giovedì 13 dicembre 2012

l'Unità 13.12.12
Noi e Ingrao. Un film d’amore
Le riprese, i silenzi, le domande «Ma a te piace questo mondo?»
Lavorare al film su uno dei massimi leader storici del Pci, forse il più amato e il meno potente, è stato un incontro umano vibrante, un ripasso di emozioni e di ideali. Ma senza santini, sia chiaro
di Filippo Vendemmiati


HO PAURA DI INVECCHIARE. UN TIMORE RIFLESSO DUNQUE MI ACCOMPAGNAVA DAVANTI AI 97 ANNI DI PIETRO INGRAO. MA LUI L’HA DISSOLTO. Gli occhi vivi nella mia faccia, chiede senza pause: «Cosa pensi di questo mondo in cui ti stai inoltrando? Quanti film vai a vedere tu? Quanti anni hai?». Avanti, ancora domande: imponendosi senza gara come quello, tra noi, davvero giovane, curioso del mondo, mai pago di risposte e di confronto. Lavorare al film su uno dei massimi leader storici del Pci, forse il più amato e il meno potente, è stato un incontro umano vibrante, un ripasso di emozioni e di ideali. Niente santini, sia chiaro. Ma molta voglia di reincontrare la passione politica perduta lungo la nostra strada italiana. Pietro ha visto il film nella casa natale di Lenola. «Grazie, grazie ha detto alla fine Ma adesso parlatemi di voi, che io temo d’avere stufato».
Per la mia generazione Ingrao ha rappresentato l’idea della politica, intesa come passione e non come mestiere, la spinta utopistica alla ricerca costante di un mondo migliore. Oggi, a 97 anni, Pietro rappresenta ancora tutto questo. L’intervista che fa da narrazione al film è stata realizzata in più occasioni e posso dire che in realtà mai si è trattato di un’intervista. Il rapporto con Pietro è sempre unico e nuovo. Dopo alcune domande e docili risposte, passa al contrattacco: è lui che vuole sapere da te, ti incalza, chiede se hai capito, domanda ragione dei tuoi silenzi, ti invita ad andare avanti, a non fermarti e a non andartene. Il tutto ruota sempre attorno alla sua domanda: ma questo mondo...ti piace o non ti piace? Ti conquista.
Tutto iniziò un tardo pomeriggio di metà gennaio 2012, ci presentammo in tre a casa sua: io, Donata e Simone, i tre principali soci di questa avventura. Ero sudato e confuso, Pietro ci aspettava sul divano, ansioso di iniziare e per questo non ci fu nemmeno il tempo di allestire un set degno di questo nome e di provare le luci come avremmo voluto. «Beh, io sono pronto ci disse subito cominciamo. Cosa volete da me, cosa volete sapere?». Doveva essere una prova e durare poco, andammo avanti per tre ore ininterrotte e ci fermammo perché noi eravamo esausti. Verso la fine del primo incontro attacca, e la domanda come tutte le altre fa parte del film, trasportata in un dialogo virtuale fuori dal tempo con uno studente che mi assomiglia molto: «Beh adesso per andare avanti, io mi pare di aver parlato molto più di voi. Voi che avete fatto?». Sul momento non risposi, ma oggi ripensando al quel «che avete fatto» ritrovo la ragione principale per cui ho voluto incontrare quest’uomo. Era un modo per parlare anche della mia generazione «quelli che negli anni ’80 avevano una ventina d’anni» cercare cosa resta, cosa salvare, da dove ripartire per recuperare una stagione di delusioni e di fallimenti, di sogni infranti ma che forse ancora ardono di luce propria. Come Pietro del resto. Perciò in questi mesi sono tornato da lui anche solo per un saluto, per guardare in tv una partita della nazionale di calcio o per fargli ascoltare dal vivo musicisti e strumenti a domicilio le canzoni composte per il film dai Tête de Bois.
Pietro era il più capace nei comizi. Come un attore consumato, usa ancora perfettamente l’arte delle pause, degli sguardi, comunica stati d’animo e sentimenti. Devo molto a Chiara, una delle sue figlie, la ringrazio innanzitutto per essersi fidata e per avermi indicato una strada. I rischi inizialmente erano tanti, ne ero cosciente e mi sono stati sinceramente prospettati. Il peggiore era quello di rappresentare Ingrao come l’ultimo erede dell’ortodossia comunista, «un giapponese con la bandiera rossa in mano che ancora combatte contro i padroni». Oppure, secondo un’altra definizione, «un romantico sognatore con la testa tra le nuvole che immaginava un mondo migliore e che si ritirò a scriver poesie». Credo onestamente di aver scampato questo pericolo, l’ortodossia è lontana anni luce dal suo pensiero politico che è connotato dal dubbio costante, con le poesie ha cercato nuovi strumenti di comunicazione e quanto a immaginare un mondo migliore consiglio di leggere gli interventi più strettamente politici ricchi di proposte e progetti. Pietro inizialmente ha letto il soggetto del film, lui lo chiama ancora sviluppo, credo ci sia stata una sorta di discussione famigliare. Non so se al termine si è conclusa con un voto, ma Chiara è stata la «delegata», in verità una consulente e siamo andati avanti in totale sintonia. È stata lei a suggerirmi Giulia, sorella di Pietro, interprete nel film di un controcanto intimo e umano, capace di ricondurre la passione del fratello nell’ansa di una famigliare condivisione. Ho scritto un racconto incompleto e di parte nessuna pretesa storica o biografica: mi premeva di più quel vivere la politica, quel non poterne far a meno. Perché come dice Ingrao «ciò che mi ha spinto non è stato soltanto il dolore fisico di vedere la sofferenza altrui, ma un bisogno mio di raggiungere il sogno».
Mi piacerebbe che anche altri, vedendo il film, si unissero a questo viaggio. Veniamo da anni difficili durante i quali la politica è stata sottratta a questo Paese, la politica come valore e come etica, come visione del mondo, coraggio di scoprire e di mettere in discussione consolidate certezze, di scegliere e di sbagliare. Sono rimasto sorpreso dalla reazione di molti giovani alla visione del film, alcuni di questi neanche sapevano chi fosse Ingrao. Li ho visti emozionarsi, ridere e stupirsi, desiderosi di approfondire pagine di storia che non conoscevano e di riflettere anche sul presente. Questo che racconto è il mio Pietro Ingrao, perché io non sono l’interprete del suo pensiero politico. Questo è il film: un film d’amore, una dichiarazione d’amore verso un uomo bellissimo. Auguro ai lettori de l’Unità buona visione rubando la frase di Pietro che apre Non mi avete convinto: «Questo è quello che vi racconto. E se non ve lo racconto bene, pazienza».

Il film da sabato in edicola con il nostro giornale
Un’altra grande iniziativa del nostro giornale in collaborazione con Luce Cinecittà. Da sabato, e per due settimane, troverete in edicola «Non mi avete convinto», il film documentario di Filippo Vendemmiati dedicato a Pietro Ingrao (7,90 euro più il prezzo del giornale). Ingrao, 97 anni, si racconta a distanza con uno studente degli anni Ottanta che attraverso la radio ascolta l’intervento del grande uomo politico durante il XVI Congresso del Pci (marzo 1983). Una lunga intervista a Ingrao realizzata da gennaio a giugno 2012, corredata da materiali d’archivio anche inediti e commentata dalla musica dei Têtes de Bois. Un lavoro appassionato su un uomo che ha attraversato con coerenza e lucidità il Novecento. Andando oltre.

l’Unità 13.12.12
Bersani annuncia:
Primarie a fine anno: cambiamo la politica
Il leader Pd annuncia la consultazione «aperta» per la scelta dei parlamentari: si voterà il 29 e 30 dicembre
«Lanciamo la nuova sfida, chiediamo ai militanti uno sforzo al limite dell’impossibile»
di M. Ze.


Uno sforzo «ai limiti dell’impossibile» eppure necessario per proseguire «in quel percorso di riavvicinamento dei cittadini alla politica avviato con le primarie del centrosinistra per la leadership». Pier Luigi Bersani annuncia le primarie Pd per scegliere i parlamentari candidati alle prossime elezioni politiche e chiede al suo partito uno sforzo «straordinario». La data, fissata durante la riunione della segreteria nazionale alla quale hanno preso parte anche i segretari regionali è stata fissata per il 29 e 30 dicembre.
«Sappiamo di chiedere uno sforzo eccezionale ai nostri militanti e ai nostri elettori, ai limiti dell’impossibile, ma vogliamo cambiare davvero la politica. E quindi lanciamo a noi stessi questa nuova sfida», spiega il segretario. Notizia accolta con entusiasmo dalla rete, da molti big, con soddisfazione dal sindaco Matteo Renzi, «ma aspettiamo di vedere le regole», e con qualche preoccupazione trasversale soprattutto per i tempi per la campagna elettorale. La decisione è stata presa all’unanimità dalla segreteria nazionale perché su un punto nel Pd sono tutti d’accordo: tornare al voto con il Porcellum e presentarsi con le liste bloccate e i candidati decisi dalle segreteria sarebbe stato come gettare a mare il vantaggio incassato con le primarie. Il candidato premier è stato chiaro con i suoi: «Abbiamo detto che nel caso in cui restava il Porcellum avremmo fatto le primarie per i Parlamentari e gli elettori questo si aspettano, anche se c’è stata un’accelerazione improvvisa e il tempo a disposizione è davvero poco. So che è difficile ma le difficoltà saranno ampiamente ricompensate dai benefici non solo per il nostro partito ma per il rapporto tra cittadini e politica e spetta al Pd recuperare la fiducia degli elettori».
Le regole verranno decise lunedì mattina e dopo il vaglio dei segretari regionali sarà la direzione nazionale, che si riunirà alle 18, a dare il via libera anche se ieri sono state tracciate le direttrici: si voterà in un solo giorno, saranno le direzioni provinciali a decidere se il 29 o il 30; la platea elettorale sarà grosso modo quella delle primarie del 25 novembre, allargata ovviamente a tutti gli iscritti Pd che non compaiono nell’albo degli elettori della coalizione di centrosinistra; l’elettorato passivo sarà rappresentato dagli iscritti Pd e da una quota di società civile che sarà decisa dalle direzioni provinciali del partito; garantita la parità di genere con la doppia preferenza. A proporre la rosa di nomi dei candidati sarà ogni singola direzione provinciale, mentre una quota nazionale sarà riservata alla segreteria nazionale (si ragiona intorno al 25% più i capolista) per garantire quella che Bersani definisce «una rappresentanza di competenza ed esperienza». Lunedì sarà una giornata cruciale anche su un altro fronte: saranno valutate e decise le deroghe che i parlamentari con tre legislature alle spalle presenteranno per potersi ricandidare. «Queste primarie saranno un appuntamento decisivo per caratterizzare ancora una volta il Pd come il partito dell’apertura e del rapporto con la società scrive in una nota la segreteria -: saranno lo strumento che il Pd offre ai cittadini per restituire loro la possibilità di avere rappresentanti scelti e non nominati dai vertici politici».
Critico il renziano Salvatore Vassallo: «Positiva la notizia delle primarie, discutibile ma accettabile l’idea di restringere la platea agli elettori del 25 novembre, ma sulla data non sono d’accordo. È praticamente impossibile fare campagna elettorale e informazione nei pochissimi giorni a disposizione, soprattutto per noi parlamentari che saremo impegnati in Aula fino al 21». Secondo Vassallo si potrebbero spostare addirittura all’11 o al 12 gennaio. Nico Stumpo, nelle cui mani è l’intera organizzazione, replica: «Se si vota, come sembra, il 17 febbraio, le liste dovranno essere presentate entro il 13, al massimo il 14 gennaio. Non possiamo fare le primarie uno o due giorni prima perché ci sono tempi tecnici da rispettare: una volta chiuse le urne le direzioni provinciali devono comporre le liste, poi la direzione nazionale le deve approvare e tutto deve tornare al provinciale per l’iter burocratico». Tanti i dubbi dei parlamentari: ci sarà spazio nella quota nazionale e in quella provinciale per coloro che hanno svolto ruoli soprattutto a Roma e non nei territori? E quanto sarà dura per chi è stato eletto nelle liste bloccate competere ora con i politici locali? Rosy Bindi non si sbilancia sulla deroga, Anna Finocchiaro anticipa che non la chiederà, Beppe Fioroni si rimette alle decisioni di Bersani. E se Renzi definisce «giusta» la scelta delle primarie, i suoi vanno all’attacco. Sara Biagiotti le definisce «un insulto all’intelligenza» se fatte il 29 o il 30. Ma intanto tutti si preparano alla scalata verso Roma.

La Stampa 13.12.12
Pd, sì alle primarie anche per i big. Si voterà il 29-30 dicembre

Il segretario Bersani: “Noi siamo diversi dagli altri: tutti si devono mettere in gioco”
di Carlo Bertini


Il segretario «Sappiamo di chiedere uno sforzo eccezionale ai nostri militanti e ai nostri elettori, ai limiti dell’impossibile, ma vogliamo cambiare davvero la politica», ha spiegato ieri Bersani

«Noi siamo un’altra cosa rispetto a tutti gli altri, si vince mettendoci in gioco, con queste primarie dimostriamo che non molliamo sull’impegno al rinnovamento. E poi, io mi sono fatto contare, ora è il momento che tutti si mettano in gioco». Il Bersani-pensiero che si raccoglie al Nazareno, dove in serata si conclude una riunione fiume con i segretari regionali e vari big, è quello di un leader che dopo aver rischiato l’osso del collo ed aver vinto la sua sfida con Renzi, spinge il partito ad accettare una sfida con molte incognite, facendo imbufalire tutti i peones. Se con quel voler essere diversi dagli «altri» si intende non solo Berlusconi e Grillo, ma anche quel rimestio tra i moderati che coinvolge Monti e Casini, si capisce che il Pd voglia usare questa mossa per riguadagnare il centro della scena, dopo giorni in cui l’agenda della politica è dominata dal Cavaliere. Se poi queste primarie costringeranno big e peones a contarsi, si capisce che così Bersani si smarca dal pressing dei maggiorenti sulle liste. Evitando pure di dover garantire una quota a Renzi: il quale apprezza, «io alle primarie dico sempre di sì», malgrado il suo braccio destro Reggi sollevi una polemica sui tempi stretti e le regole di ingaggio. Certo è che, oltre a lui, renziani doc come Marcucci, Della Seta, Vassallo, Sarubbi, Giachetti, Realacci, Ceccanti, Scalfarotto e Ichino saranno in lizza, così come la coordinatrice della campagna Simona Bonafè, mentre non si sa cosa farà Giorgio Gori.
Ma nel Pd si scatena un uragano, perché, anche i più in vista come Letta, Franceschini e i futuri capilista difficilmente potranno sottrarsi. Tutti saranno costretti a misurarsi: dalla segreteria al completo, compresi i «giovani turchi» come Orfini o Fassina, fino alla portavoce delle primarie Alessandra Moretti. Non dovrebbero esserci insomma troppi posti al sole garantiti, ma la polemica sul «listino bloccato», la quota del 10% decisa nella capitale, è già accesa. «Io e Fassina - racconta Orfini - in segreteria abbiamo detto che tutto il gruppo dirigente, membri della segreteria e parlamentari uscenti, deve candidarsi. Ma ci spiace dover dire che la nostra posizione è rimasta abbastanza isolata». Comunque sia, dopo il passo indietro di Veltroni, D’Alema, ieri anche della Finocchiaro, gli altri big come Bindi, Fioroni, Marini, dovranno farsi votare a scrutinio segreto una deroga ai tre mandati lunedì in Direzione, con tutto quel che può comportare un passaggio di questo tipo.
«Sappiamo di chiedere uno sforzo ai limiti dell’impossibile ai nostri militanti ed elettori, ma noi vogliamo cambiarla davvero la politica», dice il segretario. Strumento di campagna elettorale o modo per riparare alle storture del porcellum: comunque le si voglia definire, le primarie per la scelta dei parlamentari sono una novità assoluta che terrà impegnate il 29 e 30 dicembre, sotto le feste natalizie, tutte le truppe di ogni ordine e grado.
Lunedì la Direzione voterà le regole che dovrebbero essere queste: potranno votare gli iscritti al Pd e tutti quelli, tra i 3 milioni delle primarie per la premiership, che vorranno iscriversi al partito. In gara circa 600 nomi, il doppio dei deputati e senatori eletti nel 2008: potranno correre anche i non iscritti al Pd che abbiano l’ok delle assemblee provinciali; almeno il 30 o il 50% delle liste sarà composto da donne e si voterà su base provinciale con listini piccoli. Sindaci, governatori, presidenti di provincia, consiglieri regionali e assessori, per potersi candidare dovranno farsi votare una deroga a maggioranza dalle rispettive assemblee regionali del Pd. Ma sulle incompatibilità c’è un braccio di ferro. Perché il terrore che a prevalere siano i cosiddetti «pacchettisti», quelli con i pacchetti di voti locali, è grande tra i nominati del porcellum.
E subito dopo il via libera della segreteria del Pd, arriva l’annuncio che anche Sel farà le sue primarie per le candidature nelle stesse date. Con Vendola sempre più determinato a far valere il suo peso nell’alleanza, come dimostrano le bordate quotidiane all’indirizzo di Casini. E ieri anche di Monti, che «se si candiderà svelerà la sua vera natura». "Nessuna eccezione Pronti alla sfida i renziani doc che però polemizzano sulla data Previsto comunque un listino bloccato per il 10% dei seggi riservato ai «tecnici»"

Repubblica 13.12.12
Il laboratorio di Bersani
di Curzio Maltese


LA SCELTA di Bersani di fare le primarie anche per i candidati del Pd al Parlamento, subito imitata da Vendola e Sel, è la più onesta e la più intelligente che si potesse compiere.
La scelta di Bersani è segno che le due cose insieme sono possibili perfino nella politica italiana. La più onesta, perché restituisce agli elettori, almeno a quelli del centrosinistra, la facoltà costituzionale di scegliersi i propri rappresentanti. Un diritto ormai da anni sequestrato dalle segreterie dei partiti, grazie alla vergognosa barricata eretta dalla destra intorno al Porcellum. La più intelligente, perché segnala a tutti gli elettori, non soltanto al popolo di sinistra, qual è oggi l’unica parte interessata a riformare la politica, nei fatti e non nei proclami. Se tutto sarà concepito con la massima trasparenza, come vogliamo pensare, si tratterà di una rivoluzione in potenza più esplosiva delle primarie per la guida del centrosinistra appena celebrate. In pratica, il 29 e 30 dicembre si decreterà la vera fine della seconda repubblica e del modello che l’ha contraddistinta, il partito padronale. Inventato a suo tempo da Bettino Craxi sulle ceneri della tradizione socialista, perfezionato e incarnato da Silvio Berlusconi per un ventennio, imitato poi a destra e a sinistra, il partito padronale è stato la principale causa del livello di corruzione, trasformismo, incompetenza e discredito interno e internazionale cui è giunta la politica italiana, inedito finanche per il paese delle eterne tangentopoli. Il padrone, alla fine, si sceglie sempre una corte di servi. E i servi alla lunga o sono sciocchi o sono traditori o sono ladri. Oppure tutte e tre le cose insieme, come testimoniano molti degli scandali della seconda repubblica. La selezione del personale politico funziona inevitabilmente al peggio. I competenti, gli onesti, le persone coerenti e quindi anche capaci di dissenso, dignità e critica, sono sistematicamente fatti fuori dai cortigiani. È accaduto negli anni all’azienda-partito di Berlusconi, con l’aggravante del conflitto d’interessi del principale. Ma il meccanismo si è ripetuto in tutti gli altri partiti padronali, dalla Lega Nord di Umberto Bossi all’Idv di Antonio Di Pietro. Con storie di ruberie e tradimenti fra il losco e il grottesco, che ricordano l’immortale satira di Johnatan Swift, Istruzioni per la servitù. Una lettura da consigliare all’ultimo Beppe Grillo, passato in un attimo dalla grande comicità all’umorismo involontario del «chi dice che non sono democratico se ne va fuori dalle palle». Non per caso, la struttura del partito governato da un “caudillo” con diritti assoluti sui seguaci è sconosciuto nelle democrazie classiche, ma tipico di finte democrazie del-l’Est europeo, del Sudamerica e dell’Africa. Con la decisione del Pd e di Sel non soltanto si riporta il nostro sistema nell’alveo occidentale, ma si traccia una via d’uscita per la crisi delle democrazie europee. Come del resto è già successo per le primarie chiamate a eleggere il candidato premier. A condizione naturalmente che si tratti di un voto vero, aperto, pulito. Primarie vere, svolte nel territorio, con i cittadini. Non giochini di apparato e tantomeno trucchi virtuali spacciati per democrazia online e in realtà facilmente manipolabili da chi detiene il marchio di fabbrica, come le recenti “parlamentarie” del Movimento 5 Stelle, una nuova pagliacciata della quale la lunga tradizione della nostra politica in questa materia non aveva sinceramente bisogno. Sarebbe un’ottima cosa per la famosa immagine dell’Italia nel mondo, e perfino per l’altrettanto celebre spread, se il nostro paese, dopo essere stato per due decenni il teatrino di pupi che è stato, tornasse a essere come in epoche più gloriose, un vero e interessante laboratorio politico.

il Fatto 13.12.12
Il Pd fa le primarie a Capodanno, ma i candidati chi li decide?
di Wanda Marra


Potranno votare gli elettori nella sfida Bersani-Renzi e gli iscritti Democratici. Ancora da decidere le regole per l’elettorato passivo. Una parte potrà partecipare raccogliendo le firme. Ci sarà una “riserva nazionale” esentata dalle consultazioni che sarà gestita da Bersani.

Dobbiamo giocare all’attacco fino all’ultimo minuto. Così si vince. Se cominciamo a difendere il vantaggio acquisito perdiamo”. Enrico Letta, vice segretario del Pd, va diritto al punto. E allora, il 29 e il 30 dicembre ci saranno le primarie per scegliere i candidati Democratici alle prossime elezioni. Che poi, votando con il Porcellum, significa scegliere i parlamentari. Sull’onda del successo nei sondaggi e nell’immagine del partito, il Pd ci riprova. Negli stessi giorni farà le primarie anche Sel. “Facciamo vedere che vuol dire democrazia interna”, polemizza Letta, riferendosi alle parlamentarie di Grillo.
UNA SCELTA voluta anche questa volta in primo luogo da Bersani (“Stiamo cambiando la politica italiana”, ha detto ieri), nonostante le lamentele e le perplessità di capi - bastone in processione e di portaborse a rischio riconferma. Contro la quale nessuno osa protestare a voce troppo alta. Tranne qualche mugugno: “E quando la faccio la campagna elettorale? La notte di Natale? ”. Per adesso, ci sono le regole base e le dichiarazioni d’intenti. Dovranno passare al vaglio della direzione, convocata lunedì sera. Di certo c’è l’elettorato attivo: i 3 milioni e 200mila che si sono registrati per il voto del 25 novembre, più gli iscritti al Pd. Più complicata la questione dell’elettorato passivo. A fare le liste per le primarie saranno gli organismi provinciali. Alcuni potranno candidarsi alle consultazioni raccogliendo le firme (non si sa ancora quante), una quota sarà decisa direttamente dal partito. Poi, c’è la cosiddetta “riserva nazionale”, ovvero una percentuale di candidati esenti da primarie, che sarà gestita e decisa da Bersani, insieme ai segretari regionali. “Noi abbiamo chiesto che tutti, proprio tutti, anche i dirigenti, debbano farle”, spiega Matteo Orfini, insieme a Stefano Fassina. “Non è stata una mozione accolta con grandissimo entusiasmo”. Quale sarà la percentuale degli esenti? E riguarderà - oltre ai tecnici e alla società civile - quanti dirigenti e funzionari di partito? Da qui a lunedì il tema nella discussione sarà centrale. Si discute poi su una doppia preferenza, una per un uomo e uno per una donna, o addirittura per una doppia lista di genere, per garantire il 50 e 50. Il gioco degli incastri tra vincitori, posti in lista per Camera e Senato non sarà facile. C’è poi la questione deroghe per chi ha più di 3 mandati, i famosi rottamati o rottamandi. Sarà sempre la direzione a doverle decidere. Chissà che non ci siano deroghe per misurarsi con le primarie. “Ti candidi? Sto facendo i conti”, lo scambo più gettonato ieri al Nazareno. Mentre il nervosismo aleggiava alla Camera, tra i deputati uscenti. Vedi Ermete Realacci: “Ho mantenuto rapporti con il territorio, ma certo il consigliere regionale che sta lì, ha maturato una rete più ampia... ”. La reazione più negativa di tutti quella di Roberto Reggi, numero 2 di Matteo Renzi nella corsa per le primarie. All’”Huffington Post”, criticando tutto l’impianto della consultazione (con “regole dettate dalla paura”), ha detto: “In mezzo alle feste di certo non si favorisce la partecipazione”. Titolone “Renzi dice no”. Poi arriva la linea ufficiale, espressa dal portavoce del sindaco di Firenze, Marco Agnoletti, con un Tweet: “La data non mi sembra felicissima, ma fare le primarie per i parlamentari è la scelta giusta. Forse persino inevitabile”. I renziani tutto sommato approvano. Con riserva. Aspettano le regole definitive. Tant’è vero che Renzi e Reggi ieri sera si sono incontrati. Chissà che il sindaco non sposi la linea dura. Spiega intanto Salvatore Vassallo: “A parte la data e la quota nazionale, mi sembra una cosa condivisibile”.
DAL PD dicono che non c’erano altre opzioni. Se si vota il 17 febbraio, le liste vanno presentate il 14, prima serve una direzione per ratificare i risultati. In teoria, le consultazioni vanno bene anche a Renzi, che può evitare di trattare per una quota di parlamentari, sfuggendo anche alle pressioni dei suoi. Ma probabilmente non andrà neanche alla direzione di lunedì: Bersani non l’ha chiamato, la macchina è in corsa, e stavolta non l’ha lanciata lui. “Mi continuano ad arrivare telefonate per sapere come ci organizziamo. La gente è entusiasta”, commenta Stefano Bonaccini, segretario regionale Emilia Romagna, tra quelli che ha più spinto per questa soluzione. “Vi stupiremo con effetti speciali”, aveva annunciato lo staff del segretario. Gli effetti ci sono, quanto speciali si vedrà.

l’Unità 13.12.12
Si vota il 17 febbraio. Firme dimezzate
di Marcella Ciarnelli


ROMA «La voce è giusta. La data su cui stiamo lavorando è proprio quella del 17 febbraio». Così il ministro dell'Interno, Anna Maria Cancellieri, facendo il punto sui giorni in cui gli italiani saranno chiamati alle urne per il rinnovo del Parlamento. L’alternativa del 24 e 25 febbraio sembra ormai accantonata anche se, ha spiegato il ministro «ovviamente la data definitiva dipenderà dallo scioglimento delle Camere e dai tempi che mettono in relazione i due eventi».
Nella data che ormai sembra definita si terrà il previsto election day. Saranno accorpati, quindi, al voto nazionale anche quello per il rinnovo dei consigli regionali della Lombardia e del Molise. Resta l’incognita Lazio che per ora rinnoverà il consiglio regionale il 3 e il 4 febbraio, come imposto da una sentenza del Tar, che aveva bocciato l’ipotesi Polverini che aveva fissato la consultazione per la settimana successiva. Il Codacons ha presentato un esposto al Tar perchè i cittadini del Lazio non siano chiamati al voto due volte in due settimane. Il Tar del Lazio ha fissato a martedì prossimo la decisione sul ricorso Codacons relativo all`election day, «accogliendo in pieno la richiesta da noi avanzata nel corso dell`audizione odierna» ha detto il presidente dell’associazione, Carlo Rienzi. «Noi saremmo felici di accorpare le date perché si risparmiano soldi e non si portano i cittadini al voto a distanza di pochi giorni, ma è il Tar che decide». Così il ministro dell'Interno Anna Maria Cancellieri che ha ricordato la necessità di rispettare le decisioni del Tribunale amministrativo «ma se dovesse cambiare idea noi saremmo ben felici».
LE POLEMICHE
C’è un altro problema. La raccolta delle firme per la presentazione delle liste da parte di chi non è esentato stando alle norme vigenti. Su questo Beppe Grillo, il cui movimento le firme dovrà presentarle, è già entrato in piena campagna elettorale cavalcando dal suo blog la difficoltà per la raccolta in così breve tempo. «Che con i tempi ristretti sia più difficile raccogliere le firme è un dato oggettivo, però è altrettanto vero che lo scioglimento anticipato delle Camere comporta il dimezzamento delle firme necessarie» ha puntualizzato il ministro dell'Interno Anna Maria Cancellieri non escludendo un ulteriore intervento del governo «ma è un argomento che non abbiamo ancora affrontato il che non esclude che possiamo fare un'ulteriore riflessione ancora».
Ma non finisce qui. «Se il Parlamento volesse fare prestissimo ci sarebbe il tempo» anche per il varo del decreto legislativo sull'incandidabilità. Lo ha confermato il ministro che ha ribadito come il varo della normativa sulle cosiddette “liste pulite”, sia «auspicabile». Tutto dipende dai tempi del Parlamento. Dando «in tempi velocissimi» il proprio parere al decreto consentirebbe l’entrata in vigore del provvedimento prima delle prossime elezioni. «Noi quello che dovevamo fare lo abbiamo fatto ha poi ribadito Cancellieri ricordando che «ora la responsabilità non è più nostra».

il Fatto 13.12.12
Addio sovranità nazionale. Tutta Europa impone il prof
La Germania non era così invadente alle elezioni greche
di Stefano Feltri


Era atteso che l'Europa fosse uno degli argomenti principali della campagna elettorale italiana, ma non che ne diventasse protagonista attiva, con un livello di ingerenza simile a quello che ci fu nella (doppia) elezione greca di primavera. Dalla Grecia di Antonin Samaras alla Francia all'Europarlamento, alla Germania, tutti sono schierati a fianco di Mario Monti e contro il ritorno di Silvio Berlusconi. La forza europea sta soverchiando il desiderio di rivincita berlusconiano. E il Cavaliere ieri sera ha cambiato linea ancora una volta annunciando che “se Monti si candida io mi ritiro”.
I PARTNER INTERNAZIONALI, più che lo spread, non sembrano lasciargli alternative. C'è Pierre Moscovici, il ministro delle Finanze francese candidato a guidare il coordinamento dei ministri dell'Economia, l'Eurogruppo, che annuncia: “Mario Monti ha fatto un lavoro formidabile, è ancora il presidente del Consiglio, si può avere fiducia nell'Italia”. Ma è la Germania quella che conta ovviamente. Dopo Angela Merkel e il suo ministro degli Esteri, Guido Westerwelle, ieri si è schierato con il professore anche il potentissimo ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble, principale controparte del professore in questi mesi di negoziati europei: “L'Italia ha fatto grandi progressi, che non abbiamo visto con il suo predecessore”. Parole pronunciate alla vigilia di un'importante riunione dell'Ecofin a Bruxelles, violando ogni abituale discrezione diplomatica. Anche Peer Steinbrück, il candidato della Spd contro la Merkel alle elezioni d'autunno che sostiene ufficialmente Pier Luigi Bersani, spera che gli italiani confermino con il voto la via della “stabilizzazione”. A Strasburgo succede qualcosa di incredibile per i sonnacchiosi standard della politica europea: nell'Europarlamento il leader dei Liberaldemocratici, l'ex premier belga, Guy Verhofstadt, chiede al capogruppo del Partito popolare europeo Joseph Daul di cacciare Silvio Berlusconi: “Espelliamolo una buona volta, mettiamo fine a questa situazione e potremo ritrovare la stabilità”. Daul non si spende molto a difendere il suo discusso iscritto, si limita a osservare che “non si possono saltare gli statuti di partito”. Come dire: se lo vogliamo cacciare, lo decidiamo noi.
Mario Monti osserva con cinese pazienza il cadavere del suo avversario arrivare sul fiume. Non deve neppure sforzarsi per contenere Berlusconi, ci pensano gli altri. Visto che oltre al contesto internazionale conta ovviamente quello interno, ieri il professore ha letto con un certo interesse l'intervista del Financial Times all'ultimo potere davvero forte d'Italia, il costruttore e finanziere romano Francesco Gaetano Caltagirone. L'editore del Messaggero definisce Monti una “figura eccezionale” e auspica il bis, passando però dal rigore a una politica espansiva che si concentri, guarda caso, sulle infrastrutture di cui il gruppo Caltagirone potrebbe occuparsi. Con lo spread che torna sotto controllo, a 330 punti, circa il livello precedente all'annuncio delle dimissioni, Monti può lavorare con calma al proprio futuro, che chiarirà subito dopo che l'esecutivo sarà formalmente sciolto. Intanto si limita a centellinare, ogni giorno, allusioni alla necessità di continuare il lavoro fatto, sempre rigorosamente nell'ellittico stile montiano. Tipo: “Serve maggiore prudenza nel dare giudizi sul fatto che le riforme attuate dal governo non hanno funzionato”. E ancora. “Interrompere un ari-forma prima abbia dato i propri frutti è peggio che non farla”. Il governo precedente, invece, aveva lasciato “moltissimo da fare”. Accenna al “filo rosso” che lega le riforme dei tecnici, poi si corregge con un po’ di spirito: “Meglio un filo incolore”.
IL ROSSO è l’unica sfumatura che manca al Monti bis in costruzione. Ieri si è aggiunto un po’ di nero, con il lungo colloquio tra il premier e Gianfranco Fini che è ancora presidente della Camera, ma sempre di più un leader senza un partito e che può rinascere solo in uno schieramento centrista molto montiano. C’è poi una forte sfumatura di azzurro, quello europeo, ovviamente (previsto per oggi un bilaterale col presidente della Commissione, José Barroso). Ma anche quello berlusconiano: con il Cavaliere fuori controllo cresce la tentazione per i moderati del Pdl di schierarsi con il professore.

il Fatto 13.12.12
New York Times e ambasciatore Usa benedicono Monti


L’EDITORIALE dell’autorevole quotidiano americano è comparso ieri mattina. Titolo: “Lo spudorato ritorno di Mr. Berlusconi”. Dice il New York Times che la ridiscesa in campo di Silvio Berlusconi “è una cattiva notizia per la politica italiana e per le riforme economiche”: “Nonostante possa sembrare uno scherzo di cattivo gusto, visti i suoi fallimenti sul fronte delle riforme e dell’economia e i suoi scandali sessuali, il ritorno di Berlusconi potrebbe fare molti seri danni”. Pare che negli Usa Mario Monti non sia dispiaciuto, visto che si sottolinea che “la ripresa dell’Italia dipende da una leadership sobria”. Conferma anche l’ambasciatore americano in Italia David Thorne: “Il premier Monti ha dimostrato grande leadership e coraggio”.
Oltreoceano sanno che il Cavaliere non ha più lo stesso seguito di un tempo, ma - si legge - “sebbene il partito di Berlusconi nei sondaggi arrivi solo al 18%, questo è sufficiente per dargli una grande influenza”. E l’Italia - conclude l’editoriale - “non può permettersi ancora anni di stallo politico e stagnazione economica per l’opportunismo spudorato di Berlusconi”.

il Fatto 13.12.12
De Magistris battezza il Movimento Arancione Idv incerta

Ingroia: “Io sono della partita”
di Caterina Perniconi


Laicità e giustizia. Se qualcuno avesse avuto dei dubbi sui pilastri che sorreggono il Movimento arancione e la sua nascita ufficiale, ieri al teatro Eliseo di Roma poteva facilmente chiarirsi le idee. La platea si è spellata le mani solo in un paio di occasioni: quando si è parlato di diritti civili e, soprattutto, a sostegno del lavoro dei magistrati di Palermo sulla trattativa tra lo Stato e la mafia.
La data scelta per presentare quello che ambisce a diventare il “quarto polo” è emblematica, non solo aritmeticamente: ieri, 12/12/12, ricorreva il 43° anniversario dalla strage di Piazza Fontana. E la kermesse si è aperta con la lettura dell’articolo “Io so” di Pier Paolo Pasolini, per ricordare che esiste chi conosce i nomi dei responsabili della strage del 12 dicembre 1969. “Nei primi 100 giorni di governo dobbiamo cancellare il segreto di Stato sulle stragi di mafia” ha gridato dal palco Luigi De Magistris, il padre di questo movimento che, come si evince dalle sue parole, punta al governo del Paese. Ma come arrivarci? L’unica strada è un’alleanza con il Partito democratico. Quella che in questo momento cercano tutti. L’Italia dei Valori in primis, che ieri ha ribadito durante l’ufficio di presidenza le priorità da seguire: in primo piano sempre la foto di Vasto, soltanto dopo un movimento più grande di aggregazione delle varie forze alternative, ma sempre con il loro simbolo ben in vista. “Una lista unitaria che si rivolga a Bersani per costringerlo a non sbracare verso quelli che si definiscono moderati e che non sono altro che inciucisti” dice Antonio Di Pietro, rinvigorito dalle alleanze con il centrosinistra sul territorio per le elezioni regionali (Lombardia, Friuli, Molise e Lazio). L’Idv vuole provare a tornare al governo anziché restare all’opposizione. Proprio come il nuovo Movimento Arancione.
DI CERTO CI SPERANO in molti. La platea di ieri era ricca di personaggi che guardano con attenzione alla forza potenziale di un’aggregazione spontanea della società civile: presenti il segretario di Rifondazione comunista Paolo Ferrero, quello del PdCi, Oliviero Diliberto, quello dei Verdi Angelo Bonelli e poi Vitto-rio Agnoletto, Giovanni Russo Spena, Giulia Rodano, Antonello Falomi, il sindaco di Palermo Leoluca Orlando e, naturalmente, Antonio Di Pietro. Che, per entrare in questa lista, dovrebbe fare diversi passi indietro. “Basta partiti personali dei Berlusconi, dei Di Pietro, dei Casini e dei Fini. Ci vogliono partiti fatti da persone, da storie che sono nei territori” ha chiarito subito De Magistris. Poi, dopo uno sguardo agli ascoltatori, ha rincarato: “Questo non è un luogo dove qualcuno viene a darsi una riverniciata. Non farò altro, ma questo non lo consentirò”. Sarà il padre nobile, quindi, il sindaco di Napoli, di un movimento che dà voce (anche dal palco) alle associazioni e agli amministratori. O almeno questo è quello che continua a ripetere: resterà primo cittadino per i prossimi tre anni.
Ma, a giudicare dalla reazione entusiaste dei partecipanti, un leader in pectore c’è già: “Chi vuole davvero cambiare le cose in questo Paese, deve avere il coraggio e la determinazione per fare una rivoluzione civile” ha detto Antonio Ingroia in collegamento via Skype dal Guatemala tra gli applausi, “dico la nostra rivoluzione civile perchè io sarò della partita. Sarò al vostro fianco, farò la mia parte”. Poi un chiarimento sulla giornata già vissuta in Italia e ancora agli albori in America centrale: “Ho sentito che sono stato attaccato da Dell'Utri, che ha il coraggio di dire che il suo impegno in politica non ha nulla a che fare con la mafia, ma si è dimenticato che c'è anche una condanna”. La platea era tutta in piedi, l’appuntamento arrivato alla conclusione, i leader dei partiti di sinistra si sono allontanati piano piano.

Repubblica 13.12.12
Su un sito l’analisi di un docente universitario: “Incantesimo totalitario”
Beppe tra isteria e narcisismo ora sulla Rete spopola la diagnosi dello psichiatra
di Filippo Ceccarelli


RESPIRO pesante e sciarpa al collo, chioma ribelle e sguardo di fuoco, Grillo si scagliava sui dissidenti evocando una guerra «all’ultimo sangue» e in nome di questa intimava loro di non «rompere le palle», perché lui si sta «arrabbiando sul serio», beh, anche rispetto agli elevati standard emotivi del leader M5S quel volto, quel tono, quelle parole e quei gesti restano impressi come un documento di esaltazione piuttosto particolare.
Sennonché proprio il giorno che precedeva lo sfogo di Grillo sulla rete, per l’esattezza sul sito «Doppiozero» (www.doppiozero. com), era comparsa una complessa e acuta psico-diagnosi intitolata: «Isteria e narcisismo a cinque stelle». E se pure il nome e soprattutto il cognome del suo autore potrebbero offrire diversi spunti al comico, che coltiva il vezzo un po’ selvaggio di storcerli e ridicolizzarli, è certo che dell’isteria il professor Pietro Barbetta, università di Bergamo, per titoli e pubblicazioni si può decisamente ritenere uno specialista.
Per farla breve e molto più semplice di come è svolto il suo ragionamento, lo psichiatra interpreta certi aspetti della leadership e della vita interna del M5S alla luce e alla stregua di un «incantesimo totalitario» indotto da una reattività sopra le righe che Grillo propaga mosso dalla coscienza o meglio, forse, dalla maschera della propria sana, integra e incorruttibile purezza. Senza il mio consenso, in altre parole, non solo ci si salva, ma ci si perde.
Questo farebbe di lui un tiranno: «figura classica di una forma di narcisismo». Un tiranno narcisista e carismatico che come tale per natura, vocazione e statuto non ha rispetto per le norme e le istituzioni e che della democrazia coltiva e applica, come del resto un po’ si è capito proprio da quel video, una concezione molto, ma molto personale. Di recente, al grado zero della politica, Federica Salsi ha detto che Grillo «è cattivo». Ma forse la questione è più complicata della cattiveria. Così come sarebbe semplicistico definirlo uno spostato perché richiama nei suoi comizi la Bastiglia, Stalingrado e Norimberga; perché attraversa a nuoto lo stretto di Messina o fa il discorso della Montagna sull’Etna.
Già più interessante sarebbe concentrarsi su una frase che gli è uscita durante la campagna siciliana: «Signori — ha detto — ho perso la mia identità. Non so più se sono un comico, un capopopolo o Gesù». Ma Grillo, si sa, parla, parla, parla e come pochi altri sa come conquistare l’attenzione. Quanto a Gesù, che peraltro fu il suo primo personaggio cinematografico («Cercasi Gesù», 1982), altri politici, prima di tutti il Cavaliere, hanno fatto uso di un linguaggio «cristico», come lo definiscono gli studiosi, a base amari calici, apostoli, miracoli, croci e via mischiando sacro e profano.
Barbetta non fa esempi, né tantomeno rileva che tipi del genere, leader narcisi e aspiranti carismatici, nella Seconda Repubblica ce ne sono stati a iosa, da Berlusconi a Bossi, da Di Pietro allo stesso Mastella, a parte l’insostituibilità di Casini e le oligarchie del Pd — con il bel risultato che la democrazia, quella vera, non è che goda di buona salute, né dispone di affidabili difensori.
Però nel caso di Grillo, che è anche un attore — anche se forse non esattamente il genere di attore che voleva diventare — sostiene il professor Barbetta su Doppiozero che «il gran potere del narcisista consiste nell’ipnotizzare le masse. La macchina narcisista crea un campo magnetico che lascia un segno nella mente di chi ascolta» e «produce una suggestione onirica nello stato di veglia, una dissociazione che si protrae nel tempo». Ancora: questa corda di isteria a tratti simulata e comunque autocompiaciuta «suscita la risata del pubblico assoggettato, attraverso la battuta, attraverso la barzelletta. Tutti ridono, cinicamente», ma «se reiterata, l’induzione può diventare permanente».
Non tutti i lettori, com’è giusto e ovvio, si sono detti d’accordo con questa analisi psichica e di marketing, in fondo. Ma la politica, orfana di ideologie e così legata agli individua, sembra quasi richiedere contributi che un tempo sarebbe stato molto più facile respingere. Nel frattempo, caso abbastanza inedito, l’attore s’è fatto leader e ora la sua recitazione combacia esattamente con la sua azione. Solo che Grillo non calca più il palcoscenico di questa o quella piazza, è l’Italia intera che s’è fatta teatro — e vai a sapere a che punto cala il sipario e chi uscirà per prendersi gli applausi.

La Stampa 13.12.12
Il vero obiettivo del Cavaliere
La coalizione impossibile del Cavaliere “Da Casini alla Lega contro la sinistra”
Berlusconi disposto a trattare sulle alleanze, ma con un punto fermo: vuole comandare lui
di Marcello Sorgi


Alla fine di una giornata in cui frotte di Amazzoni si rincorrevano allarmate preannunciando un passo indietro del leader, e dopo una lunga intervista collettiva in occasione della presentazione dell’ultimo libro di Bruno Vespa, Silvio Berlusconi ha confermato quel che ormai tutti avevano capito: non sarà candidato a Palazzo Chigi per la sesta volta.
O meglio, lo sarà ancora per qualche giorno, in attesa di lasciare il posto a Monti, se lo vorrà, ad Alfano, se potrà, o a un candidato della società civile, un imprenditore di successo da trovare e di cui si continua a parlare, o Montezemolo, che si dovrebbe riavvicinare.
La complicata strategia del Cavaliere ha un solo obiettivo, rimettere insieme il centrodestra da Casini a Maroni, ancora maggioritario nel Paese, e un’infinità di varianti. La migliore sarebbe che Monti rompesse gli indugi e si candidasse, impegnandosi per federare i moderati, schierandosi contro Bersani e il centrosinistra, e preparandosi a succedere a se stesso, ma non più alla guida di una larga coalizione come quella che ha sostenuto il governo dei tecnici. La subordinata è un accordo tra Pdl e Lega, o tra la Lega e le rinate Forza Italia e An, ribattezzata Centrodestra nazionale, per salvare il Nord e prendere più senatori possibile con l’aiuto dei premi elettorali regionali. Non è facile, ma Maroni nell’incontro di martedì sera ha lasciato capire che si potrebbe fare se Alfano, e non più Berlusconi, fosse il candidato alla presidenza del Consiglio. L’alternativa a tutto ciò è la solitudine e la sconfitta: non è da escludere, data la confusione che regna nel centrodestra. Ma Berlusconi non vuol metterla in conto e si dice sicuro che tutto si risolverà.
La sua uscita pubblica di ieri sera ha avuto il merito di portare allo scoperto quel che da giorni si intuiva o veniva sussurrato nei corridoi di Montecitorio. Il Pdl percorso da divisioni insanabili è stato messo sotto pressione e portato fino alle soglie dell’implosione dal ritorno in campo del Fondatore. Ma nei pochi giorni in cui ha ripreso pienamente la guida del partito, il Cavaliere ha dovuto constatare che la situazione era abbastanza diversa da quella che le Amazzoni, incitandolo a ricandidarsi, gli avevano prospettato. Le possibilità di ricomporre tutto il centrodestra e riportarlo alla vittoria sotto la sua guida sono molto poche. Ogni ipotesi di leadership divide e allontana un pezzo o l’altro dalla coalizione. A cominciare, ovviamente, da quella di Berlusconi, che non trova d’accordo neppure tutto il Pdl. Se il candidato è Monti, certo, ci sono più possibilità di recuperare Casini e i centristi, ma la Lega non ci sta. Ed è tutto da vedere che il presidente del Consiglio, appena scaricato dal Pdl, offra la sua disponibilità. Se invece si vuol ricostruire l’Asse del Nord con il Carroccio, la tassa da pagare è la presidenza della Regione Lombardia per Maroni e l’abdicazione in favore di Alfano per la candidatura a Palazzo Chigi. Ma i centristi, a quel punto, si tirerebbero indietro: si potrebbe tentare di riagganciarli con Montezemolo, incrociando le dita e sperando che alla fine Casini acconsenta. Ma anche in questo caso, la Lega non è detto che accetti.
L’unico dato certo, in conclusione, è che Berlusconi è tornato in campo. A richiamarlo alla lotta, scuotendolo dall’abulia in cui era precipitato nell’ultimo anno, sono state le sentenze dei magistrati, che continua a definire «un cancro», e lo sprone delle Amazzoni, schierate in doppia fila davanti a lui, a spellarsi le mani di applausi per il suo rientro in scena. Berlusconi darebbe qualsiasi cosa, pur di rivedere unito il centrodestra e battere Bersani e il centrosinistra. Ma se non ci riuscirà, è evidente cosa ha in testa e quale sarà l’obiettivo checondizionerà le sue prossime mosse. Essere o non essere candidato a Palazzo Chigi, guidare o no la coalizioneo il partito, alla fine sono tutte possibilità che è disposto a mettere sul piatto dell’accordo. Su una sola cosa, però, non vuol trattare: quale che sarà la soluzione finale dell’ingarbugliata vicenda del centrodestra, a comandare vuol essere sempre lui.

Corriere 13.12.12
I timori del leader pdl e la ricerca della via d'uscita
«Passare la mano senza rischiare di uscire di scena dopo una sconfitta bruciante».
di Massimo Franco


Berlusconi è quasi sicuro di perdere e il fuoco di sbarramento ricevuto in Italia e in Europa mette in conflitto la voglia di combattere con la prospettiva di un disastro elettorale.

«Sto cercando una buona ragione per non candidarmi. Anche perché così potrei passare la mano senza essere stato battuto, senza correre il rischio di uscire di scena dopo una sconfitta bruciante. Guardi Nicholas Sarkozy com'è finito...». Per quasi un'ora e mezzo, Silvio Berlusconi ha avvolto in una nuvola di fumo verbale la propria ricandidatura a Palazzo Chigi, davanti alla platea del residence romano dove presentava l'ultimo libro di Bruno Vespa. Ma adesso, mentre esce da un ingresso secondario circondato dalle guardie del corpo, ammette il suo cruccio più inconfessabile: è quasi sicuro di perdere, e il fuoco di sbarramento che ha ricevuto in Italia e soprattutto in Europa mette in conflitto la sua voglia di combattere con l'alone pesante di un disastro elettorale.
Oggi, quando si troverà di fronte i vertici del Partito popolare europeo a Bruxelles, Berlusconi sa che avrà davanti non più una nomenklatura attenta a tollerare e inglobare l'azionista di maggioranza dei voti moderati in Italia. Dovrà rintuzzare le critiche di fratelli-coltelli decisi a chiedergli conto degli attacchi alla moneta unica e al governo tecnico di Mario Monti; contrari al suo azzardo di tentare per la sesta volta la scalata a Palazzo Chigi in condizioni proibitive; e spaventati dalla prospettiva di avere al proprio interno un ex premier che insegue un populismo guardato come il vero nemico dei governi di centrodestra. L'uscita di Berlusconi sullo spread bollato come «imbroglio», giudizio confermato anche ieri, e le trattative per allearsi con la Lega, sono macigni.
In un'atmosfera un po' surreale, ieri i suoi tifosi che gremivano le prime file lo hanno applaudito ad ogni attacco all'Ue, ai magistrati, all'euro, ai «tecnici». Ma poi si guardavano un po' smarriti quando quello che ritenevano il loro Cavaliere al galoppo verso Palazzo Chigi schivava le domande sulla ricandidatura. Le aggirava. Spiegava che avrebbe visto benissimo Monti come premier di uno schieramento dei moderati. Rivelava che le trattative con la Lega di Roberto Maroni avevano come punto fermo la sua rinuncia a candidarsi alla presidenza del Consiglio. Minacciava la caduta delle giunte Pdl-Lega in Veneto e Piemonte se non si raggiunge l'intesa a livello nazionale. Ma soprattutto offriva un'immagine di grande confusione: come se non sapesse bene dove andare e con chi, collezionando finora porte chiuse e condizioni-capestro.
È la confusione di chi sta cercando una via d'uscita ad una situazione nella quale si è infilato senza forse calcolarne tutte le conseguenze. E che mantiene comunque lucidità sufficiente per capire la crisi della sua leadership e del suo partito; e si rende conto che a oggi la prospettiva è la sconfitta. Dunque, meglio buttare lì altre candidature, sebbene la sua formalmente non sia stata ancora ritirata. Per questo Berlusconi, a sorpresa, ha rilanciato l'ipotesi che per Palazzo Chigi possa correre Angelino Alfano, il bistrattato segretario del Pdl: potrebbe essere lui il compromesso per siglare un patto col Carroccio. «Angelino è in pole position», è il favorito, ha dichiarato, annunciando che nelle liste non ci sarà più Marcello Dell'Utri: un perseguitato dalla magistratura, a sentire Berlusconi. Ma ormai impresentabile, e reduce da uno scontro rude proprio con Alfano, che sembrava volerne la testa.
L'ambizione berlusconiana deve dunque ridimensionarsi per i veti piovuti su di lui dei potenziali alleati, e per il rischio di una diaspora del Pdl. Quell'acronimo non gli piace, ma non lo abbandonerà: si limiterà ad affiancargli la sigla storica di Forza Italia. Non c'è tempo per cambiarlo. E poi, ma questo non l'ha detto, c'è il rischio che un nuovo partito debba ripercorrere le procedure per essere accettato dal Ppe; e magari, con l'aria che tira, non venga accettato. Dunque non esclude di agire da «federatore» di un grande schieramento moderato. Oppure da «leader della coalizione», variante lessicale ma comunque inequivocabile nell'escluderlo dal ruolo di candidato premier. «È una questione complicata», ammette Berlusconi. Ormai deve tenere conto di molte, troppe cose.
Ma il Cavaliere ha lasciato capire di coltivare un vero sogno proibito: consegnare a Monti candidato di uno schieramento di centrodestra ciò che resta dei suoi consensi elettorali per battere di nuovo, da spettatore-regista, la sinistra. Non sarà facile, però. L'offerta di un'alleanza arriva dopo che il Pdl ha provocato di fatto la caduta del governo dei tecnici; e dopo avere attaccato e demolito senza remore la sua politica economica, pur di giustificare il proprio «ritorno in campo» e far dimenticare i magrissimi risultati dell'ultimo esecutivo a guida berlusconiana, costretto alle dimissioni tredici mesi fa. Per paradosso, il vero pericolo che l'ex premier corre nei prossimi giorni è quello di essere costretto a rimanere candidato a Palazzo Chigi. Non sospinto da un entusiasmo crescente, ma circondato invece dal deserto delle alleanze e additato dalla «sua» Europa, quella del Ppe, come un corpo estraneo. Probabilmente lo ha capito. Il difficile, per Berlusconi, viene adesso: dovrà uscire dalla trappola che si è costruito da solo, cercando di riemergere il meno malconcio possibile.

Repubblica 13.12.12
Il Cavaliere della confusione
anche le sue “amazzoni” non riescono più a esultare
Dalla Biancofiore alla Mussolini, tutte deluse
di Concita De Gregorio


LE AMAZZONI, desolate, ammutoliscono. Si erano disposte in falange compatta, in trenta nelle prime cinque file alla destra del capo, ben visibili da Lui. UNA distesa di chiome bionde ad ogni gradazione di ossigeno, dal platino al miele, impegnate nella lunga attesa della Sua apparizione a carezzarsi vicendevolmente i capelli freschi di piastra, pronte a scattare in piedi nel “bravo” all’unisono alla notizia, imminente, della Sua e della loro ricandidatura. A un passo dal revival di giubilo, eccoci tutte qui come ai vecchi tempi, e invece guarda che scherzo. L’evviva si spegne in gola, alle confuse parole del Capo: potrei anche, se Monti, allora io, regista del rassemblement, tornare a dirigere, non penso che lo farà ma se lo facesse, non gli conviene certo ma semmai, nessuna obiezione a ritirare, candidatura a premier, potrei tornare a, passo indietro, in fondo ho avuto, De Gasperi peggio di me. Come? Che ha detto? Si incrociano gli sguardi nervosi di Micaela Biancofiore e Laura Ravetto, si sgranano interrogativi gli occhi di Alessandra Mussolini e di Stefania Prestigiacomo. C’è anche Rosi Mauro, in piedi da una parte, lei nera di chioma d’abito e d’umore. Nel senso che se si candida Monti si ritira? Ma non si sono insultati fino a stamattina? Cioè come: Monti dovrebbe fare il candidato premier di una coalizione guidata da Silvio? E noi? E poi Monti non lo farà mai… Serpeggiano fra le prime file domande non avvezze all’evidenza, sussurrate appena mentre Lui continua, fluviale. A professarsi europeista mentre denigra Von Rompuy («uno sconosciuto, uno che non c’entra niente con la storia d’Europa, un fantoccio voluto da Merkel e Sarkozy»), a minacciare la Lega di far cadere le giunte del Nord mentre ne afferma sicuro la lealtà nell’alleanza, a ritirare in ballo l’appena licenziato Alfano e liquidare come incandidabile il fidatissimo sodale della primigenia Sicilia, Marcello Dell’Utri, in un’olimpiade della contraddizione con se stesso, un campionato mondiale del non senso. Poi, dopo quasi venti minuti di monologo, smentisce Vespa. Il “caro Bruno” appena blandito come il migliore della specie. No, quel colloquio con Tremonti che riporta nel suo libro non è mai avvenuto. Vespa, seduto accanto a lui, imperturbabile conferma. È il sigillo dell’epilogo. La pietra tombale sulla festa che non c’è né mai più potrà esserci com’è stata ai tempi belli. Vespa, il caro Bruno, conferma: è Silvio che mente. Oppure, mitiga subito con atavico riflesso di prudenza, «non ricorda bene». Ecco, è andata così. Il giorno della presentazione del ventiquattresimo libro di Vespa che doveva segnare la sesta candidatura di Silvio Berlusconi passerà alla storia come uno scampolo di Novecento finito nel Duemila, tutti i protagonisti e le comparse vestiti e truccati come in un film di fantascienza anni Settanta. Tra il pubblico anziani calvi con un residuo di caschetto bianco sulle spalle, vecchie fulve, giovani in pantacollant di similpelle. Il Candidato-che-ogginon-lo-è parla dal palco con voce meccanica e confusa, ha ormai gli occhi a mandorla, lievemente asimmetrici. Attacca la magistratura rossa, il Capo dello Stato che «riposa il lunedì dalle fatiche del week end», la Corte costituzionale ed altre architravi dell’assetto democratico senza mai arrivare ad affondare il colpo. La claque aspetta per due ore il momento che non arriva mai. L’idea che l’odiato Monti, appena sfiduciato e dal Pdl indotto a dimettersi, possa diventare il leader di loro stessi non riesce a penetrare la capacità di comprensione delle amazzoni e lascia perplesso persino Vespa, che qualcosina obietta. L’unica cosa che risulta evidente, nello tsunami frusto di abusata retorica, è che Silvio Berlusconi ha una serissima difficoltà nella sua stessa coalizione di eventuale governo, che non sa su quali e quanti alleati può davvero contare, che i sondaggi non rispondono ai comandi. In sala lo capiscono tutti. Lasciare il cerino a Monti è una trovata mal riuscita, non fa breccia oltre la seconda fila. Forse era il giorno sbagliato, oggi, per presentare il libro. Aveva già rinviato e forse doveva rimandare ancora ma la casa editrice di sua proprietà avrà fatto pressione usando su di lui l’argomento principe: presidente, anche se non sa cosa dire dica qualcosa, lei è Maestro. Siamo a dodici giorni da Natale, sennò il libro non si vende. Ci stupisca come ha sempre fatto, vedrà che Le riesce.

Repubblica 13.12.12
L’occasione dell’Italia
di Thomas Schmid

direttore di “Die Welt”

RIECCOLO, Berlusconi. Ma quel sabato, quando ha annunciato la sua intenzione di ripresentarsi, a mio parere non è stata una brutta, ma una bella giornata. Permettetemi di spiegare il perché.
Da quando il Cavaliere ha scelto di ridiscendere in campo, uno spettro si aggira di nuovo per l’Europa. Molti pensano che se le sue indiscutibili doti di potenza e genialità nel condurre campagne elettorali dovessero riportarlo al governo, l’Italia e l’Europa intera rischierebbero la catastrofe. Perché, a differenza della più piccola Grecia, l’Italia, membro fondatore dell’Ue, è uno dei suoi Stati più importanti.
Effettivamente, se questo Paese dovesse ricadere in una condizione instabile, perdendo il capitale di affidabilità conquistato dal governo Monti, sarebbe un duro colpo per l’Unione europea. È noto che da qualche tempo la Commissione dell’Ue e il governo tedesco si preoccupano del futuro dell’Italia; a Bruxelles come a Berlino, molti si sono già chiesti – seppure in via ufficiosa e dietro le quinte – cosa accadrà dopo la fine del “governo tecnico”. Senza dubbio per Angela Merkel il ritorno dell’irresponsabile illusionista di Arcore sarebbe un vero incubo. D’altra parte, la cancelliera tedesca non è l’unica in Europa a vedere con qualche perplessità la prospettiva di un governo a guida Pd. È già accaduto infatti che governi di centrosinistra abbiano fallito a causa della loro dipendenza dall’appoggio di partiti della sinistra radicale e di gruppuscoli dalle mosse imprevedibili. A fronte di queste due alternative, molti in Europa ritengono che la soluzione migliore sarebbe una prosecuzione dell’esperienza del governo tecnico. Una cosa è comunque certa: Mario Monti sa bene qual è la posta in gioco. Ha sempre dato prova di rigore e di grande attenzione per l’economia, i mercati e la reputazione dell'Italia. E si rende conto che per il suo Paese esistono solo due alternative: compiere i grandi sforzi necessari per tornare ad essere un membro e pieno titolo, e uno dei motori dell’Ue, oppure rinunciare – probabilmente per sempre – al proprio rango nella compagine europea.
Detto questo, non credo che chi ha paura di Berlusconi sia ben consigliato. Le sue dimissioni, 13 mesi fa, non furono il risultato di un’azione della classe politica, e neppure della società civile italiana. Fu l’Unione europea a imporre le dimissioni di un uomo che era diventato qualcosa come un fuoco fatuo nella politica europea. Certo, una mortificazione per quei milioni di italiani che da molti anni manifestavano il loro dissenso nei confronti dello stile e dei metodi del Cavaliere. Se però oggi Berlusconi si ripresenta, gli elettori italiani hanno la possibilità di liberarsi di lui in via ufficiale, in un confronto diretto, una volta per tutte. Allora non potrebbe più filarsela da un’uscita sul retro del palazzo, come ha fatto tredici mesi fa, ma sarebbe semplicemente messo alla porta. Certo, è un azzardo. Ma lo ritengo necessario, in nome della dignità e dell’amor proprio degli italiani. Dal 1994 ad oggi, lo spirito berlusconiano ha pervaso la politica italiana. Ora è venuto il momento di porre fine in maniera corretta alle anomalie e all’imbarbarimento di questi due decenni.
Berlusconi ha fallito perché si è dimostrato incapace di fare esattamente ciò che con più insistenza aveva promesso. Non ha liberalizzato né svecchiato l’Italia, ma ha contrapposto alla vecchia partitocrazia una forma nuova e bizzarra di dominio, una sorta di autocrazia da fiction. Anziché modernizzare il Paese, ha portato avanti la battaglia obsoleta del suo ottuso anticomunismo. Eppure, all’inizio era partito da considerazioni del tutto condivisibili. Quello che mancava in Italia era una rivoluzione, o quanto meno un’apertura liberale. Berlusconi affermava di voler aprire nuovi spazi in questo senso, ma presto si è visto che il suo era puro e semplice illusionismo propagandistico. Il suo è un liberismo egoista, basato sul disprezzo dello Stato, che rivela in definitiva la sua natura nichilista, di negazione dei valori. E che ha lasciato il segno, come mi hanno sempre confermato gli italiani con cui ho avuto occasione di parlare: questo Paese si è abituato a toni sempre più rozzi, aggressivi e volgari.
I commenti a Nord dell’Italia, per quanto espressi a mezza voce, sono chiaramente udibili. Molti guardano al Pd con qualche perplessità. È l’effetto dell’antico scetticismo (peraltro non ingiustificato) verso la tradizione dell’ex Pci: il timore che qualcosa del suo avanguardismo e della sua megalomania tatticista sia tuttora presente. Sono preoccupazioni che in parte condivido; ma le critiche in questo senso mi sembrano eccessive e ingiustificate. Innanzitutto perché la recente esperienza delle primarie, con la straordinaria partecipazione di milioni di italiani, è stata un’occasione di dibattito e mobilitazione politica su cui pochi avrebbero scommesso, in questi tempi di opacità e rassegnazione. In secondo luogo, perché il vincitore di queste primarie, un uomo di sinistra come Bersani, si è dimostrato in grado di portare avanti anche riforme decisamente scomode. E in terzo luogo, perché il successo di Matteo Renzi ha conferito autorevolezza a un esponente del Pd che si è lasciato alle spalle ogni traccia di sentimentalismo o di folclore di sinistra. Ho l’impressione che il Pd sia sulla buona strada per diventare un partito saggiamente riformista. Un partito in cui un D’Alema giovane, malgrado le sue indubbie competenze, non troverebbe alcuno spazio. Certo, al tempo della crisi dell’Ue il nuovo premier si troverà ad affrontare responsabilità enormi; ma non vedo alcun motivo per temere che un governo guidato da Bersani si comporti in modo avventuroso. È accaduto altre volte che nei momenti cruciali, la sinistra si sia dimostrata pronta, nell’interesse comune, a portare avanti le più drastiche riforme. Lo dimostra l’esempio dell’Agenda 110 di Gerhard Schröder, senza la quale oggi la Germania sarebbe sicuramente in condizioni assai peggiori.
Già da tempo si ha sentore di diversi tentativi in direzione di una nuova legislatura con Mario Monti presidente del consiglio. È comprensibile. Ma sarebbe un bene per l’Italia? Monti e il suo governo non sono stati eletti. Una grande coalizione apolitica come quella che l’ha appoggiato potrebbe rivelarsi necessaria in caso d’emergenza, come lo è stata dopo che Berlusconi ha messo a rischio il suo Paese nel contesto politico europeo; ma a condizione di tornare il più presto possibile a un governo regolarmente eletto. E non solo perché il tecnico Monti ha rivelato di avere anche i suoi lati deboli, ma soprattutto perché in questi tempi difficili un governo deve essere legittimato dalla sovranità popolare. A mio parere, nulla vieta a Monti di candidarsi, non più in veste di tecnico, ma stavolta come politico. Mi sembrano però poco convincenti i tentativi di architettare una coalizione qualsiasi, per poi mettere avanti Mario Monti come galeone. Se è vero che la democrazia si affida a un’élite, quest’ultima deve però avere l’espresso consenso dei più. A questo non si può rinunciare, soprattutto in tempi difficili, quando la posta in gioco è alta.
Non c’è dunque da aver paura di Berlusconi. Anche perché i cittadini italiani potrebbero dimostrarsi assai più refrattari alle sue bordate antieuropee e al suo volgare populismo di quanto credano il cavaliere e i suoi media.
(Traduzione di Elisabetta Horvat) L’autore è direttore di “Die Welt”

l’Unità 13.12.12
Ricorso alla Consulta sui divieti della legge 40
Il tribunale di Firenze: non si può impedire di ritirare il consenso informato, come prescrive l’articolo 6
«Irrazionale proibire la ricerca su embrioni abbandonati, destinati alla distruzione»
di Jolanda Bufalini


ROMA Una coppia affetta da patologia genetica si affida alla fecondazione assistita ma scopre, con la diagnosi preimpianto, che gli embrioni non sono idonei, sono malati o non testabili. Chiede di interrompere il processo, rifiuta il trasferimento nell’utero degli embrioni, chiede di destinarli alla Ricerca. È questa la vicenda all’origine della decisione della procura di Firenze di rivolgersi alla Corte costituzionale, perché le scelte compiute dalla coppia si infrangono contro la rigidità della legge 40, che vieta la revoca del consenso informato . Secondo la legge a quel punto il trasferimento in utero dell’embrione è automatico. E vieta la ricerca scientifica sugli embrioni in soprannumero, sebbene questi vadano incontro a deterioramento e distruzione. Ma la Costituzione negli articoli 2,3 e 32 garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali c’è prima di tutto la libertà personale, il diritto alla salute e alla libertà di cura: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario».
L'avvocato Gianni Baldini, legale della coppia fiorentina, ha spiegato che la questione di costituzionalità sollevata riguarda l'articolo 13, sul divieto di ricerca scientifica sull'embrione finalizzata alla tutela della salute individuale e collettiva, e l'articolo 6 sulla irrevocabilità del consenso del paziente dopo la fecondazione dell'ovocita. Secondo il legale, il tribunale di Firenze ritiene fondata la questione di legittimità costituzionale perchè «è irrazionale, illogico e irragionevole prevedere l'irrevocabilità del consenso». E, aggiunge l’avvocato Baldini: «se rientra nella discrezionalità legislativa prevedere la prevalenza del diritto alla vita e allo sviluppo dell'embrione nell' ipotesi di creazione di embrioni da destinare esclusivamente alla ricerca, in maniera del tutto diversa si pone la questione ove gli embrioni siano quelli abbandonati e destinati all'autodistruzione certa per estinzione nel volgere di qualche anno».
Ricorso «prevedibile», secondo la parlamentare Pd Vittoria Franco perché «scopo reale della legge 40 non è aiutare le coppie con problemi di infertilità o di sterilità ad avere figli, ma fare un manifesto ideologico nella pratica insostenibile e dannoso». Gioisce della notizia del ricorso alla Consulta l’associazione Luca Coscioni: «Fin dal primo momento abbiamo denunciato l'assurdità di una legge che consente la libertà di ricerca su embrioni provenienti dall'estero». Per Eugenia Roccella (Pdl) la magistratura «scavalca legislatore e referendum».
Dal presidente della commissione sugli errori sanitari, Palagiano, l’appello per inserire la procreazione assistita nel Lea (livelli essenziali di assistenza), in modo da imporre alle regioni l’esistenza di strutture adatte ed evitare la migrazione forzata.

I NUMERI
12.300 euro è il costo medio della procreazione assistita, dall’inizio alla nascita del bambino, con un valore minimo di 6.900 euro in Emilia Romagna e un valore massimo di 15.600 euro in Lombardia, secondo un'indagine della Commissione parlamentare d'inchiesta sugli errori e i disavanzi sanitari.
50.900 le donne che in Italia si sono sottoposte al Pma dal 1 gennaio 2011 al 30 giugno 2012.
13.578 coppie hanno dovuto migrare in altre regioni, il 48% ha scelto il Nord-ovest. Le coppie del Sud e delle isole penalizzate.
36,3 anni l'età media nel 2010, mentre ben il 29,2% dei «cicli a fresco», che non utilizzano gameti o embroni crioconservati è effettuato da pazienti con età superiore ai 40 anni

il Fatto 13.12.12
Scuola. Troppi precari, la Ue apre l’infrazione


La Commissione europea ha aperto una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia per la violazione della normativa sulla reiterazione dei contratti a tempo determinato. Lo rende noto l’Anief aggiungendo che l'iniziativa interessa soprattutto la scuola dove “diverse decine di migliaia di docenti, amministrativi, tecnici e ausiliari vengono per cattiva prassi assunti a inizio anno scolastico e licenziati in estate in corrispondenza del termine delle lezioni”. “La decisione della Commissione Ue di chiedere spiegazioni formali sulla mancata applicazione della direttiva comunitaria 1999/70, che obbliga i datori di lavoro, in questo caso lo Stato, ad assumere a titolo definitivo il personale che ha svolto almeno 36 mesi di servizio, anche se frazionato, negli ultimi 5 anni, è giunta - fa notare l’associazione - dopo le denunce presentate dall’Anief”. Per l’Anief, l’apertura della procedura d’infrazione “dimostra che se l’Italia vuole stare in Europa deve rispettare le procedure che Bruxelles impone sul diritto del lavoro e sulle assunzioni”.

La Stampa 13.12.12
Aumentano i suicidi tra le migliaia di persone senza salario e senza lavoro
Lo psichiatra: “Crescono il disagio e la depressione e ci si vergogna della propria fragilità”

di Antonella Mariotti

«Le persone stanno male, sempre di più, si registra oltre il dieci per cento in più di disagio psicologico con la crisi. Ma quando si sta male non si riesce a chiedere aiuto, proprio nel momento in cui più se ne ha bisogno». Vincenzo Villari è responsabile di Psichiatria II dell’azienda ospedaliera Città della Salute.
I familiari possono accorgersi di questo dolore? Come si possono aiutare queste persone?
«Chi sta così male spesso non riesce a pensare che ci sia una via d’uscita. Non si rendono conto che possono chiedere aiuto, credono di non avere alternative. E a volte hanno timore di chiedere aiuto, di mostrare la loro fragilità, si vergognano».
Forse è proprio la fragilità la causa del precipitare di certe situazioni?
«C’è una concomitanza di fattori: la fragilità e gli eventi sfavorevoli, il lavoro in questo senso ha un grande rilevo, un grande impatto sulla fragilità individuale».
Quindi non solo una causa, che però può essere scatenante?
«Le nostre manifestazioni nel bene e nel male sono frutto di interazioni tra caratteristiche individuali e l’ambiente, circostanze sfavorevoli aggravano il disagio. Ma c’è chi affronta situazioni terribili senza suicidarsi, mentre altri soccombono. Si devono però evitare semplificazioni».
Cioè non basta perdere il lavoro?
«Ci sono momenti in cui siamo più solidi e altri più fragili, per motivi di ogni genere, una concomitanza di malattia fisica, lo stress ambientale aumentano il rischio e la resistenza diminuisce».
Come si possono aiutare le persone in difficoltà?
«Si devono aiutare a rendersi conto del loro bisogno di aiuto, aiutarli a capire che le fasi critiche si possono superare. Il suicida non vede il futuro. Questi pazienti spesso ci dicono: “Tanto voi cosa potete fare? ”».
Ecco cosa può fare lo psichiatra in questi casi?
«Nessuno può fare miracoli, il rischio di suicidio non si può azzerare ma si può combattere su alcuni fattori modificabili, per esempio la depressione. Ma ci sono fattori di rischio non modificabili sono quelli sociali e biologici. Ma serve anche maggiore sensibilità».
Cioè?
«I familiari devono avere una sensibilità straordinaria per questo tipo di problemi, sensibilità che c’è verso le disabilità e verso i malati di tumore o di malattie genetiche o c a rd i o p at i c h e, ma manca verso la malattia mentale. C’è un atteggiamento strano verso la malattia mentale, fa paura e persiste un pregiudizio che sia malattia della volontà: come se chi sta male non ce la mettesse tutta per guarire. E invece è una difficoltà patologica. E ci sono sempre meno risorse per intervenire, proprio adesso che c’è più necessità»

Corriere 13.12.12
Fini: «Il socialismo fa parte della biografia del Paese»


«È una storia, quella socialista, che è parte rilevante della biografia collettiva degli italiani». Lo ha sottolineato ieri il presidente della Camera, Gianfranco Fini, aprendo a Montecitorio il Convegno dedicato ai 120 anni della storia socialista in Italia, alla presenza del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Oltre ai relatori Gennaro Acquaviva, Piero Craveri e Massimo Salvadori, è intervenuto anche l'ex presidente della Camera, Fausto Bertinotti. Il concetto di «uguaglianza — si è chiesto Bertinotti — che ci viene lasciato in eredità dal socialismo non è forse la più grande sfida delle nostre società occidentali?».

l’Unità 13.12.12
«Sono felice di essere qui»: il Papa sbarca su Twitter
Oltre un milione per i tweet del Papa
Di augurio il primo messaggio di Papa Benedetto dopo l’udienza generale di ieri
Domande e risposte sulla fede nella vita quotidiana
Ricevute anche invettive e critiche
di Roberto Monteforte


CITTÀ DEL VATICANO È stato con un augurio e un ringraziamento che Papa Benedetto XVI ha iniziato il suo viaggio su Twitter. «Cari amici, è con gioia che mi unisco a voi via twitter. Grazie per la vostra generosa risposta. Vi benedico tutti di cuori» è stato il primo messaggio veicolato ieri dal pontefice a conclusione dell’udienza generale tenuta nella sala Nervi.
La scena è essenziale: un tavolino su cui è poggiato il «tablet» e i collaboratori del Papa in piedi vicino a lui. C’è il presidente del Pontificio consiglio per le comunicazioni sociale Claudio Maria Celli che lo assiste al momento del lancio del «tweet», ci sono poi due studenti, una giornalista americana e due collaboratori dello staff allestito dal Vaticano per gestire questa avventura mediatica: una rappresentanza dei cinque continenti, proprio a simboleggiare l’universalità dell’iniziativa. Con un tocco sul «touch-screen» portogli da monsignor Celli, il pontefice ha digitato il suo primo tweet. L’unico inviato personalmente. Gli altri tre, domanda e risposta, che sono seguiti nella giornata sono stati veicolati dallo staff vaticano che lo assiste.
Sarà soltanto un caso, ma è per una manciata di minuti che Papa Ratzinger ha mancato l’appuntamento con la combinazione numerica delle ore 12 del 12/12/12. Anticipando, infatti, di una mezz’ora sui tempi previsti, è stato alle 11,27, appena conclusa l’udienza generale nella sala Nervi che ha lanciato il suo primo twitt, inviando un saluto a quel milione di follower che in tutto il mondo hanno seguito l’account @Pontifex nelle sue otto lingue (inglese, spagnolo, italiano, francese, tedesco, polacco a arabo) e che gli hanno inviato messaggi e domande attraverso #askpontifex.
Dopo poco meno di mezz’ora è arrivato il secondo tweet. Rispondendo alla domanda «Come possiamo vivere meglio l’anno della fede nel nostro quotidiano?», selezionata dal gruppo di collaboratori che ha scremato i messaggi giunti dedicati al tema della fede, Benedetto XVI ha risposto: «Dialoga con Gesù nella preghiera, ascolta Gesù che ti parla nel Vangelo, incontra Gesù che è presente in chi ha bisogno».
Così condensata in 140 caratteri è arrivata la prima riflessione del Papa affidata a Twitter e subito rilanciata con breaking news dei principali media internazionali.
Sono schizzati verso l’alto i follower di Pontifex al ritmo di cinquemila l’ora. Hanno presto superato il milione e 400mila. Sempre in testa quelli dell’account in lingua inglese (circa 700mila), a seguire in spagnolo e quasi 100 mila quelli in italiano. Numerosi quelli polacchi, seguiti dai tedeschi. In arabo i follower sono stati più di 7.500.
«Come vivere la fede in Gesù Cristo in un mondo senza speranza?». «Con la certezza che chi crede non è mai solo. Dio è la roccia sicura su cui costruire la vita e il suo amore è sempre fedele». È stata questa la seconda «domanda-e-risposta» del Papa inviata via Twitter nel primo pomeriggio. L’ultimo messaggio è arrivato poco dopo le ore 18. «Come essere più portati alla preghiera quando siamo così occupati con le questioni del lavoro, della famiglia e del mondo?». A questa domanda il pontefice ha risposto: «Offrire ogni cosa che fai al Signore chiedere il suo aiuto in ogni circostanza della vita quotidiana e ricordare che ti è sempre accanto».
IL FRATELLO DI EMANUELA ORLANDI
Sono state domande e risposte piane, legate alla quotidianità di uomini e donne alla ricerca di una dimensione di fede quelle del Papa. Ma nella gran mole di tweet inviatigli non sono certo mancati quelli malevoli o offensivi verso la Chiesa e verso lo stesso pontefice. Altri ironici o di scherno. Tanti di sostegno e apprezzamento per il Papa che twitta. Sono i rischi fisiologici di chi si misura con il popolo della Rete, assicurano Oltretevere. Tra i tanti messaggi inviati direttamente al Papa ce n’è anche uno di Pietro Orlandi che chiede alla Santa Sede di «impegnarsi nella ricerca della verita» nella vicenda del rapimento della sorella, Emanuela Orlandi. Altri sugli scandali legati alla pedofilia, sullo Ior o sui privilegi che godrebbe la Chiesa come l’esenzione dal pagamento dell’Imu. Che Benedetto XVI abbia accolto con «sorpresa ed entusiasmo» la grande accoglienza ricevuta lo conferma il giornalista Greg Burke, advisor per la Comunicazione della Segreteria di Stato vaticana. Per ora si ostenta soddisfazione per quello che è stato definito dal segretario del Pontificio consiglio per le Comunicazioni, monsignor Tighe «un nuovo servizio al Vangelo».

La Stampa 13.12.12
Una donna dietro i tweet del Papa
Claudia Diaz-Ortiz Classe 1982, laureata a Oxford, ha messo in funzione il profilo @Pontifex
Giacomo Galeazzi

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Corriere 13.12.12
Benedetto XVI segue solo se stesso

CITTÀ DEL VATICANO — Benedetto XVI su Twitter viaggia già verso il milione e mezzo di «followers», persone che lo seguono, ma conta solo 7 «following», persone che il Papa segue. In realtà, a scanso di gelosie, sono una sola: se stesso, cioè i suoi «profili». Il principale è @Pontifex in inglese; seguono @Pontifex_it in italiano, in spagnolo @Pontifex_es e così via in portoghese, tedesco, polacco, francese e arabo.

Repubblica 13.12.12
Scandalo dei preti pedofili a Verona la Curia condanna due sacerdoti
Assolto l’ex vescovo. Prime sanzioni dopo la riforma Ratzinger
di Marco Ansaldo


CITTÀ DEL VATICANO — «Divieto di qualsiasi contatto con minori. Assidua sorveglianza da parte di responsabili individuati dal vescovo di Verona. Precetto penale che comporta una vita unicamente dedita alla preghiera e alla penitenza». Un sacerdote punito, un altro sottoposto ad ammonizione canonica, una serie di indagini ancora da concludere su diverse persone.
Il triste caso dell’Istituto Provolo di Verona, dove per trent’anni, fino al 1984, una quindicina di giovani sordomuti furono abusati da alcuni religiosi, conosce i primi risultati dell’inchiesta della Curia locale. Uno scandalo emerso dopo gli articoli pubblicati dall’Espresso nel gennaio 2009. E oggi i colpevoli sono stati sanzionati. Se la Chiesa intende contrastare con efficacia il fenomeno della pedofilia, seguendo le Linee guida stabilite dal Papa, questo sembra un esempio perfetto. Un’indagine condotta in profondità non solo dalle autorità ecclesiastiche, ma - per la prima volta in Italia - direttamente da un laico. Ricerca alla quale si è affiancato in Vaticano l’ex Sant’Uffizio, cioè la Congregazione per la dottrina della fede, che ha dato infine il suo benestare alle decisioni raggiunte.
La notizia emerge da un documento di cinque pagine intestato alla Curia Diocesana-Verona, retta da monsignor Giuseppe Zenti. È firmato dal Vicario giudiziale, monsignor Giampietro Mazzoni, e indirizzato all’avvocato Paolo Tacchi Venturi. L’incartamento riguarda «i provvedimenti della Santa Sede in seguito alle denunce di abusi presentate
dall’Associazione Sordi Provolo nei confronti di religiosi appartenenti all’Istituto Compagnia di Maria per l’educazione dei sordomuti ». In calce, la data Verona, 24 novembre 2012. La misura più forte, il precetto penale con le sanzioni descritte sopra, è quella presa contro don Eligio Piccoli. Si è tenuto conto, nel suo caso, «dell’età ormai avanzata (84 anni) e della salute precaria ». A subire invece una «ammonizione canonica» («stretta vigilanza da parte dei responsabili sui suoi comportamenti»), è don Danilo Corradi. Le accuse formulate contro di lui «non risultano provate», ma, nel dubbio, la Santa Sede ha intanto stabilito un provvedimento formale. Nessuna misura contro frate Lino Gugole, il quale, «affetto da una grave forma di Alzheimer che lo rende del tutto incapace di intendere e di volere», è ricoverato in una casa di riposo. Su diversi prelati le indagini continueranno, alcuni sono deceduti, e per altri ancora le accuse non sussistono. Soprattutto quelle contro l’ex vescovo di Verona, monsignor Giuseppe Carraro, definite come «pesantissime e raccapriccianti », ma risultate prive di «ogni fondamento sia sulla base delle contraddizioni interne sia sulla base di molteplici testimonianze ». Al punto che il Sant’Uffizio ha invitato il dicastero per le cause dei santi «a procedere al completamento della “Positio” in questione» riguardante la beatificazione del monsignore.
Lo scandalo del Provolo era scoppiato con l’inchiesta dell’Espresso firmata da Paolo Tessadri. Gli ex allievi avevano inviato le loro testimonianze al giornale dopo essersi rivolti, invano, ai vertici dell’istituto. Una sequenza di racconti terribili: i ragazzi entravano a scuola a 6, 10, 12 anni. Per la loro condizione particolare necessitavano di cure e affetto, ne uscivano invece brutalizzati. Rapporti sodomitici nei bagni, nelle stanze dei sacerdoti, nei confessionali, persino sotto l’altare. Non è la prima volta che la magistratura ecclesiale interviene in Italia (ricordiamo il caso di don Lelio Cantini a Firenze). Per i fatti del Provolo i termini della giustizia penale e canoni-
ca erano ormai prescritti. Ma è una novità che a indagare sia stata una persona estranea agli organismi religiosi: il magistrato in pensione Mario Sannite, «la cui professionalità e imparzialità - è scritto nel documento della Curia di Verona - è unanimemente riconosciuta».

il Fatto Lettere 13.12.12
Perché finanziare Radio radicale?


Mentre si sta parlando di applicare l'Imu anche ai circoli Arci e alle scuole materne parrocchiali, a Radio radicale é concesso il privilegio di una costosa convenzione con lo Stato (10 milioni di euro all'anno) per trasmettere le sedute del Parlamento. Ma il servizio pubblico non dovrebbe spettare alle emittenti pubbliche, che nel nostro caso é la Rai? Dal momento che dovevamo tutti stringere la cinghia, possiamo ancora permetterci delle spese superflue che poi ricadono su tutti noi contribuenti? Ma i Radicali sono davvero intoccabili?
Vedran Guerrini

La Stampa 13.12.12
Il Canada rinuncia agli F-35
Il ministro della difesa canadese annuncia il ritiro
Il contestato programma del cacciabombardiere invisibili perdono un protagonista. Ottawa doveva acquistarne 65 ma i costi sono saliti troppo. Nuovi dubbi anche in Italia Olanda e Australia
di Giordano Stabile

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il Fatto e The Independent 13.12.12
Il miliardario “da Nobel” delle miniere del Congo
L’israeliano Gertler si è arricchito sfruttando la guerra
per ottenere il monopolio dei diamanti del Paese africano
di Jim Armitage


A dispetto del suo sorriso e dell’entusiasmo infantile, Dan Gertler è diventato il simbolo dello sfruttamento delle risorse minerarie africane da parte dell’Occidente. Il 38enne miliardario israeliano ha fatto fortuna grazie alla sua amicizia con Joseph Kabila, presidente della Repubblica Democratica del Congo.
Kabila, che al momento deve fronteggiare una ribellione nella parte orientale del paese dove si trovano la maggior parte delle miniere, per anni ha svenduto a Gertler i diritti di sfruttamento minerario e Gertler ha rivenduto in Occidente i diamanti facendo profitti enormi.
Nel frattempo in Congo la povertà è in continuo aumento; il 70% della popolazione soffre di malnutrizione e grandi aree del paese non hanno né energia elettrica né acqua corrente.
OVVIAMENTE GERTLER, che torna in Israele dove ha moglie e 9 figli solo per il fine settimana, è convinto di essere un benefattore. In una intervista si è spinto a dichiarare: “mi dovrebbero dare il Nobel”.
Ma i funzionari del Fmi la pensano diversamente. La settimana scorsa il Fmi ha bloccato un prestito di 500 milioni di dollari destinato al Congo proprio perché non ci vede chiaro nei rapporti d’affari che il governo congolese intrattiene con Gertler e qualche giorno dopo la società mineraria Enrc, quotata in Borsa, ha deciso di interrompere i rapporti con Gertler. “Le aziende occidentali non vogliono più fare affari con lui”, ha dichiarato un esponente dell’opposizione politica congolese.
Ma come ha fatto questo giovane uomo d’affari a diventare così influente e potente e come si è guadagnato il favore del presidente di una delle nazioni più tormentate del mondo? Per rispondere bisogna tornare al 1997 quando viene rovesciato, dopo quasi 30 anni, il dittatore Mobutu, appoggiato dagli Usa. Ad appena 23 anni il giovane mercante di diamanti aveva il gusto dell’avventura e il senso degli affari. Aveva imparato il mestiere dal padre e dal nonno e aveva già acquistato partite di diamanti in Angola e Liberia. Il nuovo Congo gli sembrò una occasione da non perdere. Appena arrivato a Kinshasa, Gertler si fece presentare a Joseph Kabila, figlio di Laurent che governava il paese dopo l’uscita di scena di Mobutu. Dan e Joseph, che era stato appena nominato comandante in capo delle forze armate, divennero grandi amici. Jospeh lo presentò al padre che vide nel ricco israeliano un modo facile per finanziare la guerra. Laurent chiese a Gertler 20 milioni di dollari in cambio del monopolio del commercio dei diamanti in Congo. Nel giro di pochi giorni la somma venne accreditata su un conto corrente in Svizzera.
IN SOSTANZA Gertler ebbe l’abilità di puntare sul cavallo vincente. Nel 2001 Laurent Kabila fu assassinato da una delle sue guardie del corpo, ma il suo posto venne preso dal figlio Joseph e gli affari per Gertler, anche se non poteva più contare sul monopolio, continuarono ad andare alla grande. Oggi Dan Gertler, grazie ai diritti di sfruttamento minerario in Congo, è uno degli uomini più ricchi del mondo. Da tempo la Ong internazionale Global Witness indaga su Gertler raccogliendo testimonianze e documenti e cercando di seguire la pista del denaro che per lo più porta ad una delle tante società offshore di Gertler nelle isole Vergini britanniche. La Enrc ha troncato i rapporti con Gertler, ma per farlo ha dovuto acquistare le azioni in suo possesso versando nelle sue mani la bella somma di 550 milioni di dollari. Quelle azioni Gertler nel 2010 le aveva comprate per 175 milioni di dollari!
Malgrado le critiche, non sono poche le aziende disposte a collaborare con Gertler. Glencore, discusso gigante del settore, gestisce numerose miniere in società con Gertler. Global Witness ha invitato ripetutamente gli investitori a non fare più affari con il miliardario israeliano e con Glencore. Ora c’è chi spera che la decisione del Fmi induca il governo congolese a cambiare atteggiamento nel timore che anche altri programmi di aiuto possano essere congelati con gravi conseguenze per il paese. Non a caso la decisione del Fmi è arrivata dopo che il governo di Kabila non era riuscito a fornire spiegazioni convincenti in merito alla vendita di una miniera alla Straker, una società che si ritiene faccia parte del gruppo di Gertler.
© The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

La Stampa 13.12.12
Come negli Stati Uniti
A Londra i “bianchi inglesi” diventano una minoranza
Censimento in Gran Bretagna: la capitale guida il trend multi-etnico
di Alessandra Rizzo

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Corriere 13.12.12
Harvard e il «male di eccellere» che colpisce gli studenti
In tre si sono tolti la vita. Il giornale del campus: stress da studio
di Massimo Gaggi


L'inchiesta del Crimson
L'Harvard Crimson è il giornale del campus universitario più famoso al mondo.
Da qualche tempo sta pubblicando un'inchiesta a puntate sugli studenti che hanno tentato il suicidio senza riuscirci

Gesti inconsulti Le cause
Le cause dei tentati suicidi nelle migliori università americane, oltre alla fragilità psicologica, sono legate all'eccessiva pressione sugli studenti: da una parte le aspettative sui risultati, dall'altra le rette alte che impongono di non perdere tempo

Secondo una classifica del Daily Best, l'ateneo più colpito in Usa è la Columbia University di New York, seguito da Stanford (California). Terzo è Harvard che però sarebbe al primo posto se si considerano anche i suicidi avvenuti fuori dal campus

NEW YORK — «Sad news», notizia triste, ha annunciato per tre volte quest'anno il sito dell'università di Harvard, la più celebrata d'America. Tre nomi di studenti, tre storie diverse, ma stesse espressioni di cordoglio del rettore, Evelynn Hammonds, per il loro suicidio.
Non è la prima volta che nel mondo accademico americano si parla di ragazzi messi troppo sotto pressione o incapaci di denunciare i loro disagi, che si tolgono la vita. Ma stavolta l'Harvard Crimson, il giornale del «campus», ha deciso di andare a fondo, pubblicando un'inchiesta a puntate corredata da interviste a studenti che hanno tentato, per fortuna senza successo, il suicidio.
Ne viene fuori il ritratto di giovani andati a vivere a Boston già con le loro fragilità. Pensavano, cambiando vita e dandosi l'obiettivo di eccellere, di lasciarsi quei problemi alle spalle. Invece la competizione serrata, la solitudine di una vita lontano dalla famiglia e dai vecchi amici, hanno peggiorato la situazione.
Ma c'è di più: nei migliori atenei, quando ti trovi in difficoltà per questa pressione, non riesci nemmeno a chiedere aiuto: «Andiamo lì per eccellere» confessano gli studenti «e dobbiamo accettare una cultura dominante che è quella del successo sempre e comunque. Quando arrivi ti metti una maschera per nascondere le tue vulnerabilità, che, però, restano con te. Avresti bisogno di assistenza psicologica, ma non puoi chiederla perché altrimenti denunci il tuo disagio, contraddici la tua immagine. Fai capire agli altri che stai restando indietro».
La situazione deve essere effettivamente questa se il «Crimson», che ancora non ha concluso la sua inchiesta, è già subissato di lettere di altri allievi che si dicono d'accordo, denunciano disagi simili e chiedono interventi.
Harvard non è un caso isolato, né il più appariscente: problemi analoghi ce ne sono anche nelle altre maggiori accademie americane. Fin qui hanno fatto notizia soprattutto i gesti folli di studenti che periodicamente commettono stragi nei «campus», come a VirginiaTech, dove nel 2007 Seung-Hui Cho uccise 32 persone. Ma, benché meno visibile, anche il problema dei suicidi si affaccia periodicamente, tanto che nel 2010, quando la questione tornò alla ribalta per sei suicidi in un solo anno accademico alla Cornell University di Ithaca, il Daily Beast stilò una classifica degli atenei più «stressati» d'America. Venne fuori che gli studenti sottoposti alla pressione maggiore erano quelli della Columbia University di New York, seguiti da quelli Stanford.
Terza Harvard, i cui amministratori al tempo dissero di non sentirsi particolarmente esposti sul problema dei suicidi. Ce ne erano stati diversi negli anni '90, è vero, ma poi i numeri erano rientrati e scesi ampiamente sotto la media nazionale. Ne seguì una controversia un po' macabra col Crimson che contestò quei dati: scrisse che, considerando anche i suicidi avvenuti lontano dal «campus» ed esaminando soprattutto gli «undergraduate», Harvard torna in testa alla classifica.
Il problema comunque, al di là della fragilità psicologica, rimane quello dell'eccessiva pressione sugli studenti che diventa addirittura spasmodica nelle migliori università, dove frequentare i corsi costa una fortuna (da 50 mila dollari l'anno in su): se non riesci a eccellere ti senti un fallito. Se non raggiungi la media del 4.0, quella che ti dà accesso alla laurea «summa cum laude» (o almeno a quella «magna cum laude», un gradino sotto), puoi apparire uno sconfitto.
Certo, un sistema meritocratico non può produrre solo vincitori, ma probabilmente si è arrivati a livelli di esasperazione eccessiva. E le vulnerabilità dei ragazzi sono probabilmente accentuate sempre più dall'uso (e abuso) di farmaci coi quali si cercano di estendere le loro capacità di concentrazione e di apprendimento.
C'è una cultura da cambiare. E comunque gli allievi in difficoltà avrebbero bisogno di assistenza. Ad Harvard ne trovano poca mentre, ad esempio, alla New York University è stato creato uno staff di 40 medici specializzati in malattie mentali, pronto ad aiutare gli studenti. Ma anche la NYU è corsa ai ripari solo dopo che diversi studenti, anni fa, si gettarono dalle finestre del loro «campus» nel cuore di Manhattan.

Repubblica 13.12.12
Apocalittici e disintegrati all’ombra dei Maya. Aspettando la fine del mondo
Venerdì 21 dicembre 2012 secondo un’antica profezia l’umanità scomparirà.
Migliaia di persone si preparano per quel momento
qualcuno con ironia ma molti altri seriamente Feste, pacchetti new age negli hotel, arche anti-alluvione: tutto è pronto
di Angelo Aquaro


NEW YORK IL CARTELLO con il simbolo della Bomba è ingiallito e a malapena riesci a leggere il numero sotto la scritta “Capacity”. Fatica inutile. Cercare quaggiù rifugio sarebbe ancora più pazzesco che credere davvero alla fine del mondo in arrivo: «Erano già inservibili quando furono attrezzati per un attacco nucleare: cinquant’anni fa». Qui a New York Andrew Gonsalves ne ha contati la bellezza di 139: 139 rifugi della Guerra Fredda che i nuovi fanatici vorrebbero per l’Apocalisse prossima ventura. «Ma se la fine del mondo dovesse davvero venire» ci dice il giovane studioso e blogger «chiudersi in una scatola sottoterra sarebbe ancora più inutile». Fanno bene i ragazzi di Rochester che nell’attesa della fine del mondo hanno pensato di non farsi mancare niente: cinque dj e open bar, le danze che cominciano la sera del maledetto venerdì 21 dicembre e finalmente esplodono quando la mezzanotte sarà scoccata, segnando la fine del giorno che secondo la profezia Maya dovrebbe segnare la fine dell’universo.
Come dargli torto? Fanno bene i ragazzi di Rochester, lassù nell’Upstate, che nell’attesa della fine del mondo hanno pensato di non farsi mancare niente: cinque dj e open bar con cocktail a volontà, le danze che cominciano la sera di questo maledetto venerdì 21 dicembre e finalmente esplodono quando la mezzanotte sarà scoccata, segnando la fine del giorno che secondo la profezia Maya dovrebbe segnare la fine dell’universo. La profezia di Frozen Oasis, il supergruppo di P. R. che ha organizzato questa “The End Of The World Convention” proprio lassù, dove lo stato di New York si affaccia sul gelo del Canada, è evidentemente molto più modesta: «Ci divertiremo da morire». Ma è proprio l’espressione usata — «da morire» — che fa venire ancora di più i brividi che la natura, questo è certo, non farà mancare: Weather Channel, che ha qualche strumento scientifico più raffinato che i Maya, prevede venerdì notte 5 gradi sotto zero — e neve, neve, neve, neve.
C’è poco da scherzare. La fine del mondo è così vicina che tre giorni prima, il 18 dicembre, la tv del National Geographic dedicherà proprio a New York la puntata di «Doomsday Preppers », il fortunatissimo show che indaga sui gruppi che si preparano all’Apocalisse. Basta un’esplosione a Indian Point, 60 chilometri a nord, la centrale nucleare disegnata con gli stessi crismi di Fukushima, e l’inizio della fine farebbe di Aton Edwards, un colosso nero che sembra la controfigura di Morgan Freeman, l’uomo più richiesto della Grande Mela: particolare peraltro poco significante in vista della fine. «Il piano prevede l’evacuazione di 20 milioni di persone da tutta la peak injury zone, cioè un raggio di 50 miglia dal centro del reattore », spiega il capo di International Preparedness Network al New York Post.
Evacuarli come? «Se vivi a Manhattan, Brooklyn, nel Queens o a Staten Island, mica potrai metterti in macchina: i ponti saranno intasati da tutti quello che fuggono». Ecco dunque a cosa serve essere prepper — preparati: allenandosi a fuggire in bici o scooter. Prima che sia troppo tardi. Hai voglia a dire che non serve: o meglio non servirà. La Nasa ha messo in campo uno dei suoi migliori astrofisici, David Morrison, per spiegare in un video che sta scalando YouTube alla velocità di Gangnam Style che non c’è nulla da temere: il professor Morrison ha smontato una per una tutte le previsioni, partendo dalle 5mila domande che l’ente spaziale aveva ricevuto ancora prima della messa in onda del video. Niente. I Maya Believers, i fedelissimi della fine del mondo, corrono a mettersi in salvo, novelli Noè, sulle vette dei nuovi monti Ararat identificate grazie a interpretazioni che si rincorrono senza nessuna verifica su Internet: provocando il caos. Le autorità francesi hanno chiuso dal 19 al 23 dicembre l’accesso a Bugarach, il villaggio di 200 anime sui Pirenei indicato come uno degli ultimi rifugi. Sessantamila persone hanno preso d’assalto Sirince, il borgo in Turchia vicino a Efeso dove secondo la tradizione sarebbe stata assunta in cielo la Madonna. L’ultimo domicilio conosciuto della salvezza è un monte che la natura ha disegnato a forma di piramide nei Carpazi, Mount Rtany, in Serbia. Mentre l’incontrastato eroe degli apocalittici è un cinese chiamato Lu Zhenghai, che ha speso la vita (e almeno 160mila dollari) a costruirsi la sua personalissima arca, l’Atlantis, nella convinzione che la fine del mondo si realizzerà appunto con una alluvione globale. Ma che cosa nasconde davvero l’antica profezia? E perché i Maya avevano calcolato la fine del loro calendario dopo 5125 anni, nella data che tradotta nel nostro calendario ci accompagna appunto fino al 21 dicembre 2012? Geoffrey Braswell, il professore dell’Università di California che sui Maya è più che un luminare, giura all’Ap che «l’idea della fine del mondo appartiene piuttosto alla nostra cultura: storicamente non sappiamo neppure se i Maya credessero a qualcosa del genere ». Un colpevole per la verità ci sarebbe. Michael D. Coe è l’archeologo e antropologo che nel suo fondamentale The Mayas ipotizzò per primo che «nell’ultimo giorno del 13esimo b’ak’tun — unità di misura del tempo della civiltà mesoamericana — l’Armageddon si sarebbe potuto portare via le genti degenerate del mondo».
Era il 1966: ed è da allora che gli autoeletti non degenerati hanno sincronizzato gli orologi nel conto alla rovescia. Occhio alle date però. La metà dei Sessanta vede anche il fiorire della civiltà New Age. E se gli apocalittici interpretano i Maya aspettando la fine del mondo, rilanciata anche dal successo del film “2012”, i fan dell’età dell’Acquario sognano invece un periodo di rigenerazione spirituale: due rette parallele che si incontreranno, irrimediabilmente, il 21 dicembre. Così, mentre nella centralissima Karl Marx Street di Chelyabinsk, nel sud della Russia, l’ennesima setta millenarista oggi realizza un immenso arco Maya di ghiaccio, dall’altra parte del mondo, al sole di Culver City, Los Angeles, ci si prepara alla notte di rigenerazione spirituale, qui dove New Age è il nome perfino di un noto negozio di riparazione di automobili.
Naturalmente non poteva mancare chi della fine del mondo ha fatto addirittura un mestiere. John Kehne, un tizio di Louisville, Kentucky, la città finora famosa per essere la casa del grande Mohammed Ali, ha steso tutti gli avversari sul ring di Internet, allestendo dal niente un sito da 5 milioni di visitatori, avendo registrato per primo il nome “december2120012. com”. Ma un business l’Apocalisse è diventata soprattutto dove avrebbero invece qualche motivo per preoccuparsene di più: cioè proprio nel Messico che fu dei Maya. Sì, Jose Manrique Esquivel, uno degli ultimi discendenti dell’antico popolo, corteggiato dalle tv di tutto il mondo, ora dice che la sua comunità, lì nella penisola dello Yucatan, la notte del 21 dicembre festeggerà «perché questa data segna la celebrazione della nostra sopravvivenza malgrado secoli di genocidi e oppressioni ». Ma meno ai diritti umani e più al portafoglio pensano invece le grandi catene alberghiere che dal Marriott di Cancun al Fairmont di Playa del Carmen hanno messo a punto costosissimi pacchetti: tra una lezione di kundalini, che per la verità in quanto principio yoga arriva dall’India, e una cena tradizionale a base di yucca, verdolaga e chayote, dolce sarà l’attesa dell’Armageddon.
Sperando che abbia davvero ragione Dan Piraro, il celebre cartoonist Usa. Nella sua ultima vignetta c’è un giovane Maya che con un pizzico di imbarazzo mostra al sacerdote il calendario appena scolpito sulla ruota di pietra: «Avevo spazio solo fino al 2012... «. «Oh oh: un giorno questo farà andare fuori di testa qualcuno».

Repubblica 13.12.12
Un amico depresso accanto per sfidare la catastrofe
di Elena Stancanelli


La profezia dei Maya non lo dice, ma il segreto per affrontare con serenità la fine del modo è avere un amico, o un’amica depressi al proprio fianco. Chi ha visto
il film di Lars Von Trier, lo sa: quando il futuro ha la forma di un pianeta gigantesco che si sta per schiantare contro la terra, la persona migliore con cui scambiare due chiacchiere è un nichilista accidioso, uno per cui tutto ha sempre fatto schifo, che nei momenti più allegri giudica la vita una galera, una condanna da scontare. Davanti alla catastrofe, saranno loro, il cui pensiero non sarà inquinato da alcun rimpianto, gli unici a prendere le decisioni giuste. In preda al panico, a loro chiederemo di leggere una favola ai nostri figli per tenerli tranquilli, un consiglio su cosa indossare, dove sistemarsi perché faccia meno male.
Il giorno della fine i depressi avranno finalmente ragione, si riveleranno nella loro essenza di alieni sapienti catapultati qui da un tempo più saggio, e non perderanno la testa. Faranno la guardia al nostro sconcerto, sorridendo. Ma quanto dovremmo resistere, quanto ci metterà il mondo a morire? Non lo sappiamo. L’asteroide farebbe scoppiare la terra come un palloncino nel momento dell’impatto, ma noi avremmo osservato per chissà quanto la sua forma minacciosa avvicinarsi, senza poter far nient’altro che lavarci i capelli per non farci sorprendere dalla morte in disordine. Epidemie, bombe nucleari, persino un cataclisma che ci spazzasse via a ondate avrebbe bisogno di un po’ di tempo per far piazza pulita. Qualche ora, un giorno? Diciamo che la mattina ci svegliamo vivi e a un certo punto della notte non ci sarà più niente.
Consegnate le chiavi di casa e i bambini al fidato amico depresso, cosa faremmo di quelle ore che restano, quali sarebbero i nostri ultimi desideri? Inutile dire che smettere di desiderare sarebbe la soluzione, sedersi a terra e farsi terra, bruco, vento ci permetterebbe di presentarci con dignità al giudizio finale. Ma chi ha smaniato per tutta la vita, chi ha voluto, perso, voluto di nuovo, chi ha immaginato che dietro l’angolo ci fosse ad attenderlo l’incontro migliore, non ce l’ha questa fermezza interiore, è inutile provarci. Voglio proprio vederlo uno come noi che si mette seduto tranquillo ad aspettare la fine del mondo. Siamo stati nevrotici, ossessivi, compulsivi, siamo stati occidentali alla fine dell’Occidente. Abbiamo scritto libri che parlavano solo di irrequietezza, fatto della dipendenza il nostro blasone, inventato i social network per mettere in un moto perpetuo planetario la nostra uggia... e in piedi di fronte al baratro dovremmo placarci? Lo escludo. Piuttosto, dal basso del nostro rimbambimento, ci prenderemmo le ultime, squallide soddisfazioni, sfuggendo alla sorveglianza dei nostri amici depressi. I quali, per definizione, non si occuperebbero di rincorrerci.
Se, come immagino, davanti all’asteroide che avanza, salteranno per primi i concetti di utile e sano, probabilmente trionferà la vendetta. Ma cose di piccolo cabotaggio. Abbiamo visto troppi film, video giochi, siamo stati incantati davanti alle immagini di decine di città trascinate via dall’apocalisse per prenderle sul serio. Finirà che ci comporteremo più o meno come sempre, solo un pochino peggio o un pochino meglio. Niente omicidi che oltretutto, per ovvie ragioni, sarebbero uno spreco di tempo. Si vedrà gente che sfonda macchine a martellate, scriverà spregevoli haiku sul muro della nuova fidanzata del proprio ex. Potremmo dar fuoco al ristorante sotto casa, la cui canna fumaria è puntata da anni verso la nostra camera da letto, devastare l’appartamento del vicino che non paga le rate del condominio, prendere a pugni il proprio capo.
Altri invece faranno pace con amici con cui non parlano da anni, restituiranno un libro preso in biblioteca nel 1984, diranno ti amo alla donna che li ha sposati comunque, anche senza esserselo mai sentito dire fino a quel giorno. Ma subito diranno che l’hanno detto così, per dire. Ci sono casi in cui la fine del mondo è ancora poco. All’ora di pranzo ci riempiremo la bocca di fette di roast beef e purè, scaveremo a mani nude dentro vassoi di pasta al forno e delicatissimi montblanc. Apriremo quella bottiglia che ci hanno regalato tanto tempo fa, e non era mai il momento giusto. Oppure non la apriremo neanche questa volta, per scaramanzia. Fumeremo tutto quello che c’è da fumare, anche chi ha smesso ricomincerà. Gonfi e ubriachi proveremo malamente ad accoppiarci per l’ultima volta. Poi ci trascineremo di nuovo dal nostro amico depresso, che sarà rimasto sereno, a bada dei nostri averi, e ci addormenteremo nel suo grembo. Se proprio deve venire, speriamo che ci sorprenda così, la fine del mondo. Totalmente inconsapevoli, mentre un amico migliore di noi ci tiene la mano e ci osserva
con indulgenza.

il Fatto 13.12.12
Putin “comunista” e la reliquia di Lenin
di Roberta Zunini


Nemmeno l'unico amico che B. ha ancora all'estero, il presidente russo Vladimir Putin, sembra ormai essere in sintonia con l'ex premier ridisceso in campo rispolverando i soliti slogan triti e ritriti, tra cui quelli contro i comunisti. In un incontro al Cremlino con i finanziatori della sua campagna elettorale, Putin ha “difeso” la mummia di Lenin dall'oblio, paragonandola a una sorta di reliquia come quelle conservate in alcuni monasteri di altri Paesi. La salma del padre della Rivoluzione d’Ottobre, custodita con periodici trattamenti nel mausoleo della Piazza Rossa, è da tempo oggetto di un dibattito sull'opportunità o meno di venire rimossa e sepolta. “Molti dicono che il mausoleo non corrisponde alla tradizione. E perché mai? Andate a vedere alla Lavra di Kiev o al monastero di Pskov dove vi sono le reliquie di personaggi santi”, ha spiegato Putin - che del culto della personalità è un maestro - paragonando di fatto Lenin a un santo. L'organizzazione non governativa “Memorial” che cerca di salvaguardare la memoria delle vittime della repressione sovietica ha reagito polemicamente: “Un paragone senza fondamento”, ha spiegato Ian Racinski, “Se qualcuno ha bisogno di queste reliquie, si può costruire da qualche parte una chiesa comunista, ma la piazza centrale della città non è il posto giusto”.

La Stampa 13.12.12
Pechino - Seul - Tokyo, una questione di isole
di Hang Seung-Soo


I diplomatici cinesi, sudcoreani e giapponesi hanno recentemente ribadito dal podio dell’assemblea generale delle Nazioni Unite le posizioni dei loro Paesi sulle questioni territoriali concernenti alcune piccole isole nei mari dell’Asia orientale. Ma il tono composto delle loro osservazioni contrasta con le tensioni a lungo sopite dei loro Paesi riguardo alle isole.
Al centro di una disputa infuocata tra Cina e Giappone ci sono le isole Senkaku, che i cinesi chiamano Diaoyu. A settembre, il governo giapponese ha annunciato di aver acquistato tre di queste isole dal loro proprietario, un privato giapponese, suscitando proteste in tutta la Cina. Poco dopo, centinaia di navi da pesca cinesi si sono avvicinate alle isole per affermare la sovranità della Cina. Recentemente a queste navi si è aggiunto un numero crescente di forze di sorveglianza cinesi, che periodicamente entrano nelle acque che circondano le isole, a volte in diretto confronto con le navi di pattuglia giapponesi. Con la situazione che rischia di aggravarsi, entrambe le parti devono far rientrare rapidamente il conflitto.
Nel frattempo, la Repubblica di Corea e il Giappone sono alle prese con una situazione di stallo territoriale per le isole di Dokdo (chiamate Takeshima in giapponese). Ai primi di agosto, Lee Myung-bak è stato il primo presidente della Corea del Sud a visitare le isole, il governo giapponese ha risposto proponendo di portare la questione della sovranità davanti alla Corte internazionale di giustizia. Ma la Corte Internazionale di Giustizia non può esercitare la propria giurisdizione sulla controversia senza il consenso di entrambi i paesi, e la Corea del Sud ha respinto la proposta del Giappone, sostenendo che Lee era nel pieno diritto di visitare le isole, dato che senza dubbio le Dokdo sono territorio sud-coreano. In effetti, il governo della Corea del Sud nega l’esistenza di qualsiasi controversia.
Il contesto storico è fondamentale per valutare la questione delle Dokdo. Come il resto della Corea, furono annesse dal Giappone agli inizi del XX secolo e restituite al controllo coreano dopo la seconda guerra mondiale, quando la Corea riconquistò l’indipendenza. Così, mentre gli stranieri possono considerare insignificanti queste isole desolate, per i coreani, la posizione del Giappone sulle Dokdo equivale a una sfida all’indipendenza del loro Paese e a una negazione del diritto di esercitare la sovranità sul proprio territorio.
Da decenni le Dokdo sono una spina nel fianco nelle relazioni tra i due Paesi. Nel 2005, la creazione di un cosiddetto «Takeshima day» da parte di un governo locale in Giappone ha innescato pubblici tumulti in Sud Corea. Ma Tokyo non ha fatto marcia indietro e ogni anno importanti personaggi si uniscono alle celebrazioni del Takeshima day.
Le Dokdo sono a metà strada tra penisola coreana e Giappone, a circa 115 miglia nautiche da entrambe. Ma le isole sono molto più prossime alla più vicina isola coreana, Ulleungdo, piuttosto che alla giapponese Okishima. Un esame dei documenti storici mostra una netta evoluzione nella posizione del Giappone sulla territorialità delle Dokdo.
Nel 1870 un rapporto del ministero giapponese degli Affari Esteri le riconosceva Dokdo come territorio coreano. In effetti, il rapporto include il titolo «Come Takeshima e Matsushima vennero a far parte di Joseon» (in seguito ribattezzata Corea). Inoltre, il Dajokan, il massimo organo decisionale giapponese nel 1868-1885, negò qualsiasi pretesa di sovranità sulle Dokdo attraverso il suo Ordine del 1877. Eppure, nel 1905, il Giappone adottò misure per annettere le Dokdo, allo scopo di utilizzarle come sito militare strategico nella guerra con la Russia e l’altalena è andata avanti a lungo.
In un mondo sempre più interconnesso le sfide importanti possono essere affrontate solo attraverso partenariati regionali e globali. Ma, per costruire un quadro di riferimento significativo per la cooperazione, l’antica diffidenza tra i Paesi dell’Asia orientale dev’essere dissipata. I leader non devono lasciarsi trascinare dalla tentazione di puntare il dito o evitare di assumersi la responsabilità per le trasgressioni del passato. Una valutazione onesta della storia è fondamentale per stabilire una pace e una prosperità durature in Asia orientale.
Han Seung-soo è stato Primo Ministro della Repubblica di Corea l 2008-2009 e presidente della 56a sessione dell’Assemblea generale dell’Onu.
Copyright: Project Syndicate, 2012. www.project-syndicate.org traduzione di Carla Reschia

Corriere 13.12.12
Lucio Magri, il tormento di un comunista eretico
Ex dossettiano, radiato dal Pci col «manifesto» non si rassegnava alla sconfitta della sinistra
di Rossana Rossanda


U n anno fa in questi giorni Lucio Magri metteva fine alla sua vita. Era una decisione meditata a lungo, da quando lo spegnersi di una creatura molto cara aveva aggiunto un personale dolore alla deludente vicenda politica di fine secolo, cui non si riteneva più in grado di portare un contributo. C'è ancora qualcuno cui non basta vivere, deve vivere per un fine, e se il fine sembra smarrirsi preferisce andarsene. Lucio era di questi.
Ora esce per la casa editrice Il Saggiatore una raccolta dei suoi scritti, Alla ricerca di un altro comunismo, rinviando al sito a suo nome l'opera intera, una quantità di articoli, saggi, relazioni sempre «per un fare». Al sito sono consegnati anche gli articoli giovanissimi usciti sulla rivista «Il ribelle e il conformista»: Lucio viene infatti dalla Dc di sinistra di Bergamo, riferimento Dossetti. Ma presto ha maturato, assieme a Giuseppe Chiarante, Mario Melloni (Fortebraccio) e Ugo Bartesaghi, il passaggio nel Pci.
Di cui aveva letto molto — in punto di teoria ne sapeva, come succede, più di chi vi era nato dentro — e aveva colto la distanza dal Pcus che Togliatti poteva prendere dal momento in cui la divisione delle sfere di influenza a Yalta collocava l'Italia da questa parte del mondo. Il Pci portava con sé Antonio Gramsci, che, in quanto «fondatore del nostro partito», non sarebbe stato mai consacrato ma neanche maledetto dall'Internazionale. Con Gramsci passava nei comunisti italiani la riflessione più acuta e inquietante sulla natura delle società occidentali. Che cosa era stata la rivoluzione mancata in Europa nel primo dopoguerra? E perché era mancata? Che cosa le avrebbe consentito di vincere in un Paese complesso, con una vasta, acculturata e contraddittoria società civile? Non era soltanto questione di come prendere il potere, ma di come trasformare i rapporti sociali. Non sarebbe potuto essere come nella Russia del 1917.
Domande che lo sviluppo del capitalismo avrebbe reso più pressanti. Quando, nel 1962, l'Istituto Gramsci organizzò un convegno sulle tendenze del capitalismo italiano — stava finendo il dopoguerra, si squadernava il problema di che cosa eravamo destinati ad essere nel disegno della classe dominante e come il partito vi si doveva attrezzare — Magri aveva letto in questa chiave l'Italia che cambiava, suscitando le ire di Giorgio Amendola. Quel suo intervento, pubblicato negli atti del convegno ma poi ampliato per «Les Temps Modernes» di Sartre, è il primo degli scritti proposti ora, ed è la sua sigla. Di più, rispondeva alle domande di molti, sia nel partito sia nel sindacato, di fronte ai mutamenti che il boom provocava, specie nell'allora «triangolo industriale» del Nord.
Lucio era sceso infatti da Bergamo prima a Milano, incontrando alcuni di noi, poi a Roma e presto in Botteghe Oscure, accompagnato da un'aura un po' eretica, sicuro di sé e — pochi lo immaginavano — intimidito per essere «arrivato dopo». Fece un curioso percorso, più vicino di altri al gruppo dirigente, specie a Longo e poi a Pietro Ingrao, ma non inquadrato bene nell'apparato. Se si aggiunge che era un gran bel ragazzo, sempre in testa nello sci e nel nuoto — cosa che gli uomini perdonano ai loro fratelli di sesso meno di quanto le donne perdonino alle loro più avvenenti sorelle —, si capisce perché rimanesse a lungo un outsider.
Così, attraverso la guerra fredda, conobbe la ripresa delle lotte negli anni Sessanta che seguiva alla grande migrazione dal Mezzogiorno. L'Italia cambiava ancora, ma Togliatti morì d'improvviso e ogni analisi e scelta venne colorata dal profilo di chi ne sarebbe stato il successore, Longo essendo un interim. Ingrao o Amendola? Nel 1966 l'XI Congresso vide una specie di «esecuzione» di Ingrao, e lo sterminio di quelli che gli erano più vicini, tutti retrocessi a incarichi laterali. Magri, l'outsider sospetto, fuori da ogni incarico.
Fu un esilio, e tale era ancora quando l'Italia fu attraversata dall'onda degli studenti nel ‘68 e dei nuovi operai nel ‘69, la sola che sfondasse i limiti sindacali, alla Fiat, alla Dalmine, a Porto Marghera, dovunque. Erano figure sociali nuove, prodotte dallo sviluppo, e premevano alle frontiere dei partiti e dei sindacati. Il Pci non attaccò quel movimento ma non lo apprezzò, doveva ancora lanciare Berlinguer. Ed erano mesi tempestosi. Alla contesa russo-cinese si aggiungeva la minaccia sovietica sul nuovo corso a Praga e la questione del Vietnam divideva i Paesi socialisti e, in sordina, lo stesso Pci.
Per la prima volta la sinistra interna si oppose alle Tesi per il XII Congresso, liberando il dibattito in diverse federazioni. A Pintor, Natoli, Rossanda fu consentito di parlare anche al Congresso, nel silenzio e poi applausi scroscianti della sala, perché i comunisti amavano le opposizioni di sinistra a condizione che a un certo punto rientrassero. Sulle scalinate, perché neppure delegato, c'era Magri. Non eravamo una frazione ma una rete comune di idee, formatasi negli anni, sostenuta — sembrava — da un sussulto internazionale, e stavolta fiduciosa di passare. Ma l'onda congressuale che pareva portarci si ritirò. Fummo battuti e ci si tolse ogni residuo incarico.
Decidemmo di dar vita a un mensile, costruire un polo politico e culturale attorno a una rivista della quale Magri ed io prendevamo formalmente la direzione, ma con Pintor, Natoli, Castellina, Parlato, Maone a Roma, Eliseo Milani e Petenzi a Bergamo, Vermicelli e Alberganti a Verbania, Usai e Montani ed altri a Torino, un folto gruppo a Napoli con Tecce, e così in altre province italiane. Vendemmo troppo, decine di migliaia di copie, e il partito (e il Pcus) non lo sopportarono. Quando Magri scrisse, nel settembre 1969, l'articolo «Praga è sola», denunciando l'isolamento in cui erano stati lasciati Dubcek e i protagonisti della Primavera cecoslovacca a un anno dall'invasione sovietica, venne giù il mondo. Due comitati centrali, discussione in tutte le federazioni, e un terzo comitato centrale per bloccarla: avevamo colto un bisogno reale. In breve fu la radiazione, termine più soave per espulsione.
Comincia allora la vicenda del «manifesto», gruppo politico e giornale, che Luciana Castellina delinea con limpidezza ed equilibrio nella prefazione al volume, non facile perché non esente da rotture. Magri lavora sul gruppo, Pintor sul giornale; eravamo troppi per restare una rivista, e perfino un giornale (anche se il quotidiano fu un'avventura clamorosa), e troppo pochi per essere un partito. Del resto non avevamo voluto esserlo, non invitammo a una scissione, l'ambizione era di meno e di più: saremmo stati, come ebbe a dire Lucio, il Vietnam del Pci, una insorgenza che non lo metteva in pericolo ma che non sarebbe stato in grado di chiudere.
Non andò così. Non solo il Pci ma il lungo decennio Settanta e la crisi della sinistra ci resero assieme inaffondabili e laterali. Sia il pezzo di Castellina sia la lunga intervista fatta a Lucio nell'ultimo anno da Famiano Crucianelli e Aldo Garzia, suoi compagni ed amici di sempre, ricostruiscono le tappe e i dilemmi di oltre un ventennio, attraverso le loro domande e il suo rispondere, a volte un poco reticente, di chi sente ancora la responsabilità di un dirigente. Sta di fatto che Magri e i molti che lavoravano al gruppo, nel quale ci raggiunse Lidia Menapace, si trovarono subito stretti tra una base che voleva esistere, e non solo come lettore o in un'organizzazione indefinita, e chi si misurava, ma soltanto con la scrittura, sui grandi problemi. Il primo dilemma fu se andare o no alle elezioni del ‘72, prevalse il sì e «riempimmo le piazze ma lasciammo vuote le urne», e non è così paradossale come può sembrare.
Soprattutto Lucio Magri non accettava il radicalismo spesso sommario di una nuova sinistra «vogliamo tutto» e un Partito comunista in permanenza preoccupato di una reazione di destra, alimentata dall'esito cileno del ‘73 e dal formarsi di gruppi armati. Su questo ci fu una divisione anche fra lui e me, che gli sottrassi nel modo più illegittimo il gioiello del gruppo che era il giornale (ma non cessai di essere la sorella grande, quella con cui azzuffarsi fino all' ultimo). Allo stesso modo Berlinguer tentò un incontro fra il movimento cattolico, mal individuato nella nomenclatura democristiana, e il comunismo italiano, contro una modernizzazione senza valori coltivata dal Psi di Craxi. Tentativo fallito non solo perché l'interlocutore, che egli vedeva in Aldo Moro, non aveva la Dc con sé, e finì ucciso dalle Br, ma per un errore di valutazione sulla natura del partito cattolico e sulla fase — cominciava in quegli anni, nonostante i successi elettorali, la crisi del Pci, sulla quale Magri e Filippo Maone scrissero un saggio decisivo, e si delineava, nella stagnazione brežneviana, quella dell'Urss.
Magri ed altri perseguirono la formazione di un partito, il Pdup, con la sinistra socialista di Vittorio Foa, l'ex Psiup, e gli aclisti di sinistra di Giangiacomo Migone. Ci dividemmo di nuovo. In verità Magri non si era accontentato mai delle scorciatoie pratiche e ideali della nuova sinistra e tantomeno ne capì gli estremismi (non condivise la parola d'ordine «né con le Br né con lo Stato») né tollerava il «compromesso storico», pur apprezzando l'accento di Berlinguer sulla questione morale. E perfino sull'austerità, che i più fra noi, me inclusa, interpretarono come una premessa al rigore ma cui egli dava il senso di rifiuto d'una produzione ormai di spreco. La sua riflessione più compiuta sul «che fare» è quella presente nel volume appena uscito, nel saggio «Valori e limiti del riformismo». Ma quando Berlinguer, dopo l'uccisione di Moro, modificò il suo giudizio sulla Dc e, messo spalle al muro da una direzione incline all'unità nazionale, andò alla svolta che lo avrebbe portato ai cancelli della Fiat occupata, Magri guardò a lui con interesse. E avvenne anche il reciproco.
Il Pdup negoziò un ritorno nel Pci, entrando fin nella direzione. Ma Berlinguer morì d'improvviso e gli immensi funerali di popolo fu come se dicessero addio a un'epoca. A Magri non restò che dibattersi contro la devastazione del Pci fra cambiamenti di nome e di fisionomia, poi passare a Rifondazione e anche in quella sede dibattere e dibattersi. Non si dette pace nella battaglia fra un rivoluzionarismo che considerava di poco spessore e un riformismo dall'orizzonte sempre più ridotto; la storia, del resto, avrebbe gettato a margine l'uno e l'altro negli anni che seguirono. Più tardi si sarebbe interrogato su due «occasioni» mancate: la prima, se muovendoci con più prudenza, saremmo riusciti a restare un Vietnam dentro al Pci, e credo che su questo sbagliasse, la seconda quando, nella riunione per il «no» al cambiamento di nome e identità del Pci ad Arco, Ingrao non se la sentì di lasciare il partito ed egli non ebbe il coraggio o la presunzione di prenderne il posto. Non so se la storia del Pci sarebbe stata diversa, certo quella di Rifondazione.
Ritiratosi dalla vita politica, ha lavorato, solitario e indolenzito, a una ricostruzione problematica della storia del Pci. L'ha titolata Il sarto di Ulm (Il Saggiatore, 2009), dall'aneddoto di Brecht sull'artigiano che, persuaso di poter volare, s'era schiantato a terra — ma ora gli uomini sono giunti ad alzarsi in volo. E l'aveva conclusa con un saggio che, in parte provocato dalla esperienza di Arco, si riallaccia all'intervento del '62 che apre il volume attuale. Sempre sulle possibilità di una formazione rivoluzionaria dei nostri tempi, così lontani dal 1917, e che ci hanno lasciati con le ossa rotte. Il suo discorso non lascia spazio a risentimenti o accuse, non attiene a una fede ma a un ragionare acerbo sul volgere del mondo. Finito il libro — che resterà, afferma Perry Anderson — Lucio ha orgogliosamente chiuso i suoi giorni.

Corriere 13.12.12
Due italiani tra i sette fisici migliori, un premio sottolinea il genio nazionale
di Giovanni Caprara


È il primo premio assegnato alla scoperta del bosone di Higgs, la famosa «particella di Dio» annunciata nel luglio scorso al Cern di Ginevra. Il Fundamental Physics Prize ha riconosciuto il merito dei sette ricercatori che hanno conquistato il risultato inseguito da mezzo secolo, dopo che il fisico britannico Peter Higgs aveva teorizzato l'esistenza della particella subatomica in grado di dare la massa a tutte le altre particelle. L'averla identificata con il superacceleratore Large Hadron Collider del Cern ha chiuso un capitolo della fisica aprendone un altro tutto ancora da scrivere.
Ma la notizia che ci rallegra è che ben due dei sette scienziati sono italiani: Fabiola Gianotti e Guido Tonelli; Fabiola ancora alla guida dell'esperimento Atlas e Guido che è stato fino a ieri a capo dell'esperimento CMS entrambi destinati a trovare per vie diverse lo stesso risultato così da avere conferma della sua validità. Ed è quello che sono riusciti a conquistare. Il Premio è stato annunciato con legittimo orgoglio al Cern dove verrà assegnato nel marzo prossimo. Ma con altrettanta legittima soddisfazione il riconoscimento è vissuto nella nostra comunità scientifica perché entrambi i ricercatori sono cresciuti sotto l'ombrello dell'Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn).
Se la scoperta del bosone è ormai un risultato ufficiale e accettato dai fisici, il Premio sottolinea il valore di una scuola della cultura scientifica italiana da mantenere viva date le capacità dimostrate. Tra l'altro il Fundamental Physics Prize segnala anche nella categoria aggiunta dei «Nuovi orizzonti» il giovane Davide Gaiotto per i suoi studi di geometria e fisica teorica. Una promessa per il domani. Il Premio di tre milioni di dollari, più elevato dello stesso Nobel, è assegnato da una fondazione creata dal magnate russo Yuri Milner, ex fisico passato al business con successo. La fondazione ogni anno crea un giuria internazionale per stabilire i premi. «Il denaro — ha ricordato Fabiola Gianotti — sarà utilizzato per aiutare i giovani fisici provenienti dai Paesi economicamente disagiati». Ora si aspetta il Nobel.

il Fatto 13.12.12
La crisi e la fine dell’uguaglianza
di Vittorio Emanuele Parsi


È in libreria in questi giorni “La fine dell’uguaglianza. Come la crisi economica sta distruggendo il primo valore della nostra democrazia” di Vittorio Emanuele Parsi (Mondadori, 226 pagg; 17,50 euro). Pubblichiamo qui un estratto dalle conclusioni.

Sostenere le ragioni dell’uguaglianza di fronte alla crisi attuale non significa indulgere in pessimistiche profezie pauperistiche, maledire il capitalismo o rinnegare l’individualismo nel nome di disegni francamente reazionari, ancora più pericolosi perché travestiti da preoccupazione nei confronti dei ceti popolari. Implica invece riaffermare con forza la fede nel progresso, nella capacità umana di inventare un destino migliore, anche grazie alla straordinaria risorsa costituita dalla politica. La fede nel progresso, in un futuro concepito come probabilmente diverso e possibilmente migliore rispetto al presente e al passato, la convinzione che nella storia sia effettivamente possibile individuare un sentiero che conduca al miglioramento delle condizioni di vita degli individui, dei popoli e del genere umano è l’unico plausibile discrimine ancora valido tra destra e sinistra, tra progressisti (appunto) e conservatori. E in tale orizzonte la via occidentale è ancora preferibile alle alternative disponibili. In termini estremamente concreti, è già possibile intraprendere un primo significativo passo in questa direzione. La sua adozione consentirebbe in primo luogo di ridefinire quella relazione tra finanza ed economia produttiva che da più parti è stata con forza rivendicata come necessaria per rimettere in carreggiata il motore della crescita. In questi lunghissimi mesi dominati dalla dittatura dello spread, dalla paura del contagio, dall’incenerimento finanziario di risorse reali, accumulate e risparmiate spesso col sudore di generazioni, sono stati i responsabili di governi non certo anticapitalisti, gli esponenti delle associazioni padronali, i professori di economia delle più prestigiose università a chiedere il riequilibrio dei rapporti tra finanza ed economia reale, a sostenere l’importanza di ricordare che senza produzione reale di beni e servizi non esiste più nulla da finanziare e, in ultima analisi, non esiste più ricchezza.
LA MISURA cui alludo è nota ormai da diversi decenni e per nulla rivoluzionaria: si tratta della tassazione delle transazioni internazionali dei capitali. Essa non fa che dotare le istituzioni di governo della società (ed economia e finanza sono anch’esse grandezze sociali) di uno strumento adeguato alla mutata realtà dei tempi per estrarre le risorse necessarie al loro sviluppo armonioso ed equo. Tassare le transazioni di capitale può sembrare un provvedimento vendicativo, adottato nel momento in cui il loro vorticoso susseguirsi, alla ricerca di una sorta di pietra filosofale del profitto, sta minando le radici della crescita economica. In realtà, era giusto sottoporre a tassazione questo tipo di transazioni ben prima che la crisi internazionale mostrasse i pericoli che derivano da una finanziarizzazione senza freni dell’economia. Voleva dire indirizzare il prelievo fiscale laddove la ricchezza si genera in misura sempre crescente: non era più punitivo di un provvedimento che volesse riequilibrare la concorrenza tra due attori, di cui uno evade le tasse e uno no. Sarebbe importante che una simile misura venisse adottata congiuntamente dai Paesi occidentali, il cui comune interesse a difendere innanzitutto il proprio modello di sviluppo fondato su democrazia inclusiva e libero mercato non è apertamente messo in discussione da nessun attore politico e da nessun soggetto economico. A una simile unanimità sarebbe possibile giungere anche per gradi, una volta che almeno una significativa parte di Paesi si muova in questa direzione. Tra i Paesi dell’Eurozona il consenso è piuttosto diffuso e il fatto che la Germania stessa lo abbia proposto è un elemento da non sottovalutare: se, cioè, persino il Paese finora meno colpito dalla tempesta perfetta della finanza, quello i cui titoli di Stato – i famigerati Bund così appetiti dagli investitori – rappresentano il metro di paragone per la solidità di quelli di tutti gli altri Paesi, almeno due cose dovremmo averle imparate. La prima è che la lungimiranza non è necessariamente stimolata dal bisogno o dalla precarietà delle condizioni. Questo è forse un pregiudizio tutto italiano, considerato che nella nostra esperienza spetta sempre ai novelli Cincinnato, ai salvatori della Patria in pericolo, dover operare quelle scelte lungimiranti, dimostrare “quell’attenzione per le future generazioni” che sarà pure la virtù che contraddistingue lo statista (per parafrasare Alcide De Gasperi), ma che sarebbe lecito attendersi di veder praticata, almeno di tanto in tanto, anche dai politici. No, la politica nella sua dimensione ordinaria consiste nella capacità di anticipare il futuro per cercare di pre-determinarlo, di rendere taluni scenari più probabili e tal’altri meno, di dominare e ridurre l’incertezza sempre legata al tempo che verrà. Che un Paese avvantaggiato dal fatto che i propri buoni del Tesoro siano considerati il bene rifugio per eccellenza nutra certe preoccupazioni, riequilibra almeno parzialmente quella visione di una Germania arcigna e bottegaia che alcune sue esitazioni e rigidità hanno fin qui alimentato.
LA FINE DELL’ UGUAGLIANZA di V. Emanuele Parsi 226 pagine; Mondadori; 14 euro

Repubblica 13.12.12
Laicità
Se la Chiesa torna a criticare la neutralità dello Stato
di Stefano Rodotà


I principi della convivenza e dell’apertura oggi si devono confrontare con il ritorno dell’intolleranza
Un certo fondamentalismo si mostra incapace di comprendere le trasformazioni della società

Alla vigilia di un anniversario simbolico, i millesettecento anni dell’Editto di Costantino, il cardinale di Milano ha mosso una critica radicale alla laicità dello Stato, rivendicando l’assoluto primato della libertà religiosa e sottolineando i rischi che essa corre nel tempo che viviamo. Lo ha fatto costruendo un modello di comodo, di cui Vito Mancuso ha bene messo in luce le omissioni poiché, tra l’altro, non si fa parola delle persecuzioni alle quali proprio i cristiani sottoposero i fedeli di altre religioni. Quell’“inizio della libertà dell’uomo moderno”, che l’Editto di Costantino avrebbe aperto, in realtà ha avuto altri inizi e altre traiettorie. Si dovrà attendere il Rinascimento, con la sua esclamazione “magnum miraculum est homo”. Si dovrà attendere l’affermazione piena della libertà che trovò la sua tavola nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, vero concilio laico quasi due secoli prima del Vaticano II, che aprì le vie per la libertà di tutti. Se oggi vogliamo discutere di laicità, non possiamo ignorare tutto questo, né rifugiarci in una visione caricaturale della laicità attribuita al suo modello francese. Viene da chiedersi la ragione di un riduzionismo così poco accorto da parte di un prelato non sprovvisto di cultura e visione storica. Un interrogativo che merita qualche riflessione, proprio perché oggi il principio di laicità dello Stato si confronta con un nuovo bisogno di sacro che percorre le nostre società e, insieme, si presenta come ineludibile punto di riferimento di fronte alla “nuova intolleranza religiosa” (è il titolo dell’ultimo libro di Martha Nussbaum). Se questo è un itinerario per individuare equilibri adeguati tra religione e Stato, il cammino indicato da Angelo Scola non è certo quello che consente una discussione utile.
Come viene rinverdita la critica alla secolarizzazione? Partendo da due premesse. Dice Scola: «se la libertà religiosa non diviene libertà realizzata posta in cima alla scala dei diritti fondamentali, tutta la scala crolla». E aggiunge: «fino a qualche decennio fa si faceva riferimento sostanziale ed esplicito a strutture antropologiche generalmente riconosciute, almeno in senso lato, come dimensioni costitutive dell’esperienza religiosa: la nascita, il matrimonio, la generazione, l’educazione, la morte».
Il primato della libertà religiosa individua così una forma di Stato che nel fattore religioso trova l’unica legittimazione possibile. Questo vuol dire che lo Stato non può essere individuato come spazio di convivenza di opinioni e credenze diverse, secondo la versione che la laicità è venuta assumendo, con l’abbandono una laicità puramente “oppositiva” nei confronti della religione.
E, parlando di strutture antropologiche, in realtà ci si riferisce ai molti no che la Chiesa ha pronunciato: no alla procreazione assistita; no al riconoscimento giuridico di forme di convivenza diverse dal matrimonio eterosessuale; no alla scuola pubblica come struttura essenziale per la conoscenza e l’accettazione dell’altro; no al testamento biologico.
In queste posizioni vi è più che una ripulsa della laicità. Vi è la negazione della libertà della coscienza e l’affermazione che la definizione dell’antropologia del genere umano è prerogativa della religione. Non siamo di fronte a una discussione dei temi complessi della secolarizzazione, ma al programma di una restaurazione impossibile, dunque destinato non a promuovere dialogo, ma conflitti intorno alla ritornante affermazione di valori “non negoziabili”.
A proposito di antropologia, vale la pena di ricordare la critica di Zygmut Bauman alla tesi secondo la quale, nella fase premoderna, fosse la religione a dare senso alla vita. È dunque una acquisizione storica e culturale quella che riguarda la forte presa della religione cattolica sui temi dell’etica, non un dato indissolubilmente legato al fattore religioso. Con il trascorrere del tempo, quel legame è stato sciolto grazie all’ampliarsi della riflessione etica e al sorgere di una nuova antropologia, prodotta dalla rivoluzione scientifica e tecnologica. Contro questa antropologia si leva la difesa della “natura” impugnata da un fondamentalismo religioso che mostra non tanto una attitudine antiscientifica, quanto piuttosto una incapacità di comprendere le nuove dimensioni del mondo e dell’umanità. È proprio il pensiero laico, invece, a forgiare gli strumenti perché non ci si arrenda ad una deriva tecnologica, con la sua capacità di garantire l’umano attraverso i principi di eguaglianza e dignità, di autodeterminazione della persona.
Non è vero, peraltro, che la dimensione istituzionale sia posseduta soltanto da un riconoscimento della libertà religiosa come fatto squisitamente individuale. L’articolo 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea afferma che alle persone appartiene la «libertà di manifestare la propria religione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato». La piena laicità di questa affermazione consiste nel fatto che non siamo di fronte a un privilegio o ad una supremazia, ma ad una libertà che si misura con tutte le altre. L’opposto della ricostruzione del cardinale Scola della laicità come imposizione di un unico punto di vista, mentre essa è un metodo che permette a tutti i punti di vista di convivere in modo fecondo, offrendo proprio alla religione la più civile delle garanzie.

Repubblica 13.12.12
Dai rapporti tra papato e impero a oggi
Tutto iniziò con Costantino
di Agostino Giovagnoli


Le dispute durate molti secoli sulla distinzione fra religione e politica sono state superate solo con il Concilio Vaticano II e l’idea di un dialogo fondato su valori comuni

La lunga storia iniziata con l’editto di Milano del 313 continua fino ad oggi. Quell’editto riconosceva libertà di culto ai seguaci di tutte le religioni: i cristiani, in precedenza a lungo perseguitati, furono equiparati ai pagani. Subito dopo, Costantino iniziò a sostenerli, introducendo leggi a loro favorevoli, promuovendo la costruzione di nuove chiese, intervenendo contro scismi ed eresie. Nei secoli, perciò, egli è stato visto in modi contrapposti, come difensore della libertà religiosa e come iniziatore della “chiesa costantiniana” e cioè della commistione tra religione e potere. È un’ambivalenza che ha fatto versare fiumi di inchiostro, pro e contro di lui, ma il più delle volte il suo nome è stato coinvolto impropriamente in problemi e dispute propri di altre epoche.
È accaduto nel Medioevo quando, appellandosi alla donazione costantiniana quale fondamento del potere temporale del papa, si è discusso lungamente della superiorità del pontefice sull’imperatore o viceversa. Era infatti convinzione comune che alla Chiesa spettasse un ruolo diretto nell’organizzazione politica della società europea, dentro lo stretto intreccio tra sacerdotium ed imperium tipico del “regime di cristianità”. Ma Lorenzo Valla ha poi chiarito, nel quattrocento, che la donazione di Costantino era un falso dell’ VIII secolo, fabbricato ad arte per giustificare il potere temporale del papa. La Chiesa costantiniana, insomma, non è stata un’invenzione di Costantino.
La falsità del documento fu dimostrata proprio quando, tornati a Roma dopo l’esilio avignonese, i papi abbandonarono ambiziosi progetti politici, accettando come fondamentali interlocutori – e come scomoda controparte – i grandi Stati moderni. È iniziata allora una distinzione tra istituzione ecclesiastica ed istituzioni politiche che costituisce la principale originalità europea nei rapporti tra Stato e Chiesa. Anche tutta l’età moderna, però, è stata attraversata da ambiguità nella divisione dei compiti tra le due istituzioni, malgrado il positivo superamento dello Stato quale braccio armato della religione. E anche dopo la radicale separazione tra Stato e Chiesa imposta dalla Rivoluzione francese, le ambiguità sono continuate: gli stessi rivoluzionari tentarono di imporre un nuovo culto, alla Dea Ragione, una sorta di “religione della laicità” quale nuova religione di Stato. In reazione, da parte cattolica si cominciò ad evocare il mito della cristianità medievale e le sue (false) origini costantiniane. Solo dopo molte tormentate vicende, è maturato un senso pieno della laicità come insieme di valori condivisi e, con il Concilio Vaticano II, si è parlato di definitivo superamento della (cosiddetta) Chiesa costantiniana.
Pochi giorni fa il cardinale Scola ha aperto l’anno costantiniano, toccando il problema della «commistione tra il potere politico e la religione» e formulando alcune osservazioni critiche in tema di laicità dello Stato – con un riferimento alla riforma sanitaria di Obama – che hanno fatto discutere. Tra i temi di questo anno, oltre a quello della libertà religiosa su cui ha insistito il cardinale Scola, interesse particolare riveste la scelta costantiniana di equiparare sul piano dei diritti cristiani e pagani, senza proibire il paganesimo sostituendolo con il cristianesimo. Anche oggi, infatti, il rapporto tra libertà religiosa e costruzione di una convivenza pacifica tra uomini e donne di religioni diverse costituisce una questione rilevante.

Repubblica 13.12.12
Ecco perché è possibile un’etica condivisa
La spiritualità di chi non crede
di Enzo Bianchi


Esiste una dimensione che si nutre di interiorità di ricerca di senso, di confronto con l’esperienza del limite e della morte che non è prerogativa esclusiva dei credenti ma anche di chi non ha la fede

Non sorprende che in un paese come il nostro – dove non esiste più da quasi trent’anni una “religione di stato”, ma dove non c’è ancora una legge specifica sulla libertà religiosa – ogni discussione sulla laicità dello stato e sui diritti dei credenti rischi di provocare un corto circuito. Si aggiungono aggettivi qualificativi alla laicità o la si rinchiude nel peggiorativo laicismo, rendendo quasi impossibile lo sviluppo e l’adattamento alle mutate condizioni sociologiche del nostro paese di quella convergenza di intenti e di valori che il legislatore costituente aveva sapientemente saputo ricostruire sulle macerie della guerra. A furia di ridurre la presenza dello stato e nel contempo di chiedergli di farsi garante di un’etica religiosa specifica, a furia di confondere la somma di beni privati con il bene comune, la coesione sociale viene a mancare e si atrofizza quello spazio comune garantito in cui ciascun soggetto individuale o sociale – può contribuire alla crescita umana e spirituale dell’insieme della società.
Lo stato laico, infatti, non può limitarsi alla funzione di chi regola il traffico di una società civile che si muoverebbe secondo direttive proprie, molteplici e slegate da un interesse collettivo. È indispensabile invece trovare e utilizzare modalità laiche per discernere cosa è ritenuto bene per l’insieme della popolazione e cosa danneggia la convivenza, quali adattamenti escogitare affinché il meglio sognato non uccida il bene possibile.
Un’etica condivisa non è utopia: si tratta allora di individuarla, perseguirla, garantirla con mezzi consoni a uno stato non confessionale che si faccia carico di una società ormai plurale per religioni e culture. Non dimentichiamoci che l’umanità è una, che di essa fanno parte religione e irreligione e che, comunque, in essa è possibile, per credenti e non credenti, la via della spiritualità, intesa come vita interiore profonda, come ricerca di un vero servizio agli altri, attenta alla creazione di bellezza nei rapporti umani. Sono sempre stato convinto che esiste anche una spiritualità degli agnostici, di quanti sono in cerca della verità perché insoddisfatti di verità definite una volta per tutte: è una spiritualità che si nutre di interiorità, di ricerca del senso, di confronto con l’esperienza del limite e della morte.
Si tratta, di essere tutti fedeli alla terra e all’umanità, vivendo e agendo umanamente, credendo all’amore, parola oggi abusata fino a svuotarla di significato, ma parola unica che resta nella grammatica umana universale per esprimere il “luogo” cui l’essere umano si sente chiamato. Del resto la fede – questa adesione a Dio sentito come una presenza soprattutto a causa del coinvolgimento che il cristiano vive con Gesù Cristo – non sta nell’ordine del “sapere” e neppure in quello dell’acquisizione: si crede in libertà, accogliendo un dono che non ci si può dare da sé. Analogamente gli atei, nell’ordine del sapere non possono dire “Dio non c’è”: è, infatti, un’affermazione possibile solo nell’ambito della convinzione. Del resto, il cristianesimo riconosce che il Dio in cui crede è presente e agisce anche nella coscienza di chi non crede, perché ogni essere umano è stato creato a immagine e somiglianza di Dio e ha in sé la fonte del bene.
La laicità dello stato è allora quella opzione di fondo che consente di reinventare continuamente strumenti condivisibili e linguaggi comprensibili da tutti, di garantire presidi di libertà e di non sopraffazione, di difendere la dignità di ciascuno, a cominciare da quelli cui viene negata, di consentire a ciascuno di ricercare, anche assieme ad altri, la pienezza di senso per la propria vita.

Repubblica 13.12.12
Esce la raccolta di scritti del celebre studioso che riguardano il pensiero di quell’epoca
Il medioevo di Eco
Dante o Porfirio, le avventure estetiche di un’età d’oro
di Riccardo Fedriga


Ci sono i suoi lavori dal 1954 a oggi. Tra cui quelli dedicati a San Tommaso fino alla svolta semiotica

Immaginiamo di camminare sul pavimento di una cattedrale medievale. Nella penombra, sembra quasi di perdersi tra le immagini di un inesauribile mosaico. L’abside è quasi del tutto coperta da immagini simboliche, riferimenti biblici e figure leggendarie: il re e la regina di Saba, un meraviglioso Leviatano che divora una lepre, la lonza, un drago che uccide un cervo, un uomo con testa d’asino e l’immancabile unicorno. Passando al presbiterio, la cacciata di Adamo ed Eva dal giardino dell’Eden segna il vertice di un albero della vita che, scendendo nella caduta del peccato, cresce man mano che si avvicina al portale. L’umana vicenda sfuma addirittura i suoi contorni nel ciclo fantastico, e appare persino Re Artù, a cavallo di un caprone, che accompagna i due sventurati peccatori. Infine, fra uomini con tre teste e corpo animale, un Alessandro Magno comodamente seduto tra due grifoni, una scacchiera e due enormi elefanti, l’albero si apre nei percorsi di un labirinto quasi inestricabile.
Questa non è la descrizione di una silloge di scritti di Umberto Eco sul medioevo. È il mosaico della cattedrale di Otranto, opera del monaco basiliano Pantaleo nel XII secolo. Ma esiste anche, appena pubblicata per i tipi di Bompiani, la raccolta degli studi di Eco (Scritti sul pensiero medievale, pagg. 1344, euro 35). Qui l’autore riordina i suoi lavori sul tema dal 1954 a oggi, tutti già pubblicati in varie sedi, ma ora riuniti per fornire un panorama dei suoi interessi medievistici.
Già scorrendo l’indice si trova molto del percorso intellettuale di Eco. A partire dagli studi sull’estetica, e in particolare sul pensiero di Tommaso d’Aquino, fino alla svolta semiotica, “antichissima disciplina” di cui Eco ha sempre segnalato la profondità storica. È proprio il richiamo alla storicità della ricerca, sottolineata anche negli aspetti teoricamente più sofisticati, a costituire una sorta di continuità nella varietà degli studi presentati. Ne sono prova alcuni saggi, quale ad esempio Sul latrato del cane, che da un argomento apparentemente periferico come quello segnalato dal titolo stesso, si estende sino ad abbracciare il pensiero di Agostino, Abelardo, Tommaso e Ruggero Bacone. Oppure l’Albero di Porfirio, nel quale si svela un ordine del mondo apparentemente fondato su una struttura gerarchica ad albero che, al contrario, si rivela essere costruita ad hoc per sostenere gli imprevedibili sviluppi del reale. Il libro si chiude con una serie di articoli su Dante, sul medioevo come ricettacolo onirico delle nostre paure, su Il Milione come viaggio nella diversità degli altri mondi alla scoperta delle nostre differenze: brevi esercizi di storia delle idee che condividono con il rigore degli studi più scientifici una leggerezza lontana da ogni accademismo e una serietà sempre aliena dalla seriosità.
Il nucleo principale del volume è costituito dall’insieme dei saggi sull’estetica. Quando nei primi anni Cinquanta Eco avvia le sue ricerche, parlare di estetica medievale significava muoversi tra Scilla e Cariddi, tra i cascami di un idealismo che negava ogni ricerca storica che non rifinisse i particolari dello Spirito, e una concezione della filosofia per la quale medievale significava cristiano, e cristiano latino. Così, proprio a partire dagli studi su quel Tommaso d’Aquino che la tradizione cattolica aveva posto come campione e vetta di una (presunta) monolitica civiltà occidentale, Eco ha saputo ricostruire un percorso storico coerente ma, al contempo, aperto agli intrecci con le differenti espressioni del pensiero medievale e al dialogo con le altre epoche. Ne emerge una ricerca in cui l’indagine sulla sensibilità estetica del quotidiano e sulle concrete poetiche delle arti dialoga con l’ideale teologico di una bellezza posta a fondamento della visione estetica dell’universo.
Servendosi degli strumenti di una semiotica che non si sovrappone mai agli oggetti della ricerca, l’attenzione di Eco si sposta poi di continuo lungo la linea della decifrazione allegorica, sull’enigmistica visionaria aperta a molteplici chiavi di lettura. Ma ogni trasfigurazione parte sempre da un atto estetico, da un vedere concreto. Perché l’immaginazione medievale, anche quando filosofica, è fondamentalmente visiva e sia i teologi sia gli autori delle preziose miniature hanno lo stesso problema: risolvere in immagine ciò che il pensiero coglie del divino, così da risalire per visibilia ad invisibilia.
Armato di una dissimulata disinvoltura con la quale padroneggia più metodi interpretativi, Eco castiga ridendo ogni lettura ideologica e, con il tratto dissacrante che caratterizza l’intera sua opera, si muove tra i secoli armato di una sterminata erudizione. Come quando usa la lente del tomismo per indagare le poetiche del giovane Joyce, oppure apre il saggio sul Beato di Liébana con un’intuizione degna degli anacronismi alla Borges: “A leggere oggi, e in spirito laico, l’Apocalisse di Giovanni, si potrebbe godere di questo testo come di un esercizio surrealista”.
I saggi di Eco disegnano un pensiero medievale che, come il mosaico di Otranto, si concede il piacere di indugiare e di perdersi tra i rimandi simbo-lici, proprio perché crede fermamente nell’esistenza e nell’ordine gerarchico delle cose. E per quanto il medioevo fosse buio o luminoso come ogni altra epoca, rappresentava il mondo dipingendolo con colori elementari, vivaci e senza chiaroscuri. Le figure dei dipinti e delle miniature sembrano irradiare la luce. I poeti esaltano in un volto di donna la bellezza di “un viso di neve colorato in grana” (Guinizzelli). I teologi dibattono sulla realtà dei colori, persino di quelli cangianti che appaiono, e non sono, sul collo delle colombe. E i predicatori esaltano nei sermoni la bellezza delle biblioteche, piccoli paradisi in terra e custodi fedeli di infinite foreste di libri.
(L’autore è docente di Storia della filosofia medievale)