mercoledì 19 dicembre 2012

l’Unità 19.12.12
Stefano Fassina
«Meglio se Monti resta sopra le parti, ma se si candida almeno giocheremo a carte scoperte, perché l’economia è politica»
«La democrazia vive di scelte chiare: io sto con i lavoratori»
di Simone Collini


«È la seconda lenzuolata di democrazia dopo quella del 25 novembre e del 2 dicembre», dice il responsabile Economia e lavoro del Pd Stefano Fassina riferendosi alle primarie per scegliere i candidati parlamentari.
Lei sarà della partita?
«Certamente. Ritengo fondamentale che gli elettori abbiano la possibilità di scegliere chi li rappresenta».
Ha già pianificato la strategia per la campagna?
«Diciamo che per ora sto organizzando l’appuntamento di apertura, sabato pomeriggio a Roma, all’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico».
Diciamo allora che già questo dice molto del profilo della sua candidatura... «Beh, allora diciamo anche che prima che io prenda la parola ci saranno dieci testimonianze di lavoratori e lavoratrici di aziende in crisi».
Diceva che è giusto dare agli elettori la possibilità di scegliersi i parlamentari: ma allora non era meglio se il Pd avesse accettato le preferenze, per arrivare a una nuova legge elettorale?
«Guardi, alla fine si è visto chiaramente che noi avremmo potuto accettare tutto senza che si riuscisse a superare questa pessima legge elettorale. Si è visto che l’ostacolo era Berlusconi, che temeva di perdere il residuo controllo che ha sul Pdl».
Non pensa che con la scelta delle primarie il partito finisca per delegare ad altri una decisione che invece spetta a lui? «No, nessuna delega ad altri, né il partito abdica alla sua funzione di direzione politica. Le rose delle candidature vengono approvate dalle federazioni, quindi rimane la centralità del Pd nel presentare agli elettori i nomi di chi ritiene possa svolgere una funzione di rappresentanza in Parlamento».
Dice che non saranno dequalificati i prossimi gruppi parlamentari?
«E perché mai? Piuttosto, abbiamo visto che con una gestione tutta interna, senza le primarie, il Porcellum non ha impedito l’arrivo in Parlamento di persone come Calearo».
Molti commentatori stanno criticando la scelta di esonerare dalle primarie un 10% di candidature: è stato un errore mantenere quella quota?
«Non direi proprio. Sottolineo invece la portata rivoluzionaria della scelta compiuta dal Pd, e come sia incredibile in questo Paese la tenacia con cui si tenta di offuscare i cambiamenti positivi che arrivano dalla politica. Un partito sottopone il 90% dei suoi candidati alle primarie e definisce una quota minima per aumentare le elette e garantire la presenza di competenze esterne, e che si fa? Ci si concentra su quella quota minima. Assurdo».
Assurde anche le critiche sui derogati?
«Stiamo parlando di una cifra che sarà inferiore al 3% dei gruppi parlamentari Pd. Mi pare assolutamente strumentale qualunque polemica poggiata su una dimensione così ristretta di uomini e donne che comunque si sottoporranno alla valutazione degli elettori». Nessuno di loro sarà tra quelli esonerati dalle primarie?
«Nessuno, tutti dovranno farle».
Dell’ipotesi che Monti giochi un ruolo nella campagna elettorale cosa ne pensa? «Il patto stretto alla nascita del governo Monti presupponeva una sua funzione super partes, effettivamente svolta. Se la mantenesse, ciò gli consentirebbe di svolgere anche in futuro una funzione di garanzia per il Paese».
In caso contrario?
«Il Pd va avanti per la sua strada. Abbiamo le risposte ai problemi dell’Italia». Ma una candidatura di Monti vi creerebbe problemi, non crede?
«Guardi, un’eventuale candidatura del presidente Monti avrebbe un risvolto positivo. Quello di poter incominciare a giocare a carte scoperte».
Cioè?
«Verrebbe meno la copertura tecnica a scelte che sono sempre politiche. Perché l’economia è politica. La democrazia si alimenta di opzioni chiare. Non della falsa neutralità della presunta tecnica».

La Stampa 19.12.12
Monti ormai ha deciso, nel fine settimana farà l’endorsement al Centro
Pd in fibrillazione E parte la corsa al listone bloccato
Pressing su Bersani per entrare tra i 120 “garantiti” Nel toto-nomi anche Josefa Idem e vari economisti
di Carlo Bertini


A Bersani la lettura dei giornali della mattina è andata di traverso e come a lui anche a tutto il vertice del partito: e il motivo di tutta questa irritazione è la mancanza di par condicio. «Siamo gli unici a fare una cosa che non si è mai fatta né in Italia né in Europa», fa notare stizzito il leader Pd. «Gradiremmo essere seguiti con un po’ di simpatia, visto che stiamo facendo democrazia. Si chiedesse agli altri cosa intendono fare».
Ma a logorare la pazienza del vertice del partito in realtà è l’assalto al «listone bloccato» di 120 persone, che sarà deciso dal segretario in tandem con le direzioni provinciali e con i capicorrente. Un buon numero di candidati sicuri saranno personalità della società civile e già impazza il toto-nomi: spunta quello di Josefa Idem, la canoista olimpionica, dal 2009 responsabile sport del Pd emiliano; di economisti come Massimo D’Antoni, Paolo Guerrieri, Emilio Barucci, il figlio dell’ex ministro Piero. Quotazioni alte per lo storico Miguel Gotor, stretto collaboratore del leader e il politologo Carlo Galli. Ma la rosa lieviterà di ora in ora e Bersani è pressato da più fronti. Il listone ospiterà una ventina di capilista, nomi in grado di trainare consensi nelle regioni, da Franceschini, a Letta e via dicendo. Questi verranno decisi entro sabato e non correranno alle primarie; gli altri 27 capilista saranno scelti tra i primi vincitori delle primarie nei vari territori. Fatto sta che molti degli uscenti vanno in pressing sui maggiorenti sperando di esser infilati nel recinto protetto.
Perfino un ambientalista noto come Ermete Realacci non farà le primarie «perché con questi tempi ristretti vince chi controlla partito e preferenze: se avessi un mese mi cimenterei ovunque. Ma mi auguro di esser inserito nel listone insieme ad altri esponenti renziani». Ma i posti scarseggiano, l’elenco dei pretendenti si allunga e già c’è chi prevede che in quota Renzi non ne entreranno più di 10, e solo 5 per le altre correnti di minoranza. Ma sono i peones i più agitati: in camera caritatis un alto dirigente Pd ammette, «meno male che tra dieci giorni è tutto finito perché sarà un ecatombe». E basta farsi un giro alla Camera per vedere l’ala sinistra del Transatlantico ridotta ad un’alveare impazzito: drappelli col cellulare all’orecchio, capannelli con voci concitate, calcoli sui numeri di preferenze necessarie in ogni collegio, lotte fratricide obbligate per strappare un posto al sole, che nessuno vuole ingaggiare: «A Prato - racconta il franceschiniano Antonello Giacomelli - verrà eletto un deputato e siamo in due uscenti, io e Lulli. Ma non ci faremo mai la guerra in casa dove ci conoscono tutti e quindi uno dei due rinuncerà». Un altro deputato cinquantenne, il pugliese Gero Grassi, ha la voce roca per le troppe telefonate: «Ecco, ho qui l’elenco, 600 nomi della mia provincia, Bari, li ho chiamati tutti in due giorni e non è finita. A ognuno devi spiegare il perché dell’Imu, cosa intendi fare per il figlio disoccupato e via dicendo. Per me che ho sempre curato il rapporto con il collegio è una prassi normale, ma li dovrò richiamare tutti a Natale». E non è chiaro se i veterani che hanno avuto la deroga dovranno davvero cimentarsi con le primarie: probabile che alcuni di loro finiranno nel listone come capilista, creando altri malumori...

Corriere 19.12.12
Primarie, parte la gara per le «quote»
Ai renziani andrebbero 10 posti «garantiti», cinque ai veltroniani
di M. T. M.


ROMA — Nella sala del gruppo del Pd alla Camera Pier Luigi Bersani fa il suo discorso di commiato ai deputati: «Vi ringrazio per quello che avete fatto». Dal fondo si leva una voce: «Te ne sei ricordato tardi!». Un po' di brusio, poi scende nuovamente il silenzio. I parlamentari del Pd hanno l'aria sperduta di chi si sente congedato e vede allontanarsi il seggio: il 60 per cento dei presenti non tornerà a Montecitorio.
Nel Transatlantico c'è chi trema e chi spera. Corre voce che Renzi non riuscirà a ottenere più di dieci persone nella quota dei «garantiti», dopo un lungo incontro riservato con Vasco Errani, nei panni dell'ambasciatore di Bersani e del mediatore. Tra di loro dovrebbero esserci Realacci e Gentiloni. A Veltroni invece andrebbero 4 deputati (ma solo quelli che hanno appoggiato Bersani) e un senatore, Giorgio Tonini, che invece ha votato per il sindaco di Firenze.
Intanto, mentre il presidente dell'associazione delle vittime del 2 agosto, Paolo Bolognesi, annuncia che si presenterà alle primarie, Chiara Geloni, direttore di Youdem, gela le speranze di Paola Concia e Roberto Giachetti, annunciando su Facebook che non sono nella quota dei nominati. Eppure per la deputata omosessuale del Pd si sono mossi in molti. Sulla Rete i gay hanno chiesto al partito di candidarla. E il presidente di Equality, Aurelio Mancuso, anche lui iscritto al Pd, lancia un appello perché venga riconfermata in nome delle sue battaglie che con la nascita del governo di centrosinistra potrebbero finalmente essere portate a compimento. Persino il presidente della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, l'ha chiamata per esprimerle il suo rammarico e il suo stupore. Ma non tutto è perduto, perché la questione della rappresentanza degli omosessuali nelle file del Pd è questione importante.
Giachetti, invece, ha deciso di buttarsi nelle primarie con un appello autoironico che comincia così: «Ho 51 anni, due figli...». Il deputato renziano a Roma può contare sull'aiuto del comitato Gentiloni e dei radicali. Certo, le primarie sono una sfida difficile. A Roma e nel Lazio soprattutto, dove i consiglieri regionali hanno intenzione di scendere in campo con i loro pacchetti di voti e di tessere. Già, perché i consiglieri in questione non possono ricandidarsi alla Regione per motivi di opportunità, visti i recenti scandali, e sono invece ritenuti idonei per il Parlamento.
Anche nel resto dell'Italia la situazione è tutt'altro che rosea per chi vorrà tentare le primarie, perché quasi dappertutto si presenteranno i segretari regionali e provinciali, che hanno dalla loro la macchina dell'apparato. L'altro ieri Piero Fassino in Direzione aveva messo in guardia il Pd da questa deriva: «Non voglio dire che uno debba fare come i segretari di federazione dei miei tempi, che si dedicavano per intero al loro lavoro, ma...». Quel «ma» è caduto nel vuoto. Alla Camera e al Senato, nella prossima legislatura, vi saranno molti «apparatchik» del Pd.
Anche chi ha avuto la deroga dovrà affrontare le primarie, a meno che non gli venga affidato il posto di capolista: in questo caso entrerà tra i «garantiti». Anna Finocchiaro si dice pronta alla sfida. Rosy Bindi pensa a dove candidarsi perché nella sua Toscana a prevalenza renziana è difficile che la spunti. Franco Marini è il più tranquillo di tutti e spiega: «Mi ricandido perché credo di poter aiutare il Pd a restare sulla buona strada. Un partito riformista in Italia deve avere una significativa presenza della cultura cattolica sociale, altrimenti perde la sua capacità di presa, e io ho l'ambizione di avere ancora un ruolo importante su questo fronte».

Repubblica 19.12.12
De Magistris e Ingroia vogliono il Pd, Bersani frena


ROMA — Il plenum del Csm deciderà oggi sulla richiesta di aspettativa da parte di Antonio Ingroia per “motivi elettorali”, ma la quarta commissione, ieri, ha già dato il via libera. Un sì scontato che apre al procuratore aggiunto di Palermo ora in Guatemala per un incarico Onu - le porte delle prossime elezioni politiche a capo del movimento arancione. Peccato che il progetto non sia ancora nato, che già emergono divisioni e incertezze non da poco.
La prima: Ingroia continua a dire di non aver ancora deciso, nonostante sia il primo firmatario del manifesto “Io ci sto” insieme a Luigi De Magistris, Leoluca Orlando e il pdci Orazio Licandro. La seconda: ieri il sindaco di Napoli ha chiarito che il Movimento Arancione è disponibile ad aprire un dialogo con il Pd se il segretario Bersani «avanzerà proposte di cambiamento come detto nella campagna per le primarie». Questo però non è il disegno di buona parte di quello che doveva essere il movimento, che ancora si definisce come quarto polo: i professori dell’associazione Alba, Paul Ginsborg, Luciano Gallino, Marco Revelli, Livio Pepino (che per questo avrebbe addirittura litigato con l’amico Ingroia: «Ma come, ti corteggiamo da mesi e tu dici sì a quelli che vogliono andare col Pd?»), Paolo Ferrero di Rifondazione comunista. Fatto sta che il manifesto “Io ci sto” è stato delineato - con la complicità di Di Pietro - proprio per venire incontro ai democratici, e che nella stessa ottica va vista la lettera aperta a Bersani scritta nei giorni scorsi proprio da Ingroia su Micromega: lettera in cui il pm diceva di augurarsi una vittoria del segretario pd sottoponendo alcune condizioni. Siamo alla quarta incertezza, che più che altro è una spaccatura: i sostenitori di “Io ci sto” si riuniranno con Ingroia venerdì al teatro Capranica di Roma. L’assemblea di “Cambiare si può”
(il nucleo originario, con Alba e Rifondazione) si terrà il giorno dopo. Prenderanno strade diverse? Quel che è certo, è che Oliviero Diliberto sta lavorando per tentare un’intesa col Pd già prima delle elezioni, magari un accordo tecnico al Senato che consentirebbe di temere meno lo sbarramento. I democratici però frenano: «Abbiamo fatto le nostre scelte - dicono al secondo piano del Nazareno - le primarie hanno legittimato una coalizione, non è il caso di ridiscuterla adesso».
(a.cuz.)

l’Unità 19.12.12
Al Nord i matrimoni civili sorpassano quelli religiosi
Il rapporto Istat conferma le ansie degli italiani per la crisi e il lavoro
I giovani e le donne sono i più esposti agli effetti della lunga recessione
Solo i consumi tecnologici, Internet e Pc registrano risultati positivi
Ci si sposa di meno anche per colpa della crisi E più di 1 bambino su 4
è figlio di coppie di fatto
di Salvatore Maria Righi


Non è un Paese per poveri, sempre di più, né per studenti, sempre di meno. Ma, per quello che può servire la speranza, è un Paese che vive di più: aumenta la longevità (uomini a 79,4 anni e donne a 84,5), nell’Italia fotografata dall’Istat per il suo rapporto annuale. Ma è uno dei pochi indici di conforto, nell’annuario statistico 2012 (dati 2011). Le parole tabù, invece, sono sempre di più lavoro e soldi: sei italiani su dieci non sono soddisfatti del proprio reddito, mentre tra i giovani dilaga la disoccupazione che però colpisce un po’ meno gli adulti e gli over 55.
MENO UNIONI MA PIÙ CIVILI
C’è anche un dato che forse racconta l’Italia di oggi meglio degli indicatori economici: al Nord, le unioni civili hanno superato i matrimoni religiosi. Per il quarto anno consecutivo cala il numero generale, nel 2011 celebrati 208.702 riti (novemila in meno rispetto al 2010). Aumentano sempre di più i matrimoni civili (83mila), 48,8% al nord, 50,1% al centro mentre nel Mezzogiorno il rito religioso è stato scelto dal 76,3%. Le zone del Paese dove il matrimonio civile ha avuto una vera e propria impennata sono la provincia autonoma di Bolzano, dove addirittura il 62,7% dei matrimoni sono stati celebrati in municipio, e il Friuli Venezia Giulia, con il 60,4%, a seguire Liguria (57,2%), Toscana (57,6%), Val d’Aosta. Parallelamente, più di un bambino su quattro (26,6%) è nato fuori dal matrimonio. Ogni cento nascite nel 2010, 19 hanno almeno un genitore straniero. E si diventa mamma sempre più tardi.
OCCUPAZIONE E CONSUMI
Il punto chiave del rapporto, tuttavia, riguarda naturalmente la crisi. Occupazione e budget familiare sono diventati incubi per gli italiani, i consumi sono pressoché fermi. Nel dettaglio, la percentuale di persone di 14 anni e più che si dichiara molto o abbastanza soddisfatta della propria situazione economica è pari al 42,8%, una quota decisamente inferiore a quella rilevata nel 2011 (48,5%). Aumentano i per niente soddisfatti (dal 13,4% al 16,8%), per i quali si registra la quota più alta dal 1993. Il tasso di disoccupazione nel 2011 resta invariato all’8,4% rispetto all’anno precedente: ma sono tanti e in crescita i cosiddetti «scoraggiati» che non hanno un lavoro e neanche lo cercano. Si contano ben 1 milione e 800mila inattivi. Il tasso di occupazione è al 56,9%, valore che si mantiene ampiamente al di sotto della media Ue (64,3%); quello maschile si attesta al 67,5%, mentre il tasso riferito alle donne si posiziona al 46,5%. Per le quali, alla voce inattività, i numeri nel Mezzogiorno sono ancora preoccupanti: più di 6 donne su 10 non partecipano al mercato del lavoro.
FUMATORI E SEDENTARI
Si fuma di più e si fa più vita sedentaria. La sigaretta è diffusa soprattutto tra i giovani, in prevalenza maschi, ma anche le signore di mezza età non disdegnano la sigaretta. Si stima pari al 21,9% la quota di fumatori tra la popolazione di 14 anni e più. Tra gli uomini sono il 27,9%, tra le donne invece il 16,3%. E solo 2 italiani su 10 fanno attività sportiva regolare, mentre la stragrande maggioranza non fa sport, e 4 su 10 non fanno assolutamente nulla che richieda una qualche attività fisica. La quota di sedentari è pari al 39,2% (il 43,5% tra le donne e il 34,6% tra gli uomini).
STUDENTI IN CALO
Calano i detenuti: al 31 dicembre 2011 erano 66.897, con un lieve decremento (-1,6%) rispetto alla fine dell’anno 2010. Quasi un quarto (il 24,5%) dei detenuti è tossicodipendente, ma tra i detenuti stranieri l’incidenza è minore (20,2%).
In lieve diminuzione il numero di iscritti alle scuole superiori. Sono 8.965.822 gli studenti iscritti all’anno scolastico 2010/2011, circa 2.200 in meno rispetto a quello precedente; per il terzo anno consecutivo, a scendere sono soprattutto gli iscritti alle scuole secondarie di secondo grado (-24.145 unità). Il tasso di scolarità subisce un’ulteriore flessione, dal 92,3% del 2009/2010 al 90%, quello riferito alla scuola secondaria di secondo grado. Ci consoliamo col computer e con Internet, l’unico vero boom del rapporto Istat: gli utilizzatori del Pc nel 2012 sono il 52,3% della popolazione di tre anni e oltre. Al top tra i 15 e i 19 anni (quasi 9 ragazzi su 10), ma gli utilizzatori aumentano anche fra i 65-74enni (17,2% contro il 14,9% di un anno prima). Parallelamente, l’uso di Internet continua a mostrare un andamento crescente, coinvolge il 52,5% della popolazione (51,5% nel 2011). Iscrizioni in continua flessione all’Università. Il declino cominciato nel 2004/2005 va avanti tanto che nel 2010/2011 il numero delle immatricolazioni è tornato indietro di 10 anni. I giovani iscritti per la prima volta all’università nell’anno accademico 2010/2011 sono circa 288 mila, circa 6.400 in meno rispetto all’anno precedente (-2,2%). La popolazione universitaria è composta da 1.781.786 studenti. Non va meglio nella ricerca: nel 2009 la spesa totale per ricerca e sviluppo è stata pari a 19.209 milioni di euro con una incidenza percentuale sul Pil lordo dell’1,26% (la media Ue è del 2,01%).
ABITUDINI
lnfine, il pranzo a casa è espressione dello stile italiano. Ancora nel 2012 il 74,3% delle persone pranza generalmente a casa e la percentuale è in crescita (+1,2%) rispetto all’anno precedente, soprattutto tra i giovani di 25-34 anni (+4,1%). Fortemente diffusa è anche la consuetudine a fare una colazione «adeguata» al mattino: circa otto persone su 10 abbinano al caffè o al tè alimenti nutrienti come latte, biscotti, pane.

La Stampa 19.12.12
La società che cambia
Cara famiglia, l’Italia non ti riconosce più
Le separazioni in aumento, i divorzi in calo, i matrimoni (40% civili) in picchiata Solo il 37% dei nuclei è una coppia con figli: dobbiamo ripensare il nostro Paese?
di Raffaello Masci


Un matrimonio su tre non dura. Questo almeno dice il Rapporto Istat, numeri alla mano. E l’istituto del matrimonio, in generale, ha sempre meno successo. Infine, quei pochi che si sposano (meno della metà di quanti lo facevano negli Anni Settanta) lo fanno sempre di più in comune e sempre meno in chiesa.
Su 1.000 matrimoni - dice l’Istat - 307 evolvono in separazione, e di queste 182 diventano divorzio dopo il tempo che la legge stabilisce debba trascorrere. Quindi si fanno più separazioni che non divorzi, e mentre le prime aumentano (+2,6% rispetto all’anno precedente), i secondi diminuiscono sia pur di poco (-0,5%). Un po’ si deve al fatto che divorziare costa più che separarsi e molto al fatto che non è necessario divorziare se non ci si vuole risposare.
D’altronde al matrimonio si ricorre sempre meno, ogni anno l’Istat rileva una decrescita moderata ma costante. Nel 2011 - per esempio - sono stati 218 mila, e cioè 13 mila in meno del 2010 e meno della metà di quanti non fossero 40 anni fa. Di questi matrimoni, il 60% si celebra ancora in chiesa, anche se questa scelta è decrescente di anno in anno. Inoltre, se si osserva la geografia della Penisola, si scopre che i matrimoni civili sono la maggioranza già da tempo al Nord (51,7%) e fifty-fifty al Centro. La chiesa addobbata e la marcia nuziale resistono al Sud (76,3%), ma anche lì sono in ribasso.
Un fenomeno positivo - dice l’Istat - è la diffusione dell’affidamento condiviso dei figli in caso di separazione, che riguarda ormai l’89,8% dei casi e questo dovrebbe garantire maggiore serenità ai circa 88 mila bambini coinvolti in separazioni o divorzi. L’Istat fotografa, quindi, una famiglia sempre più articolata rispetto al modello tradizionale mamma-papà-figli in un unico nucleo. Su 100 famiglie dice l’Istituto - 37 sono tradizionali e con figli, 20 sono coppie senza figli, 8 con un solo genitore, 28 costituite da una persona sola e 7 in altra condizione.
Quando si dice «difesa della famiglia» a quale ci si riferisce?

La Stampa 19.12.12
Un mondo precario che preferisce convivere
di Carlo Rimini


Sono sempre meno le coppie che si sposano perché i giovani mostrano di preferire la convivenza. Un numero crescente di coloro che si sposano preferiscono il matrimonio civile rispetto a quello religioso (a cui il Concordato attribuisce efficacia civile). Entrambe le tendenze, registrate dai rapporti statistici dell’Istat, possono essere facilmente spiegate alla luce dei mutamenti della società e del diritto. Lo è la prima: in un mondo in cui tutti, ma i giovani in particolare, si sentono precari, pochi hanno la forza e il coraggio di prendere un impegno. Fino a ieri, per sposarsi si aspettava almeno fino alla nascita di un bambino: spesso la scelta del matrimonio avveniva nella consapevolezza che i figli nati fuori dal matrimonio avessero un trattamento giuridico peggiore rispetto ai bambini nati da genitori sposati. Oggi, dopo la recente approvazione della legge che ha azzerato le differenze fra i figli dei genitori sposati e dei conviventi, è facile immaginare che neppure l’arrivo di un bambino sarà più un incentivo alla celebrazione del matrimonio. Il Parlamento, con la nuova legge, ha preso atto che le famiglie fondate sulla semplice convivenza sono ormai un modello ampiamente diffuso, e la legge stessa sarà un ulteriore incentivo al diffondersi di famiglie non fondate sul matrimonio, in una continua rincorsa fra costumi sociali e norme che è da sempre il motore del diritto di famiglia. La diminuzione dei matrimoni religiosi è invece l’effetto di una maggiore consapevolezza delle rilevanti differenze fra il matrimonio concordatario e il matrimonio civile. Fino a qualche tempo fa, la scelta a favore del matrimonio religioso era un semplice ossequio alla tradizione, anche da parte di sposi non praticanti e assai poco consapevoli del significato religioso del matrimonio. Oggi invece la Chiesa cattolica dedica uno sforzo considerevole alla formazione di coloro che chiedono di sposarsi con il rito cattolico: i corsi di preparazione al matrimonio religioso sono infatti diventati un impegno rilevante, mentre un tempo si trattava di una semplice formalità. Così le coppie imparano che, per il diritto canonico, il matrimonio è un sacramento ed è nullo se gli sposi non sono entrambi intimamente convinti della sua indissolubilità e non hanno la ferma volontà di generare figli. Ora dunque, al momento della scelta fra matrimonio civile e matrimonio religioso, gli sposi vengono ammoniti sul fatto che non si tratta solo di scegliere fra due cerimonie diverse, ma il matrimonio religioso presuppone una condivisione dei valori cattolici ed è nullo se tale condivisione manca. La nullità per il diritto canonico si propaga, per effetto del Concordato, anche al diritto civile, con effetti talora drammatici per la parte più debole. Gli sposi cattolici, ma non praticanti, ritengono allora più prudente scegliere il rito civile, che non è un sacramento ma una manifestazione di volontà, un impegno a condividere un progetto di vita, un vincolo civile non indissolubile.
*Ordinario di diritto privato nell’Università di Milano

Corriere 19,12.12
Istat, al Nord più matrimoni civili Senza lavoro un milione di giovani
Un italiano su 3 a rischio povertà. Il 74 per cento pranza a casa
di Alessandra Arachi

ROMA — Non era mai successo: ci si sposa più in Comune che in Chiesa. Non in tutta l'Italia. Al Sud, ad esempio, nel 2011 circa tre coppie su quattro hanno scelto ancora saldamente la benedizione divina per suggellare l'amore coniugale. Ma soltanto lì. E se nel Nord del Paese per la prima volta l'Istat segnala il superamento dei matrimoni celebrati con il rito civile su quello religioso (51,2% contro 48,8%), nel Centro Italia il sorpasso è stato sfiorato letteralmente di un soffio. Meglio: di uno 0,1%.
Chissà se c'entra la crisi anche in queste scelte di abbandono dei sacramenti religiosi. Di certo la crisi economica pesa praticamente su tutto il rapporto redatto dal nostro Istituto di statistica e presentato ieri a Roma. È denso di cifre l'annuario Istat. Numeri che raccontano di un Paese popolato sempre più da anziani, con mamme sempre più grandi, giovani sempre più disoccupati, famiglie sempre più in difficoltà economiche. Il rischio povertà o esclusione sociale aumenta — arrivando a sfiorare il 30% nel 2011 — più che negli altri Paesi europei.
Figli e occupazione
In Italia aumenta però anche il tasso di fecondità. Poco poco: 1,42 figli per donna nel 2011 contro 1,41 del 2010. Lo sappiamo, sono le donne immigrate che hanno impresso un rialzo alla curva dei figli che in Italia vengono messi al mondo dalle mamme più anziane d'Europa: è di 31,3 anni l'età media del parto, come il Liechtenstein e la Svizzera, appena sopra l'Irlanda e il Regno Unito (31,2).
Sappiamo anche quanto sia difficile trovare lavoro nel nostro Paese. L'Istat ha calcolato che un disoccupato su due nel 2011 stava cercando lavoro da più di un anno. E va peggio per i giovani e le donne. Con un paradosso: tra i giovani di età compresa tra i 25 e i 29 anni va meglio a chi non ha la laurea. Per la precisione: il tasso di disoccupazione dei laureati sotto i 30 anni è del 16%, contro il 12,6% degli under 30 semplicemente diplomati. Gli under 35 senza un lavoro sono 1,12 milioni.
Non dimentichiamo i Neet, cioè i giovani (uno su due ha meno di 30 anni) che non fanno nulla, non studiano e non lavorano. Sono un fenomeno recentissimo, sembrava destinato a esaurirsi. E invece l'Istat segnala che sono aumentati nel 2011, diventando circa 2 milioni 155 mila. Sono di più le femmine (un milione 185 mila) che i maschi (969 mila).
In generale l'inattività delle donne ha un tasso che in Italia non è al pari del resto d'Europa, tocca picchi decisamente preoccupanti al Sud (ci sono sei donne su dieci che rimangono a casa), mentre in tutto il Paese la sperequazione di stipendi per genere raggiunge casi non degni di civiltà. In media, infatti, le donne guadagnano il 30% in meno dello stipendio rispetto agli uomini, 69,50 euro contro 96,90 euro al giorno. Lo stipendio medio mensile di un italiano è di 1.300 euro e la differenza retributiva di genere viene calcolata in 282 euro.
La speranza di vita
Arriviamo alle buone notizie: la nostra speranza di vita alla nascita aumenta ormai anno dopo anno. Nel 2011 siamo arrivati ai 79,4 anni per gli uomini e 84,5 per le donne. E siamo fra i migliori in Europa dove soltanto la Svezia continua ad avere migliori condizioni di sopravvivenza maschile (79,6 anni), mentre in Francia e in Spagna le donne fanno registrare la vita media più elevata in assoluto (85,3 anni). Altre buone notizie: stiamo bene in salute. Perlomeno ben sette persone su dieci non esitano a dichiararsi sani, con una disparità fra uomini e donne (il 75,3% contro il 67,1%). Per quanto riguarda le abitudini alimentari gli italiani confermano di non amare lo snack veloce: il 74 per cento consuma a casa il proprio pranzo.
Internet e libri
Arriviamo alle notizie che ci spalancano le porte su un futuro che è già parte consistente del nostro presente: oggi è poco più di un italiano su due dai 3 anni di età in su che usa abitualmente il computer (52,3%) e naviga in Internet (52,5%). Ma andiamo a guardare la stessa percentuale fra i ragazzi di un'età compresa tra i 15 e i 19 anni: sono il 90%. Come dire? Sono nativi digitali e per loro il computer è un prolungamento della penna e la Rete è la loro vita.
Eppure non è vero che la Rete è destinata a devastare tutte le altre nostre attività. Prendiamo i libri ad esempio: l'Istat ci segnala che nel 2010 sono stati pubblicati 63 mila 800 libri (rispetto ai 57 mila 558 dell'anno precedente), per una tiratura complessiva di oltre 213 milioni di copie (quasi quattro volumi per ogni abitante). La produzione editoriale registra una ripresa sia per i titoli (oltre 10,8% in un anno) che per la tiratura (+2,5%).

Corriere 19.12.12
I matrimoni secolarizzati del Nord
di Dario Di Vico


Il sorpasso registrato ieri dall'Istat dei matrimoni civili su quelli religiosi (51,2% contro 48,8%) nelle regioni del Nord nel 2011 è un'utile occasione per tentare di fare il punto sul processo di secolarizzazione che investe il nostro Paese e che nel Settentrione ha un ritmo decisamente più veloce che al Sud, dove il 72% si sposa ancora in chiesa. Solo 15 anni fa la media nazionale dei matrimoni civili non arrivava al 20%. A determinare il sorpasso di oggi al Nord concorrono, non solo un mutamento culturale dei giovani davanti al primo matrimonio, ma anche le seconde unioni dei divorziati e le nozze con/tra stranieri. Comunque la più alta proporzione di riti civili la si trova a Livorno, Trieste, Massa-Carrara, Bolzano seguite da Genova, Ferrara, Grosseto ed Udine. Un mix di territori di frontiera, e quindi di incrocio di culture, assieme a zone tradizionalmente influenzate dalla sinistra politica.
Al di là del dato specifico e del suo addensamento territoriale è chiaro che è l'intera istituzione del matrimonio a dover fare i conti con la modernità. Prendiamo, ad esempio, la diffusione delle libere unioni: in passato erano una sorta di fidanzamento allungato attraverso il quale dopo qualche anno di prova si transitava nel matrimonio, oggi invece diventa sempre di più una scelta duratura tanto che sta aumentando anche il numero delle nascite fuori matrimonio. Così le convivenze more uxorio che per molti anni hanno viaggiato attorno a quota 200 mila (totale italiano) oggi sfiorano il milione di unità e anche in questo caso pesa la maggiore presenza degli immigrati.
L'istituzione matrimonio non viene solo declinata nelle sue modalità alternative (rito civile e convivenza) ma scende anche nelle quantità. Ogni anno se ne celebrano, tra religiosi e civili, circa 13-15 mila in meno e così se nel 2008 i matrimoni erano oltre 246 mila, nel 2011 sono scesi a quota 205 mila. È ragionevole pensare che a determinarne il calo non siano stati solo il mutamento culturale, la cosiddetta secolarizzazione, ma anche gli effetti della Grande Crisi che rende difficile, se non impossibile, per i giovani precari mettere in cantiere il matrimonio.
Registrati tutti questi elementi diventa interessante interrogarsi sui cambiamenti di fondo della società del Nord. Sappiamo di sicuro dalle ricerche svolte che anche la pratica religiosa è molto meno sviluppata nelle regioni settentrionali rispetto al Sud e da una recente indagine svolta tra un campione di giovani veniva fuori che quella del sacerdote è ormai una figura sociale poco conosciuta. Si può aggiungere che anche i matrimoni religiosi, che pure come racconta l'Istat sono diventati minoritari, vengono spesso motivati dai neo-sposi con la frase «veramente non volevo ma i miei ci tengono», ritornello che testimonia una secca discontinuità generazionale nell'atteggiamento verso l'istituzione Chiesa.
Ma, incamerate tutte queste tendenze, si può dire che il nostro Nord si stia americanizzando? Bastano queste statistiche a farci dire che stiamo diventando sempre più simili agli anglosassoni? È difficile in questo caso far leva su dati onnicomprensivi ma la sensazione degli studiosi è che stiamo vivendo una secolarizzazione diversa, per così dire all'italiana. Alcune istituzioni perdono presa, altre no. E noi tutti in questa modernità contraddittoria facciamo zapping. Prendiamo la famiglia: quasi tutte le indagini la quotano molto in alto nella gerarchia dei valori nordisti. È vero si tratta di una famiglia che definire poliforme forse è un eufemismo, profondamente cambiata rispetto anche solo a 20 anni fa ma che riesce a conservare forza di attrazione. Lo stesso vale per le figure di «mamma» e «papà» che secondo una indagine condotta tra i giovanissimi dalla rete televisiva Mtv restano fondamentali punti di riferimento, «agenzie» delle quali non si può fare assolutamente a meno anche dal punto di vista strettamente sentimentale oltre che, a questo punto, consulenziale. Infine non va dimenticato che, fatte salve le grandi differenze che dentro il Nord ci sono tra la grande città (soprattutto Milano) e i territori, l'elemento comunitario resta sempre vivo, le reti continuano, seppur smagliate, a fare il loro dovere. E quando si sviluppa innovazione sociale, vedi la diffusione del welfare aziendale, il segno è ancora una volta quello della coesione.

Repubblica 19.12.12
I matrimoni civili superano quelli in chiesa
Sorpasso storico al Nord, ma ci si sposa di meno. Aumentano le separazioni, in calo i divorzi
di Maria Novella De Luca


ROMA — È la rivincita delle “nuove famiglie”. Di quelle dei riti civili, dei figli che nascono al di fuori del matrimonio, delle unioni miste e delle libere unioni. È il partito dei “non ci sposiamo, grazie, stiamo bene così...”, cioè la metà di chi decide di fare famiglia, e non è poco. In Italia, al Nord, i matrimoni civili per la prima volta hanno superato i matrimoni religiosi, 51,7 per cento contro 48,3: lo dice l’Istat, non è un testa a testa, è ben di più, è qualcosa che cambia nell’antropologia delle relazioni. C’è molto da capire e da pensare dietro i dati resi noti ieri nell’Annuario 2012 dell’Istituto di statistica italiano, che registrano appunto il “sorpasso” già definito storico dei riti civili su quelli religiosi, raccontando così non solo un Paese sempre più secolarizzato, ma anche il mutamento radicale dell’essere coppia e, perché no, di vivere l’amore.
«Tra le nuove generazioni c’è la consapevolezza di poter dare un assetto stabile alla propria unione senza dover rispettare il vincolo della tradizione», spiega Alessandro Rosina, demografo dell’università Cattolica di Milano. «Sicuramente siamo di fronte a una secolarizzazione del sentimento religioso, e ad un aumento esponenziale delle convivenze, da parte di giovani che arrivano a crearsi una famiglia sempre più tardi. Ma in questo dato rientra anche il numero crescente delle nozze miste, tra coniugi di diverse religioni, per cui il rito civile è spesso una strada obbligata».
Al centro dei mutamenti simbolici c’è però di certo l’allontanarsi dalla tradizione rappresentata saldamente dal matrimonio religioso, che resiste nel Sud, dove il 76,3 per cento dei riti nuziali si svolge in chiesa, mentre al Centro il dato è del 50 per cento. Fiori, cerimonia, incensi, invitati a grappoli e costi altissimi. E forse allora bisogna crederci davvero, per decidere di affrontare tutto questo.
Amarsi. Essere insieme senza troppi vincoli, se non quello del sentimento. Tanto non c’è contratto che tenga se le cose vanno male. Il racconto dei numeri Istat dice infatti che le separazioni sono in netto aumento, più 2,6 per cento dal 2010. Instabilità coniugale, si chiama: se non si è sposati è lo stesso, le famiglie oggi sono sempre più fragili e se ci sono figli tutto si complica di più. «Credo che tutto questo nasca dalla rivoluzione femminista degli anni Settanta – ricostruisce Chiara Volpato, docente di Psicologia sociale alla Bicocca di Milano – e dal cambiamento delle donne all’interno del matrimonio. Si è passati dall’identificazione in un ruolo, che doveva essere riconosciuto attraverso il rito, alla consapevolezza delle coppie di oggi. Le quali sanno bene che il matrimonio in quanto contratto non è affatto garanzia della saldezza di un rapporto. E la scelta del rito civile al posto di quello religioso, tolto quel 30 per cento di veri credenti, fa sembrare tutto più snello ». Anche lasciarsi, ad esempio.
«Il divorzio – dice Volpato – fa parte del nostro orizzonte mentale. E in caso di matrimonio religioso, le cose si complicano. Ritengo poi che questo sorpasso dei riti civili sia avvenuto al Nord perché c’è una maggiore vicinanza almeno culturale all’Europa. Dove appunto le nozze religiose sono una minoranza».
Certo, l’elemento economico incide. Soprattutto se la scelta della cerimonia viene fatta più per ritualità, tradizione e senso estetico che per scelta di fede. «Con un budget limitato si riesce ad organizzare un bel matrimonio civile – conferma Federico Donato,
wedding planner di Verona – scegliendo una sala municipale storica, un agriturismo per la festa... Quando invece si comincia con gli addobbi per la chiesa, già i costi lievitano enormemente. Però, lo confesso, dal mio punto di vista puramente spettacolare la cerimonia religiosa è molto più scenografica». Parere, irriverente, di un addetto ai lavori, ma al di là dei cambiamenti della coppia, c’è anche una maggiore serietà da parte delle istituzioni religiose, che di certo scoraggia gli indecisi. Preti e parroci quasi sempre chiedono oggi ai futuri coniugi un corso pre-matrimoniale. E non pochi abbandonano.
Linda Laura Sabbadini, direttore del dipartimento sociale Istat, allarga il ragionamento sui dati. «Questo sorpasso è dovuto a una molteplicità di fattori. Prima di tutto, la secolarizzazione dei costumi più accentuata al Nord. Quindi, la presenza massiccia nelle regioni settentrionali della popolazione immigrata, che porta a matrimoni misti celebrati con rito civile. Ma accanto a questi due aspetti c’è un dato altrettanto significativo, e cioè che molte di queste nozze non religiose sono in realtà secondi matrimoni».

Repubblica 19.12.12
Monsignor Sigalini, presidente della commissione Cei per il laicato
“È vero, stiamo perdendo terreno adesso i corsi per chi già convive”
di Orazio La Rocca


ROMA — «Come Chiesa dobbiamo fare certamente un mea culpa per non aver sufficientemente provveduto a portare avanti una adeguata preparazione al matrimonio religioso tra le giovani coppie. Ma non è da sottovalutare il processo di secolarizzazione della nostra società, se in Chiesa ci si sposa di meno».
Il sorpasso dei riti nuziali civili sui matrimoni religiosi è giudicato «con preoccupazione» da monsignor Domenico Sigalini. Bresciano, 70 anni, vescovo di Palestrina, presidente della commissione Cei per il laicato e assistente ecclesiastico generale dell’Azione cattolica italiana, Sigalini è un vescovo che non nasconde «le difficoltà del momento su un tema sociale tanto delicato come è la formazione della famiglia».
Come spiega, monsignor Sigalini, che nel Nord si celebrano più matrimoni civili?
«Sono nato a Brescia, e posso dire che se nelle regioni del Nord ci si sposa di più in municipio è perché il processo di secolarizzazione ha attecchito di più in quelle aree. Nel Centrosud, invece, si vive di più il senso religioso nel quotidiano. Basti pensare alla devozione che si ha per i santi patronali».
Nelle regioni del Nord c’è, quindi, meno fede?
«Non è un problema di fede, perché ognuno nel proprio intimo può averla. Persino chi dice di non credere in Dio può esserne alla ricerca. È la sensibilità religiosa nella vita quotidiana che è differente tra Nord e Centrosud. Ed è assai probabile che abbia influito nelle scelte matrimoniali. Ma se i riti nuziali in Chiesa calano, lo si deve anche ad altri fattori».
Vale a dire?
«Non dimenticherei che ci si sposa di meno per mancanza di lavoro, di case, per la crisi economica... Tutti fattori che stanno spingendo le giovani coppie a rinunziare, a volte anche a malincuore, alle solenni cerimonie in Chiesa e a fare della celebrazione del matrimonio una giornata di grande festa».
Che cosa sta facendo la Chiesa in concreto per rilanciare i riti nuziali religiosi?
«Da tempo ci stiamo attrezzando con corsi di preparazione al matrimonio aperti a fidanzati, ma anche a conviventi che hanno già figli. La sfida da vincere è far vivere il matrimonio religioso come sacramento di Dio con tutta la sua bellezza spirituale e sociale. Ma non è meno importante educare i fidanzati ad arrivare al giorno delle nozze con semplicità, senza ricorrere a inutili sfarzi e a spese a volte incontrollate».

Repubblica 19.12.12
Nozze civili e Nord
di Chiara Saraceno


Nonostante l’orgogliosa e aggressiva rivendicazione dell’identità cattolica delle maggioranze politiche che governano molte di quelle regioni, la più parte dei giovani che si sposano – per altro sempre meno – non ritiene di aver bisogno anche della sanzione religiosa. Anche al Centro si stanno avviando nella stessa direzione. Il matrimonio religioso continua a essere scelto dalla stragrande maggioranza solo nel Mezzogiorno.
Le ragioni di questo mutamento in quella che è pur sempre una transizione importante nella vita delle persone – mettersi ufficialmente in coppia – sono più di una. La prima è sicuramente l’aumento dei divorzi (fenomeno consistente soprattutto nel Centro-Nord), in quanto apre alla possibilità di seconde nozze che non possono essere che civili. Per altro, se non ci fossero le seconde nozze, il calo dei matrimoni apparirebbe ancora più consistente. Anche l’aumento dei matrimoni in cui uno dei due coniugi è straniero (di nuovo più numerosi al Nord) è una delle cause di aumento dei matrimoni civili; perché è più facile che i due non abbiano la stessa religione e nessuno dei due voglia rinunciare a priori ad educare i figli nella propria,
come chiede invece la Chiesa cattolica al coniuge non cattolico, o non attribuiscano lo stesso significato al rito religioso. Ma i matrimoni civili sono in aumento, soprattutto al Nord, anche tra i primi matrimoni tra italiani: ormai uno ogni quattro in Italia. Non si può non mettere in rapporto quest’ultimo dato con quello dell’aumento delle convivenze senza matrimonio, dei matrimoni preceduti da una convivenza (uno ogni tre, di più al Centro-Nord), delle nascite fuori dal matrimonio ma dentro a una convivenza (riguarda ormai un nuovo nato ogni quattro).
Tutto questo segnala che è in atto una lenta modifica del matrimonio e dello stesso modo di fare famiglia. Cambiano le tappe: prima si hanno rapporti sessuali, poi si va a vivere assieme, magari si fa un figlio, poi ci si sposa; ma il matrimonio, non diversamente dalla convivenza, non è irreversibile. Si tratta di mutamenti culturali che non possono più essere ignorati, anche al momento della scelta del rito matrimoniale, in nome dell’indubbia maggiore suggestività del rito religioso. Se fossi parte della Chiesa cattolica lo prenderei come un atto di serietà, che restituisce al rito religioso il suo carattere sacramentale, importante per i credenti veri, liberandolo dalla funzione di “bella festa” cui accedono indifferentemente credenti e non credenti. E mi interrogherei sul significato della persistente popolarità del matrimonio religioso nel Mezzogiorno.

Repubblica 19.12.12
Pannella
I medici: “Non c’è più tempo, rischia danni irreparabili”


ROMA — «Non c’è più tempo, Pannella dovrebbe sottoporsi subito ad una terapia adeguata, deve essere reidratato. Domattina (oggi per chi legge) l’insufficienza renale sarà consolidata». È un passaggio del bollettino medico sulle condizioni del leader dei Radicali, ricoverato alla clinica Santa Maria della Mercede. Non beve da nove giorni, è lo sciopero più lungo della sua trentennale carriera di lotta politica non violenta. Pesa 71,9
kg, ha perso quasi 18 chili da quando ha iniziato li digiuno, tre mesi fa. Ma in serata ha lasciato la clinica per partecipare ad una trasmissione radiofonica.
«Pannella ha una resistenza fisica come poche persone — ha aggiunto il suo medico personale Claudio Santini — tuttavia abusato del suo fisico. Avrebbe potuto vivere fino a cento anni ma in queste condizioni e per la vita che ha fatto sta rischiando molto».

l’Unità 19.12.12
Il commento
Perché non era in cura il ragazzo del Connecticut?
di Luigi  Cancrini

Psichiatra e psicoterapeuta

UN RAGAZZO DI 20 ANNI PRENDE IL FUCILE DELLA MADRE, LA UCCIDE E UCCIDE POI VENTI BAMBINI DELLA SCUOLA IN CUI LA MADRE INSEGNA PRIMA DI UCCIDERE SÉ STESSO. Al di là delle polemiche sulla facilità davvero assurda con cui circolano le armi negli Usa, quello su cui occorre interrogarsi è anche il tipo di problemi alla base di un comportamento folle come questo. Di cui non si può dire a mio avviso, come ha fatto Concita De Gregorio a Prima Pagina, la trasmissione di Rai 3, che è «troppo semplice attribuirlo ad un raptus o ad una patologia» perché di patologia comunque si tratta e di patologia riconoscibile: che avrebbe potuto e dovuto far immaginare ai professionisti consultati da lui e per lui delle iniziative di intervento capaci di prevenire quello che è accaduto.
La parola «autismo», prima di tutto. L’autismo di un adulto, infatti, non è l’autismo infantile di cui tanto spesso si parla e che tante preoccupazioni già desta nelle famiglie che devono affrontarlo. Descritto da Bleuler e poi da Minkowski come un sintomo caratteristico e grave di quello che oggi chiamiamo disturbo schizofrenico, l’autismo corrisponde infatti a quella chiusura progressiva in sé stessi legata al prevalere della realtà interna su quella esterna che naturalmente, nei casi più gravi, si sviluppa in un delirio vero e proprio. Come ben dimostrato oggi dalle notizie sulla casa bunker in cui quel povero ragazzo viveva circondato dalle armi e dai fantasmi dei nemici da cui quelle armi dovevano difenderlo: solo collocandolo all’interno di un incubo che ti travolge ad occhi aperti è possibile, infatti, comprendere il senso di un gesto assurdo come quello compiuto nella scuola di Newtown, di una alterazione della mente per cui tu non sei più te stesso e tua madre non è più tua madre, i bambini della scuola in cui lei insegna diventano dei personaggi ostili e pericolosi da cui difendersi con un gesto estremo e il suicidio stesso altro non è che la chiusura, naturale e in qualche modo logica di una «missione» assurda. Pazienti che vivono esperienze di questo tipo andrebbero riconosciuti e curati, però, e le loro famiglie hanno il diritto di essere aiutate ad aiutarli: quando loro sono piccoli perché l’infanzia di questi malati è un’infanzia drammaticamente infelice di cui oggi cominciamo a ricostruire i contorni e gli sviluppi e più tardi quando la malattia inizia a manifestarsi. Come ben dimostrato dal lavoro svolto con migliaia di queste famiglie, negli Usa ed in Europa, perché la terapia familiare consente un sostanziale miglioramento nel decorso di tutti i disturbi schizofrenici più gravi: evitando le crisi e i ricoveri ma evitando, soprattutto, il disastro legato alla interruzione del rapporto e della comunicazione con quelli che possono, stando vicino a chi sta male, dargli ascolto ed aiuto nei momenti di maggiore difficoltà.
La malattia mentale ha destato da sempre reazioni forti in chi la incontra. La paura, prima di tutto, che spinge a escludere chi ne soffre: bruciandoli sui roghi, come accadeva ai tempi dell’Inquisizione o chiudendoli negli ospedali psichiatrici e/o nella nebbia delle camicie di forza farmacologiche. La tenerezza e la pena legate alla identificazione con la persona che soffre, in secondo luogo, che si sviluppa nel bisogno messianico di «salvarli»: vivendo con loro o negando, semplicemente, la loro malattia. Quella che a lungo è mancata, invece, è la pazienza e il rispetto di chi accetta l’idea che chi sta male va curato. Con i farmaci e non solo coi farmaci però ma dando a chi sta male tempo, vicinanza e occasioni di rapporto. Evitando di lasciarlo solo con i suoi familiari e con le sue «voci di dentro» nella prigione del suo isolamento. In balia del suo delirio.
Difficile riuscirci in un caso come quello di Adam? Difficile e tuttavia possibile. La psichiatria è ancora oggi spaventosamente lontana, infatti, dal livello che le nostre conoscenze le permetterebbe di raggiungere. Investire in salute mentale vuol dire investire in psicoterapia del paziente ed in sostegno terapeutico alle famiglie dei più gravi anche se queste terapie fondamentali vengono viste (stupidamente) come un lusso in una società ossessionata dal bisogno di risparmiare e da economisti che sembrano chiudere tutti e due gli occhi di fronte alle previsione dell’Oms sui disturbi psichici «prima emergenza sanitaria per i paesi occidentali già a partire dal 2020». È con un occhio a questi dati che io mi permetto di dire, dopo i fatti del Connecticut, che qualcuno dovrebbe chiedersi perché questo ragazzo di venti anni è stato lasciato solo e senza le cure di cui aveva bisogno e diritto. Evitando di parlarne come di un mostro. Provando pena e rimorso per quello che ha passato e portando con il pensiero un fiore anche sulla sua tomba oltre che su quella delle sue povere vittime.

Repubblica 19.12.12
È l’ateismo la terza “religione” del mondo
di Angelo Aquaro


Un uomo su sei nel mondo non crede in Dio. Cioè più di un miliardo di persone, rivela uno studio americano I cristiani restano in testa, incalzati dai musulmani
In totale, i credenti sono l’84% della popolazione mondiale

NEW YORK Se la religione è davvero l’oppio dei popoli, ci siamo fumati anche questa, visto che il culto in ascesa nel mondo porta il nome di ateismo. Sì, un uomo su sei sulla terra è senza Dio: o quantomeno non crede nel Dio di una chiesa particolare. E la chiesa dei senza fede è già la terza nel villaggio globale. La prima è quella dei cristiani: 2.2 miliardi di persone. La seconda è una moschea: i musulmani sono 1.6 miliardi. Al terzo posto del podio balzano dunque i non credenti: 1.1 miliardi. Che succede? Dopo aver conosciuto una società senza padre, come avevano profetizzato i sociologi anni 60, abbiamo deciso di mandare in pensione anche il Padre Eterno?
Per la verità il quadro offerto dai ricercatori del Pew, l’istituto di indagine più prestigioso d’America, è un tantino più complesso, come del resto argomento comanda. Tant’è che la definizione che gli studiosi propongono per gli atei del Terzo Millennio è la più flessibile “unaffiliated”, che qui si potrebbe tradurre con non adepti, quelli appunto che non partecipano attivamente a un culto. Una non chiesa molto più che variegata. «I non adepti includono gli atei, gli agnostici e chi non si identifica in nessuna religione particolare» si legge nelle 81 pagine di questo “The Global Religious Landscape”. Ma gli autori del rapporto subito mettono le mani avanti: rimettendo le mani giunte anche a questi benedetti non adepti. Molti di loro, infatti, “hanno qualche forma di credenza religiosa”. Che cosa vuol dire? Che «per esempio, la fede in Dio o in qualche potenza è condivisa dal 7% dei cinesi, dal 30% dei francesi e dal 68 % degli americani» sempre nella categoria “unaffiliated”.
Di più: «Alcuni di questi partecipano in qualche modo a certe pratiche religiose. Per
esempio, il 7% in Francia e il 27% negli Stati Uniti rivelano di presenziare a una funzione religiosa almeno una volta all’anno ». Questo naturalmente non basta a considerarli credenti: spesso, per esempio, la partecipazione è legata a riti anche civili come matrimoni e funerali. O quantomeno quel sentimento che così di rado li porta in chiesa, moschea, sinagoga o quant’altro viene classificato più come ricerca dello spirito che senso religioso vero e proprio.
Le curiosità ovviamente non mancano. Sempre per restare ai non adepti si tratta del 16% della popolazione mondiale: la stessa percentuale dei cattolici. Tre quarti vivono in Asia: segue l’Europa (12%, 134.820 milioni), l’America del Nord (5%, 59.040 milioni) e il resto. Tra le grandi religioni, gli induisti seguono cristianesimo e Islam con 1 miliardo di fedeli, i buddisti con mezzo miliardo e gli ebrei con 12 milioni. La religione di domani sembra l’Islam: i musulmani hanno la media d’età più giovane, 23 anni, ebrei e buddisti la più alta, 36.
In totale, i credenti sono l’84% della popolazione mondiale: calcolata nel 2010, anno dei rilevamenti, 5.8 miliardi.
Dice al New York Times il professor Conrad Hackett, uno dei pilastri dello studio, che «è la prima volta che i numeri sono basati su un sondaggio analizzato in modo rigoroso e scientifico»: 2500 fonti in 232 paesi. Sarà. Eppure a ben guardare una setta manca: con 1.01 miliardi, quell’oppio del web chiamato Facebook non s’è già fumato gli amici hindu?

La Stampa 19.12.12
I predatori della Germania perduta

L’unica copia del pamphlet di Tacito, portata in Italia dal papa Niccolò V, divenne un totem per i nazisti
In un saggio le vicissitudini di un libro “molto pericoloso”

di Bruno Ventavoli

Io accetto il parere di coloro i quali ritengono che gli abitanti della Germania, non contaminati da nozze con altre popolazioni, siano una gente a parte, di sangue pura e simile solo a se stessa. Da ciò anche l’aspetto fisico è in tutti il medesimo, per quanto è possibile in così grande numero di uomini: occhi fieri e cerulei, capelli rossicci, corporature gigantesche ma adatte solo all’assalto. Tacito, «Germania», IV

Nel 1943 un commando nazista arrivò nella Marche con una missione alla Indiana Jones. Il capo supremo delle SS, Himmler, aveva ordinato di recuperare il più antico manoscritto della Germania di Tacito. I predatori del codice perduto irruppero in una villa nobiliare, frugarono ovunque, devastarono e ripartirono a mani vuote. La bizzarra incursione, mentre la guerra infuriava e prendeva una brutta piega per il Reich dopo lo sbarco alleato in Sicilia, era l’ultimo atto di una caccia al prezioso testo che appassionò bibliofili, Papi, intellettuali deliranti, ricostruita nel saggio erudito e appassionante di Christopher B. Krebs, professore a Stanford, Un libro molto pericoloso (Il lavoro editoriale, pp. 254, € 40).
Si trattava di trenta paginette scritte in meraviglioso latino per descrivere i costumi degli antichi Germani, alquanto barbari nella loro civiltà, ma dotati di ferrea morale, leali, coraggiosi, integerrimi (seppur inclini alla pigrizia, al gioco d’azzardo, e alla birra). Uomini straordinari guerrieri, donne modello di virtù coniugale e materna (anche perché le rare adultere finivano rapate, denudate e pubblicamente fustigate). L’obiettivo del senator Tacito, dopo gli eccessi di Nerone, era sferzare gli animi contro la tirannide imperiale per tornare alle virtù repubblicane. Parlava di Germani, perché i Romani intendessero.
Del pamphlet tacitiano si persero le tracce nel Medioevo finché la febbre dell’umanesimo scatenò bibliomani, mercanti, mecenati, Papi alla ricerca dei classici perduti. Letterati ambiziosi battevano l’Europa in cerca dei codici vergati da pazienti amanuensi nel chiuso dei conventi. Acquistavano, copiavano, al limite trafugavano, in nome della cultura e del collezionismo. Nel XV secolo l’unica copia esistente della Germania apparve nel monastero di Hersfeld. Enoch di Ascoli lo portò in Italia per conto di papa Niccolò V. Si smarrì di nuovo, riaffiorò molto dopo nella polverosa biblioteca dei Baldeschi Balleani, nobile famiglie di Jesi, grazie a don Cesare Annibaldi, insegnante di liceo nonché raffinato cultore dell’antichità, che lo pubblicò nel 1907, alimentando poi gli appetiti della Germania nazista. Prima che Himmler spedisse i suoi scherani, Hitler ne aveva chiesto la restituzione a Mussolini per le Olimpiadi di Berlino del ’36.
Oltre alle brame bibliofile, diventò nel corso dei secoli – come disse Momigliano – «un libro molto pericoloso» per le ideologie che nutrì negli spiriti del Nord. Anche se la Germania tacitiana era un impreciso crogiolo di tribù turbolente ai margini dell’impero che davano filo da torcere alle legioni e volevano restar liberi nelle loro cupe foreste, servì da modello per riaffermare la superiorità tedesca nei confronti dell’Italia ricca, raffinata, corrotta. Non c’era lo spread ma lo scontro ideale e politico non era dissimile ai tempi dell’umanista Conrad Celtis o di Lutero. I tedeschi onesti, leali, rigorosi, parchi; Roma lussuriosa, spendacciona, truffaldina. Il Nord inseguiva la «riforma morale», i Papi succhiavano soldi per innalzare San Pietro e vivere nel lusso, vendevano persino i bond spazzatura delle indulgenze promettendo il paradiso ultraterreno.
Il restauratore della lingua germanica Martin Opitz, all’inizio del ‘600, quando il latino era l’unica lingua colta, risvegliò l’orgoglio per gli antichi bardi tacitiani che guidavano i guerrieri in battaglia, auspicando la promozione letteraria del tedesco. «Fa’ attenzione – diceva al mondo tedesco - che tu, superiore agli altri popoli per forza e affidabilità non sia inferiore nella lingua! ». In epoca più moderna, quando la Germania ancora non esisteva come nazione (prima del 1871 era frantumata in centinaia di minuscoli regnetti litigiosi e inconcludenti), i fautori dell’unificazione si appellavano ai fantomatici antenati descritti da Tacito per cesellare appelli politici, letterari, filosofici.
Tacito servì anche ai primi antropologi. Johann Friedrich Blumenbach (1752-1840) di Gottinga, che da giovane nascondeva ossa di animali domestici sotto il letto del collegio, studiava crani per capire come mai cambiassero (in peggio) i popoli. I progenitori si erano conservati puri, senza mescolarsi con gli altri; se invece si guardava intorno non notava più «i grandi corpi dei nostri antenati forti solo per l’attacco… i fieri occhi blu». Riteneva innata l’inferiorità culturale dei «negri» e considerava i caucasici i più «belli e adatti» al genere umano, ma non si proclamava razzista. Il passo per la superiorità ariana era breve. In meno di un secolo, attraverso Rosenberg e altri teorici della razza, Tacito fu adottato come bibbia del nazionalsocialismo. Al congresso di Norimberga del ’36 si allestì una «stanza germanica» decorata con citazioni tacitiane, il testo entrò nei programmi scolastici (con strategiche censurine sull’amore per l’ubriachezza e i dadi) e citato dalla pubblicistica di regime. Il quarto capitolo, in cui si descrivevano gli avversari dei romani con occhi cerulei, capelli biondo-rossi e alta statura, divenne una legge dello Stato. Anche se i vertici nazisti erano ben lontani dal modello (mori, brutti, fisici sgraziati), arrivarono le misure per la «protezione del sangue e dell’onore tedesco», nel ricordo orgoglioso che i Germani di Tacito «impiccavano o affogavano nelle paludi quanti erano inferiori o predisposti alla perversione».
Himmler, figlio di un prof di lettere classiche, scoprì il testo a 24 anni, quando girava in moto e in treno per fare propaganda. Disoccupato, sottopagato dal partito non ancora al potere, mezzo morto di fame, se lo fece imprestare da amici e rimase folgorato dalla gloriosa immagine della grandezza, purezza, nobiltà degli antenati ivi descritti. Annotò nel diario: «Così dovremmo essere ancora, o almeno, alcuni di noi». Nel ’29 Hitler gli affidò le SS. Erano 260 zoticoni. Himmler trasformò l’organizzazione in una efficiente macchina del terrore e dell’utopia razzista, volendo membri che fossero alti almeno 1,75, biondi, capelli chiari, che scegliessero la fedeltà per onore. Più o meno come aveva scritto Tacito. Che tuttavia non sapeva cosa fossero i Germani. Se li era inventati con la sua ironia, la sua amarezza pervasa di rabbia, semplicemente per fustigare imperatori pazzi, matrone lussuriose, cittadini romani incapaci di seguire il bene pubblico.

La Stampa 19.12.12
I Rotoli del Mar Morto online in cinquemila immagini


A 65 anni dalla loro accidentale scoperta da parte di un pastore beduino che ricercava una capra sperduta nei pressi di Qumran, i Rotoli del Mar Morto possono essere ora studiati ovunque grazie a un’iniziativa dell’Autorità israeliana per l’archeologia e di Google. Dopo due anni di lavori è stato presentato alla stampa un nuovo sito web (www.deadseascrolls.org.il) dove sono raccolte 5.000 immagini di elevata qualità che mostrano frammenti di quei testi tracciati duemila anni fa e conservatisi miracolosamente grazie alla estrema siccità del clima nella regione del Mar Morto. Nel sito sono incluse mille immagini che non erano state pubblicate finora e anche archivi relativi al periodo storico in cui i testi furono elaborati. Le immagini ora a disposizione del pubblico comprendono tra l’altro brani della Bibbia (compresa una porzione della Genesi), testi che hanno attinenza con le origini del cristianesimo e anche lettere scritte da ribelli ebrei inseguiti dalle legioni romane negli anni 132-35 d.C. I Rotoli del Mar Morto originali sono conservati nel Museo Israel di Gerusalemme.

La Stampa TuttoScienze 19.12.12
Cinquant’anni di paradigmi e rivoluzioni Così Kuhn ci ha cambiati per sempre
di Massimiano Bucchi


La scintilla di uno dei saggi più discussi del­ l’ultimo secolo scocca a Harvard, nel 1947. Gli in­ gredienti sembrano banali: un dottorando in fisi­ ca, una matita e un libro, la «Fisica» di Aristotele. Il giovane studioso è ai limiti dello sconforto. Ha ac­ cettato l’incarico di offrire una panoramica delle scienze agli studenti di discipline umanistiche e gli era sembrata una buona idea ripercorrere le radici della meccanica newtoniana, partendo da Aristo­ tele. Dopo alcuni giorni, però, l’idea non gli pare più così buona. «Mi pareva non solo che Aristotele fosse stato ignorante di meccanica, ma anche un pessimo studioso di fisica…». Lo sguardo corre fuori dalla finestra. «D’improvviso nella mia testa i frammenti si ordinarono in modo nuovo. Aristote­ le mi parve un fisico eccellente, ma di un genere al quale non mi sarei neppure sognato di pensare»: le sue idee andavano comprese in una tradizione completamente diversa. Thomas Kuhn (1922­ 1996) aveva sperimentato quel tipo di esperienza che caratterizza il mutamento rivoluzionario delle idee scientifiche, quel mutamento che non può es­ sere sperimentato «a pezzetti», ma assomiglia a una ristrutturazione della percezione: «Quelle che nel mondo dello scienziato prima della rivoluzione erano anatre, appaiono dopo come conigli». L’in­ tuizione resta in incubazione per un decennio, fin­ ché «l’ultimo pezzo del mio rompicapo fu sistema­ to al posto giusto». Alla fine degli Anni 50 Kuhn trascorre un anno lavorando a contatto con scien­ ziati sociali. Lo colpì il tempo che questi dedicava­ no a discutere su principi e metodi, rispetto agli scienziati naturali. «Mentre cercavo di scoprire la fonte di questa differenza, fui portato a riconosce­ re il ruolo che, nella ricerca, svolgono quelli che da allora ho chiamato i paradigmi». «La struttura del­ le rivoluzioni scientifiche» viene pubblicato nel 1962. Le reazioni, soprattutto dal mondo scientifi­ co, sono inizialmente tiepide. Ma col tempo l’in­ fluenza del libro è enorme. Le statistiche di Google Books rivelano che il termine «paradigma» ha enormemente accresciuto la propria diffusione, arrivando ad essere citato in 200 mila volumi a fine Anni Duemila. Cinquant’anni dopo si discute an­ cora su quanto Kuhn possa illuminarci sullo svilup­ po della scienza: se ci saranno «rivoluzioni» o se lo scenario sarà di «scienza normale». Ciò che è certo è che lo sviluppo della sua teoria offre una straor­ dinaria lezione sull’importanza di fare incontrare i saperi al di là degli steccati disciplinari: senza la ri­ chiesta di insegnare un po’ di fisica agli umanisti, e senza il cortocircuito con gli scienziati sociali, forse Kuhn non sarebbe mai arrivato a mettere insieme i pezzi del rompicapo tra rivoluzioni e paradigmi.

La Stampa TuttoScienze 19.12.12
“La materia oscura ci assedia”
L’astrofisica Garbari: ce n’è molta anche attorno alla Terra
di Luigi Grassia


Galassie Non c’è abbastanza materia visibile per tenerle insieme. Ma Silvia Garbari ha scoperto che la materia oscura è dappertutto anche vicino alla Terra

C’è un grande mistero nei cieli che si chiama «materia oscura». Se si fa la somma della materia visibile, non ce n’è abbastanza per tenere assieme le galassie e gli ammassi di galassie. La materia che vediamo giustifica meno di un sesto dell’attrazione gravitazionale che si manifesta nell’universo; e l’altro 85% da dove ha origine? Dalla materia oscura, dicono i cosmologi per far quadrare il cerchio, anche se non sanno che cosa sia questa grande X.
Ma la materia oscura si trova soltanto nello spazio remoto o ce n’è dappertutto, anche attorno al Sole e alla Terra? Se è una componente essenziale dell’universo deve esistere anche nel nostro circondario. Per far quadrare i conti della gravitazione, dovrebbe esserci in media un chilo di materia oscura in ogni volume di spazio pari a quello del pianeta Terra. È poca roba, in fondo. Eppure qualche tempo fa, in Cile, un gruppo di ricercatori non ha trovato neanche quella; secondo l’astrofisico Christian MoniBidin, nella porzione di galassia attorno alla Terra la materia oscura è pari a zero. Se il risultato fosse vero sarebbe imbarazzante per la nostra attuale visione dell’universo. Vorrebbe dire che stiamo sbagliando tutto.
Adesso però uno studio di cui è co-autrice una giovane scienziata italiana, Silvia Garbari (con i professori George Lake e Justin Read del Politecnico di Zurigo) illustra un risultato opposto: in un raggio di qualche centinaio di anni luce intorno al Sole la materia oscura non soltanto esiste ma ce n’è di più di quanto prevede la teoria, cioè una media di un chilo e mezzo in ogni volume pari a quello della Terra. Quindi, la teoria è salva e la «dark matter» avviluppa anche noi.
Il gruppo di Zurigo ha seguito un metodo diverso da quello del cileno Moni-Bidin: ha osservato 2 mila stelle nane di colore arancione, classe spettrale K. Ma seguire un metodo di analisi diverso basta a giustificare risultati opposti? Evidentemente no, uno dei due gruppi di scienziati deve avere sbagliato. A domanda diretta, Silvia Garbari risponde così: «Il lavoro di Moni-Bidin è stato contraddetto da un altro articolo di Jo Bovy e Scott Tremaine, uscito poche settimane più tardi. Gli autori hanno dimostrato che il risultato è erroneo a causa di una delle 10 ipotesi usate». Insomma, senza voler tirare calci sotto il tavolo alla concorrenza, è un fatto della vita che quando ci si avventura alle frontiere della ricerca scientifica si commettono anche degli errori, e pare che questo sia successo ai cileni.
Tuttavia Silvia Garbari si sente appena all’inizio della sua ricerca: «Nel prossimo futuro saranno disponibili stime più accurate della posizione e della velocità di moltissime stella nella Via Lattea grazie al lancio del satellite Gaia. Speriamo che il nostro risultato sia confermato».

Repubblica 19.12.12
Perché ritorna l’inventore delle scienze umane
Vico, ancora lui
Esce un volume che raccoglie tutte e tre le edizioni dell’opera maggiore del filosofo settecentesco
di Roberto Esposito


Lo straordinario rilievo della Scienza Nuova di Vico – adesso ripubblicata da Bompiani in tutte le tre le edizioni del 1725, del 1730 e del 1744, a cura di Manuela Sanna e di Vincenzo Vitiello, con un ricchissimo saggio di quest’ultimo – sta nel fatto che per la prima volta, in essa, le vicende degli uomini sono guardate dal punto di vista della loro storicità. Naturalmente la nascita della storiografia è assai precedente – basti pensare, per esempio, a quella greca e romana. Ma è solo con Vico che la storia assume lo statuto di vera scienza. Così come il sapere acquista una dimensione intensamente storica – pur senza perdere la sua portata metafisica. Questo complesso passaggio di paradigma trova un singolare riscontro metaforico nella “dipintura” che compare sul frontespizio dell’opera. In essa un raggio di luce, che parte da un occhio situato in alto, giunge al petto di una fanciulla in piedi su di un globo, rifrangendosi su una statua. Ai piedi di questa, vari arnesi, tra cui una borsa, un timone, un aratro e una tavola con su scritte alcune lettere. In basso a destra s’intravede una selva, la cui folta vegetazione s’eleva fino al cielo, oscurando parzialmente la luce del sole. Il raggio è quello, divino, che illumina il mondo, transitando prima per la metafisica, simboleggiata dalla ragazza, e poi per la sapienza poetica, rappresentata dalla statua di Omero, mentre la selva incolta rimanda alle origini barbariche in cui le nazioni moderne affondano le proprie radici. Come spiega lo stesso Vico, il dipinto riproduce il duplice movimento, dall’alto al basso e viceversa, che salda la storia umana alla provvidenza divina. In un’opera mai del tutto conclusa, a dispetto delle tre edizioni, mito e storia, poesia e diritto, filologia e filosofia trovano una sintesi narrativa di straordinario vigore. Come in un grande affresco barocco, la storia del mondo – scandita nelle tre età degli dei, degli eroi e degli uomini – si dispiega in un’alternanza di luci e ombre, di successi e sconfitte, di slanci e cadute.
Le questioni che la Scienza Nuova solleva, ripercorse anche da Vitiello, sono fondamentalmente tre – intrecciate tra loro in un nodo insolubile. La prima riguarda il rapporto tra eternità e storia, tra origine e sviluppo. Come si è detto, è stato Vico ad immettere la vita degli uomini nella dimensione complessa e drammatica della storia – ma senza per questo fuoriuscire dall’orizzonte metafisico. Anzi, nell’intento di estendere alla storia il modello matematico adottato dalle scienze naturali, egli la sdoppia in due ordini distinti, ma in parte sovrapposti: quello “ideale eterno”, coincidente con il piano divino e quello in cui «corron in tempo le storie di tutte le nazioni ne’ loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini». Da qui la complessità, ma anche la tensione, che anima la scena vichiana: come si integrano, in essa, permanenza e mutamento senza annullarsi a vicenda? Come può restare identica a se stessa, la storia ideale eterna, se quella delle nazioni trascorre da una stagione barbarica a un’epoca civile, per poi, magari, regredire ad una fase ancora più buia? Ciò è possibile attraverso una sorta di topologia che vede riuniti tempi diversi all’interno della stessa dimensione temporale, come quando, durante le scoperte geografiche, gli europei si trovarono di fronte forme di civiltà eterogenee non solo nello spazio, ma anche sul piano dello sviluppo storico.
Ma se è così, l’altra questione affrontata, e genialmente risolta, da Vico è quella di dar voce al modo di sentire di tempi remotissimi. Egli è perfettamente consapevole del fatto che il senso originario dell’esperienza passata è perduto per sempre. Da qui la sua marcata distanza da autori moderni come Cartesio, che attribuivano al sapere a loro contemporaneo una sorta di validità universale. La scelta, apparentemente antiquata, in realtà nuovissima, di Vico – non per superare, ma per sottolineare tale difficoltà strutturale – è duplice: da un lato il tentativo di cercare in un’etimologia spesso fantastica la relazione originaria tra parole e cose. Le parole che ancora usiamo trovano la loro radice nei gesti, nelle immagini e perfino nei suoni di ciò che intendono significare. L’essenza comunicativa del linguaggio risiede nella sua figuratività – nella modalità concreta, gestuale e quasi corporea, con cui i primi uomini si sono rapportati in modo immediato alla vita. Il sapere non è un punto di luce che illumina all’improvviso il mondo, ma un processo avvolto nell’opacità del suo spessore storico. Perciò la sapienza poetica – basata sulla potenza delle immagini, anziché sulla generalità dei concetti – è più ampia di quella scientifica e filosofica. E anzi, come vuole indicare il riferimento ad Omero della dipintura, l’unica capace di esprimere il fondo preistorico custodito in ogni storia.
La terza questione – implicita nelle prime due – è il rapporto tra mente e corpo. Si è detto della genesi corporea del nostro modo di parlare. Ma il primato del corpo non riguarda soltanto il linguaggio. La storia stessa si origina dalla dimensione, confusa e promiscua, del corpo, come quello, sformato e bestiale, dei giganti che vagavano nella grande selva primordiale. In quell’alba del mondo, come si esprime con potenza visionaria Vico, le menti degli uomini «erano tutte immerse ne’ sensi, tutte rintuzzate dalle passioni, tutte seppellite ne’ corpi». Chi voglia ripercorrere all’indietro il processo di ominazione, deve calarsi nella materia, oscura e ribollente, di quel fondo indistinto. Nella confusione di semi, di donne, di sangue da cui la vita ebbe inizio in un amalgama che sovrappone i corpi e mescola i loro umori, prima che si fissi la differenza tra gli individui e tra le specie. Perché qualcosa come un mondo umano abbia inizio, quella selva deve essere accecata dal bagliore del fulmine e poi bruciata dai primi eroi. Solo allora la forza diviene autorità e il comune si divide nel proprio. Solo allora si apre lo scenario della storia vera e propria. L’ordine nasce dal solco che l’aratro e la spada incidono nella superficie, prima indifferenziata, della terra. Da qui i regni, e poi le repubbliche, in cui la forza cede al diritto e l’autorità si coniuga con la libertà.
E tuttavia, tale processo di incivilimento non è mai definitivamente compiuto. Anzi, proprio quando si ritiene tale, rischia una brusca regressione in una barbarie ancora più profonda di quella da cui è emerso. Vico mantiene fortissimo il senso della fragilità delle cose umane. A ciò richiama la presenza della selva sullo sfondo della dipintura: al fatto che la luce del sole non può mai dissolvere del tutto le tenebre dell’origine. Proprio quando la ragione dispiegata pensa di potersi emancipare dagli impulsi del corpo, quando la civiltà si vuole del tutto immunizzare dalle ferite della comunità, rischia di inselvatichirsi di nuovo. È la prima compiuta teorizzazione di quell’eterogenesi dei fini che spesso indirizza il nostro agire lontano dagli esiti che intendevamo conseguire. Nessun autore moderno – magari più avanti di Vico sul terreno epistemologico – lo sopravanza in questa intuizione di bruciante attualità: la crisi non è una vertigine in cui la storia eccezionalmente precipita, ma una sua possibilità intrinseca. E anzi non di rado attivata proprio dagli strumenti adoperati per evitarla. Solo con tale consapevolezza si può tentare, faticosamente, di superarla.

martedì 18 dicembre 2012

l’Unità 18.12.12
Pd, primarie per il 90% dei candidati
Approvate le regole: solo il 10% eviterà il voto nei gazebo
Concesse dieci deroghe tra cui Bindi, Finocchiaro e Marini
Renzi: scelta positiva
La direzione Pd fissa al 10% la quota protetta a disposizione di Bersani e assegna dieci deroghe per le ricandidature. A varcare la soglia di Camera e Senato dovrà essere un minimo del 33% di donne, grazie alla doppia preferenza di genere. Si andrà alle urne il 29 e il 30 dicembre.
Potranno votare gli elettori del 25 novembre e gli iscritti al Pd del 2011 che rinnovino la tessera
di Maria Zegarelli


«Dal Paese c’è un’aspettativa enorme verso di noi. La società ci tende la mano in questo passaggio difficile. Oggi iniziamo un percorso totalmente inedito». Inizia così la sua relazione Pier Luigi Bersani, aprendo i lavori della direzione nazionale che dovrà votare regole e deroghe ai parlamentari in vista delle primarie del 29 e 30 dicembre.
Ci sono tutti i dirigenti, da Massimo D’Alema a Dario Franceschini, Piero Fassino, Matteo Renzi, Franco Marini, Beppe Fioroni, Rosy Bindi, Enrico Letta. Facce serene, forse perché dopo una lunga giornata di incontri e girandole di telefonate si è arrivati a un accordo. Che sia un percorso inedito è sicuro: stavolta per andare in Parlamento si dovrà passare per i gazebo dando la parola agli elettori e con la speranza (di molti big) che non siano i dirigenti locali a fare la parte del leone. Perché stavolta, a parte una quota a disposizione del segretario in accordo con le segreterie regionali, toccherà a tutti, dai big fino agli sconosciuti, giocarsi la partita senza sapere prima quale sarà il risultato.
Dieci le richieste di deroga votate in blocco, senza cioè una discussione sui singoli nomi: Rosy Bindi, Anna Finocchiaro (a cui sarebbe stato lo stesso segretario a chiedere di non fare un passo indietro), Mauro Agostini, Maria Pia Garavaglia, Giorgio Merlo, Franco Marini, Cesare Marini, GianClaudio Bressa, Beppe Lumia e Beppe Fioroni. Di questi finiranno nel listino nazionale quasi sicuramente la presidente del Pd, Bindi, l’ex presidente del Senato, Franco Marini e la capogruppo a Palazzo Madama Anna Finocchiaro (nel listino anche Franceschini, capogruppo alla Camera). Fissata al 10% la quota protetta (più i capolista) a disposizione di Bersani, in accordo con le segreterie regionali, per garantire la rappresentanza della società civile, di competenze ed esperienza sul campo (soprattutto nelle commissioni parlamentari e in Aula), ma anche di rapporti di forza interni. Alla fine saranno all’incirca un centinaio tra deputati e senatori ad avere il pass assicurato per il Parlamento, mentre a varcare la soglia di Camera e Senato dovranno essere minimo il 33% di donne, grazie alla doppia preferenza di genere. Obbligatorio per tutti, per evitare ricorsi e proteste post-primarie, accettare per iscritto le regole.
Dopo una lunga discussione sciolto anche un altro nodo: potranno votare tutti gli elettori iscritti all’Albo delle primarie del 25 novembre, gli iscritti al Pd del 2011 che rinnovano la tessera anche il giorno del voto, più i nuovi iscritti 2012 alla data del 30 novembre. Polemico su questo fronte Arturo Parisi, che pur apprezzando la decisione di Bersani di indire le primarie per i parlamentari avrebbe preferito una maggiore apertura alla platea degli elettori. «Dobbiamo esprimere una direzione politica con personalità e responsabilità dice Bersani ai dirigenti democratici dobbiamo condurre questo percorso in maniera rigorosa. Potrà essere il più forte lancio possibile della nostra campagna elettorale». Escluso lo slittamento a gennaio, che anche ieri ha chiesto Pippo Civati, perché, come ha spiegato Maurizio Migliavacca, si andrebbe troppo a ridosso delle elezioni politiche. Saranno invece le singole Regioni a scegliere se votare il 29 o il 30 dicembre.
La direzione ha approvato il regolamento messo a punto ieri mattina dalla segreteria nazionale in accordo con i segretari regionali per dare il via a quella che lo stesso segretario ha definito una «mission quasi impossibile».
Non è stato facile arrivare ad un accordo ed è stato necessario un lungo incontro anche tra i big per arrivare in direzione con una posizione condivisa, compreso il delicato capitolo delle deroghe: sì alla richiesta, a patto che tutti siano disposti a correre alle primarie, eccezion fatta per chi, in nome del ruolo che ricopre, può avere accesso al listino nazionale. Direzione alla quale ha preso parte anche il sindaco di Firenze che ieri per la prima volta ha incontrato i dirigenti del suo partito dopo la sconfitta delle primarie. «Anche con questa legge elettorale sbagliata, allucinante, il Pd fa le primarie per eleggere i parlamentari. Mi sembra un fatto molto, molto positivo dice Renzi lasciando i lavori alle 8 di sera per prendere l’ultimo treno utile per Firenze ho ritenuto doveroso da parte mia esserci e verificare che ci sia una consultazione con i cittadini. Spero che questa cosa aiuti il Pd a tenere in vita l’esperienza del 25 novembre». Dal fronte dei renziani Pietro Ichino fa sapere che non intende rientrare nel listino nazionale e che si sottoporrà alle primarie, come Salvatore Vassallo e Benedetto Zacchiroli. Ieri hanno annunciato la loro candidatura anche Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione dei parenti delle vittime della strage alla stazione di Bologna; l'ex segretario provinciale del Pd di Bologna, Andrea De Maria, il sindaco del Comune terremotato di Crevalcore, Claudio Broglia, e la senatrice uscente Vittoria Franco.

Corriere 18.12.12
Da Epifani a Gotor, i 120 «blindati» che creano imbarazzi nel partito
Tra gli esclusi i renziani Ceccanti e Giachetti. Ma anche Paola Concia
di Maria Teresa Meli

ROMA — Ha preferito non fare il convitato di pietra e come un «bravo boy scout» si è presentato in Direzione, anche se nessuno — o quasi — se lo aspettava. Ha abbracciato Nico Stumpo, sorridendogli: «Sei un delinquente». Ha soffiato il posto in ultima fila a Beppe Fioroni e quando il capo degli ex ppi lo ha chiesto indietro gli ha risposto sornione: «Non ti ho potuto rottamare, almeno fatti prendere la sedia». Poi, a riunione ancora in corso, prima che dentro e fuori la sala si parlasse dell'unico argomento che stava a cuore a tutti (la quota dei «garantiti»), se n'è andato e così ha saputo solo più tardi delle dieci deroghe votate in Direzione: «L'avevo detto io che ci voleva la rottamazione», ha ironizzato.
Ieri Renzi ha voluto marcare la sua presenza-assenza. Il sindaco ha lasciato intendere che, pur stando a Firenze, è in campo e che al Pd non conviene «restringere il recinto», non accogliendo tutte le «energie nuove che si erano raccolte attorno al partito durante le primarie». Parlare non ha parlato, ma il significato della sua presenza era inequivocabile. Anche se il sindaco ha intenzione di dedicarsi solo a Firenze, un occhio a Roma lo butterà per forza. Non per trattare le candidature con Bersani (anzi Renzi tesse le lodi di Ichino che farà le primarie perché non vuole stare nella quota dei garantiti) ma per non «disperdere» tutto quello che si è mosso nella società attraverso i comitati a lui intitolati: «Non cedete al pessimismo: il futuro ci raggiungerà presto». Del resto, circola un sondaggio riservato che rivela un fatto sorprendente: se nascessero delle «liste Renzi» in appoggio a Bersani e al Pd otterrebbero il 13 per cento.
È un dato da cui è difficile prescindere, anche se l'aria che si respirava ieri a Largo del Nazareno non aveva il sapore del nuovo che avanza. E non solo perché Rosy Bindi, al contrario dell'amica Livia Turco che si ritira con stile e senza profferire verbo, ha chiesto la deroga, passando sopra alle critiche e alle ironie e dando ragione alla profezia fatta qualche tempo fa da Veltroni: «Vedrete che un po' di parlamentari di lungo corso sfrutteranno il passo indietro mio e di Massimo per poi fare capolino e sollecitare la ricandidatura». Non è solo per questo che l'atmosfera in Direzione è pesante e i mal di pancia e le tensioni si moltiplicano. È il listino il vero pomo della discordia. O meglio la quota dei garantiti che finiranno nelle teste di lista, assicurandosi un posto in Parlamento.
I «nominati», tra protetti del segretario, esponenti della società civile e capilista, saranno centoventi circa. Un numero elevato se si pensa che Maurizio Migliavacca, all'inizio della riunione, ha spiegato: «In caso di vittoria avremo 400 parlamentari». Tra i fortunati ci saranno l'ex leader della Cgil Guglielmo Epifani, Miguel Gotor, il politologo Carlo Galli e tanti altri. C'è chi aspira, chi sgomita, e chi se ne va sbattendo la porta. Alcuni parlamentari di lungo corso verranno salvati e messi in quota, garantiti per le loro «competenze». Peccato che altri loro colleghi, con una sola legislatura alle spalle e molta più esperienza e preparazione saranno invece fatti fuori perché non hanno un padrino politico.
Un caso esemplare riguarda il senatore Roberto Della Seta. Il parlamentare ambientalista che ha condotto una dura battaglia contro l'Ilva, quello di cui Riva parla in una lettera del 2010 a Bersani chiedendogli di fermarlo. Due anni dopo Della Seta è stato fermato. Non sarà nel listino. E con lui sono stati fatti fuori gli altri due parlamentari ambientalisti Realacci e Ferrante. Esponenti del Pd che non sono radicati sul territorio, visto che rappresentano interessi diffusi, e quindi non hanno possibilità di passare alle primarie tramite i voti dell'apparato o dei signori delle tessere. Un caso analogo è quello di Stefano Ceccanti, costituzionalista, esperto di riforme elettorali. Fuori pure Roberto Giachetti, l'unico del gruppo del Pd di Montecitorio, che conosca i regolamenti della Camera e li sfrutti sempre a vantaggio del partito. Guarda caso si tratta di renziani.
Ma anche tra i bersaniani non ortodossi sono state fatte delle vittime: Bindi, contraria alle unioni civili di stile europeo, ha avuto la testa di Paola Concia, deputata gay, attivissima sul fronte dei diritti civili. Singolare per un partito il cui segretario ha annunciato che la proposta di legge sulla «partnership» sarà tra i primi atti del suo governo.

La Stampa 18.12.12
Vertice con Bersani, Monti tira dritto
Faccia a faccia a Palazzo Chigi: “Candidarmi? Ci sto pensando”. I timori del leader del centrosinistra
di Fabio Martini


Nel salone delle Feste del Quirinale il presidente della Repubblica ha concluso da poco il suo discorso, così mirato «contro» Mario Monti, ma qualche minuto più tardi durante il ricevimento il presidente del Consiglio non tradisce emozioni, sorride, stringe mani. E quando incrocia Pier Luigi Bersani si lascia coinvolgere in un duetto chiaramente ad uso degli astanti, visto che i due si erano visti un’ora prima a Palazzo Chigi. Bersani saluta simpaticamente Monti come se non lo vedesse da un mese: «Presidente!». Il premier, sorridendo, sta al gioco: «Come stai?». A questo punto Bersani rincara il calore e arriva a prendere per un braccio Monti, che non ha mai amato le effusioni e gli dice: «Vieni che ti devo dire una cosa...». Fin qui le manifestazioni esteriori che in politica, si sa, vanno sempre prese con le molle. Come nel caso di questo 17 dicembre: dietro le pubbliche effusioni, la tensione tra il premier e i partiti sta crescendo.
Un lunedì segnato per Mario Monti da due eventi che avrebbero potuto azzoppare anche il più potente dei purosangue politici. Anzitutto, l’esternazione di Giorgio Napolitano che si è dipanata lungo una concatenazione di concetti poco gratificanti per il premier: avevo preparato un percorso «orientato» verso il Monti-bis, che è stato bloccato da una brusca interruzione, a questo punto l’incarico lo do io e sarà per un governo politico. Il secondo passaggio hard è stato segnato dall’incontro con Pier Luigi Bersani a Palazzo Chigi. Un faccia a faccia, che si è svolto in una atmosfera di reciproco rispetto personale e nel corso del quale il leader del Pd ha manifestato il suo disagio per una eventuale partecipazione di Monti come candidato premier. Ma la risposta de presidente del Consiglio («Sto riflettendo») non ha fatto che ingigantire i timori del leader del Pd. E d’altra parte quale sia l’umore verso Monti ai piani alti del partito, lo spiegava ieri mattina su Twitter Stefano Di Traglia, uno degli uomini più vicini a Bersani: «Se la novità politica di Monti è un’altra lista personale, significa non aver compreso le derive populistiche degli ultimi 20 anni».
Nel colloquio con Bersani, Monti ha confermato che è vero, lui ci sta pensando ed è possibile che fra pochi giorni entri in partita. Dunque, il Professore tira dritto e questa, a suo modo, è una notizia. Nel senso che Monti tiene il punto, a dispetto di una raffica di ammonimenti: i ripetuti stop di Napolitano, l’ostilità del Pd, i tantissimi «ma chi te lo fa fare?», bisbigliati al premier da amici e conoscenti. Mario Monti insiste, tanto è vero che sfrutta tutte le opportunità che gli sono offerte dai mass media. Anche quelle in spazi extrapolitici. Dopo la recente partecipazione ad una trasmissione nazionalpopolare come Unomattina, ieri Monti è intervenuto al «Gr ragazzi» su RadioUno, rivolgendosi idealmente a tutti gli studenti, con un concetto tipico della «ideologia montiana»: «Occorreranno sempre più persone preparate». Tanti segnali che confermano la ferrea determinazione di Monti di proporsi come candidato premier di una coalizione moderata. E in una politica così abituata ai tatticismi, questo volerci essere comunque, anche a costo di perdere, ieri suscitava una crescente curiosità nel Palazzo. Dice Benedetto Della Vedova, capogruppo del Fli, l’unico nel suo partito ad avere un canale diretto col premier: «Monti è un cattolico lombardo e quindi con una mentalità quasi da protestante: la sua ambizione è quella di segnare la vita pubblica italiana, di finire il lavoro già avviato». Fa notare un altro lombardo come Giorgio Stracquadanio, del drappello che ha già lasciato il Pdl: «Monti così deciso? Non è una novità: basta ricordare la vicenda Microsoft Bye. Allora fu così determinato che alla fine la spuntò».

La Stampa 18.12.12
Per i sondaggisti una lista del Professore pescherebbe a sinistra
Fino al 15% dei voti, poi dovrebbe allearsi
di Raffaello Masci


Per bene che gli vada, Mario Monti può aspirare ad essere un buon alleato, un forte gregario. Ma gli converrà cimentarsi nella pugna per un risultato di questo genere, quando è già senatore a vita e qualcuno gli ha fatto balenare fulgidi orizzonti? E comunque, se scendesse in campo, a temerlo dovrebbe essere soprattutto il centrosinistra, perché sarebbe quello il bacino principale da cui verrebbe il travaso.
«Una lista che si richiami a Monti, ma senza il Professore candidato dice Antonio Noto di Ipr Marketing -, non ha alcuna speranza di andare oltre il 4%. Con Monti leader, il caso sarebbe diverso e secondo le nostre rilevazioni può ambire ad un 11 per cento». Sarebbe comunque un terremoto, scombussolerebbe gli equilibri bipolari, potrebbe ambire ad un accorpamento con l’Udc, che l’Istituto dà oggi al 4,5%, ma mai potrebbe diventare una forza maggioritaria. «Ciò detto si tratterebbe di un forte rimescolamento all’interno dei due schieramenti maggiori - dice ancora Noto -, perché noi abbiamo calcolato che quell’11% sarebbe costituito da un grosso zoccolo del Pd, almeno il 7%, più un 3% di Pdl e un altro punto da recuperare da altre forze».
Ma che può fare Monti con una coalizione del 15%? Solo allearsi. Con tutti i rischi del caso. «Gli italiani hanno già individuato i loro leader di riferimento - argomenta Alessandra Paola Ghisleri di Euromedia Research e uno schieramento di Monti si troverebbe comunque tra l’incudine e il martello, con una capacità di incidere molto limitata. Vorrei inoltre sottolineare come la fiducia nella sua persona, pur ancora importante, sia scesa dai 60 punti percentuali dell’inizio del suo mandato, al 40. E’ alta, ma è in discesa».
Quanto ai voti che possa erodere, saranno soprattutto quelli del centrosinistra perché al di là del consenso che pure ha avuto a destra, nel Pdl è stato sempre percepito come l’alternativa al governo Berlusconi. «E comunque - conclude Ghisleri - potrà aspirare, al massimo, a fare da sostegno ad uno dei due schieramenti».
Nicola Piepoli fa un ragionamento che dice molto: «Si ricordi, il Professore, il verso del poeta latino Catullo “Odi et amo”. Anche lui è stato molto amato, per il suo rigore, per il suo stile di vita, perché ha indicato al fine del tunnel, perché ha restituito il Paese ad un prestigio internazionale. Ma è stato anche molto odiato, perché la fine di quel tunnel non si vede, le tasse sono aumentate e c’è stata anche l’Imu».
Questo fattore - dice Piepoli - è trasversale, e se è vero che la sua fiducia oggi è stimata da noi al 51%, gli giova e se è super partes, se - invece - scende in campo, una parte, anche consistente, la perde». Su questo mare fluttuante, dunque, Monti è un fattore che rischia di innescare un meccanismo capace di travolgere anche se stesso. Quanto al consenso che si porta in eredità non è automatico che si possa tradurre in voti.
«Neppure i sondaggi sono in grado, in questa fase, di fissare la mutevolezza del momento - spiega Renato Mannheimer -, tant’è che noi abbiamo rilevato due scenari opposti: Il primo, a elezioni ancora lontane, ci dice che Monti prenderebbe al massimo il 5% con una lista senza di lui, e il 15% se si presentasse come candidato premier».
Se il premier, invece, si mettesse a fare campagna elettorale? «Avremmo il secondo, imprevedibile scenario continua Mannheimer -: tutto potrebbe cambiare e Monti potrebbe saccheggiare consensi anche tra gli scontenti di entrambi gli schieramenti». E ottenere una maggioranza? «Questo mai - sentenzia il sociologo -, si potrebbe alleare, io credo, col Pd, ma a quel punto Monti diventerebbe per il Pd un vero problema, date le alleanze già sancite».

Corriere 18.12.12
Imu per la Chiesa, Bruxelles prepara il sì
Non sono aiuti di Stato, ma niente arretrati. Grilli: più gettito? Fa bene ai conti
di Lorenzo Salvia


ROMA — Forse perché la scadenza era nota da tempo e gli italiani hanno preferito mettersi in regola la settimana scorsa, magari online. Forse perché qualcuno aspetta di incassare prima stipendio e tredicesima per non finire in «rosso» questo 2012. Forse perché qualcuno a pagare non ce la fa proprio, punto e basta. Fatto sta che ieri, ultimo giorno per versare la rata Imu di dicembre, nelle banche e negli uffici postali non ci sono state le code interminabili che qualcuno temeva. Chi ha rimandato la pratica all'ultimo momento ha dovuto aspettare più del solito ma non ci sono state quelle scene di isteria collettiva che pure abbiamo visto in passato. In realtà per l'Imu, l'imposta sulla casa, la giornata clou è stata quella di sabato quando negli uffici postali si pagavano anche le pensioni dei dipendenti pubblici. Una sovrapposizione, non calcolata al momento di fissare le scadenze, che non ha certo semplificato il lavoro nei 14 mila sportelli italiani. Ma alla fine il sistema ha retto.
Adesso i ritardatari possono imboccare la strada del ravvedimento operoso: chi si mette in regola nei primi 14 giorni pagherà una sanzione ridotta: lo 0,2% della somma dovuta per ogni giorno di ritardo. Dal 15° al 30° giorno di ritardo, invece, la multa sarà pari al 3% dell'importo, con l'aggiunta degli interessi legali: il 2,5% l'anno. Il saldo di dicembre dovrebbe portare allo Stato 15 miliardi di euro ma è ancora presto per sapere a quanto ammonta l'incasso effettivo. Un primo dato parziale arriva dai terreni agricoli: secondo un'analisi di Coldiretti per questa voce risultano già versati 534 milioni di euro, 127 in più rispetto a quelli previsti. È possibile che la stessa tendenza riguardi il gettito totale? «Potrebbe essere salutare per i nostri conti — dice il ministro dell'Economia Vittorio Grilli — ma i dati li avremo solo l'anno prossimo».
Già domani la Commissione europea potrebbe chiudere la procedura d'infrazione contro l'Italia sull'esenzione della vecchia Ici garantita alla Chiesa. Secondo indiscrezioni la Commissione dovrebbe sostenere che le nuove regole approvate dal governo Monti non violano le norme comunitarie sugli aiuti di Stato, come invece sarebbe avvenuto a partire dal 2006. Con la stessa decisione, però, Bruxelles dovrebbe chiudere la strada al recupero delle somme dovute per il passato, con la motivazione che l'operazione non sarebbe realisticamente praticabile. Ancora ieri, però, Radio Vaticana ha dato voce alle scuole cattoliche e al non profit, sostenendo che l'Imu costringerebbe a chiudere molte attività del settore.
Scaduto il termine per pagare, l'Imu continua ad essere terreno di battaglia per la campagna elettorale. Renato Brunetta (Pdl) accusa Pier Ferdinando Casini di sostenere «banalità disinformate» quando dice che Berlusconi ha tolto l'Ici e ha fatto un buco nei conti. Lorenzo Cesa, Udc, rilancia contro Berlusconi che «ha promesso di togliere l'Imu senza dire come fare, dove trovare la copertura». A Roma il candidato a sindaco per una lista civica, Stefano Tersigni, ha chiesto che i romani vengano esentati dall'Imu come «risarcimento per i disagi che devono subire con le manifestazioni e i cortei». Ecco, prima delle elezioni di Imu sentiremo parlare ancora parecchio.

Corriere 18.12.12
Gli irriducibili delle auto blu In 23 in servizio per 5 vetture
Consiglio del Lazio, i conducenti che non vogliono cambiare
di Sergio Rizzo


ROMA — Fra gli inarrivabili record collezionati dai politici del Lazio non poteva mancare il più simbolico: quello delle auto blu. I 70 consiglieri regionali ne avevano a disposizione 26, che sommate alle 4 dell'amministrazione portavano il totale a 30 (trenta!). Numeri che fanno ben capire perché quel Consiglio ora dimissionario avesse una quantità così spropositata di commissioni (una ventina): anche ai presidenti di commissione, infatti, spettava di diritto la macchina di servizio. Poi è scoppiato lo scandalo dei fondi dei gruppi consiliari e la spending review ha fatto il resto. E di auto blu non ne sono rimaste che 5. Con un bel risparmio, penserete: se si considera che ogni macchina costa fra noleggio, assicurazione e benzina la bellezza di 2.000 euro al mese. Senza tener conto, ovviamente, degli autisti. E qui si apre un altro capitolo. Quanti erano gli autisti? Difficile dire. Certo, però, dovevano essere un esercito. Oltre ai dipendenti diretti del Consiglio, c'era la pattuglia dei comandati più quella dei distaccati da Lazio service, società della Regione rimpinzata di personale. Ma il problema adesso non è quanti erano: è quanti sono. Rispediti al mittente gli esterni, ne sono rimasti infatti ancora 23. Ventitré per 5 macchine, di cui 4 spesso chiuse in garage. Per capirci: la Camera dei deputati, che di onorevoli non ne ha 70, bensì 630, ha 24 autisti. Rapportati al numero dei seggi, sono 9 volte di meno.
Apprese queste cifre, c'è da restare ancora più sbalorditi di fronte al conto lunare dei rimborsi chilometrici presentato lo scorso anno dai consiglieri del Lazio: 370 mila euro, come ha rivelato sul Corriere all'inizio dello scorso ottobre Ernesto Menicucci. In media, 5.285 euro pro capite, con una punta di 21.756 euro per Romolo Del Balzo, nonostante l'ex presidente della commissione per le Olimpiadi di Roma 2020 riunitasi tre volte in un anno e mezzo andasse frequentemente su e giù da Roma a Minturno (162 chilometri dalla capitale) con l'auto blu. Al secondo posto l'immancabile Franco Fiorito. Per un soffio. «Er Batman» di Anagni ha incassato nel 2011 ben 20.930 euro di rimborsi chilometrici per l'uso della macchina propria (non sarà mica il monumentale Suv Bmw X5 comprato con i soldi dei contribuenti?), sebbene da presidente della commissione Bilancio avesse il diritto a venire scorrazzato con una delle 30 berline d'ordinanza.
Ventitré autisti per 5 macchine. Troppi, anche un bambino ci arriverebbe. Che fare allora di tutto questo personale in eccesso? Semplicissimo: gli autisti vanno riconvertiti, come stabilisce la legge. Il decreto 95 di quest'anno, meglio noto con il nome di spending review, in proposito è chiarissimo. Il comma 5 dell'articolo 3 non soltanto prevede che «in conseguenza della riduzione del parco auto il personale già adibito a mansioni di autista o di supporto alla gestione del parco auto, ove appartenente ad altre amministrazioni, è restituito con decorrenza immediata alle amministrazioni di appartenenza», ma prescrive pure che «il restante personale è conseguentemente assegnato a mansioni differenti, con assegnazione di un profilo professionale coerente con le nuove mansioni, ferma restando l'area professionale di appartenenza e il trattamento economico fondamentale in godimento».
C'è soltanto un piccolo particolare: di cambiare mestiere, i ventitré autisti del Consiglio regionale del Lazio non ne vogliono sentir parlare. Ed è fin troppo facile immaginare il perché. Intanto lo stipendio, nel quale figurano oltre al «trattamento economico fondamentale» alcune voci accessorie che spingono la busta paga anche oltre 2.000 euro al mese. Più di quanto guadagna un funzionario. Poi ci sono i ritmi del servizio. Ogni autista è impegnato in turni di dodici ore giornaliere: il che significa lavorare tre giorni alla settimana. Con tutta la libertà che questo dettaglio si porta dietro. Ci sono stati casi di autisti del Consiglio regionale che facevano i consiglieri comunali o addirittura gli assessori di qualche paese del Lazio. Infine, volete mettere il privilegio di stare gomito a gomito con i potenti di turno? L'autista diventa uomo di fiducia, amico, confidente. Il politico finisce inevitabilmente per consegnargli i propri segreti. Anche i più piccanti e personali. Mentre lui, al volante, diventa pian piano intoccabile al pari del suo prezioso carico. Spesso anche alla faccia del codice della strada, come testimoniano i 50 mila euro di multe arretrate, molte per eccesso di velocità ma tante anche per infrazioni quali l'uso del telefonino durante la guida, che si sono accumulate nei cassetti dell'amministrazione. E di cui il nuovo segretario generale Costantino Vespasiano ha bloccato i pagamenti in attesa che si chiariscano contorni e responsabilità di un tale diluvio di verbali.
Premesso tutto questo, continua a restare incomprensibile l'atteggiamento di quella parte del sindacato che ha sposato la linea della resistenza al cambiamento di mansioni, appoggiando la rivendicazione degli autisti che vogliono restare tali. Ben sapendo il paradosso che può determinare una vittoria in questo assurdo braccio di ferro che comincia proprio oggi con l'amministrazione: restituirgli le macchine blu. Incomprensibile, naturalmente, per chi ignora che lo stesso sindacato vorrebbe far ingoiare a un Vespasiano che si mostra quanto mai riluttante il medesimo scandaloso accordo sulla produttività appena siglato per i dipendenti della giunta con l'ormai dimissionaria governatrice Renata Polverini. Una intesa che ai fini della concessione del premio non contempla la valutazione di «insufficienza», garantendo a tutti almeno il 75 per cento dell'incentivo massimo. Altro che la difesa a oltranza di ventitré autisti…

l’Unità 18.12.12
Pannella lascia la clinica
Medici allarmati, messaggi di solidarietà
di Virginia Lori


ROMA Contro il parere dei medici, malgrado condizioni di salute sempre più critiche per una grave insufficienza renale, Marco Pannella ha lasciato la clinica. «Tale decisione, che aumenta considerevolmente i rischi e riduce ulteriormente i margini per un intervento medico utile scrivono i sanitari espone anche il collegio medico a problematiche giuridiche e deontologiche rilevanti». Ma il digiuno continua: «Ho mangiato qualche caramella ma non ho bevuto».
Bersani lo ha invitato a riprendere ad alimentarsi promettendo un impegno sui temi di interventi strutturali e depenalizzazione dei reati minori, ricevendo in risposta un «grazie Ponzietto Pilato». Appelli anche da Fini, che per essersi detto contrario all’amnistia si prende un «mi fa pena chi ancora la segue». E da Schifani, Alemanno, Chiti, La Loggia, Vendola, Cicchitto, Vasco Rossi.
Anche il ministro della Giustizia, Paola Severino, aveva cercato di far sospendere lo sciopero della fame e della sete del leader radicale. Arrivata in clinica, dato che Pannella non era in grado di riceverla, ha lasciato una lettera di sostegno. A una settimana dall’inizio della protesta, contro le condizioni disumane dei detenuti, per l’amnistia e il ripristino della giustizia, le sua condizioni di salute sono difficili: 73 chili di peso, disidratazione, pericolo di vita.
E Pannella aveva lanciato un appello anche al presidente della repubblica, chiedendo a lui come ad altre personalità di farsi carico della sua battaglia. Napolitano, ieri durante il suo discorso alle alte cariche dello Stato al Quirinale, ha parlato proprio della situazione carceraria: «Sta per scadere il tempo utile per approvare il provvedimento» sulle carceri. «Ma con quale senso di umanità e civiltà ci si può sottrarre a un minimo sforzo per alleggerire la vergognosa realtà carceraria che marchia l'Italia?» ha concluso.
Intanto su Twitter si moltiplicano i messaggi di sostegno #iostoconmarco. Tra i tweet anche quello di Roberto Saviano, cui Pannella ha risposto: «A Robe' grazie ma io sto per il trittico indissolubile Amnistia, Diritto, Legalità per tutti e non per i carcerati. Abbiamo pochissime ore».
Mentre non lancia appelli Emma Bonino: «So che non servono a nulla. E non è di questo che lui vuole che noi parliamo. La sete di Marco è sete di giustizia e sete di legalità. Oggi la questione è capire se esistono personalità disposte a candidarsi per difendere legalità, giustizia lo stato di diritto e l’amnistia. E’ un appello drammatico che lanciano perché è questione di ore».
Solidarietà anche da Giancarlo Galan, mentre il sindaco di Napoli Luigi De Magistris invia con un tweet «un abbraccio forte a Marco Pannella». Tra i parlamentari Sandro Gozi twitta: «Siamo con te con le tue battaglie e con la tua generosità per cercare di salvare questo paese di brava gente«. Roberto Rao: »Abbiamo il dovere morale e politico di tirare fuori le carceri dall'illegalità in cui versano».

La Stampa 18.12.12
Le carceri scoppiano ma di piccoli delinquenti
Nei penitenziari il 41% dei detenuti in più della capienza, la maggioranza sconta pene fino ai 5 anni. Riusciranno governo e Parlamento a svuotare le celle?
di Francesco Grignetti


Tutti dentro Nelle carceri italiane sono detenute 66.363 persone. Molte sono stipate negli spazi riservati ad altro. La convivenza in spazi angusti aumenta la depressione e l’angoscia

Il foglietto è scivolato mestamente ieri sul tavolo del ministro della Giustizia, Paola Severino. Sono i numeri dell’emergenza carceraria. Aggiornati a domenica 16 dicembre. E dunque: presenti nelle carceri, 66.363 detenuti; di questi, 26.295 sono imputati in attesa di giudizio e 38.698 i condannati in via definitiva che scontano la pena. Il resto sono internati negli ospedali giudiziari. Numeri che vanno comparati con quella che è (sarebbe) la capienza regolamentare: 47.048 letti. Significa che ci sono quasi ventimila detenuti stipati in celle piccole o piccolissime, in letti a castello che spesso raggiungono il soffitto, impossibilitati a fare una decente ricreazione, esercitare qualche sport, o anche lavorare perché troppi e per di più molti spazi comuni sono occupati dai letti per «ospitare» gli arrivati dell’ultima ora.
È contro questa realtà allucinante che Marco Pannella sta portando avanti l’ennesimo sciopero della sete. Ma con questa stessa fotografia davanti agli occhi il ministro Severino sta tentando una rincorsa in extremis perché il Parlamento approvi in via definitiva un ddl, detto Pene alternative, in cui lei riponeva molte speranze per deflazionare le celle. Ha scritto nei giorni scorsi un’accorata lettera a Renato Schifani, in quanto il ddl è già stato approvato alla Camera e manca il suggello del Senato.
Con lei, a supportare il suo sforzo, è intervenuto una volta di più, ieri, il Capo dello Stato. Nel suo discorso, Giorgio Napolitano ha stigmatizzato che «importanti istanze di cambiamento e di riforma» rischiano di restare sulla carta. Ha esplicitato il suo rammarico che ci siano «opposizioni e ripensamenti tali da mettere in forse la legge già approvata alla Camera per l’introduzione di pene alternative alla detenzione in carcere». E non ha fatto mancare il suo monito, rivolto innanzitutto a quelle forze politiche come Lega Nord, Idv e parti del Pdl, che frenano: «Sta per scadere il tempo utile per approvarla al Senato. Ma con quale senso di responsabilità, di umanità e di civiltà costituzionale ci si può sottrarre a un serio, minimo sforzo per alleggerire la vergognosa realtà carceraria che marchia l’Italia? ».
Che le carceri siano una vergogna, nessuno lo nega. Il sovraffollamento produce effetti mostruosi. I suicidi, ad esempio. Crescono a dismisura: negli ultimi 5 anni, sono 306 i detenuti che si sono tolti la vita. E ogni anno gli agenti di Polizia Penitenziaria (ed anche i compagni di cella) salvano oltre 1000 detenuti da morte certa, quasi sempre per impiccagione.
Depressione, angoscia, senso di abbandono, claustrofobia. I motivi che spingono una persona a farla finita sono tanti. Ovvio che una quotidianità da reclusi, aggravata da un eccesso di coabitazione, influisce negativamente. Angoscianti i numeri anche dei suicidi tra gli agenti della polizia penitenziaria: sono già 10 quelli che si sono uccisi dall’inizio dell’anno.
«La frequenza dei suicidi in carcere è venti volte superiore rispetto alla norma. Tra gli agenti penitenziari è il triplo rispetto alle medie dei cittadini normali e risulta anche la più elevata tra tutte le forze di polizia»: sono i dati di un Osservatorio permanente sulle morti in carcere, a cui aderiscono i Radicali Italiani, le associazioni «Il Detenuto Ignoto», «Antigone», «Buon Diritto», le redazioni di «Radiocarcere» e di «Ristretti Orizzonti».
Il tentativo della Severino è disperato, però, perché i tempi sono strettissimi. Oggi la commissione Giustizia del Senato comincerà l’esame del ddl e il suo presidente, Filippo Berselli, pur con tutta la comprensione, ritiene «difficilissimo» che si possa portare un testo in Aula prima della pausa natalizia.
Dopo, poi, sarà del tutto inutile perché lo scioglimento del Parlamento è ormai dietro l’angolo.
Eppure la Severino ci prova. Ieri, sentite le parole del Capo dello Stato, è subito ripartita alla carica: «Non posso che sottolineare l’importanza di questo messaggio». Se approvata, la legge sarebbe una mezza rivoluzione, perché afferma il principio che il carcere è solo l’extrema ratio della pena e prima vengono la detenzione domiciliare e l’affidamento in prova.
Ma i Radicali non ci credono e chiedono l’amnistia tout court. Dice polemicamente Rita Bernardini: «Credo che al ministero della Giustizia servirebbe qualcuno che sappia far di conto. Il provvedimento sulle pene alternative riguarda lo 0,3% dei detenuti, 254 persone. Ma di che stiamo parlando? Se ci vogliamo prendere in giro... ».

La Stampa 18.12.12
Con i fucili la madre del killer si preparava alla fine del mondo
di Paolo Mastrolilli


Nancy accumulava cibo e munizioni in vista del «collasso della società Usa» Dobbiamo cambiare Non possiamo più accettare simili tragedie come se fossero un’abitudine Barack Obama Presidente degli Stati Uniti
Nancy Lanza, la madre del killer di Sandy Hook, era una «prepper», una paranoica che si preparava al collasso della società accumulando armi e cibo nella sua splendida casa. Adam, il figlio, era un ragazzino estremamente timido, cui nel 2007 i responsabili della Newtown High School avevano assegnato uno psicologo permanente perché sembrava così debole da essere esposto a qualunque tipo di abuso. Una probabile vittima, più che un aggressore.
Questi dettagli stanno riaprendo un dibattito fondamentale sulle cause delle stragi, riguardo le malattie mentali negli Usa. È un argomento delicato, dove è facile scivolare nei pregiudizi, ma va portato avanti insieme a quello sulle armi, la disgregazione sociale e famigliare, e la cultura violenta che domina l’America.
Adam era un mezzo genio, a 16 anni già frequentava i corsi universitari della Western Connecticut State University: massimo dei voti in Computer science e Storia, buoni in Macroeconomia, deboli in Tedesco, Etica e Filosofia. Nancy lo aveva tolto dal sistema scolastico pubblico per divergenze sul programma, e lo aveva fatto istruire a casa. Nei pochi mesi passati alla Newtown High School i colleghi lo chiamavano «ghost», fantasma. Camminava lungo i muri, stringendo il suo computer. A casa aveva due stanze: una per dormire, l’altra per coltivare le passioni digitali. Dicono che avesse la sindrome di Asperger, una condizione vicina all’autismo. Nancy sapeva che aveva bisogno di aiuto, ma per legare lo portava al poligono.
Gli esperti rimarcano che l’autismo non è legato alla violenza, e secondo uno studio pubblicato dal British Journal of Psychiatry tra il 1957 e il 1995 il numero di omicidi commessi da malati mentali è sceso del 3%. Dunque è sbagliato cedere al pregiudizio secondo cui i problemi psichici spingono all’aggressione.
Secondo Mental Health America, negli Usa 54 milioni di persone hanno problemi psichici: la maggioranza è innocua, ma spesso i soggetti pericolosi non ricevono l’aiuto necessario, perché la malattia mentale è ancora un tabù e le risorse pubbliche per curarla sono state ridotte. Basti pensare che nelle carceri americane ci sono 350 mila detenuti con problemi psichici, perché spesso la prigione ha finito per sostituire i manicomi chiusi. Invece bisognerebbe individuare e curare i soggetti a rischio prima, e magari evitare che una donna instabile come Nancy, con la sfortuna di un figlio instabile, possa comprare legalmente cinque armi fra cui un mitra da guerra.

l’Unità 18.12.12
La primavera araba non è per le donne
Intervista a Souhayr Belhassen
La presidente della Federazione internazionale per i diritti umani denuncia la politica di Ennhada sulle conquiste femminili
«Abbiamo combattuto Ben Ali. Non ci fermeremo ora»
di Anna Tito


«DA MILITANTE FEMMINISTA E PER I DIRITTI DI TUTTI LANCIO UN APPELLO PER COMBATTERE SENZA TREGUA CONTRO IL RITORNO INDIETRO»: Souhayr Belhassen è dal 2007 Presidente della Federazione Internazionale per i Diritti umani, (Fidh) con sede a Parigi. Nel 1993, rea di avere denunciato il «silenzio colpevole» del governo tunisino sulla repressione delle donne algerine, fu espulsa per cinque anni dal suo Paese. Su twitter ora la accusano di screditare l’immagine del Paese all’estero. «Sì, propongono di processarmi per alto tradimento, esattamente come sarebbe avvenuto sotto il regime di Ben Alì», spiega a l’Unità di ritorno dal Bahrein dove ha preso parte all’ennesima missione umanitaria.
Sulla recente vicenda della donna violentata dalle forze dell’ordine e imputata invece a sua volta di «attentato alla morale», tiene a sgombrare il campo dagli equivoci: «Escluderei quanto è accaduto una conseguenza diretta dell’ascesa al potere di Ennhada. Nondimeno questo episodio mi appare a dir poco scandaloso: non soltanto la violenza è stata commessa nei confronti di una donna, ma per giunta da parte di poliziotti, rappresentanti dell’autorità pubblica e la si è poi anche”criminalizzata”».
Con le istituzioni inevitabilmente scosse in seguito alla rivoluzione, polizia compresa, è tutto quindi rimasto come prima?
«Non direi. Assistiamo a una vera e propria esplosione della libertà di espressione, da cui sono conseguite elezioni democratiche, che hanno nel nostro caso portato al potere il Partito di Ennhada, che ci piaccia o meno. Ora le istituzioni sono in via di cambiamento, ed Ennhada sta tentando di fare piazza pulita delle acquisizioni “moderniste” del Paese: basti pensare al tentativo di introdurre nella Costituzione il reato di attentato al sacro e la complementarietà della donna in rapporto all’uomo. La nuova Tunisia deve inoltre affrontare la questione della sicurezza del Paese e delle persone, ed Ennadha non è stato in grado di far fronte all’attacco, avvenuto in settembre, all’ambasciata degli Stati Uniti a Tunisi: siamo tutti al corrente del contributo dato dagli Usa per l’ascesa al potere degli islamici, e l’attacco ci ha quindi sorpresi». La rivoluzione non ha dunque apportato alcun cambiamento nella condizione delle donne e dei diritti umani in generale?
«Per quanto concerne in particolare le donne, il partito di Ennhada è arrivato al potere sponsorizzando i principi islamici, con un progetto “regressivo” nei confronti delle donne. Per il resto, la rivoluzione ha apportato molto: l’approvazione della legge contro la tortura, il multipartitismo, l’indipendenza e la libertà della stampa e delle televisioni, tutti elementi irreversibili. I tunisini non hanno più paura, scioperano e manifestano, e in difesa della ragazza violentata sono scese in piazza duemila e più persone».
Contro l’articolo 28 della nuova Costituzione, sulla «complementarietà della donna rispetto all’uomo», la Federazione che lei presiede ha lanciato una battaglia per l’eguaglianza. il governo è stato costretto a fare un passo indietro.
«Abbiamo combattuto il regime di Ben Alì e non ci arrendiamo adesso: viviamo in una società diversificata, con le sue inevitabili forze regressive, in quanto non tutti hanno studiato o viaggiato in Occidente, né tantomeno conoscono davvero i diritti umani. Prendiamo atto che buona parte dei cittadini ha voluto Ennhada, che intanto sull’articolo 28 ha poi fatto un passo indietro. Però appare chiara l’intenzione di frenare l’emancipazione delle donne, in tutti i campi. Il leader El Ghannouchi all’Occidente ribadisce determinati principi, e quando si rivolge ai compatrioti afferma tutto il contrario. E a mio avviso la ragazza violentata viene accusata dalle autorità per far sì che tutte le donne se ne stiano a casa».
Condivide la sensazione che il governo sia fortemente condizionato dai salafiti, rappresentanti dell’ala più radicale dell’Islam?
«Certamente: i salatiti perpetrano violenze ovunque nel Paese, ed Ennhada non ha né la volontà, né la capacità, di proteggere i tunisini. I salafiti arrestati, anche i criminali veri e propri, vengono subito liberati. Adesso anche l’essere laici è diventato pericoloso. Il governo attuale ha vinto democraticamente le elezioni, ma non fa prova di oggettività e di neutralità, concedendo ai salatiti uno spazio sempre maggiore nella gestione dello Stato».

La Stampa 18.12.12
Tra Giappone e Cina riparte la guerra delle isole
Dopo il ritorno del falco Abe, Tokyo alza i toni sulle Senkaku
di Ilaria Maria Sala


Le elezioni giapponesi, conclusesi con una chiara vittoria del Partito Liberaldemocratico (Pld), il partito di centrodestra che ha governato per la maggior parte del dopoguerra, non hanno fatto nulla per diminuire le tensioni fra Pechino e Tokyo. Anzi: Abe Shinzo, che formerà il nuovo governo il 26 dicembre prossimo, ha fatto campagna proprio sottolineando che le isole Senkaku (che la Cina reclama chiamandole Diaoyu o Diaoyutai) appartengono al territorio giapponese in modo «non negoziabile», e promuovendo l’idea di un Giappone capace di tener testa a Pechino anche con il riarmo. Dopo mesi di aspre tensioni sulle isole contese, inevitabilmente le relazioni fra le prime due economie asiatiche sono state uno degli elementi centrali della campagna elettorale, e per quanto il fuoriuscente Partito Democratico proponesse una linea più morbida, l’elettorato giapponese sembra cominciare a propendere per una diplomazia più ferma nei confronti della Cina.
Pechino, per il momento, non ha si è sbilanciata troppo nel commentare la vittoria elettorale del Pld, «prendendone atto» e ribadendo che le isole «sono parte inalienabile del territorio cinese» e che «sta a Tokyo migliorare le relazioni fra i due Paesi», seguendo dunque la consueta linea diplomatica cinese. Hua Chunying, del Ministero degli Esteri, ha dichiarato che «la Cina spera che il Giappone voglia riflettere profondamente e affrontare nel modo adatto le attuali difficoltà». Mostrando dunque una certa attenzione a non infiammare ulteriormente il clima con uno dei suoi più importanti partner commerciali, che ha investito in modo massiccio in Cina per più di trent’anni.
Il web, invece, ha reagito in modo molto più aggressivo, e per il momento almeno i commenti anti-giapponesi degli utilizzatori internet cinesi non sono stati censurati né scoraggiati. Alcuni hanno criticato l’elezione di Abe, dichiarando che «porterà il Paese alla rovina» per la sua linea dura con la Cina, mentre molti hanno rilanciato la proposta di boicottare i beni di consumo giapponesi.
Le elezioni giapponesi, fra l’altro, si sono tenute solo tre giorni dopo l’anniversario dello «Stupro di Nanchino», ovvero il sanguinoso ingresso delle truppe giapponesi nella città di Nanchino il 13 dicembre 1937, nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Quest’anno, in vista della disputa territoriale e delle difficili relazioni diplomatiche, la propaganda nazionale ha voluto commemorare l’invasione giapponese e le atrocità commesse dalle truppe del Sol Levante con ancora più enfasi, come se non un giorno fosse trascorso, e come se la ripresa delle relazioni diplomatiche fra i due vicini asiatici, più di quarant’anni fa, non fosse altro che un gesto generoso da parte cinese. Anche su questo punto, grosse discrepanze fra Cina, Giappone, e la storiografia mondiale: Pechino insiste su 300,000 morti, il Giappone parla di qualche decina di migliaia, il consenso internazionale di circa 100,000.
Nelle ultime settimane, navi di entrambi i Paesi si sono affiancate nelle acque territoriali giapponesi, e la settimana scorsa si è passati invece allo spazio aereo, con incursioni di caccia cinesi bloccate da aerei di Tokyo.

Repubblica 18.12.12
“Le mie prigioni di Pussy Riot” Marja e l’assurdo lager di Putin
di Marja Aljokhina


Se ti addormenti mentre ti leggono il Regolamento la paghi. Se hai un bottone slacciato durante l’appello la paghi
Bisogna cucire 12 ore al giorno, non scrivere reclami, fare la spia, non fiatare mai, sopportare sempre
La vicenda delle Pussy Riot ha suscitato critiche a Putin in tutto il mondo

COLONIA PENALE N.28 BERËZ-NIKI REGIONE DI PERM’— Se ti addormenti mentre leggono il regolamento la paghi. Se hai la targhetta del nome mal cucita la paghi. Se durante l’appello hai un bottone slacciato la paghi. Non c’è un inizio, in questa storia. Anzi, non c’è nemmeno una storia. C’è qualcosa di assurdo che prende forma per tramite delle parole. Tra l’altro, dubito che qualcuno vorrà confermarle, le mie parole. In tanti le confuteranno, piuttosto. «Tutto regolare », vi diranno. Magari senza troppa convinzione, all’inizio; ma in un crescendo continuo di entusiasmo. Fino a sostenere, anzi, che va «tutto bene». Perché «alla colonia penale 28 va tutto bene», e ve lo diranno detenuti, personale e difensori dei diritti umani.
La 28 è la Colonia Penale (IK) femminile della regione di Perm’. Intorno solo fabbriche e tajga. Il fatto che — da ex militante ecologista — io sia finita in un carcere dove si respirano veleni ha dell’ironico. C’è solo grigio, intorno. Il colore di partenza può anche essere un altro, ma un tono di grigio c’è sempre. E ovunque: case, cibo, cielo, parole. È l’antidoto alla vita di un piccolo spazio chiuso.
Qui si arriva solo in tradotta. Nel mio caso, da Mosca, dopo tre carceri di transito (Kirov, Perm’ e Solikamsk) e tre viaggi tra vagoni senza finestre (gli «stolypin») e una lunga serie di camionette. Sull’ultima, quella che finalmente si avvicina al ferro alto della cancellata, siamo in diciannove. Diciannove «nuove»: nuove operaie tagliatrici, nuove cucitrici e ausiliarie.
Dall’ingresso alla stanza dove ci perquisiscono arriviamo a piedi, piegate sotto le nostre sacche. Io ne ho tre. Insieme fanno quasi il mio peso. Entriamo in un edificio cinto da un muretto: il carcere (e le celle) di isolamento punitivo. Lì ci spogliano e ci spediscono in quarantena con un camice a scacchi. Uguale per tutte. In quarantena comincia l’adattamento. O meglio, il callo inizia a formarsi. Si impara a saltare giù dal letto alle cinque e mezza del mattino e a correre in bagno (ma solo io mi ostino a chiamarla «bagno», quella stanza): tre lavandini e due water per quaranta detenute; e svelte, che alle sei, a gruppi di dieci, c’è da correre in cucina per la colazione. Prima, però (sempre che si ambisca a bere una tazza di tè), c’è da trovare il tempo per passare al deposito, là dove si conserva ogni cosa, cibo compreso. Anzi no: siccome non si può lasciare il pigiama sotto il cuscino, la tappa al deposito è obbligatoria. Dopo due settimane di acqua gelata non sento più le mani; potrei usare l’acqua calda, certo, ma c’è la fila e c’è da correre anche lì. E ho già da correre per altri sei mesi. Però ci sto facendo il callo. Ce lo stiamo facendo tutte quante, anzi, in questo nostro «albergo regolamentato». Con regole — il Regolamento interno — che vanno studiate a memoria. Non scherzo. Non crediate che basti una volta. Ce le ripetono (leggendocele) ogni giorno, e ogni giorno noi le ascoltiamo. La stanza dove questo accade si chiama «Regolamento interno» anche lei, e sullo stipite della porta c’è proprio una targhetta che lo dice: Stanza Regolamento Interno. E nella Stanza del Regolamento si va ogni giorno a sentire il Regolamento. Assurdo? Neanche un po’. Per non addormentarmi (c’è una telecamera che ti controlla, in un angolo), vado a spalare la neve in cortile. Ogni baracca ne ha uno (non è un cortile, in realtà, ma un quadrato di terra cinto da filo spinato).
C’è da inventarsene più d’una, per non addormentarsi: lego le sigarette con un filo (niente pacchetti: alla prima perquisizione svuotano il contenuto in un grosso sacco e buttano via il pacchetto), tolgo e rimetto i fiammiferi dentro la scatola, cucio e ricucio la targhetta col nome sulla divisa, censisco pulci e pidocchi. Tutto per non addormentarmi. Perché se ti addormenti mentre leggono il regolamento la paghi. Se hai la targhetta del nome mal cucita la paghi. Se durante l’appello hai un bottone slacciato la paghi.
C’è un sistema, qua dentro, di «elevatori sociali». È una serie di criteri che se osservati o ignorati permettono alla commissione che concede la libertà sulla parola di capire se il detenuto si è redento o meno. E ci leggono ogni giorno pure quello. Non infrangere il regolamento, lavora, presenzia a ogni sorta di iniziative, vai regolarmente in biblioteca, dallo psicologo e a pregare (eppure il nostro è uno Stato laico, non ce lo ripetono in continuazione?). Ostenta le tue relazioni sociali e mantieni i contatti con i familiari.
Il detenuto compie ogni singola azione per un segno di spunta nella lista della «parola». E non per una crescita individuale. Nella mia ultima seduta, la psicologa ha paragonato questo processo alle tappe di una carriera professionale, chiamandosi in causa in prima persona: «Funziona così anche per noi militari», mi ha detto. È una verità amara: mezza Russia vive come chi ha una condanna da scontare. Non serve gente di carattere. Serve gente dal callo facile. «Tanto non cambia mai niente», ci troviamo a commentare, all’unisono, io e un’altra detenuta. Perché noi non serviamo a nessuno — la mia deduzione esce da sola, in un sussurro. E in quell’istante preciso, a notte fonda, in un cambio di turno in fabbrica, per un attimo mi sento — orribilmente — tutt’uno con una persona che è rinchiusa da più di vent’anni; tutt’uno nell’inutilità, tutt’uno nell’essere un aborto di quanto c’è di oggettivo. Della «società», del potere. E figlia di quel mondo morto che, paradossalmente, si riproduce in chi abita la colonia penale. Non ci vuole molto, per uscire sulla parola. Basta cucire dodici ore al giorno per un migliaio di rubli al mese, basta non scrivere reclami, incastrare qualcuno, fare la spia, non fiatare mai e sopportare sempre.

l’Unità 18.12.12
Gramsci, spy story
Luciano Canfora continua la sua inchiesta relativa agli oscuri intrecci degli anni 20 e 30
Lo storico si muove come un detective verso nuove interrogazioni delle fonti senza paura di spostare le proprie stesse conclusioni
di Giulio Ferroni


A POCHI MESI DI DISTANZA DA «GRAMSCI IN CARCERE E IL FASCISMO», USCITO DA SALERNO NEL MESE DI APRILE, LUCIANO CANFORA CONTINUA L’INCHIESTA GRAMSCIANA NEL NUOVO «SPIE, URSS, ANTIFASCISMO. GRAMSCI 1926-1937» (SALERNO EDITRICE, PP.350, EURO 15,00), in un anno che in questo ambito ha visto apparire una serie di libri di rilievo (da I due carceri di Gramsci di Franco Lo Piparo a Vita e pensieri di Antonio Gramsci di Giuseppe Vacca alla nuova edizione di Il moderno principe di Carmine Donzelli): segno non solo della vitalità dell’opera di Gramsci, ma del rilievo che per noi assume un momento storico che, quanto più è lontano, tanto più chiede di essere chiarito nella sua contraddittoria complessità, ora che sono spariti tutti i testimoni diretti e che dovremmo essere lontani da quella «storia sacra» (così la chiama Canfora), che in passato ha portato spesso a occultare documenti, a dare versioni distorte, eterogenee, strumentali dei fatti. Quello degli anni 20 e 30 fu un orizzonte di terribile durezza, in una lotta senza esclusione di colpi e insieme in un oscuro intreccio di prospettive, in un convivere e sovrapporsi di posizioni opposte che solo a posteriori possiamo credere di distinguere con nettezza, fissare in territori completamente separati, ma che nella realtà di allora davano luogo a molteplici interferenze, in cui venivano anche ad inserirsi i servizi segreti, con le più varie forme di infiltrazione, spionaggio, doppio gioco.
Tutta la vicenda della prigionia di Gramsci, con l’eccezionale esito del suo pensiero e con lo stesso sviluppo dei Quaderni del carcere, si inscrive entro questo terribile orizzonte. Gli eventi che condussero al suo arresto e le scelte di quanti furono in rapporto con lui ci sono noti attraverso tutta una serie di tracce e testimonianze spesso in netto contrasto tra loro. Con il suo habitus di filologo e di storico dell’antichità Canfora muove da un libro all’altro verso nuove interrogazioni delle fonti senza paura di spostare le proprie stesse ipotesi e conclusioni, con una cura della «verità» che prescinde da ogni concessione a quella «storia sacra» che spesso ha ricostruito in modi semplicistici la vicenda dei rapporti tra il fondatore del PCdI, i dirigenti del partito clandestini e in esilio e l’intero universo politico contemporaneo (fascismo, antifascismo, Russia sovietica).
Qui si parte da due essenziali premesse di metodo, che riguardano da una parte il carattere imprevedibile e contraddittorio degli sviluppi storici, che tra l’altro ha condotto tanti protagonisti a mutare orizzonte e a riaggiustare il proprio profilo nel passaggio dal trionfo del fascismo alla sua caduta (sono quelle che Canfora chiama «le astuzie di Clio»); dall’altra il carattere inevitabilmente deformante della memoria con cui i singoli tornano sugli eventi vissuti, che impone una certa diffidenza nei confronti della storia orale, piena di «trappole» per lo storico, che deve analizzarla come un vero detective.
Sulla base di queste premesse Canfora approfondisce tre questioni essenziali. La prima è quella dell’arresto, avvenuto l’8 novembre 1926 a Roma, nell’abitazione di via Morgagni, dopo che Gramsci era precipitosamente tornato da un viaggio a Milano (da cui avrebbe dovuto recarsi ad una riunione segreta del Cc del PCdI in Liguria) e dopo il fallimento dei confusi propositi di metterlo in salvo con una fuga in Svizzera. Si confrontano le testimonianze più diverse rivelandone il plateale contrasto e chiamando in causa una serie di oscuri nessi tra giustificazioni, scarico di responsabilità, ambigue intenzioni, in alcuni casi addirittura micidiali connivenze (e per verificare i tempi reali del viaggio ha modo anche di servirsi degli orari ferroviari di quell’anno). Ne risulta che il mancato salvataggio di Gramsci sarebbe passato per la mani di Ignazio Silone e soprattutto di un certo «Ugo», identificato in Carlo Codevilla (con altri sospetti e punti oscuri che è difficile districare). Seconda questione è quella, già ampiamente trattata nel libro precedente, della «strana lettera» spedita a Gramsci da Ruggiero Grieco con data 10 febbraio 1928 e mostrata a lui dal giudice Macis come particolarmente compromettente per la sua posizione processuale, vero e proprio strumento di «fuoco amico»: lettera che Gramsci continuò a sentire come una provocazione, la ragione prima del prolungarsi della sua prigionia. Attraverso un’analisi di documenti e testimonianze che non possiamo qui ripercorrere, si affacciano nuove ipotesi prospettano anche scenari inquietanti, fino alla possibilità di un’interferenza dell’ambiente dell’Ovra, la polizia politica fascista. La terza questione riguarda la riflessione di Gramsci sul fascismo, che nei Quaderni si svolge dalla coscienza della sconfitta subita e da una motivazione delle ragioni della vittoria del fascismo, datasi del resto entro una serie di interferenze ideologiche, in una situazione in cui fascismo e comunismo si erano poste come «rivoluzioni concorrenti»: la lucidità politica del Gramsci prigioniero lo portò a prospettare linee di futuro sviluppo che tenessero conto delle ragioni della presa del fascismo (anche con una parziale considerazione positiva del corporativismo), per lo svolgimento di una politica «nazionale», che Togliatti seppe poi far propria nel dopoguerra.
Se è vero che i dati molteplici messi in campo da questo libro andranno discussi con una più diretta attenzione ai particolari, qui si può comunque rilevare che esso, nel mostrare il carattere eccezionale dell’esperienza di Gramsci, ci fa capire in modo esemplare come la tensione assoluta di scrittura e di pensiero dei Quaderni del carcere si sia svolta proprio a partire dall’oscuro groviglio di quegli «anni sgradevoli», si sia come districata dagli intrecci oscuri, dalle inquietanti e sotterranee manovre di coloro che operavano «fuori»: ed è chiaro che non si potrà capire fino in fondo l’eccezionale statura dei Quaderni se non si terrà conto di questo groviglio e delle tracce che esso ha lasciato sulla loro prima ricezione. Ma se quella prima ricezione (la pubblicazione dei Quaderni da parte di Togliatti nei primi anni del dopoguerra) ebbe luogo al prezzo di vari tagli e censure (qui documentate in una serie di utilissime tavole curate da Claudio Schiano, Elisabetta Grisanzio e Angela Lacignitola), Canfora ci invita comunque a riconoscere il merito dello stesso Togliatti per il suo aver saputo, con «salutare prudenza», mettere in salvo l’eredità «letteraria» di Gramsci «in quegli anni micidiali».

Corriere 18.12.12
Perché il divenire è un eterno errore
di Emanuele Severino


«Secondo un principio consolidato della metafisica classica, il divenire richiede una condizione che lo trascende» — scrive Biagio de Giovanni nel suo studio, importante e suggestivo, dedicato a Hegel e Spinoza. Dialogo sul moderno (Guida, pp. 267, 17). Tale principio domina effettivamente sia l'«antico», sia il «moderno»; non però, aggiungo, il pensiero del nostro tempo, per il quale il divenire non richiede altro che se stesso. Il mondo — il finito — non ha bisogno di Dio.
Che Dio sia la condizione del divenire significa che Dio salva il finito. La tesi di de Giovanni è appunto che l'intento di fondo di Spinoza e di Hegel è di salvare il finito. Ed egli, questo intento, lo fa proprio, ma dandogli un timbro nuovo, che insieme, a suo avviso, rende esplicito quanto nei due pensatori rimane invece velato. Semplificando il discorso molto complesso di de Giovanni si può dire che, per lui, il mondo è salvato solo da Dio, ma che il rapporto tra Dio e Mondo produce un radicale spaesamento del pensiero, che non riesce e non può riuscire a sciogliere i problemi prodotti dalla coabitazione di quei due termini. Le difficoltà e le contraddizioni a cui va incontro il rapporto finito-infinito in Hegel e Spinoza non sono quindi imputabili alla limitatezza del loro pensiero, ma sono insuperabili. De Giovanni non presuppone arbitrariamente l'esistenza dell'infinito, non ne progetta nemmeno la fondazione, né la richiede a Spinoza e a Hegel, dove, a suo avviso, Dio è il luogo dove i problemi e le contraddizioni maggiormente si addensano. L'esistenza del Dio è il contenuto di una «fede», è un «paradosso» che però avvolge ogni uomo, «la stessa vita umana».
Sennonché la fede in Dio, dicevo all'inizio, è spinta al tramonto da ciò che chiamo l'«essenza della filosofia del nostro tempo», dove il Tutto resta identificato alla totalità del visibile-finito-diveniente. De Giovanni vede l'unità sottostante all'«antico» e al «moderno» (e si tratta di millenni), ma non intende allargarla, e anzi prende le distanze dalla fede originaria, indicata nei miei scritti, che invece unisce l'intera storia dell'uomo e quindi sta al fondamento sia dell'accettazione sia del rifiuto di Dio. Mi riferisco all'onnipresente fede originaria nel diventar altro delle cose.
Per de Giovanni i miei scritti concepirebbero «il pensiero dell'Occidente come preso in un unico solenne errore, che è un estremo, iperlogico (e a suo modo, certo, geniale) invito a escludere il significato delle differenze», alle quali, peraltro, non si può rinunciare (p. 117). Credo che egli si riferisca qui alle «differenze» intese come differenti modi di errare. Ma nemmeno i miei scritti sono disposti a rinunciare a tali differenze. Solo che esse hanno questo di identico, di essere errori. E avere in comune l'esser errori non cancella i differenti modi dell'errare — come, per i colori, avere in comune l'esser colori non è una monocromia, non cancella il loro differire l'uno dall'altro. La vita umana è il luogo in cui si manifesta ciò che vi è di identico in ogni errore: il suo essersi separato dalla verità, presentandosi come quella fede nel diventar altro delle cose, che, anche nelle sue forme più «innocenti» nuoce, perché esso è lo squartamento dove le cose si strappano da sé stesse, ossia è la radice di ogni violenza. L'Errore è insieme l'Orrore — vado dicendo.
De Giovanni mi rivolge un elogio che mi piacerebbe meritare e di cui lo ringrazio («Sono convinto che la profondità speculativa di Severino sia assai alta e pressoché unica oggi in Europa»), ma aggiunge che «la pedagogia che nasce da questa profondità è muta, perché riduce la dialettica interna alla storia della metafisica alla monocroma ripetizione dell'errore». Chiedo a de Giovanni di indicarmi, per uscire dalla supposta monocromia, da un lato un solo punto, nella storia dell'uomo, dove non si creda nell'esistenza della trasformazione delle cose — almeno di quelle mondane, e dall'altro lato un solo errore che non presupponga questa fede. Poi, se vorrà, potremo discutere il punto decisivo, ossia i motivi per i quali affermo che tale fede, nonostante la sua apparente plausibilità ed «evidenza» è l'Errore più profondo a cui l'uomo è stato destinato (ma dal quale l'Inconscio più profondo dell'uomo è già da sempre libero).

Repubblica 18.12.12
Psiche
Manuale dei disturbi mentali nuova edizione, mille critiche
Il DSM-V, “bibbia” della diagnostica a cura degli psichiatri americani,
I casi del lutto e dello spettro autistico. Le repliche
Frutto della discussione aperta da centinaia di esperti nel mondo, è la novità del prossimo anno
di Francesco Cro


DSM-V Tre sezioni, contributi di 1500 esperti. Ora si integra con l’ICD-11, classificazione dell’Oms

È ufficiale: l’American Psychiatric Association ha approvato la versione finale della quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali: il DSM-5 (pubblicazione prevista per la primavera 2013), a 13 anni di distanza dall’ultima revisione del testo. La sua stesura definitiva è stata preceduta da un acceso dibattito e da un confronto, talvolta aspro, della task force di esperti incaricata della sua redazione con la comunità psichiatrica internazionale su diverse questioni. Non sono mancate le voci critiche, che hanno richiamato l’attenzione sul rischio di espandere troppo il campo di intervento della psichiatria, “patologizzando” e rendendo candidati a un trattamento farmacologico gli aspetti dell’esistenza umana che si discostano da una ideale “normalità” comportamentale, affettiva e cognitiva: per esempio il lutto, fino alla scorsa edizione del manuale considerato una condizione che non poteva essere diagnosticata come depressiva. Così Mario Maj, professore di psichiatria presso l’Università di Napoli Sun e presidente della World Psychiatric Association, che fa riferimento a uno studio di Kenneth Kendler, (Virginia Commonwealth university) il quale ha confrontato i sintomi depressivi di un gruppo di persone colpite da un lutto recente con quelli di un campione di pazienti affetti da depressione legata ad altri fattori stressanti. Nonostante il fatto che questa ricerca venga abitualmente citata per sostenere l’assenza di differenze significative tra la depressione da lutto e le altre forme depressive, Maj nota che nel primo gruppo sono meno frequenti i tratti nevrotici, i sensi di colpa e, soprattutto, la richiesta di un trattamento psichiatrico.
Un altro controverso cambiamento introdotto dal DSM-5 riguarderà il mondo dell’autismo: le quattro diagnosi (autismo propriamente detto, sindrome di Asperger, disturbo disintegrativo dell’infanzia e disturbo pervasivo dello sviluppo non specificato) verranno riunite nell’unica categoria di “disturbi dello spettro autistico”. I critici di tale impostazione ritengono che tale modifica impedirà il corretto riconoscimento di una sindrome autistica in tanti pazienti: uno studio su oltre 2700 bambini a rischio, coordinato da John Matson (Louisiana State University), ha evidenziato che quasi il 48% di quelli che soddisfacevano i criteri diagnostici attuali per una sindrome autistica non sarebbero rientrati nella nuova categorizzazione. Il presidente dell’American Psychiatric Association, Dilip Jeste (università della California), ha risposto alle critiche ribadendo che l’intento delle centinaia di esperti è stato quello di fornire alla comunità psichiatrica internazionale un linguaggio comune sui disturbi mentali basato sull’evidenza scientifica.
* Psichiatra, Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura, Viterbo

Repubblica 18.12.12
L’istituzione analitica volta pagina con la presidenza di Nino Ferro

“Basta con i dogmi: è ora di aprirsi all’esterno, di dialogare con gli altri”
Una nuova anima

“La psicoanalisi italiana non può fermarsi a Freud servono idee diverse altrimenti diventa un culto”
di Luciana Sica


«L’epoca d’oro della psicoanalisi italiana è ormai alle spalle? Ma che idea assolutamente demenziale. Quella lì era una psicoanalisi isolata, con una sua riconoscibilità esclusivamente interna, altrove non sapevano neppure che esistesse... Una ventina d’anni fa avrei voluto che il mio primo libro uscisse anche in inglese, ma fu rifiutato sempre con lo stesso argomento: bel lavoro il suo, peccato sia scritto da un italiano, non lo comprerebbe nessuno... Tanto che dissi: allora firmatelo Iron!».
Iron come Ferro. Come Nino Ferro, il nuovo presidente della Società psicoanalitica italiana, sessantacinque anni, palermitano trapiantato a Pavia, autore di libri tradotti in più di dieci lingue (un suo nuovo saggio su Le viscere della mente uscirà il prossimo anno da Cortina). È un analista conosciuto ovunque: l’americano Thomas Ogden – tra le teste più brillanti della psicoanalisi mondiale – avrà anche esagerato, ma è lui a considerare Nino Ferro «il migliore teorico e clinico psicoanalitico che attualmente scrive». Il neopresidente, più incline all’understatement, sembra però determinato a far voltare pagina alla psicoanalisi di casa nostra. Con due parole chiave – “pluralismo” e “internazionalizzazione” – e la consapevolezza che potrà giocare di sponda con Stefano Bolognini, alla guida dell’International Psychoanalytical Association, primo italiano al vertice dell’istituzione fondata da Freud nel 1910.
Lei vuole “sprovincializzare” la Società psicoanalitica italiana... Non sarà un’impresa facilissima, perché si direbbe un’organizzazione chiusa, che pretende di accreditarsi da sola, un po’ compiaciuta di sé. Come pensa di renderla più aperta, più dialogante?
«Alcuni segnali di cambiamento sono importanti da subito per uscire da un isolamento antistorico che a volte ci fa ancora ragionare in termini localistici. Come presidente di tutti, garantirò che ogni modello riconosciuto sia considerato legittimo e con pari dignità. Nessun pensiero sarà minoritario, ma nessuno – in nome dell’ortodossia freudiana – potrà più permettersi di scagliare anatemi del tipo “questa non è psicoanalisi”».
Da chi vengono le scomuniche e a chi sono dirette?
«Vengono da chi ama marcare a ogni riga e a ogni frase il senso dell’appartenenza, senza sentire il bisogno di una qualche originalità. In genere gli anatemi vengono scaraventati contro gli “altri”, quelli che si preferisce non studiare ma demonizzare».
Fa almeno un esempio del cambiamento che ha in mente?
«Mettiamo la nostra Rivista di psicoanalisi, diretta da Giuseppe Civitarese. Andrà aperta a maggiori contatti e scambi internazionali, compresa la psicoanalisi americana che potremo anche criticare, ma a patto di conoscerla bene, senza i soliti arroccamenti sul già noto».
Cosa dicono o fanno di così scabroso gli analisti americani?
«Si mettono in gioco nel rapporto analitico senza escludere neppure l’“auto-rivelamento”: possono anche raccontare qualcosa di sé, seppure in un legame stretto con quanto va dicendo il paziente. La loro è un’impostazione teorica e clinica fortemente “relazionale”».
Un peccato mortale per un analista classico?
«Un tabù che forse vale la pena d’infrangere. Del resto, se oggi Freud vedesse analizzare i pazienti come nei primi decenni del Novecento avrebbe una crisi di disperazione. Non era una scienza infertile che voleva, ma una scienza capace di svilupparsi, di trasformarsi, di volare...».
Non pensa che alcuni voli possano risultare azzardati?
«Penso che ognuno ha il diritto di approfondire il suo modello in modo libero e creativo, senza eclettismi, senza fare pastrocchi, ma anche senza ignorare tutto il resto. Soprattutto nel training – nella formazione degli allievi che costituisce per serietà e impegno il nostro marchio di fabbrica – non basterà più lo studio pur fondamentale dei classici, ma dovrà esserci una forte presenza della psicoanalisi contemporanea».
Sembrerebbe del tutto ovvio. Ma forse c’è un altro problema: non le risulta che gli analisti italiani difettano nella padronanza dell’inglese?
«E questo è davvero tragico, perché così non ci si può muovere nel mondo scientifico. Lo studio dell’inglese andrà inserito obbligatoriamente negli anni della formazione dei nostri analisti: lo considero un punto centrale del mio programma».
Il suo competitor nella corsa alla presidenza, Alberto Semi, ha accusato l’establishment della vostra istituzione di accentrare ogni decisione senza favorire la partecipazione e il talento creativo dei soci... Avrà qualche ragione?
«Non è certo la creatività che manca alla psicoanalisi italiana. Il problema è che finora non abbiamo avuto a disposizione dei canali agili per farla conoscere all’estero. Bisogna che ci siano. E comunque senza più dogmatismi: se una cosa non l’ha detta Freud, può andar bene lo stesso».
Ma c’è psicoanalisi senza Freud? O meglio: c’è una continuità o una rottura tra Freud e “le” psicoanalisi contemporanee?
«Mi verrebbe da dire: c’è microbiologia senza Pasteur? Certamente sì, grazie anche a Pasteur! Il punto è che bisogna avere il coraggio di proporre nuove idee anziché celebrare le vecchie. Non guarderei ai fasti del passato, ma al brillante futuro che la psicoanalisi saprà dare a se stessa con la ricerca e l’impegno nella cura delle nuove patologie. Fermarsi a Freud significherebbe trasformare una disciplina basata sull’esperienza in un credo religioso».
Secondo Semi, si rischia di perdere di vista nientemeno che l’inconscio... Lei ne difende o no la centralità?
«Ma assolutamente sì. Non a caso, l’anno scorso, ero tra i cinque analisti a organizzare l’appuntamento internazionale a Città del Messico, e ho insistito moltissimo per quel titolo sui tre pilastri della psicoanalisi: “Sessualità, Sogni e Inconscio”... Ma mi è sembrato che al congresso Semi non ci fosse».
Che ci fosse o meno, non importa. Piuttosto qual è la sua idea dell’inconscio? E quanto conterà ancora il passato del paziente?
«Seguendo il modello di Bion, penso che l’inconscio venga formato e trasformato nella relazione analitica, nell’incontro singolare tra due menti che costituiscono una nuova entità e danno vita a scenari nuovi e imprevedibili. Certo che il passato conta, ma forse il problema riguarda quelle storie che non ci è stato dato di vivere o – come direbbe Ogden – di sognare».
Lei ha un’aria conciliante, ma da voi i conflitti a tratti sono feroci...
Non è deludente tra gente che fa il vostro mestiere?
«Gli analisti esistono soltanto nel rapporto col paziente. Nella vita sono uomini e donne come tutti gli altri, né migliori né peggiori».
Ma la Società psicoanalitica non ha proposto l’immagine di un cenacolo di anime belle?
«Anime belle, noi? Via, le cattiverie e le generosità sono assolutamente identiche in ogni ambiente professionale. Anzi, da noi forse è un poco peggio, visto che se siamo dei bravi analisti siamo tenuti a contenere tutto il giorno le angosce dei pazienti. E quindi poi magari dobbiamo anche sfogarci un po’...».