martedì 18 dicembre 2012

l’Unità 18.12.12
Pd, primarie per il 90% dei candidati
Approvate le regole: solo il 10% eviterà il voto nei gazebo
Concesse dieci deroghe tra cui Bindi, Finocchiaro e Marini
Renzi: scelta positiva
La direzione Pd fissa al 10% la quota protetta a disposizione di Bersani e assegna dieci deroghe per le ricandidature. A varcare la soglia di Camera e Senato dovrà essere un minimo del 33% di donne, grazie alla doppia preferenza di genere. Si andrà alle urne il 29 e il 30 dicembre.
Potranno votare gli elettori del 25 novembre e gli iscritti al Pd del 2011 che rinnovino la tessera
di Maria Zegarelli


«Dal Paese c’è un’aspettativa enorme verso di noi. La società ci tende la mano in questo passaggio difficile. Oggi iniziamo un percorso totalmente inedito». Inizia così la sua relazione Pier Luigi Bersani, aprendo i lavori della direzione nazionale che dovrà votare regole e deroghe ai parlamentari in vista delle primarie del 29 e 30 dicembre.
Ci sono tutti i dirigenti, da Massimo D’Alema a Dario Franceschini, Piero Fassino, Matteo Renzi, Franco Marini, Beppe Fioroni, Rosy Bindi, Enrico Letta. Facce serene, forse perché dopo una lunga giornata di incontri e girandole di telefonate si è arrivati a un accordo. Che sia un percorso inedito è sicuro: stavolta per andare in Parlamento si dovrà passare per i gazebo dando la parola agli elettori e con la speranza (di molti big) che non siano i dirigenti locali a fare la parte del leone. Perché stavolta, a parte una quota a disposizione del segretario in accordo con le segreterie regionali, toccherà a tutti, dai big fino agli sconosciuti, giocarsi la partita senza sapere prima quale sarà il risultato.
Dieci le richieste di deroga votate in blocco, senza cioè una discussione sui singoli nomi: Rosy Bindi, Anna Finocchiaro (a cui sarebbe stato lo stesso segretario a chiedere di non fare un passo indietro), Mauro Agostini, Maria Pia Garavaglia, Giorgio Merlo, Franco Marini, Cesare Marini, GianClaudio Bressa, Beppe Lumia e Beppe Fioroni. Di questi finiranno nel listino nazionale quasi sicuramente la presidente del Pd, Bindi, l’ex presidente del Senato, Franco Marini e la capogruppo a Palazzo Madama Anna Finocchiaro (nel listino anche Franceschini, capogruppo alla Camera). Fissata al 10% la quota protetta (più i capolista) a disposizione di Bersani, in accordo con le segreterie regionali, per garantire la rappresentanza della società civile, di competenze ed esperienza sul campo (soprattutto nelle commissioni parlamentari e in Aula), ma anche di rapporti di forza interni. Alla fine saranno all’incirca un centinaio tra deputati e senatori ad avere il pass assicurato per il Parlamento, mentre a varcare la soglia di Camera e Senato dovranno essere minimo il 33% di donne, grazie alla doppia preferenza di genere. Obbligatorio per tutti, per evitare ricorsi e proteste post-primarie, accettare per iscritto le regole.
Dopo una lunga discussione sciolto anche un altro nodo: potranno votare tutti gli elettori iscritti all’Albo delle primarie del 25 novembre, gli iscritti al Pd del 2011 che rinnovano la tessera anche il giorno del voto, più i nuovi iscritti 2012 alla data del 30 novembre. Polemico su questo fronte Arturo Parisi, che pur apprezzando la decisione di Bersani di indire le primarie per i parlamentari avrebbe preferito una maggiore apertura alla platea degli elettori. «Dobbiamo esprimere una direzione politica con personalità e responsabilità dice Bersani ai dirigenti democratici dobbiamo condurre questo percorso in maniera rigorosa. Potrà essere il più forte lancio possibile della nostra campagna elettorale». Escluso lo slittamento a gennaio, che anche ieri ha chiesto Pippo Civati, perché, come ha spiegato Maurizio Migliavacca, si andrebbe troppo a ridosso delle elezioni politiche. Saranno invece le singole Regioni a scegliere se votare il 29 o il 30 dicembre.
La direzione ha approvato il regolamento messo a punto ieri mattina dalla segreteria nazionale in accordo con i segretari regionali per dare il via a quella che lo stesso segretario ha definito una «mission quasi impossibile».
Non è stato facile arrivare ad un accordo ed è stato necessario un lungo incontro anche tra i big per arrivare in direzione con una posizione condivisa, compreso il delicato capitolo delle deroghe: sì alla richiesta, a patto che tutti siano disposti a correre alle primarie, eccezion fatta per chi, in nome del ruolo che ricopre, può avere accesso al listino nazionale. Direzione alla quale ha preso parte anche il sindaco di Firenze che ieri per la prima volta ha incontrato i dirigenti del suo partito dopo la sconfitta delle primarie. «Anche con questa legge elettorale sbagliata, allucinante, il Pd fa le primarie per eleggere i parlamentari. Mi sembra un fatto molto, molto positivo dice Renzi lasciando i lavori alle 8 di sera per prendere l’ultimo treno utile per Firenze ho ritenuto doveroso da parte mia esserci e verificare che ci sia una consultazione con i cittadini. Spero che questa cosa aiuti il Pd a tenere in vita l’esperienza del 25 novembre». Dal fronte dei renziani Pietro Ichino fa sapere che non intende rientrare nel listino nazionale e che si sottoporrà alle primarie, come Salvatore Vassallo e Benedetto Zacchiroli. Ieri hanno annunciato la loro candidatura anche Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione dei parenti delle vittime della strage alla stazione di Bologna; l'ex segretario provinciale del Pd di Bologna, Andrea De Maria, il sindaco del Comune terremotato di Crevalcore, Claudio Broglia, e la senatrice uscente Vittoria Franco.

Corriere 18.12.12
Da Epifani a Gotor, i 120 «blindati» che creano imbarazzi nel partito
Tra gli esclusi i renziani Ceccanti e Giachetti. Ma anche Paola Concia
di Maria Teresa Meli

ROMA — Ha preferito non fare il convitato di pietra e come un «bravo boy scout» si è presentato in Direzione, anche se nessuno — o quasi — se lo aspettava. Ha abbracciato Nico Stumpo, sorridendogli: «Sei un delinquente». Ha soffiato il posto in ultima fila a Beppe Fioroni e quando il capo degli ex ppi lo ha chiesto indietro gli ha risposto sornione: «Non ti ho potuto rottamare, almeno fatti prendere la sedia». Poi, a riunione ancora in corso, prima che dentro e fuori la sala si parlasse dell'unico argomento che stava a cuore a tutti (la quota dei «garantiti»), se n'è andato e così ha saputo solo più tardi delle dieci deroghe votate in Direzione: «L'avevo detto io che ci voleva la rottamazione», ha ironizzato.
Ieri Renzi ha voluto marcare la sua presenza-assenza. Il sindaco ha lasciato intendere che, pur stando a Firenze, è in campo e che al Pd non conviene «restringere il recinto», non accogliendo tutte le «energie nuove che si erano raccolte attorno al partito durante le primarie». Parlare non ha parlato, ma il significato della sua presenza era inequivocabile. Anche se il sindaco ha intenzione di dedicarsi solo a Firenze, un occhio a Roma lo butterà per forza. Non per trattare le candidature con Bersani (anzi Renzi tesse le lodi di Ichino che farà le primarie perché non vuole stare nella quota dei garantiti) ma per non «disperdere» tutto quello che si è mosso nella società attraverso i comitati a lui intitolati: «Non cedete al pessimismo: il futuro ci raggiungerà presto». Del resto, circola un sondaggio riservato che rivela un fatto sorprendente: se nascessero delle «liste Renzi» in appoggio a Bersani e al Pd otterrebbero il 13 per cento.
È un dato da cui è difficile prescindere, anche se l'aria che si respirava ieri a Largo del Nazareno non aveva il sapore del nuovo che avanza. E non solo perché Rosy Bindi, al contrario dell'amica Livia Turco che si ritira con stile e senza profferire verbo, ha chiesto la deroga, passando sopra alle critiche e alle ironie e dando ragione alla profezia fatta qualche tempo fa da Veltroni: «Vedrete che un po' di parlamentari di lungo corso sfrutteranno il passo indietro mio e di Massimo per poi fare capolino e sollecitare la ricandidatura». Non è solo per questo che l'atmosfera in Direzione è pesante e i mal di pancia e le tensioni si moltiplicano. È il listino il vero pomo della discordia. O meglio la quota dei garantiti che finiranno nelle teste di lista, assicurandosi un posto in Parlamento.
I «nominati», tra protetti del segretario, esponenti della società civile e capilista, saranno centoventi circa. Un numero elevato se si pensa che Maurizio Migliavacca, all'inizio della riunione, ha spiegato: «In caso di vittoria avremo 400 parlamentari». Tra i fortunati ci saranno l'ex leader della Cgil Guglielmo Epifani, Miguel Gotor, il politologo Carlo Galli e tanti altri. C'è chi aspira, chi sgomita, e chi se ne va sbattendo la porta. Alcuni parlamentari di lungo corso verranno salvati e messi in quota, garantiti per le loro «competenze». Peccato che altri loro colleghi, con una sola legislatura alle spalle e molta più esperienza e preparazione saranno invece fatti fuori perché non hanno un padrino politico.
Un caso esemplare riguarda il senatore Roberto Della Seta. Il parlamentare ambientalista che ha condotto una dura battaglia contro l'Ilva, quello di cui Riva parla in una lettera del 2010 a Bersani chiedendogli di fermarlo. Due anni dopo Della Seta è stato fermato. Non sarà nel listino. E con lui sono stati fatti fuori gli altri due parlamentari ambientalisti Realacci e Ferrante. Esponenti del Pd che non sono radicati sul territorio, visto che rappresentano interessi diffusi, e quindi non hanno possibilità di passare alle primarie tramite i voti dell'apparato o dei signori delle tessere. Un caso analogo è quello di Stefano Ceccanti, costituzionalista, esperto di riforme elettorali. Fuori pure Roberto Giachetti, l'unico del gruppo del Pd di Montecitorio, che conosca i regolamenti della Camera e li sfrutti sempre a vantaggio del partito. Guarda caso si tratta di renziani.
Ma anche tra i bersaniani non ortodossi sono state fatte delle vittime: Bindi, contraria alle unioni civili di stile europeo, ha avuto la testa di Paola Concia, deputata gay, attivissima sul fronte dei diritti civili. Singolare per un partito il cui segretario ha annunciato che la proposta di legge sulla «partnership» sarà tra i primi atti del suo governo.

La Stampa 18.12.12
Vertice con Bersani, Monti tira dritto
Faccia a faccia a Palazzo Chigi: “Candidarmi? Ci sto pensando”. I timori del leader del centrosinistra
di Fabio Martini


Nel salone delle Feste del Quirinale il presidente della Repubblica ha concluso da poco il suo discorso, così mirato «contro» Mario Monti, ma qualche minuto più tardi durante il ricevimento il presidente del Consiglio non tradisce emozioni, sorride, stringe mani. E quando incrocia Pier Luigi Bersani si lascia coinvolgere in un duetto chiaramente ad uso degli astanti, visto che i due si erano visti un’ora prima a Palazzo Chigi. Bersani saluta simpaticamente Monti come se non lo vedesse da un mese: «Presidente!». Il premier, sorridendo, sta al gioco: «Come stai?». A questo punto Bersani rincara il calore e arriva a prendere per un braccio Monti, che non ha mai amato le effusioni e gli dice: «Vieni che ti devo dire una cosa...». Fin qui le manifestazioni esteriori che in politica, si sa, vanno sempre prese con le molle. Come nel caso di questo 17 dicembre: dietro le pubbliche effusioni, la tensione tra il premier e i partiti sta crescendo.
Un lunedì segnato per Mario Monti da due eventi che avrebbero potuto azzoppare anche il più potente dei purosangue politici. Anzitutto, l’esternazione di Giorgio Napolitano che si è dipanata lungo una concatenazione di concetti poco gratificanti per il premier: avevo preparato un percorso «orientato» verso il Monti-bis, che è stato bloccato da una brusca interruzione, a questo punto l’incarico lo do io e sarà per un governo politico. Il secondo passaggio hard è stato segnato dall’incontro con Pier Luigi Bersani a Palazzo Chigi. Un faccia a faccia, che si è svolto in una atmosfera di reciproco rispetto personale e nel corso del quale il leader del Pd ha manifestato il suo disagio per una eventuale partecipazione di Monti come candidato premier. Ma la risposta de presidente del Consiglio («Sto riflettendo») non ha fatto che ingigantire i timori del leader del Pd. E d’altra parte quale sia l’umore verso Monti ai piani alti del partito, lo spiegava ieri mattina su Twitter Stefano Di Traglia, uno degli uomini più vicini a Bersani: «Se la novità politica di Monti è un’altra lista personale, significa non aver compreso le derive populistiche degli ultimi 20 anni».
Nel colloquio con Bersani, Monti ha confermato che è vero, lui ci sta pensando ed è possibile che fra pochi giorni entri in partita. Dunque, il Professore tira dritto e questa, a suo modo, è una notizia. Nel senso che Monti tiene il punto, a dispetto di una raffica di ammonimenti: i ripetuti stop di Napolitano, l’ostilità del Pd, i tantissimi «ma chi te lo fa fare?», bisbigliati al premier da amici e conoscenti. Mario Monti insiste, tanto è vero che sfrutta tutte le opportunità che gli sono offerte dai mass media. Anche quelle in spazi extrapolitici. Dopo la recente partecipazione ad una trasmissione nazionalpopolare come Unomattina, ieri Monti è intervenuto al «Gr ragazzi» su RadioUno, rivolgendosi idealmente a tutti gli studenti, con un concetto tipico della «ideologia montiana»: «Occorreranno sempre più persone preparate». Tanti segnali che confermano la ferrea determinazione di Monti di proporsi come candidato premier di una coalizione moderata. E in una politica così abituata ai tatticismi, questo volerci essere comunque, anche a costo di perdere, ieri suscitava una crescente curiosità nel Palazzo. Dice Benedetto Della Vedova, capogruppo del Fli, l’unico nel suo partito ad avere un canale diretto col premier: «Monti è un cattolico lombardo e quindi con una mentalità quasi da protestante: la sua ambizione è quella di segnare la vita pubblica italiana, di finire il lavoro già avviato». Fa notare un altro lombardo come Giorgio Stracquadanio, del drappello che ha già lasciato il Pdl: «Monti così deciso? Non è una novità: basta ricordare la vicenda Microsoft Bye. Allora fu così determinato che alla fine la spuntò».

La Stampa 18.12.12
Per i sondaggisti una lista del Professore pescherebbe a sinistra
Fino al 15% dei voti, poi dovrebbe allearsi
di Raffaello Masci


Per bene che gli vada, Mario Monti può aspirare ad essere un buon alleato, un forte gregario. Ma gli converrà cimentarsi nella pugna per un risultato di questo genere, quando è già senatore a vita e qualcuno gli ha fatto balenare fulgidi orizzonti? E comunque, se scendesse in campo, a temerlo dovrebbe essere soprattutto il centrosinistra, perché sarebbe quello il bacino principale da cui verrebbe il travaso.
«Una lista che si richiami a Monti, ma senza il Professore candidato dice Antonio Noto di Ipr Marketing -, non ha alcuna speranza di andare oltre il 4%. Con Monti leader, il caso sarebbe diverso e secondo le nostre rilevazioni può ambire ad un 11 per cento». Sarebbe comunque un terremoto, scombussolerebbe gli equilibri bipolari, potrebbe ambire ad un accorpamento con l’Udc, che l’Istituto dà oggi al 4,5%, ma mai potrebbe diventare una forza maggioritaria. «Ciò detto si tratterebbe di un forte rimescolamento all’interno dei due schieramenti maggiori - dice ancora Noto -, perché noi abbiamo calcolato che quell’11% sarebbe costituito da un grosso zoccolo del Pd, almeno il 7%, più un 3% di Pdl e un altro punto da recuperare da altre forze».
Ma che può fare Monti con una coalizione del 15%? Solo allearsi. Con tutti i rischi del caso. «Gli italiani hanno già individuato i loro leader di riferimento - argomenta Alessandra Paola Ghisleri di Euromedia Research e uno schieramento di Monti si troverebbe comunque tra l’incudine e il martello, con una capacità di incidere molto limitata. Vorrei inoltre sottolineare come la fiducia nella sua persona, pur ancora importante, sia scesa dai 60 punti percentuali dell’inizio del suo mandato, al 40. E’ alta, ma è in discesa».
Quanto ai voti che possa erodere, saranno soprattutto quelli del centrosinistra perché al di là del consenso che pure ha avuto a destra, nel Pdl è stato sempre percepito come l’alternativa al governo Berlusconi. «E comunque - conclude Ghisleri - potrà aspirare, al massimo, a fare da sostegno ad uno dei due schieramenti».
Nicola Piepoli fa un ragionamento che dice molto: «Si ricordi, il Professore, il verso del poeta latino Catullo “Odi et amo”. Anche lui è stato molto amato, per il suo rigore, per il suo stile di vita, perché ha indicato al fine del tunnel, perché ha restituito il Paese ad un prestigio internazionale. Ma è stato anche molto odiato, perché la fine di quel tunnel non si vede, le tasse sono aumentate e c’è stata anche l’Imu».
Questo fattore - dice Piepoli - è trasversale, e se è vero che la sua fiducia oggi è stimata da noi al 51%, gli giova e se è super partes, se - invece - scende in campo, una parte, anche consistente, la perde». Su questo mare fluttuante, dunque, Monti è un fattore che rischia di innescare un meccanismo capace di travolgere anche se stesso. Quanto al consenso che si porta in eredità non è automatico che si possa tradurre in voti.
«Neppure i sondaggi sono in grado, in questa fase, di fissare la mutevolezza del momento - spiega Renato Mannheimer -, tant’è che noi abbiamo rilevato due scenari opposti: Il primo, a elezioni ancora lontane, ci dice che Monti prenderebbe al massimo il 5% con una lista senza di lui, e il 15% se si presentasse come candidato premier».
Se il premier, invece, si mettesse a fare campagna elettorale? «Avremmo il secondo, imprevedibile scenario continua Mannheimer -: tutto potrebbe cambiare e Monti potrebbe saccheggiare consensi anche tra gli scontenti di entrambi gli schieramenti». E ottenere una maggioranza? «Questo mai - sentenzia il sociologo -, si potrebbe alleare, io credo, col Pd, ma a quel punto Monti diventerebbe per il Pd un vero problema, date le alleanze già sancite».

Corriere 18.12.12
Imu per la Chiesa, Bruxelles prepara il sì
Non sono aiuti di Stato, ma niente arretrati. Grilli: più gettito? Fa bene ai conti
di Lorenzo Salvia


ROMA — Forse perché la scadenza era nota da tempo e gli italiani hanno preferito mettersi in regola la settimana scorsa, magari online. Forse perché qualcuno aspetta di incassare prima stipendio e tredicesima per non finire in «rosso» questo 2012. Forse perché qualcuno a pagare non ce la fa proprio, punto e basta. Fatto sta che ieri, ultimo giorno per versare la rata Imu di dicembre, nelle banche e negli uffici postali non ci sono state le code interminabili che qualcuno temeva. Chi ha rimandato la pratica all'ultimo momento ha dovuto aspettare più del solito ma non ci sono state quelle scene di isteria collettiva che pure abbiamo visto in passato. In realtà per l'Imu, l'imposta sulla casa, la giornata clou è stata quella di sabato quando negli uffici postali si pagavano anche le pensioni dei dipendenti pubblici. Una sovrapposizione, non calcolata al momento di fissare le scadenze, che non ha certo semplificato il lavoro nei 14 mila sportelli italiani. Ma alla fine il sistema ha retto.
Adesso i ritardatari possono imboccare la strada del ravvedimento operoso: chi si mette in regola nei primi 14 giorni pagherà una sanzione ridotta: lo 0,2% della somma dovuta per ogni giorno di ritardo. Dal 15° al 30° giorno di ritardo, invece, la multa sarà pari al 3% dell'importo, con l'aggiunta degli interessi legali: il 2,5% l'anno. Il saldo di dicembre dovrebbe portare allo Stato 15 miliardi di euro ma è ancora presto per sapere a quanto ammonta l'incasso effettivo. Un primo dato parziale arriva dai terreni agricoli: secondo un'analisi di Coldiretti per questa voce risultano già versati 534 milioni di euro, 127 in più rispetto a quelli previsti. È possibile che la stessa tendenza riguardi il gettito totale? «Potrebbe essere salutare per i nostri conti — dice il ministro dell'Economia Vittorio Grilli — ma i dati li avremo solo l'anno prossimo».
Già domani la Commissione europea potrebbe chiudere la procedura d'infrazione contro l'Italia sull'esenzione della vecchia Ici garantita alla Chiesa. Secondo indiscrezioni la Commissione dovrebbe sostenere che le nuove regole approvate dal governo Monti non violano le norme comunitarie sugli aiuti di Stato, come invece sarebbe avvenuto a partire dal 2006. Con la stessa decisione, però, Bruxelles dovrebbe chiudere la strada al recupero delle somme dovute per il passato, con la motivazione che l'operazione non sarebbe realisticamente praticabile. Ancora ieri, però, Radio Vaticana ha dato voce alle scuole cattoliche e al non profit, sostenendo che l'Imu costringerebbe a chiudere molte attività del settore.
Scaduto il termine per pagare, l'Imu continua ad essere terreno di battaglia per la campagna elettorale. Renato Brunetta (Pdl) accusa Pier Ferdinando Casini di sostenere «banalità disinformate» quando dice che Berlusconi ha tolto l'Ici e ha fatto un buco nei conti. Lorenzo Cesa, Udc, rilancia contro Berlusconi che «ha promesso di togliere l'Imu senza dire come fare, dove trovare la copertura». A Roma il candidato a sindaco per una lista civica, Stefano Tersigni, ha chiesto che i romani vengano esentati dall'Imu come «risarcimento per i disagi che devono subire con le manifestazioni e i cortei». Ecco, prima delle elezioni di Imu sentiremo parlare ancora parecchio.

Corriere 18.12.12
Gli irriducibili delle auto blu In 23 in servizio per 5 vetture
Consiglio del Lazio, i conducenti che non vogliono cambiare
di Sergio Rizzo


ROMA — Fra gli inarrivabili record collezionati dai politici del Lazio non poteva mancare il più simbolico: quello delle auto blu. I 70 consiglieri regionali ne avevano a disposizione 26, che sommate alle 4 dell'amministrazione portavano il totale a 30 (trenta!). Numeri che fanno ben capire perché quel Consiglio ora dimissionario avesse una quantità così spropositata di commissioni (una ventina): anche ai presidenti di commissione, infatti, spettava di diritto la macchina di servizio. Poi è scoppiato lo scandalo dei fondi dei gruppi consiliari e la spending review ha fatto il resto. E di auto blu non ne sono rimaste che 5. Con un bel risparmio, penserete: se si considera che ogni macchina costa fra noleggio, assicurazione e benzina la bellezza di 2.000 euro al mese. Senza tener conto, ovviamente, degli autisti. E qui si apre un altro capitolo. Quanti erano gli autisti? Difficile dire. Certo, però, dovevano essere un esercito. Oltre ai dipendenti diretti del Consiglio, c'era la pattuglia dei comandati più quella dei distaccati da Lazio service, società della Regione rimpinzata di personale. Ma il problema adesso non è quanti erano: è quanti sono. Rispediti al mittente gli esterni, ne sono rimasti infatti ancora 23. Ventitré per 5 macchine, di cui 4 spesso chiuse in garage. Per capirci: la Camera dei deputati, che di onorevoli non ne ha 70, bensì 630, ha 24 autisti. Rapportati al numero dei seggi, sono 9 volte di meno.
Apprese queste cifre, c'è da restare ancora più sbalorditi di fronte al conto lunare dei rimborsi chilometrici presentato lo scorso anno dai consiglieri del Lazio: 370 mila euro, come ha rivelato sul Corriere all'inizio dello scorso ottobre Ernesto Menicucci. In media, 5.285 euro pro capite, con una punta di 21.756 euro per Romolo Del Balzo, nonostante l'ex presidente della commissione per le Olimpiadi di Roma 2020 riunitasi tre volte in un anno e mezzo andasse frequentemente su e giù da Roma a Minturno (162 chilometri dalla capitale) con l'auto blu. Al secondo posto l'immancabile Franco Fiorito. Per un soffio. «Er Batman» di Anagni ha incassato nel 2011 ben 20.930 euro di rimborsi chilometrici per l'uso della macchina propria (non sarà mica il monumentale Suv Bmw X5 comprato con i soldi dei contribuenti?), sebbene da presidente della commissione Bilancio avesse il diritto a venire scorrazzato con una delle 30 berline d'ordinanza.
Ventitré autisti per 5 macchine. Troppi, anche un bambino ci arriverebbe. Che fare allora di tutto questo personale in eccesso? Semplicissimo: gli autisti vanno riconvertiti, come stabilisce la legge. Il decreto 95 di quest'anno, meglio noto con il nome di spending review, in proposito è chiarissimo. Il comma 5 dell'articolo 3 non soltanto prevede che «in conseguenza della riduzione del parco auto il personale già adibito a mansioni di autista o di supporto alla gestione del parco auto, ove appartenente ad altre amministrazioni, è restituito con decorrenza immediata alle amministrazioni di appartenenza», ma prescrive pure che «il restante personale è conseguentemente assegnato a mansioni differenti, con assegnazione di un profilo professionale coerente con le nuove mansioni, ferma restando l'area professionale di appartenenza e il trattamento economico fondamentale in godimento».
C'è soltanto un piccolo particolare: di cambiare mestiere, i ventitré autisti del Consiglio regionale del Lazio non ne vogliono sentir parlare. Ed è fin troppo facile immaginare il perché. Intanto lo stipendio, nel quale figurano oltre al «trattamento economico fondamentale» alcune voci accessorie che spingono la busta paga anche oltre 2.000 euro al mese. Più di quanto guadagna un funzionario. Poi ci sono i ritmi del servizio. Ogni autista è impegnato in turni di dodici ore giornaliere: il che significa lavorare tre giorni alla settimana. Con tutta la libertà che questo dettaglio si porta dietro. Ci sono stati casi di autisti del Consiglio regionale che facevano i consiglieri comunali o addirittura gli assessori di qualche paese del Lazio. Infine, volete mettere il privilegio di stare gomito a gomito con i potenti di turno? L'autista diventa uomo di fiducia, amico, confidente. Il politico finisce inevitabilmente per consegnargli i propri segreti. Anche i più piccanti e personali. Mentre lui, al volante, diventa pian piano intoccabile al pari del suo prezioso carico. Spesso anche alla faccia del codice della strada, come testimoniano i 50 mila euro di multe arretrate, molte per eccesso di velocità ma tante anche per infrazioni quali l'uso del telefonino durante la guida, che si sono accumulate nei cassetti dell'amministrazione. E di cui il nuovo segretario generale Costantino Vespasiano ha bloccato i pagamenti in attesa che si chiariscano contorni e responsabilità di un tale diluvio di verbali.
Premesso tutto questo, continua a restare incomprensibile l'atteggiamento di quella parte del sindacato che ha sposato la linea della resistenza al cambiamento di mansioni, appoggiando la rivendicazione degli autisti che vogliono restare tali. Ben sapendo il paradosso che può determinare una vittoria in questo assurdo braccio di ferro che comincia proprio oggi con l'amministrazione: restituirgli le macchine blu. Incomprensibile, naturalmente, per chi ignora che lo stesso sindacato vorrebbe far ingoiare a un Vespasiano che si mostra quanto mai riluttante il medesimo scandaloso accordo sulla produttività appena siglato per i dipendenti della giunta con l'ormai dimissionaria governatrice Renata Polverini. Una intesa che ai fini della concessione del premio non contempla la valutazione di «insufficienza», garantendo a tutti almeno il 75 per cento dell'incentivo massimo. Altro che la difesa a oltranza di ventitré autisti…

l’Unità 18.12.12
Pannella lascia la clinica
Medici allarmati, messaggi di solidarietà
di Virginia Lori


ROMA Contro il parere dei medici, malgrado condizioni di salute sempre più critiche per una grave insufficienza renale, Marco Pannella ha lasciato la clinica. «Tale decisione, che aumenta considerevolmente i rischi e riduce ulteriormente i margini per un intervento medico utile scrivono i sanitari espone anche il collegio medico a problematiche giuridiche e deontologiche rilevanti». Ma il digiuno continua: «Ho mangiato qualche caramella ma non ho bevuto».
Bersani lo ha invitato a riprendere ad alimentarsi promettendo un impegno sui temi di interventi strutturali e depenalizzazione dei reati minori, ricevendo in risposta un «grazie Ponzietto Pilato». Appelli anche da Fini, che per essersi detto contrario all’amnistia si prende un «mi fa pena chi ancora la segue». E da Schifani, Alemanno, Chiti, La Loggia, Vendola, Cicchitto, Vasco Rossi.
Anche il ministro della Giustizia, Paola Severino, aveva cercato di far sospendere lo sciopero della fame e della sete del leader radicale. Arrivata in clinica, dato che Pannella non era in grado di riceverla, ha lasciato una lettera di sostegno. A una settimana dall’inizio della protesta, contro le condizioni disumane dei detenuti, per l’amnistia e il ripristino della giustizia, le sua condizioni di salute sono difficili: 73 chili di peso, disidratazione, pericolo di vita.
E Pannella aveva lanciato un appello anche al presidente della repubblica, chiedendo a lui come ad altre personalità di farsi carico della sua battaglia. Napolitano, ieri durante il suo discorso alle alte cariche dello Stato al Quirinale, ha parlato proprio della situazione carceraria: «Sta per scadere il tempo utile per approvare il provvedimento» sulle carceri. «Ma con quale senso di umanità e civiltà ci si può sottrarre a un minimo sforzo per alleggerire la vergognosa realtà carceraria che marchia l'Italia?» ha concluso.
Intanto su Twitter si moltiplicano i messaggi di sostegno #iostoconmarco. Tra i tweet anche quello di Roberto Saviano, cui Pannella ha risposto: «A Robe' grazie ma io sto per il trittico indissolubile Amnistia, Diritto, Legalità per tutti e non per i carcerati. Abbiamo pochissime ore».
Mentre non lancia appelli Emma Bonino: «So che non servono a nulla. E non è di questo che lui vuole che noi parliamo. La sete di Marco è sete di giustizia e sete di legalità. Oggi la questione è capire se esistono personalità disposte a candidarsi per difendere legalità, giustizia lo stato di diritto e l’amnistia. E’ un appello drammatico che lanciano perché è questione di ore».
Solidarietà anche da Giancarlo Galan, mentre il sindaco di Napoli Luigi De Magistris invia con un tweet «un abbraccio forte a Marco Pannella». Tra i parlamentari Sandro Gozi twitta: «Siamo con te con le tue battaglie e con la tua generosità per cercare di salvare questo paese di brava gente«. Roberto Rao: »Abbiamo il dovere morale e politico di tirare fuori le carceri dall'illegalità in cui versano».

La Stampa 18.12.12
Le carceri scoppiano ma di piccoli delinquenti
Nei penitenziari il 41% dei detenuti in più della capienza, la maggioranza sconta pene fino ai 5 anni. Riusciranno governo e Parlamento a svuotare le celle?
di Francesco Grignetti


Tutti dentro Nelle carceri italiane sono detenute 66.363 persone. Molte sono stipate negli spazi riservati ad altro. La convivenza in spazi angusti aumenta la depressione e l’angoscia

Il foglietto è scivolato mestamente ieri sul tavolo del ministro della Giustizia, Paola Severino. Sono i numeri dell’emergenza carceraria. Aggiornati a domenica 16 dicembre. E dunque: presenti nelle carceri, 66.363 detenuti; di questi, 26.295 sono imputati in attesa di giudizio e 38.698 i condannati in via definitiva che scontano la pena. Il resto sono internati negli ospedali giudiziari. Numeri che vanno comparati con quella che è (sarebbe) la capienza regolamentare: 47.048 letti. Significa che ci sono quasi ventimila detenuti stipati in celle piccole o piccolissime, in letti a castello che spesso raggiungono il soffitto, impossibilitati a fare una decente ricreazione, esercitare qualche sport, o anche lavorare perché troppi e per di più molti spazi comuni sono occupati dai letti per «ospitare» gli arrivati dell’ultima ora.
È contro questa realtà allucinante che Marco Pannella sta portando avanti l’ennesimo sciopero della sete. Ma con questa stessa fotografia davanti agli occhi il ministro Severino sta tentando una rincorsa in extremis perché il Parlamento approvi in via definitiva un ddl, detto Pene alternative, in cui lei riponeva molte speranze per deflazionare le celle. Ha scritto nei giorni scorsi un’accorata lettera a Renato Schifani, in quanto il ddl è già stato approvato alla Camera e manca il suggello del Senato.
Con lei, a supportare il suo sforzo, è intervenuto una volta di più, ieri, il Capo dello Stato. Nel suo discorso, Giorgio Napolitano ha stigmatizzato che «importanti istanze di cambiamento e di riforma» rischiano di restare sulla carta. Ha esplicitato il suo rammarico che ci siano «opposizioni e ripensamenti tali da mettere in forse la legge già approvata alla Camera per l’introduzione di pene alternative alla detenzione in carcere». E non ha fatto mancare il suo monito, rivolto innanzitutto a quelle forze politiche come Lega Nord, Idv e parti del Pdl, che frenano: «Sta per scadere il tempo utile per approvarla al Senato. Ma con quale senso di responsabilità, di umanità e di civiltà costituzionale ci si può sottrarre a un serio, minimo sforzo per alleggerire la vergognosa realtà carceraria che marchia l’Italia? ».
Che le carceri siano una vergogna, nessuno lo nega. Il sovraffollamento produce effetti mostruosi. I suicidi, ad esempio. Crescono a dismisura: negli ultimi 5 anni, sono 306 i detenuti che si sono tolti la vita. E ogni anno gli agenti di Polizia Penitenziaria (ed anche i compagni di cella) salvano oltre 1000 detenuti da morte certa, quasi sempre per impiccagione.
Depressione, angoscia, senso di abbandono, claustrofobia. I motivi che spingono una persona a farla finita sono tanti. Ovvio che una quotidianità da reclusi, aggravata da un eccesso di coabitazione, influisce negativamente. Angoscianti i numeri anche dei suicidi tra gli agenti della polizia penitenziaria: sono già 10 quelli che si sono uccisi dall’inizio dell’anno.
«La frequenza dei suicidi in carcere è venti volte superiore rispetto alla norma. Tra gli agenti penitenziari è il triplo rispetto alle medie dei cittadini normali e risulta anche la più elevata tra tutte le forze di polizia»: sono i dati di un Osservatorio permanente sulle morti in carcere, a cui aderiscono i Radicali Italiani, le associazioni «Il Detenuto Ignoto», «Antigone», «Buon Diritto», le redazioni di «Radiocarcere» e di «Ristretti Orizzonti».
Il tentativo della Severino è disperato, però, perché i tempi sono strettissimi. Oggi la commissione Giustizia del Senato comincerà l’esame del ddl e il suo presidente, Filippo Berselli, pur con tutta la comprensione, ritiene «difficilissimo» che si possa portare un testo in Aula prima della pausa natalizia.
Dopo, poi, sarà del tutto inutile perché lo scioglimento del Parlamento è ormai dietro l’angolo.
Eppure la Severino ci prova. Ieri, sentite le parole del Capo dello Stato, è subito ripartita alla carica: «Non posso che sottolineare l’importanza di questo messaggio». Se approvata, la legge sarebbe una mezza rivoluzione, perché afferma il principio che il carcere è solo l’extrema ratio della pena e prima vengono la detenzione domiciliare e l’affidamento in prova.
Ma i Radicali non ci credono e chiedono l’amnistia tout court. Dice polemicamente Rita Bernardini: «Credo che al ministero della Giustizia servirebbe qualcuno che sappia far di conto. Il provvedimento sulle pene alternative riguarda lo 0,3% dei detenuti, 254 persone. Ma di che stiamo parlando? Se ci vogliamo prendere in giro... ».

La Stampa 18.12.12
Con i fucili la madre del killer si preparava alla fine del mondo
di Paolo Mastrolilli


Nancy accumulava cibo e munizioni in vista del «collasso della società Usa» Dobbiamo cambiare Non possiamo più accettare simili tragedie come se fossero un’abitudine Barack Obama Presidente degli Stati Uniti
Nancy Lanza, la madre del killer di Sandy Hook, era una «prepper», una paranoica che si preparava al collasso della società accumulando armi e cibo nella sua splendida casa. Adam, il figlio, era un ragazzino estremamente timido, cui nel 2007 i responsabili della Newtown High School avevano assegnato uno psicologo permanente perché sembrava così debole da essere esposto a qualunque tipo di abuso. Una probabile vittima, più che un aggressore.
Questi dettagli stanno riaprendo un dibattito fondamentale sulle cause delle stragi, riguardo le malattie mentali negli Usa. È un argomento delicato, dove è facile scivolare nei pregiudizi, ma va portato avanti insieme a quello sulle armi, la disgregazione sociale e famigliare, e la cultura violenta che domina l’America.
Adam era un mezzo genio, a 16 anni già frequentava i corsi universitari della Western Connecticut State University: massimo dei voti in Computer science e Storia, buoni in Macroeconomia, deboli in Tedesco, Etica e Filosofia. Nancy lo aveva tolto dal sistema scolastico pubblico per divergenze sul programma, e lo aveva fatto istruire a casa. Nei pochi mesi passati alla Newtown High School i colleghi lo chiamavano «ghost», fantasma. Camminava lungo i muri, stringendo il suo computer. A casa aveva due stanze: una per dormire, l’altra per coltivare le passioni digitali. Dicono che avesse la sindrome di Asperger, una condizione vicina all’autismo. Nancy sapeva che aveva bisogno di aiuto, ma per legare lo portava al poligono.
Gli esperti rimarcano che l’autismo non è legato alla violenza, e secondo uno studio pubblicato dal British Journal of Psychiatry tra il 1957 e il 1995 il numero di omicidi commessi da malati mentali è sceso del 3%. Dunque è sbagliato cedere al pregiudizio secondo cui i problemi psichici spingono all’aggressione.
Secondo Mental Health America, negli Usa 54 milioni di persone hanno problemi psichici: la maggioranza è innocua, ma spesso i soggetti pericolosi non ricevono l’aiuto necessario, perché la malattia mentale è ancora un tabù e le risorse pubbliche per curarla sono state ridotte. Basti pensare che nelle carceri americane ci sono 350 mila detenuti con problemi psichici, perché spesso la prigione ha finito per sostituire i manicomi chiusi. Invece bisognerebbe individuare e curare i soggetti a rischio prima, e magari evitare che una donna instabile come Nancy, con la sfortuna di un figlio instabile, possa comprare legalmente cinque armi fra cui un mitra da guerra.

l’Unità 18.12.12
La primavera araba non è per le donne
Intervista a Souhayr Belhassen
La presidente della Federazione internazionale per i diritti umani denuncia la politica di Ennhada sulle conquiste femminili
«Abbiamo combattuto Ben Ali. Non ci fermeremo ora»
di Anna Tito


«DA MILITANTE FEMMINISTA E PER I DIRITTI DI TUTTI LANCIO UN APPELLO PER COMBATTERE SENZA TREGUA CONTRO IL RITORNO INDIETRO»: Souhayr Belhassen è dal 2007 Presidente della Federazione Internazionale per i Diritti umani, (Fidh) con sede a Parigi. Nel 1993, rea di avere denunciato il «silenzio colpevole» del governo tunisino sulla repressione delle donne algerine, fu espulsa per cinque anni dal suo Paese. Su twitter ora la accusano di screditare l’immagine del Paese all’estero. «Sì, propongono di processarmi per alto tradimento, esattamente come sarebbe avvenuto sotto il regime di Ben Alì», spiega a l’Unità di ritorno dal Bahrein dove ha preso parte all’ennesima missione umanitaria.
Sulla recente vicenda della donna violentata dalle forze dell’ordine e imputata invece a sua volta di «attentato alla morale», tiene a sgombrare il campo dagli equivoci: «Escluderei quanto è accaduto una conseguenza diretta dell’ascesa al potere di Ennhada. Nondimeno questo episodio mi appare a dir poco scandaloso: non soltanto la violenza è stata commessa nei confronti di una donna, ma per giunta da parte di poliziotti, rappresentanti dell’autorità pubblica e la si è poi anche”criminalizzata”».
Con le istituzioni inevitabilmente scosse in seguito alla rivoluzione, polizia compresa, è tutto quindi rimasto come prima?
«Non direi. Assistiamo a una vera e propria esplosione della libertà di espressione, da cui sono conseguite elezioni democratiche, che hanno nel nostro caso portato al potere il Partito di Ennhada, che ci piaccia o meno. Ora le istituzioni sono in via di cambiamento, ed Ennhada sta tentando di fare piazza pulita delle acquisizioni “moderniste” del Paese: basti pensare al tentativo di introdurre nella Costituzione il reato di attentato al sacro e la complementarietà della donna in rapporto all’uomo. La nuova Tunisia deve inoltre affrontare la questione della sicurezza del Paese e delle persone, ed Ennadha non è stato in grado di far fronte all’attacco, avvenuto in settembre, all’ambasciata degli Stati Uniti a Tunisi: siamo tutti al corrente del contributo dato dagli Usa per l’ascesa al potere degli islamici, e l’attacco ci ha quindi sorpresi». La rivoluzione non ha dunque apportato alcun cambiamento nella condizione delle donne e dei diritti umani in generale?
«Per quanto concerne in particolare le donne, il partito di Ennhada è arrivato al potere sponsorizzando i principi islamici, con un progetto “regressivo” nei confronti delle donne. Per il resto, la rivoluzione ha apportato molto: l’approvazione della legge contro la tortura, il multipartitismo, l’indipendenza e la libertà della stampa e delle televisioni, tutti elementi irreversibili. I tunisini non hanno più paura, scioperano e manifestano, e in difesa della ragazza violentata sono scese in piazza duemila e più persone».
Contro l’articolo 28 della nuova Costituzione, sulla «complementarietà della donna rispetto all’uomo», la Federazione che lei presiede ha lanciato una battaglia per l’eguaglianza. il governo è stato costretto a fare un passo indietro.
«Abbiamo combattuto il regime di Ben Alì e non ci arrendiamo adesso: viviamo in una società diversificata, con le sue inevitabili forze regressive, in quanto non tutti hanno studiato o viaggiato in Occidente, né tantomeno conoscono davvero i diritti umani. Prendiamo atto che buona parte dei cittadini ha voluto Ennhada, che intanto sull’articolo 28 ha poi fatto un passo indietro. Però appare chiara l’intenzione di frenare l’emancipazione delle donne, in tutti i campi. Il leader El Ghannouchi all’Occidente ribadisce determinati principi, e quando si rivolge ai compatrioti afferma tutto il contrario. E a mio avviso la ragazza violentata viene accusata dalle autorità per far sì che tutte le donne se ne stiano a casa».
Condivide la sensazione che il governo sia fortemente condizionato dai salafiti, rappresentanti dell’ala più radicale dell’Islam?
«Certamente: i salatiti perpetrano violenze ovunque nel Paese, ed Ennhada non ha né la volontà, né la capacità, di proteggere i tunisini. I salafiti arrestati, anche i criminali veri e propri, vengono subito liberati. Adesso anche l’essere laici è diventato pericoloso. Il governo attuale ha vinto democraticamente le elezioni, ma non fa prova di oggettività e di neutralità, concedendo ai salatiti uno spazio sempre maggiore nella gestione dello Stato».

La Stampa 18.12.12
Tra Giappone e Cina riparte la guerra delle isole
Dopo il ritorno del falco Abe, Tokyo alza i toni sulle Senkaku
di Ilaria Maria Sala


Le elezioni giapponesi, conclusesi con una chiara vittoria del Partito Liberaldemocratico (Pld), il partito di centrodestra che ha governato per la maggior parte del dopoguerra, non hanno fatto nulla per diminuire le tensioni fra Pechino e Tokyo. Anzi: Abe Shinzo, che formerà il nuovo governo il 26 dicembre prossimo, ha fatto campagna proprio sottolineando che le isole Senkaku (che la Cina reclama chiamandole Diaoyu o Diaoyutai) appartengono al territorio giapponese in modo «non negoziabile», e promuovendo l’idea di un Giappone capace di tener testa a Pechino anche con il riarmo. Dopo mesi di aspre tensioni sulle isole contese, inevitabilmente le relazioni fra le prime due economie asiatiche sono state uno degli elementi centrali della campagna elettorale, e per quanto il fuoriuscente Partito Democratico proponesse una linea più morbida, l’elettorato giapponese sembra cominciare a propendere per una diplomazia più ferma nei confronti della Cina.
Pechino, per il momento, non ha si è sbilanciata troppo nel commentare la vittoria elettorale del Pld, «prendendone atto» e ribadendo che le isole «sono parte inalienabile del territorio cinese» e che «sta a Tokyo migliorare le relazioni fra i due Paesi», seguendo dunque la consueta linea diplomatica cinese. Hua Chunying, del Ministero degli Esteri, ha dichiarato che «la Cina spera che il Giappone voglia riflettere profondamente e affrontare nel modo adatto le attuali difficoltà». Mostrando dunque una certa attenzione a non infiammare ulteriormente il clima con uno dei suoi più importanti partner commerciali, che ha investito in modo massiccio in Cina per più di trent’anni.
Il web, invece, ha reagito in modo molto più aggressivo, e per il momento almeno i commenti anti-giapponesi degli utilizzatori internet cinesi non sono stati censurati né scoraggiati. Alcuni hanno criticato l’elezione di Abe, dichiarando che «porterà il Paese alla rovina» per la sua linea dura con la Cina, mentre molti hanno rilanciato la proposta di boicottare i beni di consumo giapponesi.
Le elezioni giapponesi, fra l’altro, si sono tenute solo tre giorni dopo l’anniversario dello «Stupro di Nanchino», ovvero il sanguinoso ingresso delle truppe giapponesi nella città di Nanchino il 13 dicembre 1937, nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Quest’anno, in vista della disputa territoriale e delle difficili relazioni diplomatiche, la propaganda nazionale ha voluto commemorare l’invasione giapponese e le atrocità commesse dalle truppe del Sol Levante con ancora più enfasi, come se non un giorno fosse trascorso, e come se la ripresa delle relazioni diplomatiche fra i due vicini asiatici, più di quarant’anni fa, non fosse altro che un gesto generoso da parte cinese. Anche su questo punto, grosse discrepanze fra Cina, Giappone, e la storiografia mondiale: Pechino insiste su 300,000 morti, il Giappone parla di qualche decina di migliaia, il consenso internazionale di circa 100,000.
Nelle ultime settimane, navi di entrambi i Paesi si sono affiancate nelle acque territoriali giapponesi, e la settimana scorsa si è passati invece allo spazio aereo, con incursioni di caccia cinesi bloccate da aerei di Tokyo.

Repubblica 18.12.12
“Le mie prigioni di Pussy Riot” Marja e l’assurdo lager di Putin
di Marja Aljokhina


Se ti addormenti mentre ti leggono il Regolamento la paghi. Se hai un bottone slacciato durante l’appello la paghi
Bisogna cucire 12 ore al giorno, non scrivere reclami, fare la spia, non fiatare mai, sopportare sempre
La vicenda delle Pussy Riot ha suscitato critiche a Putin in tutto il mondo

COLONIA PENALE N.28 BERËZ-NIKI REGIONE DI PERM’— Se ti addormenti mentre leggono il regolamento la paghi. Se hai la targhetta del nome mal cucita la paghi. Se durante l’appello hai un bottone slacciato la paghi. Non c’è un inizio, in questa storia. Anzi, non c’è nemmeno una storia. C’è qualcosa di assurdo che prende forma per tramite delle parole. Tra l’altro, dubito che qualcuno vorrà confermarle, le mie parole. In tanti le confuteranno, piuttosto. «Tutto regolare », vi diranno. Magari senza troppa convinzione, all’inizio; ma in un crescendo continuo di entusiasmo. Fino a sostenere, anzi, che va «tutto bene». Perché «alla colonia penale 28 va tutto bene», e ve lo diranno detenuti, personale e difensori dei diritti umani.
La 28 è la Colonia Penale (IK) femminile della regione di Perm’. Intorno solo fabbriche e tajga. Il fatto che — da ex militante ecologista — io sia finita in un carcere dove si respirano veleni ha dell’ironico. C’è solo grigio, intorno. Il colore di partenza può anche essere un altro, ma un tono di grigio c’è sempre. E ovunque: case, cibo, cielo, parole. È l’antidoto alla vita di un piccolo spazio chiuso.
Qui si arriva solo in tradotta. Nel mio caso, da Mosca, dopo tre carceri di transito (Kirov, Perm’ e Solikamsk) e tre viaggi tra vagoni senza finestre (gli «stolypin») e una lunga serie di camionette. Sull’ultima, quella che finalmente si avvicina al ferro alto della cancellata, siamo in diciannove. Diciannove «nuove»: nuove operaie tagliatrici, nuove cucitrici e ausiliarie.
Dall’ingresso alla stanza dove ci perquisiscono arriviamo a piedi, piegate sotto le nostre sacche. Io ne ho tre. Insieme fanno quasi il mio peso. Entriamo in un edificio cinto da un muretto: il carcere (e le celle) di isolamento punitivo. Lì ci spogliano e ci spediscono in quarantena con un camice a scacchi. Uguale per tutte. In quarantena comincia l’adattamento. O meglio, il callo inizia a formarsi. Si impara a saltare giù dal letto alle cinque e mezza del mattino e a correre in bagno (ma solo io mi ostino a chiamarla «bagno», quella stanza): tre lavandini e due water per quaranta detenute; e svelte, che alle sei, a gruppi di dieci, c’è da correre in cucina per la colazione. Prima, però (sempre che si ambisca a bere una tazza di tè), c’è da trovare il tempo per passare al deposito, là dove si conserva ogni cosa, cibo compreso. Anzi no: siccome non si può lasciare il pigiama sotto il cuscino, la tappa al deposito è obbligatoria. Dopo due settimane di acqua gelata non sento più le mani; potrei usare l’acqua calda, certo, ma c’è la fila e c’è da correre anche lì. E ho già da correre per altri sei mesi. Però ci sto facendo il callo. Ce lo stiamo facendo tutte quante, anzi, in questo nostro «albergo regolamentato». Con regole — il Regolamento interno — che vanno studiate a memoria. Non scherzo. Non crediate che basti una volta. Ce le ripetono (leggendocele) ogni giorno, e ogni giorno noi le ascoltiamo. La stanza dove questo accade si chiama «Regolamento interno» anche lei, e sullo stipite della porta c’è proprio una targhetta che lo dice: Stanza Regolamento Interno. E nella Stanza del Regolamento si va ogni giorno a sentire il Regolamento. Assurdo? Neanche un po’. Per non addormentarmi (c’è una telecamera che ti controlla, in un angolo), vado a spalare la neve in cortile. Ogni baracca ne ha uno (non è un cortile, in realtà, ma un quadrato di terra cinto da filo spinato).
C’è da inventarsene più d’una, per non addormentarsi: lego le sigarette con un filo (niente pacchetti: alla prima perquisizione svuotano il contenuto in un grosso sacco e buttano via il pacchetto), tolgo e rimetto i fiammiferi dentro la scatola, cucio e ricucio la targhetta col nome sulla divisa, censisco pulci e pidocchi. Tutto per non addormentarmi. Perché se ti addormenti mentre leggono il regolamento la paghi. Se hai la targhetta del nome mal cucita la paghi. Se durante l’appello hai un bottone slacciato la paghi.
C’è un sistema, qua dentro, di «elevatori sociali». È una serie di criteri che se osservati o ignorati permettono alla commissione che concede la libertà sulla parola di capire se il detenuto si è redento o meno. E ci leggono ogni giorno pure quello. Non infrangere il regolamento, lavora, presenzia a ogni sorta di iniziative, vai regolarmente in biblioteca, dallo psicologo e a pregare (eppure il nostro è uno Stato laico, non ce lo ripetono in continuazione?). Ostenta le tue relazioni sociali e mantieni i contatti con i familiari.
Il detenuto compie ogni singola azione per un segno di spunta nella lista della «parola». E non per una crescita individuale. Nella mia ultima seduta, la psicologa ha paragonato questo processo alle tappe di una carriera professionale, chiamandosi in causa in prima persona: «Funziona così anche per noi militari», mi ha detto. È una verità amara: mezza Russia vive come chi ha una condanna da scontare. Non serve gente di carattere. Serve gente dal callo facile. «Tanto non cambia mai niente», ci troviamo a commentare, all’unisono, io e un’altra detenuta. Perché noi non serviamo a nessuno — la mia deduzione esce da sola, in un sussurro. E in quell’istante preciso, a notte fonda, in un cambio di turno in fabbrica, per un attimo mi sento — orribilmente — tutt’uno con una persona che è rinchiusa da più di vent’anni; tutt’uno nell’inutilità, tutt’uno nell’essere un aborto di quanto c’è di oggettivo. Della «società», del potere. E figlia di quel mondo morto che, paradossalmente, si riproduce in chi abita la colonia penale. Non ci vuole molto, per uscire sulla parola. Basta cucire dodici ore al giorno per un migliaio di rubli al mese, basta non scrivere reclami, incastrare qualcuno, fare la spia, non fiatare mai e sopportare sempre.

l’Unità 18.12.12
Gramsci, spy story
Luciano Canfora continua la sua inchiesta relativa agli oscuri intrecci degli anni 20 e 30
Lo storico si muove come un detective verso nuove interrogazioni delle fonti senza paura di spostare le proprie stesse conclusioni
di Giulio Ferroni


A POCHI MESI DI DISTANZA DA «GRAMSCI IN CARCERE E IL FASCISMO», USCITO DA SALERNO NEL MESE DI APRILE, LUCIANO CANFORA CONTINUA L’INCHIESTA GRAMSCIANA NEL NUOVO «SPIE, URSS, ANTIFASCISMO. GRAMSCI 1926-1937» (SALERNO EDITRICE, PP.350, EURO 15,00), in un anno che in questo ambito ha visto apparire una serie di libri di rilievo (da I due carceri di Gramsci di Franco Lo Piparo a Vita e pensieri di Antonio Gramsci di Giuseppe Vacca alla nuova edizione di Il moderno principe di Carmine Donzelli): segno non solo della vitalità dell’opera di Gramsci, ma del rilievo che per noi assume un momento storico che, quanto più è lontano, tanto più chiede di essere chiarito nella sua contraddittoria complessità, ora che sono spariti tutti i testimoni diretti e che dovremmo essere lontani da quella «storia sacra» (così la chiama Canfora), che in passato ha portato spesso a occultare documenti, a dare versioni distorte, eterogenee, strumentali dei fatti. Quello degli anni 20 e 30 fu un orizzonte di terribile durezza, in una lotta senza esclusione di colpi e insieme in un oscuro intreccio di prospettive, in un convivere e sovrapporsi di posizioni opposte che solo a posteriori possiamo credere di distinguere con nettezza, fissare in territori completamente separati, ma che nella realtà di allora davano luogo a molteplici interferenze, in cui venivano anche ad inserirsi i servizi segreti, con le più varie forme di infiltrazione, spionaggio, doppio gioco.
Tutta la vicenda della prigionia di Gramsci, con l’eccezionale esito del suo pensiero e con lo stesso sviluppo dei Quaderni del carcere, si inscrive entro questo terribile orizzonte. Gli eventi che condussero al suo arresto e le scelte di quanti furono in rapporto con lui ci sono noti attraverso tutta una serie di tracce e testimonianze spesso in netto contrasto tra loro. Con il suo habitus di filologo e di storico dell’antichità Canfora muove da un libro all’altro verso nuove interrogazioni delle fonti senza paura di spostare le proprie stesse ipotesi e conclusioni, con una cura della «verità» che prescinde da ogni concessione a quella «storia sacra» che spesso ha ricostruito in modi semplicistici la vicenda dei rapporti tra il fondatore del PCdI, i dirigenti del partito clandestini e in esilio e l’intero universo politico contemporaneo (fascismo, antifascismo, Russia sovietica).
Qui si parte da due essenziali premesse di metodo, che riguardano da una parte il carattere imprevedibile e contraddittorio degli sviluppi storici, che tra l’altro ha condotto tanti protagonisti a mutare orizzonte e a riaggiustare il proprio profilo nel passaggio dal trionfo del fascismo alla sua caduta (sono quelle che Canfora chiama «le astuzie di Clio»); dall’altra il carattere inevitabilmente deformante della memoria con cui i singoli tornano sugli eventi vissuti, che impone una certa diffidenza nei confronti della storia orale, piena di «trappole» per lo storico, che deve analizzarla come un vero detective.
Sulla base di queste premesse Canfora approfondisce tre questioni essenziali. La prima è quella dell’arresto, avvenuto l’8 novembre 1926 a Roma, nell’abitazione di via Morgagni, dopo che Gramsci era precipitosamente tornato da un viaggio a Milano (da cui avrebbe dovuto recarsi ad una riunione segreta del Cc del PCdI in Liguria) e dopo il fallimento dei confusi propositi di metterlo in salvo con una fuga in Svizzera. Si confrontano le testimonianze più diverse rivelandone il plateale contrasto e chiamando in causa una serie di oscuri nessi tra giustificazioni, scarico di responsabilità, ambigue intenzioni, in alcuni casi addirittura micidiali connivenze (e per verificare i tempi reali del viaggio ha modo anche di servirsi degli orari ferroviari di quell’anno). Ne risulta che il mancato salvataggio di Gramsci sarebbe passato per la mani di Ignazio Silone e soprattutto di un certo «Ugo», identificato in Carlo Codevilla (con altri sospetti e punti oscuri che è difficile districare). Seconda questione è quella, già ampiamente trattata nel libro precedente, della «strana lettera» spedita a Gramsci da Ruggiero Grieco con data 10 febbraio 1928 e mostrata a lui dal giudice Macis come particolarmente compromettente per la sua posizione processuale, vero e proprio strumento di «fuoco amico»: lettera che Gramsci continuò a sentire come una provocazione, la ragione prima del prolungarsi della sua prigionia. Attraverso un’analisi di documenti e testimonianze che non possiamo qui ripercorrere, si affacciano nuove ipotesi prospettano anche scenari inquietanti, fino alla possibilità di un’interferenza dell’ambiente dell’Ovra, la polizia politica fascista. La terza questione riguarda la riflessione di Gramsci sul fascismo, che nei Quaderni si svolge dalla coscienza della sconfitta subita e da una motivazione delle ragioni della vittoria del fascismo, datasi del resto entro una serie di interferenze ideologiche, in una situazione in cui fascismo e comunismo si erano poste come «rivoluzioni concorrenti»: la lucidità politica del Gramsci prigioniero lo portò a prospettare linee di futuro sviluppo che tenessero conto delle ragioni della presa del fascismo (anche con una parziale considerazione positiva del corporativismo), per lo svolgimento di una politica «nazionale», che Togliatti seppe poi far propria nel dopoguerra.
Se è vero che i dati molteplici messi in campo da questo libro andranno discussi con una più diretta attenzione ai particolari, qui si può comunque rilevare che esso, nel mostrare il carattere eccezionale dell’esperienza di Gramsci, ci fa capire in modo esemplare come la tensione assoluta di scrittura e di pensiero dei Quaderni del carcere si sia svolta proprio a partire dall’oscuro groviglio di quegli «anni sgradevoli», si sia come districata dagli intrecci oscuri, dalle inquietanti e sotterranee manovre di coloro che operavano «fuori»: ed è chiaro che non si potrà capire fino in fondo l’eccezionale statura dei Quaderni se non si terrà conto di questo groviglio e delle tracce che esso ha lasciato sulla loro prima ricezione. Ma se quella prima ricezione (la pubblicazione dei Quaderni da parte di Togliatti nei primi anni del dopoguerra) ebbe luogo al prezzo di vari tagli e censure (qui documentate in una serie di utilissime tavole curate da Claudio Schiano, Elisabetta Grisanzio e Angela Lacignitola), Canfora ci invita comunque a riconoscere il merito dello stesso Togliatti per il suo aver saputo, con «salutare prudenza», mettere in salvo l’eredità «letteraria» di Gramsci «in quegli anni micidiali».

Corriere 18.12.12
Perché il divenire è un eterno errore
di Emanuele Severino


«Secondo un principio consolidato della metafisica classica, il divenire richiede una condizione che lo trascende» — scrive Biagio de Giovanni nel suo studio, importante e suggestivo, dedicato a Hegel e Spinoza. Dialogo sul moderno (Guida, pp. 267, 17). Tale principio domina effettivamente sia l'«antico», sia il «moderno»; non però, aggiungo, il pensiero del nostro tempo, per il quale il divenire non richiede altro che se stesso. Il mondo — il finito — non ha bisogno di Dio.
Che Dio sia la condizione del divenire significa che Dio salva il finito. La tesi di de Giovanni è appunto che l'intento di fondo di Spinoza e di Hegel è di salvare il finito. Ed egli, questo intento, lo fa proprio, ma dandogli un timbro nuovo, che insieme, a suo avviso, rende esplicito quanto nei due pensatori rimane invece velato. Semplificando il discorso molto complesso di de Giovanni si può dire che, per lui, il mondo è salvato solo da Dio, ma che il rapporto tra Dio e Mondo produce un radicale spaesamento del pensiero, che non riesce e non può riuscire a sciogliere i problemi prodotti dalla coabitazione di quei due termini. Le difficoltà e le contraddizioni a cui va incontro il rapporto finito-infinito in Hegel e Spinoza non sono quindi imputabili alla limitatezza del loro pensiero, ma sono insuperabili. De Giovanni non presuppone arbitrariamente l'esistenza dell'infinito, non ne progetta nemmeno la fondazione, né la richiede a Spinoza e a Hegel, dove, a suo avviso, Dio è il luogo dove i problemi e le contraddizioni maggiormente si addensano. L'esistenza del Dio è il contenuto di una «fede», è un «paradosso» che però avvolge ogni uomo, «la stessa vita umana».
Sennonché la fede in Dio, dicevo all'inizio, è spinta al tramonto da ciò che chiamo l'«essenza della filosofia del nostro tempo», dove il Tutto resta identificato alla totalità del visibile-finito-diveniente. De Giovanni vede l'unità sottostante all'«antico» e al «moderno» (e si tratta di millenni), ma non intende allargarla, e anzi prende le distanze dalla fede originaria, indicata nei miei scritti, che invece unisce l'intera storia dell'uomo e quindi sta al fondamento sia dell'accettazione sia del rifiuto di Dio. Mi riferisco all'onnipresente fede originaria nel diventar altro delle cose.
Per de Giovanni i miei scritti concepirebbero «il pensiero dell'Occidente come preso in un unico solenne errore, che è un estremo, iperlogico (e a suo modo, certo, geniale) invito a escludere il significato delle differenze», alle quali, peraltro, non si può rinunciare (p. 117). Credo che egli si riferisca qui alle «differenze» intese come differenti modi di errare. Ma nemmeno i miei scritti sono disposti a rinunciare a tali differenze. Solo che esse hanno questo di identico, di essere errori. E avere in comune l'esser errori non cancella i differenti modi dell'errare — come, per i colori, avere in comune l'esser colori non è una monocromia, non cancella il loro differire l'uno dall'altro. La vita umana è il luogo in cui si manifesta ciò che vi è di identico in ogni errore: il suo essersi separato dalla verità, presentandosi come quella fede nel diventar altro delle cose, che, anche nelle sue forme più «innocenti» nuoce, perché esso è lo squartamento dove le cose si strappano da sé stesse, ossia è la radice di ogni violenza. L'Errore è insieme l'Orrore — vado dicendo.
De Giovanni mi rivolge un elogio che mi piacerebbe meritare e di cui lo ringrazio («Sono convinto che la profondità speculativa di Severino sia assai alta e pressoché unica oggi in Europa»), ma aggiunge che «la pedagogia che nasce da questa profondità è muta, perché riduce la dialettica interna alla storia della metafisica alla monocroma ripetizione dell'errore». Chiedo a de Giovanni di indicarmi, per uscire dalla supposta monocromia, da un lato un solo punto, nella storia dell'uomo, dove non si creda nell'esistenza della trasformazione delle cose — almeno di quelle mondane, e dall'altro lato un solo errore che non presupponga questa fede. Poi, se vorrà, potremo discutere il punto decisivo, ossia i motivi per i quali affermo che tale fede, nonostante la sua apparente plausibilità ed «evidenza» è l'Errore più profondo a cui l'uomo è stato destinato (ma dal quale l'Inconscio più profondo dell'uomo è già da sempre libero).

Repubblica 18.12.12
Psiche
Manuale dei disturbi mentali nuova edizione, mille critiche
Il DSM-V, “bibbia” della diagnostica a cura degli psichiatri americani,
I casi del lutto e dello spettro autistico. Le repliche
Frutto della discussione aperta da centinaia di esperti nel mondo, è la novità del prossimo anno
di Francesco Cro


DSM-V Tre sezioni, contributi di 1500 esperti. Ora si integra con l’ICD-11, classificazione dell’Oms

È ufficiale: l’American Psychiatric Association ha approvato la versione finale della quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali: il DSM-5 (pubblicazione prevista per la primavera 2013), a 13 anni di distanza dall’ultima revisione del testo. La sua stesura definitiva è stata preceduta da un acceso dibattito e da un confronto, talvolta aspro, della task force di esperti incaricata della sua redazione con la comunità psichiatrica internazionale su diverse questioni. Non sono mancate le voci critiche, che hanno richiamato l’attenzione sul rischio di espandere troppo il campo di intervento della psichiatria, “patologizzando” e rendendo candidati a un trattamento farmacologico gli aspetti dell’esistenza umana che si discostano da una ideale “normalità” comportamentale, affettiva e cognitiva: per esempio il lutto, fino alla scorsa edizione del manuale considerato una condizione che non poteva essere diagnosticata come depressiva. Così Mario Maj, professore di psichiatria presso l’Università di Napoli Sun e presidente della World Psychiatric Association, che fa riferimento a uno studio di Kenneth Kendler, (Virginia Commonwealth university) il quale ha confrontato i sintomi depressivi di un gruppo di persone colpite da un lutto recente con quelli di un campione di pazienti affetti da depressione legata ad altri fattori stressanti. Nonostante il fatto che questa ricerca venga abitualmente citata per sostenere l’assenza di differenze significative tra la depressione da lutto e le altre forme depressive, Maj nota che nel primo gruppo sono meno frequenti i tratti nevrotici, i sensi di colpa e, soprattutto, la richiesta di un trattamento psichiatrico.
Un altro controverso cambiamento introdotto dal DSM-5 riguarderà il mondo dell’autismo: le quattro diagnosi (autismo propriamente detto, sindrome di Asperger, disturbo disintegrativo dell’infanzia e disturbo pervasivo dello sviluppo non specificato) verranno riunite nell’unica categoria di “disturbi dello spettro autistico”. I critici di tale impostazione ritengono che tale modifica impedirà il corretto riconoscimento di una sindrome autistica in tanti pazienti: uno studio su oltre 2700 bambini a rischio, coordinato da John Matson (Louisiana State University), ha evidenziato che quasi il 48% di quelli che soddisfacevano i criteri diagnostici attuali per una sindrome autistica non sarebbero rientrati nella nuova categorizzazione. Il presidente dell’American Psychiatric Association, Dilip Jeste (università della California), ha risposto alle critiche ribadendo che l’intento delle centinaia di esperti è stato quello di fornire alla comunità psichiatrica internazionale un linguaggio comune sui disturbi mentali basato sull’evidenza scientifica.
* Psichiatra, Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura, Viterbo

Repubblica 18.12.12
L’istituzione analitica volta pagina con la presidenza di Nino Ferro

“Basta con i dogmi: è ora di aprirsi all’esterno, di dialogare con gli altri”
Una nuova anima

“La psicoanalisi italiana non può fermarsi a Freud servono idee diverse altrimenti diventa un culto”
di Luciana Sica


«L’epoca d’oro della psicoanalisi italiana è ormai alle spalle? Ma che idea assolutamente demenziale. Quella lì era una psicoanalisi isolata, con una sua riconoscibilità esclusivamente interna, altrove non sapevano neppure che esistesse... Una ventina d’anni fa avrei voluto che il mio primo libro uscisse anche in inglese, ma fu rifiutato sempre con lo stesso argomento: bel lavoro il suo, peccato sia scritto da un italiano, non lo comprerebbe nessuno... Tanto che dissi: allora firmatelo Iron!».
Iron come Ferro. Come Nino Ferro, il nuovo presidente della Società psicoanalitica italiana, sessantacinque anni, palermitano trapiantato a Pavia, autore di libri tradotti in più di dieci lingue (un suo nuovo saggio su Le viscere della mente uscirà il prossimo anno da Cortina). È un analista conosciuto ovunque: l’americano Thomas Ogden – tra le teste più brillanti della psicoanalisi mondiale – avrà anche esagerato, ma è lui a considerare Nino Ferro «il migliore teorico e clinico psicoanalitico che attualmente scrive». Il neopresidente, più incline all’understatement, sembra però determinato a far voltare pagina alla psicoanalisi di casa nostra. Con due parole chiave – “pluralismo” e “internazionalizzazione” – e la consapevolezza che potrà giocare di sponda con Stefano Bolognini, alla guida dell’International Psychoanalytical Association, primo italiano al vertice dell’istituzione fondata da Freud nel 1910.
Lei vuole “sprovincializzare” la Società psicoanalitica italiana... Non sarà un’impresa facilissima, perché si direbbe un’organizzazione chiusa, che pretende di accreditarsi da sola, un po’ compiaciuta di sé. Come pensa di renderla più aperta, più dialogante?
«Alcuni segnali di cambiamento sono importanti da subito per uscire da un isolamento antistorico che a volte ci fa ancora ragionare in termini localistici. Come presidente di tutti, garantirò che ogni modello riconosciuto sia considerato legittimo e con pari dignità. Nessun pensiero sarà minoritario, ma nessuno – in nome dell’ortodossia freudiana – potrà più permettersi di scagliare anatemi del tipo “questa non è psicoanalisi”».
Da chi vengono le scomuniche e a chi sono dirette?
«Vengono da chi ama marcare a ogni riga e a ogni frase il senso dell’appartenenza, senza sentire il bisogno di una qualche originalità. In genere gli anatemi vengono scaraventati contro gli “altri”, quelli che si preferisce non studiare ma demonizzare».
Fa almeno un esempio del cambiamento che ha in mente?
«Mettiamo la nostra Rivista di psicoanalisi, diretta da Giuseppe Civitarese. Andrà aperta a maggiori contatti e scambi internazionali, compresa la psicoanalisi americana che potremo anche criticare, ma a patto di conoscerla bene, senza i soliti arroccamenti sul già noto».
Cosa dicono o fanno di così scabroso gli analisti americani?
«Si mettono in gioco nel rapporto analitico senza escludere neppure l’“auto-rivelamento”: possono anche raccontare qualcosa di sé, seppure in un legame stretto con quanto va dicendo il paziente. La loro è un’impostazione teorica e clinica fortemente “relazionale”».
Un peccato mortale per un analista classico?
«Un tabù che forse vale la pena d’infrangere. Del resto, se oggi Freud vedesse analizzare i pazienti come nei primi decenni del Novecento avrebbe una crisi di disperazione. Non era una scienza infertile che voleva, ma una scienza capace di svilupparsi, di trasformarsi, di volare...».
Non pensa che alcuni voli possano risultare azzardati?
«Penso che ognuno ha il diritto di approfondire il suo modello in modo libero e creativo, senza eclettismi, senza fare pastrocchi, ma anche senza ignorare tutto il resto. Soprattutto nel training – nella formazione degli allievi che costituisce per serietà e impegno il nostro marchio di fabbrica – non basterà più lo studio pur fondamentale dei classici, ma dovrà esserci una forte presenza della psicoanalisi contemporanea».
Sembrerebbe del tutto ovvio. Ma forse c’è un altro problema: non le risulta che gli analisti italiani difettano nella padronanza dell’inglese?
«E questo è davvero tragico, perché così non ci si può muovere nel mondo scientifico. Lo studio dell’inglese andrà inserito obbligatoriamente negli anni della formazione dei nostri analisti: lo considero un punto centrale del mio programma».
Il suo competitor nella corsa alla presidenza, Alberto Semi, ha accusato l’establishment della vostra istituzione di accentrare ogni decisione senza favorire la partecipazione e il talento creativo dei soci... Avrà qualche ragione?
«Non è certo la creatività che manca alla psicoanalisi italiana. Il problema è che finora non abbiamo avuto a disposizione dei canali agili per farla conoscere all’estero. Bisogna che ci siano. E comunque senza più dogmatismi: se una cosa non l’ha detta Freud, può andar bene lo stesso».
Ma c’è psicoanalisi senza Freud? O meglio: c’è una continuità o una rottura tra Freud e “le” psicoanalisi contemporanee?
«Mi verrebbe da dire: c’è microbiologia senza Pasteur? Certamente sì, grazie anche a Pasteur! Il punto è che bisogna avere il coraggio di proporre nuove idee anziché celebrare le vecchie. Non guarderei ai fasti del passato, ma al brillante futuro che la psicoanalisi saprà dare a se stessa con la ricerca e l’impegno nella cura delle nuove patologie. Fermarsi a Freud significherebbe trasformare una disciplina basata sull’esperienza in un credo religioso».
Secondo Semi, si rischia di perdere di vista nientemeno che l’inconscio... Lei ne difende o no la centralità?
«Ma assolutamente sì. Non a caso, l’anno scorso, ero tra i cinque analisti a organizzare l’appuntamento internazionale a Città del Messico, e ho insistito moltissimo per quel titolo sui tre pilastri della psicoanalisi: “Sessualità, Sogni e Inconscio”... Ma mi è sembrato che al congresso Semi non ci fosse».
Che ci fosse o meno, non importa. Piuttosto qual è la sua idea dell’inconscio? E quanto conterà ancora il passato del paziente?
«Seguendo il modello di Bion, penso che l’inconscio venga formato e trasformato nella relazione analitica, nell’incontro singolare tra due menti che costituiscono una nuova entità e danno vita a scenari nuovi e imprevedibili. Certo che il passato conta, ma forse il problema riguarda quelle storie che non ci è stato dato di vivere o – come direbbe Ogden – di sognare».
Lei ha un’aria conciliante, ma da voi i conflitti a tratti sono feroci...
Non è deludente tra gente che fa il vostro mestiere?
«Gli analisti esistono soltanto nel rapporto col paziente. Nella vita sono uomini e donne come tutti gli altri, né migliori né peggiori».
Ma la Società psicoanalitica non ha proposto l’immagine di un cenacolo di anime belle?
«Anime belle, noi? Via, le cattiverie e le generosità sono assolutamente identiche in ogni ambiente professionale. Anzi, da noi forse è un poco peggio, visto che se siamo dei bravi analisti siamo tenuti a contenere tutto il giorno le angosce dei pazienti. E quindi poi magari dobbiamo anche sfogarci un po’...».

lunedì 17 dicembre 2012

l’Unità 17.12.12
Liste Pd, solo 50 senza primarie
Oggi la direzione fisserà regole e criteri delle consultazioni del 29 e 30 dicembre per la scelta dei parlamentari
Si terranno su base provinciale con due preferenze, una per genere
Le deroghe saranno chieste da una decina di parlamentari sui 24 potenzialmente interessati
di Simone Collini


ROMA La Direzione del Pd affronta il problema delle liste. Oggi si dovranno approvare le regole per le primarie dei parlamentari e votare le deroghe per chi è in Parlamento da più di 15 anni. In discussione anche una lista di nomi (si parla di 50) che saranno in lista senza passare dalle primarie.
Dovranno approvare le regole per le primarie dei parlamentari, dovranno votare le deroghe per chi ha già trascorso più di 15 anni alla Camera o al Senato, dovranno anche discutere la strategia di una campagna elettorale che nonostante i sondaggi favorevoli di queste ore non sarà comunque priva di insidie. E allora si spiega perché ai membri della direzione del Pd, convocata per questo pomeriggio, è stato consigliato di procurarsi una sistemazione a Roma per la notte.
Oggi Pier Luigi Bersani aprirà la riunione rivendicando il successo delle primarie del centrosinistra e la decisione di scegliere anche i candidati parlamentari con questo strumento, sottolineando la necessità di far fronte a tutti i populismi oggi in campo ribadendo che quale che sia l’esito del voto, dopo le elezioni il Pd proporrà un patto di legislatura alle forze moderate. Ma la direzione Pd di oggi, che visti i temi da affrontare dovrebbe concludersi soltanto domani, sarà soprattutto dedicata alle regole per la sfida ai gazebo del 29 e 30.
Un incontro preparatorio tra segreteria e segretari regionali è stato fissato per stamattina. La discussione partirà da un testo che prevede primarie da svolgersi su base provinciale, la possibilità di esprimere due preferenze, una per genere, e un’ulteriore norma per favorire l’elezione delle donne (non sarà cioè soltanto il numero dei voti incassati a contare, ma si terrà conto anche della posizione occupata nell’elenco di genere). Nel testo di partenza è prevista anche l’incompatibilità per i consiglieri regionali, provinciali e comunali in carica, salvo eccezioni condivise dal nazionale e dalle federazioni locali, e viene fissato a non oltre il doppio dei probabili eletti il numero dei possibili candidati. C’è anche una norma per cui non ci si può candidare nell’arco dello stesso anno a più tipi di primarie (non potrà cioè correre per il Parlamento chi aspiri per esempio a fare il sindaco). Potranno votare tutti quelli che si sono iscritti all’Albo degli elettori alle primarie del centrosinistra e che dichiareranno di essere sostenitori del Pd più tutti gli iscritti al partito.
È prevista inoltre una quota ristretta di candidati parlamentari che non dovrà passare attraverso la sfida ai gazebo. Si tratta di una quota nazionale che dovrebbe garantire nei gruppi Pd del prossimo Parlamento la presenza di precise competenze, un’adeguata apertura alla società civile, una quota di almeno il 40% di elette. Si sta ragionando su una cinquantina di nomi, da candidare nella parte alta delle liste nei 27 collegi della Camera e nei 20 collegi del Senato. Ma un’altra trentina di nomi potrebbe aggiungersi, anche se posizionati in posti di non sicura elezione, in considerazione del fatto che il Porcellum assegna il 55% dei seggi della Camera alla coalizione che arriva prima, e che quindi in base ai calcoli che si stanno facendo in queste ore il Pd potrebbe avere nella prossima legislatura 300 deputati.
Più che il numero, la discussione oggi però potrebbe accendersi su chi potrà prendere posto in questa lista esonerata dalle primarie, visto che c’è chi chiede di inserirvi chi oggi ricopre incarichi nel partito (oltre al segretario, la presidente, il vicesegretario, i capigruppo) e chi invece vuole che sia composta soltanto da personalità della società civile.
Ma la direzione dovrà anche affrontare il capitolo deroghe. Nello statuto del Pd è scritto che non si può ricandidare in Parlamento chi ha già ricoperto la carica di deputato o senatore «per la durata di tre mandati». Considerato che una legislatura, quella del secondo governo Prodi, è durata soltanto due anni, questa norma è stata trasformata in una precedente direzione nel limite dei 15 anni. Sono 24 i deputati e senatori interessati. Di questi, saranno una decina a chiedere la deroga al regolamento. Per ottenerla serve il voto favorevole della maggioranza assoluta dei membri della direzione (quindi 120 sì). Per evitare lacerazioni, in queste ore si sta tentando di arrivare a un accordo politico per dare il via libera in blocco a una decina di deroghe, senza sottoporre ciascun nome a una votazione. Il confronto andrà avanti fino all’apertura della direzione, ma intanto si sta ragionando su un documento da mettere ai voti che evidenzi il «contributo fondamentale» (come dice lo statuto) di chi chiederà la deroga.

Corriere 17.12.12
Deroghe e listino bloccato, il Pd decide
Riunione sulle regole delle primarie. «Il partito deve selezionare i nomi»
di D. Gor.


ROMA — Si lavora fino all'ultimo secondo utile, nel Pd, per definire le regole per presentarsi (o ri-presentarsi) alle prossime politiche. Le primarie per la scelta dei candidati sono state indette per il 29 e 30 dicembre e i tempi sono serratissimi. Oggi si riunisce la Direzione del partito e proprio in quella sede verranno deliberati criteri e modalità; ma non è facile conciliare le richieste delle diverse aree pd (non si sa ancora neppure se Matteo Renzi vorrà partecipare all'incontro) riuscendo a sfuggire a veti incrociati, rischi di cecchinaggio, accuse di verticismo: per questo la riunione, convocata per questa sera alle 18, potrebbe dover proseguire anche domani.
Ieri chi lavora alla tessitura dell'accordo aveva ben poca voglia di previsioni. Comunque sono tre i punti cruciali al centro della discussione e ancora irrisolti: le deroghe, l'eventuale listino bloccato di prescelti da Bersani e la selezione degli altri candidati.
Lo statuto del partito prevede già che chi ha superato i 15 anni di legislatura non possa tornare in Parlamento salvo deroga. Per ottenerla, bisogna richiederla alla direzione che risponde con un voto che di solito è palese, ma che può trasformarsi in segreto se un numero di membri lo chiede. Diversi parlamentari (una quarantina i potenziali) stanno rinunciando a sottoporsi a questa procedura, mentre Rosy Bindi e Beppe Fioroni intendono farlo, così come probabilmente faranno Franco Marini e Gian Claudio Bressa. Viene invece data per già acquisita la ricandidatura in qualche modo d'ufficio dei capigruppo uscenti di Camera e Senato Dario Franceschini e Anna Finocchiaro.
Non pochi invece vorrebbero che tutta la dirigenza si sottoponesse alle primarie, contestando anche il possibile listino bloccato di fedelissimi scelti dal segretario: e non importa se cento nomi, come si diceva in un primo momento, oppure una cinquantina, come si faceva capire ieri.
Restano poi le incognite sui principi per l'individuazione dei candidati alle primarie. Servirà una raccolta di firme? E, se sì, quante? Il candidato dovrà in ogni caso superare l'approvazione della direzione provinciale del Pd? «Una selezione del partito è indispensabile — spiega il bersaniano Roberto Cuillo — non fosse altro per evitare ripetizioni, per vagliare eventuali problemi legali...»; mentre il renziano Roberto Reggi afferma: «Per capire se si tratterà di primarie davvero aperte, aspettiamo pazientemente le nuove regole che il gruppo dirigente sta elaborando».
Dal punto di vista tecnico, dovrebbero avere diritto di voto tutti gli iscritti al Pd e chi ha partecipato alla consultazione del 25 novembre per la scelta del candidato presidente del Consiglio del centrosinistra. Gli elettori potranno dare due preferenze, purché un uomo e una donna. Si voterà nello stesso luogo sia per i candidati del Pd che per quelli di Sel, sottoscrivendo un appello per l'uno o per l'altro partito e versando una cifra (forse di nuovo due euro). Per quanto riguarda l'affluenza, nessuno fa pronostici: ci saranno meno seggi di novembre, il meteo potrà incidere, sarà la fine dell'anno...

l’Unità 17.12.12
La nuova guerra delle oligarchie
La crisi italiana è riconducibile all’egemonia del blocco immobilista che non ha saputo gestire l’innovazione
di Michele Prospero


NELLE CRISI, SPIEGAVA GRAMSCI, LE OLIGARCHIE DEL DENARO SI SCAGLIANO CONTRO le élite della politica e rivendicano il potere. Come vent’anni fa. Allora l’assalto fu condotto con una coalizione che usava il dialetto periferico dell’asse del Nord, ora nella scalata al governo si parla il linguaggio cosmopolitico dell’alta finanza. La crisi italiana non può però trovare rimedio nelle nuove alchimie trasformistiche dei poteri forti. La pretesa di arrestare il declino con cartelli confusi, a sostegno di un capo che invoca lo scettro per grazia ricevuta, ha un che di tragico.
Significa non aver compreso nulla della dinamica storica che ha accompagnato la seconda Repubblica verso la catastrofe. Negli anni ’90, l’Italia ha vissuto uno sconvolgimento radicale nelle sue classi dirigenti, nel modello economico-sociale, nelle mentalità.
Fu una vera «crisi di egemonia», con il fallimento delle classi dirigenti nel mantenere la rappresentanza degli interessi sociali di riferimento e nel preservare una cornice unitaria alla disordinata rivendicazione dei territori. Il collasso dell’élite politica lasciò senza rappresentanza spazi e interessi rilevanti. Con la grande trasformazione dell’economia degli anni ‘80, e con il vincolo europeo che annunciava costi elevati per il risanamento dei conti, i gruppi sociali del Nord, privati di rappresentanza, si difesero con nuovi investimenti in politica. Populismo, come forma simbolica della rivolta contro le élite, e scorciatoia carismatica, come semplificazione dell’offerta politica, divennero i loro nuovi referenti di senso. Con questi accorgimenti, e con la fuga dalla cultura di governo, il micro capitalismo dei territori e fette di lavoro autonomo ritrovarono una identità, nelle forme però della alienazione, della separatezza, dell’antipolitica.
La crisi della funzione rappresentativa suggerì una scaltra autorappresentazione. Da qui il precipitare della funzione politica in ottica economico-corporativa, con ceti ossessionati dal fisco, nemici irriducibili degli imperativi di una moderna statualità capace di fornire beni pubblici. Con l’invenzione di un nuovo ceto politico e amministrativo connotato da improvvisazione, folclore e protesta, il micro capitalismo ha reciso ogni possibilità di governare con lucidità i tempi dell’innovazione competitiva. Proprio l’autorappresentazione degli interessi economici e territoriali più ristretti, che in politica prese subito le maschere devianti del populismo legislativo senza confini a destra, inibì le condizioni necessarie per la crescita e la modernizzazione. La vecchia politica era rimasta senza soggetti sociali forti da rappresentare, i nuovi ceti dal canto loro procedevano senza più coltivare la meta di una funzione politica generale. L’asse del Nord camminava in un pantano corporativo orfano del generale e si incagliava in una palude immobilista incapace di prospettare le strutture amministrative delle grandi decisioni politiche.
Il tratto organico della crisi italiana è riconducibile proprio all’egemonia del blocco sociale immobilista che ha conquistato il potere sulle rovine della grande industria e sul ritiro della mano pubblica come veicolo di investimenti produttivi. Con la decostruzione della macchina statale, con le sue istanze antifiscali e con i miti ostili al pubblico, il blocco sociale della destra si è rivelato incapace di sorreggere la crescita e di gestire l’innovazione. Se la decrescita è stata la condizione prevalente, la debolezza strutturale del governo politico (ovvero: partiti personali effimeri, amministrazione carente, decentramento ai limiti della de-formazione dello Stato) ha influito nel congelare i pilastri dello sviluppo e nell’arrugginire i motori della competizione. Una società sfibrata dai limiti congeniti del nano capitalismo, sfilacciata dalla destrutturazione della macchina pubblica e dal codice del populismo ha bisogno di una grande politica capace di ridefinire i tratti della statualità in un’economia globalizzata. Il contrario di quanto stanno architettando le oligarchie che in modo cieco si scagliano contro le élite politiche, che con difficoltà stanno ricomponendo la frattura tra politica e società. Il protagonismo delle oligarchie può solo svuotare il centro, che da autonoma dimensione politica viene trasfigurato in aggregazione di potenze economiche e finanziarie. La vana volontà di potenza delle oligarchie traccia un percorso regressivo e ribadisce un destino di immobilismo per l’Italia. Ostacolando la ricomparsa di autorevoli classi dirigenti, le oligarchie ossificano le contraddizioni del nano capitalismo, senza avere il trasporto egemonico per curarne l’alienazione politica, e favoriscono lo stallo delle forze produttive. Per tracciare un nuovo modello di statualità e ridisegnare un necessario patto tra democrazia e capitalismo che sconfigga la decrescita, servono anzitutto partiti forti che prendano in mano il governo della ricostruzione.

l’Unità 17.12.12
Intervista con Sergio Cofferati
«Il lavoro è la priorità. Il rigore produce recessione»
Per l’europarlamentare Pd la Ue sconta il fatto di non essersi dotata di strumenti come Tobin tax e eurobond: mancano le risorse per la crescita
di Carla Attianese


STRASBURGO Tre milioni di disoccupati in Italia pari all’11% della popolazione, il dato più basso dall’inizio delle serie storiche, con un picco per quella giovanile che tra gli under 25 arriva ad oltre il 36%, peggio di così solo Grecia, Spagna e Portogallo. Un problema con cui fa i conti anche il resto d’Europa, se è vero che nei paesi della zona euro la percentuale dei senza lavoro ha sforato l’11%. Facciamo il punto della situazione con Sergio Cofferati, oggi europarlamentare del Pd. L’Europa resta in bilico tra l’austerità e la crescita, e la disoccupazione aumenta. «È una tendenza negativa che continua con pochissime eccezioni, e in Italia la situazione è peggiore perché siamo da tempo in piena recessione. I numeri occultano tra l’altro una parte di verità, perché non comprendono le persone in cassa integrazione, non formalmente disoccupate ma che nella gran parte dei casi non hanno più un posto di lavoro. E come capita sempre, si accentuano i problemi per i soggetti più deboli, i giovani e le donne, con dati preoccupanti».
La Commissione Ue ha presentato un piano per il lavoro giovanile, lo «Youth guarantee scheme».
«È una proposta deludente, peraltro scissa da qualsiasi idea di crescita economica. Uno schema che prende a riferimento modelli profilati su paesi piccoli e con strutture produttive particolari (Austria e Finlandia ndr), senza essere accompagnato da risorse adeguate. Solo buoni propositi, peraltro non corrispondenti ai fabbisogni».
Nel frattempo si va verso una riduzione del Bilancio Ue.
«Sì, nella migliore delle ipotesi avremo una contenuta riduzione, quando invece servirebbe di più, anche con risorse proprie. Non aver ancora completato l’iter per una Tassa sulle transazioni finanziarie e non aver fatto gli Eurobond impedisce oggi all’Europa di avere le risorse necessarie alla definizione di politiche per la crescita degne di questo nome». Finora è stata un’Europa a trazione conservatrice. Un segno progressista cambierebbe qualcosa?
«È vero, ha prevalso una cultura conservatrice. Per i progressisti europei, le priorità sono il rovesciamento della pratica del rigore monetarista senza sviluppo e una crescita economica adeguata, da accompagnare con proposte sul lavoro che puntino decisamente sulla sfera della conoscenza: formazione, scuola e
università».
Resta però il tema della manodopera a basso costo (e bassa protezione) nei paesi emergenti.
«Non bisogna competere con quei paesi sul piano dei costi ma su quello della qualità. È la concorrenza sui costi che porta alla distruzione dei diritti».
Un governo di centrosinistra in Italia che chance ha di fronte alle sfide che si presentano?
«Intanto l’obiettivo di tutti è che il centrosinistra vinca. Poi, un governo stabile è importante per il sistema economico, e ancora di più se di centrosinistra, perché porta nel nostro sistema punti di vista che si sono dimostrati efficaci in altri paesi, ad esempio in Francia, con il consenso dei cittadini. Monti ha puntato sul contenimento degli effetti della crisi, ma senza equità».

La Stampa 17.12.12
Stefano Fassina (Pd)
“Bankitalia sbaglia. Ma rispetteremo gli impegni sui conti”
Antimontiano Stefano Fassina (Pd) è responsabile economico del partito


Fassina, il governatore Visco sostiene che bisogna mantenere la barra dritta sull’austerità. Lei come risponde?
«Se toccherà a noi, rispetteremo tutti gli impegni sottoscritti dall’italia, come abbiamo sempre fatto. Rispetteremo anche quelli sbagliati e irrealistici come il pareggio dei bilancio del 2013 preso dal governo Berlusconi. Ma viene da chiedere se l’austerità è un fine o un mezzo».
È un fine per alleggerire le finanze pubbliche e liberare risorse per la crescita, in prospettiva.
«Io ho grande stima e riconoscenza per le funzioni che la Banca d’Italia ha svolto e svolge per il paese. Ma come ha messo in evidenza in modo inequivocabile il Fmi, nei paesi europei dove è stata applicata, l’austerità ha aggravato i debiti pubblici. Purtroppo il moltiplicatore, sempre secondo il Fmi, cioè l’effetto recessivo delle manovre di correzione dei conti pubblici, è stato tre volte quello indicato dalla Banca d’Italia. È attorno all’1,2-1,3%, non più basso».
Sta dicendo che la Banca d’Italia è destinata a sbagliare le previsioni?
«Veramente le stanno sbagliando tutti, la Commissione Ue, l’Ocse, anche lo stesso Fmi, che peraltro è l’unico che ha fatto un mea culpa. È difficile fare attualmente stime sugli effetti del risanamento».
Quindi cosa propone?
«Ritengo l’analisi di Visco ancora incompleta, non soltanto perché sottovaluta gli effetti negativi dell’austerità, ma anche perché trascura la necessità del sostengo alla domanda, come condizione necessaria per rianimare la crescita».
Visco veramente sostiene che bisogna riordinare la spesa pubblica e trovare lo spazio per ridurre il peso fiscale, per spingere la domanda.
«La verità è che l’attuale politica economica impedisce una crescita in grado di riassorbire la disoccupazione. Noi del Pd ci impegneremo, assieme alle forze progressiste europee, per cambiare rotta e sostenere la domanda interna. La priorità oggi è la domanda. L’attuale quadro di politica macroeconomica inibisce una crescita in grado di riassorbire la disoccupazione».
Il governatore suggerisce di rimuovere gli ostacoli per le imprese.
«È totalmente insufficiente, bisogna sostenere la domanda privata europea, pubblica e privata. Ampliando gli spazi per togliere le infrastrutture dal computo del deficit. E redistribuendo il reddito verso il basso».
Il Pd ogni tanto tira fuori la storia della patrimoniale. Non le sembra che gli italiani siano abbastanza tartassati dalle tasse?
«Siamo stati sempre chiari sull’imposta patrimoniale: sarebbe limitata ai grandi patrimoni personali e finalizzata a ridurre le imposte sui redditi delle famiglie e delle imprese. La stessa Banca d’Italia, nel rapporto sulla ricchezza delle famiglie italiane di qualche giorno fa, ha certificato ancora una volta che da noi le ricchezze sono molto mal distribuite. Si tratta di ristabilire un po’ di equità».

La Stampa 17.12.12
È il porcellum a regolare le alleanze tra i partiti
di Carlo Bertini


Ormai il dado è tratto e si voterà col Porcellum, quindi oggi acquistano significato quei sondaggi che proiettano i possibili risultati in termini di seggi alla Camera e al Senato. E la media delle rilevazioni dei maggiori istituti delle ultime due settimane pubblicata dal sito indipendente «Termometro politico» fotografa una torta dell’emiciclo di Montecitorio così suddiviso: il Pd, media di consensi previsti 32,7%, prenderebbe 283 seggi, Sel con meno del 6% ne avrebbe 48; nel complesso, con altre formazioni minori, il centrosinistra arriverebbe ai fatidici 346 seggi grazie al premio di maggioranza del Porcellum. In mezzo siederebbero i grillini, una truppa al suo esordio ma piuttosto considerevole, quotata intorno al 17%, voti che si tradurrebbero in un esercito di 92 deputati; accanto a loro i 50 del Terzo Polo, cioè liste di Centro intese come Udc, Fli e montiani, quotate ancora sotto il 10% in mancanza di un chiaro pronunciamento di Monti. A destra, il Pdl che se mantenesse il 15% dei consensi delle ultime settimane, avrebbe 88 deputati, ma insieme alle formazioni minori di destra salirebbe a 106. E la Lega con il suo 6% stabile arriverebbe ad averne 33. E siccome questi calcoli nelle stanze dei partiti li fanno eccome, si capisce perché il Pd non ne voglia più sapere di allearsi prima del voto con Casini e i centristi. Potendo aspirare alla maggioranza assoluta alla Camera e sperando di allargarla con i voti dei centristi, pur rischiando di non farcela al Senato. E si spiega anche la corsa verso la lista civica Arancione di Di Pietro, che con il suo simbolo e le diaspore interne è quotato poco sopra il 2%, ben lontano dalla soglia del 4% che consente ad una lista di avere suoi esponenti in Parlamento senza essere alleata a nessuno. Stessa condizione attualmente anche dei Radicali, quotati intorno all’1,5%. E acquistano una luce diversa pure gli appelli di vari big ad evitare scissioni del Pdl, perché quel 15% spaccato in due liste metterebbe a rischio l’ingresso al Senato dove per poter avere qualche seggio da soli bisogna superare l’8% dei consensi. Ma quella del Senato resta una partita ad alto rischio per tutti, per ottenere 169 seggi (la maggioranza assoluta è 158) il centrosinistra dovrebbe vincere in tutte le 17 regioni dove è previsto il premio di maggioranza e ciò dipenderà molto dagli accordi tra Pdl e Lega in Lombardia e Veneto...

La Stampa 17.12.12
Dopo la “Primavera araba” più di 70 mila migranti arrivati in Italia
In arrivo dall’Africa una nuova marea umana
L’allarme del ministero dell’Interno: ci aspettiamo un boom di sbarchi
di Guido Ruotolo


Flusso continuo Decine di migliaia di migranti sono arrivati in Italia negli ultimi due anni sui barconi

Un campanello d’allarme. Che preoccupa. Quei cinquecento immigrati che sono arrivati sabato a Lampedusa, rappresentano un segnale per nulla tranquillizzante. Intanto perché i report della intelligence e degli apparati di polizia di frontiera segnalano ai confini sud dell’area del Maghreb, in particolare della Libia, eserciti di immigrati che premono alle frontiere.
Sono uomini e donne, bambini e anziani che fuggono dai conflitti del Mali, del Niger, della Nigeria, insomma del Sahel e del Corno d’Africa. Preoccupa poi la nostra intelligence l’«assembramento» di moltitudini di immigrati nelle due enclave spagnole i di Ceuta e Melilla (in Marocco).
Era già successo a metà dei primi anni Duemila, quando l’irrigidirsi della Guardia Civil spagnola di fronte alla pressione di migliaia e migliaia di immigrati alla frontiera, portò a decine di morti di poveracci che tentavano di saltare le reti di confine. E quel flusso che si spostava in Europa, attraverso la porta d’ingresso spagnola, trovò un nuovo sbocco trasferendosi in Libia.
Segnali, le pressioni alle frontiere subsahariane della Libia, e a quelle delle enclave di Ceuta e Melilla, raccontano di possibili crisi umanitarie alle porte, di migliaia di disperati in fuga dai conflitti.
Gli sbarchi di sabato si sono trasformati così in un campanello d’allarme. Perché l’ospitalità di Lampedusa ormai non è in grado di garantire una loro dignitosa permanenza, in attesa dei rimpatri e delle espulsioni. Sabato sera erano presenti, nell’unica struttura d’accoglienza operativa dell’isola, 900 immigrati a fronte di una capienza di 250 posti letto e dopo che in 200 erano stati trasferiti in struttura della Sicilia.
Va detto subito che il ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri, segue con molta attenzione l’evolversi della soluzione, avendo ben chiaro in testa che ci potremmo trovare a breve a dover gestire anche una eventuale emergenza umanitaria che si potrebbe presentare con migliaia e migliaia di profughi in movimento dalla Siria, se in quel Paese la crisi dovesse drammaticamente precipitare nelle prossime ore.
In questi mesi, il ministero dell’Interno, la Protezione Civile, le agenzie internazionali per la protezione umanitaria sono riusciti a governare l’emergenza del 2011, quando la «Primavera araba» e le rivoluzioni in Tunisia, Libia ed Egitto, portarono sulle coste siciliane oltre 61.000 profughi (28.019 giunti dalla Tunisia e 28.318 dalla Libia).
Quest’anno, i dati della Polizia di frontiera segnalano 13.023 immigrati sbarcati fino al 15 dicembre. In particolare: 5.176 a Lampedusa, 2.707 in Sicilia. E poi quasi 2.600 in Puglia e 2.000 in Calabria.
Un quinto rispetto all’anno precedente, quando furono massicci gli arrivi dai paesi della «Primavera araba». Quasi 12.500 degli oltre 28.000 arrivati dalla Tunisia hanno ottenuto permessi di soggiorno umanitari, e di questi 6000 sono stati convertiti in permessi di soggiorno ordinari.
Alla Commissione straordinaria per la tutela e promozione dei diritti umani del Senato, il 27 novembre scorso è stata sentita il ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri. Questa la fotografia sullo stato dell’arte dei profughi del 2011: «Al momento risultato assistite oltre 17.500 persone nei Centri di accoglienza diffusa localizzati nelle diverse regioni, poco più di 2000 presenti nel Centro di accoglienza di Mineo, Catania, e oltre 6200 presenti nelle strutture di prima accoglienza e per richiedenti asilo che ormai oltrepassano la capienza massina delle strutture di accoglienza».
Naturalmente, le posizioni di molti profughi arrivati dalla Libia e provenienti dal Corno d’Africa o dal Sahel che hanno chiesto protezione umanitaria, sono state valutate dalle specifiche commissioni che valutano le richieste. Dal primo agosto del 2011 al 30 ottobre scorso, hanno esaminato complessivamente 39.000 domande, con un esito di accoglimento di circa il 41%.
Nel suo intervento a Palazzo Madama, il ministro Cancellieri ha voluto sottolineare: «Senza voler assegnare alle cifre un significato univoco, è pur vero che l’incidenza percentuale degli stranieri sui fenomeni di delittuosità in generale, nel 2009 era pari al 31,76%, ha subito una leggera ma costante flessione nei circa tre anni successivi arrivando al 31,25% dei primi nove mesi del 2012».
La fase di emergenza per la gestione dell’ondata di profughi del 2011 si esaurirà il 31 dicembre prossimo. Il Tavolo di coordinamento tra le diverse istituzioni sta producendo ipotesi concrete di soluzione per la gestione della massa di profughi. Si va dall’ampliamento della capacità di accoglienza del Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati (da 3.000 a 5.000 posti di accoglienza) ; alle misure a favore di un rimpatrio condiviso, intanto per 1.500 immigrati con un sussidio di 400 euro a testa e una indennità di reintegrazione di 1.100 euro; a interventi di inclusione socio-lavorativa per almeno 1.000 immigrati.

l’Unità 17.12.12
Una nuova alleanza tra credenti e non credenti
V come Verità
È nato un libro dal testo di Barcellona, Tronti, Sorbi e Vacca sull’emergenza antropologica
La crisi democratica che stiamo vivendo non dipende solo da fattori economici
Muovono da qui i «marxisti ratzingeriani», che fanno propria la critica al relativismo di Papa Benedetto
Del volume si parlerà giovedì 20 (ore 18) presso la sede di Civiltà Cattolica a Roma
di Massimo Adinolfi


Emergenza antropologica a cura di Barcellona, Sorbi, Tronti, Vacca p. 148 Euro 14 Guerini e Associati

LA CRISI DELLA DEMOCRAZIA HA LA SUA RADICE PIÙ PROFONDA IN UNA VERA E PROPRIA «EMERGENZA ANTROPOLOGICA». È dunque dal paradigma antropologico che bisogna prendere le mosse, per ripensare compiti e finalità della politica. Cercare soluzioni alla crisi attuale, che non è soltanto crisi economica e sociale ma crisi di senso, significa cercare di costruire una «nuova alleanza» fra credenti e non credenti, in vista di un «umanesimo condiviso». È una consapevolezza che nutre l’azione della Chiesa italiana, intenta a ridisegnare la propria presenza pubblica nella vita nazionale, ma anche il percorso del Partito democratico, la cui identità prova a definirsi nella confluenza di cultura d’ispirazione religiosa e cultura laica, e che giustifica la ricerca comune di una nuova laicità all’altezza delle sfide del nostro tempo.
Questa è la cornice, assai impegnativa, tracciata dalla lettera aperta apparsa poco più di un anno fa su Avvenire e su l’Unità, a firma di quattro studiosi di provenienza marxista: Barcellona, Sorbi, Tronti, Vacca, per i quali si è già trovata l’etichetta di «marxisti ratzingeriani».
A distanza di un anno, la lettera è divenuta un libro, che raccoglie solo parte (significativa) delle reazioni vivaci suscitate dal documento. Il segno complessivo è di interesse e partecipazione, anche se non mancano obiezioni e esigenze di approfondimento: Emma Fattorini, ad esempio, lamenta la scarsa attenzione dedicata alla questione femminile; Pasquale Serra chiede se non si corra il rischio di far coincidere il religioso con la funzione politica della Chiesa; Luca e Paolo Tanduo avanzano invece dubbi sulla capacità del Pd di ospitare un dialogo su temi bioetici e valori non negoziabili, mentre Claudio Sardo sottolinea la distanza alla quale deve tuttavia mantenersi la mediazione politica rispetto ai valori.
I quattro autori, d’altra parte, non hanno scelto il terreno più facile su cui incontrare le posizioni della Chiesa cattolica. Benché la questione antropologica investa anche il piano dei diritti sociali declinanti e dei modelli economici dominanti, non è su questo versante che viene condotto il confronto. I temi su cui la lettera chiama a riflettere sono infatti (proposti con le stesse parole di Benedetto XVI) da un lato la critica del relativismo, cifra dominante del nostro tempo, dall’altro la difesa dei valori non negoziabili, bussola che il Papa chiede di adottare per tutte le questioni che attengono alla difesa della vita, dal concepimento fino alla morte naturale.
È giusta questa strada? Forse sì, se si tratta di correggere la «deriva» individualistico-radicale e la «torsione nichilistica» dei processi di secolarizzazione: non è un caso che si avverta così tanto, in queste pagine, la presenza di Augusto Del Noce, che tempo fa indicò nel relativismo soggettivista e nichilista l’approdo autodistruttivo (per lui inevitabile) del progressismo di sinistra. Forse no, però, se questa correzione viene proposta solo come un argine, come una reazione e non come una costruzione comune, affidata alla responsabilità degli uomini.
A proposito di responsabilità, il libro offre già in premessa un terreno di verifica: «Una vita che nasce vi leggiamo rappresenta un valore in sé fin dal suo concepimento per la responsabilità che conferisce a ciascun individuo adulto di accoglierla, tutelarla, educarla e seguirla con amore e con cura fino alla sua fine». Riprenda o no posizioni del magistero della Chiesa, l’affermazione richiede un impegno concettuale non piccolo: stanno infatti insieme, l’uno a fianco all’altro, l’essere «in sé» e l’essere «per-altro» (cioè per la responsabilità) del valore: perché non sia una contraddizione, ci vuole una filosofia a dimostrarlo. E ci vogliono indicatori di direzione: il valore vale perché investito dalla responsabilità che si accende per esso, o la responsabilità consegue soltanto al valore? Mentre quest’ultima affermazione suonerebbe dogmatica, e avrebbe bisogno di tutto un sistema di pensiero a sostegno, la seconda farebbe invece maggiore affidamento all’azione umana, e darebbe molto più spazio e fiducia all’idea, proposta dagli autori (e di grande spessore), di una «società educante».
TERRENO DI VERIFICA
Certo, una simile società non potrebbe non avere in vista la verità, e dovrebbe quindi accogliere la critica del relativismo, ben distinto dal pluralismo, condivisa dagli autori e in tutti gli interventi raccolti nel libro. Ma la verità, a sua volta, va forse concepita come un abito, o un ethos, piuttosto che come una proposizione o un dogma (immediatamente traducibile in obbligo giuridico): si può dare torto a Kelsen, che giudicava indissolubile il nesso fra democrazia e relativismo, perché la democrazia può avere rapporto con la verità. Ma quale verità? Anche in questo caso due sono le strade, una guarda avanti e l’altra indietro: si tratta di un’arcigna verità che precede e fonda, o di una verità che accompagna e segue, che sta tra le mani degli uomini e che è perciò ancora da fondare, ancora a venire?

Corriere 17.12.121
Il prete ricercato dall'Interpol dice messa vicino alla caserma
L'accusa: assisteva alle torture in Argentina
di Mario Gerevini


SORBOLO (Parma) — «Wanted Persons». La foto segnaletica dell'Interpol è negli uffici di polizia di mezzo mondo. Ritrae un uomo anziano, vestito da prete, con il collarino bianco che spunta dall'abito nero. C'è un mandato di cattura internazionale.
Non è un truffatore in uno dei suoi tanti travestimenti. È davvero un sacerdote, compirà 75 anni la vigilia di Natale. È di Sorbolo in provincia di Parma, due passi dal Po. A 11 anni, nel '48, si trasferì con la famiglia in Argentina dove poi divenne prete, curando per decenni la sperduta parrocchia di Salto de Las Rosas, vicino alla cittadina di San Rafael, due passi dalle Ande.
Si chiama Franco Reverberi. L'accusa è tremenda e arriva dall'esito di un'inchiesta della procura federale di San Rafael che pochi giorni fa ha ordinato l'arresto di 35 persone: crimini contro l'umanità. Sono quasi tutti ex militari o agenti dei servizi segreti che avrebbero ordinato, coperto o eseguito sequestri, torture e omicidi compiuti sotto la dittatura militare di Jorge Videla oltre 30 anni fa. Don Franco, sentito tempo fa in tribunale, aveva giurato di non saper nulla di desaparecidos o torture a San Rafael.
Ma come ci è finito in questa storia un parroco di campagna, un «missionario distaccato dalla diocesi di Parma» come si autodefiniva? Chi è don Franco Reverberi? E dov'è ora?
L'immagine di quel colletto bianco che spunta dal clergyman si è impressa negli incubi di alcuni uomini torturati, più di trent'anni fa, dai militari del regime argentino. Affermano che il sacerdote fosse don Franco e che era lì, in piedi, davanti a loro, insieme ai torturatori. Per circa due anni, dal 1980, don Franco fu cappellano militare con il grado di capitano a San Rafael.
«Iba vestido — ha raccontato Roberto Rolando Flores, ex detenuto torturato — con zapatos, pantalón y camisa y saco de color negro y llevaba la cintita blanca en el cuello». Le testimonianze sono agli atti dell'inchiesta della procura, avviata nel 2010.
Tra gli arrestati vi sarebbero anche responsabili diretti dei crimini della dittatura. Erano quelli che con i famigerati Ford Falcon verdi del regime seminavano terrore nei villaggi: incappucciati piombavano di notte nelle case e sequestravano i dissidenti. Molti giovani venivano incarcerati e torturati. Di altri non si seppe più nulla. Tra il 1976 e l'83 si conteranno complessivamente 30 mila desaparecidos. L'ex dittatore Videla, 87 anni, oggi è in carcere a Buenos Aires, sconta due ergastoli più 50 anni per crimini contro l'umanità.
Il sacerdote italiano non avrebbe avuto un ruolo attivo, ma avrebbe assistito di persona alle torture senza denunciarle, un fiancheggiatore insomma. «La presenza di un sacerdote al momento della tortura — ha efficacemente sintetizzato uno dei procuratori — aumenta la sofferenza della vittima che, sola e abbandonata, non può nemmeno confidare in Dio: il suo rappresentante è lì in quell'inferno».
Ma era davvero don Franco? Per ora sono solo sospetti. Nessun giudice di merito si è ancora pronunciato. È un fatto però che l'autorità giudiziaria argentina abbia chiesto pochi giorni fa la collaborazione internazionale per l'arresto di don Franco. Irreperibile.
Il don «argentino» ogni tanto tornava in Italia a trovare gli amici, soprattutto il suo coetaneo don Giuseppe, parroco di Sorbolo. La chiesa è di fronte al municipio e domina una grande piazza. L'abitazione del parroco è dietro la chiesa. E lì è ospite don Franco Reverberi, «wanted» in Argentina, ma tranquillo a Sorbolo dove celebra messa e confessa i fedeli. È conosciuto e amato. È nel suo paese natale, aiuta l'amico don Giuseppe. Basta suonare il campanello e risponde. Atmosfera da oratorio, bambini che vanno e vengono.
L'argomento è scontato: Argentina. Don Franco sembra sereno. «Mai saputo che a San Rafael c'erano quelle cose. Sì, io ero cappellano militare, il vescovo mi disse di andare a preparare i soldati per la comunione; celebravo messa, confessavo, facevo catechesi. Ho giurato e detto soltanto la verità: mai saputo e tantomeno assistito a sessioni di tortura». Don Franco è arrivato in Italia l'anno scorso e ci è rimasto per problemi di cuore. I medici sconsigliano il rientro in Argentina. E le testimonianze, don Franco? In quattro hanno giurato di averla vista durante le torture: «Io ho detto la verità e non so come possano sostenere queste cose: i fatti risalgono al 1976 mentre io sono stato cappellano nel 1980 e, ripeto, non ho mai saputo nulla». Ha un avvocato? «No perché non c'è nulla». Ma lei lo sa che c'è un mandato di cattura internazionale nei suoi confronti? «Non mi hanno mai detto niente». Ecco, questa è la segnalazione dell'Interpol con la sua foto. La guarda, allarga le braccia: «Io sono un prete, ho detto la verità. Mi guardi in faccia: le sembro uno che stava con i torturatori di Videla?». È sereno, è nella sua Sorbolo dopo 64 anni in Argentina. Saluta, torna ad aiutare il parroco. C'è sempre qualcuno da confessare. Magari uno dei carabinieri della caserma che è nella piazza della chiesa, a 50 metri.

il Fatto on line 15.12.12
La chiesa omosessuale omofoba di Ratzinger
di Pierfranco Pellizzetti

qui

il Fatto on line 16.12.12
‘Pochi consultori, obiettori in aumento e scarsa distribuzione della Ru486′. La mappa de il Fatto
di Jacopo Ottaviani

qui

il Fatto on line 16.12.12
Depressione post partum, cinema e teatro rompono il tabù su madri infanticide
di Elisabetta Ambrosi

qui

l’Unità 17.12.12
«Bandiamo le armi» Obama a Newtown
Dai democratici una proposta di legge sui fucili d’assalto
I bambini uccisi avevano sei e sette anni
di Marina Mastroluca


Palloncini bianchi legati all’insegna della scuola e peluche appesi ad un albero di Natale speciale dedicato ai venti bambini uccisi nella strage di Newtown - tutti tra i sei e i sette anni - e alle loro maestre. Obama visita le famiglie e una comunità sconvolta, indossando i panni di «consolatore in capo» per l’ennesima occasione. Lo aveva già fatto dopo la strage di Fort Hood, in Texas, nel 2009, di nuovo a Tucson nel 2011 e ad Aurora, in Colorado, l’estate scorsa. Ogni volta dopo una sparatoria insensata. L’abbraccio di Obama aveva toccato allora le corde dell’emozione collettiva, il bisogno di restare uniti, per superare il dolore. Stavolta però sono in tanti a chiedergli di più, di trasformare la strage della scuola elementare del Connecticut in un punto di non ritorno. La senatrice Dianne Feinstein annuncia un disegno di legge per il rinnovo del bando sulle armi d’assalto, introdotto da Bill Clinton e scaduto nel 2004. A chi gli chiede se pensa che avrà il sostegno di Obama lei risponde: «Credo di sì».
Dan Malloy, governatore democratico del Connecticut, uno degli Stati con una legislazione sulla circolazione delle armi considerata severa, davanti ai microfoni della Cbs dice a chiare lettere che evidentemente non basta. Lui che ha dovuto portare la notizia alle famiglie e ha ammesso che no «non sei mai preparato abbastanza per qualcosa del genere». «Queste sono armi da assalto dice -. Non vai a caccia di cervi con roba del genere. Possiamo solo sperare di trovare un modo per limitare queste armi che hanno un solo scopo». E cioè colpire, con la maggiore velocità ed efficacia possibile.
È quello che ha fatto Adam Lanza, sfondando una finestra per entrare nella scuola armato con armi che non lasciano scampo, prese alla madre, appassionata di tiro, uccisa prima di portare a compimento il suo piano. «Non ho mai visto nulla di simile», ha detto il medico legale Wayne Carver, un’esperienza trentennale alle spalle, che stavolta non gli è servita da schermo davanti ai cadaveri sfregiati dei bambini. La maggior parte delle vittime è stata colpita più volte, qualcuno era letteramente crivellato, con undici fori d’entrata. Il killer ha usato un fucile semiautomatico molto potente, un Bushmaster calibro 223, pensato per i campi di battaglia, con proiettili che fendono l’aria a 914 metri al secondo e un sistema che non ha bisogno di frequenti ricariche. L’impatto è devastante, solo una delle persone colpite non è morta, la vice-preside, ora preziosa testimone.
Gli investigatori cercano di capire che cosa abbia innescato la furia di Adam, un ragazzo da sempre problematico e introverso, ma mai violento in passato. Il killer, appena ventenne, si è tolto la vita all’arrivo della polizia nella scuola, senza lasciare nessun messaggio, niente che possa far capire. La polizia sta indagando su alcuni messaggi circolati sul web e ritenuti non veritieri, che avrebbero annunciato un suicidio eclatante in Connecticut per venerdì scorso.
L’innesco dei pochi minuti di orrore che hanno lasciato il segno sull’America forse resterà per sempre un mistero. Ma stavolta la spiegazione della follia non basta. Il senatore Joe Lieberman, un indipendente del Connecticut, chiede una Commissione nazionale sulle stragi, per rivedere le leggi sulla detenzione di armi, l’azione del sistema di sorveglianza sulla salute mentale e il ruolo che film e videogiochi violenti potrebbero avere nel portare a queste sparatorie. Anche Hollywood recita il suo mea culpa. Jamie Foxx, la star dell’ultimo sanguinario film di Quentin Tarantino, chiede all’industria cinematografica di non ignorare più il fatto che la violenza nei film chiama altra violenza.
DUE PADRI
«Nessuna parola può esprimere il nostro dolore. Non sappiamo spiegarci il perché», ha detto il padre del ragazzo, Peter Lanza. A lui sono arrivate le condoglianze del padre di Emilie, una delle vittime. «Non oso immaginare quanto questa esperienza possa essere dura per voi», ha detto Robbie Parker, offrendo l’affetto della comunità alla famiglia del giovane killer.

Repubblica 17.12.12
Lo scrittore Chuck Palahniuk: “Il male è dentro di noi, ma continuiamo a negare questa verità”
“C’è un vuoto di ideali e di valori per questo esplode la violenza”
di Antonio Monda


NEW YORK — Pochi scrittori come Chuck Palahniuk hanno raccontato con uguale forza la violenza che esplode improvvisamente nella società americana. E forse nessuno come lui è riuscito a coglierne gli elementi di assurdità e disperazione. Nei suoi romanzi più estremi, come “Fight Club” e “Choke” ha inserito anche elementi di umorismo nero, ma di fronte a quanto è accaduto a Newtown si chiude in silenzio pieno di angoscia, spiegando che «questo orrore ci dice innanzitutto qualcosa su quello che siamo: il male è dentro di noi, ma viviamo continuando a illuderci di negare questa verità ».
Però il giovane che ha compiuto il massacro aveva gravi disturbi psicologici...
«È assolutamente vero, tuttavia credo che dobbiamo sfuggire alla tentazione di rubricare quanto accaduto come un semplice episodio di follia. Ritengo che oggi siamo costretti a confrontarci dolorosamente con il grado di profondo malessere che esiste nel mondo, specie tra i giovani».
Il massacro ha generato un movimento di opinione che chiede forti restrizioni sull’uso delle armi da fuoco.
«Ci sono troppe armi in America, ed è certamente necessario limitarne la diffusione, ma anche parlare di questo significa non cogliere il cuore del problema: all’interno della generazione più giovane cova un sentimento sempre più forte di angoscia e frustrazione che si sfoga anche in episodi violenti, colorati a volte di farneticanti connotati ideologici, come avvenne ad Oklahoma City. Tuttavia l’equazione: violenza = America + armi è facile e forse consolatoria per qualcuno, ma anche limitata, fuorviante e per
aspetti menzognera. Un esempio evidente di quello che dico è quanto è avvenuto in Norvegia, un paese citato sempre come modello di civiltà, e nel quale le armi non circolano come negli Stati Uniti. Sono il primo ad auspicare una restrizione delle armi da fuoco, ma si tratterebbe di una soluzione tecnica, che non purificherebbe alla base il problema. La vera domanda da porsi è perché un giovane uccide»
Lei che è risposta si è dato?
«Non sono un sociologo né uno psicologo, ma vedo che molti ragazzi vivono senza un sentiero da percorrere, e nel vuoto assoluto di valori e ideali. Non c’è nulla di peggio che vivere nel vuoto: alla lunga ciò può portare solo ad esplosioni violentissime. E ciò è valido in ogni parte del mondo. Un altro elemento sul quale dobbiamo riflettere è che queste stragi sono tutte compiute da maschi: cosa dobbiamo pensare? Che l’indole femminile è diversa? Che le faticose conquiste degli ultimi decenni ne hanno mitigato gli elementi violenti e frenato il senso di rivalsa, generando parallelamente un senso frustrazione tra i maschi?».
C’è chi pone l’indice contro il cinema e la letteratura violenta.
«È comprensibile, tuttavia io ritengo che ci sia da fare un’importante distinzione tra chi tratta la violenza in maniera pornografica per solleticare gli elementi più morbosi del lettore o spettatore. Questo è da condannare, come è da condannare il racconto della violenza come qualcosa di inevitabile e veloce, quasi indolore. Quante volte abbiamo visto film in cui qualcuno viene ucciso su due piedi, senza neanche sapere chi sia: è un atteggiamento che priva i personaggi della loro umanità, e questo è non solo grave, ma irresponsabile e pericoloso. Infine ci sono opere che raccontano la violenza anche con grande realismo, ma al di là dell’eventuale risultato artistico credo che possano avere un effetto benefico. Penso al finale di “Heavenly Creatures” in cui una donna viene massacrata con un mattone: è una scena terribile, ma genera orrore nei confronti della violenza».

Repubblica 17.12.12
Avremo il coraggio di fermare tutto questo?
di Nicholas D. Kristof


GLI Stati Uniti, realisticamente, non metteranno al bando le armi, ma promulgare misure per contenere la carneficina è possibile. Le uniche cose su cui non siamo rigidi sono quelle che hanno più probabilità di uccidere.
L’Occupational Safety and Health Administration, l’ente pubblico che si occupa della sicurezza sul lavoro, ha cinque pagine di regolamenti sulle scale, mentre le autorità federali fanno spallucce quando qualcuno propone di imporre limitazioni concrete alla diffusione delle armi da fuoco. Le scale uccidono circa 300 americani all’anno, le armi 30.000.
Abbiamo regolamentato perfino le armi giocattolo, che devono avere obbligatoriamente la punta arancione, eppure ci manca il fegato per prendere di petto gli estremisti della
National Rifle Association e imporre sulle armi vere regole altrettanto rigorose di quelle che imponiamo sui giocattoli. Come ha scritto uno dei miei follower su Facebook dopo
il mio articolo sul massacro: «È più difficile adottare un animale domestico che comprare un’arma». Io sono cresciuto in una fattoria dell’Oregon, dove le armi erano parte della vita quotidiana, e mio padre mi regalò un fucile calibro 22 per il mio dodicesimo compleanno. Per cui lo posso capire: sparare è divertente! Ma anche guidare è divertente, eppure accettiamo che sia obbligatorio indossare le cinture di sicurezza, accendere i fari di notte e riempire dei moduli per comprare una macchina. Perché anche le armi da fuoco non possono essere regolamentate in modo altrettanto maturo?
E non venitemi a dire che non cambierebbe nulla perché i pazzi saranno sempre in grado di procurarsi un’arma. Se riuscissimo a ridurre di un terzo le vittime delle armi, salveremmo ogni anno 10.000 vite. E non sognatevi neanche di tirar fuori la balla che se più persone andassero in giro armate questo scoraggerebbe o fermerebbe gli sparatori. I casi in cui un semplice cittadino armato ha fermato una strage negli Stati Uniti sono più unici che rari.
La tragedia non è un singolo massacro in una scuola, è l’incessante pedaggio di morte che paga ogni anno il nostro Paese, ovunque. Muoiono più americani per omicidi e suicidi con armi da fuoco in 6 mesi di tutti quelli che sono morti in attentati terroristici
negli ultimi 25 anni e nelle guerre in Afghanistan e in Iraq messe insieme. Ma allora che cosa possiamo fare? Un buon inizio sarebbe imporre il divieto di acquistare più di un’arma al mese, per limitare il fenomeno dei trafficanti. E allo stesso modo si potrebbe proibire la vendita di caricatori con più di dieci pallottole, così gli assassini non potrebbero più ammazzare tutte quelle persone senza ricaricare.
Bisognerebbe anche introdurre l’obbligo di un controllo generalizzato dei precedenti per chi compra un’arma, anche nelle compravendite tra privati. Facciamo numeri di serie più difficili da cancellare e sosteniamo il progetto californiano di introdurre l’obbligo di imprimere un minuscolo timbro su ogni cartuccia, in modo che sia possibile ricondurre i proiettili sparati a un’arma specifica.
«Abbiamo sopportato troppe tragedie del genere negli ultimi anni», ha dichiarato fra le lacrime il presidente Barack Obama in televisione. Ha ragione, ma la soluzione non è limitarsi a piangere le vittime, la soluzione è cambiare politica. Serve capacità di leadership, non solo discorsi commoventi. L’esperienza di altri Paesi ci può essere di insegnamento. In Australia, nel 1996, il massacro di 35 persone portò al riacquisto da parte dello Stato di 650.000 armi da fuoco e all’introduzione di regole più severe sul porto d’armi. Nei 18 anni precedenti c’erano state 13 stragi: nei 14 anni dopo la completa entrata in vigore della legge, nemmeno uno. Il tasso di omicidi commessi con armi da fuoco è crollato di oltre il 40 per cento, secondo i dati compilati dal Centro di ricerca sul controllo degli infortuni dell’Università di Harvard, e il tasso di suicidi con armi da fuoco si è più che dimezzato.
Oppure possiamo cercare ispirazione guardando a quello che abbiamo realizzato sul fronte della sicurezza sulle strade. Alcune morti sono causate da persone che violano la legge o si comportano in modo irresponsabile. Però non liquidiamo la cosa dicendo: «Non sono le auto che ammazzano la gente, sono gli ubriachi». Al contrario: abbiamo imposto le cinture di sicurezza, gli air bag, i seggiolini per bambini. Qualcuno di voi oggi è vivo grazie a quelle norme.
(©New York Times La Repubblica Traduzione Fabio Galimberti)

Repubblica 17.12.12
La solitudine di un killer
di Massimo Ammaniti


La stampa e i mezzi di comunicazione hanno dato un grande rilievo, più che comprensibile, alla strage nella scuola del Connecticut in cui sono morti venti bambini di 6-7 anni. E ancora una volta ci si chiede che cosa possa aver spinto il killer ad entrare nella scuola e a compiere una strage così efferata.
Il fratello di Adam Lanza, il ragazzo autore della strage, avrebbe raccontato alla polizia che Adam soffriva di disturbi psichici, autismo del tipo della sindrome di Aspergen. Dalle poche informazioni che si hanno su Adam si sa che era un ragazzo solitario, tranquillo che non aveva mai creato problemi scolastici, anzi viene descritto come uno studente diligente che frequentava le honors classes, ossia le classi per studenti modello che vogliono ampliare le loro conoscenze. Altro particolare: portava sempre con sé una cartella nera portadocumenti, molto diversa dagli zaini che usano la maggior parte degli studenti della sua età.
Una prima considerazione. Il fratello Ryan ha parlato di autismo confondendo l’isolamento del fratello con il disturbo autistico, che è caratterizzato da difficoltà di entrare in comunicazione con gli altri e di condividere gli stati d’animo degli altri, ma anche da difficoltà nel linguaggio e da comportamenti ripetitivi come manipolare degli oggetti o compiere dei movimenti senza alcuna apparente finalità. E poi i bambini o gli adolescenti autistici non sono quasi mai aggressivi con gli altri e soprattutto non sono in grado di costruire e realizzare un piano così distruttivo ed efferato.
Ma in tutte le stragi che si sono verificate negli ultimi anni, soprattutto negli Stati Uniti, emerge un dato costante relativo agli autori: si tratta di persone che vivevano isolate, con pochissimi rapporti sociali, chiuse in un mondo nascosto, sconosciuto non solo ai vicini di casa ma anche ai familiari, che sembravano essere all’oscuro, ma forse anche poco interessati a vedere le intenzioni omicide del ragazzo. Successivamente si è scoperto che i futuri killer collezionavano nella loro stanza armi di ogni genere, simboli nazisti o immagini di morte, divise militari o tute mimetiche.
Il mondo degli adolescenti o dei giovani prigionieri delle loro ossessioni è stato raccontato da Sam Mendes nel film American Beauty di qualche anno fa. Uno dei protagonisti della pellicola è un giovane adolescente, Ricky, figlio di un colonnello dei marines, che vive chiuso nella sua stanza, nascosto dietro le persiane da cui riprende con una videocamera tutto quello che succede al di fuori. Nel suo universo visionario Ricky si è costruito una sua religione spirituale e mistica alla ricerca dell’interezza della vita al di là delle cose.
Al contrario di Ricky, che non diventa un killer perché riesce a sfuggire alla gravitazione dell’isolamento, questi giovani che si trasformano in giustizieri vivono sempre più sequestrati nel loro mondo, perdendo la possibilità di condividere con gli altri le loro esperienze e di riconoscere che possono esistere punti di vista diversi rispetto ai propri. Nel chiuso delle proprie stanze o delle cantine prende corpo una visione della vita sempre più autocentrata, una costruzione sempre più lontana dalla realtà da cui gli altri sono tenuti lontani, perché rappresentano una minaccia alla propria sopravvivenza. E allo stesso tempo l’isolamento garantisce l’inviolabilità del proprio Io, che viene costantemente riaffermata con i propri rituali e i propri comportamenti di controllo su tutto ciò che succede. Non è un caso che nelle stanze dei killer si ritrovino così frequentemente le svastiche naziste, proprio perché simboleggiano la lotta per garantire la purezza della razza di fronte al pericolo della corruzione e dell’inquinamento che proviene da persone con esperienze non convenzionali o di etnie diverse.
Tutto questo è fortemente radicato nel periodo dell’adolescenza quando il ragazzo, più frequentemente della ragazza, affronta con paura le trasformazioni del corpo e della mente che gli fanno avvertire la fragilità del proprio sé, alla mercé delle proprie pulsioni percepite come incontrollabili. La propria stanza si identifica col proprio sé, il luogo in cui rinchiudersi stabilendo le proprie regole e la propria visione del mondo, disperata ma rassicurante. Per i genitori non è facile capire, perché il figlio si nasconde e si mimetizza ai loro occhi anche perché spesso, come è successo ad Adam, il ragazzo va bene a scuola, non crea problemi di comportamento come la maggior parte degli adolescenti. A guardare bene i ragazzi con questi gravi disturbi di personalità sono solitari, evitano rapporti profondi e continuativi con i coetanei, sfuggono le ragazze perché temono l’intimità affettiva e sessuale.
La storia di Adam non è ancora stata sviscerata a sufficienza per poter affermare che la sua personalità si fosse sviluppata secondo il percorso che ho descritto, tuttavia si è parlato di lui come di un ragazzo solitario al pari di molti altri autori delle stragi passate. Naturalmente essere solitari o isolati non significa diventare necessariamente dei killer, devono verificarsi molte altre circostanze negative e soprattutto interviene la società come quella statunitense che mette a disposizione armi di ogni genere per tradurre in realtà quelle intenzioni violente che rimarrebbero altrimenti solo a livello di fantasia.

La Stampa 17.12.12
E Tolkien arruolò Artù contro Hitler
John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973) è stato l’autore di opere fortunate come “Lo Hobbit” e “Il signore degli anelli”
Uscirà nel 2013 un inedito degli Anni 30 dedicato alla morte del mitico re
di Mario Baudino

qui

Corriere 17.12.12
Il romanzo di Sion terra dell’Utopia
di Giovanni Belardinelli


Theodor Herzl, il fondatore del movimento sionista, è universalmente noto per il libro Lo Stato degli ebrei, pubblicato nel 1896. Ma il messaggio fondamentale di quell'opera — l'idea di uno Stato dove l'ebraismo della diaspora potesse di nuovo riunirsi — animò anche un suo romanzo quasi sconosciuto del 1902, Vecchia terra nuova, ora pubblicato in italiano per la cura di Roberta Ascarelli (Bibliotheca Aretina, pp. 238, € 20). Inizialmente Herzl aveva pensato di affidare il proprio messaggio politico non a Lo Stato degli ebrei, ma a un'opera «straordinaria», il romanzo in questione. Si tratta effettivamente di un'opera «stupefacente», come la definisce la curatrice, anche se la qualità del romanzo rimane spesso schiacciata dalle pagine esplicitamente didascaliche e dalla trama narrativa un po' ingenua. Il libro immagina un meraviglioso avvenire visto con gli occhi di un ebreo austriaco che, abbandonata Vienna per una delusione amorosa ma anche per una più generale disperazione esistenziale, vive per vent'anni da eremita in un'isola e si trova poi a passare nel 1923 dalla Palestina. A quel punto si avvia il tema narrativo principale dell'opera: la descrizione delle meraviglie che gli ebrei hanno saputo portare in quella «vecchia e nuova» terra. Dalle coltivazioni ai mezzi di trasporto, dalla parità di diritti uomo-donna alla completa eguaglianza tra tutte le religioni e le culture, dalla pacifica convivenza con gli arabi alla ricostruzione del Tempio di Gerusalemme, scorrono sotto i nostri occhi i temi di un'utopia sionista dai tratti ingenui ma suggestivi.
Siamo di fronte a un'utopia che, come mette bene in luce Roberta Ascarelli nella postfazione, si appoggia su molte e diverse opere: da libri utopistici come Guardando indietro 2000-1887 dell'americano Edward Bellamy a Gli anni di noviziato di Wilhelm Meister di Goethe. Per l'accostamento di fantasia utopica e fiducia nella tecnica, non escluderei che tra le fonti di Herzl vi fosse anche Saint-Simon: nel romanzo si immagina che gli ebrei abbiano costruito un canale tra il Mar Mediterraneo e il Mar Morto, e proprio in ambito sansimoniano erano nati nell'800 i progetti dei canali di Suez e Panama.
Il libro fu accolto piuttosto freddamente dalla cultura ebraica viennese: Karl Kraus vi ironizzò su, Arthur Schnitzler confessò all'autore di non averlo letto. Alla classe media ebraica dell'epoca appariva surreale — scriverà Stefan Zweig — che Herzl chiedesse agli ebrei di lasciare «le loro case e le loro ville della Ringstrasse, i loro affari, i loro incarichi; in una parola, che emigrassero, armi e bagagli, in Palestina per fondarvi una nazione». In effetti, gli unici personaggi negativi del romanzo sono gli appartenenti alla ricca e fatua borghesia ebraica viennese, che vediamo riferirsi al sionismo e all'idea del ritorno degli ebrei in Palestina al massimo come argomento per facili battute durante una cena («al suono della parola Palestina, echeggiò una scrosciante risata»).
L'ottimismo che Vecchia terra nuova condivide con ogni opera utopistica ha un sottofondo drammatico e tragico. Non solo perché il protagonista è presentato subito come un giovane «colto e disperato», che vive in un milieu ebraico «che dava valore solo al divertimento e al tornaconto». Dietro l'utopia sionista di Herzl c'è l'esperienza dell'antisemitismo europeo, direttamente conosciuto quando era stato a Parigi negli anni dell'affare Dreyfus. Nel romanzo uno dei protagonisti della Nuova Società, costruita in Palestina su base mutualistica e multietnica, osserva che tutto era stato reso possibile dai grandi progressi della tecnica, certo. Ma di quei progressi si erano potuti giovare soltanto gli ebrei per una forza speciale da loro posseduta: «Da dove ci veniva? Dalla generale, angosciante pressione che era esercitata su di noi, dalla persecuzione, dal bisogno». Persecuzione e condizione di bisogno che nell'immaginario 1923 descritto da Herzl sono assenti: nell'ottimistica situazione da lui presentata nel romanzo l'antisemitismo risulta ormai scomparso, sia in Palestina sia nel resto del mondo. Una conclusione, o meglio un auspicio, che la storia successiva si sarebbe incaricata di smentire completamente.

Corriere 17.12.12
Svelato il mistero di Ilaria Del Carretto
di Paolo Fallai


Sarà anche vero che Paolo Guinigi, signore della Lucca quattrocentesca, alla morte della seconda moglie, Ilaria Del Carretto «fè magnificamente quello che a ogni grandonna o signore si convenisse, così di messe, orazione, vigilie, vestimenti, drappi…», come racconta Giovanni Sercambi nelle sue Croniche. La verità è che Ilaria, resa immortale dal monumento funebre di Jacopo Della Quercia che accoglie i visitatori nel Duomo di Lucca, in quella magnifica tomba non è mai stata sepolta. Che fine avessero fatto le spoglie mortali, era rimasto un mistero, risolto ora dalla Soprintendenza archeologica della Toscana. Quello che si ritiene il corpo della giovane, nata nel 1379 dal conte di Zuccarello (Savona) e morta di parto a 26 anni nel 1405, è stato ritrovato nella chiesa di Santa Lucia del complesso di San Francesco, a Lucca.
Per capire come si sia arrivati a identificarla bisogna tornare al 2010, quando Giulio Ciampoltrini, l'archeologo responsabile degli scavi di San Francesco, condotti grazie al sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio, guida la sua équipe dentro Santa Lucia. A Lucca la conoscono come «cappella Guinigi» dalla famiglia che l'aveva voluta e che al suo interno, in due arche funerarie, aveva sepolto generazioni di discendenti, i maschi da una parte, le femmine nel cassone accanto. Ne hanno trovati 48, tutti insieme, secondo l'uso medievale. Ma a lato di queste arche, c'erano anche tre sepolture singole. Gli scheletri non potevano che essere stati personaggi di rango, tanto da averli preservati al destino di confondersi con gli altri. Uno di questi scheletri portava un anello d'oro con diamante e la salma doveva avere in mano una bolla papale, che il tempo ha distrutto, lasciando però in bella vista il sigillo di Papa Martino V (pontefice dal 1417 al 1431). Elementi che, uniti alla datazione con il carbonio 14, hanno permesso di identificarla con Jacopa Trinci, dei signori di Foligno, che sposò Paolo Guinigi nel 1420 e morì nel 1422. L'emozione di quella scoperta possiamo vederla tutti, c'è un filmato su YouTube (basta cercare «L'impresa del diamante»).
Ma se quella era Jacopa Trinci, perché non immaginare che gli altri due scheletri potessero essere i resti delle altre mogli del signore lucchese? È qui che gli archeologi hanno chiesto aiuto al professor Gino Fornaciari della Divisione di Paleopatologia dell'Università di Pisa. Modernissime ricerche hanno confermato l'identificazione di Jacopa Trinci, mentre le ossa della terza tomba sono di «un'adolescente di un'età tra i 12 e i 16 anni», proprio come la prima moglie di Paolo Guinigi, Maria Caterina degli Antelminelli che morì appunto a 12 anni, nel 1400, durante un'epidemia di peste. E infine la tomba numero 1: lo scheletro di una donna adulta «di corporatura piuttosto gracile, di un'età antropologica tra i 20 e i 27 anni e una statura di circa 158 cm» il cui «profilo paleo nutrizionale» indica un tipo di alimentazione molto diversa da quella dei Guinigi, mentre l'isotopo dei denti «suggerisce un'origine non lucchese». Ilaria Del Carretto veniva da Savona e visse a Lucca solo due anni, dal giorno delle nozze, celebrate il 3 febbraio 1403.
Gli studi a Pisa e gli scavi a Lucca vanno avanti a cercare nuove conferme e Giulio Ciampoltrini certo non ama i sensazionalismi: i risultati del lavoro occupano 30 gigabyte sul suo computer e in un articolo non ci stanno. «Il nostro scopo — ripete — è trovare elementi che ci consentano di capire meglio la cultura e la società lucchese del '400». Ma il monumento funebre scolpito da Jacopo Della Quercia ancora oggi commuove con quel piccolo cane ai piedi di Ilaria, che la guarda come a chiederle perché non possa più accarezzarlo. Resta l'emozione: dopo 600 anni quella tomba ha trovato il corpo per cui fu scolpita.

Repubblica 17.12.12
Il mondo in rivista
Fofi: “Oggi in Italia domina l’analfabeta laureato”
di Simonetta Fiori


Ha fondato quindici anni fa “Lo Straniero”, arrivato al numero 150 La battaglia per cambiare una cultura diventata consumo inutile

Se ha resistito per quindici anni sempre nella stessa rivista – circostanza davvero singolare – è perché «fuori non succede granché, anzi sono stati gli anni più morti». Lo Straniero festeggia il numero 150, un lungo viaggio tra arte cultura scienza e società che comincia nell’estate del 1997, ma il suo timoniere non sembra dell’umore migliore. O forse sì. La cultura oggi? Una sorta di “oppio del popolo”. La tribù dei lettori? Solo nel nominarla, a Goffredo Fofi viene l’allergia. E i festival, i premi, gli eventi, i reading, i saloni, le fiere? «Un chiacchiericcio inutile. Tutti si sentono bravi e intelligenti solo perché consumano libri, film, idee imposti dall’industria culturale. In realtà siamo riempiti di pensieri che non sono nostri».
Insomma, si sente un reduce?
«Ma per carità. Ho sempre detestato i reduci, anche quando erano personaggi straordinari. Per questo mi ostino a fare lo Straniero, che gode di uno zoccolo duro di abbonati».
Cosa vuol dire fare una rivista oggi?
«Quello che ha sempre significato: interpretare il tempo dal punto di vista di una minoranza esigente e attiva. In qualche modo io ho sempre fatto la stessa rivista, adattandola alle varie stagioni della storia italiana».
Ma cinquant’anni fa era molto di moda, oggi sembra un genere di antiquariato.
«Che vuol dire? Le minoranze esistono sempre. E io grazie a loro riesco a sopravvivere in un paese annegato nella stupidità».
Umor nero.
«La tragedia vera della mia generazione, dei cosiddetti alfabetizzatori, è che ci siamo confrontati con un popolo straordinario quando era analfabeta e che poi – una volta imparato a leggere e scrivere e messi da parte un po’ di soldi – è diventato un popolo di mostri e di servi».
Dovevate lasciarli morire di fame?
«No, era giusto lottare per l’emancipazione, però nel momento in cui i morti di fame hanno avuto la pancia piena si sono rivoltati ai valori di comunità, solidarietà, giustizia sociale per cui erano stati affrancati. Questo popolo che ho amato follemente è diventato tutt’altro che amabile. Se penso a chi è oggi il mio prossimo…».
Chi è il suo prossimo?
«Il mio prossimo è il Trota. È quella la vera sfida di oggi: il recupero dei babbei. Nella categoria dei gonzi includo anche gli analfabeti laureati. Prima avevamo analfabeti autentici, oggi li abbiamo provvisti di diploma. Si drogano di fiere, di libri, di film, di discussioni, di presentazioni, di commemorazioni, di festival.
Applaudono freneticamente i nuovi guru mediatici. E si illudono di pensare. Ma è un’illusione».
I guru ci sono sempre stati.
«Ma oggi siamo alla caricatura. La lista delle parodie è piuttosto lunga. Vuole che cominci?».
Lasci stare. Non salva nessuno?
«Un momento. Salvo gli studiosi competenti, come Luigi Ferrajoli e Carlo Donolo, Guido Crainz e Mariuccia Salvati, e anche giornalisti come Pino Corrias, e ce ne sono tantissimi su piazza. Ma non ci sono più i maestri d’un tempo. Ogni tanto salta fuori il profeta o il “pasolinino”, ma non è all’altezza. Io stesso evito di andare in Tv perché rischio di diventare guru, e la cosa mi immalinconirebbe. Sono partito come maestro elementare e come assistente sociale. E oggi mi salvo perché resto ancorato ai bambini e alle periferie».
Lei è sempre stato un irrequieto, anche nell’ambito delle riviste.
«La veste culturale a un certo punto mi stava stretta, e avevo bisogno di un aggancio nel sociale. Però negli anni Sessanta questo impegno era rappresentato dalla politica. Venivo dall’esperienza con Danilo Dolci, mi ero formato con Calogero e Capitini, e mi ritrovai nella Torino operaia dei Quaderni Rossi».
È vero che la componente operaista la guardava con sospetto?
«No, solo con ironia. I primi tempi ero ancora vegetariano, e questo suscitava grande ilarità. Per colpa loro sono diventato carnivoro. Qualcuno mi ribattezzò il francescano dei Quaderni rossi solo perché indossavo i sandali».
All’epoca fu censurato da Einaudi.
«Sì, non mi pubblicarono il rapporto sulla immigrazione a Torino. Non so se ci sia stata pressione della Fiat, ma forse si trattò solo di autocensura. Il libro servì per una battaglia interna. E definitivo risultò il voto contrario del nazistalinista Delio Cantimori. Mi vide come un eretico pericoloso. E lui di eretici si intendeva magnificamente ».
Più o meno negli stessi anni cominciarono a uscire i Quaderni Piacentini.
«Era una rivista totalmente diversa, fatta da intellettuali tradizionali. Nessuno di noi era marxista. Piergiorgio Bellocchio, Grazia Cherchi ed io venivamo da storie diverse, con attenzione a orizzonti nuovi come la psichiatria di Basaglia. E a tutto quello che si muoveva in quegli anni».
Però anche là lasciò.
«Facevo già un’altra rivistina torinese, Ombre rosse, che sull’onda del Sessantotto divenne un foglio di intervento politico. I Piacentini se ne stavano da parte e criticavano il movimento. Io preferivo starci dentro».
Ma è vero che i leader del movimento erano piuttosto rozzi, solo western e kung fu?
«Sì, andavano pazzi per Bruce Lee. E se costretti ai film impegnati, sbadigliavano come elefanti. È anche comprensibile: dopo dodici ore di militanza non avevano voglia di rompersi il cervello con Angelopulos».
Questo però spiega anche perché il Sessantotto sul piano culturale alto non abbia lasciato grandi opere.
«È vera una cosa: che quella generazione non scrisse, non cantò, non fece poesia. Per dieci anni fece solo politica. Però i vecchi hanno continuato a scrivere. E hanno scritto cose in cui senti il peso del Sessantotto. Lo senti nella Morante. Lo senti in Moravia e in Sciascia. Lo senti in Calvino».
Sia in Ombre rosse che nel successivo Linea d’Ombra volle circondarsi di un gruppetto di giovani.
«Sì, ricordo Sinibaldi, Lerner, Manconi, Mereghetti. Più tardi Piersanti, Corrias, Lolli. Ah, dimenticavo il non simpatico van Straten: non tutti gli “allievi” vengono bene, anche se mi viene difficile considerarli tali».
Lei è un pedagogo, e ha mantenuto questa veste.
«Ma ci possono essere stili diversi: gli educatori che vogliono seguaci, come Dolci e don Milani. E quelli che spingono le persone a diventare autonome, come Capitini e Panzieri. Io mi sento più vicino a loro. E ho imparato a non scandalizzarmi troppo se uno piglia una strada diversa ».
A chi pensa?
«Baricco era un eccellente critico musicale, cominciò a scrivere di musica su Linea d’Ombra. Poi però s’è distratto, seguendo rotte che non mi interessano. Ma se oggi incontro Sandro, lo abbraccio e lo considero un ex compagno di strada».
Su Linea d’Ombra scopriste Rushdie.
«E poi Yehoshua e la Desai, Coetzee e Naipaul, addirittura Mahfuz. Nel decennio più stupido della storia italiana, il mondo cambiava. E noi siamo stati tra i pochi ad accorgercene. Allora Rushdie era straordinario, non il superdivo di oggi che va scrivendo pessimi romanzi sui vip».
Anche da quella rivista se ne andò.
«Alla fine degli anni Ottanta la storia si rimetteva in movimento, ma non tutti in redazione erano disposti a mettersi in gioco. Io mi divertivo di più a fare La terra vista dalla luna, la rubrica di Linea d’Ombra che diventerà rivista. Molto spesso nascono le une dalle altre, frutto di una germinazione interna. Tre anni fa, da Lo Straniero è scaturita Gli asini, una rivista di educazione e di intervento sociale che ritengo molto preziosa».
Ma questa delle riviste è un’ossessione, una malattia, cos’è?
«No, malattia no, perché ne posso fare a meno. È un modo di fare politica per uno che non sa fare politica. Un rifornimento di energia. Nei primi Novanta andavo spesso a Palermo e a Napoli, ero autonomo economicamente anche grazie a una rubrica su
Panorama».
Sì, l’editore era Berlusconi e Grazia Cherchi non gradì.
«Moralismi del cavolo».
Proprio lei non lo può dire.
«Da che mondo è mondo, chi non ha potere né beni vende la propria forza lavoro a chi gliela paga. Così replicai a Beniamino Placido che mi accusò di predicare bene e razzolare male. Uscì un mio articolo sull’Unità che fece scalpore: per la prima volta nel titolo compariva la parola “culo”. L’anima e il culo».
Ma perché ruppe con Grazia Cherchi?
«Per anni è stata la mia migliore amica. Io arrivavo nella redazione di Linea d’Ombra alle sette. E alle sette un quarto implacabile arrivava la sua telefonata. Un rapporto molto intenso. Però poi anche lei ha creduto troppo nel suo ruolo. Era quella che doveva fare la madrina dei giovani scrittori, e poi ha fatto da madrina a personaggi orrendi. Litigammo sì, ma come si fa tra amici che si vogliono bene».
Nuove riviste all’orizzonte?
«No, per ora c’è solo lo Straniero, che continuo a fare grazie ad Alessandro Leogrande e Anna Branchi. È facile essere stati bravi una volta da giovani. Più difficile continuare a esserlo tutta la vita».

Adnkronos 17.12.12
Pannella in sciopero, allarme dei medici: "Rischio per i reni e il cuore, ora si reidrati"

Il leader radicale giunto al sesto giorno di digiuno totale per cibi solidi e liquidi è a rischio. Ignazio Marino (Pd): "Da medico prego Marco di accettare almeno la somministrazione di liquidi, non è escluso che stia rischiando di essere condannato alla dialisi se il suo fisico non sarà reidratato al più presto"