venerdì 21 dicembre 2012

l’Unità 21.12.12
Marchionne e Monti insieme al voto
Susanna Camusso: «La scelta del premier tecnico di usare le sue funzioni di governo per le elezioni è grave. E la Fiat si è apertamente schierata con lui»
«Un gigantesco spot elettorale Ma al Paese serve una svolta»
di Rinaldo Gianola


Susanna Camusso non era a Melfi ieri «Nessuno mi ha invitata» ma rivendica di aver definito correttamente e in anticipo l’evento della Fiat: «È stato un gigantesco spot elettorale». La leader della Cgil parla di «un evidente caso politico per il modo con cui Marchionne e Monti si sono presentati a Melfi, per la volontà discriminatoria verso la Cgil e i nostri metalmeccanici, per la scelta di impedirci di parlare dove parlano gli altri, di essere presenti dove ci sono il governo, l’azienda, le altre confederazioni».
Segretario Camusso, ma la Fiat annuncia un miliardo di investimenti, nuovi modelli, produzioni per i prossimi anni. Cosa dice?
«Mi fa molto piacere. Spero che i lavoratori di Melfi e degli altri impianti abbiano un futuro sereno. Apprezzo che la Fiat abbia modificato la sua convinzione che in periodi di crisi non si investe e abbia deciso di avviare un nuovo piano. La Cgil ha chiesto da molto tempo un progetto industriale per rilanciare il gruppo in Italia, per saturare le produzioni della fabbriche, per garantire sviluppo e occupazione. Eravamo rimasti al misterioso incontro tra Fiat e il governo e all’annuncio del comitato per valutare strategie e investimenti. Poi è sceso il silenzio, fino a ieri».
Cosa non le è piaciuto del Fiat-day?
«C’è una coincidenza sospetta tra l’annuncio di Marchionne e la scelta politica del presidente del Consiglio, e il sospetto è confermato dal messaggio uscito ieri da Melfi, dalla sovrapposizione tra Fiat e governo. La scelta del tecnico Monti di utilizzare le sue funzioni di governo per la competizione elettorale è un fatto grave. Monti, prima, ha forzato la mano per portare a una conclusione separata il patto sulla produttività, poi non ha accolto la nostra richiesta di intervenire sul tema della rappresentanza, quindi si presenta con Marchionne a Melfi in questo modo, mentre la Cgil viene esclusa. C’è un vulnus democratico. Ho la sensazione che su queste basi Monti voglia avviare la sua campagna elettorale».
Perché Monti o il ministro Fornero non hanno mai speso una parola per quei lavoratori discriminati dalla Fiat a Melfi e Pomigliano, come è stato riconosciuto anche dalla magistratura?
«Non sono interessati ai diritti dei lavoratori, anche se a volte parlano di partecipazione o di coesione sociale. È una questione culturale, di formazione. Il valore della rappresentanza, la difesa del più debole di fronte all’arroganza dell’impresa, la tutela del diritto sui luoghi di lavoro non sono argomenti appassionanti per un governo tecnico, per un presidente del Consiglio che si ispira a un liberismo dannoso e inadeguato al momento. È una vergogna che il governo non sia intervenuto a Pomigliano quando la Fiat ha minacciato il licenziamento di 19 operai come ritorsione per la sentenza della Corte d’Appello che le imponeva l’assunzione di 19 lavoratori ingiustamente discriminati perchè iscritti alla Fiom. Vedendo Marchionne e Monti ieri a Melfi tutto è più chiaro».
La Cgil si sente isolata?
«Assolutamente no. Vedo che ormai non è neanche più di moda parlarne. Siamo consapevoli della nostra misura, della nostra azione, della nostra funzione. La legittimazione della Cgil deriva dagli iscritti, dai lavoratori, dai pensionati, dai disoccupati che rappresentiamo. Noi firmiamo accordi e contratti solo se rispettano la volontà della nostra gente, non abbiamo altri obiettivi. Per questo abbiamo criticato duramente i piani di Marchionne che si sono rivelati inesistenti e ora siamo nelle condizioni di poter valutare le nuove strategie in autonomia e serenità».
I suoi colleghi Bonanni e Angeletti ieri erano felicissimi...
«Capisco, devono aver nascosto abilmente un qualche imbarazzo di fronte al nuovo piano di Marchionne che supera quello precedente, che non è mai realmente partito ma che avevano accettato e benedetto come un miracolo. Avevano scommesso sulla Panda per risollevare le sorti dell’industria dell’auto, avevano accettato tutte le condizioni di Marchionne e oggi c’è cassa integrazione ovunque, metà dei dipendenti di Pomigliano sono ancora fuori dalla newco Fiat».
E come valuta la svolta di Melfi?
«È positivo il nuovo orientamento, la disponibilità a investire. Ma suscita qualche preoccupazione, qualche dubbio l’affermazione di voler trasformare la Fiat in produttore di marchi di alta gamma. Questo vuol dire perdere le produzioni storiche, di successo,la Punto magari? Per cambiare strategia sono necessari enormi investimenti e nuovi marchi di successo da affiancare all’Alfa Romeo che va comunque rilanciata. Questo è un problema, così come bisognerà capire se i modelli di massa per il mercato europeo saranno in futuro prevalentemente di origine Chrysler»
Camusso, tra due mesi si vota. Cosa si aspetta dalla campagna elettorale? «Spero che si parli dei problemi del paese e di come risolverli. Mi auguro che sia chiusa la stagione dei partiti personali, dei contenitori che prevalgono sul contenuto. Dobbiamo ripartire dal lavoro, creare occupazione altrimenti non usciamo dalla crisi. Il ritorno al passato, i sogni e le illusioni di Berlusconi non aiutano»
E Monti in politica?
«Non mi piace che usi palazzo Chigi per farsi la sua lista, nè che vada a Melfi in questo modo. La sua politica di rigore e tagli non va più, non vede e non interviene contro le diseguaglianze in un paese sempre più diseguale e povero. Ci deve essere una politica alternativa al possibile Monti-bis, una politica di lavoro e sviluppo».

il Fatto 21.12.12
Buoni e cattivi. I segretari di Cisl e Uil sono stati invitati, la Fiom/Cgil no
Intervista a Maurizio Landini (Fiom)
“Noi tenuti fuori e il Prof. zitto”
di G. Me.


Il leader della Fiom, Maurizio Landini è rimasto fuori dei cancelli di Melfi, assieme al responsabile del settore auto Giorgio Airaudo. Non erano invitati, non sono potuti entrare insieme agli altri leader sindacali. Loro fuori dai cancelli, la maggioranza degli operai di Melfi dentro, a spellarsi le mani per i loro capi. Abituato a fare a testate con Sergio Marchionne, stavolta Landini ce l’ha soprattutto con il premier Mario Monti: “Il suo comportamento è gravissimo”.
Che cosa ha fatto?
Non ha fatto niente. È stato zitto. Ha benedetto con la sua partecipazione il comportamento discriminatorio della Fiat, che sceglie i sindacalisti con cui parlare, o da invitare, non sulla base della loro rappresentanza ma sulla base dei loro sì.
Che cosa avrebbe dovuto fare il premier?
Per prima cosa avrebbe dovuto ricordarsi che ha giurato sulla Costituzione. La Fiat è stata condannata da dodici giudici diversi per comportamenti antisindacali e per discriminazioni tra i lavoratori. Monti è venuto a Melfi dove ci sono tre operai licenziati ingiustamente, reintegrati dal giudice, ma che non possono lavorare perché la Fiat li paga ma impedisce loro di riprendere il posto di lavoro.
In effetti Monti nel suo discorso ha espresso un esplicito consenso al modello Marchionne.
Ma io non so esattamente che cosa abbia detto, visto che sono rimasto fuori dai cancelli. So solo che non dice una parola di fronte a un sistema di relazioni industriali gravemente distorto: qui c’è il capo che annuncia direttamente agli operai le novità della produzione, senza nessun confronto con i sindacati.
Marchionne ha annunciato un miliardo di euro di investimenti per Melfi.
Finalmente, glielo chiedevamo da tempo. Però avremmo qualche domanda da fargli se potessimo discutere con lui. Per esempio: ha saputo che la Volkswagen ha appena annunciato investimenti non per uno ma per cinquanta miliardi di euro?
Altre domande?
Quante ne vuole. In che modo verrà garantita l’occupazione in tutti gli stabilimenti? Dove sarà prodotta la nuova Punto? Come pensa di togliere quote di mercato ai concorrenti per vendere i 400 mila mini Suv all’anno necessari per saturare lo stabilimento di Melfi e far tornare al lavoro i 5.500 dipendenti che oggi stanno più in cassa integrazione che al lavoro?

Repubblica 21.12.12
L’attacco di Landini: “Il loro modello è la negazione della democrazia e della contrattazione”
“Lui e Marchionne hanno le stesse idee questa visita è un’operazione politica”
di Luisa Grion


ROMA — Candidandosi, Mario Monti dimostra di «non essere mai stato un tecnico, un neutro, un salvatore della Patria». «Quello che finora ha fatto è stato il frutto di una precisa scelta politica, come è stata politica la decisione di andare a Melfi poche ore prima dell’annuncio ufficiale». Per Maurizio Landini, leader della Fiom, la visita fatta ieri dal premier all’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne ha un significato preciso: i due sono uguali, «hanno in mente lo stesso modello di Stato e di società».
E cosa prevede questo modello?
«La negazione della democrazia e della contrattazione. La volontà di non metter mano alle vere cause che hanno originato la crisi».
Dove vede l’uguaglianza di comportamento fra i due?
«Cosa ha fatto Marchionne alla Fiat? Ha negato il contratto nazionale e la discussione con le controparti, ha lasciato fuori dagli stabilimenti chi non la pensava come lui, ha deciso di portare la testa dell’azienda fuori dall’Italia. E cosa ha fatto Monti? Ha ripetuto quel modello riformando lavoro, pensioni e articolo 18 senza ascoltare le parti sociali, ha fatto in modo che la Bce diventasse la testa della politica italiana. In comune hanno l’eliminazione della mediazione sociale e la cancellazione stessa dello Stato sociale. Due punti di contatto forti che li contraddistinguono».
Se vince Monti, secondo lei, cosa succede?
«Il modello Melfi diventa modello Paese. Per uscire dalla crisi non s’investe, come dovrebbe essere, su lavoro e democrazia. L’Italia va a destra, arretra, aumentano le diseguaglianze e parte l’attacco alla Costituzione ».
Attacco alla Costituzione?
«Marchionne è stato condannato da dodici tribunali per comportamento antisindacale e il premier va a trovarlo a Melfi, proprio là, dove la Fiat, non rispettando la decisione della magistratura, paga tre operai, ma non li fa lavorare. È rispetto per la legge questo? Io invito il premier ad andare anche a Termini Imerese o all’Irisbus per vedere cosa succede, prima di lodare le scelte della Fiat».
D’Alema ha definito la candidatura di Monti «immorale». E’ d’accordo?
«No, sinceramente non ho capito a cosa si riferisca. Forse si sente tradito per impegni presi - che non conosco - e che non sono stati rispettati».
Ma se Monti è così dichiaratamente di destra, perché la sinistra dovrebbe temere la sua candidatura?
«Perché la sua candidatura ufficiale fa venire a galla quella che è sempre stata una antica contraddizione mai risolta. L’Italia doveva andare al voto un anno fa, era la cosa migliore da fare allora ed era esattamente quello che il Paese voleva. La grande partecipazione ai referendum, la storia dell’elezione del sindaco di Milano lo avevano chiaramente dimostrato».
Cosa si aspetta dalle prossime elezioni?
«Mi auguro un’alternativa, l’uscita dalle logiche del potere e della finanza e la rimessa al centro del lavoro, della democrazia, della redistribuzione della ricchezza. Le uniche scelte che possono davvero far uscire questo Paese dalla crisi».

l’Unità 21.12.12
Bersani sfida Monti: basta partiti personali
Il segretario Pd dice sì alla sfida in televisione lanciata da Berlusconi
Messaggio ai centristi dopo l’attacco di Riccardi: «Con chi state?»
di Simone Collini


Gliel’ha detto a quattr’occhi, incontrandolo a Palazzo Chigi, che sarebbe stato più utile al Paese se fosse rimasto «fuori dalla contesa». Poi Pier Luigi Bersani ha atteso ancora qualche giorno, per vedere cosa avrebbero prodotto le riflessioni di Mario Monti. Ma ora che si parla esplicitamente di una lista con il nome del premier nel simbolo, il leader del Pd batte un colpo: «Non fa bene all’Italia costruire le formazioni politiche intorno alle persone».
Bersani vuole sentire una parola definitiva dal capo del governo («sono curioso anch’io di sapere quale sarà la conclusione delle riflessioni del presidente Monti»), ma se dovessero rivelarsi fondate le indiscrezioni che ormai da quarantott’ore stanno filtrando da Palazzo Chigi, il giudizio del leader Pd non sarebbe affatto positivo. «Noi siamo stati lealissimi verso il governo Monti», dice a SkyTg24, «francamente, non avevo immaginato che potesse essere nella contesa e non so se sarà questa la sua scelta». Fosse questa la decisione del presidente del Consiglio, il Pd non avrebbe «nessuna difficoltà, nessun problema particolare» a giocare la partita avendo di fronte un nuovo competitor. Dice però Bersani facendo entrare in una nuova fase il confronto con il premier: «L’unica cosa di principio che ho sempre posto al presidente Monti è che non credo faccia bene all’Italia costruire formazioni politiche intorno alle persone. Io ho detto che il mio nome sul simbolo non lo metterò mai. In nessun Paese democratico al mondo si procede così. Le formazioni politiche devono essere guidate da persone ma devono essere costruite intorno ai programmi, non alle persone».
CON CHI STANNO I CENTRISTI?
Ormai è chiaro che a meno di un ripensamento da parte del premier, a giocare un ruolo da protagonisti in questa campagna elettorale saranno in tre: Bersani, Monti e Berlusconi, che il leader Pd è pronto a incontrare in un confronto televisivo («dove c’è Berlusconi come si fa a mancare? risponde con un sorriso a SkyTg24 Io sono disponibilissimo, mi pare una cosa utilissima, seria»).
La novità è che il leader del Pd, al quale non è piaciuta la visita di Monti con Marchionne allo stabilimento Fiat di Melfi, ha deciso di giocare ora la partita insistendo sulla differenza del suo partito rispetto alle altre formazioni. Per questo insiste sulla decisione di organizzare le primarie per i candidati parlamentari, che il segretario democratico mette in contrapposizione con le due operazioni che vanno sotto il segno del personalismo. «Ho una fiducia enorme nella partecipazione e una sfiducia enorme nell’uomo solo al comando». Una frase che in passato ha più volte pronunciato con riferimento polemico a Berlusconi, e che però in queste ore si carica di un nuovo significato.
In questo caotico finale di legislatura c’è bisogno di fare chiarezza, secondo Bersani, di definire i campi di gioco e gli schieramenti. Per questo il leader Pd non esita a sfidare apertamente Monti e per questo prova a stanare i centristi che da troppo tempo ormai si muovono sul filo dell’ambiguità. Così, il giorno dopo che il ministro Andrea Riccardi ha detto che «il centro di Monti sarebbe alternativo alla sinistra», Bersani rilancia la proposta di un patto di legislatura tra progressisti e moderati, e però al contrario del passato ci aggiunge una richiesta di chiarezza: «Io voglio costruire un centrosinistra che abbia disponibilità ad incontrare un centro moderato, europeista, saldamente costituzionale. Che io abbia o non abbia la maggioranza. Sarebbe interessante chiedere a queste formazioni centrali cosa pensano loro del Pd, perché noi siamo il partito più grande. Sento cose a volte contraddittorie: qualcuno dice “siamo alternativi”, altri dicono “siamo colloquiali”. Io non mi sento alternativo al centro moderato, mi sento alternativo a Berlusconi e alla Lega».
LA PARTITA DELLE LISTE
Mentre Bersani centra la sua strategia contro le liste personali, nel partito si discute delle deroghe da concedere a parlamentari europei, sindaci di Comuni oltre i 5000 abitanti e consiglieri e assessori regionali che vogliono candidarsi alle primarie, e anche dei nomi da inserire nel 10% esonerato dalla sfida ai gazebo. Al comitato elettorale, riunito ieri fino a tarda sera, sono arrivate oltre cento richieste di deroga. Il criterio seguito è stato però quello di limitare al massimo il via libera, anche per evitare un effetto domino con lo scioglimento anticipato di molti consigli comunali. Di segno opposto è l’iniziativa della Direzione del Pd di Modena, che ha approvato un ordine del giorno in cui si chiede che un sindaco dell’area colpita dal terremoto «o comunque una personalità della società civile rappresentativa dell’impegno nel fronteggiare il post-sisma venga inserito nel listino delle candidature appanaggio del segretario».
Questo 10% di nomi è però ancora al centro di trattative tra le diverse anime del partito. Al momento sembra ci debbano essere tutti i segretari regionali del Pd e chi ha corso alle precedenti primarie del partito (Matteo Renzi non ci sarà, ma verranno inseriti i membri del suo comitato). Una curiosità che sta emergendo a scorrere l’elenco di chi correrà alle primarie: nel prossimo Parlamento Sandra Zampa potrebbe essere l’unica prodiana, visto che Parisi, Magistrelli, Santagata, Barbi e gli altri parlamentari vicini al Professore stanno pensando di non ripresentarsi.

La Stampa 21.12.12
Il messaggio del professore al leader Pd
di Marcello Sorgi


La visita di Monti a Melfi non è stata certo una mossa elettorale, anche se più di uno ieri a Montecitorio si ostinava a considerarla così. Ma resta un gesto carico di significato, specie alla vigilia delle dimissioni che il premier dovrebbe rassegnare tra oggi e domani. Monti ha scelto di incontrare i vertici della Fiat e gli operai che lo hanno accolto tra gli applausi, in uno degli stabilimenti a più alta innovazione tecnologica, ben consapevole di attraversare una terra di frontiera, la zona di confine di un esperimento di modernizzazione che molto ha diviso, e continua a dividere, il mondo politico, imprenditoriale, sindacale e del lavoro. E se lo ha fatto, alla vigilia della conclusione dell’esperienza del governo tecnico, è stato proprio per sottolineare l’importanza del percorso riformatore, che in Italia è appena iniziato, e, pur andando incontro a fortissime resistenze, non può essere interrotto. A meno di non voler precipitare il Paese in una condizione marginale, che il premier, con una delle sue espressioni colorite, ha definito uno «stato nirvanico», cioè di assenza e lontananza dalla realtà.
Monti insomma è andato a Melfi, non spinto da interessi elettorali, ma per svolgere un intervento programmatico, che non a caso ha trovato pieno consenso da parte di John Elkann e Sergio Marchionne. A suo giudizio, per l’Italia, come per la Fiat, la scelta del rigore e delle riforme strutturali è infatti obbligata. Abbandonarla adesso, o alimentare illusioni sulla possibilità di un ripensamento, per compiacere un’opinione pubblica stressata dalle conseguenze della crisi, sarebbe «irresponsabile», e porterebbe a «dissipare» i tanti sacrifici compiuti. Serve invece il coraggio, ha ribadito Monti, di insistere con questa medicina: amara, sì, da digerire, ma efficace e presto in grado di dare i suoi effetti e rendere l’Italia «più sana e più forte».
Parola più, parola meno, è quel che Marchionne negli ultimi anni ha cercato di spiegare ai sindacati, trovando l’ascolto di Cisl e Uil, e la dura opposizione di Cgil e Fiom, che ieri manifestavano davanti ai cancelli di Melfi. Così che la necessità di un cambiamento, oltre che tecnologico, anche nell’organizzazione del lavoro, e di una maggiore aderenza alle mutevoli e critiche condizioni dei mercati, sono diventate l’oggetto, non solo di un confronto aziendale e sindacale, ma anche di un serrato dibattito interno e di divisioni nella sinistra italiana, tra la parte riformista più attenta alle esigenze del cambiamento, e quella più radicale, decisa a rappresentare il fronte del No.
E’ proprio per questo che Monti, al suo penultimo giorno di governo, ha scelto di andare a Melfi, per segnare un «punto e a capo» nei rapporti tra l’Italia e la sua maggiore azienda, per incoraggiare i lavoratori che hanno accettato la svolta, e rassicurarli sul fatto che «dopo la semina verrà il raccolto». Il suo discorso, formalmente rivolto agli operai della Fiat, era in realtà indirizzato anche a Bersani, alla vigilia di una campagna elettorale che rischia di incrinare il rapporto tra il presidente del Consiglio che ha guidato il Paese fuori dal pantano in cui s’era cacciato e il suo alleato fino a ieri più fedele. Al segretario del Pd, al momento il suo più probabile successore a Palazzo Chigi, Monti ha inteso dire che non è lui ad aver cambiato idea e ad essersi allontanato dal progetto riformatore che i tecnici, in un anno appena, hanno potuto realizzare solo in parte. È piuttosto il Pd che, coalizzandosi con Vendola, ha scelto come alleato uno dei più decisi avversari del governo e della politica che finora aveva appoggiato.
Bersani dunque deve chiarire come pensa di coniugare la sua vocazione riformatrice con lo «stato nirvanico» e con le iniziative antagoniste della sinistra radicale. Non è un compito facile per il segretario democratico eletto candidato premier alle primarie. Monti è il primo a saperlo. Ma proprio per questo, è il messaggio sottinteso, non c’è ragione di farsi la guerra. Se Bersani, nell’interesse dell’Italia, confermerà la volontà di riprendere la strada delle riforme, si potrà certamente tornare a collaborare dopo il voto.

Corriere 21.12.12
«Il Pd sposi l'agenda del premier o non corro»
Ichino: «Spero che Bersani corregga nettamente Fassina. Altrimenti, non ha senso candidarmi»
intervista di Alessandro Trocino

qui

l’Unità 21.12.12
Verità o relativismo? Un falso problema
di Stefano Semplici


LA «QUESTIONE ANTROPOLOGICA» SOLLEVATA ANCHE DAL MANIFESTO DI PIETRO BARCELLONA, PAOLO SORBI, MARIO TRONTI E BEPPE VACCA non contrappone i seguaci di un relativismo senza ormeggi e senza limiti agli apostoli di una verità sempre uguale a se stessa. Anche perché queste tipizzazioni corrispondono in realtà ad altrettante astrazioni. Chi vuole ampliare gli spazi dell’autonomia individuale, in particolare, non lo fa per ripetere con Ivan Karamazov che «se Dio non esiste, tutto è permesso». Quasi tutti riconoscono che, arrivati a un certo punto, si incontra il limite del «non negoziabile»: i principi di una Costituzione come la nostra, ma anche l’universale morale presupposto dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948 e al quale ci appoggiamo ogni volta che, per esempio, affermiamo che esistono crimini contro l’umanità o rifiutiamo senza incertezze antiche tradizioni culturali come le mutilazioni genitali femminili. Si tratta semmai di definire la portata di questi principi, il loro grado di «invasività» rispetto ai percorsi di vita degli individui e dei popoli, nonché di risolvere i loro eventuali conflitti. Nel campo della ragione pratica, come insegnava Tommaso d’Aquino, i principi vanno certamente rispettati come fondamentali criteri di orientamento, ma non è detto che siano sempre sufficienti a determinare automaticamente quel che, qui e ora, è giusto fare.
Le divaricazioni, all’interno delle moderne società liberali, nascono non tanto intorno a certezze apodittiche e ossessioni nichilistiche, quanto piuttosto sulla definizione di alcune «soglie», dalle quali dipende l’uso degli strumenti di garanzia e di coercizione tipici del diritto. La soglia dei divieti inderogabili, a partire da quello di uccidere un altro uomo, che implica a sua volta un’opzione di riconoscimento sul momento a partire dal quale scatta tale divieto. La soglia delle libertà irrinunciabili, come quella di disporre del proprio corpo. La soglia, infine, delle discriminazioni intollerabili, come quella che si realizza per alcuni nel momento in cui un istituto come il matrimonio, intessuto di un valore di legame ma anche di una simbologia pubblica particolarmente forti, non è accessibile a tutti a prescindere dall’orientamento sessuale. Voler abbattere o spostare una soglia non implica affatto la disponibilità ad accettare qualsiasi cosa e la tesi del cosiddetto «pendio scivoloso» continua a ricevere qualche conferma e molte smentite: l’uccisione dei neonati disabili resta una tesi difficile da presentare in pubblico; il commercio degli organi è considerato dai più un abuso della libertà che le leggi non possono consentire; il matrimonio non è più né indissolubile né eterosessuale, ma la polemica contro la famiglia tradizionale ne lascia intatto il «pregiudizio» monogamico.
Ragionare in termini di soglia, anziché di radicali alternative antropologiche, rende più facile rispettare opzioni anche molto diverse e tuttavia sensibili ad uno sfondo di principi condivisi: il valore intrinseco della vita umana; la difesa della dignità della persona nella concretezza della sua libertà incarnata che impedisce di ridurre il corpo a semplice mezzo e mezzo di profitto; la promozione di impegni affettivi di intimità e reciprocità che costruiscono una responsabilità progettata e voluta per durare nel tempo. Certo, non si può negare l’evidenza che l’offerta dei modelli di senso e delle conseguenti opzioni di soglia tende a dilatarsi sempre più. Si può però scegliere di regolare la ricchezza di questo pluralismo applicando non il metodo «maggioritario» secondo il quale si vota e «il vincitore prende tutto», ma quello di uno sforzo inclusivo che sceglie di utilizzare altri strumenti: il bilanciamento dei principi che punta al minor sacrificio possibile di un valore; l’apertura alla revisione di decisioni e norme in uno spazio di confronto sempre praticabile a parità di condizioni per le «minoranze etiche»; la tutela della libertà di coscienza fino all’obiezione, che non toglie nulla ai diritti degli altri e salva la possibilità per la persona di vivere secondo la sua autenticità.
Che cosa diventa, in questa prospettiva, la questione antropologica? Essa richiede prima di tutto l’onestà e la serenità della chiarezza, nei propri dubbi come nelle proprie verità. E non la si può tenere fuori dalla politica, perché investe inevitabilmente le leggi. Anche nella prossima campagna elettorale è auspicabile che non ci siano atteggiamenti strumentali su questi temi. E che non si dimentichi la vera alternativa. Da una parte c’è oggi l’idea di privatizzare i fondamentali della vita e della libertà, trasformandoci negli «stranieri morali» teorizzati dal bioeticista Engelhardt. Dall’altra c’è la consapevolezza che l’esasperazione di questa dinamica erode quel «centro comune» al quale Adam Smith affidava la speranza di una società che non si riducesse alla logica strumentale dello «scambio mercenario». Chi ci ha insegnato a studiare le cause della ricchezza delle nazioni ci invita a riconoscere che è la solidità di questo centro a rendere una società «fiorente e felice». A renderla più attrezzata anche per affrontare le crisi con quello spirito di coesione e solidarietà senza il quale l’equità diventa più difficile.

Repubblica 21.12.12
L’irritazione di Vaticano e Cei “Parole volgari, è allo sbando”
Le gerarchie tifano per il Professore: ha servito l’Italia
di Marco Ansaldo


CITTÀ DEL VATICANO – «Certo che ci ricordiamo bene quello che ha fatto Berlusconi per la Chiesa. A partire dal caso Boffo». Il giudizio plana in modo sarcastico, ma ugualmente impietoso. Ai piani alti dell’istituzione ecclesiastica, sull’asse che da Piazza San Pietro, dal Vaticano, sale e arriva sulla Circonvallazione Aurelia, sede della Conferenza episcopale italiana, è tutto un confabulare, un «hai sentito?», «sì, ho visto». Alcuni accettano di parlare, anche se rigorosamente “off the record”.
Il tratto comune è il tono indignato. La sensazione, più che vero imbarazzo, è addirittura il fastidio. Termine che non viene pronunciato. Ma le alzate di spalle, gli occhi che roteano al solo sentire il nome del protagonista in questione, gli sbuffi che escono dalle bocche dei prelati, paiono risposte inequivocabili.
Nella Santa Sede, all’interno delle Mura Leonine, le parole che si raccolgono sono di una durezza implacabile. Provengono da ambienti vicini alla Segreteria di Stato vaticana del cardinale Tarcisio Bertone: «È un uomo allo sbando – è il commento che si registra - ha pure massacrato il suo delfino Alfano». «E poi – ecco il colpo di mannaia su un tasto qui delicatissimo - queste sue nuove avventure sentimentali... Ecco,
fra questi due estremi c’è di tutto. Quella di oggi è stata un’uscita volgarissima. Parole che cadono nel gelo più totale. È un uomo privo di appoggi, laddove pure li sta cercando. Davvero non si capisce dove voglia andare a parare. Ha perso il freno del tutto. Le sue battute lasciano ormai sgomenti».
Salendo verso la sede della Cei, al piano più alto ci si limita a un gelido «non credo che sia necessario commentare». Questa volta il fronte dei vescovi coincide in modo perfetto con quello dei Palazzi vaticani. E del Papa: pieno sostegno per un possibile bis del Professore che nel 2012 ha governato a Palazzo Chigi. «Monti ha reso un servizio all’Italia – si ricorda - non può essere l’ultimo». I giudizi che si ascoltano qui rammentano con vivacità di espressioni il caso del direttore di Avvenire, Dino Boffo, nel 2009 costretto a dimettersi dopo una campagna violentissima, ma con accuse infine ritenute del tutto false, da parte del quotidiano della famiglia Berlusconi. «Leggiamo in questi giorni le pagine del Foglio – spiega una voce molto autorevole in ambiente Cei – a proposito di come i giornali in passato parlavano del Cavaliere. Ma quando sul quotidiano dei vescovi gli editoriali del 2001 bacchettavano Berlusconi, non se ne accorgeva nessuno. Eppure veniva fatto. Nell’ultima uscita del Cavaliere c’è un po’ di presunzione. Va detto: per la Chiesa il dettame concordatario è una cosa seria. E se sul serio si vuole ricordare quel che è stato fatto, per noi conta il bene del Paese, chiunque l’abbia compiuto».
Nei giorni scorsi il presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco, aveva detto al
Corriere della Sera: «Non si possono mandare in malora tutti i sacrifici fatti dai cittadini». Un giudizio che si raccorda con quello fatto lo scorso anno: «Bisogna purificare l’aria ». Tre parole decisive nella spallata della gerarchia ecclesiastica al governo di centro destra. Ora Avvenire, guidato da Marco Tarquinio, ricorda in più editoriali il «fallimento» dell’esecutivo Berlusconi.
Vaticano e Cei sembrano abbandonare il Cavaliere al suo destino, tifando Monti. L’intesa anzi creata fra il Papa tedesco e il Professore, fatta di visite e telefonate costanti - e saldata dai loro più vicini collaboratori - è piuttosto l’asse su cui gravita il consenso della Chiesa per l’attuale inquilino di Palazzo Chigi.
Il dirimpettaio di Tarquinio in Vaticano, il professor Giovanni Maria Vian, direttore dell’Osservatore Romano, di recente ha detto che «l’Italia rischia di pagare i danni della demagogia». Proseguendo il suo ragionamento con una frase significativa: «Le parole d’ordine facili possono magari riscuotere consenso. Ma poi non farebbero che danneggiare, se seguite, le fasce più deboli del Paese: proprio quelle che la Chiesa in Italia aiuta». È proprio vero: la Chiesa si ricorda di tutto ciò che è stato fatto.

Repubblica 21.12.12
Il papa contro il matrimonio gay
Un diritto non è mai un pericolo
di Chiara Saraceno


È per lo meno singolare che tra gli attentati alla pace, alla giustizia e alla dignità umana il Papa abbia messo ai primi posti l’estensione alle persone omosessuali del diritto a sposarsi. Era già una forzatura, cui per altro Giovanni Paolo II ci aveva abituato, equiparare il diritto all’aborto e a chiedere di essere aiutati a morire alle uccisioni che si effettuano in guerra e ai genocidi che spesso accompagnano le guerre civili. Perché si confondono feti con esseri umani già compiuti, vittime con carnefici, la libertà di disporre di sé con la violenza su altri. Anche chi non approva l’aborto e l’eutanasia dovrebbe preoccuparsi di questa operazione in cui tutto viene mescolato senza distinzione, con il rischio non già che si salvi qualche feto perché diventi un bambino non voluto, o che qualche malato terminale venga tenuto in vita ad oltranza, ma che guerre e genocidi perdano il loro carattere di violenza arbitraria e cieca, ove le vittime sono pure casualità, specie se appartengono ai gruppi più deboli. Sta già succedendo, in quest’epoca in cui le guerre — dichiarate o meno — sono dappertutto e ciascun belligerante vede, nel migliore dei casi, solo i propri morti, mentre quelli altrui sono tutti solo “nemici” — dai lattanti in su. Non c’è proprio bisogno che ci si metta anche il Papa, con tutte le migliori intenzioni, a dare manforte a questo clima di assuefazione ottusa.
Se poi si aggiunge alla lista degli attentati alla pace e alla vita e dignità umana la questione dei matrimoni omosessuali davvero la confusione, l’incapacità, o il non desiderio, di operare distinzioni risultano in una denuncia generica e inefficace del problema che a parole si dice di voler affrontare. È difficile anche a chi è contrario ai matrimoni tra omosessuali cogliere un qualche nesso tra una legge che li consenta e l’operare per la pace. A meno che il pontefice non voglia suggerire che l’approvazione di una legge simile produrrebbe guerra civile, ciò che è smentito da quanto (non) è avvenuto nei Paesi che hanno una legge del genere. Mentre, viceversa, molti Paesi che vietano l’aborto (e anche la contraccezione), puniscono le donne che vi ricorrono e mettono al bando gli omosessuali sono governati da dittature violente e talvolta anche guerrafondaie. A differenza del pontefice, non intendo postulare che esista un nesso tra riconoscimento del diritto ad abortire, ad usare la contraccezione, a sposarsi tra omosessuali e il mantenimento della pace. I rapporti causa ed effetto sono molto più complessi di queste rozze semplificazioni.
Continuare a evocare i temi dell’aborto, dell’eutanasia, della omosessualità come temi validi per la denuncia di qualsiasi cosa vada male nel mondo rischia di marginalizzare proprio l’attenzione per ciò che va male, in questo caso per un mondo attraversato da guerre ricorrenti e continue, abitato da signori della guerra che non riposano mai. Certo, dà l’impressione che al pontefice e alla gerarchia cattolica interessi di più porre il proprio veto sulle legislazioni degli Stati democratici, in tema di diritti di libertà nell’ambito della sessualità e della riproduzione, che non condannare le guerre (o le incursioni) preventive e le violenze sulle popolazioni inermi. Più che un monito contro i signori della guerra, sembra un monito contro la laicità dello Stato, del tutto in consonanza con quello lanciato dal cardinale Scola alcuni giorni fa.


il Fatto 21.12.12
Sofferenza a sinistra
“Il manifesto” in liquidazione ”L’Unità”, scontro con l’azienda


IL MANIFESTO, a 43 anni dalla fondazione, cerca di cambiare pelle. Il quotidiano diretto da Norma Rangeri sta per chiudere la storica cooperativa e potrebbe tornare con una nuova società. Nella lista delle testate in sofferenza c'è anche l'Unità, che il 14 dicembre ha indetto uno sciopero in segno di protesta contro l'assenza di garanzie ricevute rispetto al futuro della redazione. Le difficoltà del giornale fondato da Antonio Gramsci derivano anche dalla pesante riduzione del finanziamento pubblico all'Editoria come per il manifesto. In crisi anche il quotidiano Pubblico a soli tre mesi dalla sua uscita. Il giornale di Luca Telese cerca nuovi finanziamenti e potrebbe liquidare l’attuale società per rinascere con un organico ridotto. Dopo aver abbassato il prezzo da 1,20 a 1 euro, per attirare più lettori, ritorna in edicola al costo di prima.

Repubblica 21.12.12
In aumento l’uso del web come mezzo d’informazione
Dai blog ai social network la carica dei “cittadini 2.0”
di Luigi Ceccarini


Li possiamo definire cives.net.
È una “community” di cittadini che usa la rete anche per seguire la politica. I nuovi media, ormai non più così “nuovi”, fanno parte della vita degli italiani. Ma anche del loro modo di informarsi, discutere, partecipare: di essere cittadini.
L’Osservatorio Demos-Coop, che ogni anno si concentra sul rapporto tra media e politica, conferma questa tendenza, già registrata nelle scorse edizioni. Il 58 per cento della popolazione ha accesso ad Internet e il 44 per cento lo usa tutti i giorni. Per il 40 per cento è una fonte quotidiana di informazione. Rispetto a un anno fa, il solo canale che fa registrare una piccola, ma significativa, crescita nell’utilizzo è proprio la rete: + 3 punti percentuali.
Cala, invece, la fruizione degli strumenti tradizionali: la tv, la radio, i giornali. Internet continua ad essere considerato il luogo dove l’informazione è più libera e indipendente: 41 per cento. Un aspetto non da poco per la democrazia. Per la Tv il dato è il 24 per cento. Ciò significa che la si guarda senza fidarsi troppo. Per i giornali si scende al 17 per cento. Se poi consideriamo i soli cittadini in rete, il 63 per cento di questi legge i quotidiani on-line. Il 57 per cento partecipa a un social network. Il 50 per cento discute o si informa di politica nel Web(2.0). Una quota ridotta, ma significativa, mette in pratica anche azioni più “impegnate”: l’11 per cento ha postato commenti o partecipato a qualche discussione di politica nei blog o nei social network. Il 9 per cento segue un partito, un leader o un gruppo politico attraverso Facebook, il 4 per cento su Twitter.
Coloro che utilizzano la rete anche per discutere e informarsi di politica (quota pari alla metà degli internauti, cioè il 29 per cento della popolazione) fanno un uso più intenso di questo strumento. Ad esempio frequentano di più i social network (63 per cento). Rimangono connessi per più tempo, anche in mobilità con gli smartphone e i tablet. Del resto sono più giovani e scolarizzati, studenti, ceti medi impiegatizi e professionisti. Di genere maschile. Si riconoscono maggiormente nell’area di sinistra o di centrosinistra, ma anche nel MoVimento di Grillo. Si dicono particolarmente interessati alla politica. Si mobilitano più spesso, sottoscrivendo, ad esempio, campagne di opinione, petizioni, e non solo online. Oltre ad Internet, per informarsi, usano di più la tv satellitare e meno quella generalista. Ma è interessante sottolineare che il loro coinvolgimento non resta confinato nella dimensione online. Il 64 per cento, il doppio di quanti navigano senza però informarsi di politica, discute di questioni pubbliche anche nel circuito delle proprie reti sociali: gli amici, la famiglia, i colleghi. Internet diventa così uno stimolo al confronto, un luogo concreto della cittadinanza.
Il Web (2.0) si pone come estensione della sfera pubblica. E non si configura come spazio a sé stante. È sicuramente vero che mobilita, anzitutto, quei soggetti già attivi e con forti attitudini all’impegno. Ma l’intreccio tra rete e partecipazione è ormai evidente. E i cives.net ne sono l’espressione.

Repubblica 21.12.12
Se le carceri sovraffollate tradiscono la Costituzione
di Giancarlo De Cataldo


Il digiuno di Marco Pannella ha il merito di tenere desta l’attenzione sull’intollerabile situazione delle carceri italiane. Molte voci autorevoli si sono levate, in questi ultimi giorni, dando vita a una sorta di dialogo a distanza con le istanze poste dal leader radicale. Nelle opinioni prevalenti sembra dominare una sorta di rassegnato realismo: sappiamo che le carceri italiane non sono gli alberghi a cinque stelle di cui in anni passati parlò, sciaguratamente, un ministro della Repubblica, e abbiamo fatto molto, in termini di depenalizzazione, misure alternative, ecc. Ma l’amnistia, per esempio, che pure servirebbe quanto meno a tamponare l’emergenza, è impraticabile per difetto delle condizioni politiche, la legislatura sta finendo e qualche disegno di legge qualificante appare destinato a naufragare. Pannella parla, con l’abituale enfasi, di «flagranza criminale » dello Stato; gli si risponde «prendiamo atto, siamo consapevoli, facciamo il possibile». Che, peraltro, e anche di questo vi è consapevolezza, non è abbastanza. Non è solo dialettica fra passionalità e realismo, fra emotività e freddezza. Il dialogo a distanza investe un punto nodale, e irrisolto, che non appartiene né alla tecnica legislativa né all’organizzazione delle risorse, ma alla struttura stessa del sistema penale italiano, e, soprattutto, al grado di accettazione e condivisione degli italiani. Basta scorrere i commenti che si rincorrono sul web per farsi un’idea degli umori dominanti: non è tanto il fatto che si ironizzi sul digiuno a colpire, quanto la netta percezione che trent’anni e passa di politica più o meno riformatrice in materia carceraria non abbiano prodotto nessun serio mutamento culturale. Una buona parte dei nostri cittadini, forse la maggioranza, resta convinta che l’unica ricetta per chi delinque sia una cella ben solida, poi prendere la chiave e gettarla via. E amen. Il destino dei carcerati lascia indifferenti, non accende passioni. Al massimo, c’è chi chiede di costruire nuove carceri e chi, per contro, ne diffida, già rassegnato all’inevitabile sequenza di corruzioni all’italiana. Un coro unanime e impressionante che accomuna sedicenti progressisti e conservatori e sommerge di lazzi e becere facezie le poche voci problematiche. Il popolo, almeno quello del web, invoca repressione e galera. La politica rischierebbe persino di farci una bella figura, se non avesse la sua buona parte di responsabilità: dopo vent’anni di urla scomposte, di allarme sicurezza, di leggi esasperatamente punitive, l’effetto era prevedibile. Una cultura della vendetta, livorosa e ghignante, sembra imporsi. Non ne siamo esenti — parlo per esperienza diretta — neanche noi magistrati. Ma se le cose stanno così, è una sconfitta non solo per Pannella e per coloro — e non mancano — che continuano a credere nell’utopia di un carcere diverso. È una sconfitta per la stessa Costituzione. Oggi la nostra Carta fondamentale è tornata di moda. Il rischio è che diventi un oggetto di culto da venerare, ma tenendosi a debita distanza. Che se ne citino, con enfasi, i passi che più ci convengono, stendendo un velo d’oblio su tutti gli altri. Chissà quanti fra coloro che fanno del sarcasmo su Pannella e sui “poveri delinquenti” l’altra sera provavano fremiti di orgogliosa commozione davanti allo show costituzionale di Benigni. Bisognerebbe, con la santa pazienza, ricordar loro che è proprio la Costituzione a fissare i parametri della “giusta” pena, imponendo allo Stato di attivarsi per promuovere la rieducazione dei condannati. E, piaccia o non, un carcere sovraffollato, un carcere che non offre lavoro, cultura, istruzione, e, dunque, speranza, un carcere che alimenta suicidi è un carcere fuori dalla Costituzione.

Repubblica 21.12.12
La Fondazione Basso rischia di chiudere


ROMA — La Fondazione Basso rischia di chiudere entro pochi mesi. Un appello è stato lanciato da Stefano Rodotà per salvare l’istituzione nata a Roma nel 1973 dalla fusione della biblioteca di Lelio Basso con l’Istituto per lo studio della società contemporanea (Issoco), creato nella seconda metà degli anni Sessanta. La Fondazione «è una presenza viva nella discussione culturale», si legge nell’appello. Ha un Osservatorio sui diritti dell’Europa, è custode delle memorie del Tribunale Russell sull’America Latina e ne continua l’attività con il Tribunale permanente dei popoli; ospita le scuole di giornalismo e della buona politica, pubblica la rivista Parole chiave.
Tutte attività per cui mancano i finanziamenti: non sarà possibile acquistare libri e riviste per il 2013. Per informazioni www.fondazionebasso.it.

Repubblica 21.12.12
Un referendum per dire sì all’opzione Europa
di Timothy Garton Ash

All’approssimarsi del quarantesimo anniversario dell’ingresso della Gran Bretagna in quella che nel lontano 1973 era ancora semplicemente la Comunità Economica Europea, esiste una sola strategia di politica interna valida per portare avanti la complicata politica europea del Regno Unito. I leader dei tre maggiori partiti del parlamento di Westminster, conservatori, laburisti e liberaldemocratici, devono cioè impegnarsi a indire un referendum, una volta che la nuova Unione Europea sarà emersa dalla crisi dell’Eurozona e saranno chiare le condizioni dell’adesione britannica, per stabilire se restar dentro o uscirne. Dato che con tutta probabilità l’Eurozona si salverà, ma solo con grande lentezza, a tappe, nello stile della Merkel, e dato che la posizione della Gran Bretagna si potrà chiarire solo una volta emerse le conseguenze politiche del salvataggio, il referendum si farà, stando alle proiezioni attuali, tra il 2015 e il 2020, durante il mandato del prossimo parlamento britannico.
Il premier David Cameron dovrebbe promettere il referendum nel tanto atteso discorso sull’Europa, ora fissato per metà gennaio. Se il leader dei laburisti, Ed Miliband, e il liberaldemocratico Nick Clegg avranno fegato lo bruceranno sul tempo, cavalcando la tigre delle istanze indipendentiste dell’Ukip. Tutti quanti i partiti potranno comunque fare riferimento alle approfondite analisi sulla “ripartizione delle competenze” tra Unione Europea e Regno Unito, condotte nell’ambito di vari dipartimenti governativi britannici, che saranno completate solo nel 2014 e fungeranno da base per il dialogo tra le due sponde della Manica. Esisterà allora una posizione nazionale ben definita. Noi cittadini britannici avremo la possibilità di prendere una decisione sulla permanenza nell’Unione solo quando sarà chiaro da cosa usciremo e in cosa resteremo. La questione è assolutamente prioritaria.
L’opinione pubblica britannica è favorevole al referendum. In un sondaggio YouGov di qualche tempo fa il 67% degli intervistati si è detto favorevole ad un “referendum sul rapporto tra Gran Bretagna ed Europa da tenersi a distanza di qualche anno”. Benché nella democrazia rappresentativa l’uso del referendum debba essere limitato, questo tipo di consultazione è diventato parte integrante dell’evolversi della costituzione britannica. A quarant’anni di distanza dall’ultima consultazione diretta sul tema europeo, il referendum del 1975, è giusto dare ai britannici una nuova occasione perché l’Unione Europea di oggi ha una portata ben diversa rispetto al cosiddetto “mercato comune” di allora.
Indire un referendum prima del 2015, come insistono certi conservatori euroscettici, equivarrebbe ad una totale perdita di tempo e ad un ingente dispendio di denaro dei contribuenti. Non sapremo ancora quale sarà l’Unione Europea del dopo crisi e non si può “rinegoziare” la convivenza della Gran Bretagna in una casa sconosciuta, unifamiliare o bifamiliare che sia. “Rinegoziare” e “rimpatrio dei poteri” sono termini in voga tra gli euroscettici che il Labour e i liberaldemocratici probabilmente non vorranno usare. La verità però è che la Ue è permanentemente in negoziato, oggi più che mai. Inoltre “rinegoziare” può significare in pratica qualunque cosa, da un minimo aggiustamento marginale (come dimostrò il premier laburista Harold Wilson prima del referendum del 1975 “rinegoziando” ai minimi termini) fino a un piano di completo distacco istituzionale, che ponga la Gran Bretagna sullo stesso fiordo della Norvegia (che non è Paese membro dell’Ue ma deve ottemperare a gran parte dei regolamenti dell’Unione per poter accedere al mercato europeo).
Quindi i leader dei tre maggiori partiti britannici dovrebbero impegnarsi ad indire il referendum “dentro o fuori”, ma tutti e tre finora hanno cercato di svincolarsi. Perché? Cameron paventa ripercussioni negative sul suo mandato di premier e un effetto dirompente all’interno del suo partito. Miliband teme che il referendum proietti un’ombra sinistra sul suo governo se il Labour vincerà le elezioni del 2015. Clegg ha timore che faccia perdere al partito Liberaldemocratico anche i pochi voti che gli ultimi sondaggi gli attribuiscono. In breve, per usare un termine reso popolare da Margaret Thatcher, tutti sono “frit” (espressione dialettale per frightened, spaventati). Sembra una parodia in stile Monty Python della sparatoria finale de “Il buono, il brutto e il cattivo”. Tre ottimi tiratori che si fissano negli occhi sotto il sole cocente — solo che nella versione britannica piove, le pistole sono ad acqua e i tre segretamente non vedono l’ora di andarsene a bere una buona tazza di tè. Ma non possono, e non devono. È vero, l’Europa non rientra tra le massime priorità degli elettori britannici. La gente ha in mente i posti di lavoro, il costo del carburante, la scuola, gli ospedali, la criminalità, l’immigrazione.
Ma pensa anche all’Europa. Quando, se sarà, le cose andranno meglio in patria e i contorni dell’Ue post-crisi saranno più definiti, i cittadini vorranno essere consultati. Se tutti e tre i leader di partito, il Buono, il Brutto e il Cattivo — lascio a voi decidere come distribuire i ruoli — dovessero accordarsi in questo senso, può darsi che nei prossimi anni la questione europea perda addirittura importanza in Gran Bretagna.
Non sarebbe però un rimandare alle calende greche. In questo caso il domani è vicino, arriverà tra il 2015 e il 2020. Dopo più di quarant’anni avremo nuovamente la possibilità di condurre un dibattito serio sulla posizione della Gran Bretagna in Europa e nel mondo — ben diverso dalla guerra montata dai tabloid che abbiamo vissuto nei vent’anni successivi al trattato di Maastricht, difficile parto dell’allora primo ministro conservatore John Major. Sarà compito dell’attuale governo conservatore-liberaldemocratico e del governo successivo, qualunque sia il suo colore politico, porre le basi, collaborando per quanto possibile con i partner europei, al fine di ottenere l’accordo più vantaggioso per la Gran Bretagna. Tutto questo è fattibile, lo dimostra l’ottima decisione recentemente assunta sull’unione bancaria dell’eurozona. Nell’Ue c’è chi ci vedrebbe volentieri girare sui tacchi (come si dice in francese?) ma anche chi, e sono molti, non da ultimi i tedeschi e i polacchi, davvero auspica che restiamo.
La mia attività di saggista ed editorialista è da sempre legata alle tematiche europee e personalmente guardo con entusiasmo alla prospettiva di un grande dibattito referendario. Credo che saremo noi filoeuropei a vincere, anche se molti dei miei amici temono il contrario. Non penso che i britannici si siano fatti frastornare dai miti euroscettici spacciati dal Sun e dal Daily Mail al punto da decidere che uscire dall’Ue e ritrovarsi come la Norvegia, ma senza petrolio, o la Svizzera, sia l’opzione migliore per questo Paese. E se invece vinceranno gli euroscettici? Beh, sarà un errore storico, ma lo avrà voluto il popolo. Sono un sostenitore del progetto europeo, ma ancor più credo nella democrazia. Forza allora, votiamo, e vinca la logica migliore.
Traduzione di Emilia Benghi

l’Unità 21.12.12
Mutilazioni genitali, l’Onu dice sì al bando universale
di Roberto Arduini


Infibulazione, escissione. In due parole la storia tragica di moltissime bambine e donne che subiscono l’atrocità delle mutilazioni genitali (Mgf). L’Assemblea Generale dell’Onu ha adottato la Risoluzione di messa al bando universale di queste pratiche, depositata dal Gruppo dei Paesi dell’Africa, il continente più interessato a questa usanza, e in seguito sostenuta dai due terzi degli Stati membri delle Nazioni Unite. Il consenso al provvedimento è stato ampio e per la prima volta le Nazioni Unite si pronunciano su un fenomeno che è ritenuto lesivo della dignità e della salute di milioni donne in tutto il pianeta. Con la delibera l’Onu esorta gli Stati a sanzionare penalmente le mutilazioni genitali femminili, siano esse praticate all’interno di strutture sanitarie o altrove.
In Italia il voto è stato accolto in maniera favorevole soprattutto dai Radicali, impegnati in prima linea nella battaglia, e riuniti nella sede romana del partito per assistere alla votazione al Palazzo di Vetro di New York. «Questa Risoluzione rappresenta una conquista di civiltà per tutti, donne e uomini, e un risultato di cui essere fieri», ha detto Emma Bonino presente a Roma, insieme allo stesso Marco Pannella, impegnato nello sciopero della fame e della sete per la sua battaglia di legalità. Tra i presenti, Khady Koita, presidente dell’associazione La Palabre, senegalese, Elisabetta Zamparutti, deputata radicale, di Nessuno Tocchi Caino, Elisabetta Belloni, Direttore Generale della Cooperazione allo Sviluppo, Sergio D’Elia, segretario di Nessuno Tocchi Caino, gli ambasciatori di Svezia e Nigeria, il presidente del senato Schifani, Anna Fendi e molto altri dei principali attivisti che hanno partecipato alla campagna durata dieci anni.
Da New York i commenti sono stati altrettanto entusiasti. «È un messaggio di speranza per milioni di bambine e ragazze», ha detto Der Kogda, il rappresentante del Burkina Faso.
Nello specifico, le mutilazioni genitali femminili sono pratiche tradizionali attive in 28 paesi dell’Africa sub-sahariana e consistono nella rimozione di alcune parti degli organi riproduttivi delle bambine per scopi non di tipo terapeutico. Secondo le ultime statistiche riguarderebbero circa 140 milioni di donne. Le due più diffuse sono appunto l’infibulazione e l’escissione. La prima consiste nella rimozione della clitoride, delle piccole labbra, di una parte delle grandi labbra e nella successiva chiusura del foro vaginale. L’escissione è una pratica più blanda che prevede la mutilazione della clitoride e delle piccole labbra. Oltre al trauma psicologico, le bambine sulle quali vengono praticate queste operazioni, sono spesso vittime di infezioni gravi che possono condurle anche alla morte.

La Stampa 21.12.12
Per La Cina è stato l’anno dei sogni
di Ilaria Maria Sala


Qual è la parola e il carattere dell’anno? Secondo la Cina, non vi sono dubbi. Si tratta di, pronunciato “meng”, ovvero “sogno”. Dal 2006, infatti, ogni dicembre viene scelto il carattere che meglio rappresenta l’anno appena trascorso, selezionandolo fra le parole che sono apparse più frequentemente sui media nazionali – a cui si aggiunge una parola composita, e un carattere e parola composita per descrivere il mondo nello stesso periodo. Una commissione formata dal Centro nazionale per il monitoraggio e la ricerca sulla lingua nazionale, il gruppo Commercial Press e la China Network Television, stabiliscono quale carattere fra i primi classificati meglio si addica a descrivere gli ultimi dodici mesi e più in generale il sentimento nazionale attuale. Ed è stato dunque selezionato il poetico “sogno”: un termine che magari a noi, in un’Europa scossa dalla lunga crisi economica e dai timori sull’euro, può sembrare un po’ lontano, e che invece in Cina viene indicato come il più rappresentativo.
La Commissione ha inoltre specificato che il “sogno” in questione sarebbe già stato realizzato, indicandone come prova l’assegnazione del Nobel della Letteratura a Mo Yan, la prima portaerei Made in China, ma anche i successi degli scorsi anni come il fatto di aver ospitato le Olimpiadi e l’essersi classificati fra i primi nel medagliere, o l’aver dato il via alle esplorazioni spaziali.
Visto che il “sogno” non si presenta solo, la parola composita dell’anno, come poteva essere prevedibile, è “Isole Diaoyu” – il nome cinese delle isole che Pechino e Tokyo si litigano, Senkaku in giapponese – mentre la parola internazionale dell’anno è “heng”, traducibile con “misure e controlli”, un po’ più astratta. Secondo la Commissione rappresenterebbe la “preoccupazione mondiale per l’equilibrio dei poteri”. Infine, quella composita internazionale è “xuanju”, “elezioni”, il riflesso dell’ondata di scrutini che ha attraversato il globo nel 2012 (ovviamente non in Cina).
Torniamo però a “sogno”, il carattere nazionale: il prossimo Presidente cinese, Xi Jinping, ha da poco pronunciato un discorso in cui ha parlato proprio del “sogno cinese”, definito come il “compiersi della grande rinascita della nazione cinese”. È il primo spiraglio che si apre sui pensieri del nuovo leader, ed è stato interpretato con una certa inquietudine dalla maggior parte degli osservatori, che temono negli anni a venire un accrescersi ulteriore del nazionalismo cinese.
Fatto sta che moltissimi utilizzatori dei siti di microblogging chiamati weibo hanno cominciato a discutere del loro “sogno cinese”. I più ri-twittati sognano la fine del nepotismo e della corruzione – ma molti si accontenterebbero di “latte in polvere per bambini sicuro” e meno inquinamento. Altri, scavalcando il muro di censura ed esprimendosi sui social media internazionali come Twitter, hanno riproposto un famosissimo motivo di Hong Kong, che viene cantato ogni anno alla veglia per l’anniversario di Tian’anmen, chiamato proprio “Il sogno cinese” e che ne è divenuto un po’ l’inno. Dice che il sogno di tutti i cinesi sarebbe la democrazia. Ma di sicuro la Commissione linguistica non pensava alla canzone – e il sogno di cui ci parla è piuttosto quello di affermazione nazionale espresso anche da Xi Jinping.
Quello che è veramente curioso, però, è che il sogno in questione, nella definizione data dalla Commissione che seleziona il carattere dell’anno, sarebbe già stato coronato: resta da vedere che cosa viene dopo, per i cinesi, ma anche per noi – che abbiamo sogni ancora tutti da realizzare e da sognare.

l’Unità 21.12.12
Israele, al via mega progetto sulle colonie
L’Ue: «Scelta gravissima»
di U.D.G.


Dopo il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, anche l’Unione Europea ha preso posizione contro la prevista realizzazione da parte di Israele di nuovi insediamenti per i coloni a Gerusalemme est e in Cisgiordania: in un comunicato Catherine Ashton, alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune dei Ventisette, sottolinea di «opporsi con forza a una tale espansione senza precedenti degli insediamenti» intorno alla Città Santa, che definisce «estremamente allarmante» perché rischia di vanificare definitivamente il processo di pace con l’Autorità Nazionale Palestinese. «L’Unione», scrive infatti il capo della diplomazia comunitaria, «si oppone in particolare all’attuazione di piani che espongono a gravi rischi le prospettive di una soluzione negoziata del conflitto israelo-palestinese, mettendo a repentaglio la possibilità stessa di uno Stato palestinese coeso e fattibile, e di Gerusalemme come la capitale futura di due Stati. Alla luce del proprio essenziale obiettivo di realizzare la soluzione dei due Stati», prosegue lady Ashton, «l’Unione seguirà con la massima attenzione l’evolversi della situazione e le sue più ampie implicazioni, agendo di conseguenza».
Nella nota, «Mrs Pesc» sottolinea tra l’altro che i nuovi insediamenti di fatto taglierebbero completamente i collegamenti tra Betlemme e Gerusalemme. Durissima anche la reazione di Parigi: «Il rilancio senza precedenti dei progetti di colonizzazione è una provocazione che danneggia in primis la fiducia necessaria alla ripresa dei negoziati e ci porta a interrogarci sull’impegno di Israele a favore della soluzione dei due Stati», dichiara il portavoce del Quai d’Orsay, Philippe Lalliot.
Israele sarà «responsabile» della costruzione dei nuovi insediamenti programmati a Gerusalemme Est e in Cisgiordania: questa la prima reazione dell’Anp all’approvazione da parte del governo israeliano di un progetto per la costruzione di altre 523 abitazioni che andranno a costituire «una nuova città a Gush Etzion». «I coloni e il governo israeliani dovrebbero ben sapere che saranno chiamati a risponderne», dice Nabil Abu Rudeina, portavoce e consigliere del presidente dell’Anp, Abu Mazen, ricordando come lo status palestinese di Paese osservatore non membro dell’Onu permette di ricorrere davanti alle istanze giuridiche internazionali.

Corriere 21.12.12
L'«enigma» Nancy Lanza
Vittima o vero carnefice?
La madre del killer e la sua mania delle armi
di Maria Laura Rodotà

qui

Corriere 21.12.12
«I nostri massacri in Algeria» Arriva il mea culpa di Hollande
Storico discorso alle Camere riunite dell'ex colonia
di Stefano Montefiori


PARIGI — Nel più puro stile Hollande, le cui parole d'ordine sono da sempre «trovare la sintesi» e «rassembler» (unire) con il perenne rischio di accontentare tutti e nessuno, il presidente francese nel solenne discorso al Parlamento di Algeri ha riconosciuto ieri «le sofferenze che la colonizzazione ha inflitto all'Algeria», ma senza arrivare a pronunciare le scuse della Francia che molti ex combattenti, oggi deputati algerini, seduti davanti a lui, si attendevano.
Hollande preparava questa visita da molto tempo, i suoi ministri più importanti — da quello dell'Interno Manuel Valls al responsabile del Quai d'Orsay Laurent Fabius — lo hanno preceduto nei mesi scorsi per preparare il terreno, e anche le dimensioni della delegazione — oltre ottanta persone — stavano ieri a testimoniare quanto il presidente tenesse a questo appuntamento. Al seguito di Hollande c'erano tra gli altri l'attore di origine algerina Kad Merad, protagonista di «Giù al Nord», e lo storico francese nato a Constantine Benjamin Stora, che ha dedicato una vita di studi all'Algeria e al doloroso processo di decolonizzazione. Un modo per mostrare, simbolicamente, la vicinanza tra i due Paesi e il desiderio di non nascondere la verità.
Ma il presidente aveva avvisato, «mi occuperò soprattutto del futuro delle relazioni tra Francia e Algeria più che del passato», e per questo se il suo viaggio sia stato un successo lo capiremo solo tra qualche tempo. Quanto all'aspetto memoriale, in molti lo aspettavano al varco, soprattutto dopo il discorso del Vel d'Hiv del luglio scorso, quando si era cosparso il capo di cenere a nome di tutto il Paese per la retata degli ebrei del 1942 rivendicando, suo malgrado, «un crimine commesso in Francia dalla Francia».
Avrebbe ripetuto lo stesso «mea culpa nazionale» pure ad Algeri? Lo temevano in molti, per esempio il filosofo Pascal Bruckner autore già trent'anni fa del Singhiozzo dell'uomo bianco nel quale denunciava l'ossessione occidentale del pentimento nei confronti del Terzo Mondo. Pochi giorni fa Bruckner sottolineava che «siamo solo discendenti di persone che hanno commesso crimini, non possiamo pentirci perché non abbiamo fatto nulla»; e pure lo scrittore algerino ma filo-occidentale Boualem Sansal notava che «il pentimento e la richiesta di perdono sono nozioni cattoliche che possono andare bene per le persone, non per gli Stati, e poi non bisogna fare altre concessioni a un regime antidemocratico come quello algerino».
Hollande è sembrato avere ascoltato le loro obiezioni, mentre parlava dalla tribuna del Parlamento algerino. «Voglio riconoscere qui le sofferenze che la colonizzazione ha inflitto al popolo algerino. Nel corso di 132 anni, l'Algeria è stata sottoposta a un sistema profondamento ingiusto e brutale». Ma le parole «scuse» o «pentimento» non sono state pronunciate. Hollande ha evocato il massacro di Sétif dell'8 maggio 1945 — «il giorno stesso in cui nel mondo trionfavano la libertà e la giustizia, la Francia veniva meno ai suoi valori universali» — e pure quelli di Guelma e di Kherrata, «radicati nella memoria e nella coscienza degli algerini».
Ma già Chirac nel 2005 aveva espresso rammarico per Sétif, e Nicolas Sarkozy due anni dopo definì il sistema coloniale «profondamente ingiusto, contrario ai valori della Repubblica». Niente di particolarmente nuovo, quindi, nelle parole di Hollande, quanto a quel che è stato.
Quanto al futuro, invece, François Hollande e il presidente algerino Abdelaziz Bouteflika hanno assistito assieme alla firma dell'accordo che prevede la costruzione, alla periferia di Orano, di una fabbrica Renault che dovrebbe produrre a partire dal 2014 almeno 25 mila auto all'anno. Hollande poi ha rilanciato l'«Unione del mediterraneo» ideata e naufragata sotto la presidenza Sarkozy, ha proposto un programma di studi per i ragazzi del Mediterraneo sul modello dell'Erasmus nell'Unione europea, e promesso di facilitare la concessione di visti di ingresso per i giovani algerini in Francia.
Riconosciute le sofferenze, Hollande ha cercato di andare oltre. Per esempio visitando la «Brasserie des Facultés», il bar degli studenti della Facoltà di Algeri dove studiò nel 1978, o ricordando che la Francia è il primo investitore straniero in Algeria, e che le imprese francesi danno lavoro a 100 mila lavoratori algerini. In gioco ci sono gli scambi commerciali tra i due Paesi, la nuova proiezione della Francia nel Nordafrica post-primavere arabe (che non hanno toccato l'Algeria) e la cooperazione politica e militare in vista di un intervento contro gli islamisti del Mali.

l’Unità 21.12.12
Bosone superstar
La scoperta più importante dell’anno secondo la top ten di «Science»
Tra le dieci indicate dalla rivista americana ci sono la ricostruzione, da un frammento, del genoma dell’uomo di Denisova e il sistema di briglie inventato dagli ingegneri della Nasa per far atterrare su Marte il rover «Curiosity»
di Cristiana Pulcinelli


IL BOSONE DI HIGGS, cos’altro? Cos’altro poteva aggiudicarsi il titolo di scoperta fondamentale del 2012? È questa elusiva particella, ipotizzata dai fisici quarant’anni fa e da allora cercata in tutti i modi, ad aggiudicarsi il primo posto nella classifica delle scoperte scientifiche più importanti che la rivista americana Science compila ogni anno a dicembre. L’esistenza del Bosone è stata accertata infatti nell’anno che sta per finire, precisamente il 4 luglio scorso, quando un gruppo di ricercatori che lavorano con Lhc, il più grande acceleratore di particelle del mondo, ha dato l’annuncio: l’abbiamo visto (o meglio, abbiamo visto le tracce di una nuova particella compatibile con il bosone di Higgs che stavamo cercando. Tanto per essere cauti).
La scoperta ha messo al suo posto l’ultimo pezzo del puzzle che i fisici chiamano «Modello standard delle particelle». È la teoria che spiega come le particelle interagiscono fra loro attraverso la forza elettromagnetica, la forza nucleare debole e quella nucleare forte per creare la materia dell’universo. La teoria funzionava perfettamente, a parte un piccolo problema: la massa. «Assegnare semplicemente una massa alle particelle faceva andare la teoria in tilt dal punto di vista matematico spiega Adrian Cho su Science così, si pensò che la massa dovesse emergere in qualche modo dalle interazioni tra le particelle stesse». In aiuto arrivò l’ipotesi del bosone di Higgs. I fisici hanno immaginato che tutto lo spazio-tempo sia permeato da un campo, il campo di Higgs, simile a un campo elettromagnetico. Le particelle che si muovono nello spazio-tempo interagiscono con il campo di Higgs per ottenere energia e, quindi, massa (secondo la famosa formula di Einstein per cui massa ed energia sono equivalenti). «Come un campo elettrico consiste di particelle chiamate fotoni, così il campo di Higgs consiste di particelle chiamate bosoni di Higgs che si muovono nel vuoto», continua Cho. Alla fine i fisici sono riusciti a portare alla luce la particella finora solo immaginata.
Naturalmente la scoperta non è stata semplice né economica. Migliaia di ricercatori hanno lavorato per mesi attorno a Lhc, una macchina costata 5,5 miliardi di dollari che si trova presso il Cern di Ginevra. Ma i risultati sono stati sorprendenti: hanno catturato l’attenzione di tutti i mass media del mondo e portato la fisica delle particelle nelle case. Quello che ancora non è chiaro, scrive Science, è dove la scoperta del bosone porterà la fisica delle particelle in futuro.
Accanto alla scoperta della particella «speciale», ce ne sono altre a segnare l’anno che si sta per concludere. Science ne individua nove.
Il genoma dei Denisoviani. Una nuova tecnica ha permesso di sequenziare il genoma completo dell’uomo di Denisova, un ominide vissuto contemporaneamente a Neanderthal e Homo sapiens, utilizzando soltanto 10 milligrammi di materiale: il frammento di un osso del mignolo. L’analisi del Dna ha rivelato che il frammento apparteneva a una ragazza che aveva capelli scuri, occhi scuri e pelle scure e che è morta in Siberia tra 74.000 e 82.000 anni fa.
Uova da cellule staminali. Ricercatori giapponesi hanno mostrato che cellule staminali embrionali di topo possono essere indotte a trasformarsi in cellule uovo vitali. Le cellule ottenute, fertilizzate in laboratorio, hanno infatti dato vita a topolini. Il metodo richiede ancora madri surrogate (le uova si devono sviluppare nell’utero delle femmine che le ospitano), ma è uno strumento utile per studiare i fattori che influenzano la fertilità e lo sviluppo delle cellule uovo.

Curiosity. Benché Curiosity fosse troppo pesante per atterrare, gli ingegneri della Nasa hanno trovato un modo creativo di portare il rover sulla superficie di Marte. Hanno infatti creato un sistema di atterraggio chiamato Sky Crane che, grazie a tre briglie, ha poggiato delicatamente la macchina al suolo. In una prossima missione si pensa di recuperare i campioni che sta raccogliendo.
Il laser a raggi X e le proteine. Un laser a raggi X è stato utilizzato per determinare la struttura di un enzima richiesto da Trypanosoma brucei, il parassita che causa la malattia del sonno. La ricerca mostra le potenzialità del laser a raggi X nel decifrare le proteine.
Ingegneria genetica di precisione. Un nuovo strumento chiamato Talens (transcription activator-like effector nucleases) ha permesso ai ricercatori di alterare o inattivare specifici geni in alcuni animali e anche in cellule di pazienti con determinate malattie. Si tratta di una proteina che taglia il Dna in punti specifici. Una tecnica che sembra efficiente come altre tecniche di ingegneria genetica e meno costosa.

I fermioni di Majorana. Sono particelle strane che agiscono anche come le proprie antiparticelle. Della loro esistenza si è discusso per settant’anni, quest’anno un team di fisici e chimici olandesi ha fornito la prima prova della loro esistenza nella forma di quasi-particelle: gruppi di elettroni che interagiscono tra loro e che si comportano come una singola particella. Gli scienziati ritengono che qubits fatti di queste particelle sarebbero più efficiente nell’immagazzinare e processare i dati rispetto ai bit usati normalmente nei computer digitali.
Il progetto Encode. Uno studio lungo oltre dieci anni e i cui risultati sono stati pubblicati nel 2012 ha dimostrato che il genoma umano è più «funzionale» di quanto si pensasse. Solo il 2% del genoma codifica per proteine, mentre circa l’80% è attivo e utile, ad esempio, per accendere e spegnere i geni.

Interfaccia cervello-macchina. Un gruppo di ricercatori della Pennsylvania ha mostrato che una paziente paralizzata di 52 anni è stata in grado di muovere un arto meccanico con la mente e eseguire complessi movimenti in tre dimensioni. Per ora la tecnologia è sperimentale e molto costosa, ma si spera di poterla utilizzare per aiutare pazienti paralizzati. Neutrino. Centinaia di ricercatori che lavorano al Daya Bay Reactor Neutrino Experiment in Cina hanno scoperto l’ultimo parametro di un modello che descrive come i neutrini si trasformano da un tipo (o «sapore» come dicono i fisici) a un altro quando viaggiano quasi alla velocità della luce. Il risultato suggerisce che negli anni a venire la fisica del neutrino sarà molto ricca e neutrino e forse un giorno potrà spiegare perché l’universo contenga così tanta materia e così poca antimateria.

Corriere 21.12.12
Quel Bosone che ha Cambiato la Scienza
di Anna Meldolesi


Stavolta la rivista Science non ha avuto dubbi e nemmeno noi: la scoperta del 2012 è il bosone di Higgs. Il riconoscimento, anzi, gli va stretto. La particella uscita dal cilindro del Cern di Ginevra lo scorso luglio, dopo una latitanza durata decenni, può tranquillamente ambire al titolo di scoperta del decennio, al Nobel e ad altro ancora. Perché ci cambierà la vita? No, perché ha cambiato la scienza. Oggi abbiamo bisogno dell'acceleratore Lhc (Large Hadron Collider), che è costato miliardi ed è lungo chilometri. Ma seppure un giorno inventassimo un fantascientifico generatore di Higgs tascabile, dei nostri bosoni non sapremmo che farcene. Decadrebbero in meno di uno zeptosecondo. La ricerca scientifica è sempre un ottimo investimento, ma sono lontani i tempi dell'elettricità di Franklin o delle onde radio di Hertz, quando a una grande scoperta corrispondevano quasi automaticamente grandi applicazioni. Adesso creiamo particelle che nel nostro ambiente ordinario semplicemente non esistono e probabilmente non vi troveranno mai posto. Eppure il bosone di Higgs merita tutta l'attenzione del mondo. Non sarà la particella di Dio, come ci siamo abituati a chiamarlo con una suggestiva metafora che ha infastidito credenti e non credenti. Ma si può ben dire che è «la particella ai confini dell'universo», come recita il titolo del bel libro appena pubblicato in America da Sean Carroll. Il bosone di Higgs, infatti, ci conduce proprio là dove corre la frontiera più remota della conoscenza. È l'ultimo mattone necessario per completare la struttura portante del vecchio e glorioso edificio teorico della fisica delle particelle (Modello Standard). E (forse) il primo mattone della nuova fisica prossima ventura. In quel «forse» è racchiusa una pesante responsabilità per Higgs, il cui campo conferisce la massa ad elettroni e quark, rendendo possibile la formazione di atomi e molecole. In definitiva consentendo la vita. Averlo trovato è una vittoria dell'intelletto umano, anche se qualcuno in cuor suo spera che il bosone si comporti in modo anomalo e rilanci la sfida: «Mi avete acciuffato, ma non mi avete ancora compreso!». C'è chi immagina due bosoni di Higgs diversi, anziché uno. Così favoleggiano in questi giorni alcuni blog scientifici, sulla base dei diversi valori di energia registrati nei due esperimenti fratelli del Cern (Cms e Atlas, quest'ultimo coordinato dalla nostra Fabiola Gianotti, fresca contendente per il titolo di persona dell'anno secondo Time). La supersimmetria ne prevede addirittura cinque, di bosoni di Higgs. Di sicuro la natura non è ancora nuda davanti ai nostri occhi. La gravità non ha smesso di essere un osso duro per i fisici teorici e la materia ordinaria costituisce solo una frazione dell'universo. Il bosone di Higgs rappresenta il portale tra il mondo che conosciamo e altri mondi nascosti, con materia oscura, supersimmetrie, dimensioni extra e via fantasticando. Per esplorarli e mapparli abbiamo bisogno di dati, e per procurarceli dovremo costruire acceleratori via via più potenti. I costi sono alti, le ricadute immediate scarseggiano, la minaccia della guerra fredda che in passato ha spinto la corsa della fisica è ormai un ricordo sbiadito. I bambini fanno domande su domande per il solo gusto di capire come funzionano le cose. Se noi adulti smettiamo di farcele, o pretendiamo contropartite sicure, allora il Modello Standard potrebbe essere tutto ciò che la natura è disposta a rivelare di sé. «La scoperta del bosone di Higgs è una pietra miliare», scrive Adrian Cho su Science. «Ne seguiranno altre, anch'esse epocali?».

l’Unità 21.12.12
Quattro madri chiuse in manicomio
«Maternity blues» L’esordio alla regia di Elena Arvigo una piacevole sorpresa nonostane il tema: l’infanticidio
di Francesca De Sanctis


NON C’È ASSOLUZIONE. E NEPPURE CONDANNA PER LE QUATTRO MADRI ASSASSINE CHE ELENA ARVIGO attrice al suo esordio alla regia mette in scena nel suo emozionante spettacolo: Maternity blues, ancora in scena fino a oggi presso il teatro Argot di Roma. Non può esserci assoluzione, come non può esserci condanna, perché chi può dare una risposta a certe domande? Ma qualcosa dentro smuove questo spettacolo così ben interpretato dalle quattro attrici: la stessa Elena Arvigo con Sara Zoia, Elodie Treccani, Gilda Lapardaja. Dal libro di Grazia Verasani, a cui si è ispirato anche il film di Fabrizio Cattani, vanno in scena quattro moderne Medee. Stavolta siamo in un ospedale psichiatrico giudiziario. In una stessa cella convivono quattro madri che hanno ucciso i loro figli: la dolce Marga, ultima arrivata; l’aggressiva Eloisa, irruente e “anarchica”; la giovanissima Rina, che porta nel cuore le sue montagne, e Vincenza, la più riflessiva e responsabile, che in realtà scopriremo essere la più debole...
Le loro storie vengono a galla un po’ alla volta, a piccoli pezzi, così come sono ormai ridotte le loro vite. Confessioni, confidenze, momenti di sconforto e di piccole gioie, tutto viene condiviso in questa cella dove nascono amicizie, anche fra donne che sembrano essere così distanti fra loro. Il dolore unisce, ma non sempre cura. Quel sentimento di amicizia sembra essere l’unica molla capace di rendere accettabile la vita di queste donne, cariche comunque di sensi di colpa.
«Dal suicidio come atto di volontà e scelta scendiamo ad affrontare un tema altrettanto scabroso e intollerabile: l’infanticidio spiega nelle sue note di regia Elena Arvigo La riflessione è sull’istinto materno e sul bisogno rassicurante, per chi osserva, di creare mostri per non fermarsi a guardare».
UN TEATRO PERICOLOSO
Scava, infatti, in queste zone buie. In fondo anche il teatro può aiutare a comprendere. «Cerchiamo di fare un teatro che ponga delle domande non che dia delle risposte prosegue . Un teatro pericoloso, pericoloso nel senso etimologico della parola: dal latino periculum, ossia esperimento, rischio. Un teatro che rischi di trovare un po’ di luce e speranza lì dove sembra non esserci che tenebra». Rischiare, sì. Sempre rischiare in teatro. Solo chi ha il coraggio di farlo, forse, riesce a lasciare il segno.
(per maggior informazioni www.argotstudio. it, oggi l’ultima replica)

giovedì 20 dicembre 2012

l’Unità 20.12.12
Bersani convince i vertici dell’Europa
Il segretario del Pd a colloquio a Bruxelles con Barroso, Van Rompuy e Juncker: «Ecco le nostre riforme»
Il presidente dell’Eurogruppo: incontro molto positivo
di Marco Mongiello


BRUXELLES Berlusconi non vincerà. Dopo le elezioni l'Italia «resterà saldamente nella prospettiva europea», non tornerà indietro sulle riforme avviate dal Governo Monti e il Partito Democratico farà da argine all'ondata di populismo anti-Ue.
È questo il messaggio che il segretario del Pd Pier Luigi Bersani è venuto a portare di persona ai vertici europei a Bruxelles. Un tour iniziato ieri mattina con l'incontro con il presidente del Consiglio Ue Herman Van Rompuy e continuato in giornata con il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso e con il presidente dell'Eurogruppo e premier lussemburghese Jean-Claude Juncker.
In un'Europa a maggioranza conservatrice Mario Monti era considerato di fatto l'unica garanzia contro la deriva economica del Paese che rischiava di travolgere l'eurozona. Con le sue dimissioni, e con il ritorno in campo di Berlusconi, a Bruxelles sono tornati i timori per il caso Italia. La settimana scorsa è stata questa paura, oltre ai pregiudizi e alle poche conoscenze anche personali a sinistra, che ha spinto i leader conservatori del Partito popolare europeo (Ppe) a fare pressioni su Monti affinché si candidi alle elezioni.
«Chi ha preoccupazioni per l'Italia si rivolga a noi», ha detto Bersani. Il Partito Democratico, ha spiegato, è sopra al 30% dei consensi ed è di gran lunga il primo partito del Paese e basta «uno sguardo sul paesaggio italiano per vedere chi può avere più credibilità in Europa».
Bersani ha spiegato a Van Rompuy di «non voler smantellare l'agenda Monti», ma sull'europeismo del Pd non c'è stato bisogno di rassicurazioni, ha riferito ai giornalisti: «La gente ci conosce. Noi abbiamo portato l'Italia nell'euro, siamo quelli lì» e “sulla volontà riformatrice e di tenere i conti sotto controllo non si può dubitare”.
Sulle riforme del Governo Monti nessuna marcia indietro quindi anche se, ha precisato il leader del Pd, «qualche verifica dell'implementazione e qualche correzione degli effetti ci vorrà». L'Imu, ad esempio, il Pd l'aveva proposta in modo un po' diverso, con «un alleggerimento e con l'affiancamento di un'imposta personale sui grandi patrimoni». Oggi però chi come Berlusconi va in giro a dire di eliminarla «racconta favole e le favole ci hanno rovinato», ha detto Bersani.
A Bruxelles, dove questa primavera molti si erano spaventati per la campagna elettorale del presidente socialista francese Francois Hollande, che chiedeva di modificare il nuovo Patto di Bilancio, Bersani ha spiegato la sua impostazione. «Ho garantito a Barroso l'assoluto impegno a mantenere i patti sottoscritti», ha riferito, aggiungendo però che «c'è l'esigenza di dedicare particolare attenzione ai temi del lavoro e della crescita».
Insomma non si tratta di togliere qualcosa alle politiche europee portate avanti fino ad ora, ma di aggiungere quello che è mancato. Un concetto ripetuto anche al presidente dell'Eurogruppo Juncker: dall'Europa sono arrivate «risposte parziali» sulla stabilità, ora «dobbiamo dare segnali inequivocabili sulla crescita».
Con il premier lussemburghese, che in passato si è opposto più volte alla politica di solo rigore imposta dalla Cancelliera tedesca Angela Merkel, il feeling è stato totale. «Visto che con Juncker si possono fare battute ho detto: dì al mondo che Berlusconi non vincerà», ha raccontato Bersani. Un invito a nozze per il buontempone lussemburghese. Nel 2004 il video della sua mano che dava irriverenti pacche sulla pelata di Berlusconi durante un Consiglio europeo aveva spopolato su internet.
«Credo che Bersani sia un uomo intelligente e onesto, con le migliori intenzioni per l'Italia e per l'Europa», ha detto il presidente dell'Eurogruppo al termine del faccia a faccia, «sono rimasto favorevolmente colpito dal nostro incontro».
NESSUNO CHIEDE DI MONTI
Nessuno dei tre politici dell'Ue ha sollevato la questione dell'eventuale partecipazione di Monti in un esecutivo guidato dal Pd. «I leader europei sanno come ci si comporta: ognuno decide a casa propria», ha spiegato Bersani, che comunque ha ribadito di essere interessato «ad avere un rapporto interlocutorio» con Monti «qualsiasi decisione prenda».
Sull’ eventuale candidatura del Professore alle elezioni, il leader democratico ha ricordato che il Pd ha sempre sostenuto «molte lealmente» il premier e «i pensionati li ho sempre incontrati io, non li ho mai mandati da Monti».
Nell'ipotesi che il premier scenda in campo quindi il segretario del Pd ha assicurato: «In ragione di quella lealtà noi non faremo campagna elettorale contro nessuno» ma, ha ammonito, così «si mettono in moto delle dinamiche che non sono tutte nelle nostre mani».

La Stampa 20.12.12
Bersani: l’Italia con noi al governo sarà europeista
A Van Rompuy, Barroso e Juncker: “Ci conoscete, siamo quelli dell’euro, di Prodi e Padoa Schioppa”
di Marco Zatterin


La visita Pierluigi Bersani ieri a Bruxelles ha incontrato anche José Manuel Barroso presidente della Commissione Come Monti, più di Monti. Pierluigi Bersani vola a Bruxelles per il giro delle tre chiese a dodici stelle e promette all’Europa «continuità e spinta ulteriore», assicurando la determinazione di «mantenere gli impegni presi e di arricchirli». A Herman Van Rompuy (Consiglio), José Manuel Barroso (Commissione) e Jean-Claude Juncker (Eurogruppo) dice che «non c’è ragione di essere preoccupati». E che se il Pd governerà l’Italia, lo farà sulla strada segnata dal Professore, puntando semmai su «qualche modifica che faciliti gli investimenti e la ripresa dell’occupazione». Il rigore non verrà meno. Si proverà solo a compensarlo con lo sviluppo.
«Non chiedono garanzie, non l’hanno messa giù così», concede il segretario del partito democratico. Eppure a Bruxelles il rischio di un’instabilità politica italiana che indebolisca l’Eurozona è un dato di fatto alimentato dal ritorno di Berlusconi e dall’addio imminente di Monti, sul cui ruolo di fucina di credibilità per il Bel Paese concordano tutti nella capitale. Bersani non se ne cura. «Ci conoscono puntualizza -. Siamo quelli che hanno portato l’Italia nell’euro, quelli di Prodi e Padoa-Schioppa: sulla nostra volontà europeista non ci possono essere dubbi». Semmai «sono allarmati per l’ondata populista ed euroscettica». In questo caso, «faranno meglio a rivolgersi a noi».
L’Europa ha voglia di fidarsi. Come i mercati, è disposta a passare sul colore politico della coalizione purché non ci sia instabilità. I tre interlocutori che hanno accolto Bersani sono tutti soci del club popolare, eppure Juncker, premier lussemburghese e capo di Eurolandia(sino a gennaio), alla fine ha detto che il segretario del Pd gli piace «perché è una persona intelligente, onesta ed ha le migliori intenzioni per l’Italia e l’eurozona». «C’è un ottimo clima attorno a noi», ha riassunto Lapo Pistelli, responsabile Esteri del partito.
Bersani non ha troppa scelta. L’Italia col debito che corre verso il 126% del Pil non può mostrare incertezze sulla volontà di risanare i conti. Il candidato premier “se vinciamo governo io, non vedo chi altro dovrebbe farlo” è costretto a giocare una partita insidiosa. Non può tradire il consenso dato a Monti e infatti dice «lo abbiamo sostenuto lealmente, anche in condizioni difficili, visto che i pensionati li ho incontrati io e non li ho mandati da lui». Però deve tenere le distanze da chi può diventare un rivale politico. Con rammarico, si direbbe. «Una terzietà ha detto mi sembrava la cosa più utile».
Per non sbagliarsi Bersani torna a duellare col Cavaliere. «Visto che con Juncker si può scherzare ha confessato ai cronisti -, ho fatto una battuta: dì al mondo che Berlusconi non vincerà». In cambio ha ottenuto «un sorrisino lussemburghese» nel quale, potrebbe annidarsi anche la convinzione del leader Pd secondo cui «se cade l’Italia cade l’euro», spunto per dire che «ha fatto bene Berlusconi a stipulare il patto di risanamento con l’Europa nel 2011». Monti «ha dovuto recepire cose già decise». Imu compresa? «Noi avevamo una proposta differente», ma ora bisogna rifuggire ai facili populismi. «Dove li trovavamo 20 miliardi? si è chiesto il capo del Pd -. Non raccontiamoci favole, sono le favole che ci hanno rovinato». Ancora una volta non c’era alternativa. Ora però la gente si aspetta meno rigore e più sviluppo. «Me lo aspetto anch’io chiude Bersani -. Dobbiamo trovare spazio per il lavoro e gli investimenti». In casa e con l’Europa.

Repubblica 20.12.12
Il leader del Pd “Conflitto d’interessi la nostra prima legge”
“Non correrò contro Monti, ma ora cambia tutto”
intervista di Giovanna Casadio


BRUXELLES — «Per prima cosa bisognerà fare una legge sull’antitrust, cioè contro le concentrazioni, e una legge severa sulle incompatibilità: sono i due punti di quelle che chiamiamo norme sul conflitto di interessi». Alle 6,30 del mattino, sull’aereo che lo porta a Bruxelles per incontrare, oltre a Barroso, i presidenti del Consiglio europeo Herman Van Rompuy e dell'eurogruppo, Jean Claude Juncker tutti leader del Ppe e fan di Monti Bersani mostra lo sconcerto per «la manovra abbastanza miserevole della destra», utile solo «a guadagnare qualche giorno di campagna elettorale» e all’invasione televisiva di Berlusconi. Chiede che la data delle elezioni resti il 17 febbraio. Parla di Monti. Consulta gli appunti chiusi in una cartelletta blu: sono i compiti sull’Europa, e le parole più usate sono «continuità» e «affidabilità ». Dice che «se il centrosinistra vincerà, è normale che sia io il premier», tornando da Bruxelles a Roma, si sfoga. E lancia qualche stilettata contro Mario Monti.
Segretario Bersani, se Monti si candida, come pensate di potere collaborare poi con lui e con i centristi, essendovi contesi Palazzo Chigi?
«È un problema loro, io ho detto che voglio essere amichevole. I progressisti sono aperti a posizioni moderate, dicano loro cosa vogliono fare. Io ho i Progressisti, abbiamo fatto le primarie, ho la proposta di programma, aspettiamo di capire come pensano di rivolgersi al Pd. Non chiedetelo a me. Cosa faranno in campagna elettorale, mi daranno del comunista, ci metteranno le dita negli occhi? Mica può essere sempre un problema mio».
Immaginava di ritrovarsi Monti come competitor?
«Non ho mai dato niente per scontato, né escluso nulla. Sul piano politico ho detto ai Progressisti che dovevamo aprirci verso forze europeiste anche di Centro, vedevo che si arrivava lì. Non farò campagna elettorale contro Monti, ma quando il paesaggio cambia, cambiano le dinamiche. In campagna elettorale le dinamiche che scattano sono altre. Se dovessi essere io il premier ipotesi possibile ma da molti negata parlerei subito con Monti».
È venuto a convincere gli amici di Monti che è affidabile anche lei e non solo il Professore?
«Si apre una fase di transizione ed era giusto andare a dare elementi di continuità. Sanno benissimo che ho lavorato con Ciampi, con Prodi, con Padoa Schioppa. Nessuno può dubitare della nostra volontà riformatrice e di tenere i conti sotto controllo. Gli impegni italiani saranno rispettati. Siamo per un vincolo reciproco in termini fiscali, ma occorre praticare politiche di crescita. Questo avvitamento tra austerità e recessione non può persistere. Penso a una road map ragionevole. Sono per l’autorizzazione preventiva al bilancio, ma non affidata a un commissario, bensì a una procedura certa che dia garanzia di partecipazione. Noi comunque non smonteremo le riforme di Monti, le implementeremo. Manterremo gli impegni, arricchendoli».
Ha offerto garanzie anche per Vendola?
«Vendola è un grande europeista, vuole gli Stati Uniti d’Europa. L’argomento Vendola è diventato un pretesto polemico».
Cosa farà un governo di centrosinistra sull’Imu, cavallo di campagna elettorale di Berlusconi?
«La alleggeriremo sulla prima casa e per i redditi più deboli, mettendo un’imposta individuale sui grandi patrimoni: se il demagogo dice che la abolisce, ci spieghi dove prende i soldi e non racconti favole».
Ha rassicurato i vertici Ue sull’approvazione della legge si stabilità?
«La legge di stabilità arriverà in porto in modo da garantire gli obiettivi. Questi traccheggi del Pdl sono indecorosi, inaccettabili, incommentabili. Usano la tattica parlamentare a fini dilatori, per interessi di partito».
Quale vorrebbe fosse la data delle elezioni?
«L'intenzione nostra resta di chiudere in settimana la legge di stabilità. Il 17 è la prima data utile, resta quella lì. Comunque decide Napolitano.».
Junker l’ha lodata («Bersani è intelligente e onesto, ha le migliori intenzioni per l’Europa»). Ma chi preferisce alla fine tra lei e Monti, gliel’ha detto?
«Juncker è una persona concreta e competente, peccato che tra due mesi lasci l'incarico all’eurogruppo. Ha una grande conoscenza del nostro paese, mi ha chiesto di Grillo».
E di Berlusconi?
«No, però mi sembra che lo conosca bene».
Soddisfatto di come sono andati gli incontri?
«Qualcuno mi ha domandato: quanto prenderà il centrosinistra. Io ho risposto:  arriveremo primi».
Anche in Senato?
«Dappertutto».

Repubblica 20.12.12
Quello che manca al programma di Bersani
di Alessandro De Nicola


“Il coraggio di cambiare” è stato lo slogan della campagna per le primarie del centrosinistra di Pierluigi Bersani ed è il titolo del documento programmatico ove il segretario del Pd espone, tra le altre, le sue idee economiche.
La prima lezione che Bersani sembra aver imparato è che doveva evitare il ridicolo delle 252 pagine del programma dell’Unione guidata da Prodi nel 2006. Si trattava di un polpettone di difficile comprensione che conteneva proposte a volte contraddittorie se non proprio amene. Nel 2012, invece, ci siamo trovati di fronte a 10 proposte di una paginetta ciascuna, scritte in modo chiaro e addobbate cromaticamente dal bianco, rosso e verde del Tricolore.
La levità tende ad essere il tratto predominante del leader del centrosinistra: le pagine non sono numerate, ad esempio, anzi, per non sbagliare non c’è un solo numero in tutto il programma. La spesa pubblica verrà diminuita o aumentata da Bersani? Non si sa.
Ma andiamo con ordine. Nella scheda sulla democrazia vengono affrontati temi molto importanti anche dal punto di vista economico. Si legge infatti: «Siamo per norme stringenti in materia di conflitto d’interessi, legislazione antitrust e libertà d’informazione, falso in bilancio, secondo quei principi liberali estranei alla destra italiana». Bene. Dal mio punto di vista, un principio liberale prevede che non ci sia interferenza dello Stato nei mezzi di informazione (ricordate la famosa domanda retorica di von Mises? «A cosa servirebbe la libertà di stampa se tutte le tipografie fossero di proprietà dello Stato?»). Perciò la conseguenza dovrebbe essere l’immediata privatizzazione della Rai e la cessazione di ogni sussidio ai media, soprattutto agli organi di partito. Vuole questo il Pd?
Sul fisco si afferma che verrà alleggerito il prelievo sul lavoro e sull’impresa, lottando contro l’evasione e spostando il peso del fisco «sulla rendita e sui grandi patrimoni finanziari e immobiliari» (ecco la famosa patrimoniale). Peccato che manchi l’elemento più importante del discorso: col governo Bersani la pressione fiscale aumenterà o diminuirà? Posso sopportare 1000 euro di Imu in più se pago 1500 euro in meno di Irpef, non il contrario.
Interessante è anche la promessa di contrastare la precarietà, «cambiando le norme e rovesciando le politiche messe in atto dalla destra nell’ultimo decennio». Orbene, la normativa sul lavoro è stata appena cambiata dal governo Monti, rendendo più rigide le norme in entrata (bloccando così le assunzioni come ormai ammette lo stesso ministro Fornero, che aveva risposto puntuta alle critiche espresse dalle colonne di questo giornale) e lievemente più flessibili quelle in uscita. Il Pd proporrà dunque ancor più lacciuoli all’ingresso e una marcia indietro sulla flebile riforma dell’articolo 18?
Su scuola e università, l’unica indicazione che si ricava dalle 10 paginette è che bisogna metterci più soldi (e siccome è una delle poche informazioni sulla spesa pubblica, si capisce che per Bersani questa dovrà aumentare). Come farlo non è dato saperlo e comunque non c’è una riga su autonomia di istituti e atenei né un accenno, nemmeno di sfuggita, alla parolina «merito». I sindacati della scuola possono dormire sonni tranquilli, i docenti bravi no.
Un paragrafo è dedicato ai «beni comuni» e l’incipit è abbastanza ambiguo: «Bisogna introdurre normative che definiscano i parametri della gestione pubblica o, in alternativa, i compiti delle autorità di controllo a tutela delle finalità pubbliche dei servizi». L’unica cosa certa è che le privatizzazioni sono fuori dall’orizzonte del segretario Pd. E questo vale per tutto, non solo per le aziende locali: è assente qualsiasi proposta di vendere foss’anche un garage o una casetta. Inoltre, la ricetta proposta è una sola: regolazione, regolazione, regolazione. Persino la «concorrenza» non fa capolino nel linguaggio di colui che fu l’uomo delle lenzuolate di liberalizzazioni (mai nominate anche loro, poverette).
Basta così, qui e là si trova una lista di buone intenzioni incapsulate in parole d’ordine come «sviluppo sostenibile», «economia reale», «risparmio ed efficienza energetica» che potrebbero far parte del programma di Storace, Vendola e Berlusconi indifferentemente. Per il resto bisogna arrivare all’ultima pagina per trovare l’unico numero, quello del conto corrente per contribuire alla campagna di Bersani.
Quest’ultimo è libero di adottare le politiche economiche che vuole: le dieci proposte non sono criticabili in quanto dirigiste o socialiste, in fondo ognuno davanti ai cittadini propugna ciò che crede giusto per il paese. Tuttavia, con il terrore che i mercati si interessino veramente ai programmi del Pd, si è rimasti molto sul vago in modo tale che neanche i cittadini sapranno bene che cosa stanno votando.
Se si propone il «coraggio di cambiare», però, il primo dovere davanti agli elettori è di avere il coraggio di credere alle proprie idee.

La Stampa 20.12.12
Primarie Pd, polemica sulla scelta dei capilista
Occhi puntati su Finocchiaro e Bindi, potrebbero esser tutelate
di Carlo Bertini


Finocchiaro Rumors la vorrebbero capolista in Emilia, che equivarrebbe a un posto sicuro
Fassina Responsabile economia, uno dei “giovani turchi”, sarà capolista nel Lazio
Bindi Rosy Bindi è un’altra delle deroghe pesanti. Molta attenzione su dove sarà in lista alle primarie

Anche se il voto slitta di una settimana, le primarie no, malgrado molti ci avessero sperato. E dunque, rullano i tamburi, si aprono le danze: si insedia a Roma il comitato elettorale e le correnti hanno tutte voce in capitolo, da Letta a Franceschini a Bindi, da Fioroni a Ignazio Marino, a Marco Minniti per i veltroniani, fino a Graziano del Rio per i renziani: tema, la composizione delle liste di candidati e la selezione del «listone bloccato», che per ragioni di diplomazia sarà reso noto solo dopo le primarie del 29 e 30 dicembre. Ma nelle segrete stanze, il «listone» comincia a prendere forma e si profila una sorta di par condicio tra gli staff di Bersani e del suo sfidante che potrebbero trovar posto nella riserva protetta: i due capi delle campagne delle primarie, il bersaniano Speranza e il renziano Reggi, i due consiglieri, Gotor e Da Empoli, le due portavoce, Alessandra Moretti e Simona Bonafè. Il problema però sono i capilista, Renzi ne avrà forse due, Scalfarotto e Gentiloni, che dovrà optare con la candidatura a sindaco di Roma. Altri renziani correranno alle primarie, come Adinolfi, Vassallo e Ichino.
Ma le voci sui possibili capilista corrono, come quella che dà Anna Finocchiaro in Emilia; Cesare Damiano in Piemonte; il responsabile giustizia Andrea Orlando in Liguria, il responsabile economico Stefano Fassina, capolista nel Lazio. «Ho scelto di candidarmi a Roma alle primarie, non cerco altre strade per provare a entrare in Parlamento», dice Fassina. E anche l’altro leader dei «giovani turchi», Matteo Orfini, correrà a Roma e presenta la sua candidatura nella storica sezione ex Pci di via dei Giubbonari. «Come responsabile cultura e membro della segreteria avrei potuto esser candidato in “quota protetta” e invece ho deciso di raccogliere le firme e correre nella mia città».
Le trattative fervono fino a notte e si protrarranno oggi perché il punto spinoso, le deroghe per gli amministratori locali che vogliono correre per un seggio alla Camera, impegna tutti i maggiorenti in un braccio di ferro tra la capitale e le periferie. «Deroghe ne saranno date pochissime, saranno delle assolute eccezioni», assicura Franceschini. E se sindaci e consiglieri regionali in corsa alle primarie saranno ridotti all’osso, per il truppone di parlamentari uscenti, terrorizzati dal rischio di soccombere con i potentati locali, è la prima e unica buona notizia.
Invece il nodo del listone e dei capilista viene risolto rinviando la decisione a dopo capodanno. Perché il problema è anche quello di non far emergere favoritismi per i veterani con più di tre mandati alle spalle, che hanno chiesto e ottenuto la deroga: se ad esempio la Bindi venisse indicata subito come capolista, entrerebbe d’ufficio nella «quota protetta» e così anche per la Finocchiaro. Quindi per evitare polemiche con i più giovani che si battono per il rinnovamento e per evitare strali all’indirizzo del segretario, si è scelto di rinviare. Fioccano le candidature, come quella del presidente dell’associazione famigliari delle vittime della strage di Bologna, Paolo Bolognesi, che correrà da indipendente senza dover raccogliere le firme.

l’Unità 20.12.12
Marchionne e Monti gita elettorale a Melfi
Le regole di convivenza sindacale contenute nell’accordo del 28 giugno non valgono per la Fiat
L’esclusione del più grande sindacato è un vulnus democratico e un segno di miopia
Lo strano incontro senza Camusso
di Bruno Ugolini


Una cerimonia un po’ surreale si svolgerà oggi a Melfi, in una fabbrica Fiat dove per molti lavoratori regna il regime di cassa integrazione. Un fatto che dovrebbe pesare nei pensieri dei partecipanti.
E pare che si debba essere chiamati quasi ad assistere a un miracolo natalizio. Non una rinata «Fabbrica Italia» data per morta, non la venuta di un nuovo messia, bensì qualche sia pure modesta nuova promessa. Saranno presenti le Autorità, ma solo quelle che piacciono a Marchionne. Sono stati invitati i segretari di Fim-Cisl e di Uilm-Uil ma non quelli della Fiom-Cgil accusati di non aver firmato accordi considerati poco positivi e lasciati a manifestare con Landini al di là dei cancelli. Saranno ospiti acclamati invece anche i segretari delle confederazioni sindacali, Bonanni per la Cisl, Angeletti per la Uil, Centrella per l’Ugl. E qui nasce la sorpresa. È stata infatti tenuta fuori dalla porta d’ingresso anche Susanna Camusso, che spesso in questi anni è stata posta da illustri opinionisti in opposizione con la Fiom di Landini. Anche lei indegna di partecipare all’evento? Eppure la segretaria della Cgil è stata firmataria, il 28 giugno del 2011, di un accordo unitario più grande, che stabiliva per Cgil, Cisl e Uil importanti regole di convivenza sindacale e con il quale si davano prime importanti risposte ai problemi di una salda rappresentanza sindacale collegata a forme di partecipazione dal basso.
Perché ora questo ennesimo schiaffo al più grande sindacato italiano? A chi giova? Magari l’incontro è stato organizzato per promettere un qualche impegno produttivo che, semmai, non potrebbe non essere considerato frutto anche delle aspre critiche mosse proprio dalla Cgil e non certo frutto di cortesi acquiescenze.
L’invitato più importante sarà però il presidente del Consiglio Mario Monti, accanto a Bonanni, Angeletti, Centrella, Marchionne. Qualcuno sostiene che sarà per Monti l’esordio nella campagna elettorale. Il fulcro di un’alleanza politica inedita. Se fosse così sarebbe un equivoco battesimo. L’autorevole presenza del premier rischia, infatti, di avallare una politica cara Marchionne e anche ai governi del resuscitato Berlusconi. Una politica che puntava sulla rottura sindacale, sul venir meno di quella coesione sociale che dovrebbe essere vista come un toccasana per il Paese. Suonerebbe altresì poco convincente una motivazione collegata alla necessità di sollecitare una svolta nelle politiche produttive Fiat.
C’è stato quasi un colpevole silenzio di tomba, da parte del governo, quando lo stesso Marchionne decretò il fallimento del progetto Fabbrica Italia. Nè formarono certo una parvenza di politica industriale le battute agrodolci del ministro Passera. Quando disse ad esempio, qualche settimana fa, che «può andare bene anche che la Fiat sia soltanto una sottomarca della Chrysler». Aggiungendo che però finora è mancata e manca la chiarezza necessaria nell’aspetto fondamentale delle linee strategiche: quella degli investimenti. Per poi concludere come si assista a una «perdita di peso del marchio Fiat in Europa a cui immagino che l'azienda risponderà con concretezza, anche se non vediamo questa determinazione a superare la crisi con investimenti e volontà».
Parole che hanno pesato, certo, nei rapporti tra Marchionne e il governo Monti. Ora si è fatta la pace, magari per procedere in bellezza, come si sospetta, nella campagna elettorale? Sarebbe una cocente delusione soprattutto per quanti, nel centrosinistra, avevano giustamente vissuto l’arrivo di Monti a Palazzo Chigi come una liberazione salutare da un periodo nefasto non per questa o quella forza politica, non per Montezemolo o Casini o Fini, ma per il Paese.

il Fatto 20.12.12
L’uomo del giorno
Il Prof appende il loden alla Balena Bianca
di Antonello Caporale


IL MIRACOLO DI UN UOMO TRASFORMATO DA UN ANNO DI GOVERNO SPARITI I TECNICI, ALLA SUA CORTE ARRIVA LORENZO CESA

Il loden è lo stesso e la cravatta di quel celeste palliduccio e la grisaglia perfetta da uomo di Stato. È lui, è Mario Monti. Cambia il contorno, la farina del pane nuovo non è bagnata dalle lacrime della Fornero, e non ci sono più le orecchie a sventola di Piero Giarda, il ministro dumbo, colto e severo. Ecco Lorenzo Cesa, un magnifico esemplare democristiano resistito a ogni tempesta fare ingresso nel suo ufficio al seguito dei big della moderazione italiana: Luca di Montezemolo e Pier Ferdinando Casini. Sono solo i primi tre nomi, quelli che vengono a mente più di ogni altri, che ieri si sono accomodati nelle poltrone dell’ampia sala di palazzo Chigi. Di ospiti il premier ne riceve a dozzine, e tante telefonate e preghiere e intercessioni. E persino evocazioni. Lui zitto: “Ha preso appunti”. Non dissente né consente. C’è ma non c’è. È il candidato del centro, o potrebbe esserlo. Sarà in campo, dentro o ai bordi.
C’È UN MONTI CHE VA e un Monti che viene. Un loden che parte e uno nuovo che si insedia. Quando giunse, appena dodici mesi fa, fece riprendere dal garage di palazzo Chigi la Lancia Thema, vettura opportunamente vintage e al passo col dramma dentro cui stava affogando l’Italia. Sua moglie, riferì il premier in una nota gastronomica assai inedita per i costumi politici a cui gli italiani erano abituati, aveva sistemato cotechino e lenticchie, comperati in una salumeria alle spalle del Palazzo, su due pirofile trovate nella cucina presidenziale, per festeggiare con dignità ma assoluta parsimonia un Capodanno triste.
Questo era Mario Monti solo l’anno scorso. “Sono al servizio dell’Italia”, disse e confermò. Infatti il capo dello Stato lo aveva nominato solo poche ore prima senatore a vita per decretarne la terzietà e anche la statura morale e la reputazione molto al di sopra della media. E lui non fece altro che mantenere vivo il ricordo di quanto l’Italia potesse cambiare, e anche di come i guai, alla fine, potessero persino portare beneficio, e il male risolversi in bene, la povertà in virtù, la sobrietà in ricchezza, eccetera. Molto intima, come ogni confidenza sincera e sentita, quella voglia di tenersi fuori, appartarsi: “Mia mamma mi diceva sempre: stai alla larga dalla politica”.
Ecco, questo era il professore solo dodici mesi fa. Non aveva fatto i conti con la passione che certo si è impadronita del suo corpo piano piano, senza far rumore. E si è svelata scendendo dalla testa verso i piedi: una discesa in campo. Si scende in politica infatti, non si sale in politica. E quella passione si è manifestata prima con piccoli colpi di tosse, poi con sospiri lievi ma ripetuti, infine con la parola. “Non mi interessa” iniziò a dire. Ma il pensiero evoluto si manifestò a New York il 17 settembre scorso: “Non mi candido però posso dare una mano all’Italia”.
ECCO, QUELLA MANO sembra lo abbia avvinghiato e lo stia trascinando lentamente, ma inesorabilmente verso l’agone comiziante. E il suo ufficio, prima denso di algoritmi, di parcelle da pagare, e tasse e tagli, e ospedali da chiudere, strade da sistemare, ferrovie da costruire, persone da licenziare, si è andato via via affollando di questue, petizioni signorili e anche burberi richiami. Il loden è rimasto lo stesso ma col loden Monti si è diretto all’appuntamento con Giorgio Napolitano, non felicissimo della sua determinazione a occupare il centro del centro del centro. Lui o la sua agenda, il programma che sta stendendo e che, in nome suo, sarà trasmesso nelle mani di Cesa per farne un libro di impegni solenni e irrinunciabili. Saranno quattro liste o solo tre? O addirittura una? E chi ci sarà? Un bel dibattito e un fremito d'ansia: oggi è la volta di Marchionne ed Elkann. Atteso endorsement della Fiat, con il premier in visita a Melfi. E dopo anche quello di Pomicino? Monti uno e trino: tecnico e senatore a vita, super partes e anche un pochettino sotto le parti. Un po' di destra e anche un po' di sinistra. Con l'Europa e con l'Italia. Con gli industriali ricchi alla Montezemolo e i militanti della povertà di Andrea Riccardi, plenipotenziario della comunità di Sant'Egidio.
Lui sta decidendo il da farsi. Purtroppo lo tirano per la giacca e sua moglie, dicono, è dispiaciuta: vorrebbe che tornasse alla Bocconi. Il suo staff lo vedrebbe invece bene al Quirinale. Il fatto è che una moltitudine di Cesa lo attende fiduciosa e con l’agenda in mano.

il Fatto 20.12.12
L’allarme dello Spiegel: ”Il Cavaliere è in forma, attenti”


“SILVIO BERLUSCONI è di nuovo in ottima forma”. Lo scrive lo Spiegel on line, che mette in guardia dalla strategia del Cavaliere, che secondo il settimanale potrebbe portare nuovi problemi all’Europa.
Berlusconi “blandisce gli italiani, racconta favole politiche”, scrive il magazine in un articolo intitolato “il Masterplan di Berlusconi per il potere”. E questa strategia “potrebbe portarlo al successo e provocare in Europa una nuova crisi”.
L'uomo ha “paura” e “soldi”, scrive ancora il settimanale sul web, sostenendo che il leader del Pdl si trovi esattamente al punto in cui era nel 1994: “in gran pericolo”.
Quando entrò in politica, continua l’articolo, “il suo impero imprenditoriale rischiava la bancarotta e lui stesso era con un piede in carcere. Entrò in politica per salvarsi”. Oggi le sue imprese sono in “declino” e la “minaccia della giustizia è acuta come mai prima”, aggiunge l’editoriale citando il caso Ruby. “Non vincerà le elezioni è la conclusione ma a lui basta una fetta del potere”. È sufficiente poter “disturbare” in modo da “assicurare i propri interessi”.

l’Unità 20.12.12
Manicomi criminali, chiude Pozzo di Gotto
L’ordine da Ignazio Marino, presidente della commissione d’inchiesta
Il 30 marzo è la data ultima per chiudere i sei manicomi criminali italiani
di Jolanda Bufalini


Forse ci libereremo definitivamente degli ergastoli bianchi il 30 marzo del 2013. Forse, perché si sa che le leggi in Italia fanno fatica ad essere attuate. Però la legge c’è e questo è già un passo avanti, anche se il senatore del Pdl Michele Saccomanno teme il «milleproroghe» dove potrebbe annidarsi un rinvio, che perpetua un pezzo di medioevo rappresentato negli Opg, Ospedali psichiatrici giudiziari. Ragazzi, vecchi, giovani, madri, figli reclusi senza mai essere stati giudicati in un tribunale: «Non imputabile», spiega Donatella Poretti, perché «incapace di intendere e di volere». E quindi «sequestrato», sbotta con passione Saccomanno, «a vita». Ora c’è la legge per l’abolizione degli Opg ma la prossima legislatura, spiega Donatella Poretti, «deve mettere mano al codice penale». Ignazio Marino è il presidente della commissione sulla efficienza del Servizio sanitario nazionale, il suo ultimo atto per la XVI legislatura è stato usare i suoi poteri per ordinare la chiusura integrale del manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto, 205 internati, e di un reparto di Montelupo Fiorentino, da
dove saranno trasferiti 15 internati. Miglioramenti ci sono stati da quando, nel giugno 2010, la commissione fece i primi sopralluoghi. A Barcellona c’erano 410 reclusi, si sono dimezzati e questa è già una grande novità, ma la struttura resta «del tutto inidonea come residenza psichiatrica e soffre di un intollerabile sovraffollamento». Non è solo questione di strutture materiali, non ci sono medici, né psichiatri né d’altro tipo. L’incubo è che alla diagnosi in in-
gresso non segue nulla, né visite né cure. Marino racconta di infartuati lasciati senza cardiologo, di arti in gangrena che si è dovuto amputare. E nessuno, visto che non ci sono specialisti, scriverà mai una diagnosi per affermare che il soggetto è guarito, «non è pericoloso» oppure per dire che lo è e quindi vanno concordata le misure di sorveglianza. Perché, aboliti gli opg, il destino di queste persone, se non sono in condizione di tornare a casa, sarà quello delle case famiglia. Il timore è che le regioni resistano per pregiudizio. Ma la legge per il superamento degli ospedali psichiatrici è finanziata e, dai primi di dicembre, ci sono anche i decreti attuativi. Il senatore Daniele Bosone chiede l’istituzione di una figura commissariale. Non devono esserci scuse per questo piccolo passo di civiltà che riguarda 1500 persone infelici.

Corriere 20.12.12
Vittoria su tutta la linea per la Chiesa cattolica
L'Imu sui beni della Chiesa. Senza arretrati
di Ivo Caizzi


Vittoria su tutta la linea per la Chiesa cattolica (e per le sue finanze) a Bruxelles, commentata dal presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco, come «un atto di giustizia, di equità». La Commissione ha approvato il regolamento emendato dell'imposta sugli immobili Imu, che non si applica sulle attività di carattere non economico degli organismi ecclesiastici e non profit. Ma anche le esenzioni dell'Ici ottenute dal Vaticano tra il 2006 e il 2011, che pure l'istituzione di Bruxelles ha giudicato «incompatibili» con la normativa sugli aiuti di Stato, non provocheranno alcuna conseguenza economica negativa.
Il commissario per la Concorrenza, lo spagnolo Joaquin Almunia, non ha negato che in passato possa esserci stato un ingiusto vantaggio concorrenziale per cliniche, hotel e altre attività economiche della Chiesa. Ma ha ritenuto «impossibile» recuperare quell'Ici. Il suo portavoce ha ammesso che «per la prima volta» non c'è l'obbligo del recupero degli aiuti di Stato illegali. Poi è spuntato un precedente. Ma la sostanza non cambia. Il Vaticano ora è accreditato di aver dimostrato un certo «peso» politico a Bruxelles.

l’Unità 20.12.12
Imu, esenzione per la Chiesa: c’è il sì della Ue
La Commissione di Bruxelles giudica però illegale gli sconti Ici, ma ormai sono «impossibile da recuperare»
Bagnasco: un atto di equità
di Vincenzo Ricciarelli


La Ue «benedice» l’esenzione Imu per gli edifici non commerciali della Chiesa. Nello stesso tempo, però, Bruxelles ha anche bocciato l’Ici, stabilendo che le precedenti norme di esenzioni concesse a entità non commerciali per scopi specifici tra il 2006 e il 2011 era incompatibile con le regole Ue sugli aiuti di Stato. Il via libera al regolamento emendato ha un valore praticamente retroattivo, dato che l’Italia non dovrà recuperare gli aiuti concessi tra 2006 e 2011 poiché giudicato «impossibile» dall’Europa.
Nello specifico, la Commissione europea ha dato il via libera alla nuovo normativa sull'Imu che «non comporta la presenza di aiuti di Stato in quanto le esenzioni si applicano solo agli immobili in cui si svolgono attività non economiche». È quanto si legge in una nota di Bruxelles, che definisce «incompatibili» con le norme Ue in materia di aiuti di Stato le precedenti esenzioni concesse agli «enti non commerciali per fini specifici, previste dal 2006 al 2011 dal regime italiano di imposte comunale sugli immobili». Ma l'Italia non dovrà recuperare gli aiuti concessi durante quel periodo, appunto, perché secondo Bruxelles «il recupero sarebbe assolutamente impossibile». La Commissione europea ha giudicato incompatibili con le norme Ue in materia di aiuti di Stato le esenzioni dall'Ici concesse agli enti non commerciali, come la Chiesa cattolica, ma ha autorizzato le esenzioni modificate previste dall'Imu, in quanto si applicano solo agli immobili in cui si svolgono attività non economiche. Come si legge nel comunicato stampa della Commissione, è stato riscontrato che l'Imu è conforme alle norme dell’Unione europea in materia di aiuti di Stato, in quanto «limita chiaramente l'esenzione agli immobili in cui enti non commerciali svolgono attività non economiche».
NON SONO AIUTI DI STATO
Inoltre, la nuova normativa prevede una serie di requisiti che gli enti non commerciali devono soddisfare per escludere che le attività svolte siano di natura economica. «Queste salvaguardie garantiscono che le esenzioni dal versamento dell'Imu concesse agli enti non commerciali non comportino aiuti di Stato», prosegue la Commissione, che non ha ingiunto all'Italia di recuperare l'aiuto presso i beneficiari «poiché le autorità italiane hanno dimostrato che, nel caso di specie, il recupero sarebbe assolutamente impossibile». Più precisamente, le autorità italiane hanno dimostrato che è oggettivamente impossibile determinare quale porzione dell'immobile di proprietà dell'ente non comerciale sia stata utilizzata esclusivamente per attività non commerciali, risultando quindi legittimamente esentata dal versamento dell'imposta, e quale sia stata la porzione utilizzata per attività ritenute «di natura non esclusivamente commerciale», la cui esenzione dal versamento dell'Ici avrebbe comportato la presenza di un aiuto di Stato. La Commissione conclude la nota ha inoltre esaminato l'articolo 149, paragrafo 4, del testo unico delle imposte sui redditi, che sembrava escludere gli enti ecclesiastici e le associazioni sportive dilettantistiche dall'applicazione delle condizioni che possono comportare la perdita della qualifica di ente non commerciale. Tuttavia, l'indagine della Commissione ha rivelato che i controlli effettuati dalle autorità competenti hanno riguardato anche tali enti e che non esiste alcun sistema che preveda una «qualifica permanente di ente non commerciale». Poiché non conferisce alcun vantaggio selettivo agli enti ecclesiastici e alle associazioni sportive dilettantistiche, la misura non è aiuto di Stato.
PARLA LA CEI
Secondo il cardinale Angelo Bagnasco, l'approvazione da parte della Commissione europea della norma italiana sull'esenzione Imu per la Chiesa in relazione agli immobili non commerciali «non è un privilegio particolare» ma «è un atto di giustizia e di equità». Così il presidente della Cei e arcivescovo di Genova, all'inaugurazione della nuova aula magna dell'istituto Gaslini. «Come sempre abbiamo detto ha aggiunto Bagnasco già con la precedente legislazione e anche con l'attuale sulle attività commerciali la Chiesa ha sempre pagato quello che doveva pagare. Adesso le cose sono ancora meglio precisate e il fatto che l'Europa abbia riconosciuto la nuova legislazione, precisata dal governo italiano, mi pare un atto di grande equità, di buon senso, rispetto alla presenza della Chiesa e del mondo no profit in genere ed alla valenza delle attività di carattere sociale».

Corriere 20.12.12
Quelle fatture pagate due volte dal Lazio all'istituto religioso
di Sergio Rizzo


Sanità, il buco milionario dell'Idi. Bondi: analogie con Parmalat?
La truffa delle fatture pagate due volte

Il giochetto dev'essere andato avanti per anni. Perché un buco di 244 milioni di euro, anche in una struttura sanitaria grande come l'Idi, l'Istituto dermopatico dell'Immacolata di Roma, su cui da mesi indaga la magistratura, non si scava in un giorno. Come facevano? Un mese fa il commissario straordinario per la sanità della Regione Lazio, Enrico Bondi, lo ha spiegato ai senatori della commissione d'inchiesta sul servizio sanitario nazionale di Palazzo Madama presieduta da Ignazio Marino. Lasciandoli di stucco.
Molte fatture, per almeno 110 milioni, venivano pagate due volte: la Regione le pagava all'Idi, istituto religioso di proprietà della Congregazione dei figli dell'Immacolata Concezione convenzionato con il servizio sanitario nazionale, e l'Idi le scontava ugualmente, facendosi dare altri soldi, presso banche o società di factoring. Le quali adesso battono cassa alla Regione. E non vogliono soltanto quei 110 milioni. Ma anche i 51 di «fatture non riferibili a prestazioni sanitarie, contestate dalla Asl» (lo dice Bondi), che l'Idi ha comunque scontato. Oltre agli 83 relativi invece a «prestazioni non riconoscibili», sempre anticipati dalle stesse banche. Totale: 244 milioni. Il bello è che la giunta di Renata Polverini non era certo all'oscuro di tutto, almeno se è vero quanto dichiarato davanti alla stessa commissione d'inchiesta del Senato da Edoardo Polacco, direttore amministrativo della Asl Roma E che gestisce i rapporti con l'Idi. «In quest'ultimo anno ho visto una serie di documenti amministrativi inviati alla Regione Lazio in cui si informava la Regione Lazio pedissequamente, numerose volte, che stava pagando somme assolutamente superiori, non dovute. Mi sono passate tra le mani moltissime comunicazioni di questo genere da parte degli uffici e ho la certezza che la Regione Lazio non ha risposto neanche una volta a tali comunicazioni. Erano somme non dovute e soprattutto già cedute. In alcuni casi, come ho comunicato personalmente alla Regione Lazio, erano crediti ceduti due volte», ha fatto mettere a verbale. «Due volte», proprio così ha detto. Parole incredibili, che nella migliore delle ipotesi lasciano intuire un contesto di sconcertante superficialità. Più che un «rischio», come l'ha diplomaticamente definito Bondi al Senato il 21 novembre, questa è una bomba innescata nei conti sanitari regionali. A chi gli domandava spiegazioni sul meccanismo che avrebbe consentito di pagare due volte le stesse fatture, ha risposto: «Le norme della pubblica amministrazione, per come mi sono state illustrate, prevedono che lo sconto di fatture si possa fare solo con l'Inps e debba essere autorizzato. Scontare due volte le fatture o prendere i soldi dalle fatture e poi scontarle dimostra che non c'era liquidità. Poi, come sia stata utilizzata questa liquidità non lo posso sapere». Ma non ha potuto, Bondi, non ricordare qualche precedente di scuola. Come la vicenda Parmalat. «In quel caso, su 13,2 miliardi di buco 2,2 erano per destinazioni non definite. Anche una parte degli altri 11 miliardi è stata spesa in banche e commissioni varie, per tenere in piedi il debito. Ma 2 miliardi e 200 milioni sono scomparsi. Dove? Dalle analisi effettuate è emerso che sono scomparsi nelle tasche di Tizio, Caio o Sempronio: yacht e via dicendo… Non voglio dire che in Idi si ripeta questo, me ne guardo bene. Ma ho partecipato alla ristrutturazione del San Raffaele ed è sotto gli occhi di tutti cosa è venuto fuori…». Non che la storia dell'Idi, come ha ben documentato Ilaria Sacchettoni in una lunga serie di articoli sul Corriere, non abbia già offerto abbondanti spunti di cronaca. Fondata nel 1857, la congregazione che ha dato vita all'Idi era diventata celebre nel secolo scorso per le sue miracolose pomate contro la tigna. Arrivando a costruire un piccolo impero privato, alimentato con fondi pubblici del servizio sanitario nazionale. Finché i debiti (600 milioni? 800 milioni?) e scelte strategiche scellerate non l'hanno messo in ginocchio: con 1.578 dipendenti senza stipendio per mesi e mesi e una inchiesta giudiziaria affidata al procuratore della Repubblica di Roma Nello Rossi. È stata un'inchiesta di Report di Milena Gabanelli, otto mesi fa, a rivelare dettagli di una gestione imbarazzante: l'acquisto di una villa in Toscana comprata (pare) in contanti, la realizzazione di un lussuoso centro benessere, i soldi investiti in un inceneritore in Puglia… Per non parlare dei bonifici a una società di proprietà di un dirigente. O degli 11 (undici) telefonini acquistati per l'ex consigliere delegato, padre Franco Decaminada, indagato insieme ad alcuni suoi collaboratori. Fra questi anche un ex funzionario del Sismi, Antonio Nicolella, ingaggiato come direttore della logistica. Ultima perla è la partecipazione dell'Idi, con una quota del 25%, al consorzio televisivo Alphabet di cui è azionista di maggioranza la società Interattiva. La proprietaria si chiama Ilaria Sbressa: è la consorte del direttore delle relazioni istituzionali di Mediaset Andrea Ambrogetti.

il Fatto 20.12.12
I deportati di Rosarno
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, improvvisamente sui nostri telegiornali compaiono le immagini di immense e orrende baraccopoli e tendopoli, lager per raccoglitori di pomodori nella zona di Rosarno, ormai famosa per gli scontri razziali e la caccia al nero. Come è possibile che la situazione sia peggiorata da allora?
Salvatore

È POSSIBILE ED È VERO, e in questa vicenda c'è un terribile ritratto del nostro Paese, di tutti noi come classe dirigente, come classe politica e come cittadini. Infatti non sono pochi, nonostante la dilagante indifferenza, quelli di noi che si indignano e protestano. Ma sono pochi quelli che non smettono di indignarsi e di protestare fino a quando chi può e chi deve troverà una soluzione. Soluzione qui non vuol dire un piano di case popolari per gli immigrati (che è dovuto ma difficile in un momento di estrema crisi economica). Vuol dire però fare quello che si fa nelle emergenze: protezione civile, con un forte accento sulla parola “civile”. Invece lo spettacolo è di abbandono e disperazione. Persino il sindaco di San Ferdinando, il paese più vicino, è apparso in televisione esasperato e disperato. E gli è stato facile dire: questa è una bomba che sta per esplodere. Inevitabile ricordare che c'è un prefetto nella zona, che ha una responsabilità immediata di sostenere il sindaco, e le autorità elette, in tempo di emergenza. Inevitabile ricordare che la protezione civile riguarda tutte le emergenze e ha mezzi, come le tende e le costruzione prefabbricate, che possono essere montate in poco tempo. Inevitabile ricordare che c'è un governo regionale (Calabria) che sembra assente. Nessuno ha niente da dire o da denunciare o da lamentare, solo il sindaco desolato del paese più piccolo, più povero e più vicino. Certo che ognuno di questi enti è stremato. Ma un coordinamento rapido, da stabilire subito fra Provincia, Comune, Regione e Prefettura (cui spetta di allertare il Governo), non può non portare risultati. Potranno essere risultati inferiori al necessario, ma di molti superiori al niente all'abbandono. E i politici eletti a tutti i livelli, soprattutto Regione e Parlamento, non hanno voce, non hanno opinione, non hanno idee, non hanno visto e visitato e fatto sapere al resto del Paese? E il vescovo non ne ha parlato con la Compagnia delle Opere e con quella associazione "Imprenditori cristiani" (UCID) che ha appena fatto un convegno a Roma alla presenza di tre cardinali? Lo spettacolo delle povere tende intorno a Rosario fa paura. Fa ancora più paura il silenzio dei “competenti”, dei “responsabili” e dei “buoni”.

Corriere 20.12.12
L'Italia a quota 59,4 milioni (grazie agli immigrati)
In dieci anni stranieri triplicati. E i centenari sono 15 mila
di Ester Palma


ROMA — In quindicimila viaggiano sereni ben oltre le 100 primavere. Segno di un Paese dove il benessere e le aspettative di vita aumentano, nonostante le difficoltà del presente. È solo uno dei dati curiosi che emergono dalla fotografia dell'Italia datata 9 ottobre 2011, il giorno in cui è stato chiuso il 15° Censimento generale della popolazione e delle abitazioni i cui dati sono stati diffusi ieri dall'Istat.
A grandi linee, i risultati sono questi: gli italiani calano, aumentano gli stranieri, le donne sono più numerose degli uomini. E nel complesso, la popolazione residente in Italia ammonta a 59.433.744 unità. Rispetto al 2001, quando si contarono 56.995.744 residenti, l'incremento è del 4,3%, da attribuire esclusivamente alla componente straniera. Infatti, durante il decennio appena trascorso la popolazione di cittadinanza italiana è diminuita di oltre 250 mila individui (-0,5%), mentre quella straniera è aumentata di 2.694.256.
Gli stranieri praticamente triplicano: «La loro presenza — afferma il segretario confederale della Cisl, Liliana Ocmin — si conferma essenziale per la tenuta demografica dell'Italia dove l'incidenza straniera è un fatto oggettivo da rimarcare non solo in termini numerici ma anche come risorsa sociale ed economica». «L'aumento della popolazione straniera in Italia — commenta il segretario confederale dell'Ugl, Marina Porro — rende sempre più necessario favorire il dialogo fra le diverse culture e un'integrazione che non sia solo di facciata ma una vera e propria inclusione. Gli immigrati sono una risorsa per il nostro Paese». I cittadini stranieri risultano in crescita in modo più o meno omogeneo in tutte le regioni della Penisola, mentre gli italiani diminuiscono nel Mezzogiorno oltre che in Piemonte, Liguria e Friuli-Venezia Giulia. Nel corso dell'ultimo decennio la popolazione straniera residente in Italia è triplicata, passando da 1.334.889 a 4.029.145, con una crescita pari al 201,8%
Senza alcuna differenza fra Nord e Sud e fra regione e regione, prevale ovunque la componente femminile, sebbene in Lombardia e in Veneto le percentuali di donne siano più contenute che altrove. La popolazione residente nel nostro Paese si distribuisce per il 26,5% nell'Italia Nord-Occidentale, per il 23,5% nell'Italia Meridionale, per il 19,5% nelle regioni dell'Italia Centrale, per il 19,3% nell'Italia Nord-Orientale e per il restante 11,2% in quella Insulare.
La regione più popolosa è la Lombardia con 9.704.151 residenti, quella con meno abitanti la Valle d'Aosta (126.806). In termini di popolazione, i cinque comuni più grandi d'Italia sono: Roma (2.617.175 residenti), Milano (1.242.123), Napoli (962.003), Torino (872.367) e Palermo (657.561). Nel Nord-Ovest si concentrano i comuni più piccoli e il primato va alla minuscola Pedesina, appena 30 abitanti, seguita dall'altrettanto piccola Menarola, dove sono in 46, entrambi in provincia di Sondrio.
Nel raffronto dell'età media, il Sud risulta essere il più giovane. In Calabria, Puglia e Sicilia, ma anche in Trentino-Alto Adige, l'età media è di 42 anni, mentre in Campania scende al livello minimo di 40 anni. Il valore massimo in Friuli-Venezia Giulia e Liguria, dove l'età media si attesta rispettivamente a 46 e 48 anni. Il comune più giovane è Orta di Atella (Caserta) con una età media di 32 anni, il più vecchio è Zerba (Piacenza), con ben 65 anni.
Tra i «grandi vecchi», invece, le persone di 100 anni e più, erano 6.313 nel 2001 (1.080 maschi e 5.233 femmine), mentre nel 2011 ne sono state censite 15.080, con una percentuale di donne pari all'83,7% (12.620 unità); 15.060 hanno una età compresa tra i 100 e i 109 anni; in 11 hanno raggiunto i 110 anni, in sette i 111 e solo due donne (residenti una in provincia di Milano e una in provincia di Venezia) alla data del 15° Censimento avevano compiuto 112 anni. Grande affollamento, invece, a Napoli, dove sono ben 145 gli anziani con più di 100 anni di età. Il capoluogo della Campania è quello che nel Sud ha la più alta percentuale (1%) rispetto alla popolazione complessiva.

Corriere 20.12.12
Un doppio segnale di vitalità
di Gianpiero Della Zuanna


Nel primo decennio del nuovo secolo gli italiani sono aumentati di quasi tre milioni, avvicinandosi alla soglia dei 60 milioni. È una crescita notevole, anche perché negli ultimi vent'anni del Novecento la popolazione era rimasta stagnante attorno ai 56 milioni e mezzo. La crescita è dovuta a due componenti: gli anziani e gli stranieri, che hanno bilanciato la diminuzione dei giovani e degli adulti di nazionalità italiana.
L'incremento degli stranieri è dovuto da un lato ai possenti saldi migratori con l'estero (+300 mila unità l'anno, che diminuiscono solo in questi ultimi mesi di crisi), dall'altro alle nascite con entrambi i genitori stranieri (75 mila nel 2011). L'aumento degli anziani è dovuto essenzialmente al grande incremento della sopravvivenza: dieci anni guadagnati nel breve scorcio di un trentennio! Quindi, la popolazione italiana sta dando grandi segnali di vitalità. È vero che le nascite sono sempre poche, ma le migrazioni sono riuscite a bilanciare il forte invecchiamento. Senza le migrazioni, l'Italia sarebbe invecchiata in modo insostenibile. Certo, è necessario riadattare la nostra società di fronte a questo nuovo tipo di crescita demografica. Molto è stato fatto con la riforma Monti-Fornero delle pensioni, ma molto c'è ancora da fare, specialmente sul versante dell'integrazione degli stranieri. La crescita degli immigrati è alimentata anche dall'aumento degli anziani. Il censimento del 2011 mostra come centinaia di migliaia di donne straniere vivono nelle case di altrettanti italiani, specialmente donne. Questo fenomeno fa parte del nuovo welfare all'italiana, non previsto dagli esperti ma che si è creato spontaneamente non solo nelle grandi città ma anche nei piccoli paesi italiani.

Repubblica 20.12.12
La carica dei centenari così l’Italia invecchia ma diventa multietnica
I dati del censimento: in 10 anni stranieri triplicati
di Caterina Pasolini


ROMA — Sarà la dieta mediterranea, saranno geni antichi e luoghi comuni con un fondo di verità, ma una cosa è certa: vivere in Italia sembra proprio allungare la vita. A fotografare una nazione dove abitano 15mila ultra centenari, dove la pattuglia di chi è nato ai tempi della belle epoque e resiste impavido si è triplicata in dieci anni, e un italiano su cinque è ormai un ultra 65enne, è il Censimento del 2011.
L’Istat racconta coi numeri i cambiamenti sociali di un Paese sempre più multietnico, dove gli italiani fanno sempre meno figli e le culle vuote provocano un calo di 250mila unità rispetto a dieci anni fa, mentre gli stranieri sono triplicati. Gli stranieri sono ormai più di 4 milioni a lavorare, studiare, sperando di vedersi riconosciuti un giorno i diritti di cittadini a pieno titolo.
I dati fotografano un’Italia che sfiora i 60 milioni (59.433.744) e diventa sempre più rosa, visto che in media, dal Nord al Sud, ci sono 97 uomini ogni 100 donne (28.745.507 maschi e 30.688.237 femmine). E dalle tempie grigie, anzi, ormai decisamente bianche: perché se l’età media della popolazione è di 43 anni, col Sud più giovane ad abbassare le statistiche, il nostro Paese invecchia: il 20% dei residenti ha più di 60 anni, e la Lombardia, seguita da Emilia e Veneto, ha il record degli ultracentenari in un’Italia dove si vive sempre più a lungo. E possibilmente nei centri di media grandezza, fino a 50mila abitanti, nei quali sale il numero di persone che decidono di andarci ad abitare. Sono questi i Comuni che più hanno visto crescere la popolazione in questa ultima decade, famiglie forse in fuga dalle grandi città dagli alti prezzi e bassi servizi in cerca di una quotidianità più vivibile.
Roma si conferma il Comune più popoloso d’Italia con 2.617.175 residenti, seguita da Milano, Napoli, Torino e Palermo. È invece Pedesina, in provincia di Sondrio, il Comune più piccolo: 30 abitanti.
E in un Paese che invecchia, tra record e disagi, nel quale gli italiani diminuiscono perché ci si sposa sempre meno e più tardi si decide (e riesce) ad avere figli, la voce in crescita parla altre lingue venute da lontano. I dati raccolti dal-l’Istat dicono infatti che nel corso dell’ultimo decennio la popolazione straniera residente in Italia è triplicata, passando da 1.334.889 a 4.029.145.
La mappa del censimento dice che due stranieri su tre risiedono nel Nord (35,4% nell’Italia Nordoccidentale e 27,1% nel Nord-est), il 24% nel Centro e solo il 13,5% vive
nel mezzogiorno. Anche tra gli immigrati le donne sono la maggioranza, il 53,3% del totale degli stranieri, valore che sale al 56,6% nel meridione. Quasi un quarto di
chi arriva da oltreconfine mette su casa in Lombardia, circa il 23% in Veneto e in Emilia Romagna e il 9% in Piemonte. Il Lazio e la Toscana totalizzano il 18%, la Campania
appena il 3,7%. Tra i grandi Comuni la città più internazionale è sicuramente Brescia, con 166,1 stranieri ogni 1.000 censiti e tra i piccoli comuni Rocca de Giorgi,
in provincia di Pavia, ha decisamente la palma del record con 36,7 stranieri su cento abitanti.
E proprio in forza dai dati raccolti del Censimento torna decisa la richiesta di un riconoscimento dei diritti di cittadinanza che arrivi dalla politica: «L’Italia con gli immigrati è un’Italia che cresce, un’Italia più grande e sicuramente più giovane. Lo abbiamo sempre sostenuto e ora i dati dell’ultimo censimento Istat confermano il senso della nostra battaglia per il diritto pieno di cittadinanza per gli immigrati e per i figli di immigrati nati o cresciuti in Italia». A dirlo, Khalid Chaouki, responsabile Nuovi Italiani del Pd.

La Stampa 20.12.12
Intervista a Paola Severino
“Amnistia? È impossibile. In Parlamento non ci sono i voti”
Nelle carceri italiane quasi 20 mila detenuti in più della capienza massima
di Guido Ruotolo


Guardasigilli Paola Severino, Marco Pannella ironizza affermando che con il suo provvedimento sulle pene alternative conquisterebbero la libertà 54 detenuti .
«I relatori del provvedimento alla Camera, per la verità, hanno sempre parlato di 1.200 detenuti. I dati che mi sono stati trasmessi dal Dap riferiscono di 2.819 ingressi in carcere nel 2011 per reati puniti con pena massima fino a 4 anni, tutti potenziali fruitori di misure alternative alla detenzione».
Tra spinte giustizialiste e forcaiole nessun governo negli ultimi anni è riuscito a portare avanti una politica di umanizzazione delle carceri.
«Indipendentemente dalle opposte spinte che hanno caratterizzato la politica dei diversi governi negli ultimi anni, ciò che più mi ha colpito arrivando al ministero della Giustizia è stata la frammentazione della geografia carceraria, che negli anni è andata di pari passo a quella dei “tribunalini”. La linea che sta seguendo l’Amministrazione penitenziaria è quella della modulazione dei circuiti così da aggregare i detenuti a seconda del percorso di recupero più idoneo alle loro caratteristiche. Bollate e Rieti, ad esempio, sono già ora istituti modello per detenuti ritenuti a minore pericolosità sociale».
Ministro, due terzi della popolazione detenuta sono stranieri.
«Vuol dire che molti degli extracomunitari che affollano le carceri italiane arrivano nel nostro Paese sperando in un futuro migliore, ma poi diventano facile preda della criminalità che garantisce loro un lavoro irregolare e un guadagno facile. Le misure alternative alla detenzione non sono come qualcuno ha detto ideate per “colletti bianchi” che intendono evitare il carcere; sono piuttosto per quella povera gente che, grazie a strumenti come la messa alla prova, possono avere una nuova e ulteriore chance per integrarsi nella società».
Si potrebbe affrontare il problema del sovraffollamento anche con la liberalizzazione delle droghe. Davvero soluzione impensabile?
«Nei Paesi nei quali la liberalizzazione è stata tentata i risultati ottenuti non sono stati confortanti, anche perché in un sistema ormai globalizzato qualunque Paese liberalizzasse diventerebbe la calamita dei traffici provenienti dai Paesi in cui la liberalizzazione non è avvenuta. Mi sembra piuttosto necessario moltiplicare le strutture ovviamente diverse dalle carceri idonee a garantire la disintossicazione e il recupero di coloro che hanno fatto uso di droghe. Ciò che più conta, torno a ribadirlo, è l’abbattimento della recidiva. I dati ce lo confermano: coloro che una volta usciti dal carcere lavorano, difficilmente tornano a delinquere. Secondo una stima del ministero del Lavoro sono tornati in carcere solo il 2,8% di coloro che, beneficiari dell’indulto nel 2006 erano stati avviati a tirocini presso aziende, su un campione di 2.158, a fronte del 27% di coloro che non aveva seguito alcun programma di reinserimento».
Sull’ amnistia chi ha remato contro?
«Nessuno specificatamente, ma tutti i partiti mi hanno detto che non si sarebbe potuta trovare una maggioranza qualificata per votare l’amnistia».
E sulle pene alternative?
«È a tutti noto che il provvedimento è stata approvato a larga maggioranza alla Camera, con l’eccezione di Lega e Idv che hanno già preannunciato il permanere della loro posizione contraria anche al Senato».
Un anno al ministero. Si poteva fare di più?
«Se metto in fila tutti i provvedimenti che abbiamo predisposto in materia di giustizia mi chiedo come sia stato possibile riuscire a realizzare tante misure tutte insieme in un arco temporale così ristretto. Solo sulle carceri, col decreto di gennaio, abbiamo inciso in modo significativo sul fenomeno delle “porte girevoli”, che si è ridotto dal 27% al 13% sul totale degli ingressi, e abbiamo ulteriormente esteso la possibilità di eseguire la pena in detenzione domiciliare portando il limite da 12 a 18 mesi».
Con quali effetti?
«L’insieme di queste misure ha concorso a determinare un’inversione di tendenza rispetto al progressivo aumento della popolazione carceraria, passata da 68.047 detenuti nel novembre 2011 a 66.335 di oggi. Infine, abbiamo emanato una Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti per far sì che ciascuna persona al momento dell’ingresso in carcere sia in grado di conoscere qual è il percorso che lo attende. E tutto ciò senza considerare il disegno di legge sulle misure alternative che attualmente è all’esame del Senato e gli interventi sulle strutture carcerarie che hanno portato alla consegna, entro dicembre, di 3.178 posti letto ai quali se ne aggiungeranno altri 2.382 entro il giugno 2013. In conclusione, abbiamo puntato su soluzioni strutturali».

Repubblica 20.12.12
Carceri, perché dico sì a Pannella
di Umberto Veronesi


Non posso non rispondere all’appello di Marco Pannella — riportato ieri da Francesco Merlo su queste pagine — per almeno tre ragioni. La prima è che Pannella è un uomo dalle idee che precorrono i tempi, la seconda è che ha la passione e il coraggio di difenderle, la terza è che queste idee sono in molti casi anche le mie. Penso ad esempio alla battaglia per la legalizzazione dell’aborto, per l’antiproibizionismo, per la solidarietà e la tolleranza verso gli immigrati. C’è un fil rouge che le unisce tutte: i diritti e la dignità della persona. L’impegno per cambiare la situazione disumana dei carcerati in Italia — a cui Pannella mi chiama e ci chiama oggi — è sacrosanto e va nella stessa direzione.
Al di là dell’amnistia, credo che questo momento di sensibilizzazione intensa dovrebbe trasformarsi nell’occasione per ripensare il nostro sistema giudiziario su basi nuove, più moderne, più democratiche e civilmente avanzate. Come ha scritto il filosofo Giuseppe Ferraro, il grado di democrazia di un Paese si misura dallo stato delle sue carceri e delle sue scuole: quanto più le carceri saranno scuole e le scuole non saranno carceri, tanto più uno Stato si potrà dire democratico. Non si tratta di inventare nuovi principi della pena, ma di applicare la nostra Costituzione, che, all’articolo 27 stabilisce che le pene devono tendere al recupero e alla rieducazione, ed evitare trattamenti contrari al senso di umanità e dignità dell’uomo. Del resto, che la giustizia rieducativa funziona, è dimostrato dall’esperienza dei sistemi più avanzati, come quello norvegese: con una pena detentiva massima di 20 anni e un carcere improntato al recupero del detenuto, il tasso di recidività è fra i più bassi del mondo.
È paradossale che in Italia l’invito alla riflessione su questo tema venga in modo forte dal mondo del cinema. “Cesare deve morire”, dei fratelli Taviani e “Reality” di Matteo Garrone ci dimostrano come gli ergastolani possono essere attori straordinari e uomini, sensibili, colti, perfettamente in grado di essere reinseriti nella vita civile. Io sono pronto quindi a collaborare con Pannella — e con chi aderirà al progetto — per una revisione profonda del nostro sistema giudiziario, perché si abbandoni la giustizia come vendetta, a favore di una giustizia come restituzione (del condannato alla società), e ravvedimento (della coscienza personale).
Il mio contributo è in primo luogo scientifico. La genetica ha dimostrato che il nostro Dna non contiene il “gene del male”: l’uomo è biologicamente buono. L’imperativo del nostro Dna è la conservazione e la perpetuazione della specie, che significa procreare, ma anche educare, far sapere, abitare, costruire città, ponti e legami che rendono più sicura la nostra vita. Inoltre il nostro cervello è dotato di plasticità e di un lento, ma continuo, ricambio cellulare, dovuto all’esistenza di cellule staminali neuronali in grado di generare nuove cellule. Quindi è possibile, con un buon impegno educativo, modificare una persona nel profondo e riportarla alla sua capacità, innata, di porsi in relazione positiva con la società.
Non esistono i malfattori incalliti. Sta a noi mettere in moto i sistemi per recuperarli. Quando dico “noi” intendo i cittadini perché Marco Pannella, chiamando in causa, oltre a me, Saviano, Vasco, Celentano e altri, ci fa capire che la questione delle carceri riguarda tutta la comunità, che deve sapere e non deve più tollerare che al
suo interno esistano aree di barbarie inammissibili, come le nostre prigioni, dove si consumano violenze, disperazione e suicidi.

La Stampa 20.12.12
Italiani-tedeschi non è più tempo di pregiudizi
Una commissione di storici al lavoro dal 2009 per rimediare ai guasti provocati dalla seconda guerra mondiale. Parla Carlo Gentile
di Francesca Sforza


«E’ stato uno scambio tra professori, è vero, ma non si può dire si sia trattato di un’operazione accademica» dice Carlo Gentile, docente di storia all’Università di Colonia e autore tra l’altro del libro La presenza militare tedesca in Italia 1943-1945 (Roma 2004). Il professore fa parte della commissione di storici, composta da cinque membri italiani e altrettanti tedeschi e presieduta da Mariano Gabriele e Wolfgang Schieder, che ha iniziato i suoi lavori nel 2009 con lo scopo di analizzare gli avvenimenti del periodo 1943-1945 e in particolare il destino in gran parte dimenticato fino a oggi, come si legge nella premessa degli italiani deportati in Germania.. «Direi che l’obiettivo era quello di dar vita a un’azione di più ampio respiro, che definirei in primo luogo culturale». Si trattava di andare alle radici dei pregiudizi che gli italiani hanno dei tedeschi e i tedeschi degli italiani, con un convincimento di fondo: in origine è stata la seconda guerra mondiale. È lì che è cominciato tutto: i tedeschi ne sono usciti come un popolo «duro, inflessibile, a tratti crudele», gli italiani come «inaffidabili, simpatici e sostanzialmente cialtroni».
Professor Gentile, il vostro rapporto, al posto di considerazioni accademiche, ha offerto «raccomandazioni» come l’istituzione di una fondazione o la concessione di borse di studio. Si può definire un contributo politico?
«Resta il lavoro di una commissione di storici, ma è vero che ha avanzato delle proposte molto concrete: penso alla fondazione sulla storia contemporanea italo-tedesca, col contributo non solo di istituzioni pubbliche dei due Paesi, ma anche di aziende e organizzazioni che impiegarono gli internati militari in Germania; penso all’ampliamento della banca dati sui crimini commessi dai tedeschi in Italia in quel periodo e la realizzazione di una sorta di atlante delle violenze; penso anche all’idea di organizzare summer school su temi attinenti la storia contemporanea italo-tedesca e all’iniziativa di appoggiare un fondo per incentivare le traduzioni di importanti pubblicazioni scientifiche in questo settore».
Com’è stato lavorare con i colleghi tedeschi su temi così cruciali come il ruolo avuto dai due Paesi, Italia e Germania, durante la seconda guerra mondiale?
«Si è partiti da una considerazione reciproca molto alta, ci siamo ritrovati come studiosi, ma a nostra volta inseriti in una comunità più ampia, in cui le dimensioni nazionali non erano in primo piano, né hanno prevalso nel corso dei tanti incontri che abbiamo avuto dal 2009 a oggi. Al centro di tutto si trovava l’interesse per la materia, e la volontà di far luce su alcuni momenti della nostra storia comune per dar vita a una cultura comune della memoria. Con i colleghi tedeschi ci possono essere diversità nelle mode o nei temi, ma le radici metodologiche sono le stesse».
Nel rapporto si parla anche della necessità, da parte dei nostri due popoli, di decostruire i pregiudizi accumulati nel passato. Quali sono i più resistenti, dal punto di vista storico?
«Da parte italiana resiste lo stereotipo di una Wehrmacht (le forze armate tedesche istituite nel 1935 e sciolte nel 1946, ndr) assimilabile alle SS naziste, ma certo non si può dire che la Wehrmacht sia stata un’organizzazione criminale. Teniamo presente che ogni tedesco ha in famiglia un parente che ha prestato servizio per la Wehrmacht, è evidente che la sensibilità su questo tema è molto alta».
E da parte tedesca?
«Sicuramente il ruolo e il significato dei partigiani. Nei tedeschi resiste l’idea che si tratti di banditi, quando non di terroristi, gente che faceva attentati contro le truppe regolari senza cogliere la portata politica dei propri stessi gesti. È chiaro che la nostra lettura è molto più complessa e sofisticata».
Sulla persecuzione degli ebrei ci sono letture divergenti?
«Su questo la lettura è condivisa sia dagli italiani sia dai tedeschi: nessuno nega che in Italia ci sia stato l’antisemitismo, così come nessuno nega che la persecuzione degli ebrei sotto il regime italiano sia stata ben diversa da quella sotto il regime tedesco. Non a caso la persecuzione si trasforma in pericolo di vita per gli ebrei italiani quando comincia l’occupazione tedesca, e questo è un dato oggettivo». "PROPOSTE CONCRETE «Un atlante delle violenze commesse in Italia, un fondo per incentivare le traduzioni» Da parte nostra resiste lo stereotipo di una Wehrmacht assimilabile alle SS naziste Da parte loro, l’idea dei partigiani come banditi che non coglievano la portata politica dei propri gesti"

Corriere 20.12.12
«Italiani brava gente» Un mito da sfatare al pari della Wehrmacht
di Maurizio Caprara


ROMA — In 172 pagine di un rapporto su italiani e tedeschi nella Seconda guerra mondiale tanti punti possono colpire l'attenzione. Ma uno assume particolare importanza se si considera che il testo è stato scritto da una commissione di dieci storici provenienti da entrambi i Paesi su incarico dei rispettivi governi, benché gli autori sostengano di aver esercitato il mandato «in modo completamente indipendente». Il punto è questo: «Così come oggi non può sopravvivere in Germania il mito del corretto comportamento della Wehrmacht sul suolo italiano, altrettanto inaccettabile è la sopravvivenza del mito degli "italiani brava gente" in riferimento alla Seconda guerra mondiale».
È un invito a «entrambe le parti» ad «assumersi le proprie responsabilità storiche» il corollario di quell'affermazione. Wehrmacht era il nome delle vecchie forze armate tedesche. Nel rammentare «la stretta collaborazione tra i regimi dittatoriali di Mussolini e di Hitler» e le comuni guerre in Francia, Grecia, Jugoslavia, Africa, Unione sovietica, il rapporto aggiunge: «I tedeschi devono riconoscere che gli italiani non sono stati soltanto collaboratori, ma anche vittime; e gli italiani, da parte loro, devono accettare di non essere stati soltanto vittime, bensì, anche, in certa misura complici e collaboratori».
Sia chiaro, non ci sono indennizzi in vista e fu proprio l'esigenza di attenuare le diffidenze di alcuni nostri connazionali che volevano risarcimenti rifiutati dalla nuova Germania a spingere il governo tedesco, nel 2008, a concordare con quello italiano di formare la commissione. A presiederla poi furono chiamati i professori Mariano Gabriele e Wolfgang Schieder. Alla base dello studio, presentato ieri a Roma dai ministeri degli Esteri Giulio Terzi e Guido Westerwelle, c'è il proposito di favorire «gli ideali di riconciliazione» che sono le fondamenta della costruzione europea dalle sue origini nel dopoguerra. Le principali proposte operative del rapporto consistono soltanto in tre inviti. La prima: per tener vivo il ricordo degli italiani costretti a lavorare per la Germania, ampliare il memoriale nell'ex campo di Berlino-Niederschöneweide. Lì furono detenuti alcuni dei circa 600 mila militari del nostro Paese deportati dopo l'armistizio del 1943 con gli Alleati. La seconda proposta: riservare a quegli internati un «luogo della memoria» a Roma. La terza: una fondazione italo-tedesca di studi storici.
È nelle pieghe del rapporto che ci sono materia per far discutere e spunti per integrare le conoscenze di una storia non certo destinata a scoperte tali da farla ribaltare rispetto a come la conosciamo. Sul «collaborazionismo degli italiani» con gli occupanti tedeschi nella Repubblica sociale, secondo la commissione, esiste «una grande lacuna» nella ricerca storica. Italiani collaborarono a tante deportazioni di ebrei in Germania.
A giudizio della commissione tra '43 e '45 ci fu la «sovrapposizione di tre conflitti»: la guerra dei tedeschi contro gli Alleati salvo «casi eccezionali» condotta «in conformità al diritto internazionale», quella «contro i partigiani condotta da unità della Wehrmacht, delle Waffen-Ss e della polizia d'ordinanza — non di rado affiancate dalle milizie fasciste — con particolare durezza e scarso rispetto del diritto internazionale», poi «il conflitto tra truppe tedesche d'occupazione e la popolazione civile, che in momenti e regioni determinate degenerò in una vera e propria guerra contro la popolazione civile, condotta con mezzi criminali». Nel 20% dei casi i crimini di militari tedeschi furono reazioni o rappresaglie, ha fatto notare agli autori il presidente dell'Associazione nazionale partigiani Carlo Smuraglia, e nell'80% «barbarie gratuite».

l’Unità 20.12.12
Eccidio di Cefalonia
«Quei 20 ergastolani ancora in libertà»
Nonostante le condanne a tutt’oggi molti criminali nazisti vivono tranquilli in Germania. I giudici: «Tocca ai due governi risolvere la questione»
di Franco Giusolisi


Ma che giustizia è quella per cui le sentenze non vengono eseguite? Questa quanto meno inutile se non assurda e in antitesi completa con i concetti che ci hanno insegnato a scuola. Gli ergastolani nazisti, a tutt’oggi una ventina, se ne stanno tranquilli in Germania, condannati sì alla pena massima per le loro stragi, ma in pratica indisturbati. Se ne è parlato ieri alla prima udienza del processo contro uno degli assassini di Cefalonia, che io preferisco definire sicari: Alfred Stork, caporale tedesco della terza compagnia del 54° battaglione cacciatori di montagna (gli Gebirgs Jager). Oggi ha novant’anni, è reo confetto, ha pure detto in un’occasione che gli dispiace per quel che ha fatto, ma non poteva disubidire agli ordini. I sicari sono così: fanno qualsiasi cosa che gli ordina il capo. Lui partecipò alla fucilazione di 117 ufficiali della Divisione Acqui davanti all’ormai famosa «casetta rossa». Gli ufficiali uccisi furono almeno 500, mentre non si conosce nemmeno il numero esatto dei militari italiani uccisi (dai 3000 a 6000 si dice) perché le supreme autorità militari se ne sono elegantemente lavate le mani, non pretendendo neanche le esecuzioni delle sentenze. Erano presenti due parti civili: Marcella De Negri, figlia del capitano Francesco De Negri. Aveva la tessera del partito fascista in tasca, ma non la esebì, come fecero altri che così ebbero salva la vita, per un estremo atto di dignità. E Paola Fioretti, figlia del tenente colonnello Giambattista Fioretti, capo di Stato maggiore della divisione, che non aveva da esibire nulla, perché neanche era iscritto al famigerato P.N.F. (partito nazionale fascista). Questo avvenne perché i nostri soldati resistettero all’attacco nazista ubbidendo agli ordini di un re pur fellone. Il pubblico accusatore di Norimberga, generale Telfor Taylor, definì quel che era avvenuto come «la peggior disfatta di tutte le guerre moderne» eppure da quasi settant’anni i tanti colpevoli, scovati a seguito dell’apertura dell’«armadio della vergogna», se ne stanno tranquilli come i tanti che sono stati assolti. Questo discorso vale anche per i sicari di Marzabotto, Stazzema, Firizano e di un elenco interminabile di altri massacri di civili: piccoli, vecchi, donne. I sicari di Stazzema (ne sono rimasti in vita una decina) sono stati addirittura assolti perché non è possibile stabilire la loro reità, anche se qualcuno aveva confessato. Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano lo ha definito un evento «sconcertante». E che qualche benpensante non venga a dire «ma è passato tanto tempo...». Sono delitti imprescrittibili. Punto. Dopo la scoperta dell’«armadio della vergogna», Marcella De Negri e Paola Fioretti continuano nella loro lunghissima ricerca di giustizia, trasferendosi spesso anche in Germania. A loro spese, senza alcun aiuto. Eppure gli uomini della Divisione Acqui sono morti per la nostra dignità. All’udienza di ieri le richieste delle parti sono state tutte respinte. Nuova udienza il 31 gennaio. Il presidente, Antonio Lepore, è stato giudice della seconda sentenza che condannò all’ergastolo Erich Priebke, uno degli assassini delle Fosse Ardeatine, e Gup nel processo contro Othmar Mualauser, sottotenente che comandò i plotoni d’esecuzione contro gli ufficiali della Divisione Acqui. Un commento sulle sentenze rimaste per aria? Prima si schernisce, poi sbotta: «Tutti i provvedimenti debbono essere eseguiti». Più loquace il pm Marco De Paolis, procuratore capo a Roma: «La questione può essere risolta solo dai due governi». Perché finora questo non è avvenuto? «Non ho elementi per esprimere un parere». Intanto tutti tacciono: tacciono gli attuali ministri della Difesa, della Giustizia e degli Esteri del governo Monti ai quali si sono rivolti con un’interrogazione a giugno tutti, dicesi tutti, i senatori del Pd; tace anche l’Anpi nazionale che mi caccia via dall’Anpi di Roma (formalmente non mi viene rinnovata la tessera di merito) perché, sostengono che non ci sono misteri. Se l’Unità me lo consentirà, vi elencherò nel dettaglio. Uno che non ha taciuto è stato il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, un tedesco. Nel 68° anniversario della strage di Stazzema disse: «Questi criminali nazisti vanno perseguiti fino alla fine dei loro giorni».

il Fatto 20.12.12
Quando i nazisti uccidevano 165 italiani al giorno
Il ministro degli esteri Westerwelle parla dei crimini di guerra e delle responsabilità attuali nella crisi
di Giampiero Gramaglia


Guido Westerwelle, ministro degli esteri tedesco, dice che “gli stereotipi minano l’amicizia”: un’affermazione sempre vera, anche se lui pensa a Italia e Germania. Però, a sapere la verità, l’amicizia non sempre ci guadagna di primo acchito: il rapporto della commissione degli storici italiani e tedeschi sui fatti avvenuti nel nostro paese tra l’8 settembre 1943 e l’8 maggio 1945, quando il Terzo Reich cadde, è così crudo che ti viene da pensare che sarebbe stato meglio non scoperchiare il verminaio.
In quel periodo – il computo è di uno storico tedesco, Gerhard Schreiber-, gli occupanti tedeschi si resero responsabili dell’assassinio di 165 italiani al giorno in media, tra prigionieri di guerra, civili, internati militari e de-portati. Quindi, senza contare le vittime di atti di guerra ‘legittimi’: partigiani e soldati uccisi in scontri con la Wehrmacht, l’esercito tedesco. Ma –la nota è di Schreiber-, nessuno è mai stato definitivamente condannato in Germania per crimini di guerra in Italia.
Eppure, i sentimenti popolari tra Italia e Germania, oggi offuscati da diffidenze e rivalse, sono più condizionati dal presente europeo ed economico che da quell’atroce passato; e ne risentono più le opinioni pubbliche che i governi.
WESTERWELLE dice che "la grande maggioranza degli italiani sa che la Germania non è responsabile dei loro problemi e dell’elevato debito pubblico"; ma paventa una campagna elettorale anti-europea –leggi, anti-tedescae populista, con lo slogan ‘dagli allo spread’. E Berlino definisce “una fantasia negativa” l’ipotesi dell’Italia fuori dall’euro. La pubblicazione a Roma del rapporto è un momento di riconciliazione, anzi va ben oltre: Italia e Germania vogliono costruire insieme una "cultura comune della memoria", promuovere iniziative per commemorare le vittime delle stragi naziste della Seconda Guerra Mondiale e "mostrare come da quelle tragedie i nostri Paesi siano riusciti a uscire". Lo dice il ministro degli Esteri Giulio Terzi che, col collega Westerwelle, presenta alla Farnesina le conclusioni della Commissione costituita al vertice italo-tedesco di Trieste del 2008 –il Vertice del Cucù, per chi non lo ricordi, con Mr B appostato dietro una colonna a fare cucù alla cancelliera.
Obiettivo, approfondire il passato di guerra italo-tedesco, specie la sorte degli internati militari italiani. Da allora, alcune sentenze tedesche mal percepite in Italia hanno quasi acuito il bisogno d’una parola serena, ma esatta, su quanto avvenne in quei 20 mesi di guerra anche civile in Italia.
Il rapporto fa una serie di raccomandazioni: la realizzazione di un luogo della memoria nel campo di lavoro coatto a Berlino, la creazione di una fondazione sulla storia italo-tedesca, il finanziamento di borse di studio e di fondazioni presso i comuni delle vittime. Westerwelle riconosce che “contro gli italiani”, i tedeschi hanno “perpetrato crimini ingiustificabili", una "responsabilità" che non è stata negata dalla sentenza di febbraio della Corte dell'Aja, che pure accolse il ricorso della Germania contro l'Italia per il blocco delle indennità alle vittime dei crimini nazisti.
Ma la risposta al passato non è un indennizzo. E’ l’Europa dell’integrazione. Senza rinunciare ai diritti, perché –dice Terzise l’Italia “prende atto” della sentenza dell’Aja, continua “a richiedere l'esecuzione in Germania delle sentenze dei tribunali italiani.

l’Unità 20.12.12
Colonie, Anp contro Israele: «Andremo al tribunale dell’Aja»
di Roberto Adui


Il ministero israeliano per l’Edilizia abitativa ha pubblicato un bando di gara d’appalto per la costruzione di 1.048 nuove case nelle colonie in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Le nuove costruzioni sorgeranno in gran parte in insediamenti della Cisgiordania Betar Ilit, Karnei Shomron, Givat Zeev e Efrat -, e in un numero indeterminato nel quartiere di Har Homa, a Gerusalemme Est, ha precisato il portavoce del ministero. Le autorità comunali di Gerusalemme avevano approvato già un progetto per la costruzione di 2.610 case a Givat Hamatos, nel sud del settore orientale della città. Se questi progetti saranno realizzati, Givat Hamatos diventerà il primo quartiere di colonizzazione ebraica costruito a Gerusalemme Est negli ultimi 15 anni. La commissione di pianificazione del distretto di Gerusalemme si riunirà inoltre oggi per esaminare il progetto per la costruzione di 1.100 case nel quartiere ebraico di Gilo. Lunedì il ministero dell’Interno aveva dato il via libera alla costruzione di 1.500 case a Ramat Shlomo, altro quartiere di Gerusalemme Est, rilanciando un progetto che era stato condannato da Washington nel 2010.
Le reazioni non si sono fatte attendere. «Chiediamo insistentemente al governo israeliano di rispondere agli appelli internazionali e di rinunciare a questi progetti», ha dichiarato il segretario generale aggiunto dell’Onu agli affari politici, Jeffrey Feltman, davanti al Consiglio di sicurezza. L’Onu ha chiesto anche agli israeliani «di ricominciare senza rinvii a trasferire» all’Autorità palestinese i fondi provenienti dalla raccolta delle tasse e dei diritti doganali, eseguita da Israele per conto dell’Anp. Il governo israeliano ha bloccato questi fondo dopo il voto all’Onu di fine novembre che ha riconosciuto ai palestinesi lo status di Stato osservatore. Feltman ha invitato anche i Paesi arabi a rispettare la loro promessa di fornire rapidamente un «aiuto finanziario generoso» ai palestinesi per compensarli dei tagli effettuati da Israele.
La politica coloniale israeliana spinge i palestinesi a rivolgersi alla Corte Penale Internazionale: «L’intensificazione della politica coloniale, le azioni per l’assassinio e l’arresto di palestinesi possono accelerare il nostro ricorso alla Cpi», ha dichiarato Mohammad Chtayyeh, uno dei negoziatori dell’Anp.

Corriere 20.12.12
La nascita dello Stato palestinese a garanzia dell'esistenza di Israele
di Arrigo Levi


Mi è capitato di leggere un articolo di un israeliano, il cui titolo («È dall'età di sei anni che sono in guerra») diceva tutta la stanchezza che non può non prevalere in tanti giovani e meno giovani israeliani. Non poteva non tornarmi alla mente un momento un po' speciale nella mia vita — e nella vita dello Stato ebraico. Il 1° gennaio 1948, alle due del mattino, arrivò alla mia unità, che era la compagnia di genio numero 2 della brigata del Negev, a cui ero stato assegnato poco dopo il mio arrivo in Israele, il 28 giugno di quell'anno, la notizia che a Cipro era stata firmata la tregua fra Israele e i vari Paesi arabi che avevano dato inizio alla guerra con l'aggressione a Israele, rifiutando la decisione dell'Onu di istituire in Palestina due Stati nazionali, uno ebraico e uno palestinese, essendo sicuri che i loro eserciti avrebbero «buttato a mare», rapidamente e senza difficoltà, ognuno di quei cinquecentomila ebrei che formavano allora tutta la popolazione d'Israele. Un annuncio ripetuto, convincente e intollerabile, che aveva spinto oltre a me un certo numero di giovani ebrei della diaspora, non programmaticamente sionisti, a partire per Israele per arruolarsi.
La notizia ci raggiunse al confine con l'Egitto. Eravamo rientrati quel giorno da Abu Agheila, la punta avanzata dello schieramento israeliano, a 36 chilometri sulla strada verso il Cairo, che correva in quel punto a una trentina di chilometri dal mare. Quella notte, in quel momento, noi pensammo che la guerra fosse finita, e che Israele avesse vinto la pace, il diritto di vivere in pace in un proprio Stato, accanto a uno Stato palestinese. Non soltanto noi al fronte; quella notte, con dilagante entusiasmo, Israele pensò di aver conquistato il proprio diritto all'esistenza e si sentì finalmente in pace: dopo la guerra di solito viene la pace. Non perché pensassimo di esserci sbagliati, ma con un ultimo riflesso condizionato da militari in uniforme (le uniformi, in verità, non le avevamo avute da molto tempo: per quasi tutta la guerra ognuno era rimasto vestito così come si era presentato al momento dell'arruolamento), dopo aver brindato con bicchieri di succo d'arancia, ripartimmo poco dopo per Abu Agheila, per minare e far saltare in aria il grande ponte che correva in quel punto su un vasto «vadi». In caso che gli egiziani, nonostante la tregua, intendessero continuare la guerra: ma non era possibile. Alle sei di mattina eravamo già di ritorno in patria: lo stesso giorno, la nostra unità, o forse dovrei dire tutto l'esercito, cominciò a sfaldarsi. Il nostro bravo tenente se ne tornò a Ramat Gan, dove gestiva un garage, facendosi vedere di rado. Noi immigrati, che venivamo dai Paesi dell'Occidente e non eravamo dei sopravvissuti ai gulag, restammo al nostro posto: anche se al venerdì sera molti di noi andavano a passare il sabato ospiti di amici, a Tel Aviv o altrove. Israele era un piccolo Paese; quando ci chiedevamo: tu che farai, finita la guerra? rispondevamo: visiterò Israele. La controrisposta di rito era: e al pomeriggio? Non immaginavamo che saremmo arrivati alla fine della vita senza aver visto la fine della guerra. Ci chiediamo: per colpa di chi? Principalmente di quel mondo arabo-palestinese che (anche se oggi il rifiuto dell'esistenza d'Israele rimane limitato a Hamas e alla Siria, ma non è dir poco) continua a non accettare non dico lo Stato d'Israele, ma la nascita dello Stato di Palestina accanto a quello di Israele. Così, ha forse ragione quel non più giovane israeliano che dall'età di sei anni sente di vivere in guerra. Di questo, ha un poco di colpa anche quella destra israeliana, religiosa o ultranazionalista, che invece di cogliere la decisione dell'Onu di ammettere i Palestinesi, sia pure dall'entrata di servizio, come l'occasione di iniziare subito un negoziato definitivo di pace in sede Onu (come suggerisce il presidente Peres), risponde con la tipica cecità di Netanyahu (ma lui non la considera certo cecità), di prenderne motivo per costruire nuovi insediamenti in punti strategici, creando una montagna di ostacoli sulla via del negoziato: di un negoziato che conduca finalmente alla pace.
Dico questo; anche se sento come sempre in questi casi una certa riluttanza a criticare Israele. Affiora ogni qualvolta (e le volte sono state tante) ho sentito non la tentazione ma direi piuttosto il dovere di farlo. Sono già in tanti a criticare Gerusalemme, a torto o a ragione, è proprio necessario aggiungere anche la mia piccola fastidiosa voce dalla diaspora? Prevale la convinzione (l'ho argomentata già qualche decennio fa) che criticare è giusto, e anzi doveroso quando la critica appare giustificata, nell'interesse d'Israele. E poi la mia critica sarà non meno irrilevante dell'automatica alzata di consensi a Israele che viene, come è d'uso, appunto dalla diaspora, da parte di quella grande maggioranza di ebrei del mondo che non si sono mai sognati di trasferirsi in Israele, magari anche soltanto per il tempo di combattere una guerra. Conforta, ovviamente, il giudizio di un grande scrittore israeliano come David Grossman, che definisce la risposta di Netanyahu «una reazione prepotente al voto delle Nazioni Unite». Oltre che prepotente, a mio avviso dannosa per l'interesse d'Israele, che sarebbe, ovviamente, di vedere nascere finalmente uno Stato palestinese al proprio fianco, a suprema garanzia della propria stessa esistenza.

Repubblica 20.12.12
Algeria
Il sogno della libertà nel paese dimenticato dalla Primavera
di Vanna Vannuccini


A 50 anni dall’indipendenza le speranze infrante della nazione simbolo della fine del colonialismo Le proteste scoppiano periodicamente: ma il ricordo della guerra civile degli anni ’90 fa tremare la gente

ALGERI In un cinema dall’aria fatiscente a Staoueli, a una trentina di chilometri da Algeri, una platea di anziani militanti del Fronte di liberazione nazionale (Fln) ascolta il Segretario generale Abdelaziz Belkhadem. «Dobbiamo ringiovanire i quadri del partito», incalza il leader, «convincere i giovani a partecipare alla costruzione del Paese, ridare loro una speranza, e più diritti». Basta, però, guardarsi intorno per accorgersi che nella sala i giovani latitano: solo una piccola percentuale ha partecipato alle recenti elezioni, la maggioranza non crede che le pouvoir possa cambiare. L’Fln è il partito simbolo della lotta per l’indipendenza, di cui l’Algeria celebra i 50 anni. Formatosi nel pieno della guerra anti-coloniale, è al potere, appunto, da mezzo secolo: dalla fine delle ostilità contro la Francia.
È proprio uno dei suoi esponenti storici, il presidente Abdelaziz Bouteflika, ad accogliere il suo omologo francese François Hollande sbarcato ieri nella capitale per «aprire una nuova era» nei rapporti con l’ex colonia. E proprio i giovani che disertano l’incontro al cinema con un potere in cui non si riconoscono, seguiranno la visita di Stato del capo dell’Eliseo per scoprire cosa intenda davvero Hollande quando vuole «mettere una pietra sopra il passato»: se cioè sia «il rifiuto delle autorità francesi di riconoscere, scusarsi o indennizzare, materialmente e moralmente, i crimini commessi dalla Francia coloniale in Algeria», come denuncia una decina di partiti algerini, o se sia invece la promessa di una serie di accordi commerciali che diano un po’ di fiato all’asfittica economia. Hollande ripete che «non sono venuto qui per pentirmi o chiedere scusa»; invita a «lavorare per l’avvenire » e progetta «una mobilitazione delle nostre due società».
Ma i solenni discorsi del francese arrivano smorzati nel caffè vicino al cinema, dove s’incontra la gioventù cui i politici vorrebbero restituire un orizzonte. Samir beve un tè alla menta con tre amici. Solo uno di loro ha un lavoro, mi dicono, come guardiano notturno. Nemmeno con una laurea si trova un impiego che ti dia una paga sufficiente a metter su famiglia. «Siamo tutti harraga», sorride Samir: un harraga è chi brucia il passaporto e lascia tutto dietro di sé verso un solo obbiettivo, imbarcarsi per l’Europa per cercare di farsi una nuova vita. Questo è il suo sogno, dice Samir. E quello dei suoi due compagni. E dei suoi quattro fratelli.
L’età media dei matrimoni in Algeria è 32 anni (ad Algeri ancora più alta). Senza un lavoro e senza una casa come fai a sposarti? Per un musulmano 32 anni è molto tardi perché solo il matrimonio permette una vita sessuale normale. Posti dove i giovani si possano incontrare non ci sono. Perfino la mensa universitaria è separata tra maschi e femmine. L’islamizzazione era cresciuta esponenzialmente negli Anni Ottanta, dopo l’arabizzazione delle scuole e delle università decisa dal governo. Gli insegnanti di lingua e educazione francese, non potendo insegnare in arabo uscirono dalle scuole, lasciando il posto a maestri venuti in massa dall’Egitto e dalla Giordania, legati alla Fratellanza musulmana e più interessati all’ideologia che alle materie scolastiche.
La disoccupazione giovanile è ufficialmente al 20 per cento, in realtà molto di più, e il problema degli alloggi — conseguenza anche dell’esplosione demografica: in 50 anni la popolazione è passata da 10 a più di 30 milioni — è «una minaccia per la stabilità
del Paese», come dice il premier Abdelmalek Sellal. L’Algeria ricava più di 50 miliardi di dollari l’anno dalle esportazioni di gas e petrolio, ma una parte di questa rendita si perde nell’apparato corrotto dello Stato, un’altra va ai militari, mentre una burocrazia
onnipotente e inefficiente impedisce che il resto venga utilizzato per modernizzare il Paese.
Dopo le prime manifestazioni di protesta in Tunisia e al Cairo anche ad Algeri molti giovani sono scesi in piazza. Ancora scoppia ogni tanto la hogra, la rabbia che nasce dall’impotenza, dal dover sottostare agli abusi dello Stato. Basta che perda la squadra del cuore perché volino sassi e si dia fuoco alle automobili. «La primavera araba noi l’abbiamo già avuta», ironizzano molti algerini. Ricordano che quando nel 1992 l’Algeria cercò di liberarsi del partito unico precipitò nella guerra civile, con atrocità inimmaginabili da tutte le parti. Morirono più di 200mila persone, le campagne furono abbandonate in massa perché vivere lì era ancora più pericoloso che in città. Per 10 anni nessuno è più uscito di casa la sera. Oggi gli algerini dubitano che la partecipazione della gente alla vita politica sia possibile senza che si ripetano simili episodi di violenza.
A festeggiare l’indipendenza sono soprattutto i vecchi militanti della guerra. Restano in pochi a difendere “il potere”: «Dopo 132 anni di occupazione avevamo ereditato un Paese in rovina», dice Kassa Aissi. «Non c’erano case. Gli algerini vivevano in baracche, solo un milione di francesi aveva ville e abitazioni confortevoli. Il 99 per cento della popolazione era analfabeta. Tra occupazione e guerra le élite erano state decimate. Oggi abbiamo centinaia di università, lo studio è gratuito, il trasporto per gli studenti anche, e così l’assistenza sanitaria. Acqua elettricità farina olio zucchero hanno prezzi sovvenzionati. Eppure perché tanti giovani rischiano la morte su un barcone pur di andarsene in Europa? ». A 50 anni dall’indipendenza, l’Algeria è ancora traumatizzata e divisa: tra vecchi e giovani, poveri e ricchi, città e campagna, Algeri e il resto del Paese.

il Fatto 20.12.12
Folle omicida, psichiatra in carcere
Scandalo in Francia: condannata per un errore di diagnosi
di Alessandro Oppes


Il paziente uccide, ma la condanna è per il medico. Con una sentenza che fa scandalo, il tribunale di Marsiglia ha inflitto una pena di un anno di reclusione con la condizionale alla psichiatra Daniele Canarelli. L'accusa: omicidio colposo. Un reato che non è stato commesso da lei ma da un suo assistito di lunga data, Joel Gaillard, 43 anni, malato di schizofrenia paranoide, e quindi non imputabile. L'uomo era in cura dal 2000, quando venne ricoverato per la prima volta nell'ospedale marsigliese Edouard-Toulouse. Da allora, in un anno e mezzo, venne internato d'ufficio in quattro occasioni: decisioni sistematicamente annullate – a quanto rivela il quotidiano Le Parisien – dalla dottoressa Canarelli. A riprova della sua pericolosità, ogni volta che riacquistava la libertà Gaillard veniva arrestato per una serie di gravi reati: violenze, un incendio doloso, un tentato omicidio. E sempre il suo stato di salute portava i giudici a dichiarare il “non luogo a procedere”.
Nel 2004, la tragedia. Dopo una visita di controllo in ospedale, si dà alla fuga. Venti giorni dopo, è il 19 febbraio, va a Gap e uccide a colpi di accetta Germain Trabuc, il compagno di sua nonna 83enne, essendosi convinto che si volesse impadronire dell'eredità familiare. Gaillard viene processato l'anno successivo ma, ancora una volta, è dichiarato irresponsabile. Un esito che non va giù ai familiari della vittima. Uno dei figli di Trabuc, Michel, presenta una denuncia contro lo Stato e contro il centro ospedaliero del XV arrondissement di Marsiglia, che nel 2009 viene condannato per “omessa sorveglianza”. La denuncia successiva è rivolta contro tutti coloro che possano essere individuati come “responsabili di negligenza”. Emerge così il nome di Canarelli, che davanti ai giudici, pur ammettendo un “problema di diagnosi”, si difende in questo modo: “Avevo con lui una relazione di fiducia. Non mancava un appuntamento e non si erano verificati incidenti durante i suoi ricoveri”.
Una versione che non convince affatto il tribunale di Marsiglia, convinto che la psichiatra abbia commesso un “grave errore” non riconoscendo il pericolo per il pubblico rappresentato da Gaillard. Per i magistrati, il medico avrebbe dovuto internare il paziente in una unità per malati difficili, cosa che avrebbe consentito di mantenerlo sotto stretta sorveglianza. Ora il medico farà appello, ma quello che preoccupa di più sono le possibili conseguenze di questa sentenza: “Se lo psichiatra deve vivere con il terrore della condanna dice il suo difensore Sylvain Pontier questo renderà di sicuro più dure le misure prese verso i pazienti”.

Repubblica 20.12.12
Se lo psichiatra finisce in carcere per il delitto commesso dal paziente
Polemiche anche in Italia dopo la condanna di un medico francese
Una psichiatra è stata condannata a un anno per omicidio colposo
di Maria Novella De Luca


ROMA — Il crinale è sottile, controverso, pericoloso. Se un detenuto ritenuto ormai “recuperato”, esce dal carcere per un permesso premio e compie un omicidio, di chi è la colpa? E se un paziente psichiatrico, considerato ormai “guarito” scappa dall’ospedale in cui era ricoverato, torna a casa e uccide un suo familiare, chi dovrà pagare per questo? La psichiatra che lo aveva in cura — hanno decretato i giudici — e che non aveva mai accettato di “internarlo” in un cosiddetto reparto protetto, giudicando il suo paziente ormai non più pericoloso.
Sta dividendo la Francia la sentenza contro Daniéle Canarelli, psichiatra di Marsiglia condannata per omicidio colposo a un anno di reclusione, per aver sottovalutato la pericolosità di un suo paziente schizofrenico. Il quale, Joel Gaillard, ricoverato in ospedale ma non sottoposto ad alcuna restrizione, nel 2004 fuggì dal reparto per andare ad uccidere l’anziano compagno della nonna, convinto che questo volesse impadronirsi dell’eredità familiare. Ed è stato uno dei figli della vittima a denunciare la dottoressa Canarelli, dopo che il killer era stato ritenuto “irresponsabile penalmente”. Un processo lungo e sotto i riflettori, che ha spaccato animi e coscienze, da una parte i medici, dall’altro le associazioni dei parenti delle vittime, e concluso con una sentenza di condanna, la prima in Francia, nei confronti della psichiatra.
Una condanna giusta per un conclamato errore medico? Oppure no, perché curare e lavorare con i fantasmi di una mente malata lascia sempre dei margini di insicurezza, ma nello stesso tempo è necessario provare e credere nel reinserimento degli esseri umani? Risponde con voce grave uno dei più famosi psichiatri italiani, Giovan Battista Cassano: «Predire la pericolosità sociale di un soggetto con una patologia mentale, anche dopo anni di terapia, è quasi impossibile. Ogni mattina quando mi alzo spero di non leggere una notizia di cronaca nera che riguarda un paziente che ho curato, che è passato nei nostri reparti. Spero che non abbia fatto male a se stesso, alla moglie, ai suoi bambini... Perché c’è sempre una parte non governabile nella malattia mentale, ma anche, aggiungo, in soggetti che sembrano perfettamente sani».
Del resto, dice ancora Cassano, «se pensiamo che le persone debbano essere restituite alla società, fuori dalle carceri, fuori dagli ospedali psichiatrici, dobbiamo correre il rischio di questa libertà ». L’alternativa, infatti, è «tenere tutti dentro, riaprire i manicomi, luoghi di contenzione da cui non si esce più, abdicando così al principio del recupero e del reinserimento». È dunque insito nella professione di chi cura la malattia mentale il rischio di errore, «ma non può e non deve essere lo psichiatra a pagare», conclude il professor Cassano.
Ci vogliono servizi, strutture, assistenti sociali, controlli. I permessi, la semilibertà, sono misure fondamentali, vogliono dire che la società si occupa di tutti, anche di chi ha sbagliato. Ma costano, e sono pochi. E sono ormai diversi i casi di detenuti considerati non più pericolosi diventati killer durante le loro ore “libere”. Angelo Izzo, uno dei “mostri” del delitto del Circeo, per ricordare il caso più clamoroso, considerato da giudici e psichiatri completamente “redento”. Che invece uscì, e assassinò una madre e una figlia. Nessuno di quelli che concessero la semilibertà ha pagato per quel-l’errore, al contrario di quanto è invece accaduto per in altri casi. Racconta un giudice di sorveglianza romano: «Sulle nostre spalle grava una responsabilità enorme, e facciamo il massimo perché quando viene decisa una misura di liberà il rischio sia minimo. E in effetti il tasso di delitti compiuti durante i permessi è ancora molto basso. Ma un margine di rischio c’è, inutile negarlo».
Un’ombra, una zona oscura. Una parte scissa che resta nascosta anche allo psichiatra più attento, al perito più esperto. E poi affiora, e porta alla tragedia. Perché appunto il crinale è sottile, ragiona Emanuele Caroppo, docente di Tecnica della riabilitazione psichiatrica alla Cattolica di Roma. «Ma noi ci troviamo tra due fuochi, criticati se applichiamo misure troppo coercitive e criticati se invece proviamo a reinserire i pazienti in un contesto normale. Noi sappiamo curare la psico-patologia: c’è una terapia, un decorso, la guarigione, tutto è documentato nella cartella clinica. Diverso il caso invece della psicopatia, quella follia nascosta che può sfuggire al terapeuta più bravo, e sfociare purtroppo in tragedia. Non possiamo controllare tutto, ma non è giusto che lo psichiatra venga considerato responsabile per i gesti commessi dal paziente».

Repubblica 20.12.12
L’illusione della società a rischio zero
Se lo psichiatra paga per il paziente assassino
di Michela Marzano


A CHE cosa serve la psichiatria? A rendere inoffensivi i pazzi o ad alleviare la sofferenza di chi soffre – e fa anche soffrire – a causa della propria follia? Il dibattito, che negli anni Sessanta e Settanta era stato molto animato sia in Francia che in Italia, si riapre. La follia fa di nuovo paura. Anche perché, talvolta, è pericolosa.
CI SONO dei pazzi che “passano all’atto” e commettono crimini odiosi. Come il paziente schizofrenico di una psichiatra di Marsiglia che, nel 2004, aveva barbaramente ucciso il compagno della nonna. Al termine di un processo molto contestato, la psichiatra è stata condannata a un anno di reclusione con la condizionale per omicidio colposo. Accusata di non essere stata capace di rendersi conto della pericolosità del paziente, la donna sarebbe in parte responsabile del gesto dell’uomo. Ma che cosa avrebbe dovuto fare per evitare la tragedia? Rinchiudere preventivamente il paziente a vita in un ospedale psichiatrico?
Nonostante le battaglie di Michel Foucault o di Franco Basaglia, la società continua a illudersi di potersi proteggere dagli “anormali” sorvegliando e punendo la follia. Solo che la follia non è una malattia come le altre. Nonostante ogni anno esca una nuova edizione del Dsm, il famoso Manuale che cerca di diagnosticare in modo sempre più preciso le malattie mentali, non esiste alcuna definizione universalmente valida della schizofrenia o della paranoia. La follia non la si può né misurare, né cancellare. Non solo non si può “oggettivare” ciò che dipende sempre e solo dalla soggettività delle persone. Non si può nemmeno eliminarla o debellarla. Perché la follia, esattamente come la violenza o la sofferenza, fa parte anche lei della vita. A meno di decidere di non voler più fare più i conti con la complessità della condizione umana e illudersi che, un giorno, vivremo in una società a “rischio zero”.
Come scriveva Franco Basaglia nel 1967, una decina di anni prima della famosa legge 180 che sanciva la chiusura dei manicomi: “La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla”. Speriamo di non tornare indietro. Speriamo che gli psichiatri possano continuare a prendersi cura della sofferenza dei propri pazienti e non si trasformino in poliziotti.
Ognuno ha il suo ruolo. E se la polizia si deve occupare della sicurezza dei cittadini — ricordandosi che tanti crimini sono commessi da chi non è matto — gli psichiatri dovrebbero sempre e solo evitare di nuocere ai propri pazienti.
Primum non nocere, come diceva già il Giuramento di Ippocrate.

Corriere 20.12.12
Le tre strade per una nuova sanità
di Umberto Veronesi


Caro direttore, negli scorsi giorni il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio hanno entrambi invitato il Paese a riflettere sulla razionalizzazione del sistema sanitario nazionale. Molti cittadini si sono allarmati e hanno interpretato questa sollecitazione come una velata minaccia di abbandono della sanità pubblica, diventata economicamente insostenibile. Un'ansia fomentata dai tagli di risorse attuati ad alcuni servizi sanitari fondamentali, e dal clima generale di crisi e preoccupazione per il domani, che tutti ben conosciamo.
Come paladino della sanità pubblica e dell'eccellenza italiana nella cura e nella ricerca medica, mi sento in dovere di rispondere alle nostre massime autorità, e allo stesso tempo rassicurare gli italiani sulla futura tutela del loro bene più prezioso, la salute. Innanzitutto va ribadito che il nostro sistema sanitario nazionale è fra i migliori al mondo ed è uno dei fattori che fa dell'Italia un Paese ad alto indice di sviluppo. Il nostro problema — o rischio default, come è stato definito — è lo stesso di tutto il mondo occidentale: da un lato la popolazione invecchia e richiede maggiori risorse per curare più a lungo malati cronici o sempre più gravi, dall'altro diminuiscono, per effetto della crisi finanziaria, le risorse disponibili non solo per la sanità, ma per tutta l'area del welfare. Per superare questo impasse ci sono due vie. La prima, più immediata, è indicata dalla Costituzione che all'articolo 32 recita: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti». Dunque l'accesso interamente gratuito ai servizi sanitari è riservato ai meno abbienti, mentre i più ricchi devono contribuire al pagamento, ricorrendo eventualmente a forme private di previdenza. La logica dei ticket, per cui chi più è malato, più paga, va abolita.
La seconda via, più risolutiva, è la riprogettazione dell'organizzazione sanitaria nel suo insieme, alla luce del nuovo sapere. Come già sta accadendo nei Paesi più avanzati, la medicina si dividerà in due grandi aree: la medicina diagnostica, con diffusione capillare sul territorio, studi medici associati ed un certo numero di Centri Diagnostici Strumentali; e la medicina terapeutica che deve contare su un limitato numero di ospedali molto avanzati.
In tutto il mondo si sta pensando a riorganizzare le strutture ospedaliere in modo da tener conto delle tre grandi rivoluzioni occorse negli ultimi 20 anni: la decodifica del dna che renderà la medicina terapeutica estremamente personalizzata, vale a dire definita in base al genoma della persona e al profilo genico della malattia. Quindi con il rapido sviluppo della scienza genomica gli ospedali dovranno aprire una ampia area di ricerca sul dna. Lo sviluppo tecnologico diagnostico e terapeutico, che amplierà le nostre prospettive di cura grazie ad apparecchiature molto sofisticate e costose. Il rapporto medico paziente, che dovrà ispirarsi a nuovi codici di rispetto della dignità del malato, della capacità di ascolto dei bisogni della persona, della cortesia e dell'empatia. Un nuovo sistema relazionale, dunque, che conduce alla centralità della persona malata. Su queste basi si è sviluppata una nuova concezione delle strutture ospedaliere, che tendono ad unirsi per usufruire di un comune centro di ricerca sul dna e un comune centro di apparecchiature tecnologiche d'avanguardia. Entrambi sono infatti costosissimi e nessun ospedale singolo potrebbe permetterseli. In Europa stanno nascendo nuovi modelli di aggregazione intelligente, che potrebbero ottenere eccellenti risultati terapeutici con costi sostenibili. I tre più avanzati sono quello di Stoccolma (Karolinska Institute), di Cambridge (Cambridge Biomedical Campus) e di Milano (Centro Europeo di Ricerca Biomedica). Altri progetti sono sorti in Francia, a Tolosa, e in Germania, a Heidelberg.
Vorrei quindi far presente al capo dello Stato e al premier che la capacità di innovazione e razionalizzazione in Italia esiste, ed è già concretizzata in progetti strutturati e moderni. In particolare Milano è pronta a diventare la capitale europea della ricerca biomedica e ha le carte in regola per farlo. Occorre ora accelerare i tempi perché questa linea di innovazione si sviluppi e si realizzi, dando il via alla tanto auspicata rinascita del Paese.

Corriere 20.12.12
Parto indolore garantito a tutte, così l'Italia si allinea all'Europa
di Adriana Bazzi


L'epidurale per il parto indolore sarà garantita in Italia a tutte le donne. Senza più differenze fra ospedale e ospedale o tra Regione e Regione.
La rivoluzione dei Lea, i livelli minimi di assistenza per i cittadini, ora in fase di revisione, prevede l'inserimento di questa metodica, diffusissima in molti Paesi europei, ma che da noi non ha mai avuto vita facile.
Primo, per questioni legate alla nostra cultura: il biblico «partorirai con dolore» ha condizionato molte donne, limitando in qualche modo l'accesso alla tecnica. Secondo, perché anche una certa concezione «naturalistica» del parto ha contribuito ad allontanare le partorienti da quella che è considerata, da alcuni, un'eccessiva medicalizzazione della nascita.
Ognuno può pensarla come vuole: adesso, però, la sanità italiana offre a tutte questa opportunità.
Attualmente in Italia esiste una situazione molto variegata: ci sono ospedali dove l'epidurale è offerta gratuitamente 24 ore su 24, altri in cui è gratis di giorno e a pagamento di notte, altri che la finanziano solo per una certa quota di pazienti oppure la offrono dietro pagamento di un ticket. E comunque poco più del 15 per cento delle donne attualmente la utilizza. Da ora in avanti la situazione cambierà.
L'analgesia nel parto toglie il dolore, ma la donna continua ad avvertire le contrazioni uterine, può addirittura camminare (non per niente da noi si parla di walking anestesia) e può vivere pienamente l'esperienza del travaglio e del parto.
La tecnica è sicura e gli effetti collaterali sono pochi. A un patto però: che sia eseguita da mani esperte.
La sua futura diffusione richiederà un aumento degli operatori che la praticano e implica fin da ora la necessità che il personale sia adeguatamente formato. E che i protocolli di intervento, oggi diversi da ospedale a ospedale, siano resi omogenei.

Repubblica 20.12.12
L’illusione del pensiero positivo
E ora l’America scopre che il pessimismo è meglio
L’ottimismo indebolisce la capacità critica
La fuga dalla realtà ci trasforma in incoscienti
La rivincita dei pessimisti. La grande crisi porta a ripensare il modello americano esportato in tutto il mondo
Ma resta un dubbio: i progressi scientifici ci sarebbero stati in un mondo tutto al negativo?
di Federico Rampini


L’AMERICA, che aveva inventato e codificato il Positive Thinking e i benefici del pensiero positivo, ora ci ripensa. E ad annunciare la rivincita dei pessimisti è un autorevole saggio che si sta imponendo nelle Business School di tutti gli Stati Uniti.
Prozac Leadership sostiene che la felicità artificiale che ci è stata imposta come una religione è l’equivalente di uno psicofarmaco.
Il pensiero positivo ha indebolito la capacità critica e portato al crac del 2008. Parte dagli economisti l’elogio del Negative Thinking

NEW YORK Virtù triste, consolazione dei perdenti, sintomo del declino di una civiltà: il pessimismo era diventato un tratto quasi esclusivo del carattere europeo. Vai in Cina o in India, in Brasile o in Australia, e trovi nazioni giovani dove il dinamismo economico si associa a fiducia nel futuro, voglia di fare, aspettative crescenti. In quanto all’America, inventò e codificò per prima il Positive Thinking.
Pensare positivo fa bene, genera entusiasmo nei luoghi di lavoro, motiva i dipendenti: così recitava il credo imperante nella società americana da un secolo. Se vuoi fare carriera in azienda, guai ad apparire come un menagramo, bastian contrario,
disfattista.
Perfino nella sfera personale, pensare positivo ti dà una marcia in più, aiuta a superare i difetti e manchevolezze, ti rende più gradevole per i familiari e gli amici.
Ma adesso l’America ci ripensa. Ad annunciare la rivincita dei pessimisti è un autorevole saggio che si sta imponendo nelle Business School di tutti gli Stati Uniti. Ha un titolo che è un pugno nello stomaco: Prozac Leadership.
Proprio così, i top manager che ci hanno imposto la religione dell’ottimismo hanno
somministrato l’equivalente di uno psicofarmaco. Va bene se ti cura la depressione, certo. Ma quando diventa una parte della tua dieta quotidiana, uno stile di vita, il termine Prozac è usato qui in quanto sinonimo di una “felicità artificiale”. Come quella che accompagnò la crescita capitalistica fino al 2008.
Ecco, la grande crisi segna la fine della superiorità dell’ottimismo. Una condanna inappellabile. L’autore di Prozac Leadership è un professore inglese: David Collinson, insegna alla Lancaster University Management School. Ma le sue teorie dilagano soprattutto negli Stati Uniti. È nel mondo delle imprese americane, infatti, che Collinson ha trovato la maggior parte dei 200 “casi da manuale” sui danni dell’ottimismo. Addentrandosi nelle regole del management che hanno dominato per molti decenni, l’esperto ha trovato le cause scatenanti del crac del 2008. Alla radice, c’è un ordine gerarchico e una cultura del comando che “premiando l’ottimismo e scoraggiando il pessimismo hanno indebolito la capacità di pensare criticamente”.
Il Positive Thinking era diventato una dittatura del conformismo. Ha anestetizzato le sensibilità al pericolo. Ha reso semiincoscienti di fronte alla natura e dimensione degli azzardi: per esempio nel mondo della finanza. Wall Street è un laboratorio ideale per studiare i danni dell’ottimismo. Lo ammette la Bibbia di questo mondo, il Wall Street Journal di Rupert Murdoch, che sintetizza così le conclusioni dell’economista inglese: “Il leader-Prozac e la cultura acritica che impone ai suoi collaboratori intimorisce e zittisce i dissenzienti o i preoccupati. Costringe i subordinati a tenersi per sé le proprie paure pur di proteggere carriera, reputazione, stipendio, sicurezza del lavoro. I dipendenti si auto-censurano, non fanno le domande che vorrebbero fare, selezionano solo i dati più positivi, e via via si isolano pericolosamente dalle realtà sociali ed economiche”. Ricordiamo tutti il grido offeso dei banchieri di fronte al movimento Occupy Wall Street un anno fa: “Perché ce l’hanno con noi? ” Un’intera oligarchia aveva perso contatti con il mondo reale. Il cambio di atmosfera attuale è catturato perfettamente dal titolo del Wall Street Journal, per la sua recensione allo studio di Collinson: “ Pessimism is Cool”. Il riscatto del pessimismo premia anche altri studiosi, che non avevano mai rinunciato ad un approccio critico verso il Positive Thinking.
Tra questi c’è il sinoamericano Edward Chang, psicopatologo al policlinico della University of Michigan. Lui coordina uno studio che dura da decenni, all’interno di un laboratorio battezzato nientemeno che “OptimismPessimism Lab”.
Allargando la visuale ben oltre il mondo del lavoro e dell’economia, la ricerca vuole abbracciare tutte le conseguenze positive e negative dell’ottimismo e del pessimismo. Non è solo nel management che abbiamo visto imporsi la figura del leader carismatico, convinto di trascinare i suoi seguaci verso il successo vendendo sogni, visioni positive, ottimismo a iosa. Un po’ di saggezza orientale aiuta a controbilanciare questi eccessi. La rivista Management Next nel suo numero del giugno 2012 ha chiesto un contributo al guru indiano Jaggi Vasudev, che non è tenero con il Positive Thinking: “Se non vedi le cose negative nel mondo che ti circonda, vivi in un paradiso per idioti e la vita ti castigherà per questo. L’ottimismo ad ogni costo è fuga dalla realtà. Puoi ignorare l’altro che ti dà fastidio, ma l’altro non ignorerà te”.
Una corrente di sano scetticismo era sempre esistita anche tra i teorici americani del management aziendale. Uno dei più brillanti dissacratori del capitalismo Usa fu Laurence Peter, l’inventore del Principio di Peter: secondo cui all’interno di ogni organizzazione ciascuno viene promosso fino a quando raggiunge un livello di responsabilità per il quale è del tutto incompetente. Una sorta di teoria dell’assurdo, magnificamente adatta a spiegare l’abbondanza di manager “inadeguati”. Lo stesso Peter definiva un pessiÈ mista colui che prima di attraversare la strada guarda da ambo i lati. Pessimista? Oggidì per le strade di New York questa è diventata una regola di base per la sopravvivenza: da quando i ciclisti sfrecciano ad alta velocità in contromano, e le collisioni ciclistapedone sono all’ordine del giorno. Ecco, è proprio questo che interessa gli psicologi come Chang, cioè il ruolo essenziale del pessimismo nella sopravvivenza della specie. C’è evidentemente una radice atavica del Negative Thinking: i nostri antenati dovevano vivere in stato di allarme permanente, per sentire i passi felpati della belva che stava entrando nella caverna. La selezione darwiniana probabilmente sterminò gli ottimisti che dormivano di un sonno profondo e beato. Oggi l’intera specie umana non corre pericoli altrettanto gravi davanti a disoccupazione di massa, cambiamento climatico, esaurimento di risorse naturali?
La contro-obiezione più importante è quella del columnist del New York Times Thomas Friedman: “I pessimisti hanno spesso ragione e gli ottimisti hanno spesso torto, però i grandi progressi sono stati realizzati dagli ottimisti”. Esisterebbe la Silicon Valley, darebbe spazio a dei ventenni ricchi d’ingegno creativo e privi di capitali, se non ci fosse una formidabile molla positiva a infondere fiducia nel progresso? L’analisi delle biografie individuali dei grandi geni creativi dà un quadro più sfumato. Steve Jobs era un maestro nell’alternanza instabile fra ottimismo e pessimismo. Era mosso da fiducia incrollabile nelle sue visioni, certo. Ma era anche capace di una sistematica energia distruttiva, nella critica spietata delle idee sfornate dai suoi collaboratori: con punte quasi sadiche, esercitava una ricerca maniacale dell’errore e del difetto. Il pessimismo come coadiuvante del perfezionismo?
Resta un campo nel quale il Positive Thinking ha dei benefici non trascurabili: la salute. Qui continua a fare testo una ricerca di quasi vent’anni fa, guidata dal professor Robert Hahn per i Federal Centers of Disease Control and Prevention. È l’indagine sanitaria che dimostrò l’esistenza dell’effetto “nocebo”. Cioè il contrario del placebo. L’effetto nocebo è la capacità degli ipocondriaci di ammalarsi davvero, a furia di immaginarsi affetti da ogni sorta di patologia. Quello studio non arrivò a confermare che la “energia positiva” dell’ottimismo può essere terapeutica. Ma stimò a 26.000 morti l’anno, il bilancio dei danni provocati dall’auto-convincimento di essere affetti da malattie cardiache. Come tutte le medicine, gli eccitanti e gli stimolanti, anche il pessimismo va assorbito seguendo le istruzioni: con moderazione.

Repubblica 20.12.12
Questioni di saggezza: prepararsi al meglio ha molto meno senso che attendersi il peggio
Meglio disprezzare ciò che vogliamo è l’unico modo di ottenerlo davvero
di Maurizio Ferraris


Per non parlare dei Saggi di Michel de Montaigne, per il quale “filosofare è imparare a morire”: poiché la morte è il termine necessario della nostra carriera — Montaigne diceva proprio così — sarebbe follia non pensarci, e nulla lo interessava più del sapere come erano morti gli antichi, i contemporanei, i vicini di casa.
Questo non significa che i filosofi costituiscano semplicemente una sottoclasse degli iettatori. Ci sono eccellenti ragioni per il pensiero negativo, che sono altrettante ragioni contro un eccesso di “pensiero positivo”. Il primo è di buon senso. Aspettative troppo elevate generano frustrazione, senza dimenticare che tendere ossessivamente a un fine non è il modo migliore di raggiungerlo. L’atarassia (cioè l’imperturbabilità) raccomandata dagli Stoici si secolarizza nella “sprezzatura” del cortigiano di Baldassarre Castiglione: non bisogna dar troppo a vedere di tenere alle cose, il mondo si divertirà a negarcele. E soprattutto, come ricordava Baltasar Gracián (ed è un insegnamento eterno e attuale), bisogna sapere allontanarsi dalle cose prima che queste si allontanino da noi, per non essere mai un astro al tramonto.
Il secondo è atletico, direbbe Sloterdijk. Bisogna essere preparati quasi ginnicamente al peggio, e in effetti al peggio, almeno in parte, ci si può preparare: per esempio il sistema pensionistico è frutto del pensiero negativo. Verrà un giorno in cui non potremo più lavorare e non a tutti sorride l’idea di lasciarsi morire nei boschi come apprendiamo nei film sugli Indiani d’America (sebbene nel quadro di un ripensamento del welfare non è escluso che qualche riformatore avanzi la proposta). Anche gli interrogativi morali sono generalmente rivolti al peggio, e questo è dimostrato come meglio non si potrebbe dagli esperimenti mentali raccolti dal filosofo francese Ruwen Ogien in un libro appena uscito da Laterza, Del profumo dei croissants caldi e delle sue conseguenze sulla bontà umana, un titolo quanto mai ingannevole perché gli esperimenti vanno da “il bambino che annega nello stagno” a “Frankenstein ministro della sanità”, passando per “il treno assassino” e “avrei preferito non nascere”.
Prepararsi al meglio, invece, ha molto meno senso, perché se il peggio non arriva siamo felici, mentre, appunto, non sembra molto saggio porsi il problema di come saremo capaci di gestire le conseguenze di una vincita alla lotteria o di un bestseller planetario. Intanto, compriamo il biglietto e scriviamo il libro. Magari con la consapevolezza, in fin dei conti statisticamente confortante, che se le cose vanno per il meglio non è affatto detto che saremo più felici. Perché il punto cruciale a cui il pensatore positivo sembra non far caso è che tra lui e il pensatore negativo c’è una relazione asimmetrica. Il primo è persuaso che il positivo è sempre potenzialmente a portata di mano, basta volerlo. Il secondo è consapevole che se si può far qualcosa, e anzi spesso moltissimo, individualmente ma soprattutto collettivamente, contro il negativo, il positivo è sempre essenzialmente un dono, una grazia. Presumo che fosse ciò che intendeva Hölderlin in versi famosi: “Pieno di merito, ma poeticamente, abita l’uomo su questa terra”. Se poi la versione di Hölderlin apparisse troppo positiva, abbiamo un aureo detto di Henry Miller: “A dieci anni l’uomo è un animale, a venti un lunatico, a trenta un fallimento, a quaranta una frode, a cinquanta un criminale”.

Repubblica 20.12.12
Educazione selvaggia
Impariamo dai selvaggi a educare i nostri figli
Il celebre scienziato analizza i rapporti tra genitori e figli
E spiega perché il metodo migliore è quello delle società “meno avanzate”
Fate crescere i vostri bambini come i primitivi
di Jared Diamond


IN UNO dei miei soggiorni in Nuova Guinea ho incontrato un giovanotto di nome Enu la cui storia sul momento mi ha molto colpito: Enu era cresciuto in una regione dove l’allevamento dei bambini è estremamente repressivo e i piccoli sono soggetti a pesanti incarichi e gravati da sensi di colpa. Compiuti i cinque anni, Enu ne aveva abbastanza di quello stile di vita: ha lasciato i suoi genitori, la maggior parte dei suoi familiari e si è trasferito presso un’altra tribù, in un altro villaggio, dove alcuni parenti erano disposti a prendersi cura di lui. Lì Enu si è ritrovato in una società adottiva nella quale si allevavano i bambini in maniera estremamente permissiva, all’opposto di quanto accadeva nella sua società natale. I bambini piccoli erano considerati responsabili delle loro azioni e potevano perciò fare qualsiasi cosa gli venisse in mente. Per esempio, se un bambino piccolo giocava accanto al fuoco, nessuno interveniva. Di conseguenza, molti adulti in quella società presentavano segni di ustioni sul corpo, a testimoniare il comportamento nell’infanzia.
Entrambi questi stili educativi sarebbero respinti con avversione nelle società industriali occidentali di oggi. Eppure la permissività della società adottiva di Enu non è eccezionale rispetto ai parametri delle società di cacciatoriraccoglitori, molte delle quali considerano i bambini piccoli individui autonomi, i cui desideri non dovrebbero essere mai repressi, e ai quali si consente quindi di giocare con oggetti pericolosi come coltelli appuntiti, pentole bollenti e fuoco.
Mi sono ritrovato a riflettere molto sui popoli della Nuova Guinea con i quali ho lavorato negli ultimi 49 anni, come pure sui commenti degli occidentali che hanno vissuto per anni nelle società di clan di cacciatori-raccoglitori, osservando in che modo crescano i loro bambini. Insieme agli altri occidentali anche io sono molto colpito dalla sicurezza emotiva, dalla fiducia in sé, dalla curiosità e dall’autonomia dei membri delle società su piccola scala, non soltanto quando sono ormai adulti, ma già da bambini. Vediamo che i popoli di società anche piccolissime trascorrono molto più tempo a parlare tra loro di quanto facciamo noi e non ne trascorrono affatto in forme di intrattenimento passivo subito da mezzi come televisione, videogiochi e libri. In particolare siamo molto colpiti dal precoce sviluppo delle competenze sociali nei bambini. Queste sono qualità che la maggior parte di noi ammira, qualità che vorremmo vedere nei nostri stessi figli, mentre di fatto noi scoraggiamo lo sviluppo di queste qualità suddividendo i bambini per età, dando loro voti, dicendo loro continuamente che cosa debbano fare. Le crisi di identità adolescenziali che tormentano i teenager americani non esistono presso i giovani dei clan di cacciatori-raccoglitori. Gli occidentali che hanno avuto la possibilità di vivere presso di loro e in altre società su piccola scala ipotizzano che queste qualità ammirevoli si sviluppino proprio in conseguenza delle modalità con le quali si allevano i bambini: nello specifico, con incessanti rassicurazioni e stimoli, con un lungo periodo di allattamento, lasciando dormire per molti anni i piccoli accanto ai genitori, con una molteplicità di modelli sociali di allevamento dei bambini più estesa grazie all’alloparenting (“genitorialità diffusa”, in virtù della quale qualsiasi adulto della comunità si sente responsabile e assume all’occorrenza il ruolo di genitore, NdT), con molti più stimoli sociali trasmessi dal contatto fisico continuo e dalla vicinanza di chi presta loro cure, con tempestivi interventi di chi li alleva quando piangono, e meno punizioni corporali possibili.
Nelle moderne società industriali di oggi, tendiamo a seguire lo schema della lepre-antilope: la madre o qualcun altro in certi casi prende il neonato in braccio e lo tiene giusto il tempo di alimentarlo e giocare con lui, ma non lo tiene con sé di continuo. Il neonato trascorre gran parte del tempo durante il giorno in una culla o in un box e di notte dorme da solo, spesso in una stanza diversa da quella dei genitori. In ogni caso probabilmente abbiamo seguito il nostro modello ancestrale dei grandi primati per quasi tutta la lunga storia del genere umano, fino a circa un paio di millenni fa. Gli studi sugli odierni cacciatoriraccoglitori invece dimostrano che per tutta la giornata un neonato è tenuto quasi costantemente in braccio a contatto della madre o di chi se ne occupa. Quando la madre cammina, il neonato è collocato in appositi dispositivi di trasporto, come fasce e corde in Nuova Guinea, e alle quali legarli nelle zone settentrionali temperate. La maggior parte delle tribù di cacciatoriraccoglitori, specialmente nei climi temperati, presenta un contatto a pelle costante tra il neonato e chi se ne prende cura. (...) Per molti di noi la sola idea di legare un bambino a una tavola rigida fissata sulla schiena o di fasciare un neonato è orribile, o per lo meno lo è stata fino a quando in tempi recenti è ritornata in voga l’abitudine delle fasce. Il concetto di libertà personale per noi significa moltissimo e una tavola rigida o le fasce indubbiamente limitano la libertà personale di un neonato. Siamo propensi infatti a dare per scontato che una tavola rigida o le fasce ritardino lo sviluppo del bambino infliggendogli oltre tutto un duraturo danno psicologico. In realtà, tra i bambini navajo che nei primi mesi di vita sono tenuti legati a questo tipo di tavole e quelli che non lo sono stati, e tra i bambini navajo tenuti legati alle tavole rigide e i bambini angloamericani non sono state riscontrate differenze nella personalità o nelle capacità motorie, e neppure dal punto di vista dell’età alla quale si inizia a camminare autonomamente. (...) Nelle società su piccola scala gli alloparent sono davvero importanti in qualità di fornitori integrativi di nutrimento e di protezione. Da qui gli studi che in tutto il mondo concordano nel dimostrare che la presenza della “genitorialità diffusa” migliora le probabilità del bambino di sopravvivere. Ma gli alloparent ono importanti anche dal punto di vista psicologico, in quanto costituiscono modelli sociali e influenze sociali al di là dei genitori veri e propri. (...) Di quanta libertà o incoraggiamento devono godere i bambini per esplorare il loro ambiente? I bambini possono fare qualcosa di pericoloso, in previsione del fatto che devono imparare dai loro stessi errori? Oppure i genitori sono protettivi nei confronti della sicurezza dei propri figli e impediscono loro di esplorare e li allontanano qualora inizino a fare qualcosa di pericoloso?
La risposta a questi interrogativi varia da una società all’altra. In ogni caso, volendo generalizzare possiamo dire che l’autonomia dell’individuo, perfino in tenera età, è un ideale tenuto molto più in considerazione nelle tribù di cacciatori-raccoglitori rispetto alle società statali, nelle quali lo stato ritiene di avere un interesse precipuo nei bambini, e non vuole che si facciano male facendo ciò che vogliono e proibisce di conseguenza ai genitori di lasciare che un bambino si faccia male. (...) Naturalmente, non sto dicendo che dovremmo imitare in tutto e per tutto le modalità di allevamento dei bambini da parte delle società di cacciatori-raccoglitori. Non raccomando di tornare a pratiche di infanticidio selettivo tipiche di quelle società, con alti rischi di mortalità alla nascita, né di lasciar giocare i bambini più piccoli con coltelli o correre il rischio concreto di lasciare che si ustionino. Anche altre caratteristiche dell’infanzia presso i cacciatori-raccoglitori – quali il permissivismo del gioco a sfondo sessuale – ci risultano imbarazzanti, anche se sarebbe difficile dimostrare che siano veramente dannosi per i bambini. Tuttavia altre modalità sono ormai adottate da cittadini di società statali, ma ad alcuni di noi risultano anch’esse imbarazzanti, per esempio lasciar dormire i bambini piccoli nello stesso letto dei genitori, allattarli fino all’età di tre o quattro anni, evitare ogni punizione corporale.
Eppure alcune modalità di allevamento dei bambini delle società di cacciatori-raccoglitori potrebbero essere adatte alle nostre moderne società statali. Per noi è del tutto fattibile portare in giro i bambini in posizione verticale e rivolti verso la direzione in cui si procede invece che in posizione orizzontale all’interno di una carrozzina, o anche in posizione verticale ma rivolti verso la direzione opposta a quella in cui si procede all’interno di un marsupio. Potremmo anche rispondere tempestivamente e coerentemente al pianto di un bambino, come pure praticare in modo più allargato la genitorialità diffusa e cercare di creare un maggiore contatto fisico tra i neonati e coloro che gli prestano cure e assistenza. Potremmo incoraggiare i bambini a inventare da soli i giochi da fare invece che scoraggiarli di continuo e fornire loro incessantemente i cosiddetti complicati giochi educativi. Potremmo organizzare gruppi di gioco con bambini di varie età, invece di gruppi di gioco di coetanei, e infine potremmo esaltare al massimo la libertà di un bambino di esplorare, purché sia sicuro farlo.
Ma le nostre impressioni di maggiore sicurezza, autonomia e competenze sociali adulte nelle società su piccola scala potrebbero per l’appunto essere soltanto impressioni: sono difficili da quantificare e dimostrare. Anche qualora tali impressioni corrispondano alla realtà, è difficile stabilire se siano il risultato diretto di un lungo periodo di allattamento, della genitorialità diffusa e così via. Come minimo, tuttavia, possiamo affermare che le pratiche di allevamento della prole da parte dei cacciatoriraccoglitori che ci paiono così estranee non sono poi disastrose, e non producono popolazioni di sociopatici evidenti. Anzi, esse creano individui capaci di affrontare le grandi sfide e i grandi pericoli pur continuando a godere della vita. Lo stile di vita dei cacciatori-raccoglitori ha funzionato più o meno in modo tollerabile per quasi centomila anni di storia del genere umano. Tutti nel mondo sono stati cacciatoriraccoglitori fino a quando circa undicimila anni fa non si scoprì l’agricoltura, e nessuno ha vissuto sotto un governo statale fino a 5.400 anni fa. Converrà pertanto tenere nella giusta considerazione le lezioni che possiamo apprendere da tutti questi esperimenti di allevamento della prole durati per un periodo così lungo.
Da The World Until Yesterday by . Reprinted by arrangement with Viking, a member of Penguin Group (USA), Inc. Copyright 2012 by Jared Diamond. © 2012, Newsweek (Traduzione di Anna Bissanti)

Repubblica 20.12.12
La terapia creativa di Elvio Facchinelli
“Su Freud”, una raccolta di scritti dell’analista italiano
di Massimo Recalcati


Elvio Fachinelli è stato probabilmente, insieme a Franco Fornari, ma diversissimo per stile e vocazione teorica, lo psicoanalista italiano più originale e creativo degli anni Settanta-Ottanta. La sua opera non ha mai assunto quello spirito di sistema che ha invece caratterizzato il pensiero di Fornari e anche per questo ne costituisce, seppure nel solco comune della tradizione freudiana, una alternativa radicale.
Se Fornari diede luogo alla psicoanalisi come macchina interpretativa (teoria coinemica), Fachinelli non ha mai smesso di ricordare la centralità dell’imprevisto e della sorpresa nell’esperienza singolare dell’analisi. Se il primo si muoveva attraverso l’uso programmatico di codici simbolici immutabili, il secondo sospingeva la teoria della psicoanalisi al limite dell’indicibile, al confine con l’esperienza estatica rivendicandone il carattere anarchico e avverso ad ogni sistematizzazione che pretendeva di proporsi come definitiva.
Se il primo insisteva sul carattere trasmissibile della psicoanalisi, sulla possibilità di farne una disciplina universitaria, il secondo metteva in guardia sulla dimensione didattica della psicoanalisi che ai suoi occhi appariva come una truffa, una mistificazione intellettuale dell’autentica esperienza dell’inconscio come incontro con il non ancora visto, né saputo. Se il primo è stato un produttore infaticabile di scritti teorici sulla psicoanalisi ordinati in un sistema concettuale rigoroso, il secondo ha sempre scritto nella forma del frammento, dell’intervento breve, privilegiando la parola orale a quella scritta a partire dalla convinzione che lo spirito della psicoanalisi abbia a che fare con il dialogo vivente più che con il carattere immobile della scrittura.
Per tutte queste ragione, e per altre ancora, Jacques Lacan lo considerava il suo allievo prediletto in Italia, sebbene Fachinelli avesse sempre declinato garbatamente l’investitura ufficiale decidendo di non lasciare mai la sua società di appartenenza (la Società psicoanalitica italiana).
Ho incontrato di persona Elvio Fachinelli una sola volta nella mia vita. L’occasione fu quella di un convegno di psicoanalisi svoltosi verso la fine di novembre del 1988 alla Casa della Cultura di Milano. Intervenne tra gli ultimi e mi colpì come la sua parola si differenziasse nettamente da quella pesantemente erudita e scolastica di altri relatori.
Ora questo breve intervento è disponibile in una piccola raccolta di suoi scritti rari proposta da Adelphi col titolo Su Freud.
La mole anoressica di questo libretto conferma il carattere nomadico e anti-sistematico dell’opera di Fachinelli. Il lettore troverà la tesi che ha ispirato tutto il suo lavoro di ana-lista: non si dà esperienza dell’analisi se non attraverso un effetto imprevisto con qualcosa che scompagina l’ordine costituito dei nostri pensieri. Questo significa che un’analisi non è una semplice acquisizione di sapere già dato attraverso la sua accumulazione progressiva. Il sapere analitico si incontra e si produce solo a partire da una sorpresa, da una sospensione del sapere dell’Io, da un suo vacillamento.
E’ questo il contributo decisivo di Freud che in queste pagine Fachinelli ci ricorda puntualmente: la psicoanalisi come nuova pratica della cura non si applica ad un pazientepassivo, ma esige un movimento attivo di ricerca da parte dei soggetti (l’analista e il paziente) che vi sono impegnati. Fu questo il contributo più profondo di Freud: porsi lui stesso, nella sua carne e nelle sue ossa, come malato di inconscio. Egli, ci ricorda Fachinelli, diverrà, con una lucidità che potrà apparire persino “disumana”, “paziente di se stesso” (“Il malato che più mi preoccupa sono io stesso”). E’ su questa base freudiana che egli propone di differenziare una “psicoanalisi della risposta” (quale è, per esempio, quella della teoria coinemica di Franco Fornari) da una “psicoanalisi della domanda” che anziché applicare un codice interpretativo alle parole del paziente dovrebbe essere in grado di sapersi rinnovare ogni volta proprio grazie a quelle parole.
Questo è il grande contributo di Freud: il sapere della psicoanalisi non si trova nelle biblioteche, non è sapere scritto, catalogato, codificato, ma è sapere sempre in movimento, vivente nella dimensione orale della parola di cui si nutre la pratica della psicoanalisi. Per questa ragione, sempre secondo Fachinelli, l’autentico spirito freudiano non va rintracciato nei paradigmi positivistici che riducono la malattia mentale ad una malattia del cervello, ma nell’aver dato valore al potere trasformativo della parola, nell’aver dato forma ad una “conversazione conoscitiva” la cui tradizione si inaugura con la “nobile sofistica” di Protagora e Socrate.
“Su Freud” di Elvio Fachinelli Adelphi pagg. 115 euro 12

La Stampa 20.12.12
A Milano scoppia la febbre di Amore e Psiche
La coppia Canova Gérard anche nelle scuole e a teatro
di Sara Ricotta Voza


Ragazzi, oggi si va a una mostra». E di solito quelli alzano gli occhi al cielo. Per evitare questa scenetta fin troppo nota a genitori, professori e a chiunque abbia a che fare con adolescenti e adulti spiaggiati davanti al televisore, gli organizzatori di «Amore e Psiche a Milano» si sono posti il problema di come avvicinare all’arte suscitando interesse anziché imbarazzo. Per raggiungere l’obiettivo Eni Scuola sviluppa da tempo proposte didattiche innovative che proprio in questa mostra hanno trovato le applicazioni più avanzate nel segno dell’edutainment e della didattica digitale.
Per i bambini di prima e seconda primaria si è allestito lo spettacolo teatrale Amore e Psiche fra Pennello e Scalpello che già nel titolo rivela l’intento di spiegare rapporti e differenze tra pittura e scultura. Il tutto senza tralasciare la narrazione del mito, storia affascinante raccontata attraverso le rappresentazioni che ne hanno fatto negli anni diversi artisti. Lo spettacolo è stato affidato all’associazione Segni d’infanzia.
Per il secondo ciclo della scuola primaria, dalla terza alla quinta, si è pensato invece alla modalità dei laboratori di pittura e scultura, scelti anche per i ragazzi delle medie con focus sul tema delle emozioni e dei sentimenti e sulle modalità di rappresentarli. Anche in questo caso le attività sono curate da un’associazione specializzata (Senza Titolo). Le scuole coinvolte sono una sessantina, scelte in collaborazione con il Comune di Milano nelle realtà di periferia, con particolare riguardo a quelle che meno usufruiscono delle attività proposte durante l’anno.
Un ulteriore strumento didattico digitale pensato per i bambini delle elementari è un e-book interattivo creato dall’editore Giunti e fruibile da computer, tablet e smartphone scaricandolo gratuitamente dal sito di Eniscuola. La storia di Amore e Psiche qui è raccontata attraverso animazioni con cui interagire (il bambino tocca Cupido e... scocca la freccia)
Per le scuole superiori l’approccio scelto è quello della didattica digitale, con due strumenti in particolare: un e-book per iPad e il «learning object»; il primo è stato realizzato dall’istituto Majorana di Brindisi, scuola «2.0 » che ha curato video, gallery e quiz di verifica sulle opere ma anche su temi correlati.
Quanto al learning object, si tratta di una lezione multimediale accattivante tenuta direttamente dai ragazzi del liceo classico Manara di Roma, che è il caso di dirlo ci hanno messo la faccia. Dal pc individuale o dalla lavagna elettronica raccontano e alcuni più propriamente interpretano il mito di Amore e Psiche, e le vite degli autori delle opere in mostra. La lezione termina con quiz di verifica... tutt’altro che semplici da passare. E chi approfitterà dei prossimi giorni di festa per visitare la mostra troverà guide specializzate proprio per queste giovani fasce d’età.

Corriere 20.12.12
Settis: la ricerca priorità europea
di Pierluigi Panza


«Mentre in Italia si tagliano costantemente i fondi per la ricerca, la Commissione europea rilancia con forza, come fanno Stati Uniti, Germania e Francia».
Il professor Salvatore Settis (nella foto), unico italiano e unico docente di discipline umanistiche tra i sette membri del comitato che dovrà scegliere il prossimo presidente del Consiglio europeo della ricerca, sottolinea il peso strategico che la Ue intende dare alla ricerca per uscire dalla crisi finanziaria. «Il VII programma quadro per la ricerca, ora concluso, aveva stanziato 7,5 miliardi di euro per ricercatori dei Paesi dell'Unione oltre a quelli di Svizzera, Norvegia, Turchia e Israele e di chi intende trasferirsi per svolgere studi nei Paesi membri. L'VIII, che partirà nel 2014 — sottolinea Settis — ne stanzierà addirittura 13,5».
Per accedervi si dovrà partecipare al programma «Ideas» attuato attraverso il Consiglio europeo della ricerca (Cer) finalizzato ad aumentere la competitività dell'Europa contribuendo ad attirare e trattenere gli scienziati e studiosi di maggior talento, contribuendo all'assunzione di rischi e di ricerca ad alto impatto. Si potranno ottenere sino a 3 milioni di finanziamento per i giovani ricercatori a 15 milioni per gruppi di ricerca.
Il VII programma ha finanziato per una quota pari al 15% anche ricerche in campo umanistico. Una quota significativa se si considera che le ricerche in campo medico e scientifico sono solitamente molto più costose.
Il comitato che sovrintende al Consiglio europeo della ricerca, composto da 22 membri, è in via di rinnovamento e, con esso, sarà rinnovato anche il presidente, che era la sociologa austriaca Helga Nowotny. A sceglierlo sarà un comitato di 7 membri (uno dei quali è Settis) presieduto da Lord Sainsbury di Turville, cancelliere dell'Università di Cambridge. «Il Cer — ha dichiarato Sainsbury — è un organismo sulla buona strada per raggiungere le migliori organizzazioni di finanziamento della ricerca nel mondo. Gode di un ampio riconoscimento per i suoi principi operativi di indipendenza ed eccellenza scientifica».
Il presidente del Cer sarà scelto tra i ricercatori più esperti e riconosciuti a livello internazionale. Il presidente risiederà a Bruxelles per tutta la durata dell'incarico e avrà un mandato di quattro anni, rinnovabile una volta.

La Stampa 20.12.12
Da Voltaire al Novecento gli intellettuali davanti al potere
di Lorenzo Mondo


Come deve comportarsi lo scrittore nei confronti della vita politica e di chi detiene le leve del potere? Come atteggiarsi davanti a quello che, con parola piuttosto obsoleta, si definisce «impegno»? Le diverse opzioni, e il loro accidentato percorso negli ultimi tre secoli, in cui prende forma la modernità, sono oggetto di un appassionante saggio di Lionello Sozzi: Cultura e potere, che reca come sottotitolo L’impegno dei letterati da Voltaire a Sartre al dibattito novecentesco (Guida, pp. 174, € 13). Sozzi è un eminente francesista ma, pur avvantaggiandosi dei decisivi contributi offerti al dibattito in terra di Francia, conferisce alla sua indagine un largo profilo europeo, dedicando all’Italia una speciale attenzione).
Voltaire dunque, che nelle sue battaglie per la libertà e contro l’oscurantismo viene a patti con il potere assoluto, illudendosi (e non è il solo tra i philosophes) di correggerlo con i «lumi» della ragione. La sua lunga frequentazione di Federico II si chiuderà con un amaro e mordace disincanto, quando capirà di essersi ridotto a correttore dei versi che il sovrano gli sottoponeva con «frenetico ritmo». Antitetica, e in modo radicale, la posizione di Alfieri che proclama la saldatura insopprimibile tra cultura e libertà, condannando non soltanto le compromissioni con il mecenatismo ma ogni collaborazione con il «principe».
Sono atteggiamenti che prendono timbro e coloritura in tempi di conclamata tirannide ma trovano proiezione anche nel futuro. Ad esempio, sembra a Sozzi che la posizione di Alfieri anticipi il «disimpegno» professato da Julien Benda nella Trahison des clercs: «In qualsiasi clima politico, sotto qualsiasi forma di potere, il compito del clerc, termine medievale che Benda preferisce a intellectuel (...) deve indurlo a porsi, in un certo senso, fuori del tempo, fuori della storia, ad operare in qualità di “custode dei valori”, valori universali ed eterni». Ma quando questi vengono violati, non sarà giusto prendere partito, schierarsi con chi li difende opponendosi a ogni sorta di prevaricazione? Come non consentire al rovente J’accuse scagliato da Zola, ai tempi dell’affare Dreyfus, contro militarismo e razzismo?
È il dilemma che turba gli scrittori di buona coscienza, che induce un Hugo a dividersi tra il poeta che tiene i piedi per terra e quello che rivolge gli occhi al cielo dell’ideale. Anche se, e qui il discorso si complica, occorrerà confrontare il comportamento dell’uomo e dello scrittore, il riflesso del suo impegno civile nell’opera creativa. (In fondo, non occorreva essere uno scrittore, sia pure così autorevole, per riconoscere l’innocenza di Dreyfus). Resta poi, connaturato all’impegno, il rischio di battersi per un contropotere che si rivelerà altrettanto tirannico e funesto. Significativa la parabola di un Sartre, che nega ogni autonomia alla produzione letteraria, trasformando lo scrittore in portavoce della classe operaia: fino ad accusare Baudelaire e Flaubert di bieca connivenza con la borghesia, fino ad assolvere l’Unione Sovietica e la civiltà dei Gulag. Quanto luminosa, al confronto, la posizione di un Benda (non a caso apprezzata, con tutti i suoi limiti, da Norberto Bobbio).
Ma esiste un altro disimpegno, diverso da quello che si affida alla sorveglianza e alla critica dell’esistente. Immune dalle passioni politiche e dalle infatuazioni storicistiche, Proust esalta una letteratura che sia rivelazione, scoperta dell’«essenza permanente e abitualmente nascosta delle cose», che garantisca il recupero, come dirà Pavese, del mito e dei valori ancestrali. Sostiene Sozzi che l’intellettuale può muoversi, con pari dignità, sul piano «orizzontale, cioè quello della verità oggettiva dei fatti e del loro significato» e sul piano della «verticalità, della verità da indagare en profondeur negli spazi dell’io, ove un’esile fiamma va pur sempre difesa. (...) Forse è questo il modo migliore di conciliare impegno e disimpegno». Si chiude così la sua lucida e intrigante disamina. Ovviamente, per quanto riguarda l’opera creativa, l’importanza delle rispettive intuizioni e scoperte va misurata, al di là dei pur generosi impulsi, nella decantazione della scrittura.