mercoledì 12 dicembre 2012

La Stampa 12.12.12
Bersani tira dritto: a gennaio primarie per i parlamentari
Oggi il vertice per le regole. Timori tra i renziani Potranno votare i cinquecentomila iscritti al Pd
di Carlo Bertini


Gli squadroni delle nuove primarie del Pd, quelle per far scegliere gli eletti agli elettori, scaldano già i motori: il primo squadrone ha già un nome, sono gli Uscenti, quei 300 parlamentari già in carica tra Camera e Senato. Il secondo, quello dei Pretendenti (tutti coloro che ambiscono allo scranno di onorevole) parte svantaggiato, ma sarà non meno agguerrito. La data della disfida tra i due eserciti sarà quella del 13 gennaio, se come probabile le elezioni si terranno il 24 febbraio, perché la domenica della Befana è stata scartata.
Ma su tutto il resto, la confusione regna sovrana: non si sa se anche tutti quelli con oltre tre mandati potranno gareggiare, se si voterà su listini corti di 5-6 nomi su base provinciale o su listoni regionali, se per entrare in lista bisognerà avere un certo numero di firme di iscritti dando così gran voce in capitolo alle correnti: che sono sul piede di guerra, di fronte ad una prospettiva che potrebbe squassare equilibri già stravolti dal 40% ottenuto da Renzi alle primarie.
Non è un caso che la vulgata riporti una certa ansia dei «renziani», a detta dei bersaniani scalpitanti per essere inseriti nel listino bloccato di quel 10-20% di candidati decisi a Roma, per tutelare le competenze tecniche, vip e personalità varie da non sottoporre alle primarie. Di sicuro c’è che la platea dei votanti sarà meno ampia del 25 novembre, se non altro perché è difficile riorganizzare i gazebo e l’esercito dei volontari: quindi è probabile che voteranno gli iscritti del partito, circa mezzo milione, perché far votare chiunque rischierebbe di produrre gli stessi film «di cinesi in fila nel sud», spiega un dirigente; e quindi più danni, in termini di contestazioni, che benefici.
Il problema principale però è come comporre le liste: oggi Bersani riunisce la segreteria allargata ai big, con i segretari regionali. Che arrivano divisi, con un fronte di «primaristi» convinti, i piemontesi, i liguri, gli emiliani e i pugliesi, e un fronte di incerti. Insomma, ce n’è abbastanza per un braccio di ferro sulle modalità di voto che sarà risolto con un voto in Direzione la prossima settimana, dove sarà invitato a partecipare anche Matteo Renzi.
La linea del leader però è già fissata. Malgrado tra gli Uscenti siano in pochi quelli ben disposti ad affrontare le primarie rischiando di perdere il posto, tutti hanno capito che col porcellum in vita, questa strada è irreversibile. «Non esiste che le liste elettorali si decidano in modo verticistico. Queste primarie diventeranno uno strumento di campagna elettorale molto forte che ci diversifica dal centrodestra e da Grillo. E quindi bisognerà farle con la più vasta partecipazione possibile», è quel che pensa il candidato premier della coalizione. Il quale sta già lavorando alle liste da mettere in campo per le urne, sapendo che un accordo con Casini e i centristi sarà più utile siglarlo, anche in termini numerici, solo dopo il voto: perché col premio di maggioranza del Porcellum, alla coalizione vincente spettano 355 seggi e se l’alleanza con i moderati venisse fatta a urne chiuse si allargherebbe la maggioranza; viceversa, la coalizione Pd-Sel dovrebbe cedere qualche seggio ai centristi e legarsi le mani rispetto ad una possibile, anche se difficile da realizzare, autosufficienza pure al Senato.
Bersani dunque non rinuncia a costruire una lista dei Moderati, capeggiata dal piemontese Giacomo Portas, da anni già alleato col Pd e che silenziosamente sta già facendo campagna acquisti perfino dentro la Lega Nord.
La lista dei Moderati dovrebbe includere anche Tabacci e forse anche una parte dei fuoriusciti dell’Idv. Mentre un’altra fetta consistente di dipietristi potrebbe approdare nella lista Arancione, che sarà lanciata stasera a Roma dal sindaco di Napoli De Magistris.

Corriere 12.12.12
Primarie per le liste: quota di nomine al leader E i renziani: votino tutti
di M. T. M.


ROMA — Non saranno primarie, ma si chiameranno così (anzi le chiameranno così), perché al Partito democratico si teme che la battutaccia che gira alla Camera — il «Porcellum di Bersani» — diventi il titolo di qualche giornale. Già, perché al segretario è riservata una quota di candidati assicurati che va dal 10 al 20 per cento. I prescelti dal leader finiranno in Parlamento di sicuro. Quanto al resto, chissà: l'unica cosa che sembra certa è che le similprimarie si terranno il 13 gennaio. Ma il come, il dove e il perché sono ancora un mistero.
L'idea è quella di stilare un elenco di candidati per circoscrizione e affidare agli iscritti la scelta, attraverso il voto: chi avrà più preferenze sarà capolista, e così di seguito. Per carità, sempre rispettando le quote rosa. Ma chi deciderà i nomi dei candidati che verranno sottoposti al voto dei 650 mila iscritti del Partito democratico? Largo del Nazareno, le federazioni regionali, quelle provinciali? Bisognerà che ognuno metta bocca in quegli elenchi, onde evitare polemiche. E intanto i renziani chiedono che la platea elettorale sia allargata: votino tutti, non solo i militanti.
Comunque, si deciderà oggi, nel corso di una riunione dei maggiorenti del partito con i segretari regionali, quale strategia adottare per evitare nuove polemiche. Peraltro i segretari regionali del Pd sono divisi tra di loro. Quelli dell'Emilia, della Puglia, del Piemonte reclamano le primarie, o quanto meno la loro imitazione, perché non vogliono regalare tutti i posti sicuri ai candidati paracadutati da Roma. In Toscana il segretario regionale Manciulli è molto più cauto. I renziani gli hanno chiesto le primarie, ma quelle vere, e lui ha tergiversato. Normale: il terrore del Partito democratico toscano è che con consultazioni vere vengano messi in lista solo i candidati vicini al sindaco di Firenze.
Insomma, da oggi si comincerà a capire quale piega prenderanno gli eventi. Ma gli animi nel Pd stanno cominciando a scaldarsi. Come dimostra la tirata di ieri di Beppe Fioroni: «Per una volta tanto — sbottava in Transatlantico il capo degli ex ppi del Partito democratico — sono d'accordo con Renzi: o si fanno primarie vere o si ammette che i criteri di scelta sono altri e la parola passa alla politica». Però non è solo di candidati possibili, probabili e improbabili che oggi si parlerà a Largo del Nazareno. C'è da affrontare anche un altro problema. Quello della cosiddetta lista di compensazione. Ossia la lista centrista che dovrebbe raccogliere i moderati di Portas, Tabacci, i transfughi dell'Italia dei Valori per fare da contrappeso a Sel. Anche qui le cose non filano lisce come l'olio. Portas, che è riuscito a conquistare pure un eurodeputato leghista, non vuole essere messo in compagnia di chi non ha voti: «Io in Piemonte prendo molti consensi, ma li raccolgo anche a Piacenza e in Sardegna, grazie alle nostre liste civiche. Tabacci, invece, ha preso solo 300 voti a Milano, mica ci possiamo mischiare».

Corriere 12.12.12
L'aut aut di Vendola al Pd «Agenda Monti? Non ci sto»
Bersani: «L'austerità non basta. E in Senato avremo i numeri»
di D. Gor.


ROMA — Dopo le rassicurazioni che lunedì Pier Luigi Bersani ha voluto presentare ai mercati e all'Europa garantendo fedeltà agli «impegni molto rigorosi» presi dal governo Monti in materia economica e fiscale, ieri la sinistra della coalizione ha lanciato i primi segnali di disagio. «Se c'è l'agenda Monti, io non ci sto — ha fatto sapere Nichi Vendola —. Alle primarie ha vinto l'agenda Bersani. Se poi abbiamo scherzato, dobbiamo dirlo al nostro popolo: sono tre milioni di italiani che andrebbero via». Inoltre, il leader di Sel ha anche voluto sottolineare cosa pensa del centro: «Lo dico chiaramente: se c'è Casini, non ci sto io in una futura alleanza di governo».
Qualcuno nel centrosinistra commenta che tutti i nodi vengono al pettine, che Bersani avrà un bel da fare per tenere insieme l'unione formata per le primarie. Per altri, l'uscita di Vendola potrebbe essere la reazione al fatto che forse Monti ha posto alle forze politiche che lo hanno sostenuto una sorta di memorandum dei vincoli verso l'Europa, indispensabili se l'Italia fosse costretta a ricorrere al Fondo salva Stati: garanzie, per esempio, che non ci sarà nessuna marcia indietro su pensioni, flessibilizzazione del lavoro, Imu.
Il segretario del Pd insiste nel dichiarare la sua adesione a quegli impegni («La mia ricetta contro la crisi? Quella di Monti più qualcosa: sì al rigore, ma anche lavoro ed equità», dice al Tg1), smussando a sinistra con un «cercheremo con gli altri partiti progressisti di migliorare la politica europea, perché la sola austerità non basta». Però ribadisce anche che, pur essendo certo del buon esito numerico anche al Senato, «ci rivolgeremo a formazioni di centro europeiste».
Parole che probabilmente non saranno sufficienti a tranquillizzare Vendola né, forse, un'ala del suo partito; ma che piacciono alle componenti più moderate del Pd. Come Pietro Ichino: «Bersani ha tutto l'interesse ad assumersi pienamente la responsabilità di fronte ai nostri interlocutori stranieri di proseguire nella strategia europea dell'Italia disegnata da Mario Monti: innanzitutto perché questo è ciò che lo legittima a succedergli come presidente del Consiglio; e poi perché sa benissimo che questo è quanto gli chiedono i suoi omologhi tedesco e francese. D'altra parte, se non lo facesse, si aprirebbero una crepa con l'Europa e una crisi grave in seno al centrosinistra italiano, e Bersani rischierebbe di capottare a un passo dal traguardo». E se la crisi si aprisse con il leader di Sel? «Per le primarie, Vendola ha accettato il principio maggioritario all'interno del centrosinistra. Sa di essere minoranza. Non credo che lo farà, ma, se riterrà di autoescludersi, ce ne faremo una ragione».
Più o meno sulla stessa linea è anche Giorgio Tonini: «L'ipotesi Casini non esiste. Invece, ho sempre pensato che l'agenda Monti, pur con i suoi errori, abbia ricostruito la credibilità dell'Italia. Ora tocca a Bersani costruire un equilibrio tra gli alleati della coalizione. Gli ultimatum non sono compatibili con lo spirito delle primarie, siamo tutti tenuti alla lealtà di coalizione per vincere. Perciò spero che Vendola continui a dare il suo contributo, come noi che abbiamo votato Renzi».

Repubblica 12.12.12
Vendola a Bersani: con Casini non governo
Il Pd studia con Tabacci la lista dei moderati. Civati: primarie, il tempo si deve trovare
di Giovanna Casadio


ROMA — Rassicurare le cancellerie straniere, a cominciare da quella tedesca, e i mercati. Nella giornata in cui Berlusconi tiene il suo primo show elettorale, Bersani passa da un’intervista con il canale finanziario americano, Cnbc a quella con il quotidiano Die Welte infine con il Tg1.
Rivendica l’affidabilità del Pd («Il partito più europeista d’Italia; Berlusconi dice stupidaggini sullo spread») e del centrosinistra. Quale sarà dunque l’Agenda Bersani? «Quella di Monti, più qualcos’altro. Ci vuole rigore, ci vuole austerità, ma anche un po’ di lavoro e di equità e credo che Monti sia stato trattenuto da una maggioranza spuria». Alla Merkel poi, il segretario democratico dice che «noi staremo in Europa saldamente, faremo più riforme, ma a modo nostro». Ovvio che i tedeschi «siano preoccupati», con il caos che il Cavaliere sta già procurando. Forse un po’ meno ovvio l’appello di Merkel per Monti? Bersani nega una competizione con il Professore se si candidasse e perciò di essere preoccupato: «Smentisco questa voce, sarebbe meglio se si tenesse fuori dalla contesa politica, ma rispetterò le sue decisioni senza preoccupazione ». Il segretario non vuole esasperare i toni, piuttosto cercare un’intesa.
In realtà, sono proprio Monti, la sua discesa in campo e il rapporto con i centristi (Casini, Montezemolo) nell’orbita di Monti, a costituire un “nodo” intricatissimo per il centrosinistra. Nichi Vendola, il leader di Sel, rilancia su twitter il concetto: se il centrosinistra sposa l’Agenda Monti (cioè la continuità con le politiche di questi 13 mesi), non ci sono io. «Al centro della coalizione c’è l’Agenda Bersani, se c’è Casini non ci sto io in una futura alleanza di governo - scrive - Se abbiamo scherzato dobbiamo dirlo al nostro popolo, ai 3 milioni che alle primarie pensavano di votare per il cambiamento: non saremo noi a tradire quel voto». Casini risponde su Facebook: «Vendola stai tranquillo, io punto a stare lontano da te».
Tra i Democratici tante sono le ragioni di preoccupazione, a cominciare da come fronteggiare un pareggio al Senato. Nonostante Bersani mostri ottimismo, il Pd studia strategie anti pareggio. Il segretario incontra Tabacci che dovrebbe dare vita con Portas e Donadi a una lista moderata. Tabacci accelera; sono molto cauti Portas, leader di Moderati, e Donadi, ex dipietrista ora promotore di “Diritti e libertà”. «Abbiamo 600 amministratori, bene Tabacci, ma è tutto in divenire», per Donadi. Insomma, ciascuno punta a fare valere il proprio, anche piccolo, peso politico. Se ci fosse frammentazione, avverte Bersani, «non verrebbe fuori la grande coalizione, ma la palude, e dalla palude nuove elezioni».
Già oggi si entra nel merito delle candidature. La riunione della segreteria del Pd allargata ai segretari regionali (lunedì ci sarà la direzione) deciderà una forma di primarie per i parlamentari, nonostante si voti a febbraio. Pippo Civati che (con Salvatore Vassallo) ha scritto un regolamento-primarie s’infuria: «Non si nascondano dietro la scusa del tempo». Bersani ha già detto che una consultazione dal basso ci deve essere, dal momento che resta il Porcellum. Più che primarie, potrebbero essere consultazioni tra gli iscritti su una rosa di candidati scelti con i circoli, e il 20% di candidature decise da Bersani. Tutto entro il 13 gennaio. Un puzzle difficile.

Corriere 12.12.12
Nencini: «Noi uniti con Pd e Sel E sì all'Udc»
di D. Gor.


ROMA — Riccardo Nencini, lei fa parte della coalizione formata da Pd, Sel e Partito socialista, di cui è segretario: come si prepara alla campagna elettorale?
«Domani (oggi per chi legge, ndr) si riunisce il nostro Consiglio nazionale per varare le primarie delle idee: elencheremo venti temi, dal nucleare alla patrimoniale, dalla laicità alla riforma fiscale, al riconoscimento delle diverse forme di famiglia, al testamento biologico… e i cittadini ci segnaleranno le loro cinque priorità».
Un grande impegno economico e organizzativo — le primarie per la scelta del candidato di centrosinistra alla presidenza del Consiglio hanno coinvolto centomila volontari — con quali forze lo sosterrete?
«Abbiamo ancora le nostre sedi in quasi la totalità dei Comuni italiani, le apriremo e lì, in gennaio, faremo la consultazione sulle idee. Stiamo preparando le schede e tutto il necessario».
Qual è la vostra posizione sui temi che ha elencato?
«Per esempio, no al nucleare, patrimoniale sulle grandi ricchezze per poter eliminare l'Imu sulla prima casa e abbattere la tassazione sui redditi medio bassi, interventi per assicurare i diritti civili individuali…»
Alle prossime Politiche i vostri candidati saranno in liste uniche di coalizione, o correrete da soli sfidando l'ostacolo sbarramento?
«Credo che Pd, Sel e Psi, nocciolo duro dell'alleanza, debbano presentarsi sotto un unico simbolo. Certo, il programma andrà raffinato, perché serve la massima coesione».
Non sarà semplicissimo. Per dirne una, che fare in materia di alleanze al centro?
«La novità è che, a differenza del 2006, nella coalizione non c'è la sinistra massimalista e radicale. Dunque possiamo tranquillamente prevedere un'apertura al mondo moderato e liberaldemocratico».
Perciò sì all'alleanza con l'Udc?
«Ho detto apertura al mondo moderato, e Casini lo incarna perfettamente».
E con Monti?
«Credo che Monti ora non debba diventare "parte". Se poi la stagione politica sarà ancora così complicata, serviranno tutte le buone energie alla stanga».

La Stampa 12.12.12
La Germania contro Berlusconi
Il Cavaliere: lo spread, un imbroglio. Merkel: gli italiani terranno la via giusta
Anche Berlino nella campagna elettorale
di Gian Enrico Rusconi


I tedeschi si devono rassegnare ad essere «coinvolti» nella campagna elettorale italiana. Tutto dipenderà dal modo, dallo stile, dalla validità degli argomenti usati. Da parte loro e da parte nostra. Dopo tutto l’opinione pubblica tedesca, i giornali grandi e piccoli, gli uomini politici tedeschi da oltre un anno (per tacere della lunga agonia dell’ultimo governo Berlusconi) hanno espresso sempre ad alta voce quello che pensavano del paese Italia, degli italiani e del loro governo. Enon sempre in toni amichevoli. Sono stati prodighi di consigli, di raccomandazioni, di velate minacce. Si sono presentati spesso come modello da imitare, tout court, a prescindere dalle complesse differenze delle due società. In questo contesto, anche nella discussioni di merito (incisività delle riforme, riduzione del debito pubblico ecc.) si sono insinuati stereotipi negativi sugli italiani che sembravano essersi attenuati con il passare degli anni.
Più complicato è l’atteggiamento da parteitaliana. Anchequiinevitabilmente sono ricomparsi gli stereotipi verso la società tedesca – l’ambivalenza tra l’ammirazione per l’efficienza, la coerenza, la capacità di realizzazione dei tedeschi e l’irritazione per il tono talvolta rigido e supponente da essi usato. In questa sede non prendo neppure in considerazione le espressioni volgari, offensive rivolte alla persona della cancelliera, apparse su giornali di destra.
Se si passa alla stampa seria, in Italia si è delineato verso la Germania un fronte di rispetto, per così dire, nei confronti delle sue posizioni. Rispetto accompagnato però dall’attesa di una maggiore elasticità e attenzione verso la difficile situazione italiana e in generale di altri Paesi in difficoltà ancora maggiori. Questa attesa è andata delusa. I tedeschi – i grandi giornali, la classe politica, la cancelliera – non hanno capito questa sottile delusione degli italiani. L’hanno fraintesa.
Gli italiani non si aspettavano «sconti» sottobanco, ma un comportamento più generoso da parte della grande Germania. In nome di quella Europa solidale, che era stato il cavallo di battaglia degli stessi tedeschi. Questa delusione è diventato un sentimento palpabile, che si involgarisce facilmente in populismo anti-tedesco. Come tale sarà usato a piene mani – ahimè – da chi sta cercando la sua rivincita politica.
Tocca ai politici seri – italiani e tedeschi – saper distinguere il dissenso ragionato attorno ad alcuni atteggiamenti del governo tedesco dall’antitedeschismo a buon mercato. Anche se non sarà facile spiegarlo in campagna elettorale. Ma i politici hanno la loro responsabilità. Il successo di Mario Monti in Germania è stato straordinario (sino al grottesco di essere considerato senz’altro «tedesco», il che evidentemente per loro è il massimo complimento), guadagnandosi la stima personale della cancelliera. Paradossalmente questo oggi può diventare un handicap.
In realtà il nostro presidente del Consiglio, nel suo stile riservato, non ha mancato di insistere anche a Berlino per una maggiore elasticità della politica tedesca, appoggiandosi per l’occasione ad altri partner europei. Ma non mi pare che abbia raggiunto il suo scopo. L’abile cancelliera Merkel sembra ottenere quello che vuole, conservando la sua immagine (elettoralmente redditizia) di donna forte d’Europa. Ora sembra preoccupata per ciò che può accadere in Italia.
Se il clima politico dovesse incattivirsi proprio attorno ad una nuova «questione tedesca», tocca a Mario Monti esporsi per chiarire con forza la posizione dell’Italia. Ha gli argomenti di competenza, non soltanto per difendere eventualmente la sua stessa azione politica dall’accusa di sudditanza ai diktat di Berlino, ma per chiarire l’intera questione davanti all’opinione pubblica più consapevole.
I prossimi mesi offriranno la prova della maturità reciproca delle opinioni pubbliche italiane e tedesca, del giornalismo più influente e soprattutto della classe politica dei due Paesi.

l’Unità 12.12.12
Senato, la partita chiave in tre regioni
La vera sfida si giocherà sui premi di maggioranza assegnati da Lombardia, Veneto e Sicilia
Ma la frammentazione complica ogni previsione
Anche la distribuzione dei seggi ai perdenti potrebbe portare a un esito incerto
di Marcella Ciarnelli


Sconfessato persino dal suo ideatore, il Porcellum è riuscito a sopravvivere a qualunque ipotesi di modifica. Quindi bisognerà fare i conti con le norme messe insieme dal leghista Roberto Calderoli per favorire il Cavaliere nelle elezioni del 2006, operazione non riuscita quell’anno ma che nel 2008 fece fare al centrodestra l’en plein (risultato che pure non ha retto alla prova del governo, perché la politica non è solo questione di numeri).
Il risultato sembra abbastanza prevedibile per quanto riguarda il finale di partita alla Camera. Grazie alle norme calderoliane e stando ai sondaggi dovrebbe essere la coalizione di centrosinistra ad affermarsi guadagnando, con il premio di maggioranza previsto, almeno 340 seggi. Se dovesse andare meglio delle previsioni anche di più. Per avere il premio basterà arrivare primi, con qualunque percentuale. Ed era questa una delle storture che anche la Corte Costituzionale aveva sollecitato a modificare.
Altro registro al Senato, dove pure c’è un premio di maggioranza del 55 per cento alla coalizione vincente ma assegnato regione per regione con l’esclusione di Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta, Estero e del Molise che ha un numero di votanti troppo basso e, quindi, assegna solo due seggi. Nel caso di Palazzo Madama qualunque previsione appare un azzardo dato che i risultati di ogni singola regione saranno sicuramente condizionati dalle coalizioni che i diversi contendenti riusciranno a mettere in campo o a rimettere insieme, nel caso del Pdl e della Lega che potrebbero correre di nuovo insieme superando il divorzio recente con un patto di scambio politiche-vertice del Pirellone (con inevitabile ricasco nelle altre regioni del Nord).
Il voto in molte regioni sembra abbastanza prevedibile e la variabile della ridiscesa in campo di Berlusconi, da far digerire innanzitutto alla base leghista, non sembra destinata a creare grandi problemi. Troppa appare la distanza per essere colmata dalle solite, illusorie promesse. Il problema vero è che nessuno può dirsi sicuro di niente poiché il pessimo Porcellum era stato pensato in un’ipotesi di confronto elettorale tra due coalizioni contrapposte. Questa volta tra i tradizionali contendenti di centrosinistra e centrodestra si sono inserite due variabili. Il movimento di Grillo che non è stato ancora testato a livello nazionale ma che ha dato buona prova di sé nelle competizioni locali, ultime le regionali in Sicilia. E il possibile rassemblement di Centro, tanto più nel nome di Mario Monti, il cui fascino sull’elettore è ancora tutto da testare.
LA STRATEGIA DI BERLUSCONI
Nella situazione data ci sono alcune regioni che potrebbero fare la differenza. E in cui non solo i seggi destinati al vincitore ma anche la distribuzione degli altri tra i perdenti potrebbe portare a una maggioranza striminzita come quella di Prodi, destinata a saltare in qualunque momento perché affidata all’interesse o all’umore di chi si sarà aggiudicato il ruolo di ago della bilancia, che poi non è così male. E se Berlusconi ha scelto di ritornare nell’agone lo ha fatto certo, come dice in chiaro, per vincere. Ma anche per riuscire a condizionare il nuovo governo uscito dalle urne, politico e non tecnico.
Lombardia e Veneto, con l’intreccio ancora irrisolto tra Pdl (o come si chiamerà) e Lega. E poi la Sicilia, che non è più quella del 61 a zero a favore del centrodestra, ma che un suo potere di condizionamento lo conserva e ha dato ampio spazio all’antipolitica di Beppe Grillo. È in queste tre regioni che si gioca la partita senza escludere la sorpresa che potrebbe arrivare dalla Campania, e qualcuno dice anche dal Lazio.
Il centrosinistra può avere più possibilità di riuscire a proporre un governo stabile se le tre regioni individuate daranno alla coalizione la vittoria. Ma anche, e qui i numeri della Lombardia sono importanti, se si assicura tutti i seggi dei perdenti che sono 21 rispetto ai 47 complessivi.
Quello che appare evidente è che, per avere un quadro chiaro, bisognerà vedere quali saranno gli accordi nel centrodestra per non perdere un baluardo mai messo in discussione, il governo della Regione Lombardia.

l’Unità 12.12.12
Torneranno... e l’unica arma sarà l’ironia
di Carlo Sini


ADESSO VERRÀ IL PEGGIO. FACILE PREVISIONE, LO DICONO TUTTI. UNA POPOLAZIONE SEGNATA DAGLI EFFETTI DI UNA CRISI PROFONDA, PER MOLTI DRAMMATICA E CHE NON ACCENNA A DIMINUIRE, DOVRÀ SUBIRE IL RITORNO DI PERSONAGGI E DI COMPORTAMENTI CHE, NEGLI ULTIMI TEMPI, SEMBRAVANO PER SEMPRE CONSEGNATI AL PASSATO. Invece
no, siamo da capo.
Torneranno a invadere lo schermo televisivo, a gridare e a interrompere gli interventi altrui, a lanciare fandonie mirabolanti e accuse grossolane, a confondere le acque in tutte le maniere, purché il dialogo non si sviluppi secondo la ragionevolezza, la verità e la forza dei fatti, a scuotere tutti regolarmente il capo come manichini mentre gli avversari parlano, a rovesciare incredibilmente il senso delle cose, facendo valere a proprio vantaggio ciò che invece è lì a condannarli. Erano quasi scomparsi, non si azzardavano in video, stante l’evidente crisi che li attanagliava; mandavano figure di secondo piano, piuttosto pallide, prudenti e intimidite: facevano quasi tenerezza. Ora invece, richiamati all’ordine dalla voce del padrone, che si è riservato lo strumento del porcellum per poterli rimettere in riga, torneranno tutti, più aggressivi che mai, poiché sanno che la contesa è disperata e che si giocano la vita, in senso pubblico o politico. Torneranno quelle facce, dicono tutti con desolazione, e sentono di non avere le forze sufficienti a sopportarlo. Ma sarà così, non si può evitarlo. Dovremo riascoltare che i magistrati sono una banda di comunisti, che il lodo Mondadori è un equivoco, che la crisi italiana è in gran parte colpa delle idee arretrate della sinistra e di una perdurante congiura dell’Europa, e così via. Resta da chiedere come affrontare questa sventura che si abbatterà sul nostro capo nei mesi che verranno.
Non si saprebbe davvero che cosa consigliare. Personalmente ho scarsa fiducia nei professionali avvertimenti degli esperti di comportamento nei mass media; penso che valga di più la fedeltà a una propria convinzione profonda, alla propria autentica natura e al genuino rispetto della verità, ma si fa presto a dire: e cioè come? Verrebbe voglia di suggerire una specie di «Aventino»: lasciateli da soli a sbraitare, non meritano un confronto leale, sollecito del bene comune. Se ne fregano del bene comune e proprio ciò che sta avvenendo lo mostra nel modo più eloquente. Il problema è come farlo risaltare anche per coloro che non siano in grado di rendersene conto. E perciò, se ci si sottrae al contraddittorio, come riuscirci? L’«Aventino» non è mai stata una soluzione. Quindi bisogna andare, bisogna sottomettersi al calvario, bisogna accettare un confronto impari, perché non paragonabili sono le armi impiegate, perché è difficile difendere la verità contro coloro che non hanno pudore alcuno a violentarla e a falsificarla. Più in generale è difficile, anzi impossibile, ragionare su ciò che è meglio o più opportuno fare, con chi non si preoccupa minimamente di ragionare e bada solo a fare colpo e a prevalere. Non cedete alle provocazioni, non fatevi coinvolgere in risse verbali. Usate piuttosto l’ironia che non la denuncia stentorea: quelli che volevano capire hanno capito da tempo; gli altri, che non vogliono o che non hanno interesse a capire, non sono raggiungibili. Sottraetevi con pazienza, al limite lasciatevi persino depredare del vostro diritto a uno spazio di tempo uguale a quello dell’avversario: limitatevi educatamente a rilevare l’ingiustizia. Lasciate perdere le incredibili affermazioni che vi verranno opposte: seguite il vostro discorso, argomentate lucidamente la proposta; soprattutto non nascondete, non mascherate, non sminuite le difficoltà, i lati problematici del vostro schieramento, le contraddizioni che vi si possono annidare, le reali incertezze del futuro che ci attendono. Forse proprio così sarete ascoltati e apparirete credibili, tanto più al confronto con l’incredibile bailamme e carnevale degli animali che gli avversari metteranno in scena: che sia chiara, a chi vuole intendere, la differenza. Sono buoni consigli? Possono funzionare? Siamo in tanti a chiedercelo, con qualche ansia e un po’ d’angoscia.

l’Unità 12.12.12
Dal lavoro ai migranti come cambiare l’Italia
di Pietro Soldini

Cgil, responsabile immigrazione

LA CRISI DELLA POLITICA SI COMBATTE CON LA POLITICA ED IL DIBATTITO SUL MERITO È ANCORA INADEGUATO. Penso che il problema principale, oggi in Italia, sia riuscire a dare un'altra offerta di partecipazione, di cittadinanza attiva e di devoluzione di poteri dai partiti e e dalle istituzioni verso i cittadini. Le primarie sul leader del centro sinistra hanno sicuramente alzato la qualità e quindi bisogna insistere con le primarie per scegliere i parlamentari. Ma si deve anche andare oltre e sperimentare nuove forme di partecipazione democratica. Per esempio si può pensare di far eleggere il presidente della Rai dagli abbonati, quello dell'Inps dagli assicurati o quello dell'Acea dagli utenti utilizzando i nuovi strumenti comunicativi e tecnologici della rete. Sarebbe una nuova idea di «comunitarizzazione» dei beni comuni alternativa alle liberalizzazioni e di irrobustimento della democrazia e dei suoi corpi intermedi.
L'altra questione riguarda il Piano del lavoro: c’è la necessità, infatti, di puntare su un progetto di messa in sicurezza del territorio, degli ambienti di vita, di studio e di lavoro, su un piano di legalizzazione del lavoro nero e di lotta alla precarietà e allo sfruttamento. La lotta al lavoro nero significa anche recupero di risorse fiscali e contributive ingenti. Occorre un reddito minimo di cittadinanza legato ad un sistema di lavori «socialmente utili» e di «servizio civile» per un'altra idea di produttività economico-sociale. E questo può rappresentare una risposta non solo occupazionale, ma anche motivazionale per le nuove generazioni.
Restando sui temi del lavoro bisogna uscire dal terreno scelto dall’amministratore della Fiat Marchionne che vuole compressione del costo del lavoro per recuperare competitività. Perché in questo ragionamento c’è qualcosa che non torna. Il costo del lavoro sul prodotto auto, chiavi in mano, incide infatti per il 17%. Una macchina che costa 10 mila euro, se si azzerasse per miracolo il costo del lavoro, costerebbe 8.300 euro. Pensate che se ne potrebbero vendere molte di più di oggi? E sull'altro 83% di costi, che sembrano incomprimibili e che sono diventati, al contrario del salario, «variabili indipendenti», noi che cosa diciamo? Parliamo di questioni che riguardano energia, progettazione, brevettazione, costo del denaro, pubblicità: spesso il costo pubblicitario di un prodotto è superiore allo stesso costo del lavoro e non vale solo per l'auto. Fra l'altro la pubblicità rappresenta il «potere temporale» che ha consentito a un uomo di spadroneggiare e sgovernare, fino allo sfinimento, il nostro Paese.
Infine un altro argomento è l'immigrazione che rappresenta una prova del fuoco delle società moderne, sulla quale si esercitano nuove e vecchie destre alimentando razzismo e xenofobia da una parte e dumping sociale dall'altra ed è del tutto evidente l'inadeguatezza dell'impianto strategico della sinistra. I dati dell’Onu ci dicono che i migranti nel mondo sono circa 220 milioni, un terzo di essi migra all'interno dei Paesi sottosviluppati, un altro terzo migra verso i Paesi sviluppati ed il terzo restante migra dai Paesi sviluppati verso il resto del mondo. È un tema globale e non può essere affrontato in termini di accoglienza o respingimento, nè come conflitto fra i Paesi di emigrazione e di immigrazione. Sono infatti sempre di più i Paesi e l'Italia è fra questi che vivono contemporaneamente la condizione di Paesi d'immigrazione, emigrazione e transito. La questione migratoria va affrontata in termini di economia, lavoro, redistribuzione del reddito, riequilibrio demografico, cittadinanza, diritti, norme e tutele internazionali. E sarebbe un punto di qualità per un programma di governo nuovo per l’Italia.
Sono questi i temi che devono diventare centrali nell'esercizio di nuovi conflitti e di una nuova contrattazione sociale per riuscire ad alimentare nuove opportunità, nuove professioni, una nuova centralità del lavoro. Insomma bisogna mettere in campo tutta la strumentazione programmatica in grado di aprire una nuova fase delle società cosiddette avanzate. Una fase che sia più sobria, equa, inclusiva e diversamente ricca.

La Stampa 12.12.12
Più partenze che arrivi. Nell’ultimo anno le partenze sono cresciute del 9%
L’Italia ridiventa una terra di emigranti
Calano gli stranieri, boom di “fughe” di giovani Al top Stati Uniti, Germania e Paesi nordici
di Francesco Spini


Biglietto di sola andata. Nell’ultimo anno 50 mila connazionali si sono trasferiti all’estero: in totale sono 4,2 milioni

Arrivano meno stranieri, partono sempre più italiani. Stiamo tornando ad essere terra di emigranti? Leggendo i numeri del XVIII rapporto sulle migrazioni elaborato dalla Fondazione Ismu un dato emerge chiaro: causa crisi, l’Italia è diventata meno attraente tanto per gli stranieri quanto per gli stessi italiani. Così il primo gennaio del 2012 rispetto a un anno prima il saldo della presenza degli stranieri in Italia è aumentato di appena 27 mila unità, +0,5%. Crescita zero, se si pensa che negli anni passati gli incrementi erano a colpi di 500 mila persone. Il declino è iniziato nel 2010 (quando il saldo è planato a 69 mila persone) e non si è fermato più. Alcuni migranti (70 mila) sono via via divenuti cittadini italiani, uscendo da queste statistiche. Ma in 33 mila l’anno passato sono andati via, in cerca di opportunità che l’Italia non sa più offrire. Le stesse che cercano gli italiani i quali, sempre più, staccano biglietti di sola andata: nel 2011 il loro numero è aumentato del 9%. In 50 mila sono andati a ingrossare le fila degli italiani all’estero, che al primo gennaio erano 4,2 milioni, considerando solo quelli che hanno mantenuto la cittadinanza tricolore. Ormai a un’incollatura dai 5 milioni e 430 mila migranti, tra regolari e non, che soggiornano secondo le stime Ismu nel nostro Paese. Le dinamiche dell’immigrazione stanno cambiando. Gian Carlo Blangiardo, responsabile settore statistica della Fondazione Ismu, spiega che probabilmente «è finito un ciclo». Alla «fase 1» fatta di un’immigrazione impetuosa è «subentrata una fase 2 in cui si assiste a un radicamento del progetto migratorio». Il dato dirompente, infatti, è che in cima alla classifica dei nuovi arrivi del 2011 non ci sono cittadini stranieri in cerca di occupazione, come accadeva prima, oggi fermi a quota 96 mila e in calo di due terzi rispetto all’anno prima. No. In cima ci sono i ricongiungimenti familiari, a quota 141 mila seppure in calo di un quinto. E crescono, seppure con numeri ridotti, gli arrivi per motivi di asilo o con motivazioni umanitarie: da 10 mila sono passati in un anno a 43 mila casi.
Quanto poi agli italiani, il dato dei 50 mila in fuga è sorprendente e dà un’idea della crisi in corso. Ma non ha raggiunto i picchi, ad esempio, della Spagna, dove il flusso in uscita è dell’ordine delle 3-400 mila persone, come ricorda un altro ricercatore statistico della Fondazione, Alessio Menonna. «Comunque quella degli italiani non è una replica dell’emigrazione povera che c’era in Italia cinquant’anni fa, ma è la ricerca di opportunità da parte di chi ha un altro tasso di scolarizzazione», sintetizza il segretario generale dell’Ismu, Vincenzo Cesareo. Dove vanno gli italiani che alla valigia di cartone hanno sostituito zaino e iPad? «La sensazione - spiega Blangiardo - è che le grandi mete dei giovani in fuga dalla crisi siano la Germania, il Regno Unito, in parte gli Stati Uniti, un po’ la Francia così come Svezia e paesi nordici in generale».
Più italiani all’estero e meno migranti in Italia: sarà questo il futuro? Errore. Ismu prevede che i residenti stranieriaumenteranno di circa 6 milioni di qui al 2041, la loro incidenza sul totale della popolazione passerà dall’8 al 18%. Mentre gli irregolari calano del 26%, a quota 326 mila, la comunità più numerosa è quella dei rumeni (oltre 1 milione), seguita da quelle marocchina (506 mila) e albanese (491 mila). La densità più elevata è in Emilia Romagna: 10,3 cittadini extra Ue ogni 100 residenti. I minori sono in decisa crescita: passano dal 21,5 al 23,9% sul totale degli extracomunitari residenti. Quelli nati in Italia sono 500 mila, il 60%. Nonostante la crisi, cresce l’occupazione straniera, con 170 mila nuovi posti. Ma sale anche il tasso di disoccupazione, dall’11,6 al 12,1%.
Con il tempo aumenteranno anche gli over 65: dagli attuali 100mila a oltre 1,6 milioni nel 2041, fino a 3 milioni nel 2060. Sono gli effetti della «fase 2», quella di un fenomeno migratorio più maturo e che non a caso vede crescere il numero dei soggiornanti di lungo periodo: due terzi dei 252 mila cittadini non comunitari entrati in Italia nel 2007 risultano ancora presenti con un permesso di soggiorno valido. E che, commenta Blangiardo, «rappresenta un’opportunità per aprire un vero discorso di integrazione», soprattutto per chi sul nostro Paese ha fatto una scommessa a lungo termine.

il Fatto 12.12.12
Dimissionari
Più 1,3 miliardi per le armi
di Marco Palombi


Fuori protestano i militari e i pacifisti. Dentro protesta Savino Pezzotta, deputato Udc: “Non capisco la fretta con cui si sta procedendo: non l’abbiamo avuta per gli esodati e per le famiglie in difficoltà e andiamo di corsa sulla riforma dello strumento militare? Questa fretta esagerata è il segno che c’è qualcosa che non va: io voto contro”. Alla fine, però, il Parlamento non ha avuto gli stessi dubbi dell’ex segretario della Cisl e l’ammiraglio Di Paola, ministro della Difesa, s’è portato a casa la sua bella legge delega per riformare la struttura dell’esercito e, soprattutto, il budget del suo ministero: varata dal governo ad aprile, approvata con sprint finale dal Senato il 6 novembre, la Camera l’ha ratificata senza cambiare una virgola in un solo mese, così non c’è stato bisogno di una nuova lettura a palazzo Madama.
Il risultato è che l’attuale quasi ex ministro porta in Gazzetta ufficiale una legge delega che prende le mosse dall’aumento dei fondi alla Difesa (+1,3 miliardi l’anno prossimo, oltre 22 nel complesso), fa dimagrire il personale militare e civile di circa 50mila unità e sposta un pezzo rilevante del budget sugli acquisti di armi (il 50%, anziché il 70, andrà in stipendi, il restante diviso a metà tra funzionamento e shopping). A numeri del 2001 fanno, insomma, oltre 5 miliardi l’anno che il ministro potrà spendere in armamenti come crede, per non parlare della gestione dell’immenso patrimonio, senza particolari controlli che non siano una relazione annuale alle commissioni Difesa: i novanta F35 da 12 miliardi tanto cari a Di Paola, in questo contesto, non sono che la punta dell’iceberg, prova ne sia il numero dei lobbisti del settore che ieri si aggiravano per il Transatlantico.
D’ALTRONDE sono anni che Finmeccanica – impresa statale attivissima nel comparto armi e tecnologia militare – chiedeva una riforma di questo genere: “Serve una legge che consenta di finanziare adeguatamente il procurement, lo sviluppo di tecnologie e il mantenimento in servizio riducendo sensibilmente gli organici”, scandiva Pierfrancesco Guarguaglini nel 2009. Poi alcuni problemi giudiziari lo hanno portato alle dimissioni, ma le sue parole hanno fatto breccia nel ministero tecnico della Difesa: andava tutto bene, sottotraccia come al solito, quando è arrivata questa crisi di governo. È questa la ragione della fretta notata da Pezzotta. Ed era una fretta indemoniata. Con un escamotage regolamentare, per dire, sono stati tagliati quasi tutti gli emendamenti, poi la maggioranza – che non dovrebbe esserci più – ha bocciato i rimanenti. Poco prima non era mancato nemmeno un piccolo psicodramma per il povero Di Paola, non avvezzo alle procedure parlamentari: quando si stava per cominciare a votare, infatti, ci si è accorti che mancava il parere (obbligatorio) della commissione Bilancio. Succede quando si va di fretta. Il relatore Cirielli (Pdl), a quel punto, ha chiesto una sospensione per rimediare e il ministro è andato nel panico: agitato, chiedeva lumi a questo e quello, s’era convinto che i berluscones volessero affossargli la legge. A risolvere tutto ci ha pensato Giancarlo Giorgetti: il presidente della Bilancio, leghista vicino a Maroni, a sua volta sponsor principale dell’attuale ad di Finmeccanica Orsi, ha messo le cose a posto in mezz’ora, mettendo alla frusta quei ritardatari della Ragioneria generale, che non avevano mandato la relazione tecnica. Di Paola, alla fine, ha promesso che non sarà lui a scrivere i decreti attuativi, ma il prossimo ministro: non ce n’è bisogno, la struttura della nuova difesa è già disegnata.

il Fatto 12.12.12
Una manifestazione a Roma
Con i magistrati, per la Costituzione
di Salvatore Borsellino


Dopo la sentenza della Corte costituzionale sul conflitto di attribuzioni sollevato dal presidente Giorgio Napolitano, il Movimento delle Agende Rosse ha indetto per sabato pomeriggio in Piazza Farnese a Roma, una manifestazione in difesa della Costituzione e a sostegno della Procura di Palermo. Ecco la lettera che ci ha inviato Salvatore Borsellino

Caro direttore, ci sono dei momenti nella vita di una nazione in cui non si può stare alla finestra. Ci sono momenti in cui è necessario mettersi in gioco e dare, ciascuno di noi, il nostro contributo nella difesa dei valori in cui crediamo e che vogliamo trasmettere ai nostri figli. Stiamo attraversando un momento particolare della nostra storia perché, per la prima volta nella storia del nostro paese, lo Stato sta trovando il coraggio di processare se stesso. C’è un peccato originale alla base di questa che chiamano Seconda Repubblica, una scellerata trattativa tra pezzi dello Stato e quello che dovrebbe essere l’anti-Stato. Sull’altare di questa trattativa è stata immolata la vita di Paolo Borsellino, dei ragazzi che gli facevano da scorta, sono stati sacrificati i martiri di via dei Georgofili e di via Palestro. Per mantenere su di essa il segreto c’è stata una congiura del silenzio che è durata vent’anni e che ha coinvolto centinaia di personaggi della politica e delle istituzioni. C’è stato un depistaggio che ha falsato il processo sulla strage di via D’Amelio.
Quando finalmente l’opera di alcuni magistrati, le rivelazioni di nuovi collaboratori di giustizia, hanno cominciato a squarciare il velo, sono cominciati i muri di gomma e la guerra scatenata contro i magistrati. Mi sarei aspettato che a questi magistrati arrivassero incoraggiamenti, che venissero spianati gli ostacoli che si frapponevano sulla difficile strada della Verità. Al contrario ho dovuto leggere con raccapriccio di intercettazioni in cui a un indagato in questo processo, Nicola Mancino, che si lamentava al telefono per essere stato lasciato solo, veniva, non so se a torto o a ragione, promessa la benevolenza e l’attenzione della più alta Istituzione del nostro Stato. Fino all’ultimo atto, quello in cui, per impedire la divulgazione delle intercettazioni che in maniera casuale riguardavano lo stesso Presidente della Repubblica, viene sollevato un conflitto di attribuzione contro la Procura di Palermo, che rischia di essere il più grave ostacolo sull’iter di un processo dal quale ci aspettavamo quella Verità.
PERCHÉ questa ansia, quasi questo panico, sul contenuto di queste intercettazioni e sulla possibilità che l’opinione pubblica ne venga a conoscenza? Forse contengono dei giudizi di merito su dei magistrati, su dei parenti di vittime che a voce troppo alta continuano a gridare la loro rabbia per una verità occultata?
Io non credo, non voglio e non posso credere che sia così, ma è proprio per poterne dissipare anche soltanto il sospetto che la stessa Presidenza della Repubblica dovrebbe chiedere la divulgazione del testo di queste intercettazioni. Anche perché per quanto riguarda direttamente me, fratello di Paolo Borsellino, mi è già sufficiente essere stato escluso, insieme con mia sorella Rita, dal novero dei parenti di Paolo nel messaggio inviato dalla Presidenza della Repubblica all'Anm il 19 luglio. Questa stessa sorte forse toccherà ora, per le sue manifestazioni di sdegno nei confronti dell’imputato Nicola Mancino, anche ad Agnese, la moglie di Paolo, alla quale, insieme con il figlio, quel messaggio era stato rivolto.
E adesso è arrivata anche la decisione della Consulta sul conflitto di attribuzioni, sentenza della quale non si conoscono ancora le motivazioni, ma che sembra non colmare il vuoto legislativo o indicare una corretta interpretazione della Costituzione riguardo alle casuali intercettazioni riguardanti il Presidente della Repubblica. Sempre che di un vuoto si tratti e non di un esplicito silenzio. E mentre fa riferimento a un inapplicabile, in tale caso, articolo 271 del codice di procedura penale, a meno che in quelle telefonate Mancino non pensasse di rivolgersi al suo avvocato o al suo confessore, la sentenza non manca di censurare pesantemente l’operato della Procura di Palermo che invece ha agito applicando rigorosamente le leggi sulle intercettazioni.
A FRONTE di queste continue invasioni di campo del potere legislativo ed esecutivo su quello giudiziario, per dimostrare a questa classe dirigente che non siamo tutti assopiti, che abbiamo ancora la forza di reagire, noi non resteremo a guardare. E lo facciamo come passo successivo e conseguente all’appello sottoscritto da migliaia di cittadini a sostegno di questi magistrati. Noi crediamo che una firma non sia sufficiente, noi chiamiamo tutti i cittadini che hanno il coraggio, come Antonio Ingroia, di dichiararsi “partigiani della Costituzione”, a scendere in piazza con noi e a gridare la nostra voglia di Giustizia, di Verità e di Resistenza. Assieme a me, ai giovani e ai sempre giovani delle Agende Rosse e a tutte quelle persone che hanno deciso di non tacere. Assieme a Marco Travaglio, a Luigi De Magistris, a Ferdinando Imposimato, a Sonia Alfano, a Sabina Guzzanti, ad Aldo Busi, ad Antonio Padellaro, a Marco Lillo, a Vauro Senesi, a Moni Ovadia, a Silvia Resta, a Sandra Amurri, a Fabio Repici, a Daniele Silvestri, a Manuel Agnelli e a tanti altri, che sabato 15, a Roma, in Piazza Farnese hanno accettato con entusiasmo di essere assieme a noi. Dimostriamo a questa classe dirigente, al paese, a noi stessi, che siamo ancora capaci di alzare la testa. A fianco dei magistrati del pool di Palermo.

il Fatto 12.12.12
Chi difende la legge 40?risponde

risponde Furio Colombo

CARO FURIO, non sono sicura, ma sento dire che il governo ha fatto ricorso alla Corte di Strasburgo contro la sentenza che condanna quella parte della legge italiana sulla procreazione assistita (legge 40) che vieta di accertare se l'embrione (l'unico embrione da impiantare) sia portatore di malattie genetiche. È una sentenza provvidenziale che corregge una legge barbara. Perché questo governo dovrebbe opporsi a una simile, civile decisione che ci riporta tra i Paesi normali?
Martina

IL RICORSO italiano c’è stato, e chiede alla “Grande Chambre” (ovvero al grado di appello della Corte di Strasburgo) di accertare se sono state considerate le differenze o peculiarità della struttura giuridica italiana nel giudicare una specifica legge che potrebbe essere stata mal interpretata, dunque, ma giudicata da giuristi estranei. Come si vede è un ricorso ipocrita, ma anche culturalmente modesto. È ipocrita perché non ha il coraggio di dire che il divieto di verifica scientifica lungo un percorso che deve essere continuamente segnato da verifiche scientifiche, non appartiene a una particolare concezione del diritto, ma alla sovrapposizione al diritto di una dottrina dogmatica e di una autorità religiosa. È culturalmente modesto perché finge di chiedere chiarimenti, mentre intende ottenere il ripristino imbarazzante e ingiustificabile del mancato e vietato controllo scientifico di un percorso delicatissimo quale è la procreazione assistita. Tutti ricordano che la legge 40 è apparsa subito come un testo deformato dal pesante intervento della Chiesa, che ha impedito un normale sviluppo dell'iter giuridico e di quello scientifico, usando il pretesto, palesemente privo di fondamento, di evitare la selezione razziale dei belli e dei sani in luogo del sorteggio della natura. Il fatto ovvio è che nulla è naturale nel processo scientifico detto “procreazione assistita”, dal momento che si tratta di una serie di interventi medici misurati di volta in volta secondo il minor danno e la maggiore probabilità di successo. Gravano sulla legge varie intimidazioni e restrizioni religiose intese a rendere questo percorso innaturale, dunque sgradito alla teologia (vedi il numero minimo di impianti permessi) e tutte le restrizioni possibili per rendere spiacevole questo tentativo di forzare la mano della natura, dunque di Dio. Ma il divieto di un facile e possibile controllo scientifico che previene la disgrazia del male genetico incurabile ha attratto l'attenzione e, c’è da pensare, l'indignazione, della Corte di Strasburgo. Penso che la decisione della Grande Chambre sarà ancora più severa con la strana legge italiana. E per questo è difficile capire che cosa abbia indotto questo governo, che si suppone laico, a farsi portatore di opposizione devota alla razionale sentenza di Strasburgo. A meno di ordini cortesi e inflessibili, di cui l'Italia, da sola, tra tutti i Paesi europei, ha una lunga e consolidata esperienza.

Repubblica 12.12.12
Violenza sulle donne, sì alla convenzione europea


ROMA — Si muove la politica, ma le donne continuano a morire, ad essere massacrate da chi dice di amarle. Il Consiglio dei ministri ha ratificato ieri la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. Ma nelle stesse ore un’altra donna veniva aggredita a Frascati, ustionata dal suo uomo che le ha dato fuoco al termine di una violenta discussione. Una nuova vittima tra le mura di casa, dopo le tre ammazzate dai mariti e compagni domenica.
Nella convenzione la violenza contro le donne è definita come «una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce, la coercizione o la privazione della libertà nella vita pubblica e privata». E sempre a proposito di violenza, ieri l’Idv ha presentato ieri una mozione, accolta dal governo, per rifinanziare il Fondo contro la violenza sessuale e di genere, istituito dal governo Prodi, e cancellato dal governo Berlusconi, per sostenere tra l’altro i centri antiviolenza.

l’Unità 12.12.12
Quei troppi silenzi sulle stragi nazifasciste
di Franco Giustolisi


CHE FARE, ADESSO? I MAGISTRATI ITALIANI CERCANO DI FAR GIUSTIZIA, DISSEPPELLENDO DALL’ OBLIO i crimini dei nazifascisti e i loro colleghi tedeschi, con spirito di parte che mal si concilia con la Germania di oggi, tentano di coprire. Stiamo parlando di un passato di barbarie tipico solo del nazismo e del fascismo. I sicari di Hitler affiancati da quelli di Mussolini sterminarono popolazioni innocenti e i nostri militari che avevano alzato bandiera bianca. Ma gli assassini del popolo di Stazzema, alcuni di loro rei confessi, condannati all’ergastolo da tribunali italiani, hanno ottenuto un gentile atto di archiviazione al di là del Reno. Sono colpevoli, sono innocenti? Una situazione «sconcertante» l’ha definita Giorgio Napolitano, e mai aggettivo fu più appropriato, e lo ha ribadito nella bella lettera che mi ha inviato, confermando il suo interessamento su tutta la vicenda.
Ma come si è arrivati a tal punto? Da tempo sostengo che il colpevole silenzio è stato ed è la causa di quel che accade. Noi cittadini abbiamo dimenticato la più grande tragedia che ci ha colpito e che comunemente viene intesa come l’«armadio della vergogna», dal titolo del mio libro. Decine e decine di migliaia di vittime, molte di più di quelle che si è finora ritenuto, dato che molte stragi neanche finirono in quell’armadio dove il primo o il secondo governo De Gasperi di centro destra aveva fatto nascondere i fascicoli delle stragi.
Dopo 50 anni di sepoltura, esattamente nel maggio del 1994, i fascicoli riemersero con le loro storie talmente incredibili da apparire inventate: la «partigiana» Anna Pardini, bimba in fasce, mitragliata a Stazzema, il «partigiano» Carletto, trovatello di tre anni, preso per un piedino, a Monchio, scagliato in aria e usato come bersaglio, i bimbi «partigiani» massacrati in una chiesa a Marzabotto, insieme al sacerdote, «partigiano» anche lui, e le loro insegnanti. E la «partigiana» impalata e depredata dei gioielli a Fivizzano, dai repubblichini. Più o meno quel che accadde a Borgo Ticino dove furono sterminati 12 «partigiani», che forse in vita loro non avevano visto mai un fucile. Anche qui i fascisti della decima Mas dettero una mano, promisero libertà se gli fosse dato del denaro. Lo ottennero ma poi la morte arrivò ugualmente. E quello che è stato definito dal pubblico accusatore di Norimberga il «più orribile delitto di tutte le guerre moderne»: il massacro dei nostri militari della Divisione Acqui a Cefalonia. E poi ci sono Coo, Lero, Koritza, Rodi, Scarpanto...
Eppure il silenzio, dopo l’apertura dell’armadio, fu semiassoluto. Così per le inchieste difficoltosissime. E per i processi condotti con tutti i crismi della regolarità e alla presenza di funzionari dell’ambasciata tedesca. Ma i 21 ergastoli inflitti (tanti erano i condannati agli inizi del 2010, poi sei sono morti) sono rimasti sulla carta. Per questo si chiese aiuto al governo precedente, nelle persone dei ministri della Difesa La Russa e della Giustizia, Alfano, per ottenere almeno gli arresti domiciliari dei condannati nei loro Paesi. Ma gli appelli dei magistrati militari neanche ebbero risposta. Stesso atteggiamento fu assunto in occasione dell’interrogazione presentata da tutti i senatori del Pd ai ministri della Giustizia, degli Esteri e della Difesa. Mentre una risposta forte l’ha data un tedesco, il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz. A Stazzema, in occasione del 68° anniversario della strage ha detto a proposito degli ergastolani in libertà: «È inconcepibile, assurdo, innaturale che ciò accada... questi criminali nazisti debbono essere perseguitati sino alla fine dei loro giorni». Ma ne ha scritto solo un giornale. Del resto la tattica del silenzio ha coperto quasi completamente pure la lettera di Walter Veltroni al Capo dello Stato e la risposta di quest’ultimo che ipotizza la creazione di una fondazione per le vittime del nazifascismo.
Per questo chiedo al presidente del consiglio se non crede che storia, memoria e giustizia debbano avere il loro peso. E ritorno all’inizio: che fare adesso? Penso che in Germania esistono tanti Schulz. Se non si troveranno, allora, sarebbe opportuno un ricorso a un tribunale internazionale per vedere chi ha ragione: chi assolve o chi condanna i sicari. Lo dobbiamo al nostro Paese, lo dobbiamo ai nostri morti.

l’Unità 12.12.12
Piazza Fontana. Solo la memoria
È l’unica cosa che ci rimane a 43 anni dalla strage, uno dei buchi neri del Paese
di Oreste Pivetta


MILANO SONO PASSATI QUARANTATRÉ ANNI DAL POMERIGGIO DELLA BOMBA NELLA BANCA DELL’AGRICOLTURA, IL 12 DICEMBRE 1969. L’esplosione avvenne alle 16,37. Una giornata scura di un cielo nero. Quarantatré anni sono un tempo lunghissimo e incomparabilmente più lungo di qualsiasi ciclo storico abbia caratterizzato il nostro novecento. Dalla fine della prima guerra mondiale, una catastrofe, all’inizio della seconda trascorse appena un ventennio di pace (non tenendo conto del preludio, circoscritto, spagnolo e delle varie imprese coloniali). Un ventennio durò Mussolini. Da un ventennio vediamo agitarsi attorno ai tavoli della nostra politica Silvio Berlusconi e pare una eternità, al punto da poter «imbalsamare» il suo protagonista al modo di una mummia.
Eppure quei quarantatré anni dalla strage di Piazza Fontana sembrano pochi, certo per la forza simbolica di quella tragedia, per quei morti innocenti, per l’inquietante compromissione delle pubbliche istituzioni, compromissione che grava ancora come un’ombra esprimendo qualcosa di irrisolto nella definizione della nostra democrazia (e un tratto mai interrotto con il nostro passato fascista), per l’improvviso riapparire di fantasmi del passato.
La memoria non è mai morta, forse perché la strage di piazza Fontana con il suo dolore, con il sangue, con gli intrighi, rappresenta la svolta in una storia iniziata almeno un decennio prima, la seconda stagione della ricostruzione, che non si interruppe ma che si gravò di infinite contraddizioni, che avrebbero condotto al disastro degli anni ottanta e dei successivi.
LA FINE DELLE ILLUSIONI
La bomba distrusse molte certezze comuni: nella saldezza della nostra democrazia, nella prospettiva di sviluppo, in una società segnata dalla giustizia, dalla solidarietà e da un benessere conquistato con il lavoro (quando ancora la «fabbrica» era centrale). Dopo le certezze, rimasero le speranze o le illusioni, che l’assassinio di Aldo Moro e il crollo dell’esperienza della solidarietà nazionale spazzarono via, aprendo la strada a Craxi e poi a Berlusconi, all’appropriazione dello Stato da parte di alcuni «potentati» e di alcune «famiglie», al trionfo del consumismo espresso da una ideologia individualista, anche all’esplosione del debito pubblico, molto prima di tangentopoli, degli scandali politici, del malaffare, della crisi dei partiti, del tramonto delle «due Chiese», la Dc e il Pci.
Dai primi anni sessanta, la nascita del centrosinistra, al 1978, la morte di Moro, piazza Fontana è una sorta di spartiacque tra la politica e il progressivo abbandono della politica. Non dimentichiamo che il 1969 fu l’anno dell’ «autunno caldo», di ripresa economica, ma anche di rivendicazioni collettive di dignità e di equità, non solo contro i ritmi massacranti della catena di montaggio ma anche per conquistare un’eguaglianza contro discriminazioni umilianti (nello stesso luogo, ad esempio, tra impiegati e operai).
Fra pochi giorni sarà un anno della scomparsa di Giorgio Bocca, narratore di quelle vicende, che in un articolo per il Giorno («La rabbia non ha salario»), scrisse a proposito di quell’operaio che aveva incontrato nei cortei e nelle assemblee: «C’è evidentemente qualcosa che nessun aumento salariale può dargli e che la lotta invece gli ha fatto gustare: un potere, piccolo ed effimero, ma un potere; la eguaglianza delle ore calde, il trattare da pari a pari con i capi, il vedere impaurita l’organizzazione». Una questione di libertà e di democrazia, si potrebbe riassumere. La bomba scoppia per intimidire, per spezzare, per rimettere ai loro posti quei «rivoltosi». Ci riuscirà? Non ci riuscirà? Qualcosa resta. Resta soprattutto se l’attentato diventa una teoria di attentati: i treni, Bologna, poi il terrorismo delle Brigate rosse.
L’ALTRA VITTIMA: GIUSEPPE PINELLI
Nella Banca Nazionale dell’Agricoltura morirono diciassette persone (quattordici subito, una novantina furono i feriti). Un altro morto di piazza Fontana fu Giuseppe Pinelli, il ferroviere anarchico. Morì, il 15 dicembre, precipitando da una finestra della questura di Milano, in una stanza dalla quale da pochi minuti si era allontanato il commissario Calabresi che lo aveva interrogato per giorni e giorni. Non c’era indizio contro Pinelli. Unico indizio la sua «anarchia».
Di quella notte ci ha lasciato pagine indimenticabili Camilla Cederna. Un suicidio, una confessione, fecero sapere dalla questura. La pista anarchica, che avrebbe condotto all’arresto e alla incriminazione di Pietro Valpreda, era già stata individuata. Vengono i brividi rileggendo le righe con le quali il prefetto di Milano svelava i presunti colpevoli (secondo lui) in un telegramma al ministero degli Interni: «gruppi anarchici aut comunque frange estremiste». Vengono i brividi a rivedere Bruno Vespa che al telegiornale annuncia la cattura del «mostro». Pietro Valpreda, appunto.
La menzogna ufficiale su piazza Fontana veniva a confermare in un’opinione pubblica moderata il rapporto tra conflitti sociali, eversione e sinistra, seconda una teoria «ufficiale», alimentata da alcuni organi di stampa (non tutti in verità e non ad opera di tutti i giornalisti, molti dei quali anzi sentirono il bisogno di affermare anche con clamorose iniziative pubbliche il valore dell’indipendenza professionale). I processi (Il processo infame come si intitola una esemplare ricostruzione del nostro Ibio Paolucci, in un volumetto pubblicato da Feltrinelli e ormai introvabile) furono una passerella non solo di terroristi quanto di generali, ministri, ufficiali dei carabinieri, spie ed infiltrati. Il cittadino qualunque, telespettatore o lettore, avvertì l’avvilente sensazione di venire tradito giorno dopo giorno dal proprio Stato. Ad una verità si giunse: la strage fu fascista (e dei fascisti che gravitavano attorno alla cellula veneta di Ordine nuovo, con Franco Freda e Giovanni Ventura).
Della strage insomma si sa molto: le tessere che mancano sono alcune tra quelle che riguardano le responsabilità degli apparati. Ma il quadro, e cioè i colori e il significato, è perfettamente tratteggiato e raffigura il tentativo, che si ripeterà, di oltraggiare la democrazia, di respingere il protagonismo di alcuni ceti sociali, di ridimensionare le conquiste, di oscurare le riforme e di reprimere quella cultura, quanto cioè anni tumultuosi e ricchi, tra i primi Sessanta e il nostro breve Sessantotto, avevano costruito. Poi non si spense tutto, ma il cammino non si completò e non si consolidò. In quel ventennio il paese fu in grado di darsi tante riforme (dallo Statuto dei lavoratori al divorzio, dal diritto di famiglia alle legge 180 alla legge per l’aborto). Lo Stato non fu in grado di riformare se stesso: piazza Fontana fu la dimostrazione di un fallimento o di una cattiva volontà, che si sarebbero manifestati nel pieno dei loro effetti qualche anno dopo. Senza più il bisogno delle bombe.

l’Unità 12.12.12
«Twitter? Il Papa rischia ma la sfida va accettata»
«Un successo il milione di follower. Ci saranno critiche
Ma la Parola deve uscire dal tempio e arrivare nelle piazze percorse dall’uomo
Bisogna guardare dentro le critiche
Vi è anche l’anelito per una Chiesa più credibile»
intervista di Roberto Monteforte al card. Gianfranco Ravasi


CITTÀ DEL VATICANO Oltre un milione di follower e tante domande da ogni parte del mondo sono arrivate all’account @Pontifex. È già un risultato straordinario per papa Benedetto XVI alla vigilia del suo approdo su Twitter. Si aspetta per questa mattina la sua prima twittata. Il Papa che in un massimo di 140 caratteri dialoga con l’«umanità digitale» rappresenta una sfida necessaria per la Chiesa: ne è convinto il cardinale Gianfranco Ravasi che, alla guida del dicastero vaticano della Cultura, è da tempo impegnato direttamente sulle frontiere del confronto sui nuovi media, usando anche il suo profilo Twitter.
Eminenza come giudica quel milione di follower raggiunti dal pontefice?
«Un successo, soprattutto perché attestano il valore simbolico che ha nel mondo la figura di Papa Benedetto XVI. Anche quando vi è una certa acrimonia, pare più espressione di una tensione, di un’aspettativa che si scarica sul pontefice. Segno che Papa Ratzinger resta un riferimento essenziale anche per chi è lontano. E nei messaggi critici inviati da giovani, si riscontra come un anelito. Una richiesta rivolta alla Chiesa di essere migliore, di offrire una testimonianza più alta e più forte. Vi si può cogliere una sorta di nostalgia...». Qualche attacco è arrivato anche al suo profilo Twitter?
«Più che attacchi personali sono state critiche alla Chiesa da chi la ritiene distante da un proprio modello ideale. Oppure da chi le chiede una testimonianza più intensa e più forte. È un anelito positivo. Anche le critiche vanno lette con attenzione». Come verranno gestiti i tweet inviati al pontefice?
«Vi è un gruppo di lavoro ristretto di cui faccio parte anch’io, che li seleziona. Al pontefice ne verranno sottoposte cinque particolarmente significative cui oggi risponderà personalmente. Su Twitter navigheranno anche suoi brevi messaggi di carattere prevalentemente religioso tratti dai suoi discorsi e dalle sue omelie». Lei, invece, cosa twitta?
«Ho optato per la citazione. Quella biblica al mattino e quella “colta” la sera. Qualche volta posso inserire una risposta ad un quesito di valore generale, oppure una fotografia o la notizia di un evento che mi riguarda e che può interessare i miei interlocutori. Twittando si fanno scoperte sorprendenti. Dai miei follower è stata particolarmente apprezzata la citazione: “Quello che avete ascoltato in segreto, ditelo sui tetti”. Interlocutori anche colti mi hanno chiesto se fosse di McLuhan o di Montagne. Era un brano del vangelo di Matteo. Segno evidente che in tanti non conoscono la Bibbia. Stare su Twitter soprattutto per il Papa, che sarà seguito da una grande massa di persone in tutto il mondo, sarà una grande opportunità. Gli consentirà di portare verso temi religiosi una massa significativa di persone che hanno un orizzonte totalmente lontano o smemorato delle proprie radici cristiane».
Curerete i rapporti anche con chi manda messaggi critici?
«Accettare la sfida della rete vuole dire correre anche il rischio delle critiche. Vi sono state e vi saranno obiezioni alla possibilità che il Papa possa essere esposto ad attacchi, anche virulenti. Ma se si sceglie di entrare in questo Areopago, in questa arena a volte proprio da battaglia, bisogna anche accoglierne le leggi fondamentali. Anche permettere a ciascuno di dire la sua. Benedetto XVI non potrà materialmente leggere tutti i messaggi. Vi è chi risponderà. È la Chiesa che va dove l’uomo è. E lo incontra con le sue debolezze e le sue fragilità».
Quindi non preoccupano la possibile esposizione del Papa alle critiche dei follower ...
«Premesso che vi sono tanti gli attestati positivi, difendo la scelta. Non dimentichiamo mai che se nell’interno delle religioni vi è un comunicatore straordinario, questo è proprio Gesù Cristo che ha adottato tre sistemi di comunicazione. Il primo è stato quello della comunicazione simbolica: la parabola. Oggi è l’immagine. Il secondo strumento usato è stato il loghion, la “piccola parola”, che è poi il tweet in senso stretto: frasi brevi e densissime di significato. Si pensi alla prima predica di Gesù che troviamo in Marco 1,15 : “Il tempo è compiuto. Il Regno di Dio è vicino. Convertitevi e credete al Vangelo”. Nel greco del Vangelo sono 90 caratteri in tutto. Quindi vi è il terzo sistema di comunicazione. Gesù che va all’interno del groviglio dell’umanità: va dove erano i pubblicani, le prostitute, i peccatori, le cattive compagnie. Per questo è giusto andare su Twitter e non restare solo nell’alone dell’incenso».
Accettandone anche le regole?
«Vi possono essere frecce che arrivano come per san Sebastiano, ma bisogna stare nel tempio e nella piazza. Non per adattarsi alla modernità, o per un seguire le mode, ma per una questione strutturale per la Chiesa. Se la comunicazione, il luogo dove vivono milioni di persone è quello di Twitter non può restarne fuori. È una questione di incarnazione del messaggio. Per questo vale la pena di correre il rischio di subire qualche critica anche se non ci saranno le Guardie svizzere a proteggerlo».
Non crede che l’uso di Twitter possa depotenziare la forza della testimonianza diretta, fisica dell’annuncio cristiano? «I viaggi dei Papi, con il rapporto diretto e fisico con i fedeli, sono una risposta a questa esigenza di fisicità. Su questo punto il cattolicesimo tiene la barra dritta. La confessione è diretta, come la comunione: si chiede la presenza delle persone e della comunità. Non potranno avvenire via Twitter. Detto questo va aggiunto che come ci ha insegnato MacLuhan i nuovi strumenti di comunicazione sono il prolungamento dei nostri sensi. Ma con le nuove tecnologie è avvenuto qualcosa di più: è cambiato l’ambiente umano. È come con Galileo e il telescopio: voleva aumentare la vista, arrivare a vedere le stelle, e ha prodotto la rivoluzione Copernicana. È cambiato un mondo. È così anche oggi. Un ragazzo che trascorre cinque ore al giorno chattando ha un modo di comunicare completamente diverso rispetto al passato. Più che aumentare la possibilità di chiacchierare, cambia l’antropologia. Abbiamo di fronte una nuova dimensione culturale con cui misurarci».
Ma un tempo di comunicazione così «rapido» e spesso superficiale, come si concilia con il silenzio e con il tempo del discernimento su cui tanto insiste Benedetto XVI?
«Potrei aggiungere anche un altro dato: la ricerca dei ragazzi sulla Rete. Di fronte ad un paniere immenso di possibilità, spesso contraddittorie, si trovano soli, senza guida e senza strumenti critici adeguati, ad essere signori ed arbitri di scelte che spesso finiscono per cadere su ciò che pare più comodo o più rapido da utilizzare. L’effetto è che così cambia la stessa categoria della verità: non è più il dato oggettivo e verificato, ma quello che soggettivamente più conquista. La Chiesa deve affrontare lo sforzo di vivere questa esperienza culturale, per riconoscere e misurarsi con questa nuova antropologia proponendo i suoi valori, il suo concetto di verità. È, comunque, evidente che dalla cultura digitale non si tornerà indietro».
Volete provare ad umanizzare il web?
«Intanto dobbiamo esserci e con la nostra identità. Con annunci chiari, magari accattivanti, comunque incisivi e senza delegare il messaggio alle capacità degli esperti di comunicazione. Ricordando al tempo stesso quanto sia importante la dimensione fisica, perché non si può vivere del solo rapporto individuale sul web. Vanno valorizzate le esperienze di massa come le Giornate Mondiali della Gioventù, che fanno capire che c’è un altro modo di sentire e di vivere, di incontrare culture e gli altri. Come nei grandi spettacoli di musica. Eppure vi sono vuoti nelle vite dei nostri giovani, desolazioni e domande di senso a cui dobbiamo rispondere. Occorre presentarci ai loro incroci. Non è affatto detto che respingano le nostre risposte. È però necessario vincere l’isolamento e la solitudine in cui vivono. Ha notato quanti ragazzi vivano perennemente con le cuffie alle orecchie? Sembra che dicano agli adulti: “Non avete niente da dirci” e questo ci deve interrogare. Non avevamo risposte adeguate da offrire a richieste esigenti. Ma la domanda non è morta. Sta a noi adulti e alla Chiesa incontrarla».

Repubblica 12.12.12
Cl sotto accusa: “Truffa al meeting di Rimini”
Tre indagati, beni sequestrati per più di un milione. La Fondazione: ipotesi infondate
di Luigi Spezia


RIMINI — L’ombra di una truffa sul Meeting dell’Amicizia. Beni per un milione e 200 mila euro sono stati sequestrati dalla guardia di finanza alla Fondazione che organizza la manifestazione di Comunione e Liberazione a Rimini, arrivata quest’anno alla trentatreesima edizione. Tra i beni bloccati conti correnti e una villa a tre piani nel centro della città. Una tegola sul movimento caduta in seguito ad una verifica fiscale di routine delle fiamme gialle della riviera romagnola, che hanno avuto dei dubbi sulla regolarità di contratti tra la Fondazione e altre società della Compagnia delle Opere di Milano. Così, la procura di Rimini ha indagato la Fondazione come società giuridica e i suoi vertici — il legale rappresentante Massimo Conti, il direttore generale Sandro Ricci e il direttore amministrativo Roberto Gambuti — per truffa aggravata finalizzata al conseguimento di fondi pubblici. Fondi che la Fondazione ha richiesto ad enti come la Regione Emilia-Romagna, l’agenzia turistica della Provincia e la Camera di Commercio di Rimini, il ministero dei Beni Culturali. Una somma di 310 mila euro per i Meeting del 2009 e del 2010, ma ottenuta secondo la guardia di finanza illecitamente. Il sequestro
è salito a oltre un milione moltiplicando la cifra per quattro, quanti sono gli indagati.
Il nucleo di polizia tributaria guidato dal maggiore Marco Antonucci ha evidenziato due modalità ritenute irregolari per iscrivere a bilancio perdite, condizione per avere i finanziamenti. In un caso, non convince un contratto siglato tra la Fondazione, che non ha fini di lucro e la Evidentia srl, al 100% controllata dalla stessa Fondazione, incaricata di raccogliere le sponsorizzazioni per il Meeting. La Fondazione avrebbe ad arte abbassato i ricavi a lei imputabili, per caricarli invece sul bilancio della controllata. Su un altro piano, invece, la Fondazione avrebbe operato secondo la Finanza per alzare i costi quando acquistò 22 pagine sul mensile Cdo della Compagnia delle Opere, attraverso la società Cdonet, fatturando il doppio della tariffa massima.
Quest’ultima affermazione è respinta dalla Compagnia legata a Cl: «Smentiamo questa circostanza poiché il Meeting ha pagato le prestazioni richieste al valore dei prezzi di listino ai quali, come di consueto, è stato applicato uno sconto». Reagisce anche la Fondazione Meeting per l’Amicizia tra i popoli: «L’ipotesi di reato è per noi infondata, così come è sproporzionata la misura del sequestro preventivo della somma ipoteticamente ricevuta in modo irregolare, che oltre tutto rappresenta solo una minima parte del bilancio del Meeting. Nella sua storia ultra trentennale il Meeting ha sempre operato con la massima trasparenza e non è mai stato riscontrato alcun tipo di irregolarità nella gestione». La Fondazione spiega di aver «operato con la massima correttezza, confortati anche da documenti già da tempo messi a disposizione. Siamo pronti a collaborare ulteriormente per il completo accertamento della verità dei fatti».

La Stampa 12.12.12
Tu scendi dalle stelle o lupo mannaro
Nel Solstizio di inverno i morti tornavano sulla terra
Le leggende nere nacquero per esorcizzare gli spiriti del male
Dai racconti popolari alla letteratura al cinema, un libro indaga il lato oscuro del Natale e le sue antiche radici
di Mirella Serri


Il fantasma di Marley in catene compare davanti all’avaro Scrooge nel Canto di Natale di Charles Dickens. Tenebroso Natale. Il lato oscuro della Grande Festa è il titolo del saggio di Eraldo Baldini e Giuseppe Bellosi pubblicato da Laterza

Lu lope menare grigio e irsuto, con la bocca grondante sangue, se ne va in giro ululando, cercando di forzare le porte ed è meglio non lasciare soli i pargoletti o le giovani donne. Se il lupo mannaro - è di lui che si tratta arriva a un crocicchio, per fermarlo è opportuno mettere ovunque croci di cera. In circolazione ci sono poi Mazzemarjielle (folletti), Canelupe, Panàfeche (fantasmi o incubi) e streghe dalla cui invadente presenza ci si può difendere piantando chiodi nei muri delle chiese.
Che rapporto hanno queste inquietanti apparizioni con un mogwai di nome Gizmo, animaletto schifoso con orecchie appuntite e squame che si riproduce in un esercito di suoi simili pronti a divorare con i dentini acuminati l’intera umanità? Nel primo caso si tratta di protagonisti di leggende, rappresentazioni, rituali che ancora oggi da Fenestrelle, vicino a Torino, ad Ascoli Piceno, passando per l’Aquila fino al Casertano e a Cefalù, sono in circolazione tra noi. Nel secondo si tratta di Gremlins, lo strepitoso film principe delle commedie horror. Queste raccapriccianti narrazioni che vanno dal folklore alle fiabe popolari, dalla letteratura al cinema, pur così distanti, un elemento in comune ce l’hanno: lo scenario è sempre uno solo, non una nottata qualsiasi di tregenda ma la vigilia di Natale.
Dai Gremlins a lu Mammonu oPumpunalu, animalaccio che ama rotolarsi nelle feci e nel fango (lo fa a Teggiano, vicino a Salerno) e che nella fatidica serata rapisce i neonati, sono tutti testimonial della faccia nascosta e segreta della festa più celebrata. Scrittori, artisti e registi, questo connotato perturbante del Natale lo hanno spesso messo in scena: carri funebri e tintinnar di catene accompagnano l’arrivo del defunto Marley nella casa dell’avaro Scrooge nel Canto di Natale di Dickens. Furti, omicidi, e crimini allietano le feste di Hawthorne, Lovecraft, Stevenson, Conan Doyle, mentre, sempre, per il Natale, Pascoli ne Il ceppo convoca una Madonna in stile ectoplasma e un figlioletto cadaverico.
La festosa ricorrenza e le settimane che la accompagnano fino all’Epifania sono il set di un orripilante affollamento pure per il grande schermo: in Black Christmas uno psicopatico fa strage di belle fanciulle; Festa in casa Muppet eSos fantasmi sono ispirati a Dickens; il famosissimo The Nightmare Before Christmas di Henry Selick e Tim Burton, con i suoi esserini ripugnanti, ha trasformato la notte della gioia in quella degli spaventi. Adesso a spiegarci che non sono solo fantasie di artisti e che l’inquietudine e il terrore di questi giorni hanno antiche radici che ancora ci condizionano, arrivano gli studiosi Eraldo Baldini e Giuseppe Bellosi con il bel saggio-viaggio nel Tenebroso Natale. Il lato oscuro della Grande Festa (Laterza, pp. 288, € 16).
Tutto risale, a remote epoche precristiane, ci spiegano i ricercatori, quando si celebrava il solstizio d’inverno a partire dal massimo declino della luce e del calore tra il 22 e il 24 dicembre fino ai primi di gennaio, gran momento della ripresa, della rinascita e del rinnovamento. Era un tempo sospeso in cui si assisteva alla «rottura dei confini fra quotidiano e meraviglioso» che coincideva con il ritorno sulla terra dei morti. I resoconti su licantropi, maghi e fattucchiere nacquero per esorcizzare e dare consigli su come tenere a bada questi spiriti del male. Verranno poi soppiantati dai riti cristiani e dal racconto della nascita del Bambinello, ma continueranno ad avere una loro vita nascosta e a incarnare il lato buio della festa.
Se ancora oggi tra Natale e Capodanno si spara in aria con bengala, razzi e pistolettate varie, tutto ha origine dalla vetusta consuetudine di terrorizzare i revenants in circolazione. Se seguiamo la tradizione di mettere un grosso ceppo nel camino non lo facciamo per riscaldare e illuminare ma per costringere gli abitanti delle tenebre a tornarsene nelle loro dimore. Un Natale scostumato e orgiastico lo incontriamo invece rappresentato ad Andrista in Val Saviore (Brescia), con i più giovani mobilitati nella caccia al pauroso Badalisc o Basilisco, «mezzo lucertola e mezzo serpente» affamato di sesso (l’esca è un uomo travestito da donna). Quando dunque in occasione delle feste natalizie ci sentiamo preda di inspiegabili malinconie, di inafferrabili angosce in controtendenza con l’euforia che ci circonda, non preoccupiamoci troppo. È la memoria di lontani turbamenti che prepotente riaffiora.

l’Unità 12.12.12
La cucina che cura il dolore
A Pisa un ristorante gestito da ex pazienti psichiatrici
Non si passano le giornate solo ai fornelli: tante le attività per ritornare a vivere pienamente. Il modello dell’associazione Alba
di Rachele Gonnelli


PUÒ UN PIATTO DI PAPPARDELLE AL CINGHIALE CURARE L'AUTOSTIMA, RIANNODARE IL FILO DI UN VISSUTO SFILACCIATO, DI UNA PERSONALITÀ LACERATA E DI UN LABIRINTO DI SOFFERENZA MENTALE, RIDARE DIGNITÀ, ROMPERE UNO STIGMA, cioè un’etichetta negativa appioppata addosso come deviante, problematico, matto. Può? Sì, può, e non c'è bisogno di scomodare les madelaines di Proust. Basta andare in un ristorante «speciale» come quello di via delle Belle Torri a Pisa, base operativa dell'associazione L'Alba. Tra i tanti circoli ricreativi e culturali dell'Arci, quello nella casa-torre in pietra e antiche travi in legno della stradina parallela all'Arno ha una particolarità: è gestito da una associazione di auto-aiuto per la riabilitazione psico-sociale.
In parole povere le persone che cucinano a pranzo e cena per 72 coperti a volta, apparecchiano e sparecchiano i tavoli, e organizzano dibattiti, spettacoli di cabaret e le altre innumerevoli attività del centro, sono in stragrande maggioranza persone che vengono da percorsi di disagio psichico da più a meno grave. L'attività di ristorazione etico-sociale, che dura da quattro anni, è ben avviata: si mangia bene a prezzi davvero modici (un primo 4 euro, una cena con menù fisso da 12 a 18 euro) e ambiente più che familiare.
Ma l'espansione che l'associazione sta avendo – tanto da dover pensare di affittare uno spazio più grande – riguarda non tanto il bar e ristorante, quanto piuttosto tutte le altre attività che vi girando intorno, a cominciare dai servizi domiciliari, sempre più richiesti – si va dal fare la spesa, all'accompagnare ad una visita, dall'aiutare l'assunzione di farmaci al semplice non lasciar soli gli utenti più gravi e le loro famiglie – alle attività di formazione e scambio di esperienze per operatori della salute mentale. Il modello L'Alba, che si sta radicando in una rete di contatti con associazioni affini a Lucca, Livorno, Massa e ora sta anche oltrepassando i confini regionali, in Umbria e in Emilia-Romagna, si incentra sulla figura del «facilitatore sociale». Il facilitatore è un ex utente che proprio in virtù della sua esperienza di sofferenza psichica e dal suo essersene almeno in parte affrancato è riconosciuto e quindi capace di mediare con gli altri, cioè sia con chi ancora “sta male” sia con chi non ha dimestichezza con la malattia mentale e magari non capisce o è tendenzialmente ostile.
Diventare un «facilitatore» non è lasciato, naturalmente, all'iniziativa personale o al caso, ma è l'approdo di un percorso insieme di guarigione e di assunzione di responsabilità di cura e mediazione guidato da operatori come psichiatri, psicologi e assistenti sociali, una formazione professionale specifica riconosciuta e stipendiata dalla Asl. Alcuni cominciano come volontari del servizio civile. E a volte finiscono, com'è successo a giugno, a far lezione agli studenti e ai laureandi della prestigiosa Facoltà di psicologia di Padova.
«E sempre però nella consapevolezza, per il nostro approccio, che il confine tra salute e malattia sia molto labile e che qui, anche della differenza di ruoli, le relazioni sono tra pari, dal direttore del centro allo psicologo e dal facilitarore al singolo socio. La relazione è basata sull'assunto: io sono okay e tu sei okay», spiega Diana Gallo, presidente – nel senso anche di anima e voce – dell'associazione L'Alba. Così vengono gestiti i laboratori stabili di arte-terapia, musico-terapia, il concorso di poesia Versi dell'Anima all'interno delle Giornate Nazionali della Salute Mentale, o il nuovo progetto di videomaker sociali nato quest'estate all'interno del festival del cortometraggio di Sant' Anna di Stazzema. Così il servizio domiciliare che coinvolge 15 facilitatori, 500 soci-utenti e molte richieste d'ingresso ancora da soddisfare e la redazione del bimestrale L'immaginario distribuito ad offerta in mille copie. Questi risultati – inclusi i posti di lavoro creati, le famiglie non più sole, ricoveri evitati, i numerosi premi e i contributi delle locali Casse di Risparmio – non sarebbero arrivati e non arriverebbero senza il sostegno e l'interscambio con gli enti locali della Toscana. E per essere sinceri magari neanche arriverebbero se il coniglio alla cacciatora non fosse così buono.

il Fatto 12.12.12
Matrimoni gay. Via libera dei conservatori inglesi
di A. Op.


La legge non è uguale per tutti. Londra dice sì ai matrimoni gay, anche di carattere religioso, escludendo però la possibilità di celebrare le cerimonie nelle chiese di rito cattolico e anglicano. La soluzione di compromesso adottata dal governo Cameron è stata studiata sia per sottrarre argomenti di critica alla fronda interna al partito conservatore, sia per calmare l’opposizione delle gerarchie della Chiesa d’Inghilterra e del Vaticano. Nel presentare la proposta di legge (che dovrebbe essere approvata nel 2013), il ministro della Cultura Maria Miller ha spiegato che la norma permetterà ad altre istituzioni religiose di decidere se officiare o meno le cerimonie: un’eccezione accolta con piena soddisfazione dai settori più progressisti del protestantesimo (unitaristi e quaccheri), e dagli ebrei liberali. L’esecutivo ha introdotto nella legge un “quadruplo lucchetto legale”, secondo la definizione del ministro Miller. Nessuna fede religiosa sarà costretta a celebrare matrimoni gay o a permettere che si svolgano nei suoi luoghi di culto. Inoltre, le nozze avranno validità solo se contano sul consenso dei vertici gerarchici di quella fede. La norma introduce poi un emendamento alla legge sull’uguaglianza: servirà alle organizzazioni religiose che non accettano i matrimoni tra le persone dello stesso sesso di scongiurare il rischio di essere portate in tribunale con l’accusa di discriminazione. Infine, resterà in vigore la legge canonica che, nella Chiesa d’Inghilterra, proibisce le nozze omosessuali.

l’Unità 12.12.12
Abu Mazen a Roma: «Grazie»
di U.D.G.


Grazie ai leader politici che hanno lavorato per convincere il presidente del Consiglio a schierare l’Italia per il sì alla Palestina come Stato non membro delle Nazioni Unite. Un «grazie» che guarda anche al futuro e ad una Italia governata da uno schieramento «amico del dialogo e sostenitore di una pace fondata sul principio “due popoli, due Stati”». Il presidente palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen) sarà a Roma domenica e lunedì prossimi per ringraziare le autorità italiane per il voto all’Onu in favore del riconoscimento della Palestina come Paese osservatore. Lo annunciano fonti della rappresentanza diplomatica palestinese a Roma. Abu Mazen avrà una serie di incontri istituzionali, ma il calendario, non è stato ancora definito nei dettagli.
Fuori dall’ufficialità, fonti vicine al presidente dell’Anp, dicono a l’Unità che «Abu Mazen sa bene che a determinare la scelta italiana è stato il generoso lavoro di alcuni leader politici, tra i quali Pier Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini». Allo stesso tempo, si rimarca come il voto italiano è in linea «con quella tradizione di amicizia che lega l’Italia al popolo palestinese e che ha nel Capo dello Stato, Giorgio Napolitano l’espressione più autorevole». Al tempo stesso, aggiungono le fonti, per Abu Mazen è stato di grande importanza il pronunciamento favorevole della Santa Sede: «La diplomazia vaticana dice la fonte di Ramallah ha visto nel voto favorevole al Palazzo di Vetro un sostegno alla ricerca di una soluzione negoziale» al conflitto israelo-palestinese.
Sul voto all’Onu è tornato ieri anche il titolare della Farnesina, Giulio Terzi. Il voto italiano in favore del riconoscimento della Palestina come Stato osservatore non membro delle Nazioni Unite è stato condiviso dalla leadership dei gruppi parlamentari che hanno sostenuto il governo Monti, rimarca Terzi davanti alle Commissioni Esteri riunite di Camera e Senato. Il presidente del Consiglio, spiega il ministro degli Esteri, «ha raccolto il parere favorevole dei tre dirigenti delle forze parlamentari che sostengono il governo». E dunque anche del Pdl che, nei giorni scorsi, per bocca del suo segretario Angelino Alfano, aveva messo tra le motivazioni della «sfiducia» al governo Monti, il presunto «strappo» del voto all’Onu sulla Palestina. Alfano non ha smentito Terzi.

l’Unità 12.12.12
La Cina del 2030? Più forte di Usa e Ue messi insieme
Rapporto dell’intelligence americana sul prossimo futuro
Pechino destinata a superare la potenza economica Usa
Europa e Giappone in lento declino
di Gabriel Bertinetto


Sorpasso in vista. «Qualche anno prima del 2030 l’economia della Cina sarà probabilmente la più grande al mondo, superando quella degli Stati Uniti». Non solo, l’Asia nel suo insieme avrà un «potere complessivo» (economico, demografico, militare, tecnologico) superiore alla somma di Europa e Nord America.
Sono i pronostici elaborati dai servizi segreti americani, e più precisamente dal National Intelligence Council (Nic), un istituto che studia le tendenze di sviluppo strategico globali. Il Nic pubblica rapporti con scadenza quadriennale e basa le sue ricerche sui dati forniti dalle sedici agenzie di controspionaggio nazionali. Il quadro generale di sviluppo indicato dal National Intelligence Council non rappresenta una sorpresa. Da anni gli esperti danno per scontato l’inarrestabile aumento del peso internazionale dell’Asia, e della Repubblica popolare in particolare.
Il documento, intitolato «Global Trends 2030», si differenzia però da altre analisi, perché distingue in maniera più articolata fra primato economico e primato politico. Entro il 2030 il primo apparterrà a Pechino, ma Washington probabilmente manterrà un ruolo centrale nei rapporti politici internazionali. Così pensano le teste d’uovo dei servizi informativi Usa.
«Grazie alla rapida ascesa di altri Paesi si legge nel testo la fase monopolare appare archiviata, e la cosiddetta Pax Americana (la situazione maturata a partire dal 1945 e caratterizzata dalla supremazia Usa nella politica internazionale) sta velocemente venendo meno».
In termini di dimensioni economiche e di spese per la difesa e l’aggiornamento tecnologico, la forza delle nazioni asiatiche sopravanzerà Usa ed Europa messe assieme. Tuttavia, aggiungono gli esperti del Nic, gli Stati Uniti conserveranno un ruolo centrale negli assetti strategici mondiali grazie alla capacità di promuovere azioni coordinate per affrontare le più importanti sfide globali. «Nessun’altra potenza -afferma il presidente dell’istituto Christopher Kojmè in grado di replicare il ruolo che gli Usa riescono a svolgere in qualunque scenario».
Matthew Burrows, il principale autore della ricerca, ritiene che la Cina possa essere in qualche modo «la peggiore nemica di se stessa». Pechino rischia di autolimitare le sue potenzialità globali di crescita se proseguirà nella repressione delle minoranze etniche e religiose interne e nell’atteggiamento aggressivo che da qualche tempo manifesta verso i vicini asiatici e dell’area del Pacifico. Vedi le dispute con Giappone, Vietnam, Filippine e altri Stati per la sovranità su isole e arcipelaghi che Pechino considera suoi.
Con questo tipo di comportamenti, secondo Burrows, «la Repubblica popolare ha finito per creare un crescente sostegno verso il mantenimento di una presenza americana nella regione». Anche per queste ragioni, ipotizzano gli studiosi americani, Washington conserverà una posizione di «primus inter pares» nel sistema politico internazionale. «Essere la maggiore potenza economica è importante secondo il ricercatore ma questo non si traduce automaticamente in una condizione di superpotenza politica».
CRESCITA IN RIPRESA
Nessun dubbio comunque fra i ricercatori del Nic circa il ribaltamento di posizioni a vantaggio cinese sul terreno strettamente economico, così come sul «probabile progressivo declino delle economie di Europa, Russia, Giappone». Le tendenze di lungo periodo sembrano trovare conferma negli sviluppi recenti. Gli ultimi dati statistici allontanano i timori sul rallentamento della macchina produttiva cinese, che si erano diffusi nella prima parte dell’anno in corso. La produzione industriale ha registrato in novembre un incremento del 10,1%, superiore al 9,6% di ottobre e all’8,9% di agosto. L’andamento deludente del primo semestre aveva indotto gli esperti a dubitare che il colosso asiatico stesse pesantemente risentendo della crisi mondiale. Dopo avere ricamato a lungo sul paradossale antidoto rosso al disastro del capitalismo mondiale, gli analisti scoprivano che forse la Cina era in procinto di venire a sua volta risucchiata nel vortice della depressione.
Ma ora «l’economia cinese è sulla via della ripresa nota Chen Xingdong, ricercatore di Bnp Paribas -. L’ampiezza del movimento non è ancora così spiccata come avrebbero auspicato i mercati, ma la tendenza è piuttosto chiara». A quanto pare il governo è riuscito a contrastare il pericolo della recessione, con una rinnovata politica di agevolazioni creditizie e con il rilancio degli investimenti infrastrutturali. Una scelta ardita, visti i rischi persistenti di esplosione della bolla speculativa immobiliare. Gli eventi dei prossimi mesi diranno se è stata una decisione più temeraria che coraggiosa.

La Stampa 12.12.12
2030: l’Asia dominerà il mondo
di Paolo Mastrolilli


Il dominio occidentale sul mondo è solo un ricordo. Il futuro, visto da un rapporto dell’intelligence americana, sistema l’Asia al centro del nostro universo. L’Italia, a sorpresa, riesce ancora a contare più di quanto pesi, ma è un vantaggio di posizione che siamo destinati a perdere.

Dossier /Il futuro secondo gli 007 “Nel 2030 l’Asia dominerà il pianeta”
Il “Global Trends ” dell’intelligence Usa tratteggia il ritratto del mondo fra meno di due decenni: la Cina avrà superato gli Stati Uniti mentre l’Europa continuerà il suo lento declino a causa dell’invecchiamento della popolazione

L’ economia cinese che sorpassa quella americana, e l’Asia che scavalca Europa e Nordamerica sommate assieme. L’ordine globale che dipende dall’alleanza tra Pechino e Washington, ma vacilla e mette a rischio latenutadellaglobalizzazione, aprendola porta alle megalopoli che diventano attrici protagoniste sulla scena geopolitica internazionale. E poi la classe media in enorme espansione, che grazie alle nuove tecnologie accrescerà anche il potere diretto degli individui. La medicina in costante progresso, tanto che gli esseri umani saranno in grado di programmare e potenziare i loro corpi, cambiando pezzi come se fossimo dal meccanico.
IlNationalIntelligenceCouncil, organo accademicolegatoallacomunitàdeiservizi americani, ci tiene a sottolineare che il suo rapporto «Global Trends 2030: Alternative Worlds» non ha l’ambizione di prevedere il futuro, «perché non è possibile». Però, sfogliando le 160 pagine appena pubblicate, che sono costate circa quattro anni di lavoro, si ha l’impressione di entrare davvero in un mondo alternativo, nonostante le analisipuntinosoloacapirequalisarannole grandi tendenze globali tra diciotto anni.
Sul piano geopolitico, la novità fondamentaleègiàdefinitadatempo. Lacrescita in Cina frenerà e la popolazione attiva nel lavoro si stabilizzerà appena sotto il miliardo di persone, ma la Repubblica popolare scavalcherà comunque gli Usa come prima economia mondiale. Il vantaggio dell’America è che riuscirà a diventare indipendente sul piano energetico, e questo avrà un grande impatto politico perché diminuirà l’influenza del Medio Oriente, la Russia, il Venezuela. L’Europa continuerà il suo lento declino, provocato soprattutto dall’invecchiamento della popolazione, e in questo senso colpiscevederel’Italiacitatanelgraficoapagina 17, dove viene descritta come uno dei Paesi che al momento riescono ancora a contare sulla scena mondiale più del loro peso effettivo. Ma anche Germania, Francia e Gran Bretagna sono nella stessa condizione, e tutti perderemo terreno, se le nascite non smetteranno di calare. Politica e società dovrebbero abbracciare una nuova visione, un nuovo entusiasmo centrato sulla forza collettiva del nostro continente, per cambiare marcia. Sono tre gli scenari previsti per l’Europa: «Collapse», dove un’uscita disordinata della Grecia dall’euro provoca danni otto volte più gravi della crisi Lehman Brothers, e di fatto dissolve l’Unione; «Renaissaince», dove con un colpo di coda riusciamo davvero ad integrarci e avviare così un nuovo Rinascimento economico, politico e culturale; «Slow Decline», il più probabile galleggiamento verso il basso, pur conservando influenza.
L’Occidente comunque prederà la supremazia accumulata a partire dal ’700, e quindi il nostro tempo porterà un mutamento storico paragonabile a quello della Rivoluzione francese o la fine della Guerra Fredda. Alcuni Stati falliranno, con la classifica guidata da Somalia, Burundi e Yemen. Altri esploderanno ancora di più, tipo Brasile, India, Colombia, Indonesia, Nigeria, Sudafrica e Turchia. Il terrorismo islamico diminuirà, mentre gli sviluppi della Primavera araba apriranno le porte del potere ai governi a guida musulmana. I risultati continueranno ad essere contraddittori, come vediamo in questi giorni in Egitto, e l’esplosione di una guerra in Medio Oriente resta una delle minacce più gravi, soprattutto per le tensioni tra sunniti e sciiti. Però questi esperimenti, uniti al ridotto peso della regione sul piano energetico, potrebbero anche diminuire le tensioni.
Sul piano sociale, il fenomeno più significativo sarà la continua crescita della classe media. Questa tendenza, accompagnata dalla potenza delle nuove tecnologie, aumenterà sempre di più il potere degli individui. Gli Stati dovranno rassegnarsi ad un rapporto diverso con i loro cittadini, e in molti casi dovranno accettare di essere affiancati o soppiantati dalla società civile. Anche i progressi costanti della medicina daranno più forza agli individui, al punto che potremo programmare e migliorare i nostri corpi. Impianti di retina per potenziare la vista anche di notte, interventi neurologici per rafforzare memoria e velocità di pensiero. Ai computer, smartphone e tablet, si aggiungeranno veri e propri interfaccia tra cervello e macchine, in grado di accrescere le nostre capacità mentali oltre l’immaginabile, oltre l’umano. Affascinante e insieme pericoloso, questo nuovo mondo: ma come funzionerà? L’intelligence Usa prevede quattro scenari. Il peggiore si chiama «Stalled Engines»: Europa e Usa si fermano, si ripiegano su loro stessi, e la globalizzazione va in stallo. Poi c’è «Gini-Out-of-the-Bottle», ossia un mondo destabilizzato dall’ineguaglianza economica, dove può succedere di tutto, ma sicuramente aumentano i conflitti tra i singoli Stati. Si vira verso un moderato ottimismo conlo scenario «Nonstate World», in cui il peso degli Stati nazionali precipita, ma al loro posto emergono nuovi protagonisti responsabili, come le megalopoli dove vivranno due terzi della popolazione mondiale, che assumeranno la leadership su temi di interesse comune tipo ambiente e sviluppo. L’ipotesi preferita dall’intelligence americana, però, è la quarta, chiamata «Fusion»: qui Pechino e Washington diventano alleate, e lavorano insieme per guidare il mondo verso un futuro stabile e felice.

il Fatto 12.12.12
Diritti umani. La Cina risponde con 5mila arresti
Secondo radio Free Asia migliaia di “postulanti” a Pechino dalle province più povere per protestare sono stati rinchiusi nelle terribili “cariche nere”
di Simone Pieranni


Pechino Nella Cina che vede crescere la diseguaglianza sociale, per i poveri la vita è sempre più dura: sarebbero infatti migliaia, almeno cinquemila, i cinesi arrestati lunedì 10 dicembre, giornata mondiale per i diritti umani. A riferirlo sono le fonti di Radio Free Asia, che hanno denunciato il fermo e l’arresto nelle cosiddette “prigioni nere”, di migliaia di “petizionisti” o “postulanti”, giunti a Pechino dalle varie province per esporre le lamentele o chiedere diritti, nei confronti del governo centrale.
NELLA CINA che ha appena concluso un faticoso cambio politico e che si affaccia ad una nuova stagione, tra crisi economica e bisogno di stabilità sociale, ogni data “sensibile” diventa un giorno a rischio per i suoi attivisti. Non solo infatti la giornata mondiale dei diritti umani, ma anche l’anniversario del conferimento del premio Nobel, nel 2009, a Liu Xiaobo, dissidente cinese condannato a undici anni di carcere: oltre agli arresti, infatti, ad alcuni noti attivisti locali sarebbero stato comunicate nuove misure cautelari. Gli arresti di questi giorni hanno a che vedere con due pratiche tipiche del Paese della Grande Muraglia: la petizione, ovvero l’abitudine – ancora in voga dai tempi imperiali – di recarsi nella capitale per sottoporre al governo centrale le manchevolezze di funzionari periferici, e la conseguente “reclusione” all’interno delle “carceri nere”, hei jianyu in cinese. Si tratta di strutture detentive illegali, temporanee, spesso al centro della città, dove vengono rinchiusi i “petizionisti” prima di essere rispediti al loro Paese di origine. Le “carceri nere” sono spesso anonimi palazzi – presenti anche nella città vecchia di Pechino – e costituiscono un motivo di grande imbarazzo per il governo cinese, come quando ne venne scoperta una in pieno centro nella capitale, dalla reporter di al Jazeera, successivamente espulsa dalla Cina. Il paradosso è che proprio una settimana fa centinaia di persone erano state rilasciate dalle carceri nere, lasciando intendere ad un primo gesto distensivo da parte del nuovo Imperatore Xi Jinping, segretario del Pcc, capo delle forze armate e da marzo anche presidente della Repubblica Popolare, nei confronti delle persone che in Cina protestano.
I petizionisti, del resto, molto spesso sono povera gente che arriva dalle province più remote della nazione per denunciare mancati pagamenti di infortuni sul lavoro o fenomeni di corruzione di funzionari locali. Si tratta di poveracci, per la prima volta a Pechino, spesso catturati appena mettono il piede giù dal treno e rispediti in modo quasi sempre energico nelle proprie regioni di origine. Si tratta di un fenomeno in crescita, date le attuali condizioni economiche del Paese. Se infatti i dati di novembre hanno indicato una produzione industriale in crescita (10,1%), recenti ricerche condotte da enti universitari cinesi hanno sancito due dati preoccupanti per il Dragone: il coefficiente di Gini, che misura la diseguaglianza economica di uno Stato, è salito allo 0,61% (la media è 0,4), mentre la disoccupazione reale sarebbe all’8,1%, cifra che doppia quella fornita ufficialmente dalle autorità, mentre l’inflazione sale al 2% confermando la sensazione di un aumento vertiginoso del costo della vita in Cina, specie nelle grandi città (a Pechino i prezzi delle case arrivano ormai a 6mila euro al metro quadro).
ALLA NUOVA commissione permanente quindi un compito molto arduo: ancora prima di chiedersi quali saranno le riforme politiche ed economiche, la richiesta è quella di consentire al Paese di tenere. Tra rivolte e proteste, infatti, la tensione sociale in Cina è palpabile e rischia di tramutarsi in un grave impiccio per il Partito comunista, teso a ristabilire quel rapporto che sembra ormai perduto tra i suoi leader e il tanto decantato “popolo”. Stando però alle prime avvisaglie, i metodi di Xi Jinping non sembrano discostarsi da quelli dei suoi predecessori: la repressione rimane lo strumento migliore, ad ora, per il controllo sociale in Cina.

Corriere 12.12.12
Baudelaire, il riso viene dal diavolo
Il comico è figlio del peccato, senza il quale non ci sarebbe vita
Il progresso è solo un'attenuazione della caduta originaria
di Roberto Calasso


Poiché ci troviamo in questi luoghi, dove Baudelaire commise il faux pas di presentare la sua candidatura all'Académie Française e Sainte-Beuve, per parlare di lui, fu costretto a sillabare il suo nome, mi sono domandato come mai è accaduto che, protetto appunto da quel nome, mi trovi oggi a parlarvi qui.
Guardando indietro, mi sono reso conto che da più di trent'anni sto scrivendo una anomala saga familiare (o «romanzo familiare» nel senso di Freud) dove i protagonisti sono non soltanto certi personaggi, ma certe parole, idee, immagini, gesti. Famiglia dispersa, nel tempo e nello spazio, in cui però certi legami sono rimasti molto stretti e uniscono l'India dei Veda alla Parigi del Palais-Royal. In questa saga fino a oggi si sono susseguiti sette libri, ma la storia non è ancora conclusa. In alcuni di questi libri la distanza fra gli argomenti di cui si parla è, secondo l'opinione comune, immane e invalicabile. Mai come nel caso di Ka, opera composta da miti vedici e indù, e del libro successivo, K., dedicato all'opera di Franz Kafka. Ma proprio questo caso può offrire una dimostrazione evidente di ciò che intendo: tutto K., infatti, è uscito, come il djinn delle Mille e una notte dalla bottiglia, da una singola frase di Ka. Dove si diceva che la differenza fra Prajapati e gli altri dèi vedici è simile a quella fra K., protagonista del Processo e del Castello, e i personaggi di Balzac o di Tolstoj.
Inoltre, come accade in altre saghe familiari, alcuni personaggi che in certe parti sono marginali in altre occupano il centro della scena e in altre ancora scompaiono del tutto. Baudelaire è uno di questi — e, percepibile dietro di lui, Chateaubriand. Verso la fine della Rovina di Kasch, che è il primo pannello di questo «romanzo familiare», si trova già Baudelaire, in una posizione strategica. E Chateaubriand contrappunta la prima parte, che si svolge nel periodo intorno alla Rivoluzione Francese. Venticinque anni dopo, giunti al sesto pannello, che è La Folie Baudelaire, Baudelaire diventa il perno attorno a cui ruota l'intero libro, dove inevitabilmente riappare Chateaubriand, primo dei dandies per Baudelaire. Ancora una volta, i personaggi si ritrovano, così come si ritrovano oggi, in occasione di questo premio, che tanto più mi onora in quanto unisce questi due nomi, Baudelaire e Chateaubriand, essenziali per me e per tutto ciò che ho scritto.
Quando ho cominciato a elaborare La Folie Baudelaire, mi era ben chiaro che non si sarebbe trattato di uno studio su Baudelaire, ma di un libro dove Baudelaire avrebbe fatto da guida attraverso i Salons della propria psiche e di quella di Parigi, nonché da navigante che segue con il suo battello quell'«onda Baudelaire» che attraversa tutto il secolo XIX e si infrange all'inizio del secolo XX, con la Recherche di Proust.
Non solo: al centro del libro non ci sarebbe stata un'opera di Baudelaire, ma un suo sogno — l'unico che abbia raccontato diffusamente. Ora, in quel sogno si riconoscono, uno per uno, con quasi dolorosa evidenza, tutti i fili con cui si è tessuta l'opera di Baudelaire. E il luogo dove il sogno si svolge, che è un imponente bordello-museo, a nulla somiglia come a una sorta di Palais-Royal trasportato in uno sconfinato intérieur, quasi che ormai la scena non potesse più essere il mondo esterno ma solo la psiche, che non ha confini, secondo la parola di Eraclito.
I sogni esigono di essere trattati con il massimo tatto. In questo caso per una doppia ragione: da una parte, perché quel sogno si rivelava essere il polo magnetico di tutta l'opera di Baudelaire e la cifra del suo destino di esibizionista involontario; dall'altra, perché riprendeva e variava l'immagine su cui sfocia la Rovina di Kasch: il Palais-Royal, «questo centro del caos di una grande città», secondo Restif, il quale elencò con voluttà tassonomica le specie variegate di filles che vi operavano, dalle «sunamites» alle «converseuses», spillandole con i loro nomi incantevoli: Boutonderose, sempre vestita di lino; Dorine, la filosofa, aria distinta, generalmente vestita di mussola su fondo rosa; Élise, «donna tagliata dalla Voluttà più che dalla Grazia»; Pyramidale, bella bruna; Sensitive; Amaranthe; Barberose — e innumerevoli altre (nel 1790 l'Assemblea Nazionale accolse una petizione delle duemiladuecento donne pubbliche del Palais-Royal).
Ma il Palais-Royal non ostentava soltanto questa folta popolazione femminile. Era il luogo dei gabinetti scientifici, dei caffè, dei libelli, dei complotti. Il luogo, scrisse Mercier, dove «un prigioniero potrebbe vivere senza annoiarsi mai e non pensare alla libertà se non dopo vent'anni». Nella Rovina di Kasch la sezione dal titolo Voci dal Palais-Royal si chiudeva con queste parole: «L'Occidente sognava di essere enciclopedia e bordello, palcoscenico e museo, Eden, politecnico, serraglio: una volta quel sogno si stava compiendo, nel Palais-Royal. Ma il sogno ebbe paura di se stesso. Ci accompagna, sospeso». Il bordello-museo era già presente e aspettava soltanto di entrare nel sogno di Baudelaire.
Ora, si dà il caso che Baudelaire abbia scelto il Palais-Royal come sfondo di una scena che è l'emblema stesso di uno dei suoi saggi più importanti e lungamente elaborati: De l'essence du rire. Le tenaci indagini di Claude Pichois hanno permesso di ricostruire la preistoria di questo testo, che Baudelaire stesso definiva una sua «ossessione» e che lo accompagnò per circa dieci anni, finendo per apparire in una oscura rivista della bohème letteraria l'8 luglio 1855, pochi mesi prima del sogno del bordello-museo, che è del 13 marzo 1856.
«Il Saggio non ride se non tremando»: questa massima ominosa, riconducibile a Bossuet, accoglie il lettore sulla soglia del saggio. E Baudelaire gioca su quelle parole, dicendo che potrebbero essere attribuite non solo a Bossuet, ma anche a Salomone, a Joseph de Maistre — «questo soldato meccanico dello Spirito Santo», definizione di fulminante efficacia — e persino a Bourdaloue, «lo spietato psicologo cristiano». In breve, Baudelaire vuole farci intendere che quella massima appartiene al tesoro di una antica sapienza, capace di percepire il mistero — e già per questo contrapposta all'epoca moderna, «per la quale nulla è difficile da spiegare, per il suo doppio carattere di incredulità e ignoranza».
Questo avvertimento solenne serve a far capire che il tema del comico è quanto di più grave ed elusivo il pensiero possa affrontare. Osservazione puntuale: da Aristotele a Freud, a Bergson, a Ferenczi, non si può certo dire che il comico sia stato illuminato in modo soddisfacente dal pensiero. E neppure il saggio di Baudelaire ci riesce. Ma il suo punto è un altro: segnalare che, trattando del comico, si entra subito in una zona di alto rischio, teologica e metafisica. Anzi, non ci si può neppure avvicinare al comico stesso se non si presuppone il dogma della caduta. Senza peccato originale non c'è pensiero, intima Baudelaire in ogni angolo della sua opera — e, se mai di progresso si dovrà parlare, sarà solo in rapporto a una possibile attenuazione delle tracce del peccato originale. Ma a questo punto, come negli esercizi spirituali di sant'Ignazio, occorre un'immagine, un luogo perché il pensiero prenda forma e si addentri in questi «arcani psichici», come Baudelaire stesso li chiama. E quel luogo sarà il Palais-Royal, dove si avventura, come «per caso, innocentemente», la Virginie di Bernardin de Saint-Pierre, colei che «simboleggia perfettamente la purezza e l'ingenuità assoluta» — e appare «ancora impregnata delle brume del mare e dorata dal sole dei tropici, con gli occhi pieni delle grandi immagini primitive delle onde, delle montagne e delle foreste». Nessun luogo più del Palais-Royal poteva essere adatto per turbare Virginie, per avvolgerla in «uno strano malessere, qualcosa che assomiglia alla paura».
Ma perché mai Baudelaire aveva sentito il bisogno di immaginare Virginie che cammina sotto i portici del Palais-Royal, quindi «in mezzo alla civiltà turbolenta, debordante e mefitica»? Perché la scena gli serviva per dimostrare il suo teorema teologico. Se il postulato, per Baudelaire, è che il comico sia «un elemento condannabile e di origine diabolica», occorreva osservare — come prova sperimentale — che cosa poteva accadere se a esso si esponeva colei che è il paradigma stesso dell'innocenza. Nel suo vagare Virginie finisce per trovarsi davanti agli occhi, sul tavolo di un vetraio, «una qualche immagine sporca, attraente e provocante, un Gavarni di quell'epoca, e uno dei migliori». A questo punto la prosa di Baudelaire ha uno stacco — e dalla psicologia si passa alla teologia: «Virginie ha visto; ora guarda. Perché? Guarda l'ignoto». Ciò che sta avvenendo sotto i portici del Palais-Royal è la scena primaria della conoscenza: il contatto con l'ignoto (e l'ignoto tornerà sempre in Baudelaire, fino all'ultimo verso delle Fleurs du mal). Quanto al «malessere» che ora invade Virginie, potrebbe anche avere un altro nome: conoscenza. Di quel contatto con l'ignoto alla fine qualcosa rimarrà, una traccia che è come una cicatrice: Virginie scoprirà il riso, che prima ignorava, ai tempi del suo idillio con l'altro innocente, Paul, «il cui sesso non si distingue per così dire dal suo negli ardori inappagati di un amore che si ignora» (parole che sono un picco di ironia camuffata). Ma a questo punto occorrerà tornare al teorema enunciato da Baudelaire sulla soglia della sua messa in scena di Virginie al Palais-Royal, che ne è la dimostrazione: «I fenomeni generati dalla caduta diverranno i mezzi del riscatto». Questa frase solenne e allusiva entra subito in risonanza con qualcos'altro in Baudelaire. Ma con che cosa? Si cercherebbe invano nei suoi scritti. La risposta — e la corrispondenza — si trovano nel sogno del bordello-museo, che culmina in un pensiero della cui «giustezza» — sempre nel sogno — Baudelaire stesso si compiace («Ammiro in me stesso la giustezza del mio spirito filosofico»). Il pensiero era questo: «Allora rifletto che la stupidità e l'insipienza moderne hanno una loro utilità misteriosa, e che spesso, per opera di una meccanica spirituale, ciò che è stato fatto per il male si volge in bene». Il sogno si rivela così essere innanzitutto l'applicazione del teorema che Baudelaire aveva enunciato nel saggio sull'Essence du rire.
Per quanto mi riguarda, sono occorsi venticinque anni perché trovassi conferma della «giustezza» di quella massima e finissi per svilupparla in un intero libro. Che si poneva, fra l'altro, la stessa domanda implicita nel sogno di Baudelaire: se il male va identificato con «la stupidità e l'insipienza moderne» e con tutto il loro apparato di «mania del progresso, delle scienze, della diffusione dei lumi», come mai il moderno ci affascina a tal punto, come mai Baudelaire stesso aveva voluto, in piena notte e con assoluta serietà, rendere subito omaggio con il dono di un suo libro alla maîtresse di quel bordello-museo che poteva essere considerato la casa-madre e l'epitome del moderno stesso?
Da allora la domanda è rimasta sospesa, anche se nel frattempo il moderno è diventato una categoria obsoleta. In ogni caso, però, nel pensiero elaborato da Baudelaire in sogno si toccava un punto cruciale. E, ancora una volta, era un punto già sfiorato nell'Essence du rire, dove si diceva che «l'elemento angelico e l'elemento diabolico funzionano in parallelo», sicché «l'umanità si innalza e acquista per il male e la comprensione del male una forza proporzionale a quella che ha acquistato per il bene». Parole che erano già un accenno, preciso e tagliente, a quella «meccanica spirituale» che si sarebbe manifestata nel sogno del bordello-museo.
La posta in gioco era alta, se è vero che in quelle parole si sottintendeva la vastità dilagante del male ma si implicava al tempo stesso che le porte del paradiso sono da sempre socchiuse. Però non si trovano là dove Adamo e Eva sono usciti dal giardino dell'Eden, bensì dalla parte opposta. Anche se nessuno ha lasciato detto esattamente dove. Un solo punto è sicuro: come scrisse Kleist, «dovremmo di nuovo mangiare dall'albero della conoscenza per ricadere nello stato dell'innocenza». Forse è vero, come Baudelaire afferma, che Virginie era «una grande intelligenza». Ma ignorava il riso. E i suoi amori con Paul suonano assai melensi. Mentre, insinuava ancora Baudelaire, «se Virginie rimane a Parigi e scopre la scienza, scoprirà il riso». Allora la Virginie che ride non sarà più l'eroina di Bernardin de Saint-Pierre, ma diventerebbe quell'essere femminile che Baudelaire chiamava «mon enfant, ma soeur» per invitarla nel paese che le assomiglia — e dove «tout n'est qu'ordre et beauté, / Luxe, calme et volupté».

Repubblica 12.12.12
Benjamin. Gli inediti del filosofo che Einaudi non volle
Giorgio Agamben ha curato una raccolta di scritti dello studioso mai pubblicati: “È una parte dei Passagen su Baudelaire più ampia di quella conosciuta”
di Antonio Gnoli


Terribili dovettero essere gli ultimi anni di vita di Walter Benjamin. In una sequenza di eventi negativi, tra il 1938 e il 1940, egli abitò a Parigi nell’isolamento e nell’estrema povertà. Le sue giornate trascorrevano alla Bibliothèque nationale, il solo luogo che gli garantiva la necessaria concentrazione per portare avanti il suo progetto. Lavorava alla stesura di un grande libro, tra le carte e i foglietti che maniacalmente appuntava. Poi la situazione precipitò. E fu come cadere rovinosamente da un precipizio. Nel giro di pochi mesi l’ebreo Benjamin intraprese una fuga che si concluse, come è noto, con il suicidio a Port-Bou, nel settembre del 1940, sul confine spagnolo. Si favoleggiò che insieme alle poche cose necessarie alla sopravvivenza Benjamin si trascinasse una valigia con il manoscritto al quale aveva febbrilmente lavorato. È molto probabile che quella valigia, che si disse fosse andata perduta, sia solo una leggenda. E che la verità sia un’altra. A raccontarcela è Giorgio Agamben che scoprì quelle carte, oggi finalmente pubblicate da Neri Pozza.
Come arrivò a quella scoperta?
«Casualmente. In quel periodo, la fine degli anni Settanta, stavo lavorando al ritrovamento delle ultime carte di Benjamin, compreso il famoso manoscritto dei
Pariser Passagen che si riteneva fosse andato perduto. Quando un giorno, sfogliando delle lettere di Georges Bataille ne trovai una in cui Bataille, scrivendo a un amico conservatore alla Bibliothèque nationale, citava alcune buste contenenti dei manoscritti di Benjamin. In margine alla lettera c’era un’annotazione del conservatore che indicava la Bibliothèque nationale come il luogo in cui quei manoscritti si trovavano».
Cominciò così la caccia al tesoro?
«Fu una ricerca elettrizzante. Alla fine trovai i manoscritti in un armadio. Li aveva lasciati in deposito la vedova di Bataille. Da notare che la Bibliothèque non catalogava i lavori in deposito, per cui sarebbero potuti rimanere sepolti lì ancora per decenni».
Cosa esattamente ha trovato?
«Tutto quello che poi è diventato questo libro che sarebbe dovuto uscire nel 1996. Ma tormentate vicende editoriali ne impedirono la pubblicazione».
A cosa allude?
«Alla decisione allora della casa editrice Einaudi di non pubblicarlo. Mi chiesero
delle cose assurde, per esempio di tagliare il libro perché l’edizione intera avrebbe danneggiato il volume sui Passagen.
Sarebbe stato come chiedere a un dantista che scopre un nuovo manoscritto della
Commedia di non pubblicarlo perché altrimenti avrebbe danneggiato le precedenti
edizioni».
Passano quasi vent’anni. Nel frattempo scadono i diritti sulle opere di Benjamin e il libro finalmente vede la luce con il titolo Baudelaire, un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato.
Perché è così importante e cosa lo differenzia dai Passagen che Einaudi ha pubblicato con il titolo Parigi, capitale del XIX?
«Benjamin, negli ultimi anni della sua vita, stava lavorando a un’opera fondamentale. E in un primo momento quest’opera sono i Passagen di Parigi che contengono un capitolo dedicato a Baudelaire. Man mano che va avanti, il capitolo cresce al punto da soppiantare il lavoro precedente. Per cui il “Baudelaire” da modello in miniatura diventa l’opera completa».
Ma allora il libro dei Passagen pubblicato da Einaudi che cosa è?
«È semplicemente il grande schedario organizzato da Benjamin. Tanto è vero che il curatore delle opere di Benjamin, R. Tiedemann, messo da me al corrente di questa scoperta, appose una nota nell’ultimo volume in cui dice che se avesse conosciuto prima questi materiali si sarebbe potuta fare un’edizione storico critica del libro su Baudelaire che avrebbe cambiato molte cose. Quindi questa che ho curato è la prima edizione mondiale. So che anche i tedeschi, sulla base del ritrovamento, ne faranno una».
Ma alla fine cosa aggiunge di sostanziale?
«Intanto, si entra con chiarezza nell’officina di Benjamin, nel suo modo di lavorare. Che non è affatto neutro. Quando decide di spostare l’attenzione su Baudelaire prende l’enorme schedario dei Passagen e lo riordina, lo mette per così dire in movimento. È come se il materiale fin lì raccolto venisse chiamato a nuova vita».
Si passa, lei scrive, dalla documentazione alla costruzione del testo.
«Che non è un passaggio inerte, passivo, esoterico. Ma un modo per tessere la connessione tra i suoi concetti fondamentali: “aura”, “allegoria”, “merce”, “prostituzione”, eccetera. Fino a ieri si pensava che le Tesi sul concetto della storia
fossero l’ultimo lavoro di Benjamin. In realtà, quelle “Tesi” – come lui ci mostra – sono soltanto l’apparato teorico di una sezione del libro su Baudelaire. È chiaro che cambia la prospettiva. In un frammento annota: bisogna costruire l’oggetto come monade».
Un’affermazione enigmatica.
«Si riferisce alle monadi di Leibniz. Le quali è vero che non hanno finestre, ma non ce l’hanno in quanto esse stesse rappresentano l’universo. Lo contengono. Quindi, gli oggetti cui si riferisce Benjamin sono quelli dove già è riflessa la costruzione dell’intero».
Lavorare sul piccolo, sul trascurabile, per scoprire il grande. Era questo il suo principio micrologico?
«Sì. Lei dice “trascurabile” e questa parola rimanda all’altro principio che lo orienta: lavorare sugli stracci, sui rifiuti, sulle categorie secondarie e spesso nascoste. Non a caso sceglie i passages parigini che a quell’epoca, dal punto di vista architettonico, erano considerati un oggetto assurdo che non interessava a nessuno, salvo ai surrealisti che li riscoprivano come oggetto strano».
Benjamin insomma scende in un sottosuolo che quasi nessuno conosce.
«A un certo punto, per definire il proprio lavoro, Freud dice che se non potrà muovere gli dei muoverà l’acheronte, ossia l’inferno. Anche quello di Benjamin è un principio acherontico. Egli non indaga le grandi categorie, i grandi concetti su cui si sono soffermati gli storici della cultura, smuove gli inferi della Parigi del XIX secolo.
Legge la storia a contropelo».
E Baudelaire è il “Virgilio” che lo condurrà nel suo inferno?
«Assolutamente. Per lui Baudelaire è il poeta che di colpo si accorge che tutto è cambiato, che ogni cosa ha a che fare con il mercato e la merce. È il teorico del moderno, ma il moderno è anche l’arcaico».
Sembra un modo di lavorare di altri tempi quello di Benjamin di annotare tutto su dei foglietti.
«Era una necessità. In quegli anni era talmente povero da non potersi neppure permettere di comprare la carta. Utilizzava qualunque foglio: dal rovescio delle lettere che gli spedivano ai blocchetti di carta della San Pellegrino che prendeva nei bar».
Come si manteneva?
«Con i pochi soldi che gli spedivano Adorno e l’Institut für Sozialforschung. Si angosciò quando seppe che glieli avrebbero ridotti».
Quanto furono fondamentali i rapporti con Adorno e Horkheimer?
«Meno di quanto si pensi. C’è un episodio rivelatore. Qualche anno fa uscì dagli archivi dell’università, a cui Benjamin si era rivolto per ottenere l’abilitazione, la scheda che motivava il rifiuto. Benjamin aveva presentato come lavoro Le origini del dramma barocco.
Il professore che esaminò il testo confessò di non averci capito nulla, perciò chiese il parere del suo giovane assistente, che era Max Horkheimer, il quale redasse una nota – firmata – in cui bocciava Benjamin. Quell’atto cambiò radicalmente la sua vita. Non so se in bene o in male. Ma gliela rese durissima».

La Stampa TuttoScienze 12.12.12
Nelle grotte africane dove nacque la mente
La rivoluzione. Il salto evolutivo si verificò 70 mila anni fa, molto prima di quanto si è creduto finora
di Gabriele Beccaria


«I nostri primi e comuni antenati, che vissero qui, in Sud Africa, e 60 mila anni fa cominciarono a sparpagliarsi nel resto del mondo».
Chi parla è un celebre archeologo, il sudafricano Christopher Henshilwood, che si emoziona di fronte a quelle che possono apparire pietre bizzarre e invece sono le prime manifestazioni dell’Homo Sapiens come lo conosciamo. Sbalorditive manifestazioni di pensiero astratto.
Scavando nelle grotte costiere, spesso a picco sul mare, in luoghi desolati ma intrisi dell’aura dei tempi primordiali, Henshilwood ha raccolto prove inedite e le ha raccontate in un articolo appena pubblicato sul «Journal of World Prehistory»: è ormai certo di essere in grado di fare a pezzi la teoria ortodossa secondo la quale la mente moderna, che tanto ci affascina nel bene e nel male, non è affatto sbocciata tra i primi «coloni» europei, arrivati in un’Europa ancora semisommersa dai ghiacci, 40 mila anni fa. La nostra specie ha imparato a immaginare il futuro e a giocare con i simboli molto prima, nella culla sudafricana, appunto, quando uomini ormai simili a noi non solo cacciavano e andavano a pesca, ma facevano anche molte altre cose. Particolarmente sofisticate e, a volte, apparentemente superflue.
I reperti ritrovati da Henshilwood e dal suo team sono eloquenti. Dalla Still Bay e da Howiesons Poort - le aree in cui sono state identificate due culture successive, tra 75 e 70 mila anni fa la prima e tra 65 e 60 mila anni fa la seconda - sono emerse testimonianze speciali, come frammenti di pensieri congelati: pezzi di pietra ocra incisi con motivi geometrici (ed ecco il primo esempio di arte astratta), collanine di conchiglie (ed ecco gli archetipi dei gioielli), arnesi d’osso e altri in pietra finemente scheggiati (ed ecco l’emergere di una tecnologia che richiedeva la perfetta coordinazione tra intenzioni mentali e gesti fisici). Per non parlare delle minuscole, pressoché perfette, punte di freccia, scagliate da archi in legno andati perduti.
«Queste innovazioni, più molte altre che stiamo solo adesso scoprendo, dimostrano che i Sapiens del Sud Africa erano già definitivamente moderni e si comportavano, sotto molti aspetti, proprio come noi», ha osservato Henshilwood, interrogandosi anche sull’altra grande questione che intriga i paleoantropologi: se gli indizi sulla nascita delle supercapacità cognitive si accumulano, qual è la scintilla che le provocò? Ce ne fu più d’una, è l’ipotesi dello studioso. Ma tutte scatenate da rapidi cambiamenti climatici.
Le micro-tribù sopravvissute a lunghi periodi di siccità devono essere esplose in quantità, quando tornarono le fasi di piogge abbondanti, migliorando anche in qualità. Più individui significarono più scambi biologici di Dna e più scambi intellettuali di esperienze e tecniche, mentre la pressione del numero deve avere innescato un effetto domino di spostamenti a breve raggio e migrazioni di lungo respiro. Ma qui le certezze evaporano rapidamente in ipotesi via via più fragili. E Henshilwood continua le esplorazioni, intrecciando il tempo perduto con quello della memoria: le grotte in cui scava pazientemente, centimetro dopo centimetro, sono le stesse che suo padre gli fece scoprire, quando era un bambino irrequieto e curioso.

La Stampa TuttoScienze 12.12.12
Storie ai confini della scienza
La tomba maledetta di Qin
Nuove scoperte sull’imperatore che forgiò (col sangue) la Cina
di Luigi Grassia


Xian La prima capitale cinese ospita il mausoleo dell’ imperatore Qin con il famoso esercito di terracotta a fare da guardia

Se avete visto il film «Hero» (2002) vi siete già fatti un’idea del personaggio di Qin Shihuang, cioè del capo militare che nel III secolo avanti Cristo si è dato la missione di unificare i regni cinesi in un unico impero, e ci è pure riuscito, ma facendo scorrere un oceano di sangue. Poi Qin ha cinto il suo dominio con la costruzione della Grande Muraglia. E infine si è predisposto una tomba monumentale, a cui fa la guardia il famoso esercito di terracotta, un’armata fantasma di 7 mila guerrieri con armi, cavalli e carri da guerra. La novità è che nei pressi del tumulo sepolcrale di Xian sono stati scoperti i resti di un palazzo imperiale molto esteso (690 metri per 250), la cui pianta, sia pure su scala minore, «ha fatto da modello alla Città Proibita di Pechino», secondo l’archeologo Sun Weigang. Con questa scoperta Qin Shihuang si conferma come l’uomo che ha forgiato la Cina in tutti i suoi elementi costitutivi: l’unità politica, la Muraglia e gli stili artistici e architettonici. E alla Cina ha dato pure il nome, visto che Qin si pronuncia «cin» (e da qui Cina).
Sulla carta questo personaggio dovrebbe essere più famoso di Alessandro Magno, Cesare Augusto e Gengis Kahn messi insieme, perché la Cina è l’unico dei grandi imperi a essere durato nei millenni fino a oggi (e restando per quanto possibile uguale a se stesso fino a tempi recenti). Un lascito durevole, quello di Qin. E invece fuori dalla Cina non è che sia proprio famosissimo, e dentro ai confini del suo Paese è esecrato come tiranno sanguinario, per quanto gli si renda merito di aver svolto il lavoro sporco ma necessario di unificare il Paese.
Alla sua leggenda nera non manca (ovviamente) l’elemento fondamentale, cioè la tomba maledetta (oltreché misteriosa). La camera sepolcrale di Qin, a cui fa la guardia l’esercito di terracotta, è ancora inesplorata, e per dei buoni motivi. Si teme di danneggiarla con uno scavo affrettato. E poi, secondo gli storici cinesi antichi, è stata costruita con una serie di trappole che possono fare molto male. Per esempio, gli antichi libri riferiscono di macchine irte di frecce pronte a scattare contro gli intrusi. Ma dopo più di 2 mila anni funzioneranno ancora? Uno studioso cinese di oggi, Guo Zhikun, ritiene che sia possibile: «A Xian abbiamo trovato frecce ricoperte di zinco cromato con ottime tecniche di fusione, che le hanno protette dalla corrosione. È probabile che i meccanismi di lancio siano altrettanto ben preservati». E fra altre cose c’è la minaccia del mercurio, riscontrato in forti quantità nel terreno del mausoleo: il mercurio e alcuni suoi composti erano considerati simboli di immortalità e nella camera mortuaria ce ne sarebbero taniche piene. I loro vapori, anziché regalare l’immortalità, potrebbero avvelenare i malcapitati Indiana Jones locali.