche questo deve essere molto chiaro. Stiamo attenti. Fare il «partito della nazione» non significa affatto mettere acqua nel vino del cambiamento. Del resto, se Bersani è stato in grado di vincere la partita delle primarie non è perché egli fosse l’«usato sicuro». Penso al contrario che la ragione di fondo sta nel fatto che il segretario aveva una idea più forte e più fondata del terreno reale su cui  gli italiani giocano una partita che riguarda «ricchi e poveri, borghesi e proletari» (come diceva un vecchio partito). Che poi, nella sostanza significa mettere in grado gli italiani di partecipare al processo di trasformazione dell’Europa che è in atto su scala meta-statale. Ed è in ciò che consiste la possibilità di riaprire la «questione sociale» proprio perché l’Europa rappresenta la sola possibilità di rilanciare lo sviluppo dopo il fallimento ormai in atto della finanziarizzazione, cioè del governo della mondializzazione affidata alla logica dei mercati finanziari. Qui sta la enorme portata di questo passaggio così difficile e contrastato. Ed è ciò che sfida i partiti che chiederanno il voto per governare. La destra questa sfida l’ha rifiutata. Spetta quindi a noi.
Ma noi questo passaggio siamo in grado di affrontarlo? Non si può rispondere a questa domanda solo con la propaganda. La prova che affrontiamo è ardua, non nascondiamocelo. E non raccontiamo favole a noi stessi. Siamo arrivati a quella situazione di cui parlava Antonio Gramsci a proposito delle «tentazioni bonapartiste», una situazione in cui «il vecchio non è più ma il nuovo non può ancora». Per cui è sul superamento di quell’ancora che ci giochiamo tutto. Ma ciò che mi rende ottimista è che ho l’impressione che quell’«ancora» sta diventando meno grande di prima. Si sono viste cose nuove in quella straordinaria spinta alla partecipazione (milioni di persone) alle nostre primarie. Io ho visto nuove domande di senso e bisogni di rinnovamento in senso etico e culturale prima ancora che politico. Ho visto una faccia bella della società italiana e, finalmente, ho visto molti veri giovani (20-30 anni). Noi saremmo degli sciocchi se non tenessimo conto di ciò nella campagna elettorale. Essa sarà anche una occasione per ridefinire agli occhi delle grandi masse la fisionomia del Pd e del campo delle forze riformiste.
Che cos’è un partito riformista? Io parto dall’idea che dopo le distruzioni di tessuto produttivo compiute dall’oligarchia finanziaria dominante non si tornerà al vecchio modello keinesiano e industrialista. Per pensare l’Italia e governarla bisognerà far leva sulla formazione di un nuovo tessuto sociale che dia spazio alle forze creatrici del lavoro, della cultura e di quella capacità italiana di fare impresa che è una cosa unica al mondo. Ecco perché bisognerà mettere in campo un partito più aperto, più inclusivo, che faccia più da collante della società.
Ridare voce alla società come luogo delle relazioni e non somma degli individui. Restituire agli uomini la possibilità di impadronirsi delle proprie vite. Io penso che è così che dobbiamo pensare il nostro ruolo. Come scrive Salvatore Biasco in un suo bel libro, il partito di centrosinistra non può non nutrire l’ambizione di conquistare gli animi e orientare l’humus culturale della società e quindi essere un polo di attrazione umana oltre che culturale, capace di offrire un senso alle spinte individuali orientandole verso una sintesi superiore, senza che ciò implichi il disconoscimento della piena realizzazione delle capacità di ciascuno.
Insomma siamo arrivati a un punto di svolta. È vero che la situazione è densa di incognite e di pericoli proprio perché «il vecchio non può più e il nuovo non può ancora». Ma è giunto il momento di guardare oltre la contingenza e oltre un «riformismo senza popolo». Io non penso affatto a riciclare un vecchio partito che predicava una finalità ideologica. Penso però che ai giovani bisogna cominciare a dire qualche cosa. Per esempio che nel momento in cui il centro-sinistra definisce i capisaldi di un programma politico (che non è una piccola cosa se si chiama «salvare l’Italia») esso identifica se stesso come la via d’uscita da una crisi che è realmente epocale. Questo è il punto. Tutto ciò che significa? Significa che siamo entrati in un’epoca in cui la lotta per nuovi assetti del potere economico e politico dominante è nelle cose.

l’Unità 11.12.12
L’unità dei riformatori
È un obiettivo necessario per uscire dalla palude del berlusconismo nella quale continuiamo ad essere immersi
Le primarie del Pd hanno rappresentato questa volontà di cambiamento, ora che la crisi incide in modo durissimo
di Michele Ciliberto


Conviene ripeterlo, di fronte a quanto sta accadendo nel campo berlusconiano: le primarie sono state un momento assai importante.
Esse infatti hanno rappresentato, senza alcun dubbio, un’esperienza rilevante per il centrosinistra ma anche per la nostra democrazia, almeno per tre motivi. Sono state il luogo di confluenza di una volontà di cambiamento che è andata al di là delle appartenenze politiche tradizionali. E questo perché configurandosi in termini di coalizione lungo un arco compreso tra Tabacci e Vendola sono riuscite a intercettare il processo di scomposizione dei vecchi schieramenti del periodo berlusconiano. Hanno posto le basi di nuove aggregazioni (come testimonia anche il tendenziale e progressivo ridursi dell'astensionismo), contribuendo a indicare nuove prospettive sia al Pd sia, in generale, alle forze che in Italia si battono per il cambiamento. In questo senso, sono state un’importante spia delle trasformazioni che si stanno producendo nel profondo della società italiana per effetto della crisi.
È dalla crisi che bisogna infatti partire per comprendere i processi attuali, sia sul piano politico che su quello sociale. Ed è precisamente questo che Berlusconi, chiuso pateticamente nella ridotta di Arcore, continua a non capire, anzi a non vedere: la crisi ha inciso in modo durissimo nella vita quotidiana degli Italiani, nella loro esistenza materiale, aumentando le zone di povertà, intensificando le diseguaglianze, bloccando
la mobilità sociale, creando moderne forme di servitù della gleba. Non c'è più spazio per le favole e per le soap opera, quando la crisi morde nella propria carne, e non si vedono vie per poterne uscire. Berlusconi non capisce che il suo mondo e la sua ideologia sono stati travolti, in modo definitivo, dall'irrompere della realtà dura, rugosa, senza belletto -. Come una sorta di nuovo Saturno si è messo invece, per disperazione, a divorare i suoi figli. Continua a non capire che la sua stagione è finita, che se ne sta aprendo un'altra, che la storia è girata, come ha mostrato proprio il successo di queste primarie.
Al fondo, le primarie sono state infatti questo: una riscoperta, dopo tanta moda anti-politica, della necessità, e della centralità, della politica, come avviene quando si attraversano momenti drammatici di crisi materiale (sottolineo: materiale). Non si è trattato di un fulmine a ciel sereno: la medesima esigenza di partecipazione, lo stesso bisogno di contare era stato anticipato dalle manifestazioni studentesche e dalle lotte operaie, nelle quali si era espressa la stessa volontà di riprendere nelle mani il proprio destino. Quando si viene toccati nei fondamenti della propria esistenza la politica si svela, quasi per necessità, per quello che è: uno strumento essenziale di emancipazione e liberazione individuale e collettiva. Una politica che proprio per questi motivi tende, oggi, a risolversi nello spazio della democrazia diretta e in un'aspra critica della rappresentanza.
È la larghezza e la profondità della crisi che ha dunque posto le basi di una partecipazione così ampia e differenziata, oltre le ordinarie appartenenze, in una fase di così generale disaffezione per la politica tradizionale. Di questo non c'è perciò da meravigliarsi. Anzi. Ma ciò comporta una straordinaria responsabilità per il Pd che, consapevolmente, ha costruito lo spazio in cui questa nuova esigenza si è potuta affermare e riconoscere, assumendo coscienza di se stessa. E tale successo a sua volta implica che questo partito faccia sua, fino in fondo, la lezione di queste primarie di coalizione, sviluppandosi in forme in grado di raccogliere il largo e variegato arco di energie riformatrici che si è espresso in questa partecipazione, dando voce anche alle forze e ai ceti che nella decomposizione dei vecchi blocchi e schieramenti sono oggi alla ricerca di una nuova rappresentanza politica.
È un problema che è stato posto altre volte senza successo; ma erano altre storie, altri mondi. Del resto, il Pd, alle origini, è nato da una esigenza tendenzialmente omogenea. Per questo oggi può, e deve, assumersi realisticamente questo obiettivo: è venuto finalmente il momento di costruire un ampio spazio comune in cui le forze riformatrici del nostro Paese possano riconoscersi, organizzarsi, unificarsi, giocare il ruolo che loro spetta nella storia italiana. Oggi, ci sono le basi materiali e le condizioni politiche. Oserei dire: ci sono le condizioni storiche per costruire quel moderno e vasto partito riformatore tante volte auspicato e mai costruito in Italia. Del resto, la parola crisi vuol dire proprio questo: fine, ma anche trasformazione e apertura a nuove prospettive, oltre i paradigmi nazionali che hanno strutturato i grandi partiti di massa del XX secolo. Da questa crisi bisogna uscire aprendo un'altra storia; il «microcosmo» di queste primarie di coalizione deve proiettarsi in un «macrocosmo» capace di rappresentare vecchie e nuove domande di cambiamento, vecchi e nuovi «legami».
Certo, non è un processo semplice, ma queste primarie di coalizione hanno dimostrato che esso è possibile, raccogliendo la partecipazione e il consenso di cittadini italiani e non italiani diversi per formazione e culture, differenti per religione; ma tutti interessati alla costruzione di una prospettiva politica che, ricostituendo i rapporti tra cittadini e politica, sia in grado di portare nel consenso il nostro Paese fuori dalla crisi, senza che, come è accaduto fino ad ora, il costo ricada sugli strati più deboli o su ceti che mai, fino ad ora, erano stati così violentemente investiti da una tempesta che è al tempo stesso sociale, culturale, antropologica.
È questo l'obiettivo prioritario. Ma ce ne sono almeno altri due che meritano di essere presi in considerazione. Un nuovo, vasto partito riformatore sarebbe fondamentale per riorganizzare il sistema politico italiano, uscendo finalmente dalla palude del berlusconismo nella quale continuiamo ad essere immersi, come mostra la terribile vicenda della legge elettorale. Avviare un progetto di questo tipo sarebbe prezioso per vincere, con un largo consenso le elezioni e garantire alle forze del cambio, se le vinceranno, un saldo e largo appoggio che consenta loro di aprire una nuova stagione della vita della Repubblica. Varrebbe la pena di provarci.

Corriere 11.12.12
Quei no di Renzi e le mosse del Pd
di Maria Teresa Meli


ROMA — Matteo Renzi in questi giorni si sta dedicando esclusivamente al mestiere di sindaco, fatta eccezione per una breve e sfortunata parentesi da tifoso, sabato scorso, quando la Roma ha battuto 4 a 2 la Fiorentina. Si è ripromesso di non rilasciare interviste ai quotidiani nazionali almeno fino a Natale (però non è detto che mantenga questo proposito). E nel frattempo attende di vedere quali saranno le mosse di Bersani. Non sarà il sindaco a fare i primi passi: aspetta che li compia il segretario, dopodiché non si sottrarrà durante la campagna elettorale.
Ma fino a ieri dai vertici nazionali del Pd non era giunto nessun segnale. Neanche una telefonata da parte del segretario, che pure aveva annunciato che avrebbe presto invitato il sindaco a pranzo. E invece questi sono stati otto giorni di silenzio. Tanto che i renziani in questo periodo non sono stati troppo prodighi di complimenti nei confronti del leader. «Non hanno ancora coinvolto Matteo in nessun modo, se Bersani fosse lungimirante dovrebbe farlo: è l'unico modo che ha il Pd di raccogliere i voti dei moderati», spiegava Roberto Reggi, coordinatore della campagna del sindaco per le primarie.
E Giuliano da Empoli, ex assessore alla cultura del comune di Firenze e consigliere di Renzi, qualche giorno fa, chiacchierando con un giornalista del Corriere fiorentino ironizzava sul Pd versione Bersani: con D'Alema e Bindi che si sono fatti rivedere appena il sindaco rottamatore ha perso le primarie. Dopo il 2 dicembre, secondo da Empoli, sono tornati tutti a calcare le scene della politica, Bindi, D'Alema e persino Berlusconi: «La rivitalizzazione di tutti gli zombie a cui è stato distribuito il Viagra». L'ex assessore alla Cultura non risparmiava il suo sarcasmo nemmeno rispetto ai tentativi di Bersani che vuole mettere in piedi una lista di centro collegata al Pd: «Se pensano di bypassare Renzi con Portas e Tabacci, buona fortuna!».
Ma ecco che ieri è arrivato un primo segnale... grazie a Berlusconi. L'altro giorno infatti il Cavaliere aveva annunciato che le porte del centrodestra sono aperte per Renzi, il quale aveva così replicato: «L'ho già detto due volte a Berlusconi: le cose si possono comprare, le persone no. Non tutte almeno. Non io». E questo lunedì a difendere il sindaco è sceso in campo il segretario del Pd: «Invito Berlusconi a non cadere nel ridicolo, anche se è un luogo da lui ampiamente frequentato. Dopo le primarie siamo tutti più in salute, con Renzi combatteremo insieme le battaglie».
È un passo. A cui, assicurano a Largo del Nazareno, ne seguiranno altri. Ma anche il sindaco ha in mente di fare un gesto distensivo. All'inizio dell'anno prossimo il primo cittadino di Firenze indirà una nuova Leopolda. Già, perché dopo la pausa festiva Renzi riprenderà la sua attività politica. Attività che i suoi comitati non hanno mai interrotto e che anzi hanno deciso di intensificare sulla «rete». E questa volta alla Leopolda ci sarà un posto in prima fila per Bersani. Sempre che il segretario voglia accettare l'invito del sindaco, ovviamente. Dopodiché Renzi farà campagna elettorale per il Pd. A modo suo. Cioè evitando le foto di gruppo con i leader del partito. Ma non prima di aver chiesto a Bersani di riconfermare i tredici parlamentari che hanno sostenuto il sindaco alle primarie e di candidarne un'altra trentina: tutti giovani e amministratori locali di rito renziano.

il Fatto 11.12.12
Come ti scelgo i parlamentari con le “sotto-primarie”
Non c’è accordo nel Pd
A giorni l’incontro tra Bersani e Renzi
di Wanda Marra


Sono pronto a trovare una chiave di partecipazione per stilare le liste dei candidati”. Parola di Pier Luigi Bersani. Rincara la dose Roberto Speranza, segretario regionale della Basilicata, tra i vicinissimi al segretario: “Dobbiamo trovare un modo per fare le primarie”. Domani a Roma c’è la segreteria democratica aperta ai segretari regionali. Al centro proprio le primarie per le liste. Si era partiti dall’idea dei gazebo aperti, si sta lavorando per trovare altre forme. Le esigenze sono diverse e c’è l’alibi dei tempi molto ristretti. Il segretario le vuole davvero però, controllando una parte dei candidati (oltre alla quota tecnici e a quella società civile, vuole pure quella competenze). E poi, l’effetto marketing non è da sottovalutare. Le vogliono molti territori, a partire da Toscana ed Emilia Romagna. Non le vuole Franceschini e non le vogliono i parlamentari uscenti (compresi quelli saliti sul carro di Renzi che temono più degli altri di restare fuori da ogni gioco). Dopodiché per salvare capra e cavoli i vertici Pd potrebbero inventarsi delle sotto-primarie, dalle consultazioni tra gli iscritti alle assemblee di partito dove alla fine si votano alcuni candidati. “Combatteremo fino alla fine. No surrogati”, dice Pippo Civati. E Graziano Del Rio, presidente dell’Anci, renziano di peso: “Una partecipazione vera per noi è importantissima”. Anche le primarie per le liste sono al centro della discussione (a distanza - per ora - tra Renzi e Bersani). Il segretario ha detto “combatteremo insieme anche con Renzi”. Il sindaco di Firenze - che proprio ieri ha respinto al mittente le pro - offerte di Berlusconi con un Tweet (“Caro Silvio, le cose si possono comprare, le persone no. Non tutte, almeno. Io no. Hai le porte aperte per me? Chiudi pure, fa freddo! ”) aspetta ancora l’invito a pranzo di Bersani e la richiesta di una mano. Per darla vuole pesare davvero, magari cominciando da un drappello di parlamentari nutrito (“più di quelli di Vendola, un segnale che non si sta tornando al vecchio Pci”, spiegano ambienti a lui vicini). Alcuni fedelissimi dell’Emilia Romagna stanno parlando per loro conto. Si parla di un incontro in settimana.
“GIOVEDÌ, si vedranno giovedì”, tagliano corto i vertici del Pd lombardo che ieri hanno accompagnato Bersani a Piacenza. Per loro adesso la priorità è un’altra: veder trionfare Umberto Ambrosoli alle primarie che sabato decreteranno il candidato governatore del centrosinistra al dopo Formigoni. E Bersani è arrivato fin qui proprio per sostenere l’avvocato nella sfida contro Alessandra Kustermann e Andrea Di Stefano. La sfida tra i tre è serrata. Hanno già partecipato a oltre mille appuntamenti e ogni giorno c’è almeno un confronto diretto tra i candidati. Solo ieri si sono sfidati tre volte: a Bergamo, in un confronto organizzato dalla Fiom, nel pomeriggio su Telelombardia, in serata a l’Infedele. Bersani ha cercato di parlare di Ambrosoli (“con lui può ripartire la riscossa civica”) ma i pensieri sono su altro. La possibile candidatura di Monti e quel caffè che Renzi gli ha proposto e ancora aspetta risposta.

Repubblica 11.12.12
Pierluigi teme l’operazione centrista “Mario in campo ci fa perdere voti”
“Così più difficile il Colle”. Il premier riflette sulla candidatura
di Goffredo De Marchis


“Li considereremo come fossero nostri”. Così Bersani al Wall Street Journal ribadisce l’intenzione del Pd, una volta al governo, di rispettare gli impegni su rigore e riforme assunti da Mario Monti di fronte all’Europa

ROMA — A Casini, Montezemolo e Riccardi Mario Monti ha chiesto qualche giorno di riflessione. L’accelerazione della crisi e delle elezioni ha convinto i centristi a forzare il pressing sul premier. Con un obiettivo: poter utilizzare il suo nome nella lista per l’Italia. E due subordinate. La prima legata alla principale: indicare il Professore come candidato premier del centro. La seconda, meno gradita ovviamente: un endorsement esplicito di Palazzo Chigi a favore dell’alleanza progressisti-moderati contro il populismo e l’antieuropeismo di Berlusconi e Grillo. È per respingere queste tentazioni che Pier Luigi Bersani ha messo in guardia Monti. La strada per il Quirinale passa infatti dai voti del Partito democratico in Parlamento. «Non possiamo promettere in modo esplicito il Colle. Ma quando in tutte le interviste Bersani, Franceschini, Letta e altri dicono che il primo atto dopo un’eventuale vittoria sarà coinvolgere Monti, il messaggio è molto chiaro», dicono al quartier generale del segretario.
Bersani conosce le mosse di Casini per via diretta. È stato lo stesso leader dell’Udc ad avergli delineato lo schema centrista senza nascondergli che le sorti elettorali di una forza politica di mezzo sono condizionate dal sì o dal no di Monti. In maniera altrettanto chiara, però, il candidato premier del centrosinistra ha fatto presente sia a Monti sia ai suoi sponsor che la corsa alla presidenza della Repubblica sarebbe più semplice se il Professore mantenesse una neutralità sostanziale nella competizione elettorale. Nella cena di mercoledì scorso tra Bersani e Monti il tema è rimasto in superficie. Bersani non vuole e non può esporsi con una dichiarazione esplicita di sostegno a Monti per il Quirinale. Ma la sua equidistanza alle elezioni aprirebbe un’autostrada a questa ipotesi.
Il segretario Pd sa anche che la mancata candidatura del premier creerebbe più di un problema al centro. I sondaggi continuano a sfornare dati non esaltanti per Udc ed esperimenti paralleli come Italia futura e il movimento Terza repubblica. Per questo motivo, ora che la sopravvivenza del Porcellum è un dato acquisito, si rincorrono le voci di un possibile accordo elettorale dei progressisti e dei moderati. La soluzione viene però esclusa dai democratici. Anche da quei dirigenti che più di altri hanno sostenuto le ragioni di un’alleanza con Casini. La legge attuale infatti non porterebbe alcun vantaggio a un’intesa preventiva. Perderebbe qualche seggio il Pd, ne guadagnerebbe qualcuno l’Udc ma sempre raggiungendo il massimo dei deputati, in virtù del premio di maggioranza al 55 per cento, a quota 346. Lasciando sostanzialmente tutto il resto del Parlamento nelle mani di Grillo, Berlusconi e Maroni. Dunque l’ipotesi di una coalizione Bersani- Vendola-Casini-Montezemolo è ormai definitivamente tramontata. Il Pd ha detto no lasciando la porta aperta a un accordo post-elettorale.
L’altolà a Monti non serve solo a blindare la candidatura a Palazzo Chigi di Bersani. Ci sono in ballo anche le percentuali del Pd, schizzate in alto fino alla soglia del 40 per cento dopo le primarie. Se il premier fosse coinvolto nell’operazione centristra i risultati di quell’area crescerebbero dall’attuale 7-8 per cento al 15-16 per cento. Questo dicono i sondaggi di Largo del Nazareno. Un’analisi più approfondita dei flussi ha fatto scattare l’allarme. Il raddoppio infatti non toglie voti solo al centrodestra, ma andrebbe a pescare anche nel centrosinistra. Senza Monti per esempio i simpatizzanti di Matteo Renzi continuerebbero a dare la loro preferenza al Partito democratico. Con il premier in campo avrebbero invece un’alternativa centrista alla quale rivolgersi. Conta anche questo nella posizione del Pd.
Bersani, nei colloqui di questi giorni, confessa un certo timore sulle intenzioni di Monti. «È evidente che il ritorno di Berlusconi ha cambiato lo schema per tutti, anche per lui. Nessuno può escludere un impegno diretto a questo punto». Ma una risposta, visti i tempi strettissimi, arriverà presto. «Tra una settimana sapremo», profetizzano nella sede del Pd.

il Fatto 11.12.12
Flores contro Scalfari “L’unico fascista è lui”


Dai fascisti su Marte di Guzzanti ai fascisti di sinistra di Eugenio Scalfari. Da un’intuizione comica a una “ingiuria” contro chi si è permesso di dissentire dalla sua difesa di Giorgio Napolitano. A quanti si sono opposti alle tesi del Quirinale di aver manifestato una “consapevole quanto irresponsabile posizione faziosa ed eversiva che mira a disgregare lo Stato e le sue istituzioni”.
A Scalfari risponde uno dei fascisti di sinistra: Paolo Flores d'Arcais che, dal sito di Micromega, ricorda un paio di cose al fondatore di Repubblica, paragondolo al cane di Pavlov. Una: che ha dato del fascista anche ad alcuni dei suoi editorialisti (“in primis Franco Cordero, che il giorno dopo il peana scalfariano ha scritto proprio su Repubblica un testo di micidiale razionalità che rade al suolo quel ‘Te Deum’, cospargendovi sale). Due: Scalfari fascista lo è stato. Dopo la difesa il merito: “La questione Napolitano vs Procura di Palermo, propongo a Scalfari un'ovvia sfida: un confronto pubblico non appena la Consulta avrà pubblicato la motivazione della sentenza”.

La Stampa 11.12.12
Charles Kupchan: “Il Pd ne approfitti per creare una vera coalizione centrista”
Il politologo Usa: l’Italia deve fare ancora molto
di Paolo Mastrolilli


Charles A. Kupchan è professore di Relazioni internazionali alla Georgetown University e senior fellow al Council on Foreign Relations

Il professore Charles Kupchan avrebbe un desiderio: «Che l’Italia diventi un paese più normale. Intendo dire più simile agli altri paesi europei, con un centrodestra e un centrosinistra non troppo distanti, in grado di garantire stabilità e crescita». Quindi lo studioso del Council on Foreign Relations aggiunge: «Visti i sondaggi che danno avanti il Pd, Bersani potrebbe avere l’occasione per creare una vera coalizione centrista, capace di tenere l’Italia sul cammino già intrapreso da Monti. Questo sarebbe molto più desiderabile della frammentazione politica e la debolezza del passato».
Secondo lei, la Casa Bianca come sta vivendo questa nuova crisi italiana?
«L’amministrazione Obama aveva tirato un grande sospiro di sollievo, quando era potuta arrivare alle elezioni di novembre con una relativa calma finanziaria in Europa. L’incubo del presidente era che la crisi economica tornasse ad esplodere proprio alla vigilia del voto, compromettendo le sue possibilità di essere confermato. Ora Washington torna ad essere nervosa. Monti ha avuto un ruolo molto importante, non solo nel ricostruire la fiducia intorno al governo italiano, ma anche la stabilità nell’intera eurozona. Adesso l’amministrazione seguirà con grande attenzione gli sviluppi nel vostro paese, per capire cosa traspare».
Lei come giudica la decisione del premier di annunciare l’intenzione di dimettersi?
«Il fatto in sé non è drammatico, perché sapevamo che entro la primavera si sarebbero comunque svolte le elezioni, e quindi anticipa di qualche settimana uno sviluppo già previsto. L’uscita di scena di Monti, però, genera una grave incertezza su almeno tre punti».
Ce li spieghi.
«Primo, il fatto che il partito di Berlusconi ha sostanzialmente sfiduciato il governo e criticato la sua azione, ripropone un clima di frammentazione nello stato che non fa sperare bene sulla capacità del prossimo esecutivo, chiunque lo guidi, di continuare le riforme. E’ un punto importante, perché le riforme sono necessarie a rilanciare l’Italia, ma sono servite anche a calmare i mercati finanziari. Ora è evidente il rischio che i mercati decidano di punirvi, facendo salire gli interessi sui vostri prestiti. Secondo, il rapporto con la Merkel e il resto dell’Europa. Monti ha svolto una funzione essenziale per guidare la cancelliera e l’intera Unione su posizioni più stabili. Non è chiaro se un altro premier potrà costruire una relazione simile con la Merkel, e avere la stessa credibilità economica e politica per influenzare il dibattito in Europa. Terzo, il sentimento populista anti europeo. In Italia sta crescendo, come in altri paesi del continente, e finora lo aveva incarnato soprattutto il movimento di Grillo. Adesso sarà interessante vedere se il populismo antieuropeo si rafforzerà anche da voi, come è accaduto in Grecia e Francia».
Passiamo agli scenari. Come lei ha detto, i sondaggi al momento vedono il Pd avanti. La candidatura di Berlusconi, però, potrebbe cambiare gli equilibri, farlo vincere, o impedire un successo chiaro ai suoi avversari. Anche Monti potrebbe candidarsi, o tornare in gioco in caso di stallo. Cosa gioverebbe di più al paese?
«Il problema politico più serio per l’Italia nell’ultimo ventennio è stata l’incapacità di costruire un centro stabile. Berlusconi a parte, questa difficoltà è nata dalla frammentazione della vostra società e dal grande numero di partiti. La sinistra tradizionale ha spinto il centrosinistra su posizioni troppo estreme, creando una distanza ideologica eccessiva rispetto al centrodestra, e quindi una continua tensione. La creazione del Pd in questo senso è stata una scelta molto positiva, perché ha alimentato la speranza che l’Italia possa diventare come gli altri paesi europei, con due grandi schieramenti di centrodestra e centrosinistra non troppo lontani. Se l’analisi è corretta, ne segue anche una valutazione consequenziale del prossimo voto. I sondaggi vedono il Pd avanti, e Bersani potrebbe approfittarne per creare una vera coalizione centrista capace di proseguire il cammino di Monti. E’ chiaro che questo sarebbe molto più desiderabile del ritorno alla frammentazione e alla debolezza del passato».
Perché?
«Stabilità interna, credibilità internazionale, calma sui mercati, ma soprattutto la possibilità di completare le riforme di Monti e introdurne altre: l’Italia ha ancora molto lavoro da fare».

l’Unità 11.12.12
«Per il futuro dell’Italia serve patto tra il Pd e il Professore»
intervista di Tullia Fabiani


ROMA  La sensazione è pessima. C’è grande delusione per questo immotivato capovolgimento di fronte, e c’è forte preoccupazione per il futuro. Lo dico da cittadino». Ad Andrea Olivero, presidente delle Acli, i titoli di coda del governo Monti, dopo la sfiducia del Pdl, e la candidatura di Berlusconi provocano «un po' di ansia». Come cittadino si dice preoccupato.
Ma come promotore dell'iniziativa «Verso la Terza Repubblica» che intende fare? Lei, Montezemolo, Bonanni, siete stati spiazzati dal precipitare degli eventi? «In parte ci siamo trovati spiazzati. Ma questa situazione facilita comunque il nostro ragionamento e il nostro percorso: quello che è capitato in queste ore ha reso in modo drammatico e plastico che l'Italia non può uscire da questa fase di lunga transizione senza un impegno diretto dei cittadini».
Le elezioni però a questo punto sono imminenti. E voi non avete un programma chiaro, una coalizione definita, una candidatura ufficiale alla premiership. Insomma, non eravate preparati a questa crisi.
«Mah, direi che non ci siamo fatti trovare troppo impreparati: abbiamo lanciato dei messaggi precisi. Abbiamo detto che per noi è fondamentale continuare l'operato del governo e che non deve essere disperso il lavoro fatto. Certo, ora è necessario prendere in fretta delle decisioni. Altrimenti ci ritroveremo in una campagna elettorale dove si ripeterà il solito schema: Berlusconi da una parte e quelli contro dall'altra. Spero che il centrosinistra non cada in questa trappola. Noi dobbiamo riuscire a scardinare questo meccanismo». Magari con Monti candidato premier? «Attendiamo che il presidente prenda la sua decisione. Auspichiamo sia lui il nostro candidato, naturalmente, sarà lui a decidere e nel caso a farcelo sapere. Questione di giorni».
E se la candidatura non arriva, sperate in un endorsement?
«Non abbiamo alcuna intenzione di forzare le sue scelte. È evidente però che saremmo onorati se ci volesse sostenere. Una sua iniziativa ci farebbe certamente molto piacere».
Parla già al plurale... state lavorando una lista unica?
«Ancora non abbiamo trasformato in una lista il percorso avviato insieme il 17 novembre scorso. Il nostro è ancora un movimento di natura civica. L'ipotesi di una lista unica dipende da ciò che si sceglierà di fare, però ci stiamo lavorando, ci vogliamo provare».
Anche Gianfranco Fini è della partita?
«La storia di Fini non è la nostra storia, la sua idea di riformismo non è uguale alla mia. Quindi penso sia difficile avere un comune approdo. Non si tratta di riserve personali, ma di riserve politiche, difficili da sciogliere».
Al nome della lista ci avete pensato: «Verso la Terza Repubblica», oppure? «Non abbiamo deciso. Casini la chiama “Lista per l'Italia”, ma ci stiamo pensando. È necessario avere prima chiaro il disegno politico da perseguire, perché un Centro fine a se stesso non serve assolutamente a nulla. In queste settimane si definiranno alleanze e contenuti del programma, poi si potrà valutare se stare all'interno di questo disegno».
Sulle alleanze cosa propone? Guarda sempre al Pd?
«Penso che l'ipotesi più saggia sia attuare un'alleanza tra le forze che con convinzione hanno sostenuto Monti, quindi penso al Pd e all'Udc, aprendo a tutte le forze della società civile che condividono questo percorso».

il Fatto 11.12.12
Qualcosa si è rotto
Cattolici e B, cambia il vento
di Marco Politi

Con allarme e orrore la Chiesa registra l’irrompere di Berlusconi sulla scena politica. Con insolita durezza il cardinale Bagnasco commenta: “Non si possono mandare in malora tutti i sacrifici fatti dai cittadini”. É qualcosa di radicalmente nuovo per il Cavaliere. Nelle sue battaglie non potrà più invocare le zie suore per accattivarsi la comunità cattolica. Per la prima volta gli viene a mancare l’appoggio della gerarchia ecclesiastica, che tanto gli ha giovato in passato.
Nei venti anni trascorsi Vaticano e Cei puntellavano sempre i suoi arbitrii, permettendogli di scardinare le regole istituzionali. L’intervento di Bagnasco, per i suoi toni espliciti, segna in questo senso una discontinuità netta rispetto al “ruinismo” (sebbene il cardinal Ruini oggi non plaudirebbe al ritorno berlusconiano). Ogni parola dell’intervista del presidente della Cei al Corriere della Sera – pur non nominandolo mai – segna un attacco preciso all’ex premier. “Lascia sbigottiti l’irresponsabilità di quanti pensano a sistemarsi mentre la casa sta ancora bruciando”. Monti ha contribuito “in modo rigoroso e competente” alla credibilità del’Italia. Ha messo al riparo il Paese da “capitolazioni umilianti… evitando di scivolare verso l’irreparabile”.
La mossa del presidente dell’episcopato è stata preceduta da un fuoco di sbarramento dei media cattolici nei confronti di Berlusconi. TV2000, la televisione dei vescovi guidata dall’ex direttore di Avvenire Dino Boffo (massacrato dalla campagna del Giornale berlusconiano con l’uso di falsi documenti) ha messo subito il dito sulla piaga: “Un epilogo miope per non dire meschino”. Un’avventura, quella di Berlusconi, segnata dal “sospetto che si tratti di un’azione volta a garantirsi nel prossimo Parlamento un manipolo di sostenitori ad personam per proteggere interessi più o meno personali”.
L’Avvenire ha ricordato per bocca del direttore Marco Tarquinio il “fallimento” del governo Berlusconi nel 2011 e ha dato ampio spazio ai dissidenti del Pdl. Da Giuliano Cazzola, che predice la sconfitta del “pifferaio magico”, all’eurodeputato ciellino Mario Mauro, che denuncia le “derive populiste” e antieuropeiste dell’ultimo Berlusconi, indicando l’obiettivo di unire i cittadini italiani che si riconoscono nel programma del Partito popolare europeo. Ma è soprattutto dalla rete di aderenti a Comunione e liberazione, che sembrano preannunciarsi novità. Già Formigoni è in profondo disaccordo con la candidatura del leader leghista Maroni a governatore della Lombardia. Candidatura espressamente sponsorizzata da Berlusconi. Ma uno degli ideologi più attivi del movimento ciellino, il direttore della rivista Tempi Luigi Amicone, va molto più in là. Lunedì mattina ha predicato su RadioTre la necessità di un “conflitto aperto” con Berlusconi, con l’obiettivo di “spaccare il Pdl”. Il ritorno del Cavaliere, ha scandito, “è grottesco”. Con Bersani, probabile vincitore delle elezioni, bisognerà “collaborare” per affrontare le sfide che attendono il Paese.
É evidente che la “decisione dirompente e senza vero motivo” (così testualmente l’Avvenire), con cui Berlusconi è tornato in campo, è avvertita con enorme irritazione dalle gerarchie ecclesiastiche, perché ha strappato la tela che i gruppi cattolici di centro stavano tessendo per riportare Monti, totalmente gradito alla Chiesa e a Benedetto XVI, alla presidenza del Consiglio in primavera. Lavoro paziente che implicava il coinvolgimento di Alfano e di un Pdl de-berlusconizzato. Ora tutto è in frantumi e non è detto che Monti voglia giocare il suo prestigio in una lista tendenzialmente minoritaria.
Ma la Chiesa e il Centro cattolico sembrano nutrire la speranza di provocare uno smottamento nell’area parlamentare del Pdl, sperando di mostrare che re Berlusca (almeno parzialmente) è “nudo”. Si spiega così la titolazione aggressiva del quotidiano di vescovi, solitamente molto prudente, che domenica sparava in pagina: “Nel Pdl cresce la fronda anti-Berlusconi”. La speranza è che la decina di parlamentari azzurri – che nei giorni scorsi ha appoggiato con il voto il governo, dissociandosi dal voltafaccia del Cavaliere – possa ulteriormente crescere, coinvolgendo figure note del catto-berlusconismo: Sacconi, Quagliarello, la Roccella. Rocco Buttiglione, presidente dell’Udc, propone un rassemblement: “Sediamoci a una tavolo e discutiamo. C’è da fare una lista in cui convergano partiti, associazioni, gruppi e movimenti. Per salvare l’Italia”. L’obiettivo di creare una specie di Ppe italiano è il traguardo che l’istituzione ecclesiastica e i post-democristiani hanno cominciato a sognare dal momento in cui Berlusconi ha rassegnato le dimissioni un anno fa. Appare e scompare come una fata morgana.
In questa situazione, diventata improvvisamente più liquida e caotica, ci sono per i centristi cattolici due nodi da sciogliere. Il primo è quello programmatico: se le encicliche sociali di Benedetto XVI e papa Wojtyla sono molto più avanti dell’evanescente agenda finora messa in campo dall’Udc e da Montezemolo, i conti non tornano. Bagnasco stesso batte sul tasto della “drammatica questione del lavoro”.
Il secondo punto da risolvere riguarda il premierato. Nei paesi a democrazia europea è pacifico che premier diventi il leader della forza vincente. L’Italia non può sempre pensare di inventare la bicicletta a tre ruote. É ora che Chiesa e centristi così innamorati di Monti accettino questa regola elementare. Quanto prima, sarà meglio per il Paese.

l’Unità 11.12.12
Rabbia e dubbi sulle primarie di Grillo: «Un imbroglio»
Circa 32mila votanti per 1.400 candidati, sul web cresce l’indignazione per i numeri e le procedure poco trasparenti
di Alessandra Rubenni


Una «presa in giro stratosferica», una «farsa», un autogol imperdonabile. A quattro giorni dalle «parlamentarie» del Movimento 5 stelle, cresce sul web il tam tam dei delusi, che tra rabbia e amarezza si scagliano contro quelle primarie 2.0 celebrate da Grillo come un’iniezione di democrazia per designare i candidati alle prossime politiche. Una traccia d’indignazione che s’ingrossa persino sul blog del comico genovese. «E questa sarebbe la democrazia dal basso? Siete uguali agli altri, anzi peggio. Fate finta di farci fare le scelte, ma decidono solo due persone...», s’indigna Giuseppe C. che grida all’imbroglio. «Più che un flop. Non ci si è avvicinati neanche lontanamente alla partecipazione alle primarie del Pd, in cui ci si doveva recare fisicamente a votare», contesta Daniele F., che riflette: se il voto attraverso il web non coinvolge più votanti di quelli che si prendono la briga andare fisicamente ai gazebo (e fare pure file e trafile), che senso ha?
«Per chi sperava nella vera partecipazione dal basso è veramente una sconfitta».
Per non parlare di numeri ancora avvolti dal mistero. Chiuse le urne ai click, Grillo aveva parlato di 95.000 voti disponibili per 1.400 candidati. Senza però ricordare che ogni votante aveva tre preferenze da esprimere, né rendendo noto il numero effettivo dei votanti.
Ed ecco allora che già si va a spanne: considerato che le circoscrizioni erano 31, la media sarebbe di circa 1.000 voti ciascuna, per un totale di circa 32 mila votanti. Insomma, quanto a partecipazione è un eufemismo dire che le parlamentarie grilline non hanno brillato. Ma pure a trasparenza non sono messe bene. Nessuno può certo dire che i dati siano stati manomessi, ma non sarebbero state messe in atto le minime cautele per evitare che qualcuno potesse farlo. «La trasparenza e serietà delle parlamentarie è ben rappresentata dal fatto che persino su questo blog la maggior parte continua a parlare di 95 mila votanti. Molti capilista hanno preso meno della metà delle preferenze del mio rappresentante d’istituto delle superiori», protesta Luca C., con lo stesso tenore delle polemiche che corrono su facebook e forum vari.
Tanti i passi falsi elencati da un ormai ex simpattizzante, Francesco Vito Tassone («In questo modo avete perso il mio voto», «per mandare gente in Parlamento un poco di serietà in più non avrebbe guastato»), che consiglia, nell’ordine, di indicare i voti ricevuti da ogni candidato, stabilire un numero minimo di preferenze da prendere per essere candidati, «minimo 1000 non sarebbe male», e poi rifare tutto: «con 32.000 votanti per 1400 candidati si rasenta il ridicolo». Ma soprattutto sarebbe stato il caso di «rendere pubbliche le procedure di sicurezza. Con un “tor” parola d’ingegnere si fanno miracoli».
In assenza di numeri ufficiali, quelli stimati parlano di candidature scelte con delle manciatine di voti. In Emilia Romagna, roccaforte del M5S, avrebbero votato in 1.774 e la più gettonata, Giulia Sarti, ha vinto con 374 preferenze. Altrove i candidati sono finiti in cima alle liste con appena qualche decina di voti. In realtà, per chi non ha votato, il numero delle preferenze ricevute da ognuno resta un mistero. Consultando gli elenchi sul blog, infatti, compaiono solo nome, cognome e posizione in lista. Ma le informazioni appaiono se si accede al portale con le credenziali utilizzate per votare. Nel Lazio 1 la capolista Federica Daga ha preso 390 voti. In Umbria invece, su 311 votanti, per la Camera è capolista Tiziana Ciprini, impiegata, 84 preferenze, e poi giù a scendere vertiginosamente, in una lista in cui scorrono nomi, età e professioni dal libero professionista all’artigiano, l’operaio, il disoccupato, lo studente, il pensionato di candidati scelti un pugno di voti. Ma l’amaro in bocca l’ha lasciato anche la presenza, tra gli aspiranti candidati, di parenti e fidanzate di altri esponenti grillini, di cui Corriere.it nei giorni scorsi ha fatto l’elenco. Però, scusate tanto, «perché penalizzare qualcuno solo perché è parente? Le persone sono state votate dagli iscritti», replica Vito Crimi, candidato 5 stelle al Senato. «Nessun nepotismo, mia sorella è stata candidata perché ne ha i requisiti», assicura dalla Sicilia Giancarlo Cancelleri, leader grillino all’Ars e fratello di Azzurra, in corsa per la Camera. Mentre Valentino Tavolazzi, epurato della prima ora da Grillo, contesta il «Casaleggium» e prega: almeno, ci dicano in quanti hanno votato.

La Stampa 11.12.12
Movimento 5 stelle
Il grillino querelato “Casaleggio? Democrazia finita”
di Franco Giubilei


Dopo le epurazioni dei dissidenti, la lotta interna al Movimento 5 Stelle prende la via delle carte bollate, con la querela di Gian Roberto Casaleggio contro Ivano Mazzacurati, militante grillino bolognese della prima ora, candidato alle Parlamentarie e poi escluso. Le dichiarazioni che hanno scatenato la reazione dell’eminenza grigia della comunicazione del M5S sono state rese da Mazzacurati, già in rotta con Grillo a causa delle sue critiche ai criteri di scelta dell’allora candidato sindaco del movimento Massimo Bugani, durante una puntata di Servizio Pubblico, la scorsa settimana su La7 (il cui direttore è stato querelato a sua volta, ndr): il militante aveva parlato della gestione dei fondi destinati alla comunicazione dei gruppi parlamentari, adombrando la presenza di Casaleggio, che spiega così la querela: «Mazzacurati ha affermato che prenderò quei soldi, la notizia è falsa e offensiva». Incredulo Mazzacurati: «All’inizio pensavamo che il movimento sarebbe stato retto in maniera trasparente e democratica, ultimamente invece le decisioni importanti sono prese dall’alto, senza che ci sia la massima condivisione per cui è la base che dovrebbe decidere su tutto». Dice di non avere la minima idea del perché l’aria all'interno del M5S sia cambiata in questo modo: «Forse non si fidano delle persone, ma qui a Bologna abbiamo applicato condivisione e trasparenza fin dall’inizio. I malumori non sono soltanto in Emilia, basta andare in rete per captarli anche in Lombardia e Piemonte».

Repubblica 11.12.12
Le “parlamentarie” di Grillo
di Michele Serra


Devo intanto ai lettori, e alle “parlamentarie” di Beppe Grillo, delle scuse. Pochi giorni fa ho scritto che a quelle elezioni avevano votato in novantamila, con un rapporto di uno a trenta con le primarie in carne e ossa del centrosinistra. Si è poi saputo (pur nella penuria di informazioni e nella sostanziale opacità di quanto accade in quel sito per iniziati) che gli elettori che sono riusciti a votare alle parlamentarie sarebbero circa trentamila, dunque con un rapporto di uno a cento con le primarie del centrosinistra.
Poiché nel web la quantità è una delle qualità, il risultato mi pare molto deludente. Con una ulteriore traccia di lettura che ci viene offerta dallo stesso Grillo: “Per la prima volta tutto gratis”. Un mio perfido amico di destra (perfido e intelligente) sostiene che il web è come il socialismo reale: “Tutto gratis per tutti, dunque pessima qualità per tutti”. È soprattutto un velenoso paradosso. Ma il dubbio che il mito della gratuità sia la chiave di volta di una sostanziale mediocrità, io ce l’ho. Magari spendendo qualche soldino, in serena trasparenza, viene meglio tutto, anche le elezioni. Il denaro è lo sterco del demonio, ma diceva uno di Genova che dal letame nascono i fior...

l’Unità 11.12.12
Femminicidio: altre tre donne uccise in poche ore
di Daniela Amenta


Sale a 118 il numero delle vittime: i carnefici ancora i compagni. Sia Lisa che Giovanna erano giovani madri. A Genova Luciana strangolata dal marito

Genova, si chiamava Luciana, aveva 67 anni. Strangolata dal marito. È morta la scorsa notte. Lui ha riportato ferite da arma da taglio. Stavano insieme da una vita. A 22 anni Lisa è stata uccisa a coltellate dall' ex fidanzato. All'origine dei litigi l'esame del Dna per il riconoscimento della figlia: è successo due giorni fa in provincia di Udine. Lisa aveva sporto numerose denunce contro l’uomo. Ma non è servito. Ieri nel casertano a 27 anni un'altra donna, madre di tre figli, è stata ammazzata con numerosi colpi di coltello dal marito, che ha poi tentato il suicidio. Ovvero si è ferito lievemente alla gola e all’addome. Le sue condizioni non sono giudicate gravi da sanitari. Tanto che è già finito in carcere. E invece mortali i fendenti che l’uomo, Giovanni Venturano, ha inferto alla moglie Giovanna De Lucia. Lei si era rifugiata dalla madre con i tre bambini dopo le continue liti con l’uomo. Lui si è presentato «con l’intenzione di ricucire il rapporto». Strano modo di tentare la via pacifica della mediazione visto che in tasca aveva un coltello con una lama lunga venti centimetri. Venturano ha detto, e anche questo fa parte del rituale delle frasi fatte, di «aver perso la testa» dopo il rifiuto della moglie. L’ha colpita ovunque. Anche sulle spalle quando Giovanna ha tentato l’ultima fuga disperata.
Tre vittime in poche ore. C’è una sceneggiatura scritta in questa mattanza che conta 118 donne uccise dall’inizio dell’anno. 118, più le vittime collaterali. Figli, bambini e bambine trasformati in orfani. Donne violate, massacrate da fidanzati, mariti, ex. Poi il finale tragico. Femminicidio. Come in Brasile, dove ogni due ore una donna viene assassinata. A questo dovremo arrivare perché l’Italia ritenga questa carneficina una emergenza? Se lo chiede Gabriella Carnieri Moscatelli, presidente di Telefono Rosa. «Siamo allibite, furiose, indignate. Mentre lo scempio della politica rimette il Paese sull'orlo del baratro dice Moscatelli ormai un numero impressionante di donne nel 2012 è finita nelle bare. Ancora una volta una giovanissima madre. Ancora una volta una donna torturata da uomini affamati di possesso e voglia di prevaricazione su chi è ritenuto, evidentemente, un oggetto». «Mentre l'Italia tutta si sta ribellando a questa strage continua la presidente dell'associazione di aiuto alle donne il Parlamento continua a “giocare” sulla ratifica della Convenzione di Istanbul, già firmata dal ministro Fornero, e si susseguono governi e politici per i quali la violenza sulle donne in Italia non è un'emergenza. Si continua a dire conclude Moscatelli che gli strumenti ci sono, che si fa già quel che si deve: se così fosse, questo massacro non continuerebbe con la sequenza inaudita di questo 2012 e noi non avremmo la nostra sede piena di donne e bambini che chiedono aiuto».
Lo scorso 30 novembre a Roma si è tenuto un tavolo sul tema del femminicidio voluto e organizzato da Luisa Betti (giornalista esperta diritti donne e minori), Antonella Di Florio (presidente sezione Tribunale di Roma), e Tiziana Coccoluto (giudice Tribunale di Roma), che hanno coinvolto Magistratura Democratica, Giulia (Rete nazionale delle giornaliste) e Giuristi democratici. Obiettivo: avviare un percorso di analisi e confronto tra chi lavora in ambiti diversi sul tema della violenza contro le donne. Tra i molti interventi quello di Vittoria Tola, responsabile nazionale dell’Udi e tra le promotrici della Convenzione No More, ha insistito sulle motivazioni profonde che sono dietro l’abuso e il femminicidio. «Un fenomeno iscritto nella tradizione che viene da lontano, e che appartiene alla mentalità ha detto Tola -. Una cultura che in questo caso significa l’insieme delle idee, valori, strutture fisiche e simboliche che definiscono soprattutto un potere e chi lo esercita in maniera dominante ed egemonica».

Repubblica 11.12.12
Tre giorni, tre omicidi l’infinita strage delle donne
di Michela Marzano


ANCORA tre vittime. Che si aggiungono, nel giro di pochi giorni, alle tantissime donne che continuano a morire nonostante non si smetta più di denunciare in tutti i modi questa violenza inaudita e senza senso. Che cosa sta succedendo? Perché non si riesce a fermare il femminicidio? Che cosa non riusciamo ancora a capire?
Il problema, di fronte a questo tipo di tragedie, è che le ragioni e le spiegazioni non bastano mai. Perché non ha senso accoltellare una donna solo perché ci sta lasciando. Non ha senso ucciderla solo perché non la si sopporta più o perché non si riesce a controllarsi. Non ha senso. Almeno se si parte dal presupposto che anche le donne, come gli uomini, sono degli esseri umani. E che, in quanto tali, non possono e non devono essere trattate come dei semplici oggetti. Solo un oggetto può essere distrutto per un capriccio o per rabbia. Solo di fronte ad un oggetto ci si può lasciare andare alle pulsioni distruttive senza remore e senza rimorsi. Ma forse il dramma è proprio qui: alcuni uomini trattano le donne come semplici “cose”. Se ne invaghiscono. Fanno di tutto per averle. Le usano. E quando qualcosa va storto, se ne sbarazzano. Quando le donne non ubbidiscono, non sopportano il modo in cui vengono trattate oppure dicono semplicemente di volersene andare, allora questi uomini le buttano via e le distruggono. Come farebbe un bambino con un vecchio giocattolo che non funziona più.
Quando Primo Levi racconta l’orrore vissuto durante la Shoah, si chiede se colui “che non conosce pace” e “che muore per un sì o per un no” possa ancora essere considerato un uomo. Descrive con lucidità e coraggio quello che lui e gli altri prigionieri hanno subito nel momento in cui, arrivati ad Auschwitz, vengono definitivamente reificati. Non sono più degli esseri umani, sono dei semplici stück, dei “pezzi”. Ecco perché i colpi che ricevono sono inferti con indifferenza. Ecco perché le SS non provano più alcuna compassione e si accaniscono contro di loro “senza alcuna ragione”. Nei campi di concentramento – come gli risponde una SS quando Levi si permette di chiedergli
il “perché” di tanto odio – non c’è nessuna spiegazione. È così: terribile e semplice al tempo stesso. Perché quando l’umanità viene annientata, tutto diventa possibile. Al punto che le stesse vittime, pian piano, finiscono con l’interiorizzare il comportamento e il pensiero di essere “meno di un uomo”, come spiegherà poi anche lo psicanalista Bruno Bettelheim nel suo capolavoro La fortezza vuota.
Il male, anche quello radicale, è sempre banale, come direbbe Hannah Arendt. Non perché il massacro di un popolo o il femminicidio siano banali. Di banale, nella morte di essere umano, non c’è proprio niente. Il male è banale solo perché lo si compie banalmente. Soprattutto quando non si riconosce più l’umanità delle persone che si violentano, accoltellano e uccidono. È l’unica spiegazione che si può tentate di dare a questo moltiplicarsi di violenze contro le donne. È l’unico “perché” che si riesce a trovare di fronte a questi uomini che non tollerano di perdere il controllo sulle proprie mogli o sulle proprie fidanzate; che non accettano la possibilità di essere lasciati; che non capiscono come mai un “oggetto” possa sottrarsi al proprio volere. Uomini che riducono la donna ad una semplice “cosa” priva di dignità. Uomini che si illudono di conservare la propria virilità e il proprio potere distruggendo questi “oggetti” che considerano come una loro “proprietà”. Come se l’altra persona non contasse nulla. Non avesse alcun valore. Non fosse niente. Niente altro che una cosa da buttare via quando non serve più. Jacques Lacan direbbe che si tratta di “sadici che rigettano nell’Altro il dolore di esistere”. Forse ha ragione. Peccato che il “dolore di esistere” di questi aguzzini si trasformi poi, per troppe donne, nella tragedia di non esistere più.


Repubblica 11.12.12
Un anno di Unicef
Bambini. Mai più vite negate
di Marina Cavalieri


Molti i risultati positivi ottenuti dall’Unicef che oggi compie 66 anni. Ma tanto c’è ancora da fare, perché ancora ogni giorno 19 mila piccoli muoiono per mancanza di cibo e di cure. Il programma “Vogliamo zero” per evitare stragi inutili

C’è una strage sommersa, dall’altra parte del mondo. Anno dopo anno, continua implacabile, colpisce bambini indifesi, di loro ci arrivano immagini dolorose, lo sguardo smarrito e muto, ma di loro non sentiamo mai la voce. È il silenzio degli innocenti, quello dei figli svantaggiati del pianeta, ogni giorno 19 mila piccoli sotto i 5 anni muoiono per cause che potrebbero essere prevenute.
A raccontarci dei bambini che non hanno niente, neanche da mangiare, è l’Unicef, l’agenzia delle Nazioni Unite per l’infanzia, che oggi celebra il compleanno e ci ricorda il programma iniziato nel 2011 “Vogliamo zero”. Nessun bambino deve più morire di fame. È puntata infatti sulla malnutrizione la campagna di questo Natale 2012, perché morire per mancanza di cibo è forse la morte più inaccettabile. L’Unicef lavora per l’infanzia dall’11 dicembre del 1946, quando iniziò per aiutare i bambini sfollati e rifugiati alla fine della Seconda guerra mondiale. Allora, tra le macerie dell’Europa, erano milioni quelli che non avevano cibo, che erano senza casa né vestiti né scarpe. Nei quindici anni successivi, l’Unicef si è trasformata da fondo di emergenza ad agenzia di sviluppo per difendere i diritti dell’infanzia. Nel tempo molte cose sono state fatte. Il numero di bambini che muoiono ogni anno è sceso da circa 12 milioni nel 1990 a 6,9 milioni nel 2011: ogni giorno sopravvivono circa 14 mila bambini in più rispetto a due decenni fa, il tasso di mortalità sotto i 5 anni è sceso da 87 decessi ogni mille nati vivi nel 1990 a 51 nel 2011.
Ma dietro la compilazione burocratica, nascosta tra le cifre, non bisogna mai smettere di pensare che c’è una vita negata, per ogni numero scritto su un elenco c’è un cuore di bambino che batte. Dunque: “Vogliamo zero”.
I bambini più svantaggiati oggi vivono nell’Africa sub-sahariana e nell’Asia meridionale, sono queste le due regioni che hanno totalizzato oltre l’80 per cento di tutte le morti infantili nel 2011. In media nell’Africa sub-sahariana, un bambino su nove non raggiunge il quinto compleanno. Più della metà dei decessi dovuti a polmonite e diarrea, che nel complesso rappresentano quasi il 30 per cento delle morti sotto i 5 anni nel mondo, si verificano in soli quattro paesi: la Repubblica Democratica del Congo, India, Nigeria e Pakistan. Il grande nemico è la malnutrizione, la fame cronica. Si soffre e si muore di fame per povertà, per carenza dei servizi di assistenza e sanità, per la fragilità dei sistemi di sicurezza di fronte alla siccità, alle alluvioni, alle guerre. È la malnutrizione il killer silenzioso, a livello globale oltre un terzo delle morti dei bambini è per fame.Nello Zambia quasi metà dei bambini non mangia a sufficienza. A Myanmar un terzo dei bambini fino a 5 anni per mancanza di cibo ha un ritardo della crescita. Il Camerun è colpito dalla crisi alimentare del Sahel, in questa zona il 32,5 per cento dei bambini sotto i 5 anni soffre la fame.
L’Unicef in queste zone provvede alla fornitura regolare di alimenti terapeutici pronti all’uso, sono fatti da farina di arachidi, zucchero, grassi vegetali, latte in polvere scremato, vitamine e altri nutrienti. Pasti che servono alla sopravvivenza. I bambini possono succhiare dalla confezione anche senza aggiunta di acqua, anche con le mani sporche. È il cibo salvezza, con una terapia di due mesi di Plumpynut, questo uno dei nomi dei pasti d’emergenza, è possibile salvare un bambino. Il costo? 0,28 euro a bustina. Briciole per chi vive da questa parte del pianeta.

Repubblica 11.12.12
Cosa succede nel nostro Paese
“Siamo tutti italiani”, il futuro vuole la cittadinanza ai figli degli immigrati

C’è tanto lavoro da fare anche in Italia quando si parla di Unicef. Lo sa bene Giacomo Guerrera, presidente del comitato italiano dal febbraio di quest’anno: «L’UNICEF Italia da più di 40 anni cerca di accreditarsi in un’area ben specifica sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. La nostra battaglia più forte al momento è per il riconoscimento della cittadinanza a quel mezzo milione di bimbi che oggi hanno solo il permesso di soggiorno». Una situazione di grave discriminazione perchè questi bimbi, pur frequentando le stesse scuole, non hanno gli stessi diritti dei loro coetanei. «Abbiamo proposto la modifica della legge 91 del 1992 ormai obsoleta perchè aveva forse un senso quando gli immigrati erano 700 mila persona mentre ora sono 5 milioni. Molti sindaci si sono mobilitati dando loro la cittadinanza onoraria ma ovviamente non è lo stesso». Non solo. «Ci siamo mobilitati in occasione del terremoto in Emilia dove i nostri giovani sono andati come volontari e hanno distratto quei poveri bambini. In più abbiamo invitato quelle aziende che normalmente aiutano noi a donare aiuti come se moralmente sostenessero noi.
Altra iniziativa valida è stato l’sms di solidarietà che ha portato più di 800 mila

l’Unità 11.12.12
Laicità diritti umani e progressisti
risponde Luigi Cancrini
psichiatra e psicoterapeuta


Registro delle unioni civili, testamento biologico e cittadinanza ai figli degli immigrati. Cose da Europa moderna; troppi diritti civili in una sola riga per noi che viviamo nel Medioevo! Invece si trattava dei programmi dei candidati alle primarie del centrosinistra lombardo. Mi chiedo come mai all’improvviso tutte queste istanze dei radicali sono diventate oggetto quantomeno di discussione e penso che Milano comincia finalmente a muoversi ma Roma resta ferma.
Paolo Izzo

Vero. E vero anche, però, che Milano è la città in cui l’elettorato ha impresso una forte spinta verso sinistra e che Roma è quella in cui, cinque anni fa, a vincere è stata la destra. Ricordarsene è importante ora, dunque, nel momento in cui siamo di nuovo chiamati a votare. Laicità e diritti umani diventano oggetto di discussione e di iniziativa politica solo nelle fasi e nei luoghi in cui a governare o, comunque, ad avere voce in capitolo c’è il centrosinistra e a ricordarsene dovrebbero essere, a questo punto, soprattutto gli esponenti di quel partito radicale che tanto ha fatto per far crescere il Paese su questi temi e che così spesso ha oscillato però, negli anni, fra destra e sinistra, quando si discuteva del futuro del Paese. Laicità e diritti umani sono assai difficili da difendere se le scelte politiche spingono, come è accaduto in questi mesi di berlusconismo, verso la creazione di sacche di privilegio incompatibili con la democrazia reale. Mentre tanto ci sarà da discutere su questi temi, partendo dagli orrori delle carceri e degli Ospedali psichiatrici giudiziari se quella che si aprirà dopo le elezioni sarà una fase in cui a guidare il Paese saranno i progressisti guidati da Bersani. All’interno di uno schieramento ampio di cui, questo è il mio augurio, i radicali sono e saranno parte integrante, concreta e significativa.

il Fatto 11.12.12
Mario Staderini
Radicali, partita truccata per vietarci il Parlamento
di Caterina Perniconi


Radicali fuori dal Parlamento. Questo potrebbe essere lo scenario che attende il partito fondato da Marco Pannella se non riuscirà a raccogliere le circa 160 mila firme necessarie per presentare la lista alle elezioni politiche. Per il segretario, Mario Staderini, “siamo sotto gli standard minimi della democrazia”.
Staderini, veniamo subito al punto: il problema è che non avete trovato un accordo con un grande partito, come nel 2008 con il Pd?
Non siamo mica dei panda. Noi non vogliamo sopravvivere a tutti i costi, chiediamo uno Stato di diritto.
Perché adesso non c’è?
L’intero processo elettorale non è democratico. Non si sa ancora quale sarà la data delle elezioni né con quale legge elettorale voteremo.
Il Porcellum è vivo e vegeto e se un governo cade durante la legislatura, dopo due mesi si va al voto.
D’accordo, ma questo momento è davvero particolare.
Come mai?
Perché le firme vanno raccolte in tutti i collegi, e se non hai autenticatori sul territorio il ministero non te li concede. Di più, nel Lazio e in Lombardia, dove si vota anche per le elezioni regionali, non ci sono proprio i moduli a disposizione. Le istituzioni se ne fregano. La raccolta delle firme si è trasformata in uno strumento per non far accedere al gioco chi è fuori dalla partita.
Ovvero solo chi ha un gruppo in parlamento è esente. Quindi potrebbe essere un problema anche per il Movimento 5 stelle.
Esatto. E noi, a differenza loro, non ci concentriamo solo sul nostro risultato elettorale ma cerchiamo di garantire un diritto. Per non parlare degli spazi negati in tv e le tribune politiche cancellate.
Quindi cosa farete?
Porremo la questione a Giorgio Napolitano, perché si impegni a far partecipare tutti nel rispetto delle regole, ora il pallino è nelle sue mani. Oggi è presidente di una Repubblica senza diritto, di uno Stato in flagranza criminale, e noi non vogliamo giocare una partita truccata.
Sta dicendo che preferite non presentarvi?
Non ci saremo se non possiamo usare il simbolo “Radicali italiani” all’interno di una coalizione. Nel 2008 siamo stati vittime di un ricatto: o entravamo nel Pd o stavamo fuori del tutto.
Poi però avete agito autonomamente in molte occasioni.
Il Pd in questi anni ha preferito evitare il dialogo con noi, ma hanno il dovere di rispondere ai loro stessi elettori. Se ci fosse una vittoria del centrosinistra senza il patrimonio radicale sui temi etici e della giustizia sarebbe una vittoria monca.
Suona come un appello a Bersani.
Al segretario del Pd, come anche a Vendola o alle forze del centrodestra, mi appello perché intervengano sulla democraticità delle elezioni, a supporto della nostra lotta che è per il diritto di tutti. Chi non si batte è complice.
Non avete pensato di discutere con il quarto polo arancione, fortemente schierato sui temi etici e sulla giustizia?
Dialoghiamo con tutti, ma bisogna capire cosa si intende per giustizia. Quella “alla Di Pietro” non ci interessa.
Insomma, Bersani o morte.
A Bersani importa qualcosa della nostra situazione? Se qualcuno si facesse carico di questa lotta, che è la stessa di quella per la giustizia e l'amnistia, sarebbe un fatto politicamente rilevante.

il Fatto 11.12.12
Prima di uscire provano a salvare i cacciabombardieri
Oggi alla Camera inizia il voto finale sulla riforma delle forze armate
che prevede meno soldi per gli stipendi e più investimenti per comprare armi
di Giorgio Meletti


Nel caos dell’imminente caduta, il governo tecnico si prepara a mettere in salvo uno dei provvedimenti che gli sono più cari: la riforma della forze armate, nel segno degli F35. Oggi la Camera dei Deputati inizia il voto finale sulla legge delega, già approvata dal Senato, che affida all’esecutivo la “revisione dello strumento militare”. Legge bipartisan, che piace al Pd e al Pdl, e che sarà accolta con una protesta bipartsian: un sit-in davanti a Montecitorio vedrà unite per una volta le rappresentanze militari del Cocer con i pacifisti (Tavola della pace, Sbilanciamoci, Rete italiana per il Disarmo).
I primi si battono contro una riforma che “determinerebbe uno spostamento di ingenti risorse (a regime tre miliardi di euro) dalle spese per il personale all’investimento”. I secondi contestano esattamente la stessa cosa, con una diversa sfumatura: se i militari sono preoccupati per i posti di lavoro, i pacifisti contestano che tutti i risparmi vengano destinati a comprare più armi.
PER IL MINISTRO della Difesa, Giampaolo Di Paola, è un trionfo personale, appunto nel segno degli F35. I nuovi cacciabombardieri americani sono una vecchia passione dell’ammiraglio. È stato lui, esattamente dieci anni fa, nella veste di segretario generale della difesa e direttore nazionale degli armamenti, a firmare con il governo americano il memorandum of understanding che dava il via alla partecipazione italiana al progetto. Fin da allora il lungimirante Di Paola era certo che il nuovo velivolo fosse in grado di soddisfare “le esigenze delle nostre forze armate, anche grazie alla estrema versatilità”.
Eravamo all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle e dell’attacco americano all’Afghanistan. Di Paola già vedeva la trasformazione delle forze armate nel senso che oggi viene votato alla Camera: svanisce l’esigenza di difendere il suolo patrio, cresce la vocazione a portare la pace in giro per il mondo con i cacciabombardieri. E infatti l’Eurofighter, prodotto europeo, è adatto alla difesa. L’F35 gioca bene all’attacco.
All’origine della legge delega oggi in votazione alla Camera c’è un tipico incidente della “maggioranza strana” che ha sostenuto il governo di Mario Monti. Nella primavera scorsa ci fu il tentativo di fermare il progetto di acquisto degli F35 (il programma è sceso da 131 a 90 pezzi, per un costo complessivo che rimane attorno ai 12-15 miliardi di euro), ma non c’era una maggioranza disposta a fermare Di Paola. La mozione “pacifista” di Savino Pezzotta (Udc) e Andrea Sarubbi (Pd), per conquistare l’approvazione, lasciò per strada lo stop all’acquisto dei cacciabombardieri, e si limitò a subordinarlo “al processo di ridefinizione degli assetti organici, operativi e organizzativi dello strumento militare italiano”.
DI PAOLA non ha perso tempo, e a tempo di record ha predisposto la legge delega, con cui si dà carta bianca al ministero della Difesa per riformarsi. Il personale civile dovrà scendere da 33 mila a 20 mila unità, i militari dagli attuali 183 mila a 150 mila, i generali da 450 a 310. L’obiettivo è di passare da un 70 per cento della spesa che finisce in stipendi, a una struttura più equilibrata: 50 per cento in stipendi, 25 per cento in spese di funzionamento, 25 per cento in investimenti, cioè in nuovi sistemi d’arma. Naturalmente, dice la legge delega, ogni euro risparmiato chiudendo caserme ed esodando militari rimarrà a disposizione della Difesa per l’acquisto di nuove armi, deciso in totale autonomia se facente parte di progetti già varati. Secondo il Rapporto 2013 di “Sbilanciamoci! ”, il ministero della Difesa è l’unico ad aver ottenuto dal governo Monti un aumento delle dotazioni finanziarie (oltre un miliardo nei prossimi tre anni) superiore ai tagli della spending review.
In realtà il taglio del personale della Difesa è stato già deciso dal governo Monti, e la riforma dello “strumento militare” serve soprattutto a inserirlo in un quadro programmatico chiaro: sempre di più le forze armate avranno la cosiddetta configurazione “smart”, cioè numericamente agile e molto ben equipaggiata, per essere pronti a intervenire efficacemente in teatri di guerra lontani dai confini nazionali, anche con cacciabombardieri d’attacco. Ciò che lascia perplessi molti parlamentari anche della (ex) maggioranza è la fretta di varare una riforma di tale portata, che dispiegherà i suoi effetti nei prossimi 15-20 anni, dopo una sola seduta di discussione nell’aula di Montecitorio, nella quale si sono contati gli interventi di nove deputati. Tanto più che la legge delega in votazione chiarisce che, se il Parlamento non darà il suo parere entro 60 giorni dalla presentazione dei decreti delegati (che potrebbero anche arrivare in piena campagna elettorale), varrà il silenzio-assenso. Insomma, carta bianca al ministro-ammiraglio.

il Fatto 11.12.12
Il Nobel per la Pace all’Europa delle armi
di Maurizio Chierici


MONTI MALINCONICO a Oslo dove Europa e Italia ricevono il Nobel della Pace per aver riconciliato un continente e difeso i diritti umani anche se non conviene precisare di chi. Non della Serbia “bombardata per amore della libertà” come ripeteva fra uno scoppio e l’altro il vescovo generale dei nostri cappellani militari. Nobel della Pace alla Francia di Sarkozy? Prima lancia i missili poi fa sapere in Tv d’aver dichiarato guerra al colonnello del terrore. Nobel della Pace all’Europa che fabbrica e vende armi per accendere rivolte contro dittatori che diventano infidi appena cambiano idea su petrolio e affari? Non sempre i premiati sono stinchi di santo. Kissinger, incoronato nel ’73 per la mediazione nel-l’apocalisse Vietnam, sorride a Oslo mentre programma la morte di Salvador Allende. Ma sono le armi a consolare l’Europa delle Borse. L’Italia ne proibisce il commercio con paesi dalle guerre endemiche e violazioni dei diritti umani: espropri case e proprietà con l’arroganza delle mitraglie. Sciocchezze per il governo Berlusconi-La Russa. Nel 2005 firma con Israele importazioni, esportazioni e “transito di materiali militari”, cooperazione articolata in due memorandum, uno pubblico l’altro segreto: nasconde sviluppo e produzione belliche, addestramenti comuni. Le spiate di Wikileaks fanno sapere dei messaggi tra l’ambasciata di Roma e il ministro della Difesa Robert Gates: “La Russa è l’uomo giusto. Strenuo difensore dell’aumento delle spese militari. Protagonista chiave per potenziare le basi Usa”. Dopo un po’ arriva il governo dei tecnici, ministro della Difesa l’ammiraglio Giampaolo Di Paola. Fino al 17 novembre 2011 faceva il presidente del Comitato Militare della Nato e il giorno dopo (divisa ancora tiepida) giura nelle mani di Napolitano. 24 ore non bastano per ripensare una cultura faticosamente decorata negli anni. E le spese non cambiano. Di Paola insiste per avere i suoi F-35 con testata nucleare. Li riduce da 121 a 90, ma intanto i prezzi aumentano: 123 miliardi e 390 milioni di dollari, 123 volte l’Imu di Roma più l’Imu di Milano.
L’EREDITÀ DEGLI ACCORDI con Israele viene confermata malgrado l’operazione Piombo Fuso a Gaza, 1400 morti, 422 bambini bruciati dal fosforo bianco che l’Onu documenta con ordigni non esplosi. Mentre si preparava il finimondo per punire la stupidità fanatica di chi da Gaza spara razzi che fanno solletico agli arsenali atomici, Italia e Israele giocano alla guerra nelle esercitazioni aeronavali della Sardegna e nel Negev, missili aria-terra e bombe a caduta libera. Quanto vale un’ora di volo di una superfortezza? Più di 40 mila ticket sanitari. Monti va in Israele con Di Paola per vendere 30 velivoli da addestramento avanzato, affare da un miliardo compensato dall’acquisto in Israele di tecnologie, missili aria-terra anticarro, antifanteria, apri bunker e due velivoli di pronto allarme: 1 miliardo e 230 milioni. Respirano gli operai delle industrie della morte: nessuna crisi, posto che non corre pericolo: il lavoro li rende liberi. Ma chi trema sotto le loro bombe, cosa può pensare del Nobel della Pace?

Corriere della Sera 11.12.12
Cina, il nuovo Timoniere viaggia sulle orme di Deng
Prima uscita di Xi Jinping: più economia di mercato
di Marco Del Corona


PECHINO — Occorre un po' di tempo per plasmare mitologie. Un canovaccio già pronto però funziona benissimo, e Xi Jinping è andato a colpo sicuro. Se all'inizio del 1992 Deng Xiaoping compì un «viaggio a Sud» per rilanciare «le riforme e l'apertura» che lui stesso aveva varato nel dicembre 1978 e che il massacro della Tienanmen nel 1989 aveva inceppato, anche il neosegretario del Partito comunista ha scelto il Guangdong per il suo primo viaggio fuori da Pechino. È la regione che nel 1980 vide la nascita della prima «Zona economica speciale» e infatti Xi si è recato a Shenzhen, il villaggio vicino a Hong Kong ora metropoli simbolo del boom cinese. L'epicentro di quella «fabbrica del mondo» che tuttavia comincia a battere in testa.
La missione era stata annunciata venerdì soltanto da giornali cinesi pubblicati all'estero e dalla stampa di Hong Kong. Una prudenza praticata fino a oggi, quando anche i media ufficiali hanno riferito del nuovo «viaggio a Sud». Di Xi sono state riportate alcune battute: «Bene ha fatto il Comitato centrale del Partito a condurre riforme e apertura, continueremo su questa strada che rende il Paese più forte e il suo popolo più ricco, e faremo progressi ulteriori» (sul Quotidiano di Nanchino); e: «Il governo vuole seriamente studiare le questioni che s'impongono e vuole perfezionare l'economia di mercato», questo «rafforzando lo stato di diritto» (Xinhua).
Non tutto è filato liscio. La polizia è intervenuta venerdì contro una protesta organizzata da circa 3 mila operai dell'Huacai Printing and Packaging Plant, senza effetti sulla visita di Xi ma con arresti e manganellate riferiti da testimoni oculari al South China Morning Post. Tuttavia l'operazione-Shenzhen è servita a oliare i meccanismi della comunicazione. Il segretario, accompagnato dalla moglie e dalla figlia, ha raggiunto la statua di Deng sulla collina di Lianhua, dove si è inchinato tre volte, ha deposto un mazzo di fiori e ha piantato un albero. Nel programma del leader, che ha toccato tra l'altro Zhuhai, erano incluse una sosta dalla madre Qi Xin e una al quartier generale del colosso web Tencent che avrebbe fornito alla famiglia un account sul microblog QQ. Le immagini restituiscono un Xi Jinping in giacca e gilet scuri ma senza cravatta. Casual pure i funzionari al seguito.
Oscurati i leader uscenti Hu Jintao e Wen Jiabao, comunque presidente e premier fino a marzo, l'offensiva di pubbliche relazioni è vasta. Un giornale ha ripubblicato un editoriale di vent'anni fa, il Quotidiano del Popolo ha piazzato in prima pagina le istruzioni di Xi sulla scrittura dei burocrati, altrove sono stati ripercorsi gli eccessi patiti da Chongqing a causa del «neomaoista» Bo Xilai (espulso dal Partito e in attesa di processo), mentre proprio in Guangdong affiorano progetti pilota per obbligare i funzionari a rivelare i loro patrimoni. Analisti e accademici hanno tracciato paralleli espliciti tra il 1992 e il 2012, tra Deng e Xi. I certosini della propaganda, che su Internet hanno riammesso le ricerche relative ai nomi dei nuovi leader, dovranno comunque lavorare parecchio: l'inflazione è risalita in novembre al 2,1% (era 1,7% in ottobre), un istituto affiliato alla banca centrale ha stimato la disoccupazione urbana nel luglio scorso all'8,05% (quasi il doppio delle stime ufficiali) mentre il coefficiente Gini del 2010 sarebbe allo 0,61, dato che indica un allargarsi della disuguaglianza fra ricchi e poveri. Il viaggio a Sud, da solo, non basta.

La Stampa 11.12.12
Siamo realisti, riconosciamo che l’etica è soggettiva
Nel dibattito sul “New realism” interviene Flores d’Arcais: Putnam ha torto, la divisione tra giudizi di fatto e di valore è invalicabile
Non ci sono valori veri (o falsi) ma solo valori creati. Siamo noi i signori del bene e del male
di Paolo Flores d’Arcais


Se il New realism si limitasse a rivendicare semplicemente - contro la tesi ermeneutica che «non ci sono fatti, solo interpretazioni» - l’esistenza «là fuori» di una realtà che prescinde da noi, saremmo alla banalità, al«pensiero debole» sostituito dal «pensiero futile». Che ci saranno lombrichi e galassie, anche quando non ci saremo noi, lo ammette per primo Vattimo, immagino. Ma il New realism, ci dice Putnam, afferma molto di più, non riguarda solo la verità (meglio: l’accertabilità) degli asserti scientifici, bensì il rifiuto di riconoscere una divisione di principio tra giudizi di fatto (scienza) e giudizi di valore (etica). Perché entrambi riscontrabili nella realtà. E invece no. Il New realism di Putnam ha torto (ma il New realism di Eco o di Ferraris è già differente), quel confine è intransitabile.
In primo luogo è semplicemente falsa l’affermazione di Putnam secondo cui «la scienza presuppone sempre valori epistemici come la coerenza o la semplicità». Quei valori possono influenzare, motivare o addirittura guidare il ricercatore nello «scremare» fra le ipotesi, ma alla fine contano solo gli esperimenti cruciali, che corroboreranno come scientifica una teoria anche se meno elegante delle ipotesi concorrenti(il bosone di Higgs, per dire, è sommamente inelegante e complicato).
In secondo luogo «valori epistemici» e «valori morali» non hanno nulla in comune, poiché è l’aggettivo a fare la differenza essenziale. E la questione fondamentale è proprio se i valori morali abbiano una realtà oggettiva come i fatti empiricamente accertabili, o siano invece creati dai diversi gruppi umani (e infine dai singoli individui) e dunque ineludibilmente relativi a ciascuno di essi.
Per il New realism di Putnam sono legati all’oggettività, sostenere il contrario è un errore (p. 37 di Fatto/valore, fine di una dicotomia, ed. Fazi). Quando usiamo aggettivi come crudele e malvagio o sostantivi come crimine intrecciamo inestricabilmente scopi normativi e accertamento descrittivo (p. 40). Dire perciò che «il signor X è crudele» sarebbe riscontrabile nel fatto stesso del suo comportamento. La cui valutazione sarebbe «intersoggettivamente cogente» (se la parola «oggettivo» disturba i puristi) quanto l’affermazione «la composizione chimica dell’acqua è H2O» (più «impurità residue», altrimenti qualche sofista obietta).
Ma, purtroppo per Putnam, mentre questa seconda affermazione è vera (intersoggettivamente accertabile in modo cogente), la prima è strutturalmente soggettiva, relativa ai valori morali (che possono essere agli antipodi) di chi la pronuncia. Diamo un nome al «signor X»: l’indimenticabile top model Verusckha racconta come a scuola (siamo già nel dopoguerra) venisse isolata e ingiuriata sottovoce come figlia del traditore, poiché suo padre, il conte Henrich von Lehndorff, aveva preso parte al fallito attentato a Hitler del 20 luglio 1944. Quell’attentato, che per Putnam e per me è stato «eroico», è invece «crimine»per due o tre generazioni di tedeschi (che probabilmente leggono Goethe e ascoltano Beethoven), milioni dei quali approvavano i Lager per i «malvagi» ebrei, zingari e comunisti.
Insomma, da un insieme di fatti accertabili non si potrà mai dedurre un giudizio di valore univoco, poiché i valori fondamentali che guidano i nostri giudizi morali non sono dati in natura, non sono conoscibili come i fatti, e meno che mai sono scolpiti eguali e indelebili in tutti i cuoriumani. Della specie Homo sapiens fanno parte allo stesso titolo (ahimè) tanto Francesco d’Assisi quanto Adolf Hitler, tanto la «volontà di eguaglianza» quanto la «volontà di potenza», tanto i fautori della democrazia quanto quelli della teocrazia o del Führerprinzip. Perciò non esistono valori veri (o falsi), ma solo valori creati. Di cui ciascuno di noi è esistenzialmente responsabile, proprio perché la nostra responsabilità non si limita (come vorrebbe Ratzinger e ogni altro cognitivista etico, religioso o meno che sia) a riconoscere valori «oggettivamente» dati (dove?): siamo i creatori e signori «del bene e del male» secondo scelte incompatibili ( aut la democrazia aut la teocrazia o il Führerprinzip: non è questione di conoscenza, ma di lotta). Questa responsabilità abissale ci terrorizza, ma è ineludibile.

La Stampa 11.12.12
Kakfa e i topi, terrore a prima vista
di Mario Baudino


Battuta all’asta La lettera a Max Brod in cui lo scrittore confessava la sua fobia La busta della lettera inviata da Franz Kafka all’amico Max Brod nel dicembre del 1917. Il documento è stata acquistato per 96 mila euro dal Deutsches Literaturarchiv di Marbach
Era terrorizzato dai topi, e lo rivelò all’amico Max Brod scrivendogli nel dicembre 1917 dalla fattoria della sorella Ottla, in Boemia. La lettera, in cui Franz Kafka rivela tutto se stesso in poche righe, era già nota agli specialisti, ma sembrava impossibile risalire all’originale, rimasto nascosto per 95 anni. Qualche mese fa tre collezionisti privati hanno però deciso di metterla in vendita, provocando una virtuosa colletta tra donatori: che ha consentito al Deutsches Literaturarchiv Marbach, il grande archivio tedesco con sede a Marbach am Neckar, di conquistarla per 96 mila euro all’asta tenuta venerdì scorso a Sulzburg.
Niente male per quattro pagine, ma probabilmente li valgono tutti. Perché dentro c’è gran parte del mondo del grande scrittore. E soprattutto quel terrore dei topi, che connette esplicitamente a una paura generalizzata di tutto ciò che è piccolo: «È purissimo terrore quello che sento, ed esplorarne le origini è un lavoro da psicanalisti». Propone anzi un esempio, piuttosto bizzarro: «L’idea di un animale che sia esattamente eguale a un porco è in se stessa comica, ma se fosse piccolo come un topo e venisse fuori grugnendo da un buco del pavimento, sarebbe orribile». L’ossessione per lo sporco, i parassiti, i vermi è una costante nella vita dello scrittore. Ma, all’occorrenza, Kafka riesce a scherzarci su. Per esempio, sempre in questa lettera, parla della gatta: educata in vario modo (botte comprese) all’idea «che la defecazione è qualcosa di impopolare e che di conseguenza bisogna scegliere con attenzione il posto adatto», ha trovato la soluzione. «Sceglie per esempio un luogo che sia buio, che abbia una relazione con me e sia di suo gradimento. Se guardiamo alla faccenda dal punto di vista umano, questo luogo risulta essere l’interno della mia ciabatta».
La lettera fa quasi certamente parte di quelle che Max Brod portò con sé in Palestina quando emigrò nel ’39. Da allora il possesso di quel tesoro, che contiene anche manoscritti originali delle opere più note, è conteso tra Israele, la Germania e gli eredi alla lontana di Brod. Anche questa lettera sembra destinata a riaprire un caso. Il quotidiano Haaretz, riportando la notizia, ricorda che tutto il materiale di Brod, secondo una recente sentenza di un tribunale israeliano, spetta appunto a Israele.

il Fatto e The Independent 11.12.12
Da Hitler a Breivik
Storia di una norvegese
Scampò alle bombe alleate e diede un figlio al nazista
di Robert Fisk


Syreneset Fort (Norvegia). Tore e io ci stiamo arrampicando sulla montagna per raggiungere la fortezza tedesca di Syreneset fatta costruire dalla Wermacht nel 1942. D’improvviso Tore si volta verso di me e mi dice che il diffondersi del fondamentalismo islamico è da attribuire al fallimento dell’istruzione in gran parte del mondo arabo. Gli rispondo che non sono d’accordo. Non è forse vero che alcuni degli attentatori dell’11 settembre erano laureati in università occidentali? Il dirottatore libanese non era forse figlio di una insegnante e di un funzionario delle imposte? Tore Mydland, dirigente di banca in pensione, replica dicendomi di aver molto riflettuto e di essere giunto alla conclusione che i giovani indottrinati nelle moschee credevano a tutto quello che veniva loro detto. Mentre tento di tenere il suo passo lungo sul ripido sentiero di montagna, cerco di non scivolare sullo sterco di pecora proteggendomi dal vento gelido che spazza le isole della Norvegia occidentale. Rispondo, col fiatone, che è stata l’ingiustizia e non l’ignoranza a spingere gli uomini alla violenza.
GLI CHIEDO a bruciapelo: non è stata proprio la Norvegia a produrre Breivik, l’altro lato della medaglia di al Qaeda? E Breivik non era forse istruito? E non erano istruiti i gerarchi nazisti che nel 1940, dopo l’invasione della Norvegia, ordinarono di portare sulla fortezza di Syreneset un impressionante numero di cannoni? Ebbene quei nazisti non erano forse a modo loro fondamentalisti della peggiore specie? Tore si volta verso di me: “Quando i tedeschi invasero la Norvegia avevo otto anni e cercavo di ignorare la loro presenza. Mio padre, Arnlev, lavorava al telegrafo e quindi era costretto ad avere rapporti con molti tedeschi. Mio padre continuò a lavorare lì, ma nessuno sapeva che lavorava anche per la Xu, la resistenza norvegese. Grazie al suo lavoro poteva inviare informazioni in tutta la Norvegia”. La Gestapo effettuò numerosi controlli in casa loro, ma non riuscì mai a dimostrare che Arnlev era membro della resistenza. Mentre camminiamo ci imbattiamo in un gruppo di case di legno in una delle quali abita ancora uno dei norvegesi che contribuì a costruire l’enorme fortezza che troneggia in cima alla montagna. Un collaborazionista? “Erano pescatori o povera gente. Però mi ha sempre raccontato che lui e molti altri lavoratori cercavano di sabotare la costruzione utilizzando cemento molto scadente e poco resistente”, mi spiega Tore. Lui si arrampica con l’agilità di una capra di montagna. Gli sto dietro a fatica, eppure ha 80 anni. Finalmente arriviamo in cima: la fortezza è in perfetto stato di conservazione con i cannoni, le casematte, i bunker per le munizioni, i fossati, le cisterne in cemento ancora piene d’acqua, i posti di comando, le feritoie per le mitragliatrici. All’interno, sulle pareti si possono ancora leggere i messaggi e le istruzioni scritti dai nazisti. In cima un ignoto soldato tedesco – senza dubbio guardando la distesa fredda e argentata del mare del Nord come sto facendo io – ha scritto: 8 aprile 1943, Gegen England, verso l’Inghilterra. Quando Hitler si uccise c’erano ancora in Norvegia circa 380 mila soldati tedeschi in attesa di una invasione degli Alleati che non ebbe mai luogo. Settanta soldati tedeschi di una divisione di artiglieria aspettavano in questa mostruosa fortezza, mentre le navi della neutrale Svezia solcavano il mare dirette in Germania con il carico di ferro che sarebbe stato trasformato in cuscinetti a sfera per i carriarmati Tiger.
I CACCIA Mustang distrussero i fari, ma gli aerei britannici non sganciarono bombe su questa fortezza. Sembra però che abbiano bombardato il traghetto locale uccidendo molti civili norvegesi che si trovavano a bordo. “Una donna riuscì a salvarsi e a raggiungere la riva a nuoto e in seguito ebbe un figlio da un soldato tedesco”, mi dice con voce tranquilla Tore.
“Era nato in Austria e a guerra finita tornò qui per conoscere suo figlio e farsi perdonare. Il ragazzo vive ancora qui. È una brava persona”. Rimango colpito dall’umanità del mio amico e dal racconto del traghetto, la donna che si mette in salvo per dare alla luce un figlio con il nemico. Da romanzo. I norvegesi quando parlano di istruzione usano la parola “sapere”. Come fecero i tedeschi con tutto il solo sapere a creare un male che ancora oggi appare incomprensibile, quasi indicibile? Tore scuote la testa. Forse stiamo pensando la stessa cosa: che questa testimonianza del Terzo Reich sarà ancora qui tra mille anni.
© The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

il Fatto 11.12.12
Intervista a Daniele Morante
“Quanti amori incompiuti e segreti, nelle lettere di Elsa”
di Nanni Delbecchi


Solo chi ama conosce”, ha scritto Elsa Morante. Se questo fosse vero, come è vero che un velo di mistero e di leggenda – vecchi amici – ne copre la vita, non si poteva trovare titolo migliore per l’epistolario pubblicato in occasione del centenario. Il titolo è L’amata, e il curatore Daniele Morante (coerede di Elsa con Carlo Cecchi) ritiene che illumini di una luce nuova la vita della scrittrice. Non ci tiene a passare per il prediletto (“dei 14 nipoti di Elsa, ero del resto l’unico che la frequentava regolarmente”), dice che “l’idea è nata per caso, in concomitanza con il trasloco degli oltre 5 mila documenti lasciati da Elsa dalla casa di Carlo Cecchi”. Dice anche che fin dall’inizio non voleva realizzare un epistolario incentrato solo sulle lettere della Morante; poi, nel corso del complesso lavoro di selezione di circa 600 testimonianze, si è quasi imposta un’immagine tanto più forte quanto non prevista.
Alla fine, la sproporzione è evidente. Le lettere di Elsa sono la metà di quelle ricevute.
Io non ho mai voluto un epistolario monodico, ma polifonico. Elsa doveva essere messa in luce attraverso il dialogo, non il monologo, per contraddire la sua inguaribile convinzione di non essere mai stata amata.
Eppure pochi scrittori sono stati circondati di altrettanto affetto.
Sì, ma di una sorta di devozione e perfino di un’adorazione pubblica che non soddisfaceva i suoi bisogni. Certo, aveva avuto la sua parte nello scegliersi questo destino. Aveva desiderato la gloria, ed era orgogliosa di averla raggiunta. Ma la gloria è in contraddizione con un certo livello di amore...
Comunque nelle lettere gli amori-amori non mancano. Moravia, Luchino Visconti, Bill Morrow, fino al “Romeo scespiriano” di cui non si aveva notizia.
Un inglese, bello e facoltoso, di cui non siamo riusciti a individuare con precisione l’identità, almeno fino a ora. Elsa lo incontra a 22 anni e la relazione prosegue, anche sovrapponendosi a quella con Moravia, almeno fino al 1948. Un primo amore estremamente appassionato, stando alle lettere di lui.
Tutto il contrario della celebre dichiarazione di Moravia: “Ho sempre amato Elsa, ma non ne sono mai stato innamorato”
Anche su questo sorgono certi dubbi, leggendo le lettere di lui. Di sicuro, c’era un patto di reciproca tolleranza. Nelle relazioni di Elsa, come con Visconti e Bill Morrow, Moravia si spinge addirittura a dare consigli. La sensazione è che tra i due non ci fossero segreti.
Anche quando Elsa scrive a Visconti “Avrei voluto un figlio da te?”
Questa è un’affermazione che mi ha molto sorpreso. In famiglia sapevamo che in seguito a un aborto clandestino le era divenuto impossibile avere figli.
In teoria, un matrimonio indistruttibile.
Fosse stato per Moravia, credo di sì. Dalle lettere scritte dopo la morte di Morrow appare evidente che si rassegna ad abbandonare il tetto coniugale, nonostante tutti i tentativi di farla ragionare, quando si rende conto che Elsa è diventata assolutamente intrattabile.
Impossibilità fisica a parte, da questi carteggi non risulta alcun rimpianto per la maternità.
Esteriormente, no. Ma nel profondo, chissà. Lei diceva che aveva la nostalgia di non essere un ragazzo. Ma Saba le scrisse: “Bada, ti sbagli. Forse la nostalgia di non essere un ragazzo è la nostalgia di non avere avuto un ragazzo”.
Però ci fu “un amore ragazzo” con Bill Morrow, che aveva vent’anni quando lei si approssimava ai cinquanta. Anche su questo incontro le lettere dicono molte cose nuove, come il ruolo cruciale svolto dall'amante cileno di Morrow, Sergio Gajardo.
La tragica fine di quell'amore viene letta nell’Epistolario come la chiave di volta della vita.
Dopo il suicidio di Morrow, Elsa chiude la porta in faccia alla passione, come se avesse fatto un voto. Diventa un’altra persona, trasformandosi anche fisicamente. Smette di tingersi i capelli, si copre il capo con un fazzoletto a fiori da babuska, si traveste da vecchietta. Una parte che non abbandonerà più.
E comincia la stagione delle grandi amicizie.
Amicizie soprattutto numerose, per la maggior parte con i famosi “ragazzini” che a volte avevano come unico merito quello di essere giovani. Come se avesse sostituito il ragazzo che aveva amato con “i ragazzi”.
Com’era Elsa, come amica?
Esigente, ma generosa, esuberante, divertente. Ci sono scrittori che sulla pagina fanno scintille e poi, di persona, sono incredibilmente timidi. Lei nella vita era ancora più scintillante. Affascinava e intimidiva. Non potevi mai lasciarti andare, perché ti riprendeva con critiche acute, ma spesso anche pesanti. E aveva una capacità prodigiosa di leggere dentro gli altri.
È vero che non sopportava le donne?
Non sopportava il femminismo ma, come si vede dall’epistolario, tra i suoi rapporti più cari non mancano figure femminili come Renata Debenedetti o Natalia Ginzburg…
Mai una passione, però.
Una ci fu. Quella per Leonor Fini. In lei e nel suo liberissimo menage à trois ammirava la donna realizzata oltre che nell’arte anche nei sensi. Una realizzazione che a lei non riuscì mai.
Pasolini, Dario Bellezza, Patrizia Cavalli, Alfonso Berardinelli, lo stesso Carlo Cecchi… Come si spiega l’assenza di tanti grandi amici nell’epistolario?
Intanto con l’impossibilità fisica per l’ultima Elsa di scrivere lettere. Ma anche la sua intransigenza si radicalizzò. Si susseguirono le rotture, perché nemmeno gli amici più intimi sopportavano più la sua aggressività, e molti di loro non hanno ritenuto di rendere pubbliche le loro lettere. Io stesso mi sono dovuto allontanare da Elsa; comunque ho escluso dall’epistolario la mia corrispondenza, come quella di tutti i famigliari.
All’indomani della morte lei scrisse: “Perdonami Elsa, per non averti amato abbastanza”. Crede che l’abbia perdonato?
Quando Elsa era in vita l’amor proprio mi aveva fatto schermo, impedendomi di essere me stesso fino in fondo; perché, sa, l’amor proprio può essere una brutta bestia... Ma quando Elsa è morta le cose sono cambiate, e mi sono in gran parte riconciliato con lei scrivendo questo libro. Sì, credo che dopo questo libro mi abbia perdonato.

Corriere 11.12.12
E Napoleone invocò la rinascita d'Israele
Il ritorno degli ebrei: un auspicio di molti statisti
di Paolo Mieli


Il 4 ottobre del 1844, Warder Cresson, figlio di ricchissimi quaccheri nonché proprietario terriero di Philadelphia, dopo aver abbandonato la moglie ed essersi fatto nominare dal segretario di Stato americano John Calhoun console generale in Siria, giunse a Gerusalemme. Disse che era venuto per favorire il «ritorno degli ebrei», così da preparare l'umanità in vista del Secondo Avvento e dell'imminente Apocalisse. Cresson non era il solo nel suo Paese a pensarla a quel modo. Già i primi missionari avevano creduto che gli indiani d'America fossero discendenti delle tribù perdute di Israele e che ogni buon cristiano avrebbe dovuto compiere «atti di giustizia» a Gerusalemme per agevolare il ritorno degli ebrei nella loro terra. Sentimento poi condiviso persino dai padri fondatori degli Stati Uniti, Thomas Jefferson e Benjamin Franklin. «Vorrei tanto che gli ebrei tornassero in Giudea come nazione indipendente», aveva scritto il secondo presidente americano, John Adams. Nel 1819, due giovani missionari di Boston, Levi Parsons e Pliny Fisk, si trasferirono, nel nome di un «dovere spirituale», a Gerusalemme. Lo stesso fece nel 1837 Harriet Livermore, figlia e nipote di deputati del New England, dopo aver predicato per anni a sioux e cheyenne per convincerli che erano eredi delle tribù di Israele e che avrebbero dovuto seguirla nella terra di Sion. In quello stesso periodo un ex ufficiale dell'esercito del Massachusetts, William Miller, stabilì che Cristo sarebbe tornato a Gerusalemme tra il 1843 e il 1844, calcolando dalla profezia che l'evento si sarebbe puntualmente verificato dopo «duemilatrecento sere e mattine» (a suo avviso da interpretarsi non come giorni, ma come anni) a partire da quando, nel 457 a.C., il re persiano Artaserse I aveva ordinato la restaurazione del Tempio. Miller fece centomila proseliti che non si diedero per vinti neanche quando la profezia non si avverò.
E così, quando Cresson si mise in viaggio alla volta di Gerusalemme, una grande quantità di evangelici decise di seguirlo. Poco tempo dopo, al presidente degli Stati Uniti, John Tyler, giunsero numerosi rapporti diplomatici nei quali quel console veniva definito «maniaco religioso» o «pazzo» e il governo americano lo congedò. Ma Cresson rimase a Gerusalemme, continuò a rilasciare a chi lo raggiungeva «visti di protezione» e si convertì all'ebraismo, prendendo il nome Michael Boaz Israel. A questo punto, la moglie abbandonata lo denunciò per infermità mentale e Cresson fu costretto a tornare a Philadelphia per affrontare il dibattimento. Fu un processo molto importante perché oggetto del contendere divenne il diritto costituzionale di credere in ciò che si vuole. L'ex console fu condannato in prima istanza, ma in appello fu assolto e la sentenza fu una pietra miliare nella storia americana della libertà di culto. Cresson tornò allora a Gerusalemme, creò una fattoria modello, studiò la Torah, divorziò dalla moglie per sposare un'ebrea e, quando morì, fu sepolto nel cimitero ebraico sul monte degli Ulivi. A seguito del «caso Cresson» furono tali e tanti gli americani che si trasferirono nella futura Israele che un giornale statunitense paragonò questa migrazione alla corsa all'oro in California.
Qualche tempo dopo, quando visitò Gerusalemme, Herman Melville fu assai colpito dal fervore dei millenaristi americani («questa assurda giudeomania, fra il malinconico e il farsesco») e previde una «delusione molto dolorosa» per le loro attese. Ma un altro scrittore, William Thackeray, notò invece che a Gerusalemme — città che, per l'interessamento dello zar Nicola I e dopo un viaggio di Nikolaj Gogol, cominciava ad attrarre anche i russi — stava accadendo qualcosa per cui sarebbe diventata «il centro della storia mondiale passata e futura». Tra il 1800 e il 1875 furono pubblicati circa cinquemila libri, in inglese, su Gerusalemme.
Gerusalemme è la casa del Dio unico, la capitale di due popoli, il tempio di tre religioni ed è la sola città che esista sia in cielo che in terra. Ad essa Simon S. Montefiore (discendente di sir Moses Montefiore — ebreo livornese e inglese, baronetto della regina Vittoria, di cui era anche amico personale, cognato di un Rothschild — che nel 1827 fondò il primo quartiere ebraico della città) ha dedicato un libro, Gerusalemme, che sta per essere pubblicato da Longanesi. Il volume cerca di spiegare perché quel sito «lontano dalle vie commerciali sulla costa mediterranea, povero d'acqua, riarso dal sole d'estate, battuto da venti freddi in inverno, un luogo povero annidato tra le colline della Giudea, caratterizzato da rocce scabre e inospitali», sia così importante nella storia dell'umanità. In altre parole come è stato possibile che quella città sia diventata (anzi, sia stata dall'inizio e per migliaia di anni) il punto nodale dello scontro fra le religioni abramitiche, il santuario del «crescente fondamentalismo cristiano, ebraico e islamico», il campo di battaglia strategico di civiltà in lotta tra loro, la «linea del fronte tra ateismo e fede». Un «mattatoio delle religioni», la definì Aldous Huxley. Costruita settemila anni fa, in seguito fu abbandonata e rifiorì 19 secoli prima della nascita di Cristo, all'epoca della civiltà minoica; fu conquistata dal re Davide attorno al 1000 a.C., per poi essere distrutta due volte: dal re babilonese Nabucodonosor (586 a.C.) e dal figlio dell'imperatore Vespasiano, Tito (70 d.C.). Nel corso dei sei secoli e mezzo che separarono le due distruzioni del Tempio, la città fu in mano ai persiani (539-336 a.C.), ai macedoni (336-166 a.C.), ai Maccabei (164-66 a. C.) e infine ai romani, che dal 40 a.C. al 66 d.C. ne delegarono il governo agli Erodi. Ai tempi di Vespasiano, Tito e Domiziano, ebrei e cristiani furono perseguitati in egual misura. Poi Traiano fu più crudele con i cristiani e nel 106 fece crocifiggere Simone, il loro capo. Adriano, invece, fu più spietato con gli ebrei, ai quali vietò, pena la morte, la circoncisione. Nel 130 fece ribattezzare Gerusalemme Aelia Capitolina e successivamente toccò a lui affrontare l'ultima grande rivolta ebraica, guidata da Simon bar Kochba: dopo che l'ebbe sconfitta, scatenò una vendetta che, secondo Montefiore, «fu quasi un genocidio». «Pochissimi sopravvissero», racconta Cassio Dione, «cinquanta avamposti e 985 villaggi vennero rasi al suolo, 585 mila ebrei vennero uccisi in battaglia» e molti altri «dalla fame, dalle malattie e dal fuoco». A tutti loro fu, in seguito, proibito di avvicinarsi ad Aelia. Scomparvero settantacinque insediamenti ebraici, gli ebrei ridotti in schiavitù erano talmente tanti che al mercato di Hebron valevano meno di un cavallo. Adriano, scrive Montefiore, cancellò la Giudea dalla carta geografica, ribattezzandola volutamente Palestina in onore dei filistei, gli antichi nemici degli ebrei. Il suo successore Antonino Pio autorizzò di nuovo la circoncisione. Più favorevoli agli ebrei furono anche Settimio Severo e Caracalla, che incontrò Judah ha-Nasi e lo riconobbe come patriarca della comunità israelitica conferendogli il potere (ereditario) di dirimere le controversie religiose. Più feroce contro i cristiani fu, nel 299, Diocleziano.
La città (ma non gli ebrei) conobbe un'età dell'oro dopo che Costantino con l'editto di Milano (313) concesse privilegi alla religione cristiana e soprattutto dopo che nel concilio di Nicea (325) fu sconfitta l'eresia di Ario. Gerusalemme tornò ad essere quella che era stata prima di Tito. Elena, madre di Costantino, trovò tre croci tra cui era quella (la cosiddetta Vera Croce) di Gesù, dandosi nel contempo alla ricerca di tutto ciò che potesse essere considerato sacra reliquia. Per facilitare le conversioni, Costantino ordinò di bruciare sul rogo gli ebrei (da lui definiti «detestabile plebaglia») che tentavano di impedire ai loro confratelli di convertirsi al cristianesimo. Fortunatamente per gli israeliti, il nipote di Costantino, Giuliano l'Apostata — desideroso di averli al fianco all'atto di attaccare la Persia — abolì le tasse agli ebrei, revocò le leggi che li perseguitavano e restituì loro i beni confiscati. Ma nel 425 Teodosio ordinò l'esecuzione di Gamaliel VI, l'ultimo patriarca ebraico, abolì definitivamente la carica e riprese le persecuzioni.
Poi, nel corso dei secoli, sostiene Franco Cardini in Gerusalemme. Una storia (Il Mulino), quel centro divenne sempre più un magnete. Fino ai tempi più recenti. «Nonostante potesse provocare forme anche morbose di repulsione, la città possedeva d'altronde anche la prerogativa di colpire con una sorta di fascinazione maniacale, una specie di vera e propria "sindrome di Gerusalemme", una quantità di simpatici (e quasi sempre innocui) dilettanti i quali, dopo una visita in Terrasanta, si improvvisavano orientalisti cimentandosi in laboriose ricerche archeologiche, bibliche o storiche», scrive Cardini. E fu così per secoli. Fino ai primi dell'Ottocento, quando ci fu un salto di qualità.
In principio fu il Bonaparte che, nel 1799, avanzò spedito verso la città. Niente si frapponeva tra Napoleone e Gerusalemme, scrive Montefiore, «tranne il Macellaio». Il Macellaio, Jazzar, era Ahmet Pasha, il signore della guerra della Palestina ottomana. Nato cristiano in Bosnia, da dove era stato costretto a fuggire dopo aver commesso un omicidio, Ahmet era stato schiavo a Istanbul, dove lo aveva comprato un ricco egiziano che lo aveva convertito all'Islam e ne aveva fatto il capo dei suoi uomini armati. Era diventato poi governatore del Cairo e si era fatto una grande fama difendendo Beirut dalla flotta di Caterina la Grande, prima che la città si arrendesse ai russi al termine di un lungo assedio. Il sultano lo aveva compensato promuovendolo a governatore di Sidone e poi di Damasco, sotto la cui giurisdizione era Gerusalemme, tenuta dagli Husseini che gli dovevano obbedienza. Jazzar si era fatta la fama di Macellaio mutilando chiunque sospettasse di slealtà. Un inglese che gli fece visita ad Acri notò che era «circondato da persone storpie e sfigurate; a tutti i funzionari e alle guardie alle porte mancava un arto, il naso, un orecchio o un occhio». Il suo ministro ebreo, Haim Farhi, era stato privato «di un orecchio e di un occhio» solo perché fosse «marchiato». Fu anche un massacratore di cristiani e quando sospettò il suo harem di tradimento, uccise 7 delle sue 18 mogli e divenne per tutti l'«Erode del suo tempo». Allorché i francesi assediarono Giaffa, il porto di Gerusalemme, la città fu subito nel panico, una folla saccheggiò i monasteri cristiani e i monaci mobilitarono a loro difesa i gerosolimitani. Per parte sua, Napoleone non fu meno crudele. Bonaparte e le sue truppe «consideravano chiaramente la spedizione contro i musulmani al di fuori delle regole di un comportamento civile». Quando prese d'assalto Giaffa, i suoi «soldati fecero a pezzi uomini e donne, uno spettacolo terribile», scrisse uno degli scienziati francesi al seguito dell'esercito, sconvolto dal «fragore degli spari, le urla delle donne e dei padri, cumuli di corpi, una figlia violentata sul cadavere di sua madre, l'odore del sangue, i lamenti dei feriti, le grida dei vincitori che si litigavano il bottino», finché si diedero pace «sazi di sangue e di oro, sopra un cumulo di morti». Il futuro imperatore decise che, prima di Gerusalemme, avrebbe dovuto conquistare Acri e poi recarsi «di persona a piantare l'albero della Libertà nel punto esatto in cui Cristo aveva sofferto». Stabilì poi che il primo soldato francese caduto nell'attacco sarebbe stato sepolto nel Santo Sepolcro. Il 16 aprile 1799, Napoleone sconfisse la cavalleria di Ahmet nella battaglia del monte Tabor, e quattro giorni dopo emanò un proclama datato (falsamente) da Gerusalemme (che non aveva ancora conquistato). «Bonaparte, comandante in capo degli eserciti della Repubblica francese in Africa e in Asia», si rivolgeva, «ai legittimi eredi della Palestina, unica nazione degli ebrei che sono stati privati della terra dei loro padri da millenni di bramosia di conquista e di tirannia» per dire loro: «Levatevi con gioia, voi esuli, e prendete possesso del patrimonio d'Israele… Il giovane esercito ha fatto di Gerusalemme il mio quartier generale e fra pochi giorni si trasferirà a Damasco in modo che possiate rimanere lì (a Gerusalemme, ndr) a governare». Si può dire, ha scritto Jacques Attali, che il Bonaparte fu un sionista ante litteram. E la storia di Israele avrebbe potuto cominciare di lì…
Ma Jazzar, grazie anche all'aiuto del commodoro britannico Sidney Smith, respinse ben tre attacchi dell'armata napoleonica. I francesi lasciarono sul campo 1.200 morti e 2.300 feriti, che — quando dopo tre mesi Napoleone ordinò la ritirata in Egitto — furono in gran parte uccisi dai loro stessi commilitoni per evitare che cadessero nelle mani di Jazzar e fossero fatti a pezzi alla maniera del Macellaio. «In Terra Santa», commentò il generale francese Jean-Baptiste Kléber, «abbiamo commesso enormi peccati e grandi stupidaggini». Quando Bonaparte — dopo aver dato la colpa della sua sconfitta a Smith, «l'uomo che mi ha impedito di portare a compimento il mio destino» — decise di lasciare anche l'Egitto e tornarsene in patria, Kléber aggiunse: «Quel disgraziato ci ha abbandonati con le brache piene di merda».
Tutto ciò mentre Sidney Smith, con il consenso di Ahmet e del sultano Selim III, conduceva i suoi marinai (in uniforme di gala accompagnati dal rullio dei tamburi) da Giaffa a Gerusalemme, dove aveva alzato la bandiera britannica sopra il monastero di San Salvatore. Quel giorno il superiore dei francescani dichiarò che «ogni cristiano di Gerusalemme» aveva «un grande debito di riconoscenza verso la nazione inglese e Smith in particolare» perché grazie a loro era stati «salvati dalla mano spietata di Bonaparte». Era la prima volta dal 1244 che truppe europee (o, per meglio dire, «franche») entravano a Gerusalemme.
Il principe Potëmkin, l'imperatore Napoleone e il presidente degli Stati Uniti John Adams, scrive Montefiore, «credevano tutti nel ritorno degli ebrei a Gerusalemme al pari dei nazionalisti polacchi e italiani e naturalmente dei sionisti cristiani in America e in Gran Bretagna». Di qui nacque il sionismo. Nel 1836 un rabbino ashkenazita prussiano, Zvi Hirsch Kalischer, cercò fondi per finanziare una nazione ebraica e in seguito ha raccontato la sua storia nel libro Cercando Sion. Poi un rabbino sefardita di Sarajevo, Rabbi Yehuda Hai Alchelai, avanzò la proposta che gli ebrei nel mondo islamico eleggessero dei leader e acquistassero della terra in Palestina. Nel 1862 il rabbino Kalischer stabilì che la restaurazione messianica attesa dal popolo ebraico non si sarebbe verificata per miracolo: «Gli uomini», scrive Cardini, «avrebbero dovuto cooperare alla sua realizzazione; il rientro degli ebrei nella Terra Promessa, in Eretz Israel, sarebbe stato il pegno e il segno della rinascita». E fu in quello stesso 1862, nota Montefiore, che Moses Hess, un compagno di Karl Marx, predisse che il nazionalismo avrebbe portato a un antisemitismo razziale, in Roma e Gerusalemme: l'ultima questione nazionale, che proponeva una società socialista ebraica in Palestina.
Fin dal 1841, ricostruisce Cardini, il governo ottomano aveva consentito agli ebrei di disporre di un rabbino capo in Palestina, che avrebbe avuto la sua sede a Gerusalemme. E fu su iniziativa del rabbino Kalischer che l'Alleanza Israelita Universale fondò in Palestina la scuola di agricoltura Mikveh Israel. I primi pionieri ebrei in Palestina, prosegue Cardini, furono «accolti in genere abbastanza bene». Tuttavia «già dal 1891 i notabili arabi del Paese avevano rivolto al governo ottomano un appello affinché si impedisse agli ebrei un "ingresso indiscriminato" e un "incontrollato acquisto di terre"».
Nel 1883, nota ancora Montefiore, molto prima che il libro di Herzl Lo Stato ebraico venisse pubblicato, arrivò in Palestina la prima ondata di 25 mila immigrati ebrei. La maggior parte di loro (non tutti però) venivano dalla Russia. Ma Gerusalemme, osserva ancora Montefiore, attrasse anche i persiani a partire dal 1870 e gli yemeniti a partire dal 1880. «Questi gruppi tendevano a vivere insieme nelle loro comunità: gli ebrei di Bukhara, compresa la famiglia dei gioiellieri Moussaieff che avevano tagliato i diamanti per Gengis Khan, crearono il loro quartiere secondo una pianta ben precisa, con grandiose residenze spesso in stile neogotico, neorinascimentale, talvolta moresco, residenze che dovevano somigliare a quelle delle città dell'Asia Centrale».
Poi (1896) fu Lo Stato ebraico di Theodor Herzl, quello stesso Herzl che nel 1897 presiedette il primo congresso sionista a Basilea; fu, quindi, la dichiarazione Balfour (1917) che promise agli ebrei il «focolare» in Palestina; e fu la fine dell'impero ottomano (1922). Il kaiser tedesco Guglielmo II era stato, a suo modo, un sionista. Un sionista antisemita. Quando apprese che alcuni israeliti andavano a trasferirsi in Argentina disse: «Oh, se soltanto potessimo inviarci i nostri». E allorché venne a sapere del sionismo di Herzl, scrisse: «Sono molto favorevole al trasferimento dei Mauschels (ebrei) in Palestina. Prima si levano di torno, meglio è». Il che convinse Herzl che «gli antisemiti stavano diventando per lui gli amici più fidati». In ogni caso il kaiser prese la questione sul serio e, in appoggio a Herzl, nel 1898 si recò a Gerusalemme per proporre il suo piano sionista al sultano Abdul Hamid. Senza successo.
Le migrazioni comunque proseguirono. Ancora nel marzo del 1919 re Faisal dava il benvenuto agli ebrei che si andavano stabilendo tra Siria e Palestina, riferisce Cardini, dicendosi convinto della possibilità di un «futuro comune di sviluppo delle due comunità in spirito di concordia». Invece poco più di un anno più tardi a Gerusalemme, nell'aprile del 1920 (giorno detto del Nabi Musa, il «profeta Mosè», in quanto consacrato alla sua memoria) scoppiò «la prima grande sommossa araba contro la presenza ebraica». In una città affollata di pellegrini ebrei e cristiani, ricostruisce Montefiore, 60 mila arabi si radunarono per la festa di Nabi Musa, guidati dagli Husseini. Il diarista Wasif Jawhariyyeh li udì intonare canti di protesta contro la dichiarazione Balfour. Il fratello minore del Mufti, Haj Amin al-Husseini incitò la folla mostrando un ritratto di Faisal: «Questo è il vostro re!». La gente gridò: «La Palestina è la nostra terra, gli ebrei sono i nostri cani!» e si riversò nella città vecchia. A un tratto, ricordava Khalil Sakakini, «il furore si trasformò in follia». Molti estrassero pugnali e mazze, gridando: «La religione di Maometto venne fondata con la spada!» La città, osservò Jawhariyyeh, divenne un campo di battaglia. I manifestanti ripetevano a gran voce: «Morte agli ebrei!».
Il governatore inglese Ronald Storrs uscì dalla chiesa anglicana dopo il servizio mattutino e «trovò Gerusalemme fuori controllo». Corse al suo quartier generale sentendosi come se qualcuno gli «avesse conficcato una spada nel cuore»: sapeva di poter contare soltanto su 188 poliziotti nella città. Chaim Weizmann presidente della World Zionist Organization fece irruzione nel suo ufficio per chiedere aiuto. Vladimir Zeev Jabotinskij e Pinchas Rutenberg raccolsero delle pistole e radunarono duecento uomini, più di quanti ne avesse Storrs. Ma questi pose il veto a qualsiasi azione. Jabotinskij disattese quell'ordine ed ebbe uno scambio a fuoco con gli arabi. Alla fine si contarono cinque ebrei e quattro arabi morti, 216 ebrei e 23 arabi feriti. 39 ebrei e 161 arabi furono processati. Poco tutto sommato. Ma, scrive Montefiore, «quel giorno iniziò realmente la sparatoria». E non è ancora finita.

La città più contesa sacra a tre religioni
Uscirà in traduzione italiana presso l'editore Longanesi, nel primo trimestre del 2013, il libro Gerusalemme dello studioso inglese Simon Sebag Montefiore, pubblicato in Gran Bretagna dalla casa editrice Weidenfeld & Nicolson nel 2011. È invece già in libreria il volume di Franco Cardini Gerusalemme. Una storia (Il Mulino, pagine 311, 16). Il libro Lo Stato ebraico, manifesto politico scritto nel 1896 dal fondatore del sionismo Theodor Herzl, è edito in Italia dal Melangolo.

Corriere 11.12.12
Petrarca, «avaro» fra i Tre Grandi
Critico di Dante e sprezzante verso la lingua di Boccaccio
di Cesare Segre


I nostri tre massimi scrittori del Trecento, e massimi in assoluto, furono presto indicati, araldicamente, come «le Tre Corone». Primo fu Dante (1265-1321); seguirono Petrarca (1304-1374) e Boccaccio (1313-1375). I due ultimi, che non poterono conoscere il primo, si frequentarono e furono amici. Ma Dante, pur ormai nel mondo dei più, riuscì ad accendere tra loro un certo, persistente, dissenso. Ammiratore e imitatore di Dante, Boccaccio si era consacrato generosamente alla conoscenza della sua opera, scrivendo un Trattatello in laude di Dante e delle Esposizioni sopra la Comedia, organizzando le prime «lecturae Dantis», trascrivendo materialmente suoi codici, salvando dalla dispersione scritti, come lettere ed egloghe, e memorie.
Tutto al contrario, Petrarca cita pochissime volte, quasi con avarizia, il nome di Dante. Agli amici, come Boccaccio e Francesco Nelli, che sollecitano da lui un giudizio, risponde sempre con reticenze e ambiguità, anche se non riesce a nascondere una certa considerazione. Soprattutto, trasforma il giudizio in una constatazione, ovvia, che lui e Dante appartengono a una diversa fase culturale. Mai si lascia sfuggire una lode esplicita. La critica più chiara è il rimprovero a Dante di avere scritto la Commedia in volgare, e perciò di essere rimasto al di sotto delle sue possibilità. La situazione cambia se si esamina l'influsso esercitato da Dante sulle opere di Petrarca. Che, se le reminiscenze di Dante sono consistenti nel Canzoniere, diventano decisive nei Trionfi, sino a riecheggiare alcune scene della Commedia. Accusato di invidiare Dante, Petrarca si difese energicamente. Ma forse, per comprendere meglio il suo atteggiamento, giova partire da altre considerazioni.
Petrarca tradusse in latino l'ultima novella del Decameron, quella di Griselda. Un grande onore, che moltiplicò il successo internazionale delle cento novelle. Ma con che spirito la tradusse? La lettera con cui Petrarca spiegava a Boccaccio l'inconsueta iniziativa dice che una copia del Decameron era giunta quasi per caso nelle sue mani, e che lui «le ha dato un'occhiata» (traduzioni di L.C. Rossi), non avendo tempo per «un'attenta lettura». L'opera, dice Petrarca, probabilmente con una smorfia, è scritta in volgare (come la Commedia), dunque è «destinata al volgo e in prosa». «Inconsistente l'argomento», insiste, e purtroppo ci sono anche «eccessi di licenziosità». E così via. Più una stroncatura che una lode, a parte il giudizio sulla novella di Griselda: il racconto, dice, lo ha «avvinto al punto da volerla memorizzare», e commosse sino alle lacrime un suo amico autorevole. Insomma, la novella che ha tradotto è molto superiore alle altre; e questo vale anche per lo stile elevato, il tono eroico. E dato che Petrarca, traducendo, accentua altezza di stile e tono eroico, nasce e si fa strada il sospetto che abbia voluto insegnare a Boccaccio come avrebbe dovuto scrivere anche lui (a partire dalla scelta linguistica: ovviamente il latino).
Come per Dante, anche nel giudizio sul Decameron si fa sentire la diversità di gusto: Petrarca preferisce un pubblico, e uno stile, più aristocratico, detesta l'uso della prosa e l'attenzione a racconti popolareschi, fantasie senza rapporti con la realtà. Petrarca aveva in mente gli storici e i moralisti latini, che erano i suoi veri modelli. Ma le sue critiche non potevano essere espresse con toni meno sprezzanti, trattandosi, con Boccaccio, di un amico? La fierezza di appartenere alla nuova civiltà umanistica e di partecipare alla riscoperta del pensiero classico non poteva essere sfumata dall'affetto?
Un libriccino di Francisco Rico, Ritratti allo specchio (Boccaccio, Petrarca), Padova-Roma, Antenore, pagine 160, 12, ci porta nel pieno della leggenda sull'amicizia Petrarca-Boccaccio. Rico, grande ispanista e studioso del Don Chisciotte, è anche uno dei più brillanti specialisti di Petrarca. Comincia demolendo alcuni particolari della leggenda dovuti a errori d'interpretazione: l'ospitalità offerta a Firenze (1350) da Boccaccio a Petrarca è una metafora erroneamente intesa alla lettera dagli interpreti; un'epistola di Petrarca, che dimostrerebbe l'antichità dell'affetto verso Boccaccio, sarebbe stata retrodatata ad hoc dall'autore. Petrarca, dice Rico, «vedeva Boccaccio a volte come un servitore e a volte come un fratello. Un fratello minore e meno dotato, che s'istruisce e incoraggia ma il cui talento non si apprezza». Un tipo di rapporto evidente nei prestiti e negli scambi di manoscritti, per i quali Boccaccio è estremamente liberale, e Petrarca avarissimo. Il risultato è che spesso Boccaccio ignora opere di Petrarca, e quest'ultimo trascura quelle del collega. Il lavoro di Rico è ancora in corso, ma certo questo cambio di prospettiva riserva altre sorprese.
Da brani di lettere riportati da Rico appare che la devozione di Boccaccio è indefettibile; sappiamo che Petrarca gli appariva talora negli incubi, terrorizzandolo. Eppure, al bisogno, Boccaccio seppe anche criticare prese di posizione politiche del maestro, come quando Petrarca accettò l'ospitalità di Giovanni Visconti, a Milano, nel 1353. L'espansionismo lombardo metteva in pericolo la situazione dei fiorentini, smentiva le idee espresse precedentemente da Francesco, faceva sospettare vantaggi economici consistenti. Sotto il velo di un racconto bucolico, Boccaccio si esprime con severa schiettezza. Generoso, Boccaccio, ma non succube. La lettera è ora ripubblicata da Ugo Dotti, Lettere a Petrarca (Torino, Aragno, pp. 237-51).
Ma alla fine, come sono andate le cose nella nostra prospettiva di posteri? Boccaccio ha puntato giustamente sulla Commedia, che continuiamo a considerare un capolavoro senza rivali. E ha lanciato strofe e generi letterari (il poema in ottave). Ha dunque influenzato profondamente da un lato la novellistica, che, iniziata con lui, è tuttora vivissima, dall'altro l'epica cavalleresca, sino ad Ariosto e Tasso. Gli spagnoli in particolare hanno amato e imitato il suo romanzo d'amore in prosa, la Fiammetta.
Per contro, le scelte del Petrarca (prescindendo naturalmente dall'azione complessiva dell'Umanesimo e della nuova filologia sul piano mondiale) sono state in gran parte travolte dal tempo: le sue opere latine sono lette solo dai pochissimi specialisti, l'Africa è quasi dimenticata. Certo, c'è il sublime Canzoniere. Ma è proprio scritto in volgare... Quanto, poi, al giudizio sui comportamenti (che naturalmente non tocca la valutazione artistica), non possiamo fare a meno di contrapporre, secondo quanto suggerisce Rico, la generosità calda e fattiva di Boccaccio alla chiusura superciliosa di Petrarca.

Repubblica 11.12.12
Il bello del Volgare
Perché Dante diventa il profeta di una lingua viva
Una nuova edizione del “De vulgari eloquentia”
Così il poeta decise che era necessario abbandonare il latino
di Massimo Cacciari


Una straordinaria edizione del De vulgari eloquentia, a cura di E. Fenzi, inaugura la nuova edizione commentata delle opere di Dante, promossa dal Centro Pio Rajna. Impresa che si annuncia da questo primo volume davvero monumentale. Il De vulgari non è soltanto commentato, sulla scorta in particolare delle fondamentali ricerche di Pier Vincenzo Mengaldo, con una vastità di erudizione e profondità critica, che non ha precedenti, ma, oltre a un importante saggio di F. Bruni sulla Geografia dantesca in riferimento alle aree linguistiche considerate nel trattato, ci sono offerti in appendice tutti i testi poetici francesi, provenzali, italiani citati da Dante e il primo volgarizzamento del De vulgari ad opera del Trissino, stampato a Vicenza nel 1529, che sottraeva l’opera ad un oblio secolare.
Opera, a mio avviso, così rivoluzionaria, da non poter essere lasciata “pascolo” della sola erudizione storico-filologica. Verità mai prima “tentate” affronta Dante anche qui. Anche qui egli è “profeta”. E la prima, fondamentale di queste verità è che solo l’uomo parla. Nessun altro animale, né angelo. Gli animali usano segni, sì, fanno-segni, ma sensibili soltanto. E gli angeli comunicano immediatamente riflettendosi tutti nello “specchio” del Divino sovraessenziale.
Ma la lingua è segno sensibile e razionale, congiunge in sé spirito e natura. E ciò ne costituisce l’intatta nobiltà, simbolica nell’accezione più pregnante. L’istinto è unico per ogni specie animale. E neppure le specie angeliche si distinguono, se non per il posto che occupano nella celeste Gerarchia. Nell’uomo, invece, la ragione «diversificetur in singulis », si manifesta diversamente nelle diverse persone. Ognuno di noi come ha una propria, individuale anima, così manifesta quasi una propria ragione. E non è affatto un “male” – anzi dobbiamo godere di ciò. Ma insieme anche comprendere le difficoltà e responsabilità che ne nascono. Comunicare tra umani sarà sempre esposto al pericolo del fra-intendersi. È necessario esserne consapevoli ed elaborare perciò una sapiente eloquenza, un linguaggio per quanto possibile ordinato e capace di esprimere col massimo rigore le idee, sempre destinate per manifestarsi ad incarnarsi in segni sensibili.
Ecco allora l’imperiosa necessità di costruire un volgare illustre – un volgare con cui potersi esprimere nelle accademie e nelle corti, nei tribunali e nella grande politica. Un volgare cardine del nostro comunicarci, che si innalzi sulle miserie municipali – non perché Dante abbia cessato di amare Firenze, anzi: la ama da esule ancora di più – ma proprio da esule ha imparato che le città vivono solo se universali, solo se la loro lingua è così potente da comunicare a tutto il mondo.
Ma non basta il latino? Certo, è nobile la grammatica, certo essa garantisce un ordine perfetto. Ma non solo essa non può essere da tutti compresa – e il nuovo intellettuale, Dante, da tuttiessere compreso. Il vero problema è che mai potrò esprimere in latino i drammi dei tempi nuovi, mai potrò rappresentare in latino la vita di queste città, il loro conflitto con Chiesa e Impero, la scandalosa decadenza della Chiesa, la catastrofe dell’idea imperiale. Le idee e i conflitti di questa età debbono trovare il proprio linguaggio, così come il nuovo ordine di Augusto l’aveva trovato in Virgilio. Altrettanto nobili entrambi. Ma solo il primo oggi vivente. Inutile allora il latino? Nient’affatto – il latino è l’esempio insuperabile della sintesi di sapienza e eloquenza. Il latino insegna a volerla e perseguirla nel volgare.
Ma non diventerà così anche il volgare una lingua artificiale? Impossibile – esso affonda nella matrice, esso è radicato, prima di ogni parola, nella nostra infanzia. Insieme al dono stesso della libertà, Dio infonde nella nostra anima quella forma locutionis, che ci rende capaci di assumere, senza nessuna regola, qualsiasi lingua con cui la madre ci chiami. (So bene che il Fenzi intende diversamente l’espressione “forma locutionis”, come riferita alla sola prima lingua parlata da Adamo, che per Dante, come per tutta la tradizione precedente, non poteva che essere l’ebraico). Non artificiale deve essere il volgare, ma così potente da esprimere ogni idea, da comunicare ogni contenuto. Da essere poesia, insomma, nel senso primo di poiesis, capacità fabbrile, forza tettonica.
Poetica dovrà essere perciò la fondazione della lingua da tutti parlata e da tutti in qualche modo intesa – poetica, meglio, quella sua ri-fondazione, che la renderà atta a creare vere comunità di parlanti. Poeti saranno i fabbri migliori del parlare materno.
Ma non diviene instancabilmente questo parlare? Come dargli una forma? E non è questo suo continuo fluire immagine dello stesso animale uomo «instabilissimum atque variabilissimum »? Come “curare” le infinite varietà delle lingue, e le varietà interne ad ogni singola lingua? Ma proprio la universale vicissitudine delle cose rende necessario cercare il Comune, costruire forme di intesa e comunicazione, che a tutti possano appartenere proprio perché a nessuno appartengono. Nessuna astrattezza in tale compito – il Comune va perseguito attraversando la concretezza vissuta delle forme di vita che i diversi idiomi rappresentano. Nessun sedentario lavoro “a tavolino”, ma caccia appassionata da città a città, anzi: da quartiere a quartiere, e cioè da vita a vita, per scovare quelle forme che appaiano le più salde, quelle dotate di più “storia”, quelle capaci di rendere più forte e convincente il nostro dire. E anche più bello, più sonante, più armonioso. Straordinario impasto di coscienza storica, sperimentalismo, ricerca di “grande forma”. E di amore per il parlare materno. In epoche in cui la lingua viene ridotta a puro mezzo per scambiarsi qualche informazione, in cui la sua forza simbolica viene strapazzata, in cui i municipalismi più plebei minacciano di dissiparne l’energia comunicativa universale, e sembra che a questi si debba rispondere soltanto con il rigore dei linguaggi formali-artificiali delle “scienze esatte”, l’appello di Dante in onore del volgare, sì, ma perché si faccia illustre, suona ancora in tutta la sua carica innovativa. Loquor ergo sum, parlo e perciò sono – ma per poterlo affermare la mia locutio deve saper tendere a quella sapienza, eloquenza e bellezza le cui tracce e i cui indizi il Vate indaga senza riposo, e con i quali costruisce la somma architettura della Commedia.

Repubblica e The New York Times 11.12.12
I lavoratori, i robot e i signori della rapina
di Paul Krugman


L’economia americana, sotto molti punti di vista, è ancora adesso gravemente depressa. Eppure gli utili societari stanno raggiungendo cifre da record. Come è possibile? Semplice: gli utili si sono impennati come frazione del reddito nazionale, mentre i salari e le altre retribuzioni della manodopera sono in flessione. La torta non sta crescendo come dovrebbe, ma il capitale se la passa bene arraffandone una fetta sempre più grossa, a discapito della manodopera.
Un momento: stiamo forse parlando ancora una volta di capitale in contrapposizione a lavoro? Non è un argomento obsoleto? Un soggetto quasi marxista di cui parlare, passato di moda nella nostra moderna economia dell’informazione? Beh, questo è quanto molti pensavano. Per la scorsa generazione i discorsi sull’ineguaglianza non si sono concentrati per lo più sul capitale in contrapposizione a lavoro, ma su questioni di distribuzione tra lavoratori, e quindi o sul divario esistente tra i lavoratori più istruiti e quelli meno istruiti o sui redditi in forte rialzo di un pugno di superstar nel campo della finanza e di altri settori. Questa sì, in effetti, potrebbe essere storia passata.
Più specificatamente, se è vero che i pezzi grossi della finanza stanno ancora agendo da banditi – in parte perché, come ormai sappiamo, alcuni di loro effettivamente lo sono –, il divario retributivo tra i lavoratori che hanno un’istruzione universitaria e quelli che non l’hanno (che si acuì molto in modo particolare tra gli anni Ottanta e i primi Novanta) da allora non è variato granché. In verità, i lavoratori neolaureati avevano redditi statici addirittura prima che la crisi finanziaria colpisse. Sempre più spesso, gli utili stanno aumentando a spese dei lavoratori in genere, compresi i salariati che hanno le qualifiche ritenute adatte a portare al successo nell’economia odierna.
Perché sta accadendo questo? Il meglio che posso dire è che vi sono due spiegazioni plausibili, ed entrambe potrebbero essere vere in parte. La prima è che la tecnologia ha preso una piega che colloca in posizione di netto svantaggio la manodopera. L’altra è che stiamo assistendo agli effetti di un palese aumento del potere dei monopoli. Provate a pensare a queste due ipotesi come a una maggiore importanza conferita ai robot da una parte e ai signori della rapina dall’altra.
Parliamo di robot: è fuor di dubbio che in alcuni settori industriali di alto profilo la tecnologia sta rimpiazzando sempre più lavoratori di tutti i generi o quasi. Per esempio, una delle ragioni per le quali da qualche tempo alcuni processi produttivi di articoli hi-tech stanno tornando negli Stati Uniti è che ormai il componente di maggior valore di un computer, la scheda madre, è fabbricato in pratica da robot, e di conseguenza la manodopera asiatica a prezzi stracciati non costituisce più un motivo valido per produrlo all’estero.
In un libro appena pubblicato e intitolato Race Against the Machine (La corsa contro le macchine), Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee dell’Mit sostengono che la stessa cosa sta avvenendo in molti campi disparati, compresi servizi quali la traduzione e la ricerca legale. Negli esempi da loro addotti in particolare colpisce il fatto che molti posti di lavoro soppressi richiedono alte competenze e sono ben retribuiti. Ne consegue che lo svantaggio della tecnologia non è limitato ai mestieri più umili.
E tuttavia: innovazione e progresso possono danneggiare davvero un gran numero di lavoratori o addirittura i lavoratori in genere? Spesso mi imbatto in affermazioni secondo le quali ciò non può accadere. In verità, invece, può accadere eccome, e illustri economisti sono consapevoli di tale probabilità da almeno due secoli. David Ricardo è un economista dell’inizio del XIX secolo famoso per lo più per la sua teoria del vantaggio comparato, che costituisce uno dei capisaldi del libero commercio. Ma nel medesimo libro del 1817 nel quale Ricardo illustrava quella teoria c’è anche un capitolo su come le nuove tecnologie della Rivoluzione industriale ad alto impiego di capitale di fatto avrebbero potuto peggiorare le condizioni dei lavoratori, quanto meno per un po’. Gli studiosi moderni puntualizzano che le cose in realtà sono andate avanti così per parecchi decenni.
Che dire dei signori della rapina? Di questi tempi non si parla molto del potere dei monopoli. L’applicazione delle leggi anti-trust durante gli anni della presidenza Reagan è stata per lo più abbandonata e da allora non è mai ripresa davvero. Eppure Barry Lynn e Phillip Longman della New America Foundation sostengono – in modo convincente, dal mio punto di vista – che la crescente concentrazione di aziende potrebbe costituire un fattore determinante ai fini della stagnante richiesta di manodopera, dato che le
corporation usano il loro potere monopolistico in netta espansione per aumentare i prezzi senza passarne gli utili ai propri dipendenti.
Ignoro in che misura la tecnologia o il monopolio possano spiegare la svalutazione della manodopera, in parte perché si parla molto poco di quello che sta accadendo. Tuttavia, penso che sia corretto affermare che lo spostamento del reddito dalla forza lavoro al capitale non è ancora entrato nel nostro dibattito nazionale.
Quello spostamento, peraltro, è in corso, e ha implicazioni ragguardevoli. Per esempio, vi sono forti pressioni, lautamente finanziate, a favore della riduzione delle aliquote fiscali applicate alle grandi società. È davvero questo che intendiamo lasciare che accada nel momento in cui gli utili sono in forte aumento a detrimento dei lavoratori? E che dire delle pressioni volte a ridurre o abolire del tutto le imposte di successione? Se stiamo per tornare a un mondo nel quale è il capitale finanziario – e non le qualifiche professionali o il livello di istruzione – a determinare il reddito, vogliamo davvero rendere ancora più facile ricevere in eredità la ricchezza?
Come ho premesso, questo dibattito non è ancora iniziato sul serio. In ogni caso, è ora di iniziarlo, prima che i robot e i signori della rapina trasformino la nostra società in qualcosa di completamente irriconoscibile.
(Traduzione di Anna Bissanti) © 2012, The New York Times

Repubblica 11.12.12
Fino alla fine del mondo
Il filosofo Foessel, in un libro, analizza l’idea di catastrofe che appartiene al nostro tempo
“E’ il declino dell’Occidente che ci fa temere l’apocalisse”
“Questo tema è un’ossessione presente qui anche perché avvertiamo il tramonto e ci sentiamo decadenti”
“Apres la fin du monde. Critique de la raison apocalyptique” di Foessel
Sul tema in Italia è uscito “La fine del mondo” di Pievani (Il Mulino)
di Fabio Gambaro


PARIGI Il 21 dicembre 2012 s’avvicina. Una data a cui molti guardano con un misto di curiosità e apprensione, per via della profezia del calendario Maya che per quel giorno fatidico ha annunciato la fine del mondo. In Francia, se ne parla molto, anche perché, secondo antiche leggende, Bugarach, un paesino vicino ai Pirenei, avrà la fortuna di essere risparmiato dall’apocalisse prossima ventura. Motivo per cui la località è presa d’assalto da frotte di turisti e curiosi, al punto che il prefetto ha deciso di vietarne l’accesso ai non residenti.
Di fronte a queste paure e credenze più o meno diffuse, di solito si parla di superstizione, irrazionalità e ignoranza. Tuttavia, secondo Michaël Foessel, un giovane e brillante filosofo che insegna alle università di Digione e Berlino, l’ossessione della fine del mondo deve invece essere letta e analizzata come un sintomo della condizione contemporanea, dominata dalla precarietà e dall’alienazione. Tesi spiegata diffusamente in un interessantissimo saggio da poco arrivato nelle librerie francesi e già al centro di molte discussioni, Après la fin du monde. Critique de la raison apocalyptique (Seuil).
«L’attenzione per le profezie apocalittiche contemporanee è molto marcata soprattutto in Occidente, mentre è quasi del tutto inesistente nel resto del mondo. In Messico, ad esempio, della profezia dei Maya si parla pochissimo», spiega lo studioso francese, già autore di un mezza dozzina di saggi molto apprezzati. «Secondo me, l’ossessione occidentale per la fine del mondo va messa in relazione con la sensazione della fine del “nostro” mondo, vale a dire il declino storico dell’Occidente. La globalizzazione del pianeta ha tolto al mondo occidentale la sua posizione dominante. Da qui il fascino della decadenza e del crollo, che trova la sua concretizzazione estrema nelle paure apocalittiche. La paura della fine del mondo nasce insomma dalla sensazione che il nostro mondo, i nostri valori, la nostra ricchezza, i nostri punti di riferimento siano sul punto di scomparire. In fondo, tali paure indicano innanzitutto il rifiuto di adattarsi alle conseguenze della mondializzazione».
Non sono anche un modo per esorcizzare la paura della morte?
«In effetti, la fine del mondo è la versione democratica della morte, consente di condividere in modo egualitario qualcosa di molto singolare e non condivisibile, vale a dire la propria morte. Di fronte all’apocalisse saremo tutti uguali. Paradossalmente, in un mondo sempre più dominato dall’individualismo e dalla disuguaglianza, la catastrofe consente di ricreare una certa comunità di destini».
Pensare che il mondo sia inesorabilmente destinato a scomparire non è anche un modo per giustificare l’impossibilità o l’incapacità di intervenire sul suo divenire?
«Certo. Il mondo in cui viviamo si trasforma di continuo anche per via dell’evoluzione tecnologica. E’ un processo che trasforma la nostra vita ma che non dipende da noi e sul quale abbiamo l’impressione di non avere alcuna presa. La paura della fine del mondo nasce anche da questa sensazione, che naturalmente finisce per deresponsabilizzarci. La realtà non dipende da noi e l’idea dell’apocalisse conforta questa convinzione. La fine del mondo domanda un’attesa passiva, non certo l’azione. Insomma, se il mondo sta per finire, è perché in fondo abbiamo la sensazione di averlo già perso. E lo abbiamo perso proprio perché non lo sappiamo più trasformare».
Lei dice addirittura che perdere “un” mondo è addirittura più grave della fine del mondo. Perché?
«Chi ha la sensazione di aver perso il proprio mondo pensa di non aver più alcun futuro possibile davanti a sé. Ciò riguarda soprattutto i più poveri e i più deboli. La precarietà, la solitudine, la segregazione sociale sono forme di questa condizione. A tutto ciò – che naturalmente è sempre esistito - oggi si aggiunge anche l’emarginazione prodotta dal trionfo di una tecnica percepita come incomprensibile e incontrollabile. Gli individui si sentono alienati socialmente e tecnologicamente in una realtà che appare priva di senso e di possibilità. Da qui il fascino dell’apocalisse che annulla tutto, un processo ineluttabile che non rimanda ad alcuna speranza. Da questo punto di vista le paure apocalittiche contemporanee sono anche più drammatiche di quelle del passato, che almeno avevano la prospettiva del giudizio universale».
Ma credere alla fine del mondo non significa tentare di razionalizzare l’irrazionale?
«Più che per l’apocalisse ciò vale per la catastrofe, che oggi viene razionalizzata attraverso la tecnica e la politica. La paura della catastrofe è diventata un discorso soggetto al dominio degli esperti. I tecnici profetizzano quotidianamente la catastrofe in ambito ecologico, economico, sociale, ecc. Così facendo, la razionalizzazione trasforma la paura della catastrofe in una categoria della mobilitazione. Si fissa un’agenda, un calendario e dei comportamenti che trasformano la paura in un discorso di legittimazione. In nome di un avvenire catastrofico, si giustificano le scelte politiche
del presente».
La paura è diventata un dovere morale?
«Effettivamente, per Hans Jonas, il filosofo che ha molto contribuito all’affermazione del principio di precauzione e di responsabilità, di fronte all’invenzione nucleare che trasforma la fine del mondo in una predizione razionale e possibile, occorre rivalutare la paura come passione euristica. Aver paura è diventato un obbligo che alimenta la coscienza della nostra vulnerabilità e finitezza. Ormai, nell’immaginario dell’avvenire, la catastrofe si è sostituita al progresso.
E il futuro ci appare solo come una minaccia. In questa prospettiva, la paura irrazionale dell’apocalisse può essere recuperata al servizio di politiche razionali. Il discorso della catastrofe oggi è diventato tecnicopolitico, mentre in passato era mistico-religioso. Il che è oggettivamente una novità del mondo contemporaneo».
Per altro l’idea di progresso era nata proprio come reazione alla fine di un mondo...
«E’ nata nel XVIII secolo come reazione al crollo dell’antico sistema di valori e conoscenze che fino ad allora aveva organizzato la realtà. Di fronte alla fine di quel mondo, si è affermata l’idea di progresso, una categoria della consolazione che non deve essere confusa con il progressismo. Per quest’ultimo il domani è necessariamente migliore dell’oggi, il che è evidentemente un’illusione, che oltretutto ha prodotto molti disastri.
Il progresso invece invita solamente a considerare il futuro uno spazio aperto al possibile. La fine di un mondo non è mai la fine del mondo. Di conseguenza, c’è sempre un qualche avvenire, anche se non sappiamo assolutamente come sarà. Anzi sarà quello che ne faremo. Non sarà necessariamente migliore del presente, ma comunque sarà aperto ad ogni possibile. Il che ci consola della perdita del mondo attuale».
E’ un’idea che va recuperata per combattere la paura dell’apocalisse?
«Non mi sembra che la paura possa essere l’unica forma di relazione nei confronti del mondo, anche perché ci imprigiona inevitabilmente in un’alternativa dove esistono solo l’apocalisse o la salvezza, il tutto o il niente, la fine del mondo o la preservazione del mondo così com’è. Occorre sottrarsi a questa alternativa, che di fatto implica l’impossibilità di trasformare il reale. Il mondo va trasformato e non solo conservato. Deve essere un orizzonte di possibilità. Solo così si supera l’ossessione della fine del mondo».

Repubblica 11.12.12
E la vita dell’Universo adesso è un bestseller
Il saggio di Holt “Why does the world exist?” tra i libri dell’anno del Nyt
di Giacomo Papi


Perché esiste qualcosa invece del nulla? Prima di Dio, del bene e del male, del chi siamo da dove veniamo e dove andiamo, il vero mistero è che qualcosa ci sia. Qualsiasi cosa: i gatti, questo computer, le nuvole in cielo, le radici degli alberi, questa parola stampata su un foglio.
Why Does The World Exist? di Jim Holt – scelto dal New York Times tra i dieci migliori libri del 2012 – è il tentativo di rispondere a questa domanda. Martin Heidegger nel 1935 la definì la questione metafisica fondamentale, ma il primo a formularla, nel 1714, fu Gottfried Leibniz, grande diplomatico filosofo matematico, e inguaribile ottimista. In 279 pagine Jim Holt – un collaboratore del New Yorker il cui precedente libro, forse non a caso, riguardava la filosofia delle barzellette – riesce a mettere in scena un’inchiesta, un romanzo picaresco, una detective story, un saggio e un manuale di filosofia antica, moderna e contemporanea. Riesce a inseguire e cesellare la domanda sull’essere e il nulla come un orefice, strappandola alla polvere dei trattati accademici per restituirla alla vita.
Lo stile è semplice, a tratti spiritoso, giornalistico (la filosofia o riguarda tutti oppure non dice niente a nessuno). Il meccanismo narrativo è antico: il viaggio. Jim Holt gira il mondo per incontrare alcuni tra i più meravigliosi cervelli contemporanei – filosofi, fisici, matematici, scrittori – senza mai smettere di rimuginare e riformulare all’infinito la stessa domanda. Sbevazza con un vecchio playboy al Café de Flore di Parigi dove Jean-Paul Sartre – che lo usava come ufficio – ambienta un celebre capitolo dell’Essere e il Nulla.
Vola all’università di Austin, Texas, e poi in quella di Pittsburgh, Pennsylvania, raggiunge in treno Oxford e si precipita a New York per curare il suo cane, si trasferisce a Guelph in Canada e ritorna in Virginia di corsa a trovare sua madre.
È un procedere circolare che scarta di lato all’improvviso per illuminare la questione da un’altra prospettiva ancora, e nel riepilogare il tormentato rapporto tra filosofia e pensiero del nulla – Agostino, Spinoza, Fichte, Hegel, Wittgenstein, Heidegger, Sartre, Gödel – lo intreccia alle vertigini spalancate nel Novecento dalla logica, dalla teoria della relatività e dalla fisica quantistica. È qui che Why Does The World Exist? diventa un viaggio in un paese delle meraviglie fatto di infiniti mondi paralleli o di pure forme, un percorso psichedelico che riconduce sempre davanti a Dio o, in alternativa, al Nulla. Intanto, sulla strada, ascoltando grandi cervelli, l’inverosimile acquista verosimiglianza.
In una casa di Manhattan il matematico sir Roger Penrose ribadisce la sua fede nell’esistenza di un mondo platonico fatto di numeri e forme perfette con cui la mente umana entra in contatto ogni volta che pensa. A Standford, in California, il fisico russo Andrej Linde, teorico dell’inflazione caotica, racconta: «Ho dimostrato che non possiamo escludere la possibilità che il nostro universo sia stato creato in un altro universo da qualcuno che semplicemente aveva voglia di farlo». Un altro transfuga della fisica, l’ucraino Alex Vilenkin (già “guardiano notturno di uno zoo” nell’ex Urss) spiega in che modo bolle di spaziotempo possano emergere dal vuoto dando vita a universi infiniti. Steven Weinberg, premio Nobel per la fisica nel 1979 e padre del modello standard delle particelle, commenta: «Vilenkin è un ragazzo intelligente, ma la verità è che al momento siamo troppo ignoranti». La domanda pulsa, si riavvolge e dipana: perché c’è qualcosa invece del nulla? Le risposte si intrecciano. Solo il filosofo della scienza Adolf Grünbaum – «un incrocio tra Danny De Vito ed Edward G. Robinson» – respinge la questione come insensata.
Il problema – spiega Jim Holt – è che c’è nulla e nulla. L’assenza e il vuoto sono fenomeni dinamici e pieni. Il passaggio all’essere coinvolge il tempo e il tempo non può esistere prima che esista qualcosa. Noi siamo liberi soltanto di decidere quando fermarci, di quale ipotesi accontentarci. Per alcuni – è il caso del filosofo Richard Swinburne – questa risposta è Dio. Per la maggioranza – tra cui David Deutsch, “inventore” del computer quantistico universale – è più sensato ammettere l’esistenza di universi multipli. Ma forse anche la scienza è questione di fede. È l’opinione di John Updike, l’autore di Rabbit Run, che non crede ai quanti, ai buchi neri e nemmeno al big bang perché non li ha mai visti e non capisce come mai dovrebbero essere più plausibili degli angeli. «Forse Dio ha creato l’universo perché si annoiava», dice, «per gioco». Al momento dei saluti, Updike si lamenta di non avere più fiato. Sarebbe morto qualche mese più tardi di tumore ai polmoni.
Tra le pagine, per quanto ironiche e divertite, o forse proprio per questo, serpeggia un impercettibile senso di panico. La domanda perché c’è qualcosa invece del nulla, infatti, ne presuppone e sussurra un’altra: perché moriamo, perché le cose – e noi fra le cose – dobbiamo tornare a essere niente. Il trattato filosofico sgorga, così, in quello autobiografico. Il libro termina con la descrizione esatta e dolcissima della morte della madre del narratore. Termina con un figlio che posa i polpastrelli sulle palpebre della donna che lo ha messo al mondo per chiuderle per sempre.
«La filosofia è una strada con molte diramazioni che porta da nessun luogo al nulla», è la frase di Ambrose Bierce che chiude il libro. Ma forse anche la vita è una pausa nel nulla. Il vero mistero è che nel tempo breve di questo battito di ciglia ci stiano così tante cose: stelle e ottaedri, clessidre e farfalle, aeroplani e galassie, brasserie parigine, grandi vini rossi e meravigliosi cervelli. Che ci sia spazio per gatti, computer e nuvole in cielo, o per questa parola da cui tutto è iniziato.

il Fatto 11.12.12
Di nuovo tra noi
#Silviohairotto... è di tendenza
Dopo la performance di “Che tempo che fa” impazzano gli Hashtag sul “bentornato” al Caimano di Luciana Litizzetto
di Stefano Caselli


A voler essere pignoli, non è che abbia detto “hai rotto il cazzo” soltanto a Berlusconi, ma poco ci manca. Comunque sia, il mix dialettico tra l’abusata parolina e l’abusato leader politico non solo ha rianimato la cattiveria di Luciana Littizzetto (da un po’ di tempo, per la verità, un pochetto sottotono) ma ha magicamente ridestato gli alfieri di viale Mazzini, pronti a scagliarsi contro la “satira a senso unico” e il “turpiloquio in fascia protetta” come ai bei tempi dell’editto bulgaro. Potenza di B., che dove passa (e soprattutto dove torna) lascia il segno. E del web, che ha continuamente riproposto la performance della comica torinese che - per tutto il giorno - è stato un “tema caldo”, così come l’hashtag #SilvioHaiRottoilCazzo, che su Twitter ha raccolto decine e decine di citazioni: “Cinque parole che fanno tremare la Rai ma che escono dal cuore: #SilvioHaiRottoil-Cazzo usiamole... mandiamole al Top! ”, invita la rete l’utente @cicciogià. E la rete risponde. In poche ore l’hashtag entra nella top-ten: “Che poi Luciana Littizzetto non ha detto proprio #silviohairottoilcazzo però lo scrivono ovunque perché lo pensano tutti”, scrive @BiruSaru, centrando l’obiettivo.
IN EFFETTI “Lucianina”, come ama chiamarla il padrone di casa Fabio Fazio, si è trincerata dietro un collettivo “noi” e “voi”, e B. lo ha citato solo all’inizio del monologo: “Lui è fatto così, non ce la fa, quando vede che il paese si sta riprendendo deve intervenire. È più forte di lui (...) finisce che l’Italia diventa un paese normale, si è detto”. Poi, in un tipico crescendo: “Posso dire una cosa? Ma lo capite che non ne possiamo più che ci siamo rotti le balle, che tutte le le volte che vi vediamo in tv ci si chiude lo stomaco e ci si allargano le vie di smaltimento”. Fazio finge scandalo: “Lucianina! ”. Ma lei: “Una volta accettavamo le vostre cazzate, andavate in Parlamento, mangiavate la mortadella, facevate finta che Ruby fosse la nipote di Mubarak e ci siamo messi anche a ridere. Adesso basta. Abbiamo tirato la cinghia, Monti ci ha anche messo tutte ‘ste supposte una per una come le cartucce della cerbottana, adesso torna Berlu, lo spread torna a salire”. Quindi, il finale incriminato: “Non dico il pudore, che è un sentimento antico, ma una pragmatica sensazione di aver rotto il cazzo”? Fazio si sdraia sulla scrivania (“Noooooo, Lucianina”), mentre in sala parte l’applauso.
“La Littizzetto dice quello che tantissimi Italiani vorrebbero dire e non possono dire in televisione” twitta@Arghail1. Ma anche “Lucianina” rischia di passare qualche guaio, soprattutto perché sarà lei a condurre il prossimo festival di Sanremo e sul palco nazionalpopolare per eccellenza - soprattutto in campagna elettorale - certe licenze non sono cosa: “L’autonomia editoriale e la libertà di satira rappresentano valori fondamentali per il servizio pubblico - dichiara il consigliere di vigilanza Rai Antonio Verro - ma non si può arrivare a tollerare espliciti insulti in diretta tv di fronte a milioni di persone. Le parole di Littizzetto su Berlusconi di satirico hanno ben poco. Gli artisti, specialmente quelli più pagati e apprezzati dal grande pubblico, dovrebbero comprendere di avere anche maggiori responsabilità nei confronti dei cittadini”.
Poco dopo arriva l’intervento del direttore generale della Rai, Luigi Gubitosi, che chiede “un maggior rispetto e una maggiore attenzione nei confronti di tutti gli esponenti politici, evitando eccessi fermo restando il legittimo rispetto della satira”. Gubitosi avrebbe sollecitato il direttore di Rai3 Antonio Di Bella a dare prontamente indicazioni in tal senso ai conduttori e alla struttura della rete.
Berlusconi è tornato. E di nuovo non si parla d’altro. Premio alla sintesi per @assipattle: “Mi hanno riparato la caldaia e non dovrei lamentarmi ma un #silviohairottoilcazzo ci sta sempre bene”.