domenica 16 dicembre 2012

l’Unità 16.12.12
Caro Ingrao mi hai convinto
La lettera di Ettore Scola


Caro Pietro, ho visto il documentario Non mi avete convinto in edicola da domani con l’Unità. Il regista, Filippo Vendemmiati, è riuscito con tua figlia Chiara e tua sorella Giulia a farti parlare della tua passione di vita, della tua curiosità, dei tuoi dubbi.
Spero che tanti giovani ascoltino il tuo racconto. Nel quale però la modestia ti impedisce di parlare della forte influenza che hai avuto sulla mia generazione: su quelli che tu hai convinto. Mentre si concludeva la seconda guerra mondiale noi uscivamo dall’adolescenza; non eravamo andati in guerra, non avevamo combattuto il fascismo, né partecipato alla Resistenza. Il nostro presente era confuso come tutti i presenti, il nostro futuro nebbioso. Consumavamo la nostra inquietudine di studenti in camminate notturne che si protraevano fino all’alba, infiammate da inesauste discussioni sui libri letti, di Calvino e Camus, di Hemingway e Saroyan, sui film visti, di De Sica e Renoir, di Ford e Capra, sui duelli di Bartali e Coppi, sul confronto tra Nenni e Togliatti, sul Fronte Popolare.
Già. Qualche risposta all’ansia di capire, cominciavamo a trovarla nel Pci e nei nomi dei suoi leaders che già erano affiorati dalla guerra di Spagna, dal confino politico, dalla lotta partigiana. E tra i grandi contemporanei protagonisti della seconda metà del secolo ventesimo, quello che sentivamo più vicino a noi eri tu. Di soli quindici anni più grande, meridionale come me, svogliato studente di giurisprudenza come sarei stato io, dopo esserti iscritto al Centro Sperimentale di Cinematografia, eri approdato alla vita pubblica, distinguendoti tra i più sensibili al rapporto che c’è tra cultura e politica, tra la realtà che vivevo e quella che veniva rappresentata nella letteratura nella poesia nella pittura nel cinema. Ti avevo già conosciuto sulle pagine di Cinema, dove scrivevi con De Santis, Puccini, Lizzani, Pietrangeli, autori dei quali sarei diventato in seguito amico e collaboratore. Sergio Amidei, lo scrittore dei grandi film di Rossellini e De Sica, che accoglieva nella sua casa in piazza di Spagna le riunioni della direzione del Partito comunista clandestino, mi raccontava che nel ’44 eri andato con Mario Alicata a mostrargli la prima bozza dell’Unità che portava la notizia di «una donna romana uccisa dai tedeschi davanti al suo bambino»: quel giorno tu consegnasti a Amidei l’idea di una delle pagine più belle del cinema mondiale, la corsa di Anna Magnani che viene abbattuta da una raffica di mitra. Ti avevo spesso ascoltato nella folla che assisteva ai tuoi comizi, e lì si colmò la misura del mio innamoramento: perché tale fu il sentimento che da allora mi ha legato a te. Davanti ai cancelli della Fiat (il mestiere che facevo mi aveva portato a Torino, a seguire la vicenda di un ragazzo che emigra dal sud e da contadino diventa operaio) ogni lavoratore dell’autunno caldo parlava di te come di un suo amico personale, tutti ti chiamavano solo «Pietro», tutti erano tuoi innanorati. Per le elezioni europee del ’79 accompagnai come buttafuori Giorgio Amendola nel suo giro elettorale in Irpinia che è la mia terra; ad Avellino, il viale dei Platani era gremito di miei conterranei accorsi per sentire Pietro venuto da Roma a concludere la campagna di Amendola. Parlasti di fatica, di umiliazione, di solitudine. Parlasti al contadino che torna la sera dal lavoro nei campi, tenendo il figlioletto per mano, e quando incontra il padrone a cavallo si toglie la coppola. Anche il piccolo stava per scoprirsi il capo... ma nella piazza echeggiò il terribile «No» che tu gridasti dal palco per bloccare a mezz’aria il gesto di soggezione del bambino. «No, tu no, non devi inchinarti davanti al padrone; tuo padre con tutti noi difenderà il tuo diritto al lavoro e alla tua dignità».
Io credo che quel contadinello con la coppoletta ti sia rimasto dentro insieme con altri bambini che hanno accompagnato anche il nostro immaginario: il monello dell’immenso Charlot; il piccolo ebreo del ghetto di Varsavia anche lui con la coppoletta, come gli altri due con le braccia alzate in segno di resa davanti al soldato nazista che gli intima l’alt; il chierichetto piangente accanto al corpo della madre in Roma città aperta; l’orfanello in kepì mantellina bianca che guida il girotondo del finale di 8 e 1⁄2. Tutti quei fanciullini dentro di te non ti hanno voluto scrittore o regista o poeta a tempo pieno e ti hanno portato da un’altra parte, verso una politica che era un altro pensiero poetico.

l’Unità 16.12.12
Quella sera suonammo a casa di Pietro
di Andrea Satta


ABBIAMO CONOSCIUTO PIETRO INGRAO. C’ERA SUCCESSO, DI SFUGGITA, QUALCHE ANNO FA, SU UN PALCO MILITANTE, lui già anziano a testimoniare, col suo carisma, la battaglia numero 100 mila. Filippo Vendemmiati, il regista di «È stato trovato morto un ragazzo», il documentario sulla assurda morte di Federico Aldrovandi a Ferrara, ci aveva visto suonare a Bologna e, complice la passione che aveva per noi, Stefano Tassinari, lo scrittore che ci manca di più oggi, ci cercava da tempo.
In ballo, un documentario sulla vita di Pietro Ingrao. La luna, la lotta, la folla, la parola quindi le canzoni e noi autori delle musiche. A Filippo dicemmo: «Ci piacerebbe tanto conoscerlo per davvero, Pietro, e solo allora ci sentiremmo di lavorare a questo ritratto e da lì scarabocchiare sui nostri pentagrammi».
Così, un pomeriggio, Filippo ci propose un caffè a casa di Pietro. Non ci presentammo con gli strumenti. Pietro se ne stava nel salotto della sua casa semplice e ci sedemmo tutti sul divano, con la figlia Chiara e altri, in adorazione di un tè verde. Meglio delle parole iniziammo a suonare e cantare, un piccolo concerto d’appartamento, una dedica speciale, una prova emozionale per noi e per lui.
E fiorì la compagnia. Tese le note e tirata la rete, raccontato tante storie conosciute e dimenticate. Si sentiva bene ogni cosa, ci sentivamo bene noi. Quanto credevamo di aver abusato dell’accoglienza, volendo lasciare libera ogni considerazione, giunti al commiato, Pietro disse «Ma state andando via? Non potreste suonare ancora e poi non potreste ritornare? Non si può ripetere, non potremmo fissare già oggi un nuovo incontro? E quell’ultima canzone è vostra?» No Pietro, questa ultima è di Sergio Endrigo, è «Aria di neve». «Infatti – riprese lui mi pareva ... ».
Così, abbiamo scelto le canzoni e accompagnando con amore la sua vita di mille anni appassionati. La tenerezza di un uomo che parla lentamente e pure segue e ascolta ogni parola, dopo aver incendiato le folle e fatto spellare mani gonfie di rabbia e di speranza in ogni piazza di Italia, quella tenerezza era seduta accanto a noi silenziosa. Ora si poteva essere sereni pittori, appassionati di una vita bellissima. Attraversammo la strada più forti, nessun traffico urbano ci avrebbe mai potuto travolgere. Pietro Ingrao ci aveva convinto, lo avevamo convinto. Ecco, la scia che ancora saprà fiorire ha già messo nuovi germogli.

Da domani il film in edicola con l’Unità

Un’altra grande iniziativa del nostro giornale in collaborazione con Luce Cinecittà. Da domani e per due settimane troverete in edicola con l’Unità «Non mi avete convinto», il film documentario di Filippo Vendemmiati dedicato a Pietro Ingrao (7,90 euro più il prezzo del giornale). Ingrao, 97 anni, si racconta a distanza con uno studente degli anni Ottanta che attraverso la radio
ascolta un suo intervento durante il XVI Congresso del Pci (marzo 1983). Una lunga intervista ad Ingrao realizzata da gennaio a giugno 2012, corredata da materiali d’archivio anche inediti e commentata dalla musica dei Tetes de Bois. Un lavoro appassionato, un «film d’amore» come lo ha definito il regista su un uomo che ha attraversato con coerenza e lucidità il Novecento.

l’Unità 16.12.12
Europa progressista si schiera con Bersani e col Pd
Desir e Venizelos: sì può cambiare
Alla conferenza «Progressive Alliance» i leader di Ps, Spd e dei partiti di centrosinistra di tutto il mondo
di Simone Collini


Ieri c’è stato l’assaggio. Ma il vero appuntamento sarà il 9 febbraio, a Torino, quando a pochi giorni dalle elezioni (la data del 17 viene data per praticamente certa) verranno a lanciare la volata a Pier Luigi Bersani primi ministri e leader dei principali partiti progressisti europei. Bisognerà vedere da qui a tre settimane quali saranno le offerte politiche, ma se pure Mario Monti alla fine dovesse decidere di partecipare alla competizione, sarebbe difficile continuare a sostenere che tutte le speranze dell’Europa sono appese a un bis.
Sotto la Mole, a schierarsi a favore della candidatura a Palazzo Chigi del leader del Pd, ci saranno il primo ministro francese Jean-Marc Ayrault e quello belga Elio Di Rupo, il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz e il candidato Cancelliere che sfiderà Angela Merkel alle elezioni tedesche dell’autunno prossimo Peer Steinbrück, il leader della Spd Sigmar Gabriel, quello del Labour Party Ed Miliband, quello del Partito socialista francese Harlem Dèsir e molti altri. L’appuntamento è la versione italiana dell’iniziativa organizzata a marzo a Parigi per offrire una sponda a un François Hollande che rischiava un isolamento a livello internazionale (si parlò anche di pressioni da parte di Merkel per non farlo ricevere dai capi di Stato e di governo). Come allora, a lavorarci è la Fondazione europea di studi progressisti (Feps) presieduta da Massimo D’Alema. E come allora, ci sarà una giornata seminariale, venerdì 8, e poi una dal taglio squisitamente elettorale, con appelli al voto, sventolio di bandiere, photo opportunity.
Il carattere elettorale è stato volutamente lasciato in secondo piano ieri, alla prima conferenza della “Progressive Alliance”. I leader progressisti arrivati da praticamente ogni angolo del mondo hanno discusso di come superare la crisi, della necessità di affiancare alle misure per il rigore precise politiche per lo sviluppo, di come garantire il welfare e migliorare la giustizia sociale. All’appuntamento organizzato dal dipartimento Esteri del Pd guidato da Lapo Pistelli hanno parlato di come rafforzare il fronte progressista e superare le politiche dei conservatori. E in ogni intervento i leader del Ps francese, della tedesca Spd, del Partito dei lavoratori brasiliano, del Partito del congresso indiano, dei Democratici statunitensi e del greco Pasok, hanno sostenuto la necessità che anche in Italia ci sia un governo di centrosinistra.
«In Bersani sono riposte le speranze dei progressisti, non solo in Italia ma in tutta l’Europa», dice Dèsir. «Tutti sappiamo quanto è impegnativo affrontare una campagna elettorale osserva Gabriel in questa situazione il Pd ha trovato la forza per organizzare una manifestazione del genere, non va sottovalutato». I progressisti, sottolinea il direttore del Wto Pascal Lamy «devono lavorare per costruire un’alternativa». Dice il segretario del PvdA danese Hans Spekman: «Mi auguro che tutti i progressisti europei vincano, per rendere il mondo migliore». E Peter Shumlin, governatore del Vermont e presidente dei governatori Democratici Usa: «Lavoriamo insieme per governi progressisti democraticamente eletti in tutto il mondo».
Bersani, che domani incontra il presidente dell’Anp Abu Mazen, incassa e dice che l’«incoraggiamento» che arriva dai leader progressisti degli altri Paesi carica il Pd di una «responsabilità ulteriore» perché la posta in gioco è «un cambiamento possibile negli equilibri politici italiani e anche europei»: «Prendo qui l’impegno a vincere molto per noi ma un pochino anche per voi». La sfida per i progressisti, sottolinea il leader Pd, è quella di ridare sovranità alla politica di fronte a mercati che sembrano onnipotenti, di rimettere al centro l’economia reale per fermare regressione e spinte populiste, di affrontare la crisi non solo dal lato dell’austerità e di ridare senso alla parola solidarietà.
Ad applaudirlo ci sono il leader di Sel Nichi Vendola, quello del Psi Riccardo Nencini e tutti gli altri. La foto a fine giornata è tra il segretario del Ps Dèsir e quello della Spd Gabriel. Al quale dice: «Sarei felicissimo di festeggiare un bel risultato italiano in Germania». Gabriel fa segno ok col pollice alzato. Una vittoria del Pd in Italia, dopo l’arrivo all’Eliseo di Hollande, sarebbe una buona seconda tappa di avvicinamento alle elezioni tedesche del prossimo autunno.

l’Unità 16.12.12
Harlem Désir
«È ora di lasciarci alle spalle il fallimentare ciclo della destra»
«L’Europa è al centro della crisi mondiale anche grazie alle politiche seguite dai conservatori in tutte le loro declinazioni, tecnocratiche e populiste
di U.D.G.


Dopo Parigi, il futuro di un’Europa che lascia alle sue spalle il fallimentare ciclo conservatore, passa ora per Roma e Berlino. A sostenerlo è Harlem Désir, segretario generale del Ps francese. «L’Europa annota è al centro della crisi mondiale perché la destra, in tutte le sue declinazioni, tecnocratiche e populiste, non è stata capace di attaccare la speculazione, smantellando così lo stato sociale e aggravando la situazione. Abbiamo una grande responsabilità verso la Grecia, la Spagna e gli altri Paesi attaccati dalla speculazione finanziaria e la risposta a questa crisi deve essere europea, un’Europa differente che discuta di crescita e solidarietà, che disponga di una moneta comune e di una finanza comune, partecipe di un’avventura comune: non vogliamo un’Europa del nord contro un’Europa del sud».
A cosa serve oggi l’«Alleanza dei progressisti» e quale orizzonte indica all’Europa?
«C’è bisogno di questa alleanza innanzitutto perché la crisi globale ha creato una situazione in cui la risposta dei conservatori è stata soprattutto una risposta di rigore, senza tenere in alcun conto la necessità di attivare politiche di crescita. La destra è stata incapace di frenare la speculazione finanziaria e il rigore a senso unico ha provocato movimenti nuovi e proteste in tutto il mondo, di cui sono espressione movimenti quali Occupy Wall Street e gli Indignados. Movimenti di protesta che stimolano i progressisti a un maggior coraggio e discontinuità nell’affermare con forza una visione solidale e di sviluppo per l’Europa. L’alleanza dei progressisti è un passaggio obbligato, se si vuole davvero far vivere una Europa ispirata da principi di equità e giustizia sociale».
La «Progressive Alliance Conference» arriva a pochi mesi dalle elezioni in Italia. «Questo meeting avviene in un momento molto importante, strategico, per l’Italia visto che tra pochi mesi vi saranno le elezioni. Dopo la vittoria di Hollande in Francia, noi speriamo nella vittoria di Bersani e del Pd in Italia. Le primarie sono già state un successo straordinario, di grande mobilitazione, che hanno dimostrato come la gente creda in un’alternativa politica a Berlusconi e agli anni del berlusconismo. Dopo gli sforzi di Monti, anche le primarie hanno fatto capire che va ora dispiegata una risposta che sia altrettanto seria ma che aggiunga crescita, lavoro. Un discorso che vale per l’Italia come per tutta l’Europa. Poi vi saranno le elezioni in Germania e se anche lì andranno bene per le forze di progresso, questo significherà che c’è una svolta in Euro-
pa, dove politiche nuove potranno svilupparsi. I governi conservatori non hanno saputo rispondere alla crisi finanziaria, sociale e democratica. Spetta alle forze socialiste, progressiste, democratiche affermare le loro capacità di rilanciare insieme il progetto europeo. Questo, in ultima analisi, è l’ambizioso progetto dell’«Alleanza progressista»: dimostrare che l’Europa non è bloccata, ma è sul punto di ripartire grazie alle proposte progressiste. Dobbiamo aprire un grande dibattito sul Patto per la crescita con i cittadini, con le parti sociali, perché l’Europa è in primo luogo un grande progetto politico che ha bisogno non solo di scelte concrete nell’immediato ma di un’anima. E questo significa, peraltro, rafforzare la dimensione democratica del progetto europeo».
In una intervista concessa a l’Unità dopo la vittoria socialista alle presidenziali, lei aveva sostenuto che Hollande non avrebbe sostituito al “Merkozy” un nuovo patto di ferro con la cancelliera Merkel. È ancora di questo avviso?
«Da quando Hollande è stato eletto ha voluto da subito in Europa una dinamica collettiva, sia per quanto riguarda gli aiuti alla Grecia sia per ciò che concerne le risposte da dare, collettivamente, ai mercati. Mi riferisco, ad esempio, alla supervisione bancaria che è stata appena decisa dall’Europa, alle risorse per la crescita, alla tassa per le transazioni finanziarie. Tutto questo ha richiesto una risposta europea. Per noi la relazione franco-tedesca è importante: come socialisti abbiamo un forte legame con la Spd. Ma questo, insisto, va inserito in una dinamica europea. Anche per questo è importante la vittoria di Bersani qui in Italia, come di quella di Peer Steinbrück in Germania: affermazioni che, unite a quella di Hollande in Francia, darebbero nuovo slancio e vigore a una dinamica europeista».

l’Unità 16.12.12
Evangelos Venizelos
«Dalla vittoria italiana una Ue più solidale e più giusta»
«La sfida è cambiare l’idea stessa di Europa, nel nome di principi alternativi
a quelli dei conservatori Stop agli egoismi nazionali per tornare a crescere»
di Umberto De Giovannangeli


«Non solo per gli italiani, ma per i greci e per l’Europa sarebbe di grande importanza la vittoria del centrosinistra e del suo leader Pier Luigi Bersani nelle elezioni di febbraio, così come lo è stata la vittoria di François Hollande in Francia. La sfida dei progressisti è quella di cambiare il concetto stesso di Europa, nel nome di quei principi di giustizia sociale e di crescita solidale che sono alternativi alla visione dei conservatori». A sostenerlo è Evangelos Venizelos, presidente del Pasok, già ministro delle Finanze con il premier Loukas Papademos.
Nel vivo di una crisi tutt’altro che risolta, qual è a suo avviso la sfida che i progressisti europei hanno davanti a sé? «Quella di vincere gli egoismi nazionali e dimostrare con i fatti che rigore e crescita non solo non sono inconciliabili ma, al contrario, la crescita è fondamentale per contenere il debito pubblico senza determinare ricadute sociali insostenibili».
Qual è l’ostacolo principale su questa strada?
«Le chiusure nazionali, l’idea che sia possibile salvarsi da soli; un’idea che impedisce la realizzazione di uno schieramento per la crescita trasversale, che unisca cioè governi e Paesi a guida socialista e quelli a leadership popolare. L’ostacolo da rimuovere sono i particolarismi nazionali, e se ciò non è stato possibile è anche per un deficit politico e di dibattito culturale sull’idea di Europa nell’Ue».
A chi si riferisce quando parla dell’idea che sia possibile salvarsi da soli?
«Gli eventi di questi anni stanno a dimostrare come nell’Ue sia in atto una guerra fredda finanziaria e sui conti, tra quelli che definisco i Paesi della tripla A e quelli del sud Europa. In questa fase storica c’è una grande distanza tra questi due gruppi. Il compito dei progressisti europei è quello di porre fine a questa guerra. In gioco è il futuro dell’idea stessa di Europa».
Venendo alla situazione del suo Paese, quale lezione l’Europa dovrebbe trarre dal caso greco?
«La Grecia è un laboratorio molto interessante, anche drammaticamente interessante. Noi siamo impegnati, per molti versi costretti, a politiche di rigore molto rigide imposte dai nostri partner europei. In questa difficile opera di risanamento, bisogna distinguere tra due colonne portanti: le riforme strutturali e il contenimento del debito pubblico. La riduzione del deficit non può essere imposta in un tempo troppo ristretto perché questa “strozzatura” temporale rischia di vanificare qualsiasi riforma strutturale che vada nella direzione della crescita e dell’occupazione. Si tratta di spezzare questo circolo vizioso: la Grecia non chiede più soldi all’Europa, chiede di avere il tempo necessario per attuare un contenimento del debito che non produca nuova recessione con devastanti ricadute sociali».
Il Pasok è stato criticato da sinistra per aver condiviso le politiche di austerità del governo Samaras
«Per la Grecia in questo momento non esiste nessuna alternativa. Noi socialisti abbiamo sostenuto per un senso di responsabilità nazionale le decisioni difficili, storiche, prese sull’austerità. Anche se abbiamo pagato un prezzo molto alto, basti pensare che siamo passati dal 44% delle elezioni del 2009 al 12,2 di quest’anno. Ma qualsiasi governo in questa situazione avrebbe dovuto prendere queste decisioni, per il futuro del Paese. Altrimenti c’è il populismo. Noi siamo orgogliosi delle nostre scelte. Ciò che in questa situazione di estrema difficoltà cerchiamo di fare, come socialisti, è di indirizzare risorse verso politiche di occupazione. Ma ciò viene reso ancor più difficile dai vincoli troppo stretti imposti dall’Europa». Un’Europa che passa anche dalle scadenze elettorali del 2013. Visto dal laboratorio greco, cosa significherebbe un successo del centrosinistra in Italia? «Sarebbe un passo avanti sostanziale nella direzione di un’Europa che punta sulla crescita e sulla solidarietà tra i Paesi che ne fanno parte. Un primo passo è stato compiuto con la vittoria in Francia di Francois Hollande e del Ps, e ora lo slancio decisivo potrebbe arrivare dalla vittoria in Italia del centrosinistra guidato da Pier Luigi Bersani e, nell’autunno 2013, dal successo in Germania della Spd. La vittoria del centrosinistra in Italia darebbe nuova linfa e prospettiva a un “patto per la crescita” tra i Paesi euromediterranei».

l’Unità 16.12.12
Il segretario: Monti non ci preoccupa
D’Alema: «Curioso se divenisse il leader di chi l’ha sfiduciato»
Orfini: «Nel listino solo società civile, i big si candidino ai gazebo»
Vendola: «Ricostruire insieme la politica»
di S. C.


«Stucchevole». Così Pier Luigi Bersani definisce la discussione sull’eventuale candidatura di Mario Monti. Il leader del Pd ribadisce che sarebbe più utile se l’attuale premier «mantenesse una posizione di terzietà» e finisce la frase dicendo che sta comunque a lui decidere quel che riterrà più opportuno. «Noi siamo tranquilli, non c’è nessuna preoccupazione da parte nostra». Però non piace a Bersani il protrarsi di una situazione d’incertezza e il fatto che al centro del dibattito politico non ci sia un confronto programmatico. Anche perché alla data delle elezioni ormai non manca tanto, e anzi tra tre settimane (se venisse confermato il 17 febbraio come giorno delle elezioni) andranno depositate le liste elettorali: «Si esca da una discussione un po’ stucchevole, siamo a poche settimane dalla presentazione delle candidature».
Il leader del Pd parla durante una pausa dei lavori della prima conferenza della “Progressive Alliance”. Il sostegno dei leader progressisti arrivati dai cinque continenti lo mette di buon umore. Quello che legge sui giornali o ascolta in tv no. «C’è tanto chiacchiericcio, una discussione stucchevole su chi arriva e chi parte, ma vogliamo discutere di come si fa questo Parlamento? Qualcuno vuole chiedersi e chiedere come gli altri scelgono i deputati, o è un problema solo nostro? Eppure questo tema è totalmente scomparso dall’orizzonte politico». Il riferimento è agli articoli che parlano di qualche esponente del Pd (ex-ppi o i cosiddetti montiani) tentati dall’addio per approdare alle liste centriste («ma chi volete che se ne vada», sorride), al fatto che le prime pagine sono ancora occupate da uno che «sicuramente non vincerà» come Silvio Berlusconi, che la decisione del Pd di organizzare le primarie per scegliere i candidati parlamentari, non cedendo alla logica del Porcellum accettata dagli altri, non gode della giusta considerazione.
PRIMARIE PD E SEL INSIEME
Alle primarie del 29 e 30 è dedicata la direzione del Pd che si riunisce domani sera, e che vista la delicatezza della questione e i tanti nodi da sciogliere (comprese le deroghe per chi ha più di 15 anni in Parlamento alle spalle) proseguirà anche nella giornata di martedì. I segretari regionali arriveranno in mattinata a Roma per presentare le loro proposte di regolamento. La discussione non mancherà, anche perché c’è già chi contesta la data scelta e chi vuole che nessun big sia esonerato dalla corsa ai gazebo. Come Matteo Orfini, per il quale nella «quota bloccata» dovrebbero trovare spazio soltanto personalità della società civile.
Sulla data non ci saranno ripensamenti. Nel Pd si ragiona ormai sul 17 febbraio come giorno delle elezioni. Il che vuol dire che le liste elettorali vanno consegnate entro la seconda settimana di gennaio. E prima è necessario che ottengano il via libera da parte della direzione del partito.
Non sfugge che organizzare due giornate di mobilitazione nel periodo delle feste è complicato, ed è in parte rispondente a questo il fatto che le primarie del Pd e quelle di Sel si svolgeranno nelle stesse sedi. Ad annunciarlo sono gli stessi Bersani e Vendola, incontrando insieme i giornalisti durante una pausa dei lavori della conferenza progressista. Dice il leader di Sel: «Mentre molti fanno dotte discussioni sulla fuga dalla politica, Pd e Sel scelgono la gran parte dei deputati con una prima sperimentazione di ricostruzione della politica come proprietà pubblica». Vendola insiste anche sul fatto che in futuro non servirà seguire l’agenda Monti, ma l’agenda, dice con una voluta pausa tra le due sillabe, «mon-do».
L’attuale premier ancora non scioglie le riserve su una sua eventuale candidatura. Bersani fa sapere che lui e Monti si sentono spesso («più di quanto immaginiate, tra di noi c’è una grande amicizia») ma non negli ultimi due giorni. Chi ha parlato col capo del governo, nei giorni scorsi è Massimo D’Alema. Che a chi lo avvicina durante la conferenza dei progressisti racconta questo episodio per spiegare il suo scetticismo circa una candidatura di Monti a capo di una coalizione che vada dai centristi a una parte del Pdl: «L’altro giorno ho votato la fiducia al governo Monti, peraltro su un provvedimento impopolare, e davanti a me c’era Cicchitto che invece si asteneva. L’idea che domani il leader di Cicchitto diventi l’uomo al quale io ho votato la fiducia, e lui no, mi sembra quantomeno un po’ strana».

il Fatto 16.12.12
Pier Luigi Bersani
La sinistra a un passo dal potere: “Vincerò”
di Paola Zanca


HA SUPERATO LE PRIMARIE, È ALLA GUIDA DI QUELLO CHE I SONDAGGI INDICANO PRIMO PARTITO, MA LA CANDIDATURA DEL TECNICO PUÒ ROVINARGLI I PIANI
Io sono tranquillo, non c’è nessuno più tranquillo di me. Non ho nessuna preoccupazione: aspettiamo che ci siano decisioni e si esca da una discussione un po’ stucchevole”. A Pier Luigi Bersani, che Mario Monti rimanga sulla scena, non fa paura. Preferirebbe restasse “in una posizione di terzietà”, magari al Quirinale, ma non può farci nulla. Ieri, per la prima volta da quando è stato incoronato dalle primarie, si è fatto rivedere con i suoi due alleati di “sinistra”, il socialista Riccardo Nencini e Nichi Vendola, leader di Sel. Con questa alleanza è convinto di poter vincere le elezioni. Ha perfino pensato dove festeggiare: in Germania, “sarebbe una grandissima soddisfazione...”. E ai progressisisti europei riuniti ieri a Roma ha promesso: “Vincerò per l’Italia e anche un po’ per voi”.

L’Huffington Post 16.12.12
Primarie Pd, Matteo Orfini: 

"Tutti i parlamentari e dirigenti si misurino con gli elettori. Lista bloccata solo per la società civile"
di Pietro Salvatori

qui

Repubblica 16.12.12
Primarie Pd, solo 7 deroghe per gli “elefanti”
Quarantenni all’attacco: “Nel listino riservato la società civile, via i dirigenti”
di Giovanna Casadio


ROMA — Tutto di corsa. Stasera la bozza di regole; domani la ratifica in Direzione e le deroghe agli “elefanti” - i leader di lungo corso -; il 29 e il 30, alla vigilia del Capodanno più frenetico dei Democratici, le primarie per i parlamentari. Dalla Romagna fanno sapere che almeno un candidato a proprio agio in tanta velocità c’è: Josefa Idem, la canoista olimpica, sta pensando di correre alle primarie del Pd a Ravenna. Ma è tutto un rincorrersi di nomi, di polemiche e soprattutto di numeri.
I numeri. Saranno non più di 6/7 le deroghe agli “elefanti”, a quei dirigenti democratici che, per Statuto, non sono più candidabili perché hanno oltre 15 anni di legislature. A chiedere il lasciapassare sulla carta dovevano essere una trentina, ma molti hanno fatto il famoso passo indietro (D’Alema, Veltroni, Castagnetti, Turco, ora anche Anna Serafini). Le richieste saranno presentate da Rosy Bindi, la presidente del partito; Beppe Fioroni, leader dei Popolari; Gianclaudio Bressa; forse da Franco Marini; da Anna Finocchiaro, la presidente dei senatori (convinta da Bersani). Tra 80 e 100, i componenti del “listino riservato”, che Bersani sceglierà in base a competenze, società civile e rappresentanza femminile. Il segretario democratico vorrebbe vi facessero parte personalità come Gustavo Zagrebelsky, Carlo Galli, Massimo D’Antoni, Miguel Gotor, e alcuni politici (Migliavacca, Enrico Letta, Franceschini, Donatella Ferrante) più Alessandra Moretti, Tommaso Giuntella, Roberto Speranza che hanno coordinato le primarie per Bersani candidato premier. Chi è nel listino non deve gareggiare alle primarie. E qui, scoppia la polemica; i t/q (trenta/quarantenni) vanno all’attacco.
Matteo Orfini, responsabile Cultura del partito, che si candiderà alle primarie a Roma-città (come Stefano Fassina), chiede che la lista bloccata sia solo per la società civile. Gli altri - parlamentari ricandidati, dirigenti, derogati - «si misurino con le primarie». Senza eccezioni. L’ultima parola spetta alla Direzione di domani. Lì Orfini formalizzerà la sua proposta, appoggiato da Pippo Civati, che apre un altro fronte: «Le primarie si facciano all’Epifania, lo chiedono gli stessi volontari sotto pressione». Secondo la bozza delle regole, i parlamentari uscenti non hanno bisogno di firme per candidarsi. Anche se Andrea Orlando, responsabile Giustizia, le sta raccogliendo ugualmente. Le liste dei candidati saranno su base provinciale; possibile la doppia preferenza ma di genere. Matteo Renzi (che non sarà in Direzione domani) sta lavorando per individuare una rosa di suoi disposti a competere: Reggi (a Piacenza); Richetti (a Bologna); Rosa Di Giorgi
(a Firenze); Scalfarotto. Poi ci sono i parlamentari renziani in gara: Ichino, Adinolfi, Ceccanti, Recchia, Sarubbi, Vassallo, Giachetti. Gentiloni forse, ma è candidato sindaco di Roma. C’è un “caso Lazio”: gli ex consiglieri regionali (non ricandidati alla Regione dopo lo scandalo sui rimborsi elettorali), sono pronti alle primarie. Fioroni scrive su twitter: «Sto preparando le primarie». Idem Vinicio Peluffo: «Lavoro alle primarie del Pd». Un’altra partita deroghe riguarda i sindaci: quello di Livorno, Alessandro Cosimi la chiederà. In Emilia, Errani non si candida, né il segretario regionale Stefano Bonaccini.

l’Unità 16.12.12
Tra i vescovi e le elezioni tanti cattolici che votano Pd
La Cei, come è giusto, dirà la sua. Ma la simpatia per Monti non può spingerla fino a negare altre opzioni
di Domenico Rosati


C’è molta e comprensibile attesa sull’atteggiamento che potrà prendere l’episcopato italiano in vista della campagna elettorale. Non c’è mai stata consultazione senza che la voce dei vescovi si facesse sentire.
Una voce ora più forte e sicura ora più sommessa, mai incerta. E non sono mancate, per stare alle vicende dell’ultima transizione italiana, alcune evoluzioni di atteggiamento come nel caso delle elezioni del 1994.
Una campagna condotta all’insegna dell’esigenza di non disperdere il patrimonio di valori accumulato nell’esperienza democristiana (reincarnata nel fragile ma rigoroso esperimento popolare di Martinazzoli) ma subito dopo, a risultato acquisito, corretta dalla brusca apertura di credito tanto generosa verso Berlusconi quanto taccagna verso il politico bresciano, che pure aveva tenuto il campo con dignità e onore.
Dunque nessuna meraviglia, o peggio scandalo, se anche stavolta i vescovi, la Cei in primo luogo, si faranno sentire; ed è auspicabile che lo facciano non tanto (o non solo) su una determinata agenda politica, quella che va sotto il nome del senatore Monti, ma più propriamente su quella più vasta e impegnativa visione globale delle sfide economico-sociali ed anche etico-valoriali che concernono l’Italia, ovvero i cittadini italiani e il loro futuro in Europa. Per fare questo occorre indagare sui passi compiuti nel tempo trascorso dal 1994 ad oggi, ricostruire il tracciato della transizione incompiuta, verificare se un di più di fiducia non sia stato accordato a soggetti che non lo meritavano, neppure sulla tutela dei principi irrinunciabili, per tacere delle derive mercantilistiche che hanno tramutato la promessa del milione di posti di lavoro in una contrazione macroscopica dello sviluppo e dell’occupazione.
Del resto, solo con questa premessa può risaltare il significato dell’azione del governo Monti come contraccettivo (passi la parola) al disordine gestionale, con la conseguente considerazione del ruolo che nelle vicende dell’ultimo anno ha svolto la principale forza politica oggi presente nel Paese. Sia nel sostenere la linea di austerità che nel non insabbiare quella del rilancio economico e sociale. La quale forza, parliamo del Pd, giustamente rivendica di aver tenuto in piedi il governo assecondandone l’azione a tutto campo, che ha dilatato i margini ristretti che all’origine gli venivano concessi dal centrodestra, per il quale Monti avrebbe dovuto operare solo nell’ambito degli impegni già sottoscritti da Berlusconi. Riconoscerlo non è una concessione, ma solo un atto di verità. Ma c’è anche un altro profilo su cui richiamare l’attenzione della gerarchia cattolica: ed è che nell’ultimo decennio le propensioni degli elettori cattolici si sono riversate proprio sul Pd, e giustamente domandano che tale loro opzione, opinabile come tutte le altre, venga adeguatamente considerata senza trattamenti di favore e senza discriminazioni. Come anche i sondaggi rivelano, il pluralismo dei cattolici nelle scelte politiche non è più sinonimo di diaspora, ma rivela una significativa polarità sull’area del centrosinistra. Tenerne conto è segno di avvedutezza non tanto politica quanto pastorale.
Difficile irrobustire la «tenuta» del Popolo di Dio se si avalla l’idea che solo ad una parte sia accordato un imprimatur di cui qualcuno purtroppo si vanta; e che gli altri, pur non più condannati, restino nel limbo. È invece auspicabile che il messaggio della Chiesa sulla giustizia e la pace, e sulla necessità di non trattare al ribasso le istanze valoriali più avvertite (che vuol dire ricerca delle mediazioni più alte nell’organizzazione della convivenza), possa giungere senza diaframmi politicistici alla coscienza di ogni credente. Se è lecito aggiungere un argomento, andrebbe osservato che tutto questo da necessario che è in assoluto diventa particolarmente stringente mentre corrono i giorni dell’Anno della fede. Anche nella proiezione politica dei cattolici vi sono abitudini, resistenze, incrostazioni che impacciano il cammino della cattolicità, nel senso di universalità. Giovanni XXIII parlò dei «profeti di sventure», spinse la Chiesa a liberarsi dei residui del temporalismo e creò le premesse per riaccreditare la fede cristiana fuori da un regime sociologicamente e politicamente protetto. Su questa frontiera la storia offre oggi alla comunità dei credenti una nuova opportunità di risolvere in termini positivi il dilemma: essere moderati del ristagno o autentici profeti di speranza?

il Fatto 16.12.12
Rivelazioni
Il premier Monti e il suo “Avvenire” politico
di Marco Politi


L’avvenire di Monti si legge su Avvenire. Mentre l’Italia politica si scervella sulle prossime mosse del premier, il giornale dei vescovi riporta – unico tra i media – le parole dirette di Monti sui suoi progetti, le sue alleanze, il suo favore per un Centro riformista alternativo al Pd. Sul quotidiano dei vescovi i giornalisti Arturo Celletti e Marco Iasevoli scrivono che dopo il vertice di Bruxelles, “lontano da telecamere e taccuini”, Mario Monti “prende fiato e rilancia la sua azione politica”. Non sono parole di chi si ritira a febbraio. “La mia bussola è l’europeismo, il mio progetto è completare una stagione di riforme e restituire luminosità all’Italia... ”. Frasi di un leader politico, che detta il programma per il suo schieramento.
CHE IL GOVERNO di Monti fosse “tecnico” è una favola a cui hanno creduto soltanto coloro che amano lasciarsele raccontare. Il governo del premier è stato politicissimo nelle sue scelte, nelle sue rinunce, nelle sue omissioni. Ma qui – e nel seguito della testimonianza verbale riportata da Avvenire – assistiamo alla trasformazione in diretta del premier super partes in uno stratega della campagna elettorale. Assistiamo al colloquio a quattr’occhi tra Bersani e il premier. “Presidente, noi la proporremmo per il Colle”, gli dice il segretario del Pd. Replica Monti e Avvenire riporta testualmente: “C’è un lavoro da finire, di cui avverto la responsabilità. Le riforme vanno completate”.
E si arriva al capitolo Berlusconi. Monti detta: “Non potrei mettermi a capo di una coalizione disomogenea, in cui chi vuole sinceramente le riforme convive con chi le ostacola. Non è questo il mio progetto…”. Senza giri di parole il premier aggiunge: “È il momento di mettere ogni cosa in chiaro: io non rappresento la continuità con Berlusconi. Abbiamo un’idea diversa di Italia, di Ppe, di area moderata. E non mi presterò mai alle logiche del consenso”. Altrimenti il “mio impegno, non rappresenterebbe nulla di nuovo”. Veramente non avevamo ascoltato il premier usare in Parlamento parole di così netta ripulsa del suo predecessore. Ma questo si può capire, era il governo di emergenza… Da leader in pectore dello schieramento “Monti for President”, il premier mette paletti: “Non è possibile aprire le porte a chiunque”. La squadra di Mario, così come lui la delinea, mira a emarginare definitivamente Berlusconi, impedendogli di pesare sul futuro governo, e mettere invece insieme il Pdl “responsabile”, l’Udc e Montezemolo. Con le sue parole: “C’è spazio per la società civile e il rinnovamento, ma anche per la buona politica, per coloro che hanno sostenuto senza esitazioni questo governo, per gli europeisti convinti, per chi non opporrà resistenze corporative alle riforme di cui ha bisogno il Paese”.
Nella sfera di cristallo di Avvenire, che non indulge abitualmente a fantasiose ricostruzioni e che con queste dichiarazioni in diretta diventa canale privilegiato di un’operazione politica – che vede i vertici ecclesiastici interessatissimi a costruire un baluardo contro il possibile avvento di un governo a guida Bersani – vediamo il premier volere un progetto (sono parole sue) “serio, realista, riformista”. Altrettanto sue sono le parole, che definiscono questo progetto epurato dalle pulsioni di destra anti-europea e “alternativo alla sinistra”.
E QUI SI POSSONO chiudere i taccuini e tirare le somme. Attraverso il giornale dell’episcopato apprendiamo che Monti è pronto a dare il patronato a una lista, che lo candida presidente (o se proprio non ci si riesce, allora una lista Udc, una Montezemolo e una del Pdl smacchiato, convergenti sul suo nome). I vertici ecclesiastici tifano e premono disperatamente per questa soluzione – in diretta connessione a livello europeo con i leader del Ppe – perché sanno che l’Udc e Montezemolo da soli, agitando l’indefinita “agenda Monti”, non sfondano elettoralmente. Perché non riescono nemmeno a copiare l’agenda sociale dell’ultimo Messaggio per la pace di Benedetto XVI.
Il segretario del Pdl Alfano si precipita dal cardinale Ruini per riaccreditare la sua parte politica. Ruini è responsabile della Cei per il “Progetto culturale”, ha scritto un recente libro “Intervista su Dio”, perché ritiene che la questione-Dio sia un discrimine per la società moderna. Dovrebbe avere altri obiettivi. Ma intanto accetta che si sappia dappertutto che tratta con un leader partitico e ne “incontro altri” in vista delle elezioni.
Monti ha sempre considerato e trattato le gerarchie cattoliche come un potere forte su cui appoggiarsi. Ultimo regalo il non avere indicato come causale dell’8 per mille statale l’“aiuto ai terremotati dell’Emilia” per non entrare in concorrenza con l’8 per mille ecclesiastico.
Per salvare le apparenze il premier (leggiamo su Avvenire) fa sapere: “ Non diventerò mai uomo di parte, non sarò organico ad alcun partito e ad alcuna ideologia politica”. Fragile foglia di fico. La differenza tra capeggiare una lista o uno schieramento politico è piuttosto evanescente. Si spiega così l’ira di D’Alema. Ancora pochi giorni e l’ultimo velo cadrà. Venerdì Mr. Monti-bis si manifesterà: “Indicherò un’agenda precisa, con quella dovranno misurarsi tutti quelli che ci stanno”.

Corriere 16.12.12
Discesa in campo, sì dal 30% Più tra i votanti pd che nel Pdl
Favorevole il 44% tra i democratici, no da 8 su 10 nel centrodestra
di Renato Mannheimer


Tutti — cittadini, forze politiche, osservatori internazionali — attendono (qualcuno anche con apprensione) di sapere se Monti accetterà di candidarsi alle elezioni. La sua discesa in un campo più direttamente politico è auspicata da molteplici persone e istituzioni, ma è, al tempo stesso, vista con sfavore da molti altri, a partire dai dirigenti del partito che raccoglie oggi la più ampia quota di consensi, il Pd. Anche l'insieme dell'elettorato si divide riguardo a una simile prospettiva. Una quota ampia — circa il 30% — la vede con favore. Si tratta, in particolare, dei cittadini di età centrale, con titoli di studio relativamente più elevati. Dal punto di vista politico, si rileva una più accentuata presenza di favorevoli nell'elettorato dell'Udc, ma anche in quello stesso del Pd: quasi metà (44%) dei votanti per il partito di Bersani dichiara di auspicare la candidatura del Professore, nonostante il parere contrario del segretario. È un altro segno delle differenze di opinione (in certi casi, delle fratture) che caratterizzano già ora il maggiore partito italiano e che potrebbero creare in futuro non pochi problemi a quest'ultimo.
Ma, a fronte dei favorevoli, si contrappone un gruppo, assai più numeroso (61%), di contrari, di varia provenienza politica e sociale. Vi si trovano, in misura relativamente maggiore, i cittadini di più giovane età, i residenti al Sud (e nei piccoli comuni) e, specialmente, gli elettori del Pdl, ove la contrarietà raggiunge quasi l'80%. Ma anche la netta maggioranza dei votanti per la Lega e per il Movimento 5 Stelle (in entrambi i casi il 70%) si dichiara contraria a una candidatura di Monti.
Nell'insieme, tuttavia, i fautori di una presenza del Professore alle prossime elezioni risultano, considerando l'intera popolazione, più di quelli che auspicano la candidatura di Silvio Berlusconi.
Al di là del generico favore (o sfavore) per la discesa in campo del Professore, ci si deve però domandare quale sarebbe l'effettivo seguito su cui Monti potrebbe contare nel caso formasse una sua lista e quello che otterrebbe coalizzandosi con le altre forze politiche che già hanno espresso valutazioni positive sulla sua candidatura. Oggi circa il 3-5% dell'elettorato si dichiara già pronto, senza riserve, a votare alle elezioni una lista capeggiata da Monti. È meno di quanto alcuni osservatori si aspettano, ma occorre ricordare che, anche in passato, alcuni leader sono riusciti a conquistare una platea vasta, pur partendo inizialmente da un consenso limitato. E che altri hanno influito fortemente sulla politica italiana disponendo di meno del 10%. In ogni caso, accanto ai voti «certi», occorre tener conto già oggi del mercato potenziale, composto da chi, pur non avendo già deciso di votarlo, dichiara però di prendere seriamente in considerazione l'opzione per il Professore. Si tratta di un altro 8-10% di elettori. Naturalmente, computando anche gli attuali votanti per l'Udc (in questo momento a circa il 5-6%), per Italia Futura (attualmente attorno al 2%) e per Fermare il declino (1%), il mercato potenziale dei consensi per una coalizione che si ispiri a Monti si accrescerebbe ulteriormente.
Sin qui la situazione attuale. Tuttavia, proprio in queste ore, il quadro delle forze politiche va cambiando rapidamente. Ad esempio, sembra che una parte significativa degli esponenti del Pdl (ma anche, forse, qualcuno del Pd) stia valutando la possibilità di passare ad una lista Monti, nel caso questa si costituisse. Ciò che potrebbe ampliare la platea dei sostenitori di quest'ultima.
Ma, sopratutto, occorre ricordare che una presenza diretta di Monti nella competizione elettorale muterebbe completamente — in positivo per alcuni, in negativo per altri — l'atteggiamento (anche emotivo e psicologico) degli elettori nei confronti dell'offerta politica. Mobilitando ad esempio, in un senso o nell'altro, i molti indecisi (la cui quantità è comunque diminuita negli ultimi giorni). Da questo punto di vista, una candidatura effettiva potrebbe rendere in qualche misura obsolete diverse delle stime ipotizzate sin qui. Non resta dunque che attendere la decisione del Professore.

Repubblica 16.12.12
Speriamo che il premier non cada in tentazione
di Eugenio Scalfari


MARIO Monti è stato tentato. Non è un santo, ma un buon cattolico sì, lo è. Conosce i precetti della Chiesa e li osserva e sa che i santi sfidano la tentazione per mettersi alla prova. Di solito resistono alle lusinghe del tentatore che è lo spirito della terra, cioè Lucifero o comunque si chiami l’angelo decaduto e diventato diavolo. Perfino Gesù sfidò il diavolo ritirandosi nel deserto per quaranta giorni. Ma per lui era facile sconfiggerlo: era il figlio di Dio o credeva di esserlo, perciò sconfisse il tentatore e tornò a predicare la salvezza delle anime.
Monti non si è ritirato nel deserto ma è stato invitato a Bruxelles al congresso del Partito popolare europeo. Non c’era il diavolo a Bruxelles ma i capi del Ppe e i primi ministri europei militanti in quel partito. E tutti – a cominciare da Angela Merkel – si sono congratulati con lui per la politica attuata in Italia e in Europa, l’hanno esortato a continuare l’opera sua anche dopo le elezioni politiche del prossimo febbraio. Non hanno detto esplicitamente con quale ruolo ma implicitamente glielo hanno fatto capire: guidare le forze politiche dei moderati, cattolici o non cattolici. I modi per conseguire quell’obiettivo e guidare anche il governo, questi riguardano lui altrimenti si tratterebbe di un’ingerenza che nessuno in Europa vuole compiere.
Monti si è riservato e farà conoscere le sue decisioni prima di Natale. Perciò nulla sappiamo su quanto deciderà, ci sta pensando. Se cadesse in tentazione commetterebbe un peccato di ambizione. Ambizione legittima ma comunque un peccato. Massimo D’Alema lo ha pubblicamente diffidato: metterebbe in difficoltà il Pd, il partito che più degli altri lo ha lealmente appoggiato fin dall’inizio quando Berlusconi si dimise e il Pd avrebbe potuto chiedere che si andasse subito alle elezioni che probabilmente avrebbe vinto. Bersani respinse quella pur legittima tentazione nell’interesse dell’Italia. Bersani non è certo un santo e non credo neppure che sia un cattolico praticante, ma dette un contributo alle sorti d’un Paese in emergenza.
L’emergenza dura tuttora e il Pd ha dichiarato di mantenere tutti gli impegni che il governo Monti ha preso con l’Europa. Monti a sua volta ha confermato d’esser disponibile a contribuire al superamento dell’emergenza economica se sarà chiamato a farlo dal nuovo Parlamento e dal nuovo governo che uscirà dalle urne. Con quale ruolo non l’ha precisato. Ieri però ha detto al nostro giornale una cosa della massima importanza: non starà mai più con Berlusconi malgrado adesso con una giravolta di grande maestria il Cavaliere si sia dichiarato montiano.
Le cose sono dunque a questo punto: Monti non starà mai più con Berlusconi; darà un contributo se richiesto. Perfetto, ma in quale ruolo? Se cederà alla tentazione il ruolo non può che essere quello di primo ministro; ma qui c’è di mezzo il popolo sovrano chiamato al voto e il presidente della Repubblica cui spetta la nomina del premier e
dei ministri da lui proposti. Se dalle urne il Pd uscisse vincente, rafforzato nella vittoria dal premio previsto dalla legge che assegna al primo arrivato il 55 per cento dei seggi della Camera, la guida del governo spetterebbe a quel partito salvo il risultato raggiunto al Senato dove il premio scatta con un meccanismo del tutto diverso.
A quel punto la parola passerà al centro moderato, guidato o sponsorizzato da Monti; oppure con Monti in panchina “en réserve de la République”, pronto a contribuire sia nell’un caso sia nell’altro.
* * *
Il centro, allo stato delle cose, è senza testa. È composto dall’Udc di Casini; in posizione più defilata dal gruppo di Fini. Sommati insieme, secondo gli ultimi sondaggi, arrivano all’8-9 per cento. Con Montezemolo e Riccardi possono aspirare al 12. Una lista guidata da Passera (o la medesima) potrebbe arrivare al 18 o forse al 20. Sponsorizzati da Monti fin forse al 25. Guidati direttamente da Monti addirittura al 30 o perfino sfondare al
35. A quel punto il risultato complessivo sarebbe sulle ginocchia di Giove ma la cosa certa è che se Monti scenderà in qualche modo in campo lo scontro politico ed elettorale si svolgerà tra il centro e la sinistra riformatrice con Berlusconi e i suoi relitti in posizione di arbitro e il Movimento 5 stelle altrettanto.
D’Alema ha certamente usato toni sconvenienti nei confronti di Monti, ma le ipotesi fin qui esposte corrispondono alla sostanza delle sue parole e configurano una situazione da incubo non per il Pd ma per il Paese. Se si vuole evitarla Monti deve restare in panchina oppure sponsorizzare insieme il centro e il centrosinistra. Questa sarebbe la soluzione ottimale.
* * *
Si dice: ma Vendola? Ma i popolari di Fioroni? Ma Renzi? Ma la sinistra radicale?
Non credo che i problemi siano questi e semmai possono emergere nel solo caso d’uno scontro diretto tra centro e centrosinistra.
Si dice anche: l’agenda Monti va comunque rispettata, il resto sono solo chiacchiere. Vero. Personalmente, per quel che vale, l’ho scritto da sempre. Ma qual è l’agenda Monti? Lo sappiamo: rispettare gli impegni presi con l’Europa, in parte già attuati e in parte da attuare.
Quelli attuati riguardano il rigore dei conti pubblici; quelli da attuare riguardano il rilancio dello sviluppo, dell’occupazione e dell’equità sociale.
Bersani si è impegnato a rispettare i primi e ad attuare con equilibrio e gradualità i secondi. Da questo punto di vista l’agenda Bersani coincide con l’agenda Monti e con le richieste dell’Europa e anche con l’agenda del centro con qualche leggera variante. Ma esiste un terzo capitolo, determinante, ed è la costruzione dello Stato federale europeo.
Questo capitolo è al tempo stesso montiano, bersaniano, centrista. È dunque assolutamente chiaro che queste forze politiche debbono stare insieme. Non si esce dall’emergenza se non mantenendo il rigore e rilanciando sviluppo ed equità. E non si costruisce il futuro se non unificando l’Europa o almeno l’Eurozona.
Questi obiettivi sono al tempo stesso ambiziosi e necessari. In Europa hanno molti alleati. La Merkel è una di questi, specie quando avrà superato le elezioni e tanto più se dovrà allearsi con la socialdemocrazia. Mario Draghi è l’altro pilastro che opera efficacemente e fin dall’anno scorso in quella direzione. Obama ha lo stesso obiettivo che conviene all’America anche se deve scontrarsi con una forte opposizione delle grandi banche d’affari americane.
In Italia c’è un precedente che va ricordato. In un altro periodo d’emergenza nazionale, determinato dal terrorismo, la risposta politica della classe dirigente italiana fu l’alleanza tra Moro e Berlinguer. Moro fu rapito e ucciso dalle Br ma l’alleanza restò in piedi, anzi si rafforzò ancora di più, con Zaccagnini (e Pisanu) e Andreotti e Cossiga da un lato, e tutto il Pci compattamente dall’altro. Se lo ricordi Casini, se lo ricordi Vendola. Montezemolo se lo faccia raccontare.
C’era anche Paolo VI in quell’alleanza, naturalmente nei modi e nelle forme appropriate ad un Pontefice. Lo tengano ben presente Benedetto XVI, il cardinale Bagnasco e il vecchio, ma sempre combattivo cardinal Ruini. Non spetta a loro costruire o incoraggiare un partito; loro debbono perseguire la pace, anche quella politica.
Infine c’è un sostegno determinante per l’attuazione dell’agenda Italia, si chiama Giorgio Napolitano. Le elezioni anticipate hanno comportato qualche difficoltà attuativa ma hanno consentito un fondamentale vantaggio: il regolatore della partita, prima e dopo il responso delle urne, sarà il Quirinale. Noi l’abbiamo sempre sperato ed ora è finalmente accaduto. Per iniziativa di Monti e per decisione di Napolitano.
Tutto è dunque di buon auspicio e suggerisce di resistere alle tentazioni. “Unicuique suum” e “Non praevalebunt” diretto agli anti-europeisti e quindi anti-italiani. È questo che speriamo accada.

l’Unità 16.12.12
La Toscana e Firenze in ricordo della strage razzista
di Luigi Manconi e altri


Un anno fa, il 13 dicembre del 2011, Firenze fu teatro di una feroce strage razzista. Due senegalesi persero la vita e tre rimasero feriti, uno dei quali in maniera assai grave. Qualche settimana fa, su queste colonne, ricordammo l’eccidio e descrivemmo la situazione in cui si trovano attualmente i sopravvissuti. Il nostro articolo ha suscitato alcune repliche: quella dell’Assessore al Welfare del Comune di Firenze è stata pubblicata su l’Unità del 30 novembre.
Qui di seguito riportiamo la lettera inviataci dal presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, in cui si legge che «la Regione Toscana si è impegnata in primo luogo per assicurare un sostegno concreto alle famiglie delle vittime e al ferito che ha riportato lesioni e invalidità permanenti. Con l’accordo dei rappresentanti della comunità senegalese abbiamo pensato di istituire un contributo di solidarietà, che la Giunta regionale ha approvato di recente e che ammonta a 20mila euro per ciascuna delle famiglie di Modou Samb e Mor Diop e 20mila euro per Moustapha Dieng, che purtroppo è ancora in cura presso un ospedale fiorentino. In altri casi che riguardavano lavoratori italiani eravamo intervenuti con simili contribuiti e abbiamo voluto trattare questi uomini come lavoratori italiani. Il 17 dicembre del 2011, pochi giorni dopo l’eccidio, si svolse a Firenze una grande manifestazione antirazzista indetta dalla comunità senegalese. Parlando alla manifestazione dissi che avrei chiesto al presidente Giorgio Napolitano la concessione della cittadinanza italiana ai tre giovani rimasti feriti, Moustapha Dieng, Sougou Mor e Mbenghe Cheike. Pochi giorni dopo scrissi al presidente della Repubblica una lettera per formalizzare questa mia richiesta. Nei mesi successivi mi sono adoperato personalmente a tutti i livelli, prima perché fossero concessi ai tre i permessi di soggiorno che consentissero loro di rimanere regolarmente in Italia e contemporaneamente per assicurarmi che la richiesta della cittadinanza andasse avanti. Le ultime notizie di cui sono venuto a conoscenza dicono che il provvedimento, anche se lungo e complesso, è in dirittura di arrivo. Penso che tutto ciò che abbiamo fatto sia stato semplicemente doveroso e dovuto, ma anche che faccia parte di quello spirito solidale, umano e civile che è nella mente e nei cuori dei toscani».
E giovedì 13 a Firenze, per commemorare quella strage, si sono svolte diverse iniziative dalle 8 di mattina, con il raduno di preghiera presso il Centro culturale islamico, fino alle 8 di sera con il Concerto «Jokko» tenuto presso il Mandela Forum, organizzato dal Comune in collaborazione con l’ambasciata d’Italia a Dakar, il ministro del Turismo e della cultura del Senegal N’Dour, l’Associazione dei senegalesi di Firenze, il Coordinamento delle associazioni dei senegalesi in Toscana, Eventi Music Pool e Arci.
Il ricavato dell’iniziativa, a cui hanno partecipato oltre duemila persone, sarà devoluto ai familiari delle vittime e ai superstiti.

La Stampa 16.12.12
Lampedusa scoppia. In un solo giorno sbarcano 457 migranti
Soccorsi in mare, tra loro anche trenta donne
di Laura Anello


Riesplode tutto, qui a Lampedusa. Riesplode il centro di accoglienza da 250 posti, stipato di quasi ottocento disperati dell’Africa nera, accalcati a terra, distesi all’aperto su coperte e cartoni. Riesplode la rabbia degli abitanti, memori dell’emergenza dell’anno scorso. È di nuovo tempo di arrivi massicci di migranti. Ieri ne sono approdati 457, tutti subsahariani, aggrappati a barconi e soccorsi nella notte dai mezzi della Guardia costiera, delle Fiamme gialle, da una nave della Marina militare e pure da un mercantile.
La prima carretta del mare è giunta sul molo che erano quasi le tre e mezza del mattino, raggiunta quaranta miglia a sud di Lampedusa. Malcerta, altalenante, ce l’ha fatta comunque a raggiungere il porto. A bordo 218 profughi, e fra loro sette donne. Il tempo di tirare un sospiro di sollievo, ed è arrivato l’altro allarme, lanciato con un telefono satellitare e raccolto dal sacerdote eritreo Mosè Zerai. Questa volta, a sessanta miglia, il barcone stava per affondare: i 239 profughi, tra i quali venti donne, sono stati trasbordati sulle motovedette e alle 9 sono sbarcati a Lampedusa. I boatos dalla sponda africana lo avevano annunciato: «Ne arriveranno quattrocento». Erano stime in difetto.
Tutti portati nel centro di contrada Imbriacola, che fino al pomeriggio scoppiava di 960 ospiti, prima che la questura disponesse il trasferimento di duecento di loro. Sono comunque troppi, per una struttura che funziona a metà regime da quando l’anno scorso, al culmine di una rivolta, fu bruciato un padiglione. La tensione è alta: lunedì scorso è scoppiata una rissa, con dieci contusi e feriti. L’indomani 104 profughi sono andati a dormire sul sagrato della chiesa, sotto la pioggia. Il Comune - guidato dal sindaco Giusi Nicolini che non smette di lanciare appelli al governo - ha allestito alcune stanze dell’ufficio anagrafe. Giacomo Sferlazzo, dell’associazione Askavusa, racconta desolato: «Il problema è che restano troppo a lungo. Vengono fatti uscire da buchi della recinzione, come cani, facendo finta che nessuno veda. Girano per l’isola come fantasmi, qualcuno solidarizza, i più si allarmano. Si era detto: a Lampedusa tre giorni al massimo e poi trasferimenti, invece…».
Si è preoccupati che la situazione precipiti. E che si ripetano le scene della vergogna, rievocate nel film da brivido «Lampedusa 2011 nell’anno della Primavera araba» che ha realizzato il documentarista Mauro Seminara: «La situazione in Nordafrica è tutt’altro che stabile - racconta - soprattutto in Libia. Se questa volta il governo italiano non pensa in tempo utile alle conseguenze, Lampedusa rischia un nuovo drammatico 2011». Il paradosso è che, mentre gli sbarchi si intensificano, finisce l’emergenza proclamata due anni fa dal governo: entro il 31 dicembre i centri di accoglienza gestiti dalla Protezione civile saranno chiusi, e i profughi che hanno fatto domanda d’asilo usciranno tutti, grazie a un permesso di soggiorno di un anno per motivi umanitari. Ma molti altri ne stanno arrivando.

il Fatto 16.12.12
In piazza
Le Agende rosse: “Fuori la verità sulla trattativa”
di Sandra Amurri


Nonostante il tempo inclemente a Piazza Farnese ha prevalso la passione civica. Circa un migliaio di persone hanno partecipato alla manifestazione “Noi sappiamo” organizzata dalle Agende Rosse a sostegno della Procura di Palermo per pretendere verità sulla trattativa Stato-mafia. Grande assente la stampa. “I cittadini hanno diritto alla verità, io sono qui perché da cittadino ho un debito con i magistrati che hanno dato la vita, che vivono blindati per estirpare un cancro che distrugge l'economia. Non stiamo aggredendo nessuno, stiamo chiedendo ciò che ci spetta di diritto: verità”, a parlare è Moni Ovadia. “Della trattativa sappiamo già tutto, ci manca solo di sapere quanti fossero al corrente indipendentemente da chi, nel trattare, abbia commesso un reato. Lo scopo non è mandare in galera un ufficiale dei carabinieri o un politico in pensione, ma mettere un timbro nel nome del popolo italiano su una verità emersa grazie al lavoro della Procura di Palermo, di Firenze, di Caltanissetta e di quei pochi giornalisti. È una vicenda che resterà impressa nella storia anche se dovessero essere assolti tutti gli imputati”, ha spiegato Marco Travaglio, che a conclusione ha ricordato come la stampa di regime ha trattato la decisione “inconsulta” per dirla con Salvatore Borsellino, animatore instancabile, come se la Consulta avesse il potere cancellare i fatti. “Le 4 telefonate tra Mancino e Napolitano dovranno essere distrutte, ma chi volesse conoscere la vergogna che resterà indelebile nella storia non ha che da leggere le 8 telefonate tra Mancino e il consigliere giuridico di Napolitano in cui vengono mobilitati tutti i mobilitabili affinché quell'indagine non si faccia”. Anche Antonio Padellaro ha sottolineato come uno dei fatti più gravi della storia sia stato oscurato dalla stampa italiana che può essere riassunto con la scritta: “Non disturbare il manovratore”. “Quando vengono attaccati quei pochi giornali che chiedono verità, silenzio di tomba, quando invece la Corte costituzionale emette la sentenza si sente l' applauso e la questione è chiusa”. Sale sul palco Sabina Guzzanti: “È importante che il Capo dello Stato non si metta di traverso e il processo si concluda con una sentenza decente” che chiude così: “Se per la trattativa si dovessero mandare in galera tutti quelli che sapevano ci finirebbe mezzo Stato”. Seguono Vauro (“finché non avremo la verità le piazze non resteranno vuote”) e Aldo Busi (“sono qui per ascoltare e ringraziare, e chi non è qui non sa quale allegria si è perso”). Fiorella Mannoia in video interpreta la fiaba di Gianni Rodari “Il paese dei bugiardi”.

Repubblica 16.12.12
Supplenti contro prof dilettanti, l’ultima sfida del concorsone
Domani la prima prova. Protesta dei precari: “Per noi è squalificante”
di Corrado Zunino


ROMA — La schermata, domani mattina e quindi martedì per la seconda sessione di questo concorso per docenti, avrà lo sfondo giallo. Nella tastiera virtuale che apparirà sullo schermo, contorno azzurro questa, Chiara Preti dovrà scrivere nome, cognome, codice fiscale e lingua scelta. “Conferma e inizia la prova”, invio: partirà così la clessidra per i test di preselezione. Cinquanta minuti, cinquanta domande: diciotto per testare le capacità logiche, diciotto per la comprensione di un testo, sette sulle competenze digitali, sette sulla lingua straniera.
Non ci saranno i neolaureati, a questo concorsone, il più discusso della storia della Repubblica. Ma ci saranno molti trentenni tra gli aspiranti prof. Come Chiara Preti, 31 anni, laureata in Filosofia nel 2004, dottorato nel 2008. Per abilitarsi lei fece la scuola di specializzazione all’insegnamento secondario, la Ssis, trenta esami, fin qui inutili. Non se ne lagna. Per mantenersi Chiara collabora con Giovanni Bachelet, deputato del Pd. Ora è ferma, in maternità. La sua bambina ha due mesi. «Non mi sento una sfigata, solo una portaborse precaria che non riesce a campare: l’anno scorso ho guadagnato 1.500 euro lorde, ora passerò a 1.200 nette al mese. La mia carriera scolastica? Nel 2009 iniziai a fare qualche supplenza, prendevo al volo quello che arrivava. Sono iscritta alle graduatorie a esaurimento, trecentesima nella mia classe di concorso, storia e filosofia. Sì, nelle aule vedo insegnanti anziani un po’ affaticati, c’è bisogno di un ricambio».
Attende la prova a quiz con gusto della sfida Elisabetta Ambrosi, giornalista free lance,37 anni, un figlio di due e mezzo. Si è laureata a Roma tredici anni fa, una sessione dopo il mitico concorso per docenti del 1999, l’ultimo utile per prendere una cattedra. Filosofia politica, poi dottorato in etica. Non ha mai insegnato e dice: «A tutti quelli della mia generazione è stato impedito di diventare maestri e professori, ora questo concorso aprirà le porte alla mia seconda vita. Fin qui è stato un impegno interessante, anche un po’ tragico visto che questa occasione parla a troppe persone insoddisfatte. Come giornalista mi pagano a pezzo, sopravvivo perché sono sposata. Ho un po’ di rabbia e credo mi farà bene: mi avete chiuso una possibilità? E io ci riprovo. È giusto che la metà dei posti siano destinati agli outsider, giovani che nella vita hanno fatto tutt’altro e hanno passione. Io vorrei ripartire da una classe di scuola media, magari in provincia. Avrei le competenze giuste e tempo per formarmi». Precari contro giovani? «La competizione c’è ed è triste: mia sorella vive di spezzoni di supplenze e ogni mattina attende la telefonata del provveditorato per l’incarico di giornata».
Alessandra Bastia è una precaria dell’insegnamento. Un percorso classico, il suo, nella scuola italiana. Ha 46 anni ed è riuscita ad arrivare alle supplenze annuali in una media di Terni. Sono sei stagioni che supplisce, iniziò con il sostegno (bambini in difficoltà) alle elementari. «Prima dei quarant’anni la scuola non mi ha dato certezze, alle docenze ho dovuto affiancare allestimenti, restauri, sono stato esperta di listini in un’azienda e ufficio stampa per alcuni festival. Ho due lauree: lettere moderne e scienze della formazione primaria. Vivo sola, con meno di 1.200 euro. Mia cugina mi dà la casa. Parteciperò a tre classi di concorso, primarie, medie, superiori, con quattro materie e in due regioni diverse. Certo che il concorsone è una guerra: io sono vicina al posto fisso, ma i nuovi vincitori potrebbero ricacciarmi indietro in classifica. E allora partecipo anch’io».
Antonio Venneri, 37 anni, toscano, a ventiquattr’ore ore dal test è ancora indeciso. Dice: «Mi sono iscritto, ma non sono convinto di partecipare. Da undici anni lavoro a scuola come supplente, incarichi annuali, e ho già dimostrato se sono in grado di far crescere studenti. Insegno materie letterarie alle superiori e questo concorso colpisce la dignità di che è già abilitato. I posti in cui oggi lavoriamo esistono, vanno solo stabilizzati con un contratto a tempo indeterminato». Ribadisce, e dettaglia il concetto, l’insegnante Daniele Bardi: «Non ho nemmeno più voce per dirlo: noi precari provenienti dalla scuola di specializzazione Ssis abbiamo già vinto un concorso, fatto tirocinio in aula, superato più di trenta esami, discusso una tesi e superato una prova finale. Abbiamo acquisito con merito il diritto all’assunzione, diritto che ora è misconosciuto d’autorità». Marco Pappalardo, insegnante (fisso) in una scuola salesiana paritaria, dice a tutti (precari di scuola e precari di vita): «Non parteciperò anche se oggi non posso dirmi sicuro del futuro. Non ho fatto ricorsi, non sono sceso in piazza, ma ho scelto di prepararmi ogni giorno per i miei ragazzi piuttosto che per la mia realizzazione personale».

l’Unità 16.12.12
Il dio delle armi e la religione dell’America
Quindicimila morti all’anno. L’attaccamento a bibbia e fucile vanno spesso insieme
di Massimo Faggioli


NON SI SA ANCORA SE LA STRAGE DI NEWTOWN CAMBIERÀ L’ATTEGGIAMENTO DELL’AMERICANO MEDIO nei confronti delle armi: quelle precedenti, specialmente da Columbine High School nel 1999 in poi, non ci sono riuscite. Negli Stati Uniti si contano oltre 15.000 morti per armi da fuoco ogni anno (le cifre variano) ed è un paese da sempre assuefatto alla violenza. Le statistiche dicono che negli Stati Uniti c’è meno violenza rispetto ai decenni precedenti, e che nel paese circolano più armi, ma quelle stesse armi sono nelle mani di una parte numericamente decrescente di americani: una minoranza, ma sempre più armata. Anche per questo motivo il caso di Newtown non rappresenta un’eccezione alla regola, ma esattamente la regola di un’America in cui il feticcio dell’arma (non solo pistole e fucili, ma di recente anche supertecnologici archi e frecce) tende a rintanarsi in fasce ristrette della popolazione.
Ridurre la genesi dell’attentato alla mentalità disturbata dell’attentatore equivarrebbe ad ignorare uno degli elementi tipici dello scenario morale americano. Nel suo Democrazia in America, Alexis de Tocqueville aveva descritto il viaggio alla conquista del nuovo mondo come l’avventura into the wild dell’uomo americano armato di «una Bibbia, un’ascia, e un giornale». Da allora il mondo americano è assai cambiato, ma non si è attenuata la radicale differenza con il mondo europeo quanto a percezione morale della violenza e della detenzione delle armi. Ma accanto a questa differenza tra la mentalità americana e quella del resto del mondo sulle armi in mano alla popolazione civile, è cresciuta anche la distanza tra le due estreme della morale americana, frutto della polarizzazione culturale del paese: quella pro-guns e anti-abortion da un lato, e quella anti-guns e pro-abortion dall’altra. Da una parte i liberals credono nella necessità di un maggiore controllo sulla circolazione delle armi sul territorio degli Stati Uniti e nella totale libertà di scelta della donna circa l’aborto; dall’altra, gli attivisti anti-abortisti sono tra i più affezionati a quell’interpretazione al secondo emendamento della Costituzione americana che dà ai cittadini il diritto di portare armi. Ma la giurisprudenza costituzionale sul secondo emendamento risente di un fondamentalismo giuridico che è passato dalla Bibbia alla Costituzione anche grazie ai giudici cattolici della Corte Suprema, oggi ben sei su nove. Si dimentica che la mens di quel secondo emendamento intendeva dare ai cittadini il diritto di armarsi non per difendersi dal crimine o dalle violenze domestiche, ma dagli abusi del governo in un’America da sempre diffidente del potere, specialmente di quello del governo federale.
Gli Stati Uniti d’America sono un paese eccezionale rispetto al mondo intero quanto a intensità del sentimento religioso e quanto a fascinazione per la violenza e la morte: le due cose sono collegate. L’attaccamento alla Bibbia e al fucile vanno spesso insieme: non è un caso che il Mosè di Hollywood, Charlton Heston, sia diventato il più famoso portavoce della National Rifle Association, la lobby capace di far eleggere deputati e senatori e capace di bloccare qualsiasi tentativo di approvare leggi sul controllo delle armi. Il presidente degli Stati Uniti, sommo pontefice della religione americana, sopraffatto dall’emozione è l’immagine dell’impotenza di quel pontefice di avere ragione non solo della lobby della Nra, ma anche di quella larga fetta di americani che vedono nel diritto di portare armi l’ultima linea di difesa simbolica contro il governo, la politica, gli intellettuali, i gay, i mass media, il cosmopolitismo. Quei bambini morti, le lacrime dei loro genitori e di tutti i genitori d’America sono i sacrifici umani che l’America si lascia imporre dalla religione del fucile. Finora le chiese americane sono state timide sulla questione delle armi, molto più timide che sulle altre questioni pro life: è tempo che il controllo delle armi entri a far parte della «cultura della vita» nell’America religiosa. Fino ad allora, la religione delle armi continuerà a mietere vittime.

il Fatto 16.12.12
La strage nella scuola del Connecticut
Usa, l’odore delle armi
di Furio Colombo


Noi conosciamo i bambini uccisi a Newtown (Connecticut), viso per viso, maglietta per maglietta. Sono come quelli che abbiamo visto sfilare, tenendosi per mano, nei primi filmati. Bambini fermati e gettati in un mare di sangue dalle pallottole, fra meraviglia e terrore. Noi sappiamo chi è l’assassino, un ventenne che sembra più giovane, senza espressione, senza voce o pensieri. Ha ucciso subito e si è ucciso. E noi, spettatori di morte del mondo, siamo qui, di fronte ai bambini morti (“un’esecuzione”) e a un esecutore quasi coetaneo di cui non sappiamo e non sapremo quasi nulla. Chi è stato giornalista di guerra non può dimenticare che, quando arrivi sul luogo di una strage, ti prende alla gola l’odore della pallottole esplose, l’odore delle armi che copre all’inizio l’odore del sangue. In quel momento non pensi alle ragioni dementi delle esecuzioni. Pensi alla velocità e quantità dei colpi. Ti coglie un’immagine che, sul momento, non ti sembra pazzesca: le armi diventano pròtesi di esseri umani e le guidano all’uso giusto, che è uccidere. Si legge spesso che le macchine avranno il sopravvento sui costruttori umani. Le armi automatiche e semi-automatiche lo hanno già fatto. Lo stanno facendo in piccole città da film piene di bambini che sembrano la felicità, e li uccidono come in un mattatoio. Sono casi di follia, certo. Ma ci sono molte più armi che cercano altre mani per guidarle ad altre stragi, domani o fra dieci giorni. Un dio delle armi protegge l’evento, fa in modo che una delle immagini si autodistrugga (“era un pazzo”) e l’altra, l’arma perfetta, si radichi come un oggetto di sottomissione e di fede. Adesso tocca al presidente Obama, non solo nel suo Paese, difendere gli altri bambini, quelli che in fila indiana e per mano, al momento, si sono salvati. Ma le armi sono potenti, sanno come intimidire, come resistere e continuare le esecuzioni attraverso le pròtesi umane. Non sappiamo se Obama avrà tutta la forza o tutto il coraggio di opporsi. Sappiamo di non poter dire che tutto ciò è “americano”. In un Paese attanagliato dalla crisi, abbiamo appena comprato costosissimi aerei da combattimento, efficienti pròtesi di morte, invece di scuole e ospedali.

il Fatto 16.12.12
La facile libertà di uccidere
Spesso più semplice comprare pallottole che cibo
E il governo federale può poco sulle leggi dei vari Stati
di Angela Vitaliano


Chi sostiene maggiori controlli sulla vendita di armi ha le mani sporche del sangue di quei poveri bambini”. Lo dice, nelle stesse ore in cui persino la Nra, la lobby dei possessori di armi, sceglie il silenzio, Larry Pratt, direttore esecutivo, dell'associazione di possessori di armi Gun Owners. Con un paese sotto choc, i sostenitori della pistola facile e del diritto del singolo a uccidere per difendersi (da un pericolo reale o infondato, si stabilirà dopo), non hanno perso tempo e hanno reagito con determinazione alla possibilità, intravista nelle parole di Obama, di un intervento limitativo sulle armi. Se qualcuno in quella scuola fosse stato armato, secondo Pratt, i bambini sarebbero stati più al sicuro perché gli insegnanti/cowboys avrebbero potuto impugnare l'arma, magari riposta nel cassetto della cattedra o appoggiata alla lavagna come il cassino, per rispondere al fuoco, in una moderna versione di “mezzogiorno di fuoco”. Per comprendere meglio il rapporto fra gli americani e le armi e la difficoltà oggettiva che si incontra se si prova ad affrontare con decisione questo tema, basta scorrere un po' di cifre che, come sempre, raccontano meglio di tutto la realtà.
Solo l'associazione dei Gun Owners conta ben 300mila iscritti: i negozi di armi, autorizzati, secondo cifre ufficiali dello scorso agosto, sono 129.817 contro 143.839 stazioni di servizio, 36.569 negozi di alimentari e 14.098 McDonald’s.
DEI NEGOZI DI ARMI, poco più di 51 mila sono negozi al dettaglio di pistole, 61.562 sono negozi per collezionisti e meno di 8mila sono banchi di pegno. Nel 2010, le stime ufficiali parlano di 5 milioni e mezzo di armi prodotte, di cui il 95% per il mercato interno al quale vanno aggiunti 3.252.404 di armi da fuoco regolarmente importate dai paesi esteri. Dal 2006 al 2010, quasi 48mila persone sono rimaste vittime di ferite di arma da fuoco, oltre il doppio delle vittime di tutti gli altri tipi di incidenti messi insieme. Eppure c'è chi, ostinatamente, continua a negare la connessione esistente fra il numero enorme di morti e la diffusione, in inarrestabile crescita, di pistole e affini.
E se qualcuno come Michael Bloomberg, sindaco di New York, è instancabile nemico della cultura delle armi e con lui volti del cinema e della televisione come Michael Moore o Bill Maher, ci sono molte altre voci pubbliche, come l'opinionista repubblicana Ann Coulter, che con la stessa veemenza, difendono il diritto alle armi e auspicano che si allentino ancor più le maglie di una legislazione già molto permissiva.
Va però ricordato che, come sempre, le leggi federali, già di per sé permissive, trovano diversa applicazione a livello statale e cittadino. Per esempio, in Texas o in Alabama, per comprare una pistola automatica non serve nessun permesso (è richiesta la maggiore età, ma spesso gli acquisti sono fatti on line e dunque è facile mentire) né tantomeno è necessario registrare l'arma o sottoporsi a particolari controlli.
Negli Stati dove l'acquisto è così semplice, poi, è quasi sempre consentito portare le armi con sé, senza particolari permessi o necessità verificate. Nello Stato di New York, invece, l'acquisto delle armi automatiche richiede permessi speciali e ottenere l'autorizzazione per portare l'arma con sé è molto difficile e più ci si avvicina a New York City più la cosa diventa quasi impossibile.
SUL SITO della Nra (National Rifle Association), fra l'altro, nonostante Obama abbia oggettivamente fatto poco per innestare una reale inversione di tendenza, c'e un video in cui si invita a non sostenere il presidente considerato un “nemico” delle armi. A renderlo così inviso ai pistoleros sono bastate le nomine di Sonia Sotomayor e Elena Kagan alla Corte suprema, entrambe contrarie all'incontrollata diffusione delle armi, e il fatto che Obama abbia accennato alla possibilità di rendere più difficile l'accesso alle “armi d'assalto” e più severi i controlli necessari per poter acquistare un'arma da fuoco.
Negli ultimi anni, dalla strage delle Columbine in poi, come sottolinea il mago delle statistiche, Nate Silver, si è cominciato a usare, proprio sull'onda di un maggior malcontento rispetto alla cultura delle armi, espressioni tipo “diritto a possedere una pistola” piuttosto che “controllo delle pistole”. In America per avere facile presa sull'opinione pubblica basta far credere che si stia mettendo in atto una limitazione delle libertà personali e il gioco è fatto.

il Fatto 16.12.12
Adam, killer a 20 anni Il genio timido con la malattia delle armi
La madre gli insegnò a sparare: lui l’ha uccisa prima di compiere la strage dei bambini
di Alessandro Oppes


Erano di mamma Nancy, appassionata collezionista di armi e prima vittima della strage, le pistole con le quali Adam Lanza ha sparato all'impazzata contro i bimbi della Sandy Hook Elementary School, prima di puntarsi una delle pistole alla tempia e togliersi la vita. In base alla legge del Connecticut, una delle più severe degli Usa, non se le sarebbe potute procurare da solo: sia per l'età (aveva 20 anni, ne occorrono 21 per poterle maneggiare), sia perché ci vuole una licenza, tanto per la Sig Sauer come per la Glock, entrambe capaci di sparare 5 proiettili al secondo. Quanto al fucile d'assalto Bushmaster 223, che il giovane imbracciava quando ha fatto irruzione nella scuola intorno alle 9 e 30 del mattino di venerdì, richiede un corso di preparazione specifico: è un'arma da guerra, del tipo di quelle impiegate dai militari Usa nelle missioni in Afghanistan e Iraq.
MA PER ADAM non erano affatto oggetti sconosciuti questi strumenti di morte: era stata proprio la madre, divorziata da quattro anni, e con la quale viveva in un'elegante villetta di due piani di stile coloniale con piscina, a iniziarlo nella pratica di tiro, con frequenti visite al poligono locale.
Dopo una notte di veglia a Newtown, e di lutto nell'intero paese, l'America chiede risposte, vuole sapere come sia stata possibile una simile carneficina in un istituto frequentato da bambini tra i 5 e i 10 anni, del quale un genitore di uno dei superstiti, ancora sotto choc, ha detto: “Ero convinto che fosse uno dei posti più sicuri degli Stati Uniti. Invece è arrivato il diavolo”. È bastata la determinazione folle di un giovane con seri problemi mentali (anche se in apparenza solo terribilmente timido) per trasformarlo in una trappola mortale. Dalle prime ricostruzioni degli investigatori, risulta che Adam, protetto da un giubbotto antiproiettile e indossando una tuta mimetica, avrebbe fatto irruzione con la forza nella Sandy Hook, con il suo arsenale di due pistole e un fucile portato via da casa dopo aver ucciso la madre, che insegnava nella stessa scuola.
È successo tutto in pochissimi minuti, in due aule del centro scolastico. Mentre il giovane comincia a sparare, colpendo con grandissima precisione – numerosi i colpi esplosi a bruciapelo – nel resto dell'edificio l'allarme scatta immediato, grazie soprattutto alla prontezza di riflessi della direttrice. Dawn Hochsprung, 47 anni, era impegnata in una riunione con un gruppo di insegnanti.
Secondo le testimonianze raccolte dal Wall Street Journal, appena ha sentito i primi spari, le urla e i pianti, ha acceso il megafono per avvisare tutti del pericolo. Poi, senza pensarci un attimo, è uscita in corridoio per tentare di fermare il killer. Ma è stata subito crivellata di colpi. Stesso destino per la psicologa Mary Sherlach, mentre altre maestre cercavano riparo sotto i tavoli.
Eroine. Allo stesso modo dell'insegnante di musica, Maryrose Kristopik, che è riuscita a salvare i 20 bimbi della sua quarta elementare chiudendoli negli armadi degli strumenti musicali e barricando la porta con banchi e sedie. “Batteva contro la porta per farsi aprire – ha raccontato – Ai piccoli, dicevo solo che c'era una persona cattiva nella scuola, senza dare altri dettagli”. Un'altra maestra, Kaitlin Roig, ha chiuso gli alunni a chiave nel bagno della classe. “Li ho convinti a stare calmi, immobili. Ho detto loro: dovete sapere che vi voglio molto bene. Pensavo fossero le ultime parole che avrebbero ascoltato prima di morire”. Non ce l'ha fatta a salvarsi, invece, Victoria Soto: col proprio corpo ha fatto scudo ai bambini della sua prima elementare.
“Abbiamo lavorato tutta la notte per identificare le vittime e poter informare le famiglie”, ha detto alla Cbs il portavoce della polizia del Connecticut, Paul Vance, confermando le cifre che circolavano già da venerdì: 28 morti in tutto. Venti erano bambini, otto gli adulti, compresa la madre del killer, uccisa in casa, e lo stesso Adam Lanza, che si è tolto la vita in un'aula della Sandy Hook. La polizia sostiene di aver già trovato “ottimi indizi” che dovrebbero aiutare a capire il movente del massacro. Ma già il ritratto del giovane che emerge dalle tante testimonianze pubblicate in queste ore dalla stampa americana, permette di tratteggiare l'immagine di una persona affetta da seri problemi psichici.
DEL RESTO, è lo stesso fratello Ryan (per qualche ora sospettato a torto di essere il responsabile della sparatoria) ad ammettere che Adam soffriva della sindrome di Asperger, una grave forma di autismo che si manifesta con questi sintomi: fobia sociale e personalità schizoide. I vicini, gli ex compagni di scuola, chiunque l'abbia conosciuto, lo descrivono come un ragazzo estremamente timido, tanto da non incrociare mai lo sguardo dei suoi interlocutori.
“Quando lo guardavi, non potevi mai percepire nessuna emozione nei suoi occhi”, dice un giovane che studiò con lui a Newtown. E Olivia De Vivo, studentessa all'Università del Connecticut, racconta al New York Times: “Non l'ho mai visto con nessuno. Non posso ricordare una sola persona con cui avesse rapporti”. Però il giudizio è unanime sulle sue capacità intellettuali: l'impressione generale è che fosse “un genio”. Non per niente, pare che avesse concluso con tre anni di anticipo gli studi superiori. I suoi hobby conosciuti: il calcio, lo skateboard e i videogiochi, oltre a una passione per l'abbigliamento dark e la cultura nerd. Un ragazzo chiuso e ombroso (ancora di più dopo la separazione, quattro anni fa, dei genitori), con molti punti in comune con due suoi quasi coetanei, protagonisti di episodi altrettanto tragici della storia americana: il 24enne James Holmes, che il 30 luglio scorso, in un cinema di Aurora, in Colorado, ha ucciso 14 spettatori in un cinema alla prima dell'ultimo “Batman”, e Seung-Hui Cho, 23 anni, che nel 2007 massacrò 32 studenti all'Università Virginia Tech.

La Stampa 16.12.12
Questi assassini seriali tirano sempre sui giovani
Un’ombra sul sogno americano L’odio omicida per gli innocenti
A differenza dei secoli passati le stragi adesso avvengono per mano dei singoli individui
L’elenco delle violenze letto in tv da Obama racconta un Paese spettrale
di Antonio Scurati


Virginia Tech, 2007 Lo studente Cho Seung-hui (foto tonda) uccide 27 ragazzi e 5 professori.Fra le sparatorie. riesce a mandare testi e immagini alla Nbc, poi si uccide
Columbine high school, ’99 Eric Harris (nel tondo) e Dylan Klebold, due studenti uccidono 12 compagni e un insegnante e feriscono altre 24 persone, poi si suicidano
Cinema di Aurora, 2012 James Eagon Holmes (tondo) si traveste da Joker, entra nella multisala dove proiettano la prima di Batman, spara con una Glock: dodici morti
Amish school, 2006 Il 32enne Charles Carl Roberts fa irruzione in una scuola Amish in un villaggio della Pennsylvania e uccide 5 bimbe fra i 6 e 13 anni, poi si uccide

Una scuola elementare a Newton. Un centro commerciale in Oregon. Un luogo di culto in Wisconsin. Un cinema in Colorado. Infinite strade in posti come Chicago e Philadelphia». Sembrano i versi di This Land is My Land, la canzone con cui Woody Guthrie celebrava negli Anni Quaranta l’America delle libertà passandone in rassegna le meraviglie e le vastità geografiche. E sono invece le parole con cui ieri il presidente Obama ha elencato gli ultimi episodi simili alla strage di Newton, Connecticut, accaduti di recente in un’America terrorizzata. Gli fa eco il New York Times, dalle cui colonne apprendiamo che 26 persone, tra le quali 20 bambini, assommano alla «settima strage più violenta», come se si trattasse della classifica di un «Campionato della Morte», ha osservato ieri su queste stesse pagine Gianni Riotta.
E sono effettivamente questi i due aspetti che più sgomentano di questa ennesima strage d’innocenti: il fatto che colpisca alla cieca l’infanzia, che spari nel mucchio dell’età acerba, e il fatto che sia ennesima. Violenza di massa, indistinta, casuale eppure mirata contro l’innocenza. Violenza inaudita, incomparabile, senza paragoni eppure seriale, ricorsiva, già nota. La serialità, una delle caratteristiche prevalenti nella vita tardomoderna - che abbraccia quasi tutto il nostro mondo nuovo dalle modalità della narrazione a quella della trasmissione informatica - non risparmia nemmeno la violenza stragista rendendo quella vita impossibile. Perfino in tempo di guerra diviene inconcepibile vivere sotto la minaccia costante della strage seriale di massa di innocenti, figuriamoci poi in tempo di pace. E invece è proprio così che, prima negli Stati Uniti e poi nel resto dell’Occidente, ci stiamo abituando a vivere da quando è iniziato il millennio.
Ci sono date che spostano in avanti le lancette della storia su di un quadrante di sangue. Il 20 aprile 1999 fu una di quelle date. Quel giorno, a Columbine, una sperduta località del Colorado, Eric Harris e Dulan Klebold, due ignoti teenager dell’America profonda, entrarono nella loro anonima high school di provincia armati come due commando, ne attraversarono indisturbati i corridoi bordati di armadietti metallici, raggiunsero la sala mensa preceduti da ondate di panico, quindi aprirono il fuoco uccidendo dodici compagni e un professore prima di togliersi la vita. Le immagini della strage, registrate implacabilmente dalle videocamere di sorveglianza, fecero immediatamente il giro del mondo.
Da quel momento i rapporti tra le generazioni non furono più gli stessi. I genitori cominciarono a osservare i figli con lo sguardo scrutatore della sindrome paranoica, gli insegnanti cominciarono a osservare gli studenti con occhio clinico, l’occhio rivolto a diagnosticare la mania omicida.
Sul momento si pensò, si sperò, che si trattasse di un evento unico e irripetibile, l’evento che produce da sé la propria drammaturgia e squarcia la catena degli antecedenti e dei conseguenti. Ci trovavamo, invece, di fronte all’inizio di una serie storica, alla quale avremmo ogni volta dovuto ricondurre ogni nuova strage compiuta da liceali contro i propri simili o da adulti che, ripetendo i gesti dei loro predecessori con una perseveranza autenticamente diabolica, avrebbero ancora e ancora martoriato la speranza sparando alla cieca in asili, scuole, università e campi estivi. Si apriva allora - e siamo costretti ad apprenderlo oggi - una nuova epoca. Il XIX secolo ci aveva mostrato gli effetti dell’odio tra le nazioni, il XX quello dell’odio tra le classi, il XXI si apriva con le tragedie dell’odio stragista di un individuo contro una classe scolastica, contro l’embrione della comunità a lui più prossima e, dunque, contro un’intera nazione. Questo tipo d’odio psicotico e pronto per l’uso era l’equivalente ideologico del lanciarazzi portatile, della bomba atomica utilizzabile come arma da spalla. Ci avrebbe condannati a reggere l’urto dell’individualismo applicato al campo della distruzione di massa.
L’ex studente che abbatte diciassette persone in una scuola tecnica del Baden-Wuerttemberg, lo xenofobo delirante che semina morte in un meeting camp nei dintorni di Oslo, le vite falciate nel cortile di una scuola ebraica di Tolosa, le 33 morti disseminate nelle diverse aree del grande complesso universitario del Virginia Tech di Blacksburg, la bomba che esplode all’ingresso dell’istituto per i servizi sociali, il turismo e la moda Francesca Laura Morvillo Falcone a Mesagne di Brindisi…
Potremmo continuare a lungo. Sono solo alcune delle strofe di una interminabile trenodia, una corale, monotona, straziata lamentazione funebre ogni volta ripresa, ogni volta incompleta.
Per interromperla, non potendo interrompere il male che lamenta, chiudiamo pronunciando il nome di Dawn Hochsprung, 47 anni, preside di scuola. Sentiti gli spari, invece di ripararsi, ebbe il coraggio, la prontezza e la grazia di accendere il megafono per dare l’allarme prima di uscire nel corridoio e cadere sotto i colpi del killer.

Repubblica 16.12.12
Se gli assassini siamo noi
di Adam Gopnik


DOPO il massacro della Virginia Tech del 2007 avevo scritto dell’immagine insondabile dei cellulari che squillavano nelle tasche dei ragazzi uccisi, e dei genitori che cercavano disperatamente di raggiungerli.
E avevo detto (come tanti altri) che sarebbe andata avanti così, se nessuno avesse fatto qualcosa, con queste modalità e con questa gravità che sono un’esclusiva del nostro Paese, caso unico fra tutti i Paesi ricchi, industrializzati e cosiddetti civilizzati del mondo. Avevo detto che ci sarebbe stato sicuramente un altro episodio come quello.
E c’è stato, anzi ce ne sono stati molti altri, e quando c’è stato il più recente e il più grave, ad Aurora il massacro alla proiezione del film di Batman, io (e molti altri) abbiamo detto, questa volta con i toni della disperazione, che nulla era cambiato. E io (e molti altri) abbiamo predetto che sarebbe successo di nuovo, e presto. E che ancora una volta le stesse voci malate avrebbero detto, «Oh, ma questo non ha niente a che fare con le leggi sulle armi o l’abuso del Secondo Emendamento, si tratta solo di qualche pazzo furioso», categoria di cui l’America, per qualche ragione, sembra particolarmente fornita.
E ora è successo di nuovo, bang, puntuale come un orologio, potremmo dire: venti bambini morti, bambini delle elementari, in una scuola di una ricca cittadina del Connecticut. E una madre che urla. E venti famiglie che si sentono dire che il loro bambino è morto. Dopo la strage di Aurora, ho sostenuto alcuni dibattiti con esponenti della lobby degli assassini di bambini — scusate, volevo dire la lobby delle armi — e tutti, senza eccezioni e con una veemenza folle, hanno ripetuto le stesse vecchie menzogne: sono cose che succedono negli Stati Uniti con la stessa frequenza che in altri Paesi (non è vero); sono più le persone protette dalle armi che le persone ammazzate dalle armi (non è vero, è una fandonia costruita ad arte); sono le persone, non le armi, che uccidono la gente; e tutte le altre menzogne perverse che individui che non possono essere definiti in altro modo che complici consapevoli di omicidi continuano a ripetere, individui che a modo loro sono altrettanto pazzi e malati degli assassini che difendono. (E il fatto che spesso siano le stesse persone che ostentano sdegno per la perdita di un solo singolo embrione non fa che rendere ancora più folle questa follia.) E allora esponiamo una volta di più i fatti puri e semplici, perché non possano esserci equivoci: massacri con armi da fuoco ce ne sono stati tanti, in tanti Paesi, e in tutti gli altri Paesi, a seguito della tragedia e della tragica consapevolezza che quell’episodio aveva suscitato fra i cittadini, le leggi sul possesso di armi da fuoco sono state rese più rigide. In tutti gli altri Paesi, come conseguenza di questo fatto, i massacri con armi da fuoco sono diventati rari. Solo in America i massacri con armi da fuoco, spessissimo di bambini e ragazzi, si verificano con ripugnante regolarità, e si verificano con ripugnante regolarità a causa della ripugnante regolarità con cui ci si può procurare un’arma da fuoco.
Le persone che si battono, e fanno pressioni, e fanno leggi affinché ci si possa procurare armi da fuoco con regolarità sono complici nell’omicidio di questi bambini. Hanno fatto una scelta morale chiara: il comfort e la rassicurazione emotiva che ricavano dal possesso di armi da fuoco è un valore supremo, più importante degli omicidi ricorrenti di bambini innocenti. Qualunque soddisfazione i proprietari di armi da fuoco ricavino dalle loro armi — sappiamo per certo che non hanno nessun valore cautelativo — è più importante della vita dei bambini. Bisogna riconoscerglielo: la vita è fatta di scelte morali, e questa è una scelta morale, molto chiara.
Tutto questo è una verità pura e semplice, riconosciuta in tutto il mondo. A un certo punto, questa verità forse diventerà così sanguinosamente evidente che la capiremo anche noi. Nel frattempo, rallegratevi di vivere nella capitale dei massacri-di-bambini-con-armi- da-fuoco dell’universo conosciuto.
© L’autore, firma del New Yorker, è uno scrittore, tra i suoi libri “Una casa a New York” uscito per Guanda (Traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 16.12.12
Il ragazzo che non conosceva il dolore
Adam Lanza soffriva di una rara sindrome. Ha ucciso con le armi rubate alla madre
di Angelo Aquaro


NEWTOWN — Il ragazzo che non sapeva cos’è il dolore voleva infliggere agli altri tutto il dolore del mondo, voleva portare l’inferno in quel paradiso di scuola dov’era cresciuto, voleva vendicarsi di tutto e soprattutto di tutti. A cominciare dalla madre, la donna piena di vita che amava il jazz, i drink ma pure le armi — pistole, fucili e mitraglie, oscuri oggetti di un desiderio ancora più oscuro.
Davanti all’incrocio di Dickenson Road, sul cartello “Sandy Hook School”, con lo sfondo degli addobbi di Natale, un nugolo di palloncini bianchi ricorda le venti piccole vittime, la gente si ferma, abbassa lo sguardo, dice una preghiera e lascia un fiore. Alla gelateria sulla strada, che sembra un film ma si chiama davvero “
Heaven”, paradiso, Marianne Neapier dice che ogni sabato era una processione di bambini, «li conosco uno per uno, chi mancherà al prossimo appello?». Newtown è il cuore spezzato della terra, e spezzato è il cuore di Marsha Markovitz, 56 anni e alla guida da una vita dello scuolabus, «erano come dei figli, ma come si fa». Già. Ma come si fa a continuare a dire che questa è una strage senza perché?
Armi facili, vite difficili. O troppo facili. Ascoltando l’orrore in tv, quando l’America ancora non sapeva, quando felicemente ignorava l’esistenza di Adam Lanza, vent’anni e una cascata di capelli neri come i pensieri che covava dentro, suo fratello Ryan non ha avuto neppure un istante di dubbio: «È stato lui» ha detto al telefono con un amico. Ma allora perché nessuno l’ha fermato, perché nessuno ha impedito che quel ragazzo timido “però geniale”, ricorda Joshua Milas, il socio dei “LAN Parties” che sono l’unica gioia di questi smanettoni dei computer, perché nessuno è riuscito a prevenire il suo piano diabolico?
L’ultimo allarme era arrivato proprio alla vigilia, giovedì mattina Adam s’era presentato lì, nella scuola che voleva far esplodere del suo odio, c’era stata perfino una lite con i guardiani, quattro di loro. Venerdì è tornato, superando i controlli all’ingresso con una mitragliata di una dozzina di colpi e puntando a freddo su bambini e personale, tutti centrati da vicino e tutti con più proiettili. «Si è introdotto con la forza» dice ora Paul Vance, il capo della polizia, col linguaggio da verbale pure in conferenza stampa. Ma nessuna forza particolare gli era servita quando, a sangue freddo, pochi minuti prima s’era liberato del primo e più ingombrante ostacolo: sua madre.
Sì, anche Nancy Lanza sapeva di avere un ragazzo difficile, e ne soffriva, quante volte allontanandosi da casa aveva chiesto all’amica vicina di darci un occhio. Dare un occhio a un ragazzone alto così? Lo sapevano tutti, via, qui a Newtown, che dietro a tanta timidezza si nascondeva un tipo un po’ matto. «Non voglio che sia ricordato come un malvagio, non lo era», prova a difenderlo difende Kateleen Soy, compagna di classe alla St. Rose of Lima School, mentre Andrew Lappie aggiunge mistero a mistero, non ricorda neppure quando Adam aveva mollato la Newton High School. Eppure era bravo, bravissimo, non aveva avversari in una materia mica tanto liscia come il latino, e che lezioni di letteratura quelle dissertazioni sui grandi classici, “Il Giovane Holden”, l’eroe timido e introverso come lui, e “Uomini e topi”.
È stato proprio Ryan, 4 anni più grande, a dire alla polizia che quel fratello che non sentiva “da due anni”, e che addosso portava i suoi documenti — per questo i primi report avevano indicato il killer per errore in lui — “soffriva di autismo”. Gli amici confermano, parlano di sindrome di Asperger. Occhio, sono discorsi scivolosi: la malattia è malattia, il crimine crimine. Però oltre alle sfide da smanettoni come lui — le gare di computer — i compagni di scuola ricordano anche le partitelle a baseball, «Adam aveva una strana malattia, non sentiva il dolore e avevamo quindi paura potesse farsi ancora più male non sentendo mai gli urti»: condizione a volte compatibile con la sindrome.
Nancy Lanza sapeva tutto questo e chissà s’è riuscita a realizzarlo quando Adam ha scaricato i primi colpi proprio su di lei: con le stesse armi che lei stessa aveva acquistato, che tante volte aveva usato portando i figli al poligono. Ne hanno trovate tre accanto al corpo del killer. Una quarta sull’auto, un’Honda, sempre della madre, con cui dopo averla uccisa s’è fiondato a scuola. Non basta. Due giorni prima aveva tentato di acquistare anche un quinto fucile: non gliel’hanno dato solo perché qui in Connecticut tra quando chiedi e quando porti a casa armi così potenti passano 14 giorni, almeno questo.
Sussurrano che la chiave di tutto si nasconda proprio nel rapporto complesso tra madre, figlio e padre. Peter Lanza è un ex prof universitario oggi boss della finanziaria di General Electric, s’è risposato, vive a Stanford e ha saputo solo dai giornalisti che suo figlio era diventato un mostro. Per il mantenimento del ragazzo aveva alzato l’assegno richiesto dagli avvocati: portandolo a 290mila dollari all’anno. All’ex moglie non faceva mancare niente, il villone da mezzo milione su Yogananda Street, 4 stanze da letto, 3 bagni, 2 piani, nel cuore di questa Newtown eletta cinque anni fa “comunità migliore d’America”. Qui Nancy giocava a dadi con le amiche, dava feste di beneficenza, frequentava i club jazz, conduceva una vita sicuramente agiata, molto agiata. Forse troppo agiata, per il ragazzo che non sapeva cos’è il dolore.

Repubblica 16.12.12
Lo scrittore Russell Banks è tornato in New England: “Qui siamo tutti sotto shock, serve una nuova legge sulle armi”
“Quel giovane alienato dalla tecnologia”
di Antonello Guerrera


«SONO sconvolto da questa tragedia. Gli americani hanno un’ossessione omicida. E il lato oscuro della tecnologia ha fatto il resto. Ma ora Obama deve avere il coraggio di dire basta a questi massacri». Dall’altro ieri, il 72enne scrittore del New England, Russell Banks, è proprio in Connecticut, lo stato di Newtown, dove venerdì scorso il 20enne Adam Lanza ha ucciso barbaramente 20 bambini e 6 adulti. Nei suoi libri Banks (in gennaio Einaudi Stile Libero pubblicherà il suo La deriva dei continenti)
ha spesso raccontato l’alienazione della “periferia” americana. Alienazione che spesso, nei più emarginati, sfocia in una devastante follia.
Signor Banks, come ha reagito il Connecticut alla notizia della strage?
«Siamo tutti scioccati, non riusciamo a crederci. Quel ragazzo era un pazzo scatenato.
E come a Columbine e in altre stragi, era maschio, bianco, giovane, istruito, figlio della classe media. Non voglio generalizzare, ma è un dato di fatto».
E perché è successo ancora una volta, secondo lei?
«Il Connecticut ha una legge molto severa sulle armi. Ma Lanza aveva in casa le armi della madre, anche semiautomatiche. E poi c’entra la tecnologia».
In che senso?
«Molti giovani come Lanza sono sempre più alienati dalla tecnologia. I rapporti sociali, il sesso, la violenza: tutto oramai è digitalizzato, la linea tra realtà e fantasia si assottiglia sempre di più. Oggi, rispetto al passato, essere un terrorista è molto più facile».
Secondo lei, bisogna riscrivere la Costituzione americana per limitare l’accesso alle armi?
«No, basterebbe solo limitarne l’utilizzo, come già accadeva negli anni di Bill Clinton, e vietare le armi semiautomatiche. Obama, purtroppo, sino a oggi non ha fatto nulla per fermare queste stragi. Ora però può rifarsi: è al suo secondo mandato e ha una grandissima opportunità per cambiare le cose e approvare una riforma storica».
La lobby delle armi non si opporrà a tutto questo?
«Certo. Ma ora Obama ha dalla sua una popolazione assolutamente sconvolta dalla strage di Newtown. Può farcela».
Qualche mese fa, lo scrittore Jonathan Safran Foer ha detto a Repubblica che gli americani hanno «un’ossessione omicida ». Lei è d’accordo?
«Assolutamente sì. La settimana scorsa ne discutevo proprio con mio nipote: ha 30 anni e molte armi in casa. Io gli ho chiesto: “Ma perché?”. E lui: “Perché è divertente”».

il Fatto 16.12.12
Il medievista Franco Cardini
Apocalisse, il grande classico di ogni crisi
di Silvia Truzzi


No guardi, il buio Medioevo non c’entra niente”. Franco Cardini, storico medievista, alla parola “profezia dei Maya” ci ferma subito: “Le grandi paure del Medioevo ce le siamo inventate nel-l’Ottocento”.
Professore, partiamo dall’inizio. Le profezie apocalittiche ci sono sempre state?
Sì, sono figlie della tradizione ebraica. I cristiani le hanno immesse nella civiltà greco-romana: quando l’Impero romano si è cristianizzato c’erano già leggende anche se non legate propriamente alla fine del mondo (è un’idea legata alle religioni della Bibbia e del Corano, che hanno un’idea della Creazione e quindi anche della fine).
Facciamo un esempio.
La IV Egloga di Virgilio, che poi i cristiani hanno usato come profezia della nascita di Gesù, parlava proprio della fine di un ciclo. È il deteriorarsi progressivo del mondo: l’età dell’oro, d’argento, di bronzo, di ferro. O il Kali Yuga degli indiani, l’età nera, dopo la quale si ricomincia da capo e viene una nuova era felice. Virgilio, attingendo a fonti gnostiche, nel I secolo a. C. – guarda caso: proprio mentre stava nascendo Gesù – la rimette in circolazione. Questo per dire che il mondo cristiano è sempre stato attraversato da queste leggende.
Dunque la paura dell’anno Mille è una bufala. Ce la fanno pure studiare a scuola.
Jules Michelet è lo storico che con Burckhardt ha inventato la parola Rinascimento. Però ha anche inventato questo affascinante quadro della gente che l’ultima notte dell’ultimo giorno del Primo millennio aspetta la fine del mondo. E il giorno dopo, allegri d’esser ancora vivi, tutti tornano laboriosi più che mai alle proprie occupazioni: da qui inizia un periodo di grande espansione.
E quale realtà nasconde la favoletta?
Effettivamente tra il X e l’XI secolo per ragioni climatiche, socio-economiche, politiche e demografiche il mondo euro-mediterraneo ha avuto una sorta di risveglio. Una situazione perfetta per agganciare anche le profezie apocalittiche.
Però non si capisce bene perché è una favoletta...
Per la semplice ragione che nessuno allora sarebbe stato in grado di sapere qual era con precisione l’ultima notte del Primo millennio. Nel mondo medievale nemmeno si poneva il problema perché c’era una pluralità di sistemi calendariali. L’anno in Francia finiva la notte tra il Sabato santo e la Pasqua, nelle aree dominate dal vescovo di Roma e in Germania era la notte di Natale. In Toscana e in Lombardia, il primo giorno dell’anno era il 25 marzo, cioè l’Annunciazione. Insomma avrebbero dovuto litigare per stabilire qual era l’ultimo giorno del millennio! Naturalmente questo non toglie che ci siano state nel corso dell’XI secolo molte voci profetiche sulla fine dell’umanità, legate al Libro dell’Apocalisse. E sono credenze che si rafforzano in momenti di crisi. Il tempo in cui si è attesa con forza la fine del mondo è stato tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna. Soprattutto nel periodo della Riforma. Per esempio il 1524 era molto temuto perché c’era una congiunzione astrale nel segno dei Pesci, avevano detto che ci sarebbero stati nuovi diluvi, cataclismi: in effetti fu un anno caratterizzato da forti piogge. E poi le guerre, le epidemie. Vuoi che in un momento del genere non venissero fuori profezie apocalittiche?
E oggi?
Ci sono certe cose – come le rivoluzioni – che accadono all’inizio o alla fine dei secoli, e non mi chieda perché. All’interno delle convenzionalità – il calendario è una di queste – si creano dei cicli che sembrano preterintenzionali. E allora quando si arriva alla fine dei secoli e tanto più alla fine dei millenni ci si arriva con una certa paura implicita. Quando si ha paura si colgono i segni di quello che si teme succeda. Ora abbiamo molte paure – e non solo perché siamo all’alba di un millennio cominciato male, con l’11 settembre – ma perché siamo in un periodo di crisi, soprattutto noi occidentali. Sappiamo che è finito quel mezzo millennio a partire dal quale siamo diventati i padroni del mondo. E le paure tornano a galla. Ma, come diceva mia nonna, le disgrazie non bisogna chiamarle.

Corriere 16.12.12
Perché le nostre bambine leggono peggio di 5 anni fa
L'Invalsi: i nativi digitali hanno difficoltà con i libri
di Alessandra Mangiarotti


E pensare che fino a cinque anni fa il grande salto sembrava fatto. L'ultima fotografia globale scattata sugli alunni di dieci anni ci dice invece che le capacità di lettura dei bambini italiani sono retrocesse al livello del 2001. Sia subito chiaro: comunque un buon livello, visto che il nostro Paese occupa un dignitoso 18° posto nella classifica mondiale su 45 nazioni, ma sicuramente negativo se rapportato al trend e alle competenze a cui ci avevano abituato le alunne di sesso femminile: sono state infatti le bambine, storicamente e universalmente più brave nella lettura, a peggiorare. Portando la forbice tra i due sessi a livelli minimi: tre punti appena separano le bambine dai maschietti. Un dato che pone l'Italia al 2° posto dopo la Colombia, mentre la differenza media internazionale è di 17 punti.
La classifica Pirls è stata realizzata dall'Iea, l'associazione internazionale per la valutazione del rendimento scolastico. L'Italia ha riportato un punteggio medio in lettura di 541 punti, lo stesso del 2001, mentre nel 2006 di 551: in cinque anni si sono bruciati dieci punti. Le bambine ne hanno persi due rispetto al 2001 ma addirittura 12 rispetto al 2006. I maschietti, invece, sullo stesso periodo ne hanno persi otto ma sul decennio ne hanno guadagnati tre (nel Centro Italia sono risultati più bravi). Tutto questo mentre Paesi come gli Usa hanno guadagnato complessivamente 14 punti, Hong Kong e Singapore una quarantina.
E dunque: cosa è successo ai nostri alunni di quarta, classe in cui i bambini passano dall'imparare a leggere al leggere per imparare? E soprattutto cosa è successo alle bambine da sempre — per ragioni forse culturali, qualcuno tira in ballo anche la genetica — più brave nella lettura narrativa? Roberto Ricci, responsabile dell'area prove dell'Invalsi (il nostro sistema di valutazione) mette in fila le ipotesi che saranno approfondite con indagini nazionali. La prima, l'introduzione nelle prove di testi diversi da quelli tradizionali narrativi: «Testi informativi, da quelli giornalistici a quelli iconici». La seconda, il cosiddetto singhiozzo statistico: «Cinque anni in cui si sono avuti bambini ma soprattutto bambine meno bravi». La terza, una diversa predisposizione delle nuove generazioni: «Più sensibili a testi diversi da quelli letterari: Internet, tv, giochi di ruolo... Generazioni di nativi digitali che, alle prese con testi tradizionali e non, hanno però gli stessi problemi di comprensione». La quarta ipotesi, la più allarmante, un appiattimento verso il basso delle competenze: «Un arretramento, insomma, delle categorie migliori. La nostra scuola si è concentrata sulla popolazione scolastica più debole, ed è positivo. Lo svantaggio è che questo ha forse portato a un appiattimento verso il basso trasformando in un falso successo la riduzione del divario tra i sessi». I dati sembrano confermarlo: ben l'85% degli studenti dimostra un livello intermedio, ma solo il 10% avanzato (a fronte di un 24% di Singapore). «La scuola deve puntare quindi su una molteplicità di testi e trovare il modo di trasformare le nozioni in competenze».
Anche Mauro Palumbo, sociologo che si occupa di sistemi educativi, legge nei numeri Pirls quell'«appiattimento verso il basso che già affligge la scuola media». Poi fornisce altri due spunti di riflessione: «La presenza sempre più alta di studenti stranieri che non parlavano l'italiano prima di iniziare la scuola». Il 6% tra quelli che hanno preso parte all'indagine (rispetto a un 2% della Francia, a un 3 della Germania). «Quindi una correlazione tra competenze dei bambini e numero di libri che hanno in casa». L'influenza maggiore che subiscono è quella dell'ambiente culturale in cui vivono. E quello nostrano non aiuta visto che i dati Aie ci dicono che i lettori italiani sono il 45,3%, i francesi il 70 e i tedeschi l'82.
La scrittrice Chiara Gamberale non concorda: «In casa mia, con mamma ragioniere e papà ingegnere, i libri li ho portati io. Eppure...». Punta quindi il dito su quella che definisce la «sciatteria» del nostro linguaggio: «Veloce, povero, senza grammatica. Senza storie. I grandi lo parlano e i piccoli, le piccole più sveglie ancora di più, li copiano salvo poi arrancare davanti a una pagina ben scritta. Se fossi nata solo cinque anni dopo forse non sarei quella che sono: per leggere bene ci vuole concentrazione e lentezza».

La Stampa 16.12.12
Frank Gehry
Non sono quello che accartoccia i fogli
Nello studio del grande architetto, a Los Angeles: “Questa era una città creativa e aperta all’innovazione, così ha alimentato i miei progetti”
di Benedetto Camerana


Qui a fianco due vedute del plastico per la Fondazione Louis Vuitton al Bois de Boulogne a Parigi, che assume una colorazione diversa a seconda dell’illuminazione notturna: è uno dei progetti a cui Gehry sta lavorando ora. Più in basso l’«edificio binocolo», realizzato tra il 1985 e il 1991 a Venice, sobborgo di Los Angeles, per l’agenzia pubblicitaria Chiat/Day
Il Walt Disney Concert Hall nel downtown di Los Angeles: Gehry vinse il concorso nel 1989, l’edificio fu inaugurato nel 2003
L’architetto Benedetto Camerana è presidente del Museo dell’Automobile di Torino
Frank O. Gehry è nato 83 anni fa a Toronto, in Canada, da una famiglia di ebrei polacchi

"Sono arrivato dal Canada a 18 anni. Oggi però il clima sta cambiando, anche qui cresce una cultura delle regole conservative, della proibizione, come in Europa e soprattutto come da voi in Italia Forse siete pionieristici anche in questo..."

LOS ANGELES Frank Gehry è il più innovatore tra i grandi architetti americani, uno dei primi vincitori del Pritzker Prize, il Nobel del settore, nel 1989. L’ho incontrato nei giorni scorsi in California. La sede di Gehry Partners è un «capannone per creativi», parte di un compound occupato da università, agenzie di marketing e società di trading, localizzato tra Venice e Marina Del Rey, nella zona Sud di Los Angeles. Frank mi riceve nella sua stanza nel centro dello studio: dietro le alte vetrate interne un grandissimo open space distende in ogni direzione lunghi tavoli tutti uguali, occupati da grandi e piccoli plastici di lavoro che formano una foresta di progetti in via di ideazione o in costruzione. I materiali sono due, onnipresenti nelle strutture, nei plastici, negli arredi: il legno e il cartone corrugato. La conversazione è rapida, tagliente. Gli occhi di Frank, profondi e vivissimi, tradiscono una leggera inquietudine quando si parla di temi che riguardano il suo passato e si accendono istantaneamente quando si parla di un progetto attuale.
Cominciamo da Los Angeles. Buona parte dell’economia di questa città è fondata da tempo sull’entertainment e sulla ricerca, da cui si sono sviluppate agenzie che operano in ogni settore della creatività e dell’innovazione. Qui, in parallelo al movimento della Funk Art, negli Anni 60 è cresciuta una nuova architettura, fatta di materiali inusuali, anche poveri, libera da dogmi, né moderna né post-moderna. Si è parlato di una Los Angeles School e di una Santa Monica School. È l’ambiente in cui è nato il tuo lavoro, con le tue ricerche artistiche e i progetti di design, come la serie in cartone Easy Edges, fino alle tue prime residenze private tra Santa Monica e Malibu, negli Anni 70. Oltre al tuo nome, vengono subito in mente altri architetti innovatori che lavorano a LA, come Eric Owen Moss e Tom Mayne con Morphosis. Mi chiedo ora quanto il motore di questa libertà di pensiero sia l’ambiente di questa città, con la luce vivissima del Sud California e il forte mix con le comunità messicane e asiatiche.
«Los Angeles nel passato è stata un terreno molto fertile per lo sviluppo di una cultura innovativa, creativa, per le arti e la scienza, e certo anche per l’architettura. Io sono arrivato qui dal Canada a 18 anni, nel 1947, per studiare al City College, poi ho seguito la scuola di architettura alla University of Southern California dove si sono sviluppate queste nuove idee. I primi anni ho fatto molte cose, anche altri mestieri, e il mio lavoro di architetto e designer ha seguito un lungo percorso di ricerca che si è alimentato di questo ambiente. Infatti i primi clienti che hanno creduto nelle mie idee appartengono a questa classe creativa e aperta all’innovazione, che si muove tra Venice, Santa Monica e Hollywood. La casa a Venice Beach o la sede dell’agenzia di pubblicità Chiat/Day lì vicino sono due esempi molto chiari. Oggi però questo ambiente sta cambiando, anche qui cresce una cultura delle regole conservative, della proibizione, come da voi in Europa e soprattutto nel tuo paese. Forse l’Italia è pionieristica anche in questo! A questa cultura poi si aggiungono i vincoli delle performance della sostenibilità, per esempio gli obiettivi del Leed [un sistema di classificazione della sostenibilità, ndr], che rischiano di ridurre ancor di più lo spazio di lavoro per chi ha talento. Le persone prive di talento cercano sempre di impedire la creatività altrui».
Rolf Fehlbaum, presidente della Vitra, un giorno mi ha detto che gli edifici per uffici da te realizzati per loro sono molto funzionali. Questa affermazione sembra in contrasto con l’immagine che di te ha il grande pubblico, vedi il noto episodio dei Simpson nel quale tu apri una lettera, la accartocci, la butti a terra, ti volti, la riguardi e la forma casuale della carta appallottolata nei tuoi occhi si trasforma in un futuro edificio.
«Tutti i miei clienti, Rolf come gli altri, conoscono la professionalità con cui lavoriamo. Nel progetto della Disney Hall a Los Angeles abbiamo rispettato tempi e budget e l’edificio funziona benissimo per la musica. Il grande pubblico mi vede come quello che accartoccia i fogli di carta per fare un progetto e questo mi diverte ma fino a un certo punto. Qualche settimana fa sono stato invitato a un importante talk show televisivo e il conduttore mi ha chiesto di raccontare quale fosse il mio processo creativo per sviluppare un edificio dopo aver accartocciato dei fogli. Gli ho chiesto di ricominciare l’intervista».
Recentemente hai completato il tuo primo grattacielo, la 8 Spruce Street Tower, che oltre a essere il più alto edificio residenziale di New York è stato accolto con grande favore dalla mai facile critica locale. Paul Goldberger ha scritto sul New Yorker che è il primo edificio costruito downtown che merita di stare vicino al Woolworth Building. La facciata a pannelli di acciaio inox incurvati è del tutto contemporanea e allo stesso tempo sa dialogare con i grattacieli del primo Novecento. Ma l’aspetto forse più rilevante è il costo relativamente basso del progetto.
«È vero, ho lavorato molto sulla facciata per avere un progetto che riuscisse a essere espressivo ma appena poco più costoso di un progetto standard. Le forme incurvate accolgono i bow window che aggiungono molto valore agli appartamenti. È un progetto molto buono per il budget».
Ci parli dei tuoi progetti in Italia e in Europa?
«In passato ho avuto molti progetti in Europa, in particolare in Germania, oltre naturalmente al lavoro di Bilbao. Ora stiamo completando la sede della Fondation Louis Vuitton a Parigi e stiamo lavorando a un progetto ad Arles. Qualcosa forse partirà ancora ma è un momento difficile, in cui molti progetti sono in stand by in attesa di finanziamenti aggiuntivi. In Italia vorrei sicuramente lavorare, ma da voi sono davvero storie infinite. Abbiamo il progetto per l’uscita dell’aeroporto di Venezia, ci lavoriamo da sei anni ma finora non è successo nulla. Ogni tanto vengono a parlarmi qui in studio ma nulla si muove. Riguardo a Torino ho solo bellissimi ricordi, per esempio del Castello di Rivoli che è stato un luogo davvero molto importante per l’arte contemporanea. Mario Merz è stato uno dei miei più grandi amici. Ricordo una sera passata in un bar davanti alla Cappella della Sindone: a un certo punto Mario è salito sul tavolo e ha cominciato a danzare, in silenzio e senza musica e intanto guardavamo la cupola di Guarini.
In passato hai lavorato a progetti per il luogo di lavoro di aziende molto innovative e creative come la Vitra o Chiat/ Day. Ora stai progettando la sede di Facebook a Palo Alto. Come hai pensato il modo in cui i loro giovani collaboratori passeranno la loro giornata in modo produttivo nel nuovo quartier generale?
«Passiamo molto tempo discutendo con i diversi team che operano nell’azienda e ascoltiamo le loro necessità. L’uso di plastici di lavoro durante il nostro processo ideativo facilita la visualizzazione di quello che stiamo pensando. Il loro team è stato molto chiaro con noi riguardo ai risultati che si aspettano da questo progetto. Noi ascoltiamo, diamo risposte e ripetiamo più volte il processo».

Corriere Salute 16.12.12
Il gran furore epistolare del «grafomane» Cajkovskij
di Alberto Paleari


«Al mio migliore amico»: è la dedica scritta da Petr Il'ic Cajkovskij sulla partitura della sua «Quarta sinfonia», eseguita per la prima volta a Mosca il 22 febbraio del 1878. Il «migliore amico» in realtà era una distinta signora sulla quarantina, vedova di un ingegnere diventato ricco come imprenditore delle ferrovie, madre di undici figli avuti dal marito più un'altra fuori dal matrimonio. Di buona cultura e criticabile gusto nell'arredamento, amante del bel viaggiare e della musica, era spassionata ammiratrice di Cajkovskij, la cui arte, così gli scrisse, «rende la vita più facile e gradevole». Pronubo al loro contatto, avvenuto nel 1876 per lettera, fu un allievo del Maestro, un violinista assunto da Madame perché la accompagnasse mentre suonava il pianoforte. La vedova si chiamava Nadezhda von Meck e per Petr Il'ic costituì un «compagno» insostituibile e comprensivo con cui parlare della musica, della vita, della religione, dei dolori, delle ansie, dei suoi personali «fantasmi», quelli che lo perseguitavano da sempre, al punto che l'amata governante Fanny ancora piccolo lo aveva definito «bambino di vetro». Petr restò sempre fragile, timido, ipersensibile, timoroso del mondo, con una dolente intelligenza che non era in grado di sorreggerlo nel mare dell'esistenza — «il Fato», come lui lo avrebbe chiamato e che lo ossessionava — e con la consapevolezza dell'omosessualità. Ci furono periodi di depressione, altri in cui la creatività sembrava scomparsa, altri dominati dal bere.
Il rapporto con Nadezhda durò quattordici anni, iniziato da lei con la richiesta di una fotografia, per finire, dopo migliaia lettere, nel 1890: improvvisamente, senza ragione. Non si incontrarono mai, se non una volta, ma per caso e senza scambiare parola. Alcune volte si videro da lontano. Lei quasi subito gli elargì un vitalizio, ma restarono fedeli al proposito iniziale espresso, in una lettera del 16 marzo 1877, anche da Cajkovskij, a complemento della considerazione che tra le cose che li univano c'era la misoginia: «Da tutto ciò lei può facilmente capire che non sono affatto sorpreso che, benché innamorata della mia musica, Lei non sia ansiosa di incontrare il suo creatore. Lei teme di non trovare in me quelle qualità ideali che mi sono attribuite dalla sua immaginazione. Lei ha certamente ragione. Sento che a una conoscenza più ravvicinata Lei non troverebbe una totale corrispondenza, una completa armonia, tra il musicista e l'uomo sognato». Da qui quel gioco a rimpiattino, quell'inseguirsi senza prendersi, sia in Patria sia all'estero, Italia compresa, che faceva sì che quando lui arrivava lei fosse già partita, che lei gli offrisse ospitalità in una delle sue dimore di campagna badando di non esserci. Neppure il legame di parentela instauratosi più tardi — una figlia di Nadezhda sposerà un nipote di Petr — imporrà una sia pur episodica tregua a questa manfrina. Si scrivevano parlando di musica: lui amava Mozart e non apprezzava Wagner, lui le inviava le sue creazioni ed entrambi indicavano la «Quarta sinfonia» come «la nostra». Lui la tenne puntualmente aggiornata sulla nascita del «Concerto per violino»: «Il primo movimento ora è pronto. Domani proseguirò con il secondo. Da quanto mi si è aperta la giusta ispirazione non ho più smesso». La misoginia, la timidezza, il «Fato» pesarono sull'animo di Cajkovskij, ma più pesante fu l'omosessualità. A quell'epoca in Russia l'omosessualità era punita dal codice: si poteva finire in Siberia. In realtà il codice non valeva per tutti: i nobili giravano l'Europa con il proprio codazzo di «amici», ostentavano le proprie preferenze sessuali, mentre lo Zar chiudeva un occhio. Petr frequentava quel mondo, veniva da una famiglia ricca e importante, ma non era di sangue blu, quindi soffriva l'esacerbante disagio di una condizione che socialmente si sentiva costretto a nascondere. Aveva due fratelli, tra loro gemelli, Anatoly e Modest, quest'ultimo anch'egli omosessuale, e una sorella che amava profondamente, Aleksandra detta Sasa. Di fronte alla realtà del suo essere, Cajkovskij cercò due volte una via di fuga, dopo avere respinto il sentimento che la sorella del cognato, Vera, mostrava per lui. Vi fu il rapporto con la cantante Désirée Artot, ma dopo alcune schermaglie la diva si unì con un altro. Il Fato però aveva in serbo il folle amore di un'allieva del Conservatorio, Antonina Miljukova. Il momento era propizio: il «compagno» di Petr, Vladimir Silovskij, si era sposato e il compositore era alle prese con lo snodo centrale del suo capolavoro «Eugenij Onegin», là dove Tatjana confessa per lettera il suo amore allo spregevole Onegin. Anche Antonina si era svelata per lettera. La coincidenza lo impressionò, e le rispose pure per lettera. Poi Cajkovskij incontrò la giovane e decise di sposarla, informandone anche Nadezhda, e mostrandole tutta la sua perplessità: «Vivere fino a 37 anni con innata antipatia per il matrimonio, poi trovarsi costretto dalle circostanze a un fidanzamento — e per di più senza provare la minima attrazione per la fidanzata — è una situazione veramente difficile». Però ammetteva che la ragazza era graziosa.
Il 18 luglio 1877 Petr sposò Antonina, con l'approvazione di Anatoly e la disapprovazione di Modest. Partecipò alla cerimonia quasi in trance. Aveva accettato quel passo per il bene della famiglia. Alla von Meck scrisse: «Le ho di nuovo spiegato che, a parte un sentimento di gratitudine per il suo amore, per lei non provo nulla»; poi ammetteva di essere consapevole che la loro unione sarebbe finita in tragedia. L'unione durò tre mesi. Ci furono angoscia, tristi presentimenti, depressione, ripensamenti, desiderio di morte, rifugio nell'alcol e un tentativo di suicidio tra le acque della Moscova. Petr non solo non amava Antonina: la detestava e disprezzava i suoi parenti. Non riusciva più a lavorare perché la sua vita era spezzata. La abbandonò, aspettando a lungo il divorzio, mentre lei chiedeva soldi e diceva di avere messo al mondo tre figli. Impazzirà. Antonina tornerà più volte nella corrispondenza con la fedele Nadezhda. La moglie veniva definita da entrambi «quel certo personaggio», mentre Cajkovskij confessava «la mia salvezza la devo alla tua amicizia» e «ogni nota che sfocia dalla mia penna d'ora in poi sarà a te dedicata». Era «la nostra sinfonia» che stava prendendo forma. L'improvvisa e inaspettata fine arrivò nell'ottobre 1890: «Addio mio caro, incomparabile amico. Non dimenticare chi prova per te amore infinito». Il compositore restò «orfano» di un'anima verso la quale sentiva l'urgenza di aprirsi, di mostrarsi per quello che era o che riteneva di essere. Invecchiò visibilmente. Scrisse un ultimo capolavoro, la «Sesta sinfonia, Patetica». Poi morì. Ufficialmente per colera. Aveva 53 anni ed era il 6 novembre 1893.

Corriere Salute 16.12.12
Quasi una forma psicanalitica


Cajkovskij era un grafomane. Poteva scrivere per due-tre ore ogni giorno, soggiogato da un'irrefrenabile esigenza, una indomabile mania compulsiva. Nell'arco della giornata poteva produrre fino a 18 lettere, e più di una poteva avere lo stesso destinatario. Lo testimonia la sterminata corrispondenza con Nadezhda von Meck, ma anche una pletora di missive con altri destinatari, tra i quali figuravano i familiari, ma non solo. Probabilmente era un modo per esorcizzare il proprio disagio esistenziale, o comunque per cercare di ovviare alla sua misantropia e alla paura che provava nei confronti della gente e del mondo governato dal Fato. Una specie di autoanalisi psichiatrica durante la quale Petr esponeva sentimenti che la società gli impediva di manifestare in altri modi. Particolarmente importanti sono le lettere del periodo 1876-1878: gli anni della crisi susseguente al disastro del matrimonio. Una vera seduta psicoanalitica per corrispondenza.

Corriere La Lettura 16.12.12
Quanto sangue in un mare di sabbia Le amare lezioni delle guerre in Libia
A un secolo dal trattato che consegnò all'Italia il controllo di Tripoli sconfitte e rivincite del nostro esercito contro gli arabi e gli inglesi
di Antonio Carioti


Gli italiani giungono spesso impreparati a prove cruciali, pagando a caro prezzo superficialità e imprevidenza, ma poi di solito sanno imparare dalle dure lezioni subite. Sembra questa la conclusione che si può trarre da alcuni libri usciti di recente sulla vicenda — poco studiata se non rimossa — della nostra attività militare in Libia.
Nessuno si è sognato di celebrare, due mesi fa, il centenario del trattato di pace fra Italia e Turchia firmato a Losanna il 18 ottobre 1912, che ci consegnò il Paese africano dopo un anno di guerra. E del resto il conflitto non terminò allora né con le operazioni contro la residua resistenza libica, durate fino all'estate 1913. La lotta era appena agli inizi e sarebbe durata un ventennio, come sottolinea Nicola Labanca nel saggio La guerra italiana per la Libia 1911-1931 (Il Mulino). L'idea che la popolazione locale avrebbe gradito la presunta «liberazione» dal giogo turco era tramontata presto. Ma i guai peggiori cominciarono nell'autunno del 1914: non solo fallì il tentativo di conquistare la regione interna del Fezzan, ma in Tripolitania e Cirenaica, ex province ottomane piuttosto eterogenee, una rivolta indigena costrinse le truppe italiane ad asserragliarsi nei centri costieri, lasciando agli insorti il resto del territorio.
La Prima guerra mondiale rese ancor più precaria la condizione delle forze a presidio della colonia, tanto che nel 1917 il governo di Roma accettò di venire a patti con la Senussia, la confraternita musulmana che controllava la Cirenaica, mentre in Tripolitania i capi locali proclamarono nel 1918 una «repubblica araba e islamica». Ma la ricerca di una soluzione che conciliasse presenza italiana e autonomia delle genti libiche, con la «politica degli Statuti», venne abbandonata già prima dell'avvento di Benito Mussolini, soprattutto su pressione del governatore inviato a Tripoli nel 1921, Giuseppe Volpi. Lo stesso ministro delle Colonie Giovanni Amendola, leader e poi martire dell'antifascismo liberale, finì per avallare la scelta della riconquista militare.
La lunga e sanguinosa campagna avviata allora è ripercorsa minuziosamente nel lavoro di Federica Saini Fasanotti Libia 1922-1931. Le operazioni militari italiane, edito dall'Ufficio storico dello stato maggiore dell'esercito. Un volume ricco di cartine e fotografie, frutto di una lunga ricerca d'archivio, che mette in rilievo due punti evidenziati anche da Labanca: da una parte la capacità delle nostre forze di rispondere alla sfida della guerriglia, schierando reparti molto agili, composti in prevalenza di truppe africane, e combinando le «antiche usanze» locali con «le più moderne tecnologie», per esempio l'arma aerea; dall'altra la scelta di colpire non solo gli insorti, ma anche le comunità da cui essi «traevano linfa vitale in termini di risorse umane, di armamenti, di cibo e di acqua».
Qui si apre lo spinoso capitolo dei crimini di guerra, su cui hanno insistito gli autori più critici verso il colonialismo, come Angelo Del Boca. Nota Labanca che il generale Rodolfo Graziani scatenò una «guerra a tutta la popolazione e non solo alla resistenza», fino a deportare e rinchiudere in terribili campi di concentramento le comunità più riottose della Cirenaica. Federica Saini Fasanotti parla a sua volta di «metodi brutali», ma ricorda che gli insorti non erano da meno. In Tripolitania i combattenti arabi scacciarono con la forza circa 30 mila berberi dai loro villaggi, dove poterono tornare solo grazie all'intervento italiano. In Cirenaica chi si sottometteva ai colonizzatori subiva le rappresaglie cruente di Omar al Mukhtar, il leggendario capo ribelle impiccato nel 1931. Federica Saini Fasanotti giudica «un errore enorme» quell'esecuzione, ma rileva come gli studiosi anticolonialisti abbiano sottovalutato la violenza di cui erano capaci gli insorti libici.
Di certo l'esercito italiano aveva fatto tesoro dei precedenti errori e si era adattato alle condizioni (particolari anche per ferocia) della guerra coloniale. Si dimostrò invece del tutto inadeguato, dieci anni dopo, al confronto con le ben più esperte ed attrezzate forze britanniche. E ne scaturì il disastro ricostruito da Andrea Santangelo nel libro Operazione Compass (Salerno Editrice).
Prive di aerei e mezzi corazzati validi, male organizzate e comandate peggio, tra il dicembre 1940 e il febbraio 1941 le truppe di Graziani, assai più numerose del nemico, furono annientate e persero l'intera Cirenaica. Santangelo espone le ragioni della disfatta in modo limpido e sintetico, senza fare sconti al regime che aveva gettato irresponsabilmente l'Italia nel conflitto. Ma aggiunge che i militari italiani diedero poi in Nord Africa prove assai migliori, non solo perché guidati dal brillante generale tedesco Erwin Rommel. Il rude insegnamento di quella «Caporetto nel deserto», finora trascurata dalla storiografia, a qualcosa era servito, anche se tutti dobbiamo ovviamente rallegrarci che l'esito finale della guerra sia stato la sconfitta dell'Asse.

Corriere La Lettura 16.12.12
L’uomo in cerca di se stesso
Eravamo tre Ulisse al pub
Omero, James Joyce, Ezra Pound: dialogo con l'eroe dell'ignoto
di Giulio Giorello


Con queste parole, nel 1922, Ezra Pound salutava la costellazione di «vortici» incarnata nei personaggi dell'Ulisse appena pubblicato: «Joyce parla, se non con la voce degli uomini e degli angeli, almeno in un linguaggio multiplo e plurilingue, un linguaggio di ragazzini, di predicatori ambulanti, di uomini "gentili" o volgari, di ubriaconi e di imprenditori di pompe funebri». Altro che libro illeggibile, come lo aveva bollato buona parte della critica, insistendo sull'artificioso esperimento di rifare l'Odissea nella Dublino del 16 giugno 1904. «Joyce ha rappresentato l'Irlanda sotto la dominazione inglese»; eppure, «i dettagli della carta topografica sono locali», mentre Leopold Bloom — il novello Ulisse ebreo irlandese — «è di tutti i luoghi». Tutto è fugace nella riscrittura joyceana dell'Odissea. Ma proprio per questo Dedalus, Bloom e gli altri personaggi sono antichi e sempre presenti — asseriva Pound — «come la Venere di Milo».
D'altra parte, che cosa si dovrebbe tributare all'eroe della saga joyceana? Come dice la voce narrante del romanzo, «doni di stranieri, gli amici di Ognuno», ma anche «una ninfa immortale, la bellezza sposa di Nessuno». I ricordi scolastici del IX Libro dell'Odissea rimandano allo stratagemma con cui l'astuto Ulisse salva sé e i propri compagni dall'appetito e dall'ira del cannibale Polifemo: nel presentarsi al «ciclope gagliardo», aveva declinato le proprie generalità come Nessuno; e Polifemo, privato infine del suo unico occhio (mentre Ulisse e i suoi si stanno mettendo in salvo), chiama invano in aiuto i confratelli che vivono «nelle spelonche e sulle cime ventose». L'accecato si lamenta, infatti, che un certo signor Nessuno «m'uccide d'inganno e non con la forza», solo per sentirsi rispondere dagli altri che «se nessuno ti fa violenza e sei solo», devi semplicemente accettare il male che la divinità ha decretato per te.
Joyce traduce e stravolge genialmente l'intuizione di Omero: Bloom è tutti quanti noi, ciascuno esule e straniero anche a casa propria, persino coi propri cari, sempre in cerca di un completamento a cui nessuno può davvero pervenire. Questa idea di un sentiero ininterrotto, di un viaggio senza termine alla ricerca di una perfetta fioritura umana, magari in direzioni contrastanti, è stata troppo spesso associata a un vago ideale romantico tipico della giovinezza. Qui si rivela, invece, l'altra faccia della maturità (se non della vecchiaia) dell'eroe dal multiforme ingegno che Joyce ha fatto diventare «papà Prudenza», come lo chiama per scherno la teppaglia di Dublino. Da qualche parte lo attende la sua ninfa immortale, ma forse gli sarà impossibile possederla pienamente.
Del resto, già nel 1914, parlando delle varie «maschere» che aveva via via indossato nel suo lavoro letterario, Pound aveva annotato: «Nella ricerca di se stesso si brancica, si trova qualche verità apparente. Si dice: Io sono questo, quello o quell'altro, e appena pronunciate le parole si cessa di essere quella cosa». Ogni maschera costituisce appunto un «vortice», cioè «un nodo o groviglio di radiazione» che lega l'Io al mondo, senza pretendere di costituire qualcosa di definitivo. Anzi, il viaggio verso la conoscenza di sé è un'esplorazione senza fine di questo universo di maschere; non diversamente dalla ricerca scientifica, in cui conta di più la tensione inquieta verso la verità che il possesso sicuro di essa, come dichiareranno alcuni degli spiriti anticonformisti del Novecento: fisici come Albert Einstein, matematici come Bruno de Finetti, filosofi come Karl Popper.
Dalla parte di Joyce, la prosa di Ulisse è poesia della bellezza. «In questo super-romanzo», diceva ancora Pound, Joyce «si è accinto a creare un Inferno e ha creato un Inferno… Con un semplice rovesciamento, egli ha riportato nella realtà le Furie, le sue flagellanti signore del Castello. Telemaco, Circe, il resto della compagnia ulissica gradualmente s'impongono nella coscienza del lettore, con maggiore o minore rapidità a seconda che egli conosca bene o male Omero». Questa è solo «un'impalcatura, un mezzo per costruire che è giustificato dal risultato: un vero e proprio trionfo di forma, un saldo schema fondamentale con continue intessiture e arabeschi», dove persino ogni dettaglio del male sparso nel mondo si trasfigura in «tenebra che splende nella luce». Anche Pound aveva fatto di Ulisse il punto di partenza per il viaggio della mente descritto nei suoi Cantos. Ma non aveva perdonato all'eroe di Omero la disinvoltura con cui aveva sacrificato i propri compagni nella conquista di provvisori traguardi, anche se il poema omerico iniziava rammentando il dolore e la delusione di Ulisse per non essere riuscito a salvarli. Pound, invece, nel Canto XX quasi rinfaccia all'eroe greco (e al suo cantore) che costoro, diversamente dal capo, non hanno avuto per compagna di letto Circe, né hanno potuto ascoltare la melodia delle Sirene, né sono stati nutriti con i cibi sopraffini di Calipso, né sono tornati a vedere Itaca: «Dato! Cosa gli fu dato? Cera per gli orecchi», e pure il sepolcro nel profondo mare «color del vino»! Alla condanna di Pound si contrappone l'assoluzione di Ulisse da parte di «Joyce il commediante» (come è definito anch'egli nei Cantos): Bloom non cerca bagni di sangue, ma comprensione.
Supponiamo allora che, non visti, per una sorta di magia i «tre poeti» — Omero, Pound e Joyce — compaiano insieme in uno di quei pub di Dublino che talvolta possono ricordare la spelonca oscura del Ciclope. Per esempio il locale di Bernard Kiernan, ove Bloom, nel corso del suo peregrinare, tiene testa ai ciclopi irlandesi, tra scommesse ippiche, pinte di birra e bicchieri di whiskey. Quando viene schernito per la sua ascendenza, trova il coraggio di ribattere che grandi musicisti come Mendelssohn, così ammirati dagli irlandesi colti, o uno dei maggiori filosofi come Spinoza erano ebrei, «e pure il Salvatore era ebreo, suo padre era ebreo. Il vostro Dio». Scamperà a stento alle botte di chi vuole cambiargli i connotati e, rifugiatosi rapidamente in un calesse, riuscirà a evitare di stretta misura di essere colpito da una scatola di latta che rimbalza rumorosamente per la via, con la plebaglia lì a gridare e a ridere. Ma nella parodia joyceana pare quasi l'ascensione del profeta Elia al cielo, «verso la gloria dello splendore, a un angolo di quarantacinque gradi sopra il Donohoe's di Little Green Street, veloce come uno schiocco di frusta». Buon lettore di Spinoza (tiene sulla mensola di casa anche una raccolta di Pensieri del filosofo), Bloom ha smesso gli omerici panni «di alieno vendicatore, giustiziere di malfattori, crociato nero», in cambio dell'orgoglio di chi ha saputo dimostrare che è bene restar saldi contro ogni forma di oppressione, pur sotto un cielo in cui si dispiegano non più l'antica divinità bensì solo «l'apatia delle stelle». Benché i fantasmi dei morti tornino qualche volta nella memoria a visitarlo, Leopold è degno della battuta del filosofo che più ama. Etica, Parte IV, Proposizione 67: «L'uomo libero a nessuna cosa pensa meno che alla morte; e la sua sapienza è una meditazione non della morte, ma della vita».